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Le democrazie antiche a confronto

Dossier pubblicato in "I viaggi di Erodoto" n. 31, gennaio-aprile 1997


A cura di Arnaldo Marcone
ATENE
Il lessico della politica ateniese
1. Domenico Musti, La democrazia periclea nel pubblico e nel privato
2. Arnaldo Marcone, La democrazia ateniese: «una follia riconosciuta?»
Documenti e testi:
Tucidide, La democrazia è una pazzia riconosciuta
Anonimo Ateniese, La democrazia è il governo della canaglia
Aristofane, I giudici sono al servizio dei demagoghi
B. Constant, Ad Atene l’individuo era asservito alla società
Cicerone, Superiorità della costituzione romana rispetto a quella ateniese
W. Mitford, La schiavitù fu fatale per la democrazia ateniese
Platone, In un regime democratico, la libertà diventa anarchia
A. Boeckh, La cittadinanza oziosa è alla base della democrazia ateniese
M. Finley, Sono auspicabili oggi nuove forme di partecipazione popolare?
G. Sartori, La democrazia ha prodotto solo un animale politico
Fustel de Coulange, Nella democrazia greca la corruzione era inevitabile
E. Laboulaye, La libertà ateniese si identifica con il governo dello stato
3. Arnaldo Marcone, La democrazia ateniese
Documenti:
Aristotele, La democrazia radicale periclea
Aristotele, Ci sono varie forme di democrazia
Tucidide, L’elogio della democrazia ateniese
Aristotele, Nella democrazia il criterio del numero prevale su quello del giusto
4. Arnaldo Marcone, Gli organismi della democrazia ateniese
ROMA
Il lessico della politica romana
1. Emilio Gabba, Istituzioni politiche e condizioni della democrazia
2. Arnaldo Marcone, Si può parlare di una democrazia romana?
3. Arnaldo Marcone, La vita politica romana
GRECI E ROMANI
Christian Meier, La differenza tra cives e politai nel contesto di ulteriori
peculiarità

INTRODUZIONE

«You are the boss», «Il capo siete voi». Questa non è la frase di un uomo politico
antico. Essa è stata pronunciata al termine del discorso conclusivo della campagna
elettorale per le elezioni presidenziali tenuto da Bill Clinton a Little Rock, capitale
dello stato americano dell'Arkansas, il 3 novembre 1996.
È certamente una frase a effetto, ma essa contiene una verità di fondo che merita
attenzione. Non mentiva Clinton nel pronunciarla. Era compiaciuto e lusingato il
pubblico che lo ascoltava, ma non si sentiva ingannato. Un presidente democratico
riconosceva semplicemente, nella forma più esplicita e diretta, la fonte ultima del suo
potere. L'organizzazione di uno stato vasto e complesso come gli Stati Uniti esclude
la possibilità che ogni singolo cittadino eserciti direttamente l'azione politica. Ma
consente a un ragazzo orfano, nato in uno degli stati più poveri del paese, di diventare
il presidente della nazione più potente del mondo e che i cittadini, o almeno una
buona parte di loro, si sentano rappresentati da lui. Anche perché nulla vieta che
possano diventare come lui.

La democrazia ha radici antiche. È un'invenzione greca avvenuta in un'età ben


determinata, tra il VI e il V secolo a.C., in una città, Atene. Non si può dire che, nelle
forme in cui si realizzò, abbia goduto di buona fama. In generale agli antichi premeva
limitare il potere del popolo, della massa, esattamente il contrario di quello che era
successo ad Atene dove il popolo era "sovrano". Roma considerava con diffidenza la
democrazia ateniese. Anche in età repubblicana la partecipazione popolare fu sempre
sottoposta a precisi vincoli e i magistrati rappresentanti del popolo, i tribuni della
plebe, furono spesso considerati né più né meno come dei sediziosi.
La domanda, che ci si pone spesso, se ci sia un rapporto, al di là dell'identità
terminologica, tra la democrazia moderna e quella antica è stata formulata, con piena
legittimità, varie volte in tempi recenti. Non ci possono essere risposte definitive a
una questione così delicata.
Semplificando, ha in genere un'opinione fortemente critica della democrazia
contemporanea chi si chiede: «Chi comanda?», ovvero «chi decide davvero, chi
prende le decisioni che contano?»

Posta in questi termini la risposta non può che essere: «un'oligarchia», ovvero gruppi
ristretti di persone che detengono, per nascita, nomina o meriti particolari, un potere,
per lo più economico, in grado di condizionare quello politico.
Esiste una formulazione compiuta e assai sofisticata dal punto di vista teorico secondo
la quale il governo di uno stato è retto solo da élite, ovvero da oligarchie. Non è un
caso che la "legge ferrea dell'oligarchia" sia stata formulata proprio da un pensatore
politico italiano, Roberto Michels, alla vigilia dello scoppio della Prima guerra
mondiale. Una società complessa come quella odierna ha certamente poco in comune
con quella antica.

Anche tra i sistemi politici ateniese e romano le differenze sono molto forti, come
emerge in tutta evidenza dal saggio di Christian Meier che li pone a confronto, così
come da quelli specificamente dedicati ad Atene e a Roma di Domenico Musti e di
Emilio Gabba. Eppure, la questione della democrazia può essere riconsiderata in
un'ottica differente se al problema del «chi comanda» subentra quello delle modalità
di partecipazione popolare alla vita politica e delle possibilità di controllo del popolo
sul momento decisionale. Forse la nostra democrazia parlamentare non è la migliore
forma di democrazia. Ma non è detto che la democrazia diretta sia in assoluto la
migliore. Essa, nei rari casi in cui è oggi in vigore (in minuscoli cantoni della
Svizzera), risulta aver prodotto delle conseguenze negative, come il rallentamento
dello sviluppo economico e della stessa dinamica democratica, per esempio
frapponendo ostacoli alla concessione del diritto di voto alle donne.

Forse ha ragione O. Duhamel a intitolare Les démocraties (Seuil, 1993), una ricerca
specifica dedicata alla pluralità delle situazioni istituzionali dei tanti paesi che oggi si
possono definire democratici.
In fondo è la stessa conclusione (se ce n'è una) che si può trarre da questo dossier. Le
differenze tra la democrazia greca e quella romana appaiono così forti da giustificare
anche per loro l'uso del plurale.
Il problema si sposta allora sulle grandi regole dell'attribuzione del potere che
determinano il sistema politico. La democrazia ateniese esercita il fascino di un
modello che opera in condizioni pressoché ideali. Ed a essa ci si riferisce sempre,
come a ragione sottolinea Musti, ogni qualvolta in una contingenza storica balzano in
primo piano le esigenze dell'individuo. Ma altrettanto innegabile è la compattezza
civica della cittadinanza romana.
Il saggio di Gabba torna a mostrarlo in modo convincente. C'è da chiedersi, in
proposito, quanto le suggestioni dell'esperienza contemporanea, per quanto vitali ed
essenziali per il progresso della ricerca storica, abbiano davvero maturato una
comprensione della vita politica del mondo antico più esatta di quella degli stessi
greci e romani. Il problema posto dalla rottura della coesione interna a Roma,
avvenuta dopo la distruzione di Cartagine, e dalle tensioni che emersero tra le
strutture politiche della città-stato e le dimensioni dell'impero, era ben presente già
alla storiografia romana.
La questione dell'esistenza o meno di una vera democrazia a Roma, che pure è giusto
riproporre, come abbiamo fatto anche noi, è, a ben guardare, una questione che
abbiamo mutuato dai greci. Il cittadino romano si sentiva tale grazie alla
consapevolezza che aveva di essere sottratto agli abusi dei magistrati.
Il modello della democrazia ateniese è assai seducente visto dall'interno. Lo è molto
meno visto dall'esterno, se lo si considera nella prospettiva degli esclusi. In fondo, per
avere la misura del problema, conviene rifarsi ad Aristotele. Ad un certo punto, nella
Politica (VII, 4) si chiede come si possa considerare un vero stato quello che sia
troppo numeroso: «Uno stato composto di troppi non sarà un vero stato per il
semplice motivo che non può avere una vera costituzione. Chi può essere il generale
di una massa tanto smisurata? E chi può esserne l'araldo se non Stentore?»

La democrazia ateniese è esclusiva. È la sua forza, ma è anche il suo limite. La sua


condizione è la piena partecipazione del cittadino, ma tale partecipazione è un
privilegio che non deve essere esteso.
I romani, come ci ricorda Christian Meier, hanno sfruttato il diritto di cittadinanza,
come strumento flessibile di egemonia. Ma ci hanno anche lasciato un'eredità
importante che costituisce forse la sfida principale per il nostro immediato futuro.
Come integrare gli esterni alla nostra civiltà? La stabilità del nostro modo di vita
dipende in larga misura dalla risposta che si darà a questa domanda. Giovanni Sartori
è tornato, in un libro recente (Democrazia. Cosa è, Rizzoli, 1994), sulla questione
classica (si pensi, tra gli altri, a B. Constant e a Fustel de Coulanges) della differenza
tra il nostro modo di concepire la democrazia e quello dei greci. Sartori ha
un'opinione giustamente positiva delle nostre democrazie, della loro stabilità, della
loro capacità di durare.
Il fatto che l'uomo non coincida con il cittadino di uno stato è, a suo avviso, un bene,
perché è una tutela contro le capacità distruttive del potere popolare.

Certamente nessuno oggi pensa che la democrazia consista semplicemente in quello


che vuole il popolo sovrano. L'etimologia non deve ingannare. Il problema non
consiste nella "sovranità popolare". La democrazia, oggi, come esercizio diretto del
potere è solo una possibilità. La capacità effettiva di esercitare un controllo può valere
come alternativa alla partecipazione diretta alla vita politica. C'è un valore che appare
di forte attualità, la "trasparenza", che ne implica un altro: quello del dovere di una
carica pubblica di rispondere fino in fondo (senza omissis, se così si può dire) del
proprio operato. La trasparenza come formula riassuntiva di un ideale politico nella
storia recente ha una vicenda particolare: si è imposta quasi come traduzione dal
russo. La glasnost era un requisito indispensabile, secondo Gorbaciov, per guadagnare
consenso al «nuovo corso» da lui tentato per salvare lo stato sovietico in disfacimento.
Certo, ricorrendo a tale slogan, non pensava a Tucidide per il quale il fascino di
Pericle consisteva appunto nell'essere «trasparentemente incorruttibilissimo». Il
cittadino del "villaggio globale", nel quale oggi viviamo, ha tante possibilità di
verificare questa trasparenza senza recarsi tutti giorni in assemblea. Solo che forse
non sa che anche questa sua esigenza non è nuova: anch'essa è un'eredità dei greci.

Il lessico della politica ateniese


Agorà: il centro della vita politica ed economica ateniese, situata a nord dell'acropoli.

Arconti: i nove più importanti magistrati dello stato ateniese.

Areopago (consiglio dell'areopago): l'areopago era situato a sud dell'agorà, tra


l'acropoli e la pnice. Qui si riuniva il consiglio degli ex arconti: dopo le riforme di
Efialte del 462 a.C. le sue competenze furono ristrette ai soli casi di omicidio.

Boulé (consiglio dei cinquecento): con boulé si designa di solito il consiglio dei
cinquecento. Il consiglio consisteva di cinquecento cittadini scelti per sorteggio
all'interno delle dieci tribù dell'Attica. Il consiglio si riuniva ogni giorno lavorativo e
preparava le delibere che dovevano essere votate dall'assemblea.

Bouleutérion: il luogo di riunione della boulé, nel lato ovest dell'agorà.

Dèmos: il popolo; può significare: 1. l'intera collettività degli ateniesi; 2. la gente


comune (i poveri); 3. l'assemblea popolare (l'ekklesía); 4. governo popolare
(democrazia); 5. uno dei demi (139?) creati da Clìstene alla fine del VI secolo.

Dikastérion: il tribunale popolare dove si svolgevano i processi.

Ekklesía: l'assemblea popolare, dove tutti i cittadini maschi adulti avevano diritto di
parlare e di votare. Si riuniva quaranta volte l'anno di solito sulla pnice: vi prendevano
parte almeno seimila cittadini.

Eliéa: sinonimo di dikastérion (è il termine con il quale Solone, all'inizio del VI


secolo a.C., designava il tribunale popolare).

Fratrìa: sorta di sodalizio i cui membri, tutti cittadini ateniesi, si consideravano


imparentati, almeno alla lontana.

Genos: gruppo di persone che rivendicavano un antenato comune. È un gruppo più


ristretto della fratrìa.
Graphé: accusa pubblica che poteva essere avanzata da qualunque cittadino ateniese.

Isonomía: principio dell'uguaglianza politica che designa l'uguale diritto di tutti i


cittadini di esercitare i loro diritti politici.

Metèco: straniero libero che viveva e operava in Attica.

Nómos: legge con valore permanente (contrapposta a pséphisma, decreto emanato in


circostanze particolari di validità temporanea).

Nomoteti: commissione legislativa i cui membri erano scelti per sorteggio e che
rimanevano in carica un solo giorno.

Oligarchia: governo dei pochi in cui i diritti dei cittadini comuni sono limitati rispetto
a quelli dei ricchi.

Ostracismo: procedura di espulsione di un leader politico tramite voto su appositi


cocci di argilla (óstraka), secondo la procedura introdotta da Clistene alla fine del V
secolo a.C.

Pàtriòs politéia: “costituzione degli antenati” designante l'età aurea di Atene. Sorta di
slogan politico usato dalle parti in lotta nella vita politica ateniese che a essa si
appellavano.

Pritanìa: il comitato esecutivo della boulé e dell'ekklesia, composto da cinquanta


consiglieri che preparava i lavori del consiglio e dell'assemblea popolare. Era una
carica a rotazione: ciascuna pritanìa operava per la decima parte di un anno.

Pséfisma: decreto emanato dall'ekklesìa.

Stratego: generale; gli strateghi erano in numero di dieci e sempre rieleggibili.

