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Componenti del gruppo:

Alice Nuccilli 1986487


Elisa Severini 2024750
Elisa Massarelli 2025703
Luigi Borello 2006390

Titolo:
DUE NEMICI: il fast fashion e la sostenibilità

Sinossi:
Una prerogativa essenziale per garantire la stabilità di un ecosistema, in ambito ambientale è la sostenibilità.
Per sostenibilità ambientale si intende la capacità di coniugare la produzione di beni e servizi con la tutela
dell'ambiente. Il tutto senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri
bisogni.
Essa è uno dei goal dell'Agenda 2030, un programma d'azione per le persone, il pianeta e la prosperità,
sottoscritta nel 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall'Assemblea
Generale dell'ONU. Nonostante lo slogan sia 'nessuno sia lasciato indietro', Antonio
Guterres -segretario generale dell'ONU- ritiene che ciò che rischia di restare indietro è proprio l'agenda che,
a seguito di pandemia, guerra in Ucraina, inflazione, crisi energetica, ecc, hanno annullato molti degli
avanzamenti riscontrati.

Un nemico della sostenibilità ambientale è il fast fashion (o "moda svelta"), un settore dell'abbigliamento che
realizza abiti di bassa qualità a prezzi super ridotti e che lancia nuove collezioni continuamente e in tempi
brevissimi.
Termine coniato negli anni '90, il fenomeno del fast fashion è uno dei più dibattuti nella moda a livello
mondiale: l'agenzia di stampa ANSA ne parla in riferimento all'Europa, in quanto nemica delle nuove norme
europee.
L'industria della moda è tra le più inquinanti al mondo: si stima che ogni anno vengano prodotti tra gli 80 e i
100 miliardi di nuovi capi, circa 14 per ogni persona sulla terra, i quali, per la maggior parte, sono destinati a
cicli di vita breve. E cosi, nell'Unione Europea, vengono generati 5,2 milioni di tonnellate di rifiuti in
abbigliamento e calzature all'anno.

Un tentativo di combattere questo spreco insostenibile è la tendenza a riciclare abiti usati. Nata non solo
dalla necessità di risparmiare, ma soprattutto dal desiderio di dare il proprio contributo in un'ottica di
sostenibilità.
Di successo mondiale, arrivata anche in Italia, è l'app "Vinted" dedicata alla vendita di vestiti di seconda
mano: con lo slogan "se non usi, vendilo", si compra e si vende tutto ciò che non si utilizza più per fare
spazio negli armadi, dando cosi una seconda vita ai proprio oggetti, e utilizzando imballaggi o scatole che
prima contenevano qualcos'altro.
Così la moda sostenibile cresce, riscontrando e auspicando sempre di più un maggior successo per
un'economia circolare e la lotta collettiva contro lo spreco e l'inquinamento.

Keypoint:
o Impatto ambientale: incompatibilità tra ambiente e fast fashion;
o La battaglia dell'Unione Europea contro il fast fashion;
o Sfruttamento dei bambini e donne;
o Quando la moda diventa tossica.

Pensiamo di dividere il lavoro in questo modo:


Luigi Borello → Incompatibilità tra ambiente e fast fashion
Alice Nuccilli → Sfruttamento dei bambini e donne
Elisa Massarelli - Come il fast fashion distrugge il pianeta. Le sue conseguenze: tessuti dannosi, prezzi
bassi, inquinamento ed emissioni di anidride carbonica.
Elisa Severini → La battaglia dell'Unione Europea contro il fast fashion
TITOLO LUIGI

Introduzione

Attacco alla 2030

Cambiarsi d’abito più volte al giorno, seguire le mode e modi di vestire, imitare le passerelle, cercare il proprio
stile ed adattarlo agli stati d’animo: il fast fashion è la risposta a tutto.
Peccato che, oltre al bello, ci sia anche tanto altro. E il più delle volte non si tratta di sorprese piacevoli.
L’altra faccia della medaglia luccicante, fatta di abiti e scarpe da indossare una volta e via, parla infatti
di sfruttamento della manodopera a basso costo, lavoro minorile, discriminazioni, consumo energetico e delle
risorse naturali e inquinamento1.

Dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile numerosi sono quelli che vengono direttamente coinvolti da questa
industria2.

