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Logiche di mercato hanno portato a un prezzo troppo basso del cibo che minaccia l’agricoltura e
la Terra, già compromesse dai cambiamenti climatici. Ecco come rimediare.
Senza terra non c’è agricoltura e senza agricoltura non esiste cibo. E proprio in questo momento
storico, però, con la Terra minacciata dai cambiamenti climatici e l’agricoltura schiacciata da
logiche di prezzo al ribasso, rischiamo di non avere più da mangiare. È proprio a partire dal cibo
o, meglio, dalla spesa, che dobbiamo operare una rivoluzione. Ne hanno discusso insieme Stefano
Liberti, autore del libro “Terra bruciata. come la crisi ambientale sta cambiando l’Italia e la nostra
vita”, Fabio Brescacin, presidente di NaturaSì, ed Enzo di Rosa, fondatore dell’iniziativa “Chi è
il padrone?! La marca del consumatore”, durante l’ appuntamento dal titolo “E se la salvezza del
Pianeta iniziasse dal supermercato?” organizzato da Fa’ la cosa giusta, la fiera del consumo critico
e degli stili di vita sostenibili, che quest’anno propone un programma di eventi online dal 20 al 29
novembre.
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Dobbiamo ripensare a quali colture fare e a come si devono fare, a come utilizzare infrastrutture e
risorse: devono pensarlo gli agricoltori, le istituzioni, ma anche i fornitori, la grande distribuzione
organizzata. Servono alleanze di filiera per una distribuzione equa del valore a tutte le componenti.
E anche i consumatori devono essere coinvolti perché con le loro scelte sono determinanti”.
In Italia, il primo prodotto dell’organizzazione è stata la Pasta del consumatore, lanciata nel
giugno 2020. “Rispondendo a semplici domande sul nostro sito, oltre tremila consumatori hanno
stabilito come doveva essere la pasta dei loro desideri e stabilito il giusto prezzo”.
Landini conferma: “Non abbiamo più idea del valore reale dei prodotti perché questi sono venduti
sottocosto anche quando non sono in offerta. Ben vengano iniziative come quella di “Chi è il
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padrone?”, ma servono anche normative per rendere più trasparente la filiera così che i
consumatori possano fare scelte consapevoli, leggi, come quella attualmente in approvazione, che
vieta le aste al doppio ribasso o, ancora, accordi, come quello concluso in questi giorni tra le catene
della gdo e i grandi gruppi industriali dei fornitori, per impegnarsi in maggiore equilibrio filiera.”
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Frutta prodotta in serie, tutta uguale, dalle forme standardizzate, sugli scaffali dei supermercati. La
calibratura di ciò che mangiamo è questione oramai dirimente per il settore agroalimentare
europeo. Taglia, dimensione e colore. Le corsie degli store che scintillano con cassette dalle arance
turgide e dalle pere sinuose e il comparto agricolo in ginocchio a causa dei cambiamenti climatici.
Che, tra le altre cose, rappresentano un ostacolo ulteriore – visto che di per sé la natura è già
imperfetta – per i produttori, costretti ad assecondare i rigidi capitolati dei distributori, pur di stare
sul mercato.
A scandagliare le contraddizioni che emergono dal bisogno spasmodico di rendere tutto ciò che è
coltivato esteticamente perfetto, è l’ultimo rapporto dell’associazione ambientalista Terra!,
“Siamo alla frutta. Perché un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura”. Gli
autori: Fabio Ciconte, direttore dell’associazione, e Stefano Liberti, giornalista e documentarista.
Lo scopo? analizzare l’impatto sull’agricoltura della commercializzazione dei prodotti selezionati
geneticamente, coltivati, raccolti, passati al vaglio delle macchine calibratrici. E il rapporto lo fa
soffermandosi su quattro frutti simbolo della crisi che sta vivendo il settore in Italia: le pere, le
arance, i kiwi e le mele. Attraverso un’analisi comparativa di queste filiere, “Siamo alla frutta”
evidenzia le principali problematiche e indica alcune proposte politiche a tutti gli attori coinvolti.
Nelle oltre 50 pagine di dossier, Terra! è categorica: La Grande distribuzione organizzata (Gdo),
l’Unione europea e la miopia delle istituzioni nazionali influenzano le nostre abitudini alimentari
attraverso scelte di mercato e rigide norme. Codici e interessi che trasformano l’ortofrutta in un
feticcio da vendere e consumare (con gli occhi). Perché a varcare la soglia dei nostri frigoriferi è
soltanto una grigia bellezza. E qui lo spreco di tonnellate di cibo. “Una parte significativa
dell’enorme produzione mondiale non può accedere al mercato del fresco, perché ogni frutto deve
rispondere a standard di commercializzazione e a severe norme europee, che non tengono conto
dei tempi e della variabilità della natura e, soprattutto, degli effetti della crisi climatica sul
comparto”, dice Fabio Ciconte. Nel mondo, secondo i dati forniti dalla Fao, il 33 per cento
dell’intera produzione alimentare non viene consumata.