Tribù: suddivisione dell'Attica e dell'insieme dei cittadini ateniesi. Con le riforme di


Clistene l'Attica fu suddivisa in dieci tribù.
Domenico Musti     
La democrazia periclea nel pubblico e nel privato

Nel II libro delle Storie, nel corso dell'orazione funebre per i caduti ateniesi del primo
anno della guerra del Peloponneso (capitoli 36 e ss.), Tucidide mette sulle labbra di
Pericle una definizione di demokratía di grande portata storica sotto l'aspetto delle
istituzioni e regole politiche, sotto quello socio-economico e socio-logico, sotto il
profilo delle forme mentali. Prima fra tutte le regole, quella per cui la maggioranza
governa; che è poi, secondo un illustre teorico della politica, ancora ai nostri giorni la
migliore definizione della democrazia: un sistema di regole di cui la principale è
quella per cui la maggioranza prevale e governa(1). «Il regime politico in cui viviamo
– dice Pericle in uno stile, alla Tucidide, un po' contorto, ma di una tortuosità che è
ricchezza di idee e scrupolo analitico e definitorio, non certo caotico groviglio
concettuale – si chiama democrazia, per il fatto che ci governiamo basandoci sui più,
non sui pochi; però è subito da dire che tutti, secondo le leggi, partecipano di uguali
diritti, in relazione alle differenze (o anche: divergenze) private (pròs tà ídia
diàphora); e, tenendosi conto della valutazione che ognuno riceve in qualche ambito,
non viene designato a funzioni pubbliche (es tà koinà) per la sua ricchezza più che per
i suoi meriti (areté); d'altra parte, se povero, l'oscurità del suo rango non gli impedisce
di fare qualcosa di buono per la città, se è in grado di farlo.» In un testo in cui, alla
complessità della situazione, corrisponde la complessità espressiva, Tucidide ha dato
il succo della posizione di Pericle.
L'esame linguistico chiarisce bene i diversi piani di lettura e il loro intreccio.
Considerando sia la klimax, cioè il «crescendo» espressivo – dai pochi (di cui si nega
la preminenza), ai molti, o meglio ai più, che governano, ai tutti, che vengono tutelati
dalla legge nei loro diritti e che in questo senso sono uguali –, sia il valore
primariamente quantitativo della parola dêmos – inclusa in demokratía –, ci
accorgiamo che una nozione quantitativa è appunto l'asse portante della definizione.
Ma, notato ciò, avvertiamo anche subito che la categoria, o meglio coppia di
categorie, di privato e di pubblico, diventa davvero il centro di gravità di tutta la
complessa ed equilibrata costruzione periclea; a essa infatti si collega, come robusta
appendice, la distinzione economica tra ricchi e poveri, e la ulteriormente conseguente
valutazione dell'immagine e del ruolo sociale della persona, cioè tutto quel che è
riportabile alla sfera dell'ídion. La nozione totalizzante di dêmos (popolo) ne risulta
immediatamente articolata sotto il profilo quantitativo (molti-pochi-tutti),
socioeconomico (poveri-ricchi) e, naturalmente, sociologico (aspetti del pubblico e
del privato). È il campo dell'ídion, del privato, si distingue da (ma deve coordinarsi
con) quello del koinón (o, più specificamente e statualmente, demósion), cioè il
pubblico, il comunitario. Ora, nell'età di Pericle, la democrazia ha ormai superato la
fase squisitamente libertaria, di preminente contrapposizione alla tirannide, e si
arrischia già sul più difficile terreno dell'uguaglianza, cioè su quello delle questioni
sociali.
In relazione al contenuto del passo, una prima considerazione da fare dal punto di
vista del profilo storico della parola demokratía è che qui essa non viene qualificata,
neppure in piccola parte, come l'opposto della tirannide. Come mi è capitato di
sottolineare del resto in più occasioni, la storia della parola demokratía si muove –
pendolarmente, si direbbe – tra un contesto semantico binario e uno ternario. Nel
primo demokratía equivale a regime non tirannico, non monarchico, equivale dunque
a regime repubblicano, libertario; ma poi (e questo dà luogo a un contesto ternario)
nella storia delle cose, come delle parole, il campo della libertà, della non-tirannide, si
articola in due possibilità, quella democratica filopopolare e quella aristocratica o
oligarchica, e lo spazio politico risulta ormai distinto in tre possibilità. A distinguere
tra le due possibili articolazioni del regime libertario, l'oligarchia e la democrazia,
serve il criterio dell'uguaglianza, maggiore o minore.
La base di partenza della definizione periclea della democrazia è quantitativa. Non
sorprende questa caratteristica, in una cultura, come quella greca, che, pur dando tanto
spazio all'etica, non riesce in definitiva a costruirne una autonoma, centrata su valori
assoluti (forse con ciò operando una scelta felice), bensì produce un'etica in larga
misura relativistica, perché fondata su una nozione appunto più quantitativa che
qualitativa, quella del giusto mezzo, il delfico medèn ágan (in latino ne quid nimis:
bando cioè agli eccessi), per cui tutto finisce, o rischia di finire, per essere lecito,
purché fatto con misura.
Lasciando da parte per il momento un argomento di tale portata, non possiamo non
constatare, e non ci sorprende nemmeno, che lo stesso tema della libertà e dei diritti
politici, dunque il tema della democrazia, sia costruito in primo luogo su nozioni
quantitative. Démos stesso presenta in greco, come il corrispondente «popolo» in
tante altre lingue, pur con varianti specifiche, un'ambivalenza e un'ambiguità proprio
sul terreno delle quantità: dêmos è infatti sia il popolo come totalità di un corpo
civico, totalità degli aventi diritti politici, sia la sola maggioranza numerica di esso. E
la maggioranza numerica coincide naturalmente con i ricchi; sarà Aristotele a portare
a compimento l'analisi della connessione tra i molti e i poveri, e i pochi e i ricchi, a
dare cioè una denotazione economico-sociale a questa distinzione di tipo quantitativo
tra i molti (la maggioranza) e la minoranza, ma le premesse di questa lettura
economico-sociale dei dati qualitativi esistono già nel pensiero pericleo (o tucidideo-
pericleo). Ora, la dicotomia tra i pochi = ricchi e i molti = poveri rompe la nozione
totalitaria di dêmos, come corpo civico; di popolo, come città, come stato, come
koinón, come pubblico. Insomma, l'articolazione stessa, la dinamica stessa della
visione quantitativa, si realizza proprio mediante la nozione di ídion: il koinón si avvia
a diventare un insieme di ídia, perché i tutti (che sono uguali di fronte alle leggi) si
distinguono fra i molti, molti individui, che costituiscono la maggioranza, e i pochi,
che costituisco-no la minoranza. Insomma, già la concezione fondamentale,
quantitativa della democrazia come governo della maggioranza – certo, nel rispetto
delle regole – prelude immediatamente alla tematica del pubblico come valore
generale e ugualitario, e del privato, come valore dell'individuo, dei tanti singoli
individui che vanno a costituire rispettivamente la maggioranza e la minoranza.
L'inferiorità quantitativa comunque non può e non deve significare una inferiorità di
diritti. In termini politici ciò significa rispetto per la minoranza, come in termini
economico-sociali quello per i diritti dei pochi benestanti e per quelli dei molti meno
abbienti o non abbienti, gli uni e gli altri tutelati dalla legge. Alla legge spetta di fare
questa omologazione, questa eguaglianza fra diversità, fra ídia, fra diáphora.

Una democrazia proprietaria


Ne conseguono alcune evidenti connessioni semantiche. Alla categoria dei tutti, che è
poi quella del popolo inteso come totalità, come generalità, come portatore della
volontà generale, spetta la connotazione dell'íson (l'uguale o almeno l'equo); alle varie
possibili non-totalità (i molti, i pochi, i singoli) spetta la connotazione del diàphoron,
il differente (potremmo dire, il differenziale). Quindi la definizione pericleo-tucididea
smette di essere quantitativa, per diventare qualitativa, e il primo terreno sul quale si
presenta come qualitativa, lo strumento attraverso cui articola le differenze, è quello
del pubblico e del privato; tocca così un problema drammatico, che risolve in un
difficile compromesso, il quale realizza appunto, accanto al valore dell'uguaglianza e
della legge di validità generale, quello della diversità e perciò della libertà individuale.
Sul piano socioeconomico, questa democrazia si presenta dunque, per il ruolo
conferito all'ídion, come democrazia proprietaria, non rivoluzionaria. Sul terreno dei
diritti politici vale invece l'uguaglianza «aritmetica», in cui uno vale uno, e la regola
della maggioranza (che in democrazia prevale ed è soggetta a verifiche puntuali, tanto
più minuziose quanto più sono in gioco i diritti personali) ne è l'espressione.
L'uguaglianza nel parlare, l'uguale diritto di parola, in greco detto isegoría, è perciò
fin dall'inizio della storia della democrazia un sinonimo di demokratía (così come la
parrhesía, il diritto di dire ciò che si pensa, il diritto di veridicità, che più in generale
identifica la libertà, quell'eleuthería che cammina insieme con la demokratía, anzi ne
sembra la più alta realizzazione, ma che comunque non è concettualmente del tutto
identica con essa).
Demokratía come parrhesía
Proprio su questo terreno le posizioni critiche verso la democrazia elaborano
nell'antichità l'idea di una «uguaglianza geometrica», cioè proporzionata ai meriti,
l'areté di ciascuno. La democrazia reagisce con sensibilità a queste riserve: la
posizione periclea, che è sempre di ricercato equilibrio e, se si vuole, di
compromesso, attenua il rigore aritmetico della concezione democratica con una
prospettiva «meritocratica» (a ciascuno secondo i suoi meriti), e in qualche modo
presenta la stessa ambivalenza della posizione sull'ídion, che si rivela ancora un'idea
portante. Pericle perciò rivendica al singolo il diritto di operare nei koiná, cioè in ruoli
pubblici, se ne ha la capacità; così come, sul terreno economico, ne raccomanda il
progresso verso posizioni più alte, con l'attivismo; e sul piano sociale valorizza assai
più dell'axíoma, cioè del ruolo sociale riconosciuto e statico, la axíosis, cioè la
valutazione (che ogni giorno, per così dire, si rinnova) dei meriti individuali.
L'individualità si presenta come elemento dinamico del sistema dei riconoscimenti
sociali. Si introduce così di fatto, con la meritocrazia, nella concezione ugualitaria (e
aritmeticamente ugualitaria) della democrazia, una nota aristocratica che ne attenua il
profilo livellatore.
Ciò dimostra, del resto, la lata omogeneità del pensiero politico greco in tema di
isótes: omogeneità perché il principio opera in qualunque contesto di istituzioni e di
idee, beninteso purché conforme a una legge; lata perché, all'interno di un'area
connotata dalla libertà, come la democrazia, sussiste anche l'altro cardine della
concezione politica greca, l'uguaglianza, che si esprime però in forme politiche
diverse.

Se l'assunzione di responsabilità politiche è il modo più alto di inserimento


dell'individuo nel sistema delle funzioni pubbliche, questo inserimento comincia già
con l'uso del diritto di parola. Il tema della isegoría (uguale diritto di parola) appare
come centrale nella democrazia ateniese nella tragedia Le Supplici di Euripide (ca.
423 a.C.), in cui da sempre si sono visti riflessi del pensiero pericleo (vv. 417 e ss.),
ma, più in generale, nella polemica che muove dagli avversari politici. In una cultura
orale come quella greca, l'uguaglianza di parola è fondamentale; e isegoría, come
anche la correlata ma non identica parrhesía (diritto di dire tutto), sono spesso, e fin
dalle origini della tradizione storiografica, sinonimi di demokratía. Bisogna
intendersi, però, sul valore di parrhesía, anche per evitare equivoci riguardo al
problema del rapporto della demokratía con la verità. Come mostra al fondo anche il
contenuto specifico e concreto della relativa ricerca, pubblicata postuma, di Michel
Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica(2), con la parrhesía si intende la
veridicità, ossia la franchezza, più che la verità conclamata nel titolo del saggio. La
parrhesía è in sostanza il diritto alla veridicità più che una ricerca astratta e assoluta di
verità.
Certo la demokratía non nasce come, e non è in alcun modo, ricerca del falso; ma è
chiaro che la parrhesía significa più il diritto di dire liberamente ciò che si ritiene
vero che non l'espressione di una ricerca approfondita della verità (in senso assoluto,
la verità come la collegata giustizia appaiono piuttosto come valori dell'aristocrazia).
Nella coppia di categorie messa in gioco dalla teoresi dell'aristocratico Parmenide di
Elea (rispettivamente la Alétheia, o Verità, e la Dóxa, cioè l'Opinione) non è chi non
veda che al popolo, e quindi alla democrazia, spetta il campo dell'Opinione, della
Dóxa (a cominciare, si potrebbe dire, dalla formula stessa che fonda il valore legale
dei decreti: édoxe têi boulêi kaì tôi dêmoi: «così sembrò al consiglio e al popolo»; e a
continuare con più corpose pratiche di comunicazione sociale e politica). Parrhesía,
quindi, più che introdurre al tema della verità, introduce a quello della libertà, la
libertà di tutti di parlare, senza differenza di rango: è un sinonimo, in primo luogo, di
eleuthería, di libertà, e quindi di demokratía.
Già sotto questo aspetto viene da confrontare con la definizione antica le parole
chiave del grande evento storico, su cui si basa gran parte della esperienza politica del
mondo moderno, e certamente dell'Europa moderna: il motto liberté égalité fraternité
della Rivoluzione francese (la presenza di fraternité, e la sua assenza, invece, nella
definizione greca classica hanno ragioni che ho provato a spiegare nel mio libro(3).
Eseguire questo accostamento e questo confronto si può però soltanto se si dà una
risposta positiva ad alcuni grandi interrogativi che la ricerca storica ha accumulato in
relazione alla definizione pericleo-tucididea di demokratía.
1. Il pensiero espresso da Tucidide appartiene veramente a Pericle?
2. Si può dunque parlare dell'esistenza di una teoria democratica della democrazia?
3. E – ultima, ma fondamentale domanda – è in generale legittimo comparare la
democrazia antica e quella moderna?