Vediamo nello specifico a quali ci riferiamo:

Obiettivo 1 & Obiettivo 8 ( sconfiggere la povertà – lavoro dignitoso e crescita economica )

Con la delocalizzazione delle industrie inaugurata dall’accordo


nordamericano per il libero scambio 3 (Nafta), i grandi marchi di moda
hanno iniziato a commissionare la realizzazione delle loro creazioni
in paesi dove le paghe e le condizioni di lavoro sono più che
modeste, le rappresentanze sindacali inesistenti e sono assenti
norme a tutela dell’ambiente.

Secondo “IndustriAll global union”4 più del 90% dei lavoratori


dell’industria della moda non ha la possibilità di negoziare il proprio salario e le proprie condizioni di lavoro.
Secondo indagini portate avanti da Clean clothes campaign, in Turchia i lavoratori guadagnerebbero tra i
310 e i 390 euro al mese, circa un terzo del salario stimato come dignitoso.

Emerge che la stragrande maggioranza degli operai tessili non riesca a guadagnare un salario dignitoso,
che è ciò che permette al lavoratore, in una settimana di non più di 48 ore lavorative, di:
• Provvedere ai pasti per sé stesso e la sua famiglia;
• Pagare l’affitto;
• Pagare le spese mediche, i vestiti, i trasporti, l’istruzione;
• Mettere da parte una somma destinata alle spese impreviste.

Obiettivo 5 ( parità di genere )

L’80% dei lavoratori del tessile sono donne fra i 18 ed i 24 anni.


La maggior parte di loro vengono sottoposte a ripetuti abusi fisici e verbali,
lavorano in condizioni non sicure senza alcuna assistenza sanitaria e con
salari bassissimi.

1 https://luce.lanazione.it/lifestyle/fast-fashion-impatto-ambientale/

2https://asvis.it/approfondimenti/22-5207/lindustria-della-moda-ed-il-difficile-raggiungimento-degli-obiettivi-di-
sviluppo-sostenibile

3https://it.m.wikipedia.org/wiki/Accordo_nordamericano_per_il_libero_scambio

4 https://en.m.wikipedia.org/wiki/IndustriALL_Global_Union
Obiettivo 6 & Obiettivo 14 ( acqua pulita – vita sott’acqua )

L’acqua è un elemento necessario per l’industria della moda, in


quanto tutte le sue fasi necessitano del suo utilizzo, dalla
piantagione del cotone ai trattamenti dei materiali fino ai vari
lavaggi degli indumenti a casa.
Solo per la realizzazione di una t-shirt servono 700 litri d’acqua.

Un altro enorme danno ecologico collegato alle risorse idriche


riguarda lo smaltimento di tutte le sostanze tossiche con cui
vengono trattati i capi di abbigliamento: molte fabbriche si liberano
delle acque inquinate nelle risorse idriche naturali avvelenando fiumi, mari e acque sotterranee. La
pericolosità di questi scarichi ha effetti negativi sull’uomo, sugli animali e sull’ambiente circostante.

Obiettivo 12 ( consumo e produzione responsabili )

Oggi compriamo più di 80 miliardi di capi di abbigliamento all'anno, il 400% di più


che venti anni fa’.
Compriamo sempre di più per indossare sempre di meno: ciò ha fatto nascere il
sistema del “fast fashion”, rendendo i nostri abiti un prodotto “usa e getta”.

Se la produzione annuale di abiti dovesse continuare a crescere alle attuali velocità, si arriveranno a
produrre 160 miliardi di tonnellate di abiti per il 2050.
Più di tre volte dell’attuale volume di produzione.
Per produrre queste quantità verranno utilizzati 300 milioni di tonnellate di materiali non rinnovabili.

Dove troveremo tutte queste risorse?


Obiettivo 15 ( vita sulla terra )

L’industria della moda è direttamente collegata allo sfruttamento della terra e al


processo di perdita della biodiversità attraverso lo sfruttamento del suolo.
Dai campi di cotone ai campi di allevamento di bestiame per la realizzazione del
pellame.

Per cambiare questi dati è necessario un triplo intervento congiunto da parte dei
consumatori, dei Governanti e dei grandi marchi di moda.