Ambiente e profitti. In Italia, il segno meno è una costante sulle superficie coltivabili,
mangiucchiate dagli stravolgimenti climatici e dall’ingordigia del sistema. Nonostante, nel 2020,
il valore della produzione ortofrutticola sia stato pari a 11,4 miliardi di euro, il 23,2 per cento del
totale della ricchezza generata dall’intero settore primario. Negli ultimi 15 anni, in Emilia
Romagna, il polo europeo delle pere, su 28mila ettari complessivi di terreni a disposizione del
frutto, circa 6mila ettari sono sfumati. In Sicilia, fino a vent’anni fa, le arance si accaparravano
107mila ettari: oggi rosicchiano 82mila ettari di coltivazioni. E il Kiwi, la cui produzione a livello
nazionale ha registrato dal 2014 al 2019 un calo di quasi 100mila tonnellate, a causa di una malattia
che sembra propagarsi, secondo alcuni studi, proprio per l’aumento delle temperature.
Le mele, invece, reggono l’urto delle oscillazioni stagionali e annuali e la galassia produttiva è in
grado di stabilire un rapporto più equo con l’universo della distribuzione. Il Trentino-Alto Adige
vanta il 50 per cento dei 53mila ettari tricolore dedicati al frutto, e il 68 per cento della produzione
nazionale. “La peculiarità che caratterizza la produzione di mele è, senza dubbio, la capacità
aggregativa, che garantisce ai produttori di stabilire il prezzo insieme alla grande distribuzione, in
un negoziato paritario. La massima espressione di questo aspetto si trova nel consorzio Melinda”,
racconta Ciconte. Un potere, nato dall’aggregazione e dalla cooperazione, che sfida le logiche di
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mercato e il terremoto climatico. Eccezione in un Paese che, tra il 1980 e il 2017, ha subito 65
miliardi di euro di danni per l’impatto degli eventi estremi e gli sbalzi di temperatura.
Un’agricoltura stanca e fortemente in difficoltà. “Come siamo arrivati a questo punto? E come
uscire da una spirale che vede migliaia di agricoltori ogni anno finire sul lastrico per il combinato
disposto di effetti climatici, politiche della grande distribuzione e un quadro normativo
irrazionale?”, sono alcune delle domande che l’associazione Terra! pone all’opinione pubblica.
Stando alle analisi del Rapporto, è il Regolamento Ue 543/2011, poi modificato dal 428/2019, ad
operare una prima discriminazione della frutta e della verdura, sfornando parametri stringenti per
10 prodotti ortofrutticoli. Oltre ad agire per tutelare la salute dei consumatori, prescrivendo alcune
regole basilari (cibo sano, pulito, intero e privo di parassiti), la norma continentale interviene sulla
colorazione della buccia, sul diametro e sull’omogeneità dell’imballaggio. Nel 2009, le istituzioni
europee si erano così intestardite con il mondo agroalimentare, che mettevano bocca, addirittura,
sulla curvatura massima di cetrioli e carote.
Oggi, elaborano elenchi e classifiche, stilati attraverso le categorie merceologiche: “Extra” e “I”
sono le sigle per le primizie nelle vetrine dei supermercati. “II” è la seconda scelta. E, come
ribadiscono da Terra!, “non è affatto sinonimo di qualità inferiore”. Eppure, tale dicitura bolla la
frutta e la verdura che non troverà mai posto nei saloni di bellezza della Gdo. Cibo riversato nei
mercati più poveri, ad esempio quelli dell’est Europa, o nelle centrifughe dell’industria dei succhi
di frutta. “Le scelte di mercato della Gdo determinano il futuro di migliaia di lavoratori e di un
intero settore. Il rischio è che gli agricoltori, per vendere a prezzi stracciati i prodotti imperfetti,
decidano di lasciarli sul terreno o, nella peggiore delle ipotesi, decidano di chiudere le aziende. La
seconda scelta quindi sempre più spesso diventa scarto”, denuncia Ciconte. In sintesi: sono sempre
gli anelli più bassi della catena, agricoltori e braccianti, a sobbarcarsi i costi di una filiera iniqua.
Terra! non ci sta e rivendica un’azione di sistema a 360 gradi. In Europa è in corso la revisione
delle norme sulla commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli, “un’opportunità per mettere fine
all’eccesso di regolamentazione che impedisce margini di manovra ai produttori”, martoriati dagli
smottamenti climatici. L’associazione punta il dito verso le istituzioni italiane, ree di non
incentivare la vendita e l’acquisto di una quota maggiore di prodotti fuori calibro. E verso la
Grande distribuzione organizzata, l’anello più forte delle maglie agroalimentari. “Questa
ossessione per la perfezione è incompatibile con le trasformazioni dell’agricoltura alle prese con
il cambiamento climatico. Per questo – dichiara Ciconte – chiediamo un intervento della politica
a tutela del reddito degli agricoltori e un impegno della grande distribuzione ad acquistare anche
la frutta fuori calibro”.