Democrazia come trasparenza


A questi interrogativi buona parte della ricerca moderna, e lo stesso autore di questo
articolo, danno ormai una risposta positiva, come si vedrà più avanti; ma, per il
momento, dopo aver constatato il valore costitutivo della coppia di categorie
privato/pubblico per la formulazione della teoria democratica della democrazia, viene
naturale considerare le qualità che nei rapporti umani all'interno della comunità
inducono la presenza e l'efficacia di quelle due categorie.
Per esempio, la centralità dell'idea di legge, e la concomitanza di un sistema di
istituzioni e di valori pubblici, da un lato, e di libere individualità, dall'altro, impone la
qualità, che è anche un valore, della trasparenza. Ciò significa che le leggi devono
essere portate a conoscenza di tutti, con forme di pubblicità che consentano a chi
voglia (ho boulómenos) di leggerle, così come le stesse leggi democratiche
consentono ad Atene, anche al primo capitato (ho tychón), di esser designato per
sorteggio alle cariche pubbliche. Nel concreto, poi, dell'esercizio delle funzioni
magistratuali, occorrerà rendere conto (euthynas didónai); ora, l'idea del rendiconto è
così connessa al principio della trasparenza – che risulta dall'incontro e dalla sinergia
tra valori, istituzioni, decisioni pubbliche e utenza individuale – da finire, nel
linguaggio greco, per connotare la nozione stessa di democrazia. Coerentemente, le
forme monocratiche (perciò non solo la tirannide, ma anche l'assoluta monarchia) si
caratterizzano come regimi di «non rendicontazione», di «non responsabilità». Le
cariche «responsabili», cioè soggette a rendi-conto, sono dunque quelle dei regimi
costituzionali, legali, e in special modo della democrazia, mentre una arché personale
è definita come anypeúthynos, cioè «irresponsabile».
In piena rispondenza con la base naturalistica della cultura greca, con il suo spietato
realismo (rispetto a cui la coscienza greca, in un processo, per così dire, di
«ribaltamento», imbocca poi, ma soltanto poi, la strada della costruzione idealistica) il
conto che si richiede, le eúthynai che si esigono riguardano in primo luogo la gestione
del denaro, l'amministrazione dei fondi pubblici. Come ho già avuto occasione di
sottolineare, la parola trasparenza, che oggi tanto anima il dibattito sulla cultura e
l'etica democratiche, è già presente in Tucidide(4): manco a farlo apposta, in relazione
a Pericle, del quale Tucidide disegna in quel capitolo un finissimo ritratto, dove si
dice che gran parte del prestigio e del fascino dello statista derivava appunto
dall'essere egli «trasparentemente incorruttibilissimo» in questioni di denaro
(diaphanôs chremáton adorótatos). Insomma, non c'è bisogno di andare a cercare
tanto lontano per trovare sottili analogie tra la democrazia antica e la democrazia
moderna; qui è già attestato proprio quel termine che è tanto in voga oggi, che appare
anzi come il non plus ultra delle aspettative del cittadino rispetto allo stato; e nel testo
antico la diapháneia, la trasparenza, vale specificamente per quel che anche oggi ha
una specialissima importanza, cioè la correttezza, e la capacità di rispondere, con
chiarezza assoluta, dell'uso del pubblico denaro.
Appare dunque evidente a tutti la sequenza di queste categorie, uguaglianza, legge,
tutti, esattamente quelle tre categorie che è possibile vedere intrecciate, in un nesso
inscindibile, in scritte poste in aule di tribunali o in altri uffici pubblici, «la legge è
uguale per tutti»: una frase che è divenuta l'emblema stesso dello stato di diritto. Ma è
anche evidente che l'uguaglianza democratica della legge sussiste fra diversità, prima
quantitative, poi qualitative: tra i molti della maggioranza e i pochi della minoranza,
tra i tutti e i molti, da un lato, e i singoli, dall'altro, e quindi tra i poveri e ricchi.
Cardine di questo complesso sistema è la nozione di nómos, di legge, con la
caratteristica di eguaglianza, che, se correlata al valore e al prestigio del singolo,
appare piuttosto con i connotati dell'equità. Ma poiché le leggi sono per antonomasia
pubbliche, devono essere a portata di tutti, perciò chiare e trasparenti. Circola, con
questo bisogno di chiarezza, un'esigenza di visibilità che investe tutti gli aspetti della
cultura democratica; specificamente poi, nel bisogno di chiarezza, riguardo alle leggi
e al controllo della loro applicazione, si esprime lo stesso spirito che si manifesta nel
diritto di intervenire con la propria parola nella discussione politica. Nelle leggi
bisogna insomma vederci chiaro, così come su di esse e la loro applicazione si ha il
diritto di parlar chiaro (parrhesía).
La chiarezza che si richiede investe, già in età antica, come poi in età moderna, l'intera
gamma delle espressioni umane, dalle parole e dalle idee ai comportamenti.
Chiarezza, dunque; ma la chiarezza democratica, che identifica un bisogno di
visibilità da parte di tutti, si presenta, già nella polemica che si sviluppa
inevitabilmente intorno all'affermazione della democrazia ad Atene nel V secolo a.C.,
ma soprattutto poi in quel periodo di raccoglimento e ripensamento teorico che è il IV
secolo a.C., come un'arma a doppio taglio. Ne nasce perciò un dibattito fra V e IV
secolo a.C., se le leggi debbano essere «precise» (akribeîs), cioè minuziose,
dettagliate, o invece debbano essere semplici (haploî), proprio a fini di chiarezza e di
facile applicabilità, un dibattito che investe la forma e il numero delle leggi. Così
risuona, da Platone a Isocrate, a Demostene, la protesta: «troppe leggi, e confuse!». La
ricerca esasperata della chiarezza produce però una esasperata casistica, che può
operare come un vero boomerang rispetto alle stesse intenzioni di politici e legislatori
(come la storiografia e la libellistica antiche mettono in evidenza già per l'opera del
legislatore Solone). Ne deriva la critica a una legislazione «eccessiva», che apre di
fatto le porte ai cavillatori, calunniatori e delatori (i sicofanti), e che perciò, benché
nata per favorire il cittadino, finisce con il rendergli la vita difficile e insidiosissima.
Questa critica, in un percorso che credo di aver mostrato nei suoi più minuti passaggi,
è all'origine ultima dello stesso detto romano summum ius summa iniuria.
Strumento fondamentale della chiarezza delle leggi, della loro pubblicità, della loro
fruibilità comune è naturalmente la scrittura: uno strumento comunicativo che, per
epoca di invenzione e originarie funzioni, può agevolmente ascriversi alle società
aristocratiche, ma che proprio la democrazia ha più decisamente potenziato e
promosso. La storia dell'epigrafia pubblica greca sta lì a dimostrare, con cataloghi e
rendiconti, come si volesse mettere a disposizione di chi sapesse (e volesse) leggere
un materiale contabile di interesse pubblico. La trasparenza, realizzata nella
rendicontazione e ancor più nelle leggi dettagliate e precise, è in qualche modo la
cinghia di trasmissione tra il pubblico, la generalità, lo stato, da un lato, e i singoli
individui, dall'altro: ed è innanzi tutto una «virtù» del pubblico. Tuttavia l'eccesso di
dettagli, di casi specifici, di eccezioni, di deroghe crea un viluppo inestricabile, nel
quale si trova a suo agio soprattutto il sicofante, non il galantuomo. Ecco dunque la
denuncia dell'eccesso di legislazione e il rimpianto per la chiarezza della semplicità.
Tutto ciò ci convince del fatto che un po' di burocrazia è un portato fatale della
democrazia, un costo che è inevitabile pagare per i benefici del regime di libertà-
uguaglianza, e che solo ci si può augurare venga reso il meno gravoso possibile per il
cittadino. Ma è proprio il regime della legalità e delle garanzie che comporta un certo
tasso di spirito (non necessariamente un pesante apparato) burocratico.
L'ídion pericleo, a un'attenta analisi dei discorsi che Tucidide attribuisce all'uomo
politico, si presenta come un privato di larghissima portata: trasversale, si potrebbe
dire, rispetto alle stesse classi o differenze sociali. Questo spiega perché Pericle sia
stato bersaglio polemico sia dei moderati nell'antichità, quasi fosse un grande
innovatore nel sociale, sia dei giacobini e radicali in genere nell'età moderna, che non
trovavano evidentemente nella sua concezione i tratti di quel solidarismo e
comunitarismo che essi invocavano per i loro progetti politici, e che in Grecia ebbe le
sue più forti espressioni proprio nelle aristocrazie, quelle reali, come Sparta, quelle
ideali dei grandi utopisti del pensiero aristocratico, come i pitagorici. Ídion significa
per Pericle, in concreto, i vari aspetti della díaita; la ricchezza in generale, vissuta in
un regime di non invidia. Che questo finisca con il dare supporto a un solidarismo più
politico che sociale, e costituisca un limite, è un fatto; ma è anche vero che è tipico di
questa democrazia il compromesso tra valori che oggi sentiamo comunque importanti;
e ognuno darà una sua ricetta per una combinazione che sembra appartenere alle
origini del pensiero democratico. Essa caratterizza l'intera gamma dei bisogni, delle
aspirazioni, dei diritti dell'uomo comune, protagonista della forma politica
democratica, e, in quanto protagonista, «eroe», ma appunto antieroico, della
democrazia moderna e antica: anche questo un segno della commensurabilità delle
due realtà storiche, che certo ha i suoi limiti nel buon senso e nell'intelligenza storica.
In concreto questo ídion appare costituito dalla ricchezza che ognuno ha saputo
conquistarsi con il proprio lavoro; dalle case, eventualmente belle, fatte per essere
godute, se uno le possiede; dal riposo festivo, casalingo, valorizzato secondo una
concezione della festa che sembra far più posto al diritto di rinfrancarsi dagli affanni
del lavoro, e in generale dalle pene della vita, che non a una spiritualità religiosa. Un
ídion costituito insomma da una quotidianità(5), che investe sia il ricco sia il povero,
lasciando purtroppo alquanto in ombra la reale differenza economica (a chi non ha
una casa bella – sembrerebbe dire Pericle, con la sua teoria del kairós – «c'è una casa
bella nel tuo futuro»), e dalla piena espressione individuale, fisica (del sôma) come
anche intellettuale(6). Così si replica polemicamente a una cultura solo guerresca,
tutta centrata sull'andréia e sul pónos, una cultura del coraggio guerresco e della pena,
del dolore, propria di Sparta. L'intera gamma della díaita (certo, a ben diversi livelli,
qualcuno potrà osservare, a seconda delle possibilità materiali di ognuno), l'intera
quotidianità è rivendicata come un valore dalla demokratía, sotto il profilo privato. ln
questo contesto appaiono come valori positivi la spensieratezza e l'ottimismo
(rhathymía), la gioia di vivere (térpsis)(7). Se queste sono le «virtù», o almeno le
qualità, del «privato» in democrazia, la chiarezza vi appare come la «virtù» specifica
del pubblico».