1. I grandi marchi di moda devono assumersi le responsabilità di quello che producono e del loro
smaltimento.
2. I consumatori devono capire che non è possibile sostenere con i propri acquisti aziende che
producono beni a discapito dell’ambiente e dei lavoratori, devono rallentare il loro ritmo di acquisto.
Comprare solo quello che serve veramente, comprare abiti di seconda mano e comprare abiti da chi
rispetta l’ambiente ed i lavoratori.
3. I nostri Governi, infine, devono entrare in azione per mettere fine all’era della moda usa e getta.
Devono incentivare le aziende a progettare linee sostenibili, garantire servizi di rammendo, devono
garantirci che i vestiti che compriamo siano stati realizzati da persone pagate il giusto, che lavorano
in condizioni di sicurezza e senza distruggere il pianeta.
Come? I politici redigono le norme che regolano l’economia. Se non ci sono norme che responsabilizzino le
aziende per i rifiuti che producono, che non rendano più facile il riuso/riciclo e rammendo, che impongano di
rendere trasparenti e facilmente accessibili le informazioni della filiera di produzione di un abito, nessuno lo
farà da solo!
Refashion e slow fashion: nuove tendenze sostenibili nell’armadio
Appare evidente, quindi, che dietro lo sbandierato intento “democratico” del fast fashion si nasconde una
realtà dannosa per il pianeta e per le persone.
Alla crescita di questo fenomeno, però, da alcuni anni fa da contraltare l’intensificarsi di un movimento critico
che va sotto l’etichetta di Slow Fashion. Il richiamo chiaro è allo Slow Movement, che professa la diffusione
di modelli di consumo sostenibili, in quanto rispettosi del pianeta così come dei diritti delle persone e degli
animali.
Nell’ambito della moda, il movimento Slow Fashion promuove le aziende che si sforzano a produrre
abbattendo i costi sociali e ambientali dell’industria tessile. Dal lato del consumatore, questo significa
scegliere di acquistare meno capi, che costano di più ma sono di qualità migliore 5.

https://www.nyc.gov/assets/donate/site/NewsEvents/news/topics/65
Una costola ancora più radicale e creativa di questo approccio è rappresentata dalla moda del re-fashion,
che propone capi di vestiario realizzati con stoffe di riciclo. Abiti di seconda mano utilizzati per crearne di
nuovi, spesso completamente diversi. Il filone interessa anche per i grandi marchi: già da alcuni anni, a New
York la tradizionale settimana della moda, appuntamento glamour dalla risonanza internazionale, è seguita
da una sempre più apprezzata Refashion Week.

La nuova strategia dell’UE comprende nuovi requisiti di progettazione ecocompatibile per i tessuti,
informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e l'invito per le aziende ad assumersi la
responsabilità e ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di Co2 e ambientale.
Il 1° giugno, i membri del Parlamento Europeo hanno presentato proposte per misure più rigide dell'UE al
fine di fermare la produzione e il consumo eccessivi di tessili. Il rapporto del Parlamento chiede che i tessili
siano prodotti nel rispetto dei diritti umani, sociali e del
lavoro, nonché dell'ambiente e del benessere degli
animali 6.
Secondo la direttiva sui rifiuti approvata dal Parlamento
europeo nel 2018 i paesi dell'UE sono obbligati a
provvedere alla raccolta differenziata dei tessili entro il
2025.
L’UE dispone di un marchio Ecolabel UE a disposizione
dei produttori che rispettano i criteri ecologici,
garantendo un uso limitato di sostanze nocive e un
minore inquinamento idrico e atmosferico 7.

5 https://lavialibera.it/it-schede-902-fast_fashion

6 https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20201208STO93327/l-impatto-della-produzione-e-dei-
rifiuti-tessili-sull-ambiente-infografica

7 https://www.ansa.it/europa/notizie/sviluppo_sostenibile_digitale/2023/10/13/letichetta-ecolabel-eu-in-crescita-
licenze-9-in-sei-mesi_b46790dc-ad1b-4c10-ae0c-d6f3c695f76e.html
Lo sfruttamento dei bambini e delle donne nell'agghiacciante mondo del fast
fashion
Quando parliamo del mondo del fast fashion il primo nome che spicca sulla lista è, inevitabilmente, quello di
“Shein”, il marchio di fast fashion più lucrativo del mondo, divenuto tale in meno di due anni.

Il successo di Shein è dovuto da un algoritmo efficientissimo, una perfetta conoscenza delle dinamiche
social e prezzi bassissimi: sa cosa l'utente desidera e glielo propone tramite un uso sapiente dei mezzi di
comunicazione contemporanei e un mix di marketing aggressivo.