Una democrazia non rivoluzionaria


Come ci sono le virtù del pubblico, in demokratía ci sono dunque quelle del privato,
dell'individuale. Come si configura l'etica dell'uomo della democrazia periclea? Qui si
profilano risposte che qualcuno sentirà come modernizzanti, ma che tali non sono, se
si hanno presenti i testi inconfutabili che permettono di fornirle, e se si riflette sulla
chiarezza con cui Pericle (o, quanto meno, il suo lettore storico, Tucidide) le formula.
Vi si profila l'esistenza non solo di una sfera di interessi privati, ma forse addirittura
della privacy, della privatezza, della riservatezza, del diritto di vivere – pur in una
società del «faccia a faccia» come quella delle piccole città greche – «a modo
proprio»; ché così va inteso il vivere kath'hedonén che emerge dal discorso pericleo, e
che ovviamente si presta, nella rappresentazione avversaria, a una deformazione nel
«fare il comodo proprio», e alla denuncia di un eccesso, di un'anarchia, di una forma
di licenza. Nella concezione periclea la ricchezza, in quanto tale, è legittima, ma deve
servire a produrre altra ricchezza, secondo un'etica attivistica dell'investimento, del
lavoro produttivo come strumento per uscire dalla povertà, che rinverdisce, in un
contesto politico ed economico alquanto diverso, una vecchia massima esiodea, di
quell'Esiodo ottimista che, nonostante tutto, convive, in tipica «duplicità» di piani (di
atteggiamenti), con il pessimista di fondo, come è tipico dei greci (pessimismo
dell'intelligenza, ottimismo della volontà). Pericle afferma (Tuc., II 40, 1) che non è
vergognoso riconoscersi poveri, ma il non far nulla per uscire con l'érgon (il lavoro!)
dallo stato di povertà; Esiodo aveva detto (Opere 311): «il lavoro non è vergogna,
l'inattività sì che è vergogna».
Ecco dunque apparire con Pericle (quasi a sorpresa, tenuto conto del prevalente trend
greco) un ottimista e un attivista; e attivismo-ottimismo assumono in lui persino i
tratti dell'edonismo. Intendiamoci: il suo «vivere a modo proprio», kath'hedonén, non
è certo, o non è ancora, una vera e propria, e sconcertante, filosofia del piacere, ma è
soprattutto un'affermazione di libertà, con cui però è innegabile, a mio avviso, che si
creino le lontane premesse, ideologiche e sociologiche, di quello che sarà l'edonismo
filosofico dei cirenaici (una scuola discesa pur sempre dall'insegnamento dell'ateniese
Socrate) e, più tardi, quello di Epicuro. Naturalmente non c'è bisogno di ricordare la
diversità della temperie politica di Cirene, rispetto a quella di Atene, né dell'ellenismo
rispetto all'età classica: occorre però ricordare che la cultura della hedoné, che può
assumere via via contorni criticabili sul piano morale, nasce in ultima analisi nel
contesto della democrazia, nel momento in cui questa garantisce una sfera privata
rispetto a quella pubblica, e viceversa, definendo, e insieme promovendo, l'una e
l'altra simultaneamente.
Pur con tutti i rischi di frammentazione che questa concezione comporta, essa
risponde all'idea di un potenziamento complessivo dell'uomo. A rendere compatibili le
due sfere del privato e del pubblico, a coordinarle e ad armonizzarle, provvede la
legge. La concezione-base di questo complesso edificio è quella dell'uguaglianza
(isótes), sul piano giuridico-formale e della disuguaglianza legittimata, sul piano
economico. Le due sfere non si compattano mai, nella democrazia classica, in un
progetto di riforma sociale complessivo; il rapporto fra le due resta lasso e non
stringente; tuttavia, storicamente la demokratía della disuguaglianza economica non
resta inerte rispetto al problema della disuguaglianza e della sofferenza sociale. Il
«pubblico», lo stato, nella concezione periclea, provvede al bisogno, all'indigenza, che
la democrazia, proprio in quanto espressione di chiarezza e razionalità politica, è
capace di quantificare, e provvede sia con quegli interventi remunerativi, che sono le
indennità (misthoí) per l'esercizio di funzioni pubbliche, cioè giudiziarie o
magistratuali o militari, sia la creazione, realizzata con l'azione di governo, delle
opportunità (kairoí), delle condizioni per lo sviluppo di attività economiche.
L'individuo si configura dunque già come artefice della sua fortuna; e la categoria
cardine della visione attivistica periclea è quella del kairós: esplicitamente formulata,
riguardo al comportamento individuale e armonizzabile con il pubblico e con le
possibilità create dallo stato, ove si rifletta sulla politica edilizia periclea, volano di
tanta crescita produttiva, ben illustrata dalle fonti (vedi per esempio Plutarco, Pericle,
12) e dai monumenti.
Quando i teorici di democrazie contemporanee invocano le «pari opportunità», le pari
chances, insomma le pari condizioni di partenza, a cominciare dal lavoro, che
consentano al singolo di farsi valere, con la sua abilità, la sua volontà, il suo impegno,
teorizzano quel che i greci, o almeno Pericle, teorizzavano come kairós, come éigou
kairós (occasione di lavoro). «Della ricchezza noi ci serviamo come éigou kairós»:
cioè come occasione di opera, di lavoro, produttivo di altra ricchezza, per chi non l'ha
ancora (Tuc., II 40, 1).
In questa prospettiva di sviluppo non rientra una radicale riforma dei rapporti di
proprietà; la democrazia classica è una democrazia proprietaria, non rivoluzionaria (se
si può riassumere in questa antitesi il campo delle possibilità storiche). Né Pericle né i
politici postpericlei del V secolo a.C. risulta abbiano mai adottato misure quali la
redistribuzione delle terre, o l'abolizione dei debiti. E, ancora nel IV secolo a.C.,
Aristotele attesta (nella Costituzione degli Ateniesi, 56, 2) che l'arconte eponimo ad
Atene, nel prendere possesso della sua annuale carica, giurava che alla fine del suo
anno ognuno avrebbe conservato a pieno titolo legale (krateîn) quel che aveva al
momento della sua entrata in carica.
Il rapporto tra pubblico e privato, posto in tali termini da Pericle, alimenta più in
generale la riflessione politica greca. Anzi, la considerazione delle due categorie è
così innervata nel linguaggio greco, quello comune e quello dei teorici, che è difficile
trovare un passo di un qualche interesse politico, che non si ispiri alla distinzione
sociologica tra pubblico e privato, in quanto specificazione della più astratta
distinzione tra generale e individuale. La cosa è naturalmente ben verificabile nel
lessico dei sommi teorici della società, i grandi «antropologi greci», Platone e
Aristotele; e soprattutto la Politica aristotelica ne è, nella struttura concettuale come
nel linguaggio, una eccellente testimonianza. Facciamo solo un paio di esempi. Nel II
libro della Repubblica (369 e ss.), Platone traccia un quadro dell'origine della pólis,
che consente di intravedere in embrione l'idea (hegeliana, nella formulazione più
matura) di una società in qualche misura distinguibile dallo stato, poiché la pólis,
quindi lo stato dei greci, appare in questo passo come costituita dal concorrere di più
attività particolari e individuali (agricoltori, costruttori, tessitori, calzolai, in genere
tutte le attività professionali fatte per rispondere ai bisogni della díaita, la vita). Si
individua così quel livello della convivenza politica, che si può definire come il
«sistema dei bisogni», in cui consiste la società, nella classica distinzione hegeliana
tra società e stato. E il piano, che potremmo dire «orizzontale», dell'interdipendenza,
fra i diversi individui e le loro attività, certo correlate fra loro nella convivenza, ma in
cui ognuno svolge il suo ruolo specifico, e in cui gli individui, i privati, figurano
invece in una funzione che è distinguibile da quella in cui figurano in quanto cittadini,
cioè come membri delle strutture politiche, dello stato: un piano, quest'ultimo, che
potremmo definire «verticale», quello del rapporto tra cittadini, quelli che governano
e quelli che sono governati. C'è già in Platone una struttura logica duplice
(comunità/professioni individuali, pubblico/privato, generale/particolare, stato/società
e simili): ed è un quadro nel quale il cuore di Platone batte piuttosto per tutto quello
che attiene alla comunità, alla generalità.
Della stessa struttura logica fa uso, dandone un'analisi critica anche più elaborata,
Aristotele nella Politica. Egli individua due segnacoli, o confini (semeîa, hóroi:
«paletti», diremmo forse oggi) della democrazia in un passo fondamentale del VI
libro (1317a 40-1317b 18), un complesso intreccio di pensieri che mostra quanto, da
un punto di vista più o meno polemico, la democrazia si lasci definire proprio alla
luce della categorie del pubblico e del privato, e ne rappresenti, per così dire,
l'impasto complessivo. Il primo segnacolo della democrazia è infatti la regola della
maggioranza: si fa quel che essa decide, e questa è la diretta conseguenza dell'idea di
uguaglianza aritmetica, che è ben presente a gran parte del pensiero politico antico
(così, per esempio, Aristotele, Politica, V 1301b 30-1302a 9) come distinguibile
dall'uguaglianza geometrica, quella del merito, qualitativa. Il secondo segnacolo, o
«paletto», della democrazia è, per il filosofo, nel «vivere come uno vuole», quindi
nella libertà del comportamento individuale. La fitta argomentazione aristotelica
mostra appunto, nella concreta esemplificazione, che il filosofo sente tale principio di
comportamento e tale aspirazione sia sotto l'aspetto pubblico, politico («possibilmente
non essere governati da nessuno, ma, se ciò non è possibile, almeno governare a
turno»), sia sotto l'aspetto privato («vivere a modo proprio»). L'adozione della duplice
chiave di lettura, del «pubblico» come del «privato», permette dunque ad Aristotele di
suonare, per così dire, l'intera «tastiera» delle aspirazioni, dei comportamenti e dei
diritti dell'individuo in democrazia, una volta rispetto al potere (rispetto perciò al
problema del governare e dell'essere governati) e un'altra rispetto ai propri bisogni
esistenziali. Nel passo di Aristotele è presente certo una venatura polemica, visto che
egli afferma che l'uomo della democrazia vorrebbe, se potesse, non essere governato
da nessuno, e gli attribuisce così un'intima vocazione anarchica.
Ma di particolare interesse, sul tema del rapporto tra pubblico e privato, è un passo
dello storico Polibio, che scrive proprio al momento della transizione tra età
ellenistica ed età romana, anzi di tale transizione fa l'oggetto della sua riflessione
storica. Nel VI libro, ai capitoli 45 e seguenti, Polibio mette alla prova le due
categorie, in un canonico confronto tra la costituzione delle città cretesi e quella di
Sparta. Nel passo egli distingue in termini generali tra la isótes, cioè l'uguaglianza, nel
possesso di politikè chóra (terra cittadina, equamente distribuita fra i cittadini), e
invece la disparità nel possesso del diáphoron (il «differente», il «di più»), disparità
che determina avidità di possesso, rivalità e competizione. Ma Polibio sottolinea
anche che a Sparta il possesso del «di più» – e qui diáphoron, a fronte della ricchezza
immobiliare, divisa secondo principi ugualitari fra i cittadini, rappresentata dalla terra,
finisce per indicare la ricchezza mobile e più specificamente il denaro – non ha
prestigio. Fra i cretesi, invece, da un lato le leggi consentono di possedere quanta terra
si vuole, dall'altro il diáphoron è in grande onore.

Tucidide e Pericle
Al di là delle riflessioni sul koinón e sull'ídion che la trattatistica greca ha elaborato, e
fra queste certamente quella sul rapporto tra pólis e oikía, con relativo despótes, in
Platone come in Aristotele, matura in Polibio una contrapposizione concettuale, che
ancora una volta, come già in Pericle e nel suo interprete Tucidide, allinea, da un lato,
le seguenti categorie: pólis/koinón/íson (e semmai beni immobili, equamente e
rigorosamente distribuiti) e, dall'altro, diáphoron (perciò sostanzialmente ídion) e beni
mobili e differenza sociale. Sparta, città oligarchica, realizza al meglio il principio
ugualitario; perché caratteristico della democrazia greca è proprio il fatto che
l'ugualitarismo di cui essa si è fatta portatrice riguarda più il terreno dei diritti politici
formali che quello della proprietà. Non è un caso che Polibio associ di fatto,
all'immagine così delineata della società cretese quella di una demokratikè diáthesis,
cioè di una disposizione democratica.
Quando si nega la possibilità di fare uso delle categorie di pubblico e privato per il
mondo antico, si farebbe bene ad aver presente la grande frequenza dell'uso di ídion (e
del suo sinonimo oikeîon) per il privato e di koinón (e del suo parente demósion,
quest'ultimo di ancor più esplicito valore statuale) per il comunitario, il pubblico,
quale appunto la lettura dei lessici e dei testi ci mette sotto gli occhi.
La lingua latina presenta anch'essa questa distinzione e la relativa elaborazione:
basterebbe pensare all'uso che se ne può verificare nelle epigrafi; ma, a mo' d'esempio
(un esempio tanto più forte, in quanto si tratta di un testo poetico: a tal punto questa
«doppia lettura» della realtà sociale permea il pensiero degli antichi), converrà
ricordare una poesia di quel fine lettore e imitatore di moduli greci, genialmente
reinterpretati, che fu Orazio (anche lui, come Ennio, detentore di tria – se non anche
più – corda, per la sua latinità d'espressione, grecità di cultura, italicità di origini): mi
riferisco al quindicesimo dei carmina del II libro. E un'ode di grande interesse dal
punto di vista storico, per la rappresentazione dello sviluppo economico e delle
relative conseguenze sociali. Orazio vi polemizza, in spirito antisuntuario, contro gli
abusi dell'edilizia di lusso, che sta producendo il risultato che le regiae moles stiano
per lasciare ormai solo pochi iugeri all'«aratro», all'agricoltura, e così documenta il
conflitto tra le nuove, sontuose e superflue costruzioni, la cementificazione, e l'attività
produttiva fondamentale, e perciò anche tra privato e pubblico. Ora, dice Orazio, è
così, ma non ai bei tempi antichi, quelli di Romolo e di Catone (e certo la sua
osservazione è nell'insieme storicamente più giusta per i tempi di Romolo che per
quelli di Catone): privatus illis census erat brevis/commune magnum: nulla
decempedis/metata privatis opacam/porticus excipiebat Arcton (il censo dei privati
era modesto, grande il pubblico; non c'erano portici misurati a pertiche per accogliere
a uso privato l'opaco fresco dell'Orsa) [trad. di E. Cetrangolo].
Subito si contrappongono al lusso privato i concetti di lex e di publicus sumptus; in
soli sei versi dell'ode (13-18) ricorre ben due volte la coppia publicus/privatus, e a
privatus (scil. census) è opposto il commune (in generale tutto il bene, il patrimonio
comune): un tempo era piccolo il primo, il privato, grande il secondo dei due termini
della comparazione. La riflessione ellenistica che si sedimenta in Orazio, in un'ode di
prospettiva (o piuttosto retrospettiva) storica, convalida, dal basso dei tempi più tardi,
la solidità della riflessione antica (e greca in prima istanza) su una coppia di categorie
così fondamentale nella democrazia classica.
Ciò che abbiamo affermato finora equivale a dare tre risposte positive ai tre quesiti
che abbiamo detto aver animato negli ultimi anni la discussione sulla democrazia
ateniese del V secolo a.C. Il primo quesito è se Tucidide sia da prendere come buon
testimone del pensiero di Pericle, se quindi si possa attribuire a Pericle la sostanza
delle idee espresse nell'Epitafio. La discussione su questo punto non è ancora chiusa
né si potrà probabilmente mai chiudere. Ma poiché si tratta di storia delle idee, che
corrispondono in ogni caso a una certa epoca (la fine del V secolo a.C.) e a un certo
ambiente (l'Atene periclea e postpericlea), direi che il problema dell'autenticità
periclea dell'orazione funebre, con il suo carico di fondamentali pensieri, sia meno
drammatico di quel che si ritiene. Lo scetticismo, che nessuna argomentazione potrà
mai bandire (non disponiamo di registrazioni, naturalmente, e quindi il costo della
dimostrazione lo scettico potrà rialzarlo all'infinito), si può in questo caso
tranquillamente accantonare, perché, anche a voler negare quei pensieri a Pericle, non
si potrà negare il fatto che un autore di quell'ambiente e di quell'epoca abbia concepito
quell'insieme di pensieri. Ne risulterebbe che quell'ambiente e quell'epoca hanno
prodotto un insieme di pensieri di quel tipo; e, sul piano della storia delle idee
politiche, il risultato sarebbe lo stesso, se non addirittura più forte e significativo.
Infatti l'Atene periclea e postpericlea avrebbe fatto maturare tale complesso di idee in
un autore come Tucidide, che non apparteneva neanche al campo democratico. Poiché
però la ferma distinzione tra pubblico e privato è verificabile anche nella biografia e
negli atteggiamenti quotidiani di Pericle, e poiché nel celebre discorso metodologico
(I 22, 1) Tucidide, con una puntigliosità quasi penosa, sottolinea con forza che, in
mancanza della lettera dei discorsi inseriti nella sua opera (lettera che onestamente
confessa di inventarsi), egli ne riferisce il concetto essenziale, e coerente con le
convinzioni del personaggio che parla, appare tutto sommato più economico lasciare a
Pericle la paternità di quelle idee, che comunque circolavano nella sua epoca e perciò
presumibilmente non senza la sua influenza.
Ma se è così, allora dobbiamo dare una risposta positiva anche al secondo quesito, se
cioè non sia esistita anche una teoria democratica della democrazia, accanto alle
rappresentazioni critiche o ostili: è esistita e noi la conosciamo. Buona parte degli
argomenti che ho enunciato sopra, e altri ancora, in favore di una risposta affermativa,
li ho presentati nel mio libro Demokratía. Origini di un'idea, già citato. Ma è da
riconoscere che, negli ultimi anni, diversi studi hanno imboccato questa via
«positiva»: e mi riferisco sia a studi specifici su questi argomenti sia anche solo ad
atteggiamenti sottesi a studi contigui. Citerei in proposito, e solo a mo' di esempio,
alcuni dei saggi raccolti nei volumi miscellanei di Chr. Meier e P. Veyne, L'identità
del cittadino e la democrazia in Grecia(8); di M.R. Connor, M.H. Hansen, K.A.
Raaflaub, B.S. Strauss (a c. di), Aspects of Athenian democracy(9); il saggio Was
Athens a democracy? Popular ride, liberty and equality in ancient and modem
political thought(10); l'articolo di R. Brock, The emergence of democratic
ideology(11); o il libro di D. Kagan, Pericles of Athens and the birth of
democracy(12). E non starei tanto a discutere sull'uso della parola teoria o di altre
consimili definizioni; mi sembra infatti si possa dimostrare che, proprio intorno alla
coppia pubblico/privato, potente corollario della concezione quantitativa (i molti, i
tutti, i singoli), che è alla base di questa forma politica, si costituisca un vero sistema
di idee. Non pretendiamo però, e neppure ci aspettiamo, una analiticità e una
scolasticità degne di un trattato di pieno e avanzato IV secolo, da un testo come
l'Epitafio pronunciato da Pericle: esso è pur sempre un'orazione di circostanza, che
vuole celebrare memoria ed emozioni, ma che alle celebrazioni di rito aggiunge –
dichiaratamente e programmaticamente – una visione sistematica del regime politico e
dei comportamenti individuali che hanno consentito e sorretto la crescita della città.