Osservando l'inchiesta “Untold: Inside the Shein Machine 8” la circostanza che più ha colpito e lasciato di
stucco riguarda la produzione del colosso cinese, basata sull'iper-sfruttamento della manodopera. L'inchiesta
mostra video e audio registrati di nascosto da un collega infiltratosi all'interno delle fabbriche di Shein:
impiegati che lavorano 17-18 ore al giorno, con un solo giorno di riposo al mese 9.

Si evince che ai lavoratori e alle lavoratrici sono richieste la produzione di 500 capi al giorno e che le
operaie, spesso per mancanza di tempo, decidono di lavare i capelli durante la pausa pranzo.

Testimonianze dal documentario “Fashion victims”

Costrette a turni estenuanti, anche di venti ore al


giorno, private della libertà di movimento e di
comunicare col mondo esterno, pagate non con
uno stipendio mensile, ma con una modesta
somma di denaro per le esigenze quotidiane: sono
le giovani donne del Tamil Nadu, nell'India
meridionale, che lavorano nell'industria tessile
locale, che produce filati per le catene di fast
fashion10.

Le loro storie sono raccontate nel


documentario 'Fashion victims' firmato da Chiara
Cattaneo e Alessandro Brasile 11.

Ascoltando le ragazze che hanno lavorato nelle fabbriche e le organizzazioni che offrono loro supporto,
Chiara e Alessandro si sono resi conto che "essendo un segmento inesplorato è come se ci fosse mano
libera per uno sfruttamento che, anche se non a livello giuridico, rasenta condizioni di schiavitù".

“Era come stare in prigione, dalla fabbrica non ci si licenzia, si scappa" ha raccontato una delle ragazze
intervistate12. Le giovani e giovanissime che lavorano nella fabbriche spesso provengono da zone povere e
rurali, dove non ci sono fonti di reddito alternative né per loro né per le loro famiglie, anche a causa del
persistente declino dell'agricoltura. È in questi villaggi che i "broker", agendo da intermediari tra le aziende
alla ricerca di una manodopera numerosa e docile e una popolazione locale sempre più disperata, ogni anno

8 https://www.channel4.com/programmes/inside-the-shein-machine-untold

9https://www.repubblica.it/moda-e-
beauty/2022/10/24/news/shein_moda_low_cost_inchiesta_channel4_sfruttamento_lavoratori_fabbrica_cina-
371040825/

10 https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/societa_diritti/2019/03/24/fashion-victims-le-operaie-
schiave_9b0737cd-ad49-4b39-8986-f953188d2e07.html & FOTO
11 https://nuvola.corriere.it/2019/05/03/chi-sono-le-vere-fashion-victims/

12 https://www.fashionvictimsthemovie.com/
reclutano migliaia di giovanissime. Le ragazze vengono portate nelle aziende, dove oltre a lavorare, sono
costrette anche a vivere, negli ostelli annessi alle fabbriche - anche se spesso né loro né le loro famiglie e
persino alcuni broker sono a conoscenza di questo.

Vengono assunte attraverso schemi di reclutamento e sfruttamento come lo “Sumangali scheme13”, per il
quale devono lavorare da tre a cinque anni e, solo al termine del periodo stabilito, dovrebbero ricevere il
pagamento cumulativo di quanto guadagnato. Cifre che vanno dai cinquecento agli ottocento euro e che
sognano di usare come dote per il proprio matrimonio. "E non sempre succede: in uno dei miei viaggi -
racconta Brasile - ho incontrato una ragazza che mi ha detto che dopo 4 anni la fabbrica non le ha pagato
nulla, dicendole che il suo lavoro era illegale, ma che se voleva la avrebbero assunta

Un problema anche minorile..

Il lavoro minorile è una vera e propria piaga mondiale che deve essere combattuta con forza. Il fast fashion è
una delle principali cause di questa piaga sociale. I dati emessi dalle Nazioni Unite parlano chiaro e
purtroppo non promettono niente di buono: sono 152 milioni i bambini che lavorano 14.

Si tratta di bimbi che non vanno a scuola, non ricevono nessun tipo di istruzione e, ancor più, subiscono il
fenomeno tristemente conosciuto come “sweatshop 15”: una parola che non ha una singola e specifica
traduzione ma che può essere descritta come la condizione in cui si vive in alcuni luoghi di lavoro e dove i
lavoratori subiscono ogni tipo di violenza arbitraria (incluse violenze fisiche e verbali).