Democrazia antica e moderna


Ma il quesito di maggior portata, e anche di maggior presa sul lettore moderno, è il
terzo, quello che ha forse tutto il peso di una domanda preliminare: è comparabile la
democrazia antica con quella moderna? Dalla recente ricerca, mi pare stia emergendo,
anche per questo aspetto, un largo consenso nella risposta affermativa, dopo un
periodo di diffidenze e di negazioni: la democrazia antica può e deve compararsi con
quella moderna, certo, per rilevarne le differenze oltre che le analogie (quale storico
vorrebbe sottrarsi a questo compito di distinzione?).
E le differenze più corpose sono quelle di carattere sociale (l'esclusione dai diritti
politici, nel mondo antico, degli schiavi, delle donne, in larga misura dei giovani) e
quelle di più specifico carattere istituzionale (la democrazia antica è
fondamentalmente diretta, quella moderna è per lo più rappresentativa). Su questi
aspetti vanno tenute ben presenti le ricerche di M.I. Finley(13).
Ma considerare la democrazia moderna come rapportabile a quella antica solo per una
superficiale coincidenza etimologica sembra davvero impoverire la prospettiva e i
compiti dello storico, che deve sì saper distinguere fra le epoche diverse, ma anche
sottoporsi alla «sfida» intellettuale, all'apparente paradosso che certe analogie
comportano.
L'impegnarsi a spiegare perché attraverso i secoli, in tempi e situazioni così distanti
fra loro, si replichino le stesse idee e le stesse parole d'ordine, rappresenta una «sfida»
più alta che non l'arroccarsi nella negazione di una qualunque analogia e qualunque
continuità.
Mi sembra piuttosto che, da quando si ricostituiscono, nella storia europea e
mondiale, le condizioni per l'affermazione di regimi politici legali e, almeno
tendenzialmente, ugualitari, con al loro centro l'uomo comune (il che significa il
XVIII secolo, con le rivoluzioni americana e francese), si ripropongono gli stessi temi
e slogan, e problemi e nodi di problemi. Ciò vale per il pubblico e il privato,
l'eguaglianza e la libertà, la trasparenza e la quantificazione del bisogno: elementi di
una cultura politica che da quasi tre secoli si è riproposta con forza, e da allora con
continuità, alla coscienza e nella storia dell'uomo.

Politica società e forme mentali nell'Atene classica.


Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto n. 31, gennaio-aprile 1997.

Note
Domenico Musti è professore di Storia greca all'Università «La Sapienza» di Roma.
Autore di varie opere sulle principali epoche della civiltà greca, tra cui una Storia
greca (Roma-Bari 1994),
ha dedicato recentemente un libro specifico alla democrazia greca: Demokratra.
Origini di un 'idea (Roma-Bari 1995).
1. Si veda N. Bobbio, Il futuro della democrazia Una difesa delle regole del gioco,
Einaudi, Torino 1984.
2. Trad. it. A. Galeotti, con introduzione di R. Bodei, Donzelli, Roma 1996.
3. D. Musti, Demokratía. Origini di un'idea, Laterza, Roma-Bari 1995.
5. Tà kath'heméran, Tucidide, II 38, 1.
6. Philosophofmen àneu malakías: «ci dedichiamo alla cultura, senza con ciò apparire
rammolliti», Tucidide, II 40, 1.
7. Tucidide, II 38, 1; 39, 4; 40, 1.
8. Chr. Meier, P. Veyne, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia, Il Mulino,
Bologna 1988.
9. M.R. Connor, M.H. Hansen, K.A. Raaflaub, B.S. Strauss (a c. di), Aspects of
Athenian democracy, Copenhagen 1990.
10. Was Athens a democracy? Popular rule, liberty and equality in ancient and
modern political thought, “Royal Danish Acad. of Sciences and Letters”, Med. 59,
Copenhagen 1989.
11. R. Brock, The emergence of democratic ideology, «Historia» 40, 1991, pp. 160-
169.
12. D. Kagan, Pericles of Athens and the birth of democracy, ed. inglese e trad. it., A.
Mondadori, Milano 1991.
13. M.I. Finley, Democrazia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1972, 2
ed. 1982; vedi anche M.H. Hansen, The Athenian democracy in the age of
Demosthenes, Blackwell, Oxford and Cambridge Mass. 1991; Id. Was Athenian a
democracy?, cit
Arnaldo Marcone     
La democrazia ateniese: “una follia riconosciuta?”

ristofaneLa democrazia ateniese ha sempre avuto critici severi. A giudicare dalle fonti
che ci sono pervenute, nella Grecia antica i censori della democrazia risultano
addirittura numericamente e qualitativamente più consistenti dei suoi sostenitori.
Anzi, si può dire che manchi una letteratura di consenso alla democrazia. Proprio per
questo è così radicata la valutazione negativa del regime democratico ateniese nel
mondo romano prima e nella cultura occidentale poi. A determinare le linee
fondamentali di siffatta valutazione sono soprattutto i filosofi, Platone per primo,
soprattutto con la Repubblica (e Socrate, almeno come compare in alcuni suoi
dialoghi), e quindi Aristotele con la Politica. Anche gli storici non figurano tra i
sostenitori della democrazia o, quanto meno, di quella periclea. Tucidide si può
considerare fautore di un governo democratico moderato. E possibile che il giudizio
sulla democrazia ateniese come di "una follia riconosciuta", che egli mette in bocca ad
Alcibiade, sia una manifestazione del suo modo di pensare. Senofonte era un
dichiarato ammiratore del regime spartano e mostrò sempre un forte distacco nei
confronti di quello vigente in Atene. Anche un oratore politico di rilievo come
Isocrate, nel IV secolo a.C., si schierò a favore di una forma molto moderata di
democrazia. A un livello, per dir così, più "popolare", espressione di sentimenti
antidemocratici sono i commediografi, dei quali Aristofane è il rappresentante più
significativo. Considerazione a parte merita il violento pamphlet di autore sconosciuto
(lo si designa convenzionalmente con il nome di Vecchio Oligarca) che in una data
incerta (probabilmente durante la guerra del Peloponneso) rivolse un attacco frontale
ai fondamenti stessi della democrazia. Ad Atene le voci di dissenso sono frequenti e
talune si spingono apertamente a invocare un ordine diverso da quello costituito.
Tuttavia la mancanza di qualsiasi forma di raggruppamento che potesse dare un
quadro organico di riferimento all'opposizione fa sì che le critiche vengano formulate
a titolo individuale. Circostanze particolari, come sconfitte riportate in guerra da
politici democratici, potevano dar fiato ai loro avversari, che riuscivano talora a
trovare ascolto anche presso le masse. In generale, comunque, chi prendeva le
distanze dalla democrazia, o la combatteva apertamente, aveva come riferimento una
forma costituzionale in cui l'aristocrazia era in grado di giocare un ruolo significativo
nella gestione della cosa pubblica. L'ideale dei critici della democrazia periclea era la
democrazia in vigore all'epoca delle guerre persiane. È caratteristico che, a partire da
un certo momento (grosso modo dopo la disastrosa conclusione della spedizione in
Sicilia nel 413), si invochi il ritorno alle leggi di Clìstene, leggi che però nessuno
conosceva e che nessuno poteva citare. L'obiettivo comunque degli antidemocratici è
chiaro: per colpire i poveri in generale e, soprattutto, i marinai della flotta che
costituivano la componente decisiva nel sostegno della democrazia, essi proposero di
creare un limite di censo per chi volesse rivestire le varie cariche così da consentirne
l'accesso solo a coloro che lo raggiungevano, abolendo nello stesso tempo le indennità
per coloro che svolgevano funzioni pubbliche.
Che d'altra parte ad Atene non ci fosse spazio per un regime oligarchico (=
autoritario) è provato dalle due circostanze in cui esso fu sperimentato, nel 411 e nel
404, non a caso come conseguenza degli sviluppi negativi della guerra del
Peloponneso. Entrambe le volte si pervenne infatti a un rapido ripristino della
democrazia.
Ma quali sono dunque le critiche più forti che vengono rivolte alla forma ateniese di
democrazia dal mondo greco contemporaneo? La prima e la più grave riguarda
l'equiparazione politica di tutti gli ateniesi. L'obiezione è che una uguaglianza di
questo tipo è del tutto astratta, perché prescinde da fattori essenziali di
diversificazione quali l'origine, il prestigio, la cultura, la competenza e le capacità. A
un livello speculativo i filosofi elaborano la teoria della necessità di una preparazione
adeguata per occuparsi di politica, precisamente quello che manca alla maggior parte
dei leader democratici. Essi mettono in risalto come sia inevitabile che, in un sistema
basato sulla persuasione retorica, in un'assemblea pubblica il consenso popolare
tocchi a chi è capace di dire al popolo quello che il popolo vuole ascoltare e non a chi
dice quello che gli conviene. L'idea di fondo che ne viene fuori è quella di un governo
affidato ai capricci e agli istinti di una massa che si esprime solo con deliberazioni
affrettate e ingiuste, che è in balia di persone (i demagoghi) spregiudicate e assetate
solo di potere.