Un rapporto del Center for Research on


Multinational Corporations (SOMO) e
dell’India Committee of the Netherlands
(ICN) ha rivelato che, in India, i
reclutatori, convincono i genitori poveri
a mandare le loro figlie in filatura,
promettendo un lavoro ben retribuito,
un alloggio, tre pasti al giorno e
opportunità di formazione, oltre ad una
indennità forfettaria alla fine dei tre anni
di lavoro16.

Il rapporto sul campo mostra che in


realtà questi bambini stanno lavorando
in condizioni spaventose, equivalenti
alla schiavitù e alle peggiori forme di
lavoro minorile. In modo particolare, questi poveri bimbi, vengono sfruttati nella produzione di sneaker,
perché le loro piccole mani sono adatte a tenere la tomaia della scarpa ferma, intingere la decorazione in
colle altamente inquinanti e applicarle sulla tomaia stessa.

13 https://www.laudesfoundation.org/learning/lesson-notes/sumangali-scheme-textile-industry-india

14 https://www.vestilanatura.it/lavoro-minorile-nella-moda/

15 https://en.wikipedia.org/wiki/Sweatshop

16 https://www.somo.nl/maid-in-india/
Ricordiamo in ambito dello sfruttamento minorile, la giornata mondiale contro il Lavoro Minorile che si
celebra il 12 giugno di ogni anno, mette in risalto la necessità di lottare contro lo sfruttamento dei minori che
avviene in tutte le latitudini del nostro globo. Una piaga che, nonostante alcuni successi, sarà molto difficile
debellare se non si mobilita tutta la comunità internazionale17.

Conseguenze notevoli!

Questo tipo di sfruttamento è mentalmente e fisicamente


pericoloso per il bambino e lo priva della possibilità di
studiare e di poter aspirare a un futuro diverso e migliore. Nel
mondo sono 160 milioni i bambini, tra i 5 e i 17 anni,
costretti a lavorare18.

Per questo motivo è importante agire dove il fenomeno è più


diffuso, per sensibilizzare, aiutare le famiglie e permettere a
questi bambini un’infanzia felice.

Le conseguenze più gravi del mondo minorile sono:


• Problemi fisici e psicologici dovuti ai lavori
usuranti;
• Violenze e abusi fisici e psicologici;
• Abbandono scolastico e mancanza di istruzione;
• Isolamento sociale.

A riguardo possiamo citare “ActionAid”, cioè un’organizzazione internazionale indipendente che lavora in
Italia dal 1989, con programmi di sostegno a distanza e progetti a supporto dei bambini, delle donne e delle
famiglie delle comunità in cui lavora 19.

Essa supporta:

• Legalmente e psicologicamente i bambini che sono


stati costretti a lavorare fin da piccoli;
• Promuove campagne di sensibilizzazione riguardo ai
diritti dei bambini;
• Informa, all’interno delle scuole, i bambini sui loro
diritti e sulle leggi esistenti proprio per tutelarli;
• Supporta economicamente anche le famiglie
bisognose in modo che non siano costrette a far
lavorare i figli per mantenersi.

17 https://timeforafrica.it/contro-il-lavoro-minorile/ & FOTO

18 https://adozioneadistanza.actionaid.it/cosa-facciamo/lavoro-minorile.html

19 https://www.actionaid.it/ & FOTO


Come il fast fashion distrugge il pianeta. Le sue conseguenze: tessuti dannosi,
prezzi bassi, inquinamento ed emissioni di anidride carbonica.

La crescita esponenziale registrata negli ultimi anni dal mercato della "moda usa e getta" porta con sé
numerosi impatti ambientali, con disastrose conseguenze per il pianeta e la sua salute.

La domanda è cresciuta, alimentata da un’offerta sempre più ampia. E viceversa.


La fast fashion utilizza modelli di produzione e distribuzione che hanno abbreviato drasticamente i cicli
stagionali della moda: dalle due classiche collezioni "primavera/estate" e "autunno/inverno", siamo passati a
50 "micro-collezioni" all'anno, praticamente uno a settimana20.

Elevata è la frequenza con cui i grandi


brand della fast fashion - H&M, Primark,
Zara, ecc- rimodellano le loro proposte.
Ciò si traduce in uno sforzo creativo che
consta di 100 miliardi di prodotti
commercializzati in 12 mesi (una media
di 14 capi a persona), il 60% in più
rispetto a 15 anni fa21.

Tutti questi vestiti che fine fanno?