Una tradizione di critiche


Complementare a questa critica è l'accusa secondo la quale il popolo, nell'assenza di
qualsiasi vincolo di natura etica, pone se stesso al di sopra della stessa legge. Alla
base di tale accusa ci sono due tipi di abusi che vengono imputati al regime
democratico. Il primo riguarda i verdetti arbitrari emanati dai tribunali popolari, il
secondo le delibere dell'assemblea che possono arrivare a sospendere o annullare
l'efficacia del nómos, della legge. Mentre per quel che concerne l'ekklesia non è tanto
l'istituto in sé che viene messo in discussione quanto le modalità della prassi
decisionale, nel caso dei tribunali popolari la critica è così radicale che appare
evidente che se ne auspica la soppressione, anche se questa non è richiesta
apertamente. Criticato è anche un altro principio fondamentale della democrazia,
quello del sorteggio delle cariche, in quanto incompatibile con la competenza richiesta
per l'esercizio delle magistrature. Particolarmente preso di mira è infine il pagamento
di indennità per lo svolgimento di funzioni pubbliche. Esso è considerato lo strumento
demagogico grazie al quale si consente alla massa di vivere in ozio, facendole credere
di svolgere un'attività politica.
Un ulteriore oggetto di critica riguarda il trattamento delle città alleate nella lega
delio-attica. La commedia, e lo stesso Tucidide, mettono in risalto come, con il
pretesto dell'alleanza, le città che ne facevano parte siano state progressivamente
ridotte in uno stato di sudditanza, private della loro autonomia e depredate dei loro
beni. Naturalmente a essere criticata non era l'egemonia ateniese in quanto tale, ma i
suoi aspetti deteriori visti come conseguenze della degenerazione del regime
democratico. La spoliazione degli alleati veniva infatti spiegata come determinata
dalla necessità di pagare le indennità ai cittadini per svolgere le loro attività politiche,
cioè, nell'ottica degli antidemocratici, per poterli mantenere nell'ozio.
Date queste premesse, l'esito finale della democrazia ateniese finisce per essere il
regno del caos e della tirannide, nel quale si dissolvono l'ordine sociale e religioso. La
democrazia è il regime nel quale ciascuno vive a proprio gusto, ivi compresi i non
cittadini, i meteci e gli schiavi, o dove, almeno nella satira che ne fa Aristofane nelle
Ecclesiazuse, il governo può essere affidato alle donne.
Il rappresentante più significativo della cattiva fama della democrazia ateniese a
Roma è Cicerone. In un'arringa tenuta nel 59 a.C. a favore di Flacco sostiene che la
democrazia ateniese cacciava i suoi cittadini migliori (l'allusione è diretta alla pratica
dell'ostracismo), e che l'eccesso di libertà che si aveva nelle assemblee pubbliche
ateniesi era la causa della decadenza della città. In un dialogo di pochi anni posteriore,
il De republica (Sullo stato), Cicerone pone in evidenza le gravi conseguenze per
l'ordine sociale di un regime democratico, come quello ateniese, che finisce
necessariamente per trasformarsi in "oclocrazia", ovvero governo della massa.
Nel Medioevo c'è una scarsa conoscenza della democrazia ateniese e ancor meno
interesse. Con il Rinascimento e la riscoperta degli storici classici si manifesta una
certa considerazione per il problema della città-stato e della sua organizzazione. Ma,
poiché la preoccupazione principale riguarda la stabilità delle istituzioni politiche, è il
sistema spartano che riceve i maggiori consensi. Un contributo importante nel
consolidamento della cattiva fama del regime democratico ateniese si ha con la
pubblicazione in Francia, nel 1576, dei Sei libri della repubblica di Jean Bodin. Bodin
produce tutta una serie di esempi per dimostrare il carattere pernicioso del governo
popolare. Chiedere il parere della massa – scrive – è come chiedere il parere di un
folle. L'opera di Bodin esercitò una notevole influenza sul pensiero antidemocratico
tanto in Francia quanto in Inghilterra (fu infatti tradotta in inglese nel 1606).
La reputazione di Atene non migliora molto neppure nel Settecento. In Francia l'opera
standard di storia antica è costituita dall'Histoire ancienne in quattordici volumi,
pubblicati tra il 1730 e il 1738, di Charles Rollin. Rollin, che è un professore cui sta a
cuore l'educazione morale della gioventù, sottolinea l'instabilità e l'incoerenza degli
ateniesi del V e del IV secolo, corrotti dall'amore dell'ozio e del piacere. Tra le tante
voci critiche si distinguono quelle dell'abate Mably, di Condillac e di Rousseau.
Messo sotto accusa è soprattutto Pericle, mentre si manifestano sentimenti
apertamente filospartani. Rousseau in particolare, in un saggio sul rapporto tra le
scienze e le arti e lo sviluppo della civiltà, premiato nel 1749 dall'Accademia di
Digione, arriva a celebrare lo stato spartano come uno stato di semidei anziché di
uomini, contrapposto a quello degenerato di Atene.
Rispetto a tanto conformismo, si deve segnalare l'indipendenza e la spregiudicatezza
intellettuale di Voltaire. Il pensatore francese nel Dizionario filosofico, alla voce
"Lusso", non esita ad attaccare gli austeri spartani per non essere stati capaci di
produrre artisti, statisti o intellettuali di rilievo. Alla voce "Democrazia" dello stesso
dizionario replica alle accuse rivolte al sistema giudiziario ateniese, sostenendo che i
suoi abusi non erano peggiori di quelli che si avevano nei moderni stati europei.

La democrazia ateniese riconsiderata

Neppure i fermenti intellettuali alla base delle rivoluzioni di America e Francia


ribaltano sostanzialmente l'immagine negativa della democrazia ateniese. In generale i
padri fondatori dell'indipendenza americana considerano Atene un modello negativo,
sia sul piano dell'organizzazione politica, in ragione della sua instabilità, sia su quello
del sistema sociale, per il presunto attacco alla proprietà privata. E caratteristico come
i protagonisti dell'indipendenza americana non si differenzino dalle opinioni correnti
in Inghilterra sulla democrazia ateniese.
In Francia il pensiero storico rivoluzionario rivolge la sua attenzione soprattutto a
Roma e, in Grecia, a Sparta. Salvo isolate eccezioni, i giudizi sulla democrazia
periclea sono negativi. In ogni caso essa riscuote scarso interesse. Quando i
rivoluzionari francesi sono alla ricerca di modelli di eroismo non guardano ad Atene.
Piuttosto Atene fornisce esempi negativi di condanne ingiuste cui ci si può appellare:
Aristide, Socrate, Focione.
Malgrado le espressioni di conservatorismo e conformismo culturale che si
manifestano nei movimenti rivoluzionari americano e francese, queste esperienze
produssero le condizioni per un rinnovato interesse per i problemi della democrazia.
Si spiega così la risposta di tipo conservatrice che si ha in Inghilterra da parte di un
proprietario terriero tory, William Mitford, che, tra la fine del Settecento e l'inizio
dell'Ottocento, pubblicò una History of ancient Greece destinata ad avere a lungo una
grande influenza presso il pubblico di lingua inglese. L'obiezione principale da lui
rivolta alla democrazia ateniese riguarda la mancanza di un meccanismo capace di
armonizzare le differenti condizioni sociali. La responsabilità di questo vizio di fondo
è attribuita alla schiavitù, perché, grazie a essa, i molti poveri erano sottratti
all'obbligo di lavorare per i pochi possidenti. Gli schiavi e le indennità per le attività
politiche consentivano così, ad Atene, alla mas-sa della popolazione di vivere in ozio
con tutte le conseguenze che da questo scaturivano.
L'immagine della democrazia ateniese come dominata dalla massa oziosa si ritrova
anche nel libro, per molti aspetti innovatore, di uno studioso tedesco, August Boeckh.
La sua Economia pubblica di Atene, pubblicata nel 1817, è infatti la prima storia
economica della Grecia. Malgrado il rigore scientifico del libro, le sue conclusioni
ripropongono le stesse accuse al regime ateniese che si trovano in Mitford: la
schiavitù e il sistema delle indennità sono all'origine del pervertimento della
democrazia. Anche se in un'ottica diversa, tanto Marx che Engels, sensibili alle
questioni di ordine sociale, sosterranno più tardi che all'origine della rovina della città
antica c'era la schiavitù e non la democrazia.
Considerazioni molto simili troviamo in un'opera famosa, la Storia della cultura greca,
di Jacob Burckhardt, pubblicata nel 1898. Per il pensatore svizzero alle origini del
declino della cultura ateniese c'è il disprezzo per il lavoro diffuso tra le classi povere.
Burckhardt, tuttavia, non attribuisce la responsabilità di questo atteggiamento alla
schiavitù, ma a una mentalità di tipo aristocratico ereditata dall'età eroica.
Uno stimolo alla riconsiderazione della democrazia ateniese e a una più adeguata
comprensione dei valori dell'età periclea viene dall'ideologia liberale che si afferma
nel corso dell'Ottocento. Non mancano tuttavia posizioni differenziate. Mentre per il
liberale inglese George Grote (la sua Storia greca è del 1846-56) la democrazia
periclea è un esempio di democrazia liberale, Benjamin Constant ritiene che la libertà
della città antica sia stata realizzata a discapito di quella dei singoli cittadini (La
libertà degli antichi e dei moderni, 1819). Fustel de Coulanges, in un libro
particolarmente importante (La città antica, 1864), si preoccupa di mostrare i limiti
del modello classico per un moderno stato liberale. A suo parere, infatti, la
democrazia ateniese fu minata dai conflitti di classe e dalla mancanza di una
disciplina economica capace, come avviene nelle società evolute, di mantenere la
libertà insieme all'ordine sociale. Questo tipo di problematiche ci avvicinano a quelle
che sono tuttora oggetto di dibattito. Se in genere la democrazia ateniese è oggetto più
di ammirazione che di critica, non si manca di notare, da parte degli studiosi più
autorevoli (Domenico Musti, Oswin Murray, Christian Meier) che la struttura più
compatta della società antica implica che in essa l'esercizio della politica si svolga in
modo diverso rispetto al mondo moderno. Alle differenze fra la democrazia antica (in
ispecie ateniese) e quella contemporanea ha dedicato un saggio particolarmente
penetrante Moses Finley (La democrazia degli antichi e dei moderni, 1972), che pone
con nettezza il problema della mancanza di partecipazione alla vita politica del
cittadino di oggi, a differenza di quello del mondo classico.

Rispetto a tanto conformismo, si deve segnalare l'indipendenza e la spregiudicatezza


intellettuale di Voltaire. Il pensatore francese nel Dizionario filosofico, alla voce
"Lusso", non esita ad attaccare gli austeri spartani per non essere stati capaci di
produrre artisti, statisti o intellettuali di rilievo. Alla voce "Democrazia" dello stesso
dizionario replica alle accuse rivolte al sistema giudiziario ateniese, sostenendo che i
suoi abusi non erano peggiori di quelli che si avevano nei moderni stati europei.
La democrazia ateniese riconsiderata
Neppure i fermenti intellettuali alla base delle rivoluzioni di America e Francia
ribaltano sostanzialmente l'immagine negativa della democrazia ateniese. In generale i
padri fondatori dell'indipendenza americana considerano Atene un modello negativo,
sia sul piano dell'organizzazione politica, in ragione della sua instabilità, sia su quello
del sistema sociale, per il presunto attacco alla proprietà privata. E caratteristico come
i protagonisti dell'indipendenza americana non si differenzino dalle opinioni correnti
in Inghilterra sulla democrazia ateniese.
In Francia il pensiero storico rivoluzionario rivolge la sua attenzione soprattutto a
Roma e, in Grecia, a Sparta. Salvo isolate eccezioni, i giudizi sulla democrazia
periclea sono negativi. In ogni caso essa riscuote scarso interesse. Quando i
rivoluzionari francesi sono alla ricerca di modelli di eroismo non guardano ad Atene.
Piuttosto Atene fornisce esempi negativi di condanne ingiuste cui ci si può appellare:
Aristide, Socrate, Focione.
Malgrado le espressioni di conservatorismo e conformismo culturale che si
manifestano nei movimenti rivoluzionari americano e francese, queste esperienze
produssero le condizioni per un rinnovato interesse per i problemi della democrazia.
Si spiega così la risposta di tipo conservatrice che si ha in Inghilterra da parte di un
proprietario terriero tory, William Mitford, che, tra la fine del Settecento e l'inizio
dell'Ottocento, pubblicò una History of ancient Greece destinata ad avere a lungo una
grande influenza presso il pubblico di lingua inglese. L'obiezione principale da lui
rivolta alla democrazia ateniese riguarda la mancanza di un meccanismo capace di
armonizzare le differenti condizioni sociali. La responsabilità di questo vizio di fondo
è attribuita alla schiavitù, perché, grazie a essa, i molti poveri erano sottratti
all'obbligo di lavorare per i pochi possidenti. Gli schiavi e le indennità per le attività
politiche consentivano così, ad Atene, alla mas-sa della popolazione di vivere in ozio
con tutte le conseguenze che da questo scaturivano.
L'immagine della democrazia ateniese come dominata dalla massa oziosa si ritrova
anche nel libro, per molti aspetti innovatore, di uno studioso tedesco, August Boeckh.
La sua Economia pubblica di Atene, pubblicata nel 1817, è infatti la prima storia
economica della Grecia. Malgrado il rigore scientifico del libro, le sue conclusioni
ripropongono le stesse accuse al regi-me ateniese che si trovano in Mitford: la
schiavitù e il sistema delle indennità sono all'origine del pervertimento della
democrazia. Anche se in un'ottica diversa, tanto Marx che Engels, sensibili alle
questioni di ordine sociale, sosterranno più tardi che all'origine della rovina della città
antica c'era la schiavitù e non la democrazia.
Considerazioni molto simili troviamo in un'opera famosa, la Storia della cultura greca,
di Jacob Burckhardt, pubblicata nel 1898. Per il pensatore svizzero alle origini del
declino della cultura ateniese c'è il disprezzo per il lavoro diffuso tra le classi povere.
Burckhardt, tuttavia, non attribuisce la responsabilità di questo atteggiamento alla
schiavitù, ma a una mentalità di tipo aristocratico ereditata dall'età eroica.
Uno stimolo alla riconsiderazione della democrazia ateniese e a una più adeguata
comprensione dei valori dell'età periclea viene dall'ideologia liberale che si afferma
nel corso dell'Ottocento. Non mancano tuttavia posizioni differenziate. Mentre per il
liberale inglese George Grote (la sua Storia greca è del 1846-56) la democrazia
periclea è un esempio di democrazia liberale, Benjamin Constant ritiene che la libertà
della città antica sia stata realizzata a discapito di quella dei singoli cittadini (La
libertà degli antichi e dei moderni, 1819). Fustel de Coulanges, in un libro
particolarmente importante (La città antica, 1864), si preoccupa di mostrare i limiti
del modello classico per un moderno stato liberale. A suo parere, infatti, la
democrazia ateniese fu minata dai conflitti di classe e dalla mancanza di una
disciplina economica capace, come avviene nelle società evolute, di mantenere la
libertà insieme all'ordine sociale. Questo tipo di problematiche ci avvicinano a quelle
che sono tuttora oggetto di dibattito. Se in genere la democrazia ateniese è oggetto più
di ammirazione che di critica, non si manca di notare, da parte degli studiosi più
autorevoli (Domenico Musti, Oswin Murray, Christian Meier) che la struttura più
compatta della società antica implica che in essa l'esercizio della politica si svolga in
modo diverso rispetto al mondo moderno. Alle differenze fra la democrazia antica (in
ispecie ateniese) e quella contemporanea ha dedicato un saggio particolarmente
penetrante Moses Finley (La democrazia degli antichi e dei moderni, 1972), che pone
con nettezza il problema della mancanza di partecipazione alla vita politica del
cittadino di oggi, a differenza di quello del mondo classico.

Le critiche ad Atene, modello negativo di organizzazione politica.


Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto n. 31, gennaio-aprile 1997.

Bibliografia essenziale
J. Bleicken, Die athenische Demokratie, Schòningh, Paderborn, Miinchen, Wien-
Zùrich 1986.
M. Hansen, Athenian democracy in the ago of Demosthenes, Blackwell,
Oxford&Cambridge, Mass. 1993.
Chr. Meier, La nascita della categoria del politico in Grecia, il Mulino, Bologna
1988.
Chr. Meier, P. Veyne, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia, il Mulino,
Bologna 1988.
E. Meiksins Wood, Contadini-cittadini&schiavi. La nascita della democrazia
ateniese, Il Saggiatore, Milano 1994.
O. Murray, La città greca, Einaudi, Torino 1993.
D. Musti, Demokratía. Origini di un'idea, Laterza, Roma-Bari 1995.
I. Ober, Mass and elite in democratic Athens: rhetoric, ideology and the power of the
people, Princeton University Press, Princeton 1989.
M. Ostwald, From popular sovereignty to the sovereignty of law: law, society and
politics in fifth-century Athens, University of California Press, Berkeley-Los Angeles
1986.
J. Tolbert Roberts, Athens on trial. The antidemocratic tradition in western thought,
Princeton University Press, Princeton 1994.
P. Vidal-Naquet, La democrazia greca nell'immaginario dei moderni, Il Saggiatore,
Milano 1996.

    

La democrazia ateniese è una follia


Tucidide, La guerra del Peloponneso, VI, 89.

Tucidide riferisce il discorso tenuto da Alcibiade, a Sparta, nel 414, dopo che era
stato allontanato dal comando della spedizione ateniese in Sicilia.
Noi [ateniesi] siamo sempre stati ostili ai tiranni, e tutto quello che si oppone a un
dominatore è chiamato democrazia, e da questo fatto restò a noi la guida del popolo.
Inoltre, quando una città era governata da una democrazia, spesso era necessario
adattarsi alla situazione. E nell'agire pubblico cercammo di essere più moderati di
quanto non comportasse la sfrenatezza che vi era. Altri vi erano, anticamente e ora,
che spingevano la folla alle azioni più disoneste e costoro scacciarono anche me. Noi
eravamo alla testa di tutti i cittadini, convinti che dovevamo conservare quella forma
di governo per cui la città era grande e libera, e che ci era stata tramandata, giacché
noi, che avevamo un po' di intelligenza, sapevamo che cosa fosse la democrazia e io
stesso non meno degli altri, in quanto potrei anche insultarla. Ma su una riconosciuta
pazzia non si potrebbe dire nulla di nuovo; e il cambiare quella forma di governo non
ci pareva sicuro quando voi ci assalivate come nemici.

La democrazia è il governo della canaglia


In: Anonimo ateniese – a cura di L. Canfora, La democrazia come violenza,
Sellerio, Palermo 1982

A. A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico, che consenta
alla canaglia di star meglio della gente per bene. Poiché però l’hanno scelto, voglio
mostrare che lo difendono bene il loro sistema, e che a ragion veduta fanno tutto
quello che gli altri Greci disapprovano.
Dirò subito che è giusto che lì i poveri e il popolo contino più dei nobili e dei ricchi:
giacché è il popolo che fa andare le navi e ha reso forte la città. E lo stesso vale per i
timonieri, i capi rematori, i comandanti in seconda, i manovratori, i carpentieri: è a
tutta questa gente che la città deve la sua forza, molto più che agli opliti, ai nobili, alla
gente per bene. Stando così le cose, sembra giusto che le magistrature siano
accessibili a tutti — sia quelle sorteggiate che quelle elettive —, e che sia lecito, a
chiunque lo voglia, di parlare all’assemblea.
Ancora. Il popolo non ama rivestire quelle magistrature dalla cui buona gestione
dipende la sicurezza di tutti e che invece, se rette male, comportano rischi: perciò
esclude dal sorteggio il comando dell’esercito e il comando della cavalleria. Queste
cariche preferisce lasciarle ai più capaci. Invece cerca di rivestire tutte quelle che
comportano uno stipendio ed un profitto immediato.
C’è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più spazio alla canaglia,
ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gente per bene: ma è proprio così che
tutelano — come vedremo — la democrazia. Giacché appunto, se stanno bene e si
accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia.
Quando invece il popolo consente che prosperino i ricchi e la gente per bene, non fa
che rafforzare i propri nemici. Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono i
nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di
ingiustizia, e il massimo di inclinazione al bene; nel popolo invece c’è il massimo di
ignoranza, di disordine, di cattiveria: la povertà li spinge all’ignominia, e così la
mancanza di educazione e la rozzezza, che in alcuni nasce dall’indigenza.

B. Uno però potrebbe dire che non li si doveva lasciar parlare tutti
indiscriminatamente all’assemblea, o accedere al Consiglio, ma consentire ciò solo ai
più bravi e ai migliori.

A. No. Proprio perché all’assemblea lasciano parlare anche la canaglia, si regolano


nel modo migliore. Se all’assemblea parlasse la gente per bene, o partecipasse ai
dibattiti del Consiglio, gioverebbe ai propri simili, non al popolo. Ora invece può
levarsi a parlare qualunque ceffo e perciò persegue l’utile suo e dei suoi simili.

B. Si potrebbe obiettare: ma un tipo del genere come può capire ciò che conviene a lui
o al popolo?
A. Ma loro capiscono che la stupidità, la ribalderia, la complice benevolenza di costui
giova di più che la virtù, la saggezza e l’ostilità della gente per bene. Naturalmente
una città dove si vive così non è la città ideale! Però è proprio questo il modo migliore
per difendere la democrazia.

B: Il popolo non vuoi essere schiavo in una città retta dal buongoverno, ma essere
libero e comandare: del malgoverno non gliene importa nulla.

A: Ma proprio da quello che tu chiami "malgoverno" il popolo trae la sua forza e la


sua libertà. Certo, se è il buongoverno che tu cerchi, allora lo scenario è tutt’altro:
vedrai i più capaci imporre le leggi, e la gente per bene la farà pagare alla canaglia, e
sarà la gente per bene a prendere le decisioni politiche, e non consentirà che dei pazzi
siedano in Consiglio o prendano la parola in assemblea. Così in poco tempo, con
saggi provvedimenti del genere, finalmente il popolo cadrebbe in schiavitù.

[...]

Io dico dunque che "il Popolo di Atene" sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla
canaglia. Ma, pur sapendolo, predilige quelli che gli sono benevoli ed utili, anche se
sono canaglie, e la gente dabbene la odia proprio in quanto per bene: pensano infatti
che la virtù, nella gente per bene, sia nata per nuocere al popolo, non per giovargli.

B: Al contrario però, ci sono alcuni che, pur essendo di nascita innegabilmente


popolare, hanno nondimeno una natura diversa da quella del popolo.

A: Ma io al popolo la democrazia gliela perdono! È comprensibile che ciascuno


voglia giovare a se stesso. Chi invece, pur non essendo di origine popolare, ha scelto
di operare in una città governata dal popolo piuttosto che in una oligarchica, costui è
pronto ad ogni malazione, e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua ribalderia
in una città democratica anziché in una città oligarchica. Insomma, per quel che
riguarda il sistema politico ateniese, io dico che non mi piace affatto, ma che — dal
momento che loro hanno voluto un regime democratico — lo difendono bene, agendo
appunto nel modo che ho descritto.

[...]

A. Molto si può fare in Atene col danaro, e ancor più si potrebbe se se ne desse di più.
Però so bene che la città non sarebbe ugualmente in grado di sbrigare gli affari di tutti
i postulanti, qualunque somma di argento o di oro uno offrisse. E poi c’è da giudicare
quest’altro genere di cause: se uno non ha riparato la nave, o costruisce su suolo
pubblico; e poi occorre dirimere le liti per l’assegnazione dell’allestimento dei cori
per le varie feste: Dionisie, Targelie, Panatenee, Prometie, Efestie – il tutto ogni anno.
Ogni anno vengono eletti quattrocento trierarchi, e anche tra costoro si debbono
regolare ogni anno le eventuali controversie. E poi debbono sottoporre all’esame i
magistrati ed espletare i relativi processi, fare l’esame degli orfani e nominare i
guardiani delle prigioni. Anche questo ogni anno. Poi, di tanto in tanto, debbono
sbrigare processi per diserzione, o se si verifica improvvisamente qualche crimine, o
si compiono insoliti oltraggi o atti di empietà. E tralascio molte altre cose: ho citato
quelle più grosse, tranne la definizione dei tributi (che avviene ogni quattro anni).
[...]
B: Secondo me c’è ancora un altro campo in cui gli Ateniesi si comportano male:
quello della politica estera. Quando ci sono città divise da lotte civili, loro si schierano
sempre con gli elementi peggiori.

A: Ma lo fanno a ragion veduta. Se si schierassero coi migliori, sceglierebbero di non


appoggiare quelli che nutrono le loro stesse aspirazioni. Giacché in nessuna città
l’elemento migliore è favorevole al popolo, bensì — dovunque — l’elemento
peggiore: il simile favorisce il proprio simile. È per questo che gli Ateniesi scelgono
sempre ciò che si addice loro. Ogni volta che hanno tentato di schierarsi coi migliori,
è andata male. Per esempio in Boezia: in poco tempo, il popolo è caduto in servitù.
Un’altra volta, a Mileto, quando vollero appoggiare i migliori, questi poco dopo
defezionarono e fecero a pezzi i democratici. E quando si schierarono con gli Spartani
contro i Messeni, accadde che, poco dopo, gli Spartani — piegati i Messeni — erano
in guerra con gli Ateniesi.
I giudici sono al servizio dei demagoghi
Aristofane, Le vespe, w. 548-558

Il commediografo Aristofane (V secolo a.C.) critica gli eccessi della democrazia


ateniese con questa satira del sistema giudiziario. Chi parla è un cittadino-giudice.
Ecco subito, fin dall'inizio, dimostrerò che il nostro potere non è inferiore ad alcun
regno. E che c'è di più felice e di più beato di un giudice? Quale essere più viziato e
terribile, specialmente se vecchio? Anzitutto, quando la mattina esco dal letto, uomini
grandi e importanti mi aspettano all'uscio. E subito, appena mi avvicino, qualcuno mi
tende la tenera mano, che ha rubato denaro pubblico. E mi supplicano, prostrandosi,
con voce pietosa: "Abbi pietà di me, padre, ti scongiuro, se mai altra volta tu stesso
rubasti, o ricoprendo una carica o sotto le armi facendo il fornitore per i compagni". E
costui non saprebbe nemmeno che io esisto, se non l'avessi già salvato una volta.

Benjamin Constant     


Ad Atene l'individuo era asservito alla società

Benjamin Constant mette in chiaro come in Grecia non ci fosse considerazione per la
libertà individuale, ritenuta una conquista della società moderna, ma solo per quella
politica, intesa come partecipazione diretta alla gestione degli affari dello stato.
Il commercio ispira agli uomini un intenso amore per la libertà individuale. Il
commercio provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, senza l'intervento
dell'autorità. [...] Atene era, fra tutti gli stati greci, il più attivo nel commercio e
accordava perciò ai suoi cittadini una libertà individuale molto più ampia che non a
Roma e a Sparta. [...] Tuttavia, poiché molte delle altre circostanze che decidevano
del carattere delle nazioni antiche sussistevano anche ad Atene; poiché esisteva una
popolazione di schiavi e il territorio era molto limitato, vi ritroviamo alcuni aspetti
della libertà propria degli antichi. II popolo fa le leggi, esamina la condotta dei
magistrati, chiama Pericle alla resa dei conti, condanna a morte i generali che avevano
combattuto la battaglia delle Arginuse. Allo stesso modo, l'esistenza dell'ostracismo,
questo arbitrio che a noi pare, come deve apparire, una rivoltante iniquità, prova che
l'individuo ad Atene era asservito alla supremazia del corpo sociale molto più di
quanto lo sia oggi negli stati liberi dell'Europa. Da quanto ho finora esposto, risulta
che noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che si basava sulla
partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve basarsi sul
pacifico godimento dell'indipendenza privata. La parte di sovranità nazionale che
spettava a ciascuno nell'antichità non era affatto, come lo è oggi, una ipotesi astratta.
La volontà di ciascuno aveva un'influenza reale: l'esercizio di questa volontà
costituiva un piacere vivo e ripetuto. Di conseguenza, gli antichi erano disposti a fare
molti sacrifici per la conservazione dei loro diritti politici e della loro partecipazione
all'amministrazione dello stato. Ognuno, rendendosi conto con orgoglio di quanto
valeva il suo suffragio, trovava in questa coscienza della sua importanza un ampio
indennizzo. Oggi questo indennizzo per noi non esiste più. Disperso nella moltitudine,
l'individuo quasi mai si rende conto dell'influenza che esercita. Mai la sua volontà
impronta di sé la collettività, niente prova ai suoi occhi la sua cooperazione.
L'esercizio dei diritti politici ci offre, dunque, solo una parte dei vantaggi che gli
antichi vi scorgevano, e allo stesso tempo, i progressi della civiltà, la tendenza della
nostra epoca al commercio, la comunicazione dei popoli fra loro, hanno moltiplicato
all'infinito i mezzi del benessere privato. B. Constant, La libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni, discorso pronunciato all'Università di Parigi nel
1819, in A. Zanfarino (a c. di), Constant. Antologia di scritti politici, il Mulino,
Bologna 1963, pp. 43-45.
Cicerone     
Superiorità della costituzione romana rispetto a
quella ateniese