Riempiono gli armadi e le discariche. In
3 casi su 5, passano dal guardaroba alla
spazzatura dopo solo un anno, solo il
15% viene donato.

https://www.wri.org/insights/numbers-economic-social-and-environmental-impacts-fast-fashion

Le tendenze in rapida evoluzione e i prezzi bassi hanno permesso


alle persone di consumare di più.
Il consumatore medio, nel 2014, ha acquistando il 60% in più di
capi di abbigliamento rispetto al 2000, ma ogni capo è stato
mantenuto per la metà del tempo22.
Sono finiti i giorni in cui la gente comprava una camicia e la
indossava per anni.
In un mondo di crescente domanda di abbigliamento, i
consumatori vogliono - e possono sempre più permettersi - nuovi
vestiti dopo aver indossato i capi solo poche volte.

L’aumento della produzione mira a rendere disponibile nel corso dell’anno una buona varietà di taglie e
modelli per far fronte alla richiesta.
Questa rapida evoluzione dei mercati, l’abbassamento dei prezzi e il veloce mutamento delle tendenze della
moda hanno portato il consumatore ad acquistare molti più capi di abbigliamento rispetto al passato. Negli
ultimi venti anni, l'acquisto di indumenti è quintuplicato e il loro utilizzo medio si è dimezzato, con un
conseguente incremento dei rifiuti tessili.
Così, a fine stagione, restano sugli scaffali grandi quantità di invenduto che vanno smaltite con ingente
danno ambientale e spreco di risorse. Si stima che ogni anno ben l’85% dei tessili prodotti finisca in
discarica.

20 https://freebook.edizioniambiente.it/articolo/24/La_fast_fashion_distrugge_il_pianeta

21 https://lavialibera.it/it-schede-902-fast_fashion

22 https://www.wri.org/insights/apparel-industrys-environmental-impact-6-graphics
Quando i dati parlano…
23

Lo studio "Time out for


fast fashion", una nuova
ricerca sulle tendenze
della moda e sui rifiuti
tessili, realizzata in
Germania da Greenpeace
nel 2016 in occasione del
Black Friday, ha
evidenziato come l'impatto
ambientale della moda
usa e getta derivi "da vari
fattori, quali le sostanze
chimiche usate
dall’industria tessile che
inquinano fiumi e oceani e
le elevate quantità di
pesticidi impiegati nelle
piantagioni di cotone, che
contaminano le terre
agricole o le sottraggono
alla produzione di
alimenti"24.

La produzione di
abbigliamento è
raddoppiata dal 2000 al
2014, con vendite in
aumento da 1 trilione di
dollari nel 2002 a 1,8
trilioni di dollari entro il
2015 e una previsione di
2,1 trilioni entro il 202525.

“It is hard to resist the allure of a good bargain, but fast fashion means we’re consuming and trashing fashion
at a higher rate than our planet can handle,” said Kirsten Brodde, head of Greenpeace’s Detox my Fashion
campaign.

La coltivazione di cotone, infatti, richiede l'utilizzo del 24% degli insetticidi e l'16% dei pesticidi totali impiegati
in agricoltura.
Per non parlare dell’acqua che richiede il ciclo di vita di un capo in cotone dalla pianta al negozio. Secondo il
Water Footprint report, infatti, il cotone è, tra le fibre tessili, quella che consuma più acqua dolce: occorrono
circa 20mila litri per produrne un chilo e 2.700 litri - l'equivalente di quello che una persona beve in due anni
e mezzo - per realizzare una semplice maglietta 26. Nell'Asia centrale, il lago d'Aral è quasi scomparso per
l'uso massiccio di acqua utilizzato dagli agricoltori di cotone.

23https://wayback.archive-it.org/9650/20200401053856/http://p3-
raw.greenpeace.org/international/Global/international/briefings/toxics/2016/Fact-Sheet-Timeout-for-fast-fashion.pdf

24 https://www.alternativasostenibile.it/articolo/ambiente-quanto-ci-costa-la-moda-basso-costo

25https://www.greenpeace.org/international/press-release/7566/black-friday-greenpeace-calls-timeout-for-fast-
fashion/

26 https://www.unitelmasapienza.it/sustain/fast-fashion/
Ma uno dei costi maggiori per il pianeta viene dall’uso crescente di fibre sintetiche: nel 2016 circa 21,3
milioni di tonnellate di poliestere sono state utilizzate dall'industria dell'abbigliamento, con un incremento del
157% rispetto al 2000.
Il poliestere "emette quasi tre volte
più CO2 nel suo ciclo di vita
rispetto al cotone e può impiegare
decenni a degradarsi".
Il poliestere è, infatti, un materiale
plastico derivante dal petrolio e il
lavaggio di indumenti che lo
contengono rilascia microfibre in
plastica nel sistema idrico.
Il settore tessile contribuisce
anche al riscaldamento globale.
Ad esempio, una camicia di
poliestere ha un'impronta di
carbonio doppia rispetto a una
camicia di cotone.
La produzione di poliestere per i tessuti ha generato circa 706 miliardi di kg di gas serra nel 2015,
l'equivalente della quantità di emissioni annua prodotta da 185 di centrali elettriche a carbone 27.

É un problema anche umano


Le case di moda, per poter consentire la vendita di capi di abbigliamento a pochi euro, hanno ideato un
modello produttivo capace di abbattere i costi, applicando senza scrupolo politiche di decurtazione dei salari
e riduzione dei diritti dei lavoratori e della sicurezza dei lavoratori: è così che la filiera tessile è diventata
quella a maggior rischio di schiavismo. Ad esserne maggiormente coinvolti sono soprattutto i Paesi del sud
est asiatico, come Bangladesh, Sri Lanka e Cambogia.
Questi lavoratori non solo guadagnano pochissimo, ma lavorano fino alle 14 ore al giorno. Inoltre sono
esposti a numerose sostanze tossiche derivanti dai materiali scarsi e poco costosi utilizzati dalla maggior
parte dei marchi low cost che, oltre ad essere nocivi, sono causa di irritazioni cutanee.
Ecco che i pericoli della moda a basso prezzo si scontano sulla propria pelle e si chiamano dermatiti:
coloranti e altri agenti chimici, inquinanti, tecniche di lavorazione improvvisate o che non rispondono alle
severe regole europee possono innescare reazioni allergiche a carico della pelle.

In particolare due tipi di coloranti, tinte conosciute con il nome


di “Disperso Rosso” e “Disperso Blu”, sono i principali
responsabili delle dermatiti da contatto dovute agli indumenti,
anche note come textile allergy.
A contatto con la pelle, specie se sudata, questi coloranti
vengono rilasciati dai tessuti e vanno a depositarsi sulla pelle.
D’estate e nelle aree del corpo dove la sudorazione è più
intensa come ascelle, inguine e la zona subito sotto il seno, si
possono avere infiammazioni cutanee e vere
proprie dermatiti irritative28.

Generalmente il primo sintomo è il prurito – spiegano i


professionisti – accompagnato o seguito da bruciore. Subito dopo la pelle diventa rossa e si può ricoprire
delle piccole vesciche tipiche della dermatite. Neanche ripetuti lavaggi in lavatrice o il ricorso alla tintoria
riesce a eliminare del problema, continua l’esperto, perché questi indumenti continuano a rilasciare il colore
ogni volta che si indossano29.

27https://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/inquinamento/2015/12/05/greenpeace-ecco-quanto-inquina-il-
carbone-europeo_7c6c426c-40f8-4384-a649-7f590067b6b8.html

28 https://www.humanitasalute.it/in-salute/benessere-casa-e-lavoro/66140-fashion-low-cost-attenzione-ai-rischi-per-
la-pelle/

29 https://algonatural.it/dermatiti-da-contatto-attenzione-ai-coloranti-presenti-nei-tessuti/
Cambiamo il futuro
Le azioni da intraprendere per cambiare questa situazione sono molte, a partire da nuove strategie mirate ad
una riduzione della produzione e incentrate sull’intelligenza artificiale e su modelli predittivi delle richieste.
Una riduzione della produzione senza creare carenze di stock, giungendo ad una produzione più
consapevole e attenta, potrebbe far diminuire l’impatto ambientale.
Qualche consiglio di marchio etico per fare acquisti sostenibili:
• Vinted e Depop: applicazioni che permettono di vendere e
comprare vestiti usati online. Si possono trovare sia abiti
vintage e sia vestiti del proprio negozio preferito in cerca di
un nuovo proprietario.
• Mercatini dell’usato: ci sono numerosi negozi dell’usato in
Italia per scegliere abiti di seconda mano ancora di
gradimento e in buono stato.
• Marche sostenibili: negozi come Reformation, con vestiti
creati eticamente che costano di più ma che dureranno tutta
la vita.

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