Cicerone loda la costituzione romana perché l'assemblea popolare, a differenza di


quella ateniese, non ha potere deliberativo.
Che splendida tradizione e normativa abbiamo ricevuto dai nostri antenati, se pure
sapessimo a esse mantenerci fedeli! [...] Quei nostri concittadini pieni di saggezza e di
virtù rifiutarono qualunque potere deliberativo dell'assemblea popolare: si trattasse di
plebiscito o di legge del popolo, facevano allontanare l'assemblea, assegnavano
diversi posti dove riunirsi, distribuivano in tribù e centurie gli ordini sociali, le classi e
i cittadini a seconda dell'età, ascoltavano gli autori della proposta di legge, che
rimaneva pubblicata all'albo per molti giorni perché fosse ben conosciuta: solo dopo
tutto ciò si approvava per votarla o per respingerla. Gli stati greci sono invece
governati esclusivamente dalla capricciosa volontà di un'assemblea che siede per
deliberare. E così, per non parlare della Grecia di oggi, che già da tempo è
rovinosamente precipitata in basso per le sue stesse deliberazioni, quell'altra antica,
una volta così fiorente per potenza, dominio e gloria, dovette la sua caduta a questo
solo malanno: la libertà senza freno e la licenza delle assemblee. Perché quando gli
ignoranti, che erano, nella loro rozzezza, completamente all'oscuro di ogni questione,
sedevano in teatro riuniti in assemblea, era allora che intraprendevano delle guerre
inutili, allora che ponevano alla testa dello stato dei sediziosi, allora che cacciavano in
esilio dei cittadini pieni di benemerenze verso la patria. Cicerone, In difesa di Racco,
15-16

William Mitford     


La schiavitù fu fatale per la democrazia ateniese

Secondo lo storico inglese Mitford, il fatto che ad Atene i molti poveri non lavoravano
per i pochi ricchi impedì il formarsi di un legame di solidarietà sociale, che alla fine
risultò fatale per il regime democratico.
In circostanze quali erano quelle della repubblica ateniese, i ricchi e i poveri non
potevano ovviamente vivere in armonia. [...] In effetti, quando l'equilibrio della
costituzione di Solone venne distrutto e il potere supremo divenne in questo modo
assoluto nelle mani di nullatenenti, o piuttosto nella mani di un qualche demagogo che
riusciva sul momento a capeggiarli, anche gli interessi di tutti coloro che avevano
delle proprietà rese inevitabilmente costoro dei cospiratori, ostili al governo esistente.
In verità, in tutta la Grecia i nobili e i ricchi, serviti dai loro schiavi non solo in qualità
di domestici, ma anche di contadini e di artigiani, ebbero ben pochi rapporti con la
massa dei più poveri, se non per comandarla, negli stati oligarchici, o per intimorirla,
adularla, corromperla, ingannarla o essere da lei comandata, negli stati aristocratici.
Nessuno, o ben pochi furono gli interessi comuni che unirono queste due categorie di
uomini: cosicché per conservare l'ordine civile e tenere unito lo stato, l'adulazione e la
corruzione erano i soli mezzi che potevano persuadere questa moltitudine, e l'unica
alternativa era la violenza. Di qui l'impossibilità di far durare l'armonia, di qui quella
facilità al conflitto estremo che le repubbliche greche hanno dimostrato in modo così
impressionante. W. Mitford, The history of Greece, London 1814, trad. it., E.
Meiksins Wood, Contadini-cittadini&schiavi. La nascita della democrazia ateniese,
Il Saggiatore, Milano 1994, p. 29.

Platone     
In un regime democratico la libertà diventa anarchia

Platone svolge nella Repubblica (inizio IV secolo a.C.) una critica severa ai processi
degenerativi che mettono a repentaglio uno stato retto da una democrazia. A parlare
è Socrate rivolto a un interlocutore.
Credo che la democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria,
ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a
condizioni di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi sono determinate
per lo più con il sorteggio. [...I In uno stato democratico sentirai dire che la libertà è il
bene migliore e che soltanto colà dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente
libero. Ebbene, l'insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto non mutano anche
questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide? Quando,
credo, uno stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e
troppo s'inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai
miti e non concedano grande libertà, li pone in stato d'accusa e li castiga come
scellerati e oligarchici. E coloro che obbediscono ai governanti li copre di improperi
trattandoli da gente contenta di essere schiava e buona a nulla, mentre loda e onora
privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili ai governati e i governati
che sono simili ai governanti. Non è inevitabile che in uno stato siffatto il principio di
libertà si allarghi a tutto? E così, mio caro, dissi, vi nasce l'anarchia e si insinua nelle
dimore private e si estende fino alle bestie. Platone, Repubblica, libro VIII.

August Boeckh     


La cittadinanza oziosa è alla base della democrazia
ateniese

Per August Boeckh, la democrazia ateniese fu una mescolanza di cupidigia e di


brama di potere.
Sebbene gli ateniesi realizzarono le più splendide opere che siano mai state concepite
dalla mente dell'uomo, le loro energie non potevano essere del tutto impiegate per tali
nobili oggetti: volevano essere soddisfatti anche gli insaziabili desideri dei cittadini di
condizione inferiore: chi con stipendi e donazioni, in tempo di pace, si era abituato
all'indolenza e all'idea che lo stato era tenuto a mantenerlo; e quando, con questi
mezzi, i ceti più bassi furono messi in condizione di partecipare all'amministrazione
dello stato, l'influenza della democrazia si estese a poco a poco. I loro statisti si
sforzarono sempre di trovare qualche sistema che permettesse alle masse di arricchirsi
ed essere mantenute con le rendite pubbliche, piuttosto che con la semplice operosità
e capacità individuale; dal momento che i beni pubblici erano considerati un
possedimento privato da godere in comune, i cui profitti andavano distribuiti tra i
componenti dello stato. E ancora sembrerebbe che donativi e salari non siano affatto
meno necessari di quanto lo siano per gli stati in cui è istituita la schiavitù. Il degrado
della maggior parte degli abitanti conferisce potere a coloro che siano liberi di
ottenere i propri mezzi di sussistenza dal lavoro degli schiavi; perché è in questo
modo che essi hanno sufficiente tempo libero per occuparsi degli affari dello stato;
mentre in paesi in cui la schiavitù non esiste, i cittadini, costretti a lavorare per la
propria sussistenza, hanno meno possibilità di occuparsi degli affari del governo. [...]
Pericle avevo reso i suoi concittadini avidi e indolenti, ciarlieri ed effeminati, smodati,
viziosi e sregolati proprio con il mantenerli a spese pubbliche e donativi, salari e
cleruchie e con il lusingare i loro sensi e l'amore del piacere con suntuose cerimonie.
A. Boeckh, L'economia pubblica di Atene, Berlin 1817, trad. it., E. Meiksins Wood,
op. cit., pp. 35-36.

Moses I. Finley     


Sono auspicabili oggi nuove forme di partecipazione
popolare?

Secondo Finley, il confronto con la democrazia ateniese rende particolarmente


evidente come il cittadino di uno stato moderno sia apatico nei confronti della vita
politica.
Qualsiasi confronto diretto con una società piccola, omogenea, face-to-face, come
l'antica Atene sarebbe assurdo: assurdo sarebbe proporre o persino sognare di
restaurare un'assemblea cittadina e di farne l'organo decisionale supremo di una città o
di una nazione moderna. Non è certo questa la soluzione che ho preso in esame che
nasce invece da una valutazione dell'apatia politica. Apatia e ignoranza politica sono
oggi un dato fondamentale, al di là di ogni possibile discussione; le decisioni non
sono il frutto del voto popolare, che al massimo ha un occasionale potere di veto a
fatto compiuto, ma sono prese dai leader politici. Il punto è stabilire se nella
situazione odierna questo stato di cose è necessario e auspicabile o se forme nuove di
partecipazione popolare, ateniesi nello spirito se non nella sostanza – se così mi posso
esprimere –, devono invece essere inventate. M. Finley, La democrazia degli antichi e
dei moderni, A. Mondadori, Milano 1992, p. 36, ed. orig. New York 1972.

Giovanni Sartori     


La democrazia antica ha prodotto solo un animale
politico

Il politologo Giovanni Sartori è dell'avviso che le democrazie moderne, che si basano


su un sistema "indiretto" di partecipazione alla vita politica, offrono dei vantaggi
rispetto a quella greca, soprattutto perché sono al riparo dalle forme estreme di
radicalizzazione dovute all'eccesso di partecipazione
Si deve avvertire che l'autogoverno, quello vero, quello che praticavano i greci,
comporta una totale devozione del cittadino al pubblico servizio: governarsi da sé
vuoi dire passare la vita governando. [...] L'assorbente politicità richiesta dalla
conduzione in proprio dei pubblici affari crea un profondo e insanabile squilibrio tra
le varie necessità e funzioni della vita associata, poiché a una ipertrofia della vita
politica corrisponde inevitabilmente l'atrofia della vita economica. Di tanto questa
democrazia si perfezionava, di altrettanto i suoi cittadini diventavano più poveri. Né la
polis greca aveva modo di sfuggire al circolo vizioso nel quale si aggirava, che era di
cercare un rimédio politico al malessere economico, di provvedere con la confisca
delle ricchezze alla insufficiente produzione di ricchezza. La democrazia antica era
fatalmente destinata a naufragare nella lotta di classe tra ricchi e poveri, proprio
perché allevava solo un animale politico e non anche un homo oeconomicus. G.
Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1975, p. 159.

Numa Denis Fustel de Coulanges     


Nella democrazia greca la corruzione era inevitabile

Nella democrazia greca la corruzione era inevitabile, perché non esisteva un sistema
che fosse in grado di mantenere l'ordine tra le classi.
[Ad Atene] poiché non c'era nessuna autorità che si levasse sopra i ricchi e i poveri
insieme, e che potesse costringerli a rimanere in pace, sarebbe stato desiderabile che i
principi economici e le condizioni del lavoro fossero stati tali che le due classi fossero
costrette a vivere in buon accordo. Sarebbe stato necessario, per esempio, che
avessero avuto bisogno l'una dell'altra; che il ricco non potesse arricchirsi se non
domandando al povero il suo lavoro e che il povero trovasse i mezzi per vivere dando
il suo lavoro al ricco. Allora, la disuguaglianza degli averi avrebbe stimolato l'attività
e l'intelligenza dell'uomo, invece di generare la corruzione e la guerra civile. [...] Il
cittadino trovava impiego, poco lavoro; la mancanza di occupazioni lo rese presto
pigro. Poiché non vedeva lavorare che schiavi, disprezzava il lavoro; così le abitudini
di economia, le regole morali, i pregiudizi, tutto si univa insieme per impedire al
povero d'uscire dalla miseria e di vivere onestamente. La ricchezza e la povertà non
erano stabilite in modo da poter vivere in pace. [...] Il povero cominciò con
l'impegnarsi a vivere del suo diritto di voto. Chiese di essere pagato per prendere parte
alle assemblee, o per risolvere cause nei tribunali. Se la città non era sufficientemente
ricca per permettersi una spesa di questo tipo, il povero aveva un'altra risorsa.
Vendeva il suo voto e, se le occasioni di votare erano frequenti, poteva vivere. N.D.
Fustel de Coulanges, La città antica, Vallecchi, Firenze 1924, p. 433; ed. orig. Paris
1864.

Édouard-René Laboulaye     


La libertà ateniese si identifica con il governo dello
Stato
La democrazia greca privilegia la partecipazione alla vita politica, rispetto alla tutela
dei diritti individuali.
[Presso i greci] le persone agiate, i proprietari che vivono delle loro entrate e del
lavoro degli schiavi devono comporre essi soli l'elemento attivo della città: il resto è
fatto per ubbidire. La più democratica repubblica greca non è che una stretta
aristocrazia. Questa classe di privilegiati è quella che comanda: essa fa le leggi,
delibera la pace e la guerra, nomina i generali, e quando è il caso, li destituisce e li
giudica. Tutto muove dal popolo e a esso mette capo. Questo potere che si esercita
sulla pubblica piazza è quello che Aristotele e i greci chiamano con il nome di libertà:
essere liberi, ad Atene, vuole essere uno dei membri del sovrano. [...] Ad Atene dove
il principe è l'insieme dei cittadini non saremo punto sorpresi che la legge regoli la
religione, l'educazione e perfino la proprietà dell'ultimo ateniese. Di qui lo strano
spettacolo di un popolo a un tempo liberissimo e schiavo; libero sino alla sovranità, in
quanto riguarda il governo, schiavo quanto alla religione, all'educazione, a tutto il
modo di vivere. Sparta si crede libera ed è un vero convento di soldati. Gli antichi non
si sono giammai sollevati più in là di questo limite: i greci e i romani nulla avrebbero
compreso della nostra teoria dei diritti personali. Appo loro il cittadino è fatto per lo
stato, non lo stato per il cittadino. L'esistenza di interessi speciali, non dipendenti da
interessi comuni, sarebbe stata ad Atene e Roma un'eresia. Membro del sovrano il
cittadino ha tutti i pesi e tutti i doveri della sovranità. L'esiguità delle città greche
diminuiva il pericolo di questo sistema e non ne faceva avvertire che la grandezza. E.
Laboulaye, La libertà antica e la libertà moderna, Paris 1868, "Biblioteca di Scienze
Politiche", s. I, vol. V, Torino 1895, pp. 471-472.

Arnaldo Marcone     


La democrazia ateniese

La storia della democrazia ateniese dura per poco meno di due secoli. Il suo inizio può
essere fissato alla fine del VI secolo a.C. e, più precisamente, al 507, data delle
riforme di Clìstene che, secondo quanto sostiene Erodoto, la nostra fonte più antica,
"istituì per gli ateniesi le tribù e la democrazia" (Storie, VI, 131). La sua conclusione
si fissa al 322 a.C., allorché si concluse con un insuccesso il tentativo di Atene di
ribellarsi alla Macedonia. Stabiliti questi limiti cronologici fondamentali, vanno
comunque introdotte ulteriori periodizzazioni e puntualizzazioni. Antesignano della
democrazia, era considerato dagli stessi ateniesi Solone, che, all'inizio del VI secolo,
in un momento decisivo di superamento dell'assetto istituzionale della città-stato
aristocratica, realizzò alcune riforme per porre rimedio a una situazione di grave
tensione sociale. Dal punto di vista politico Solone introdusse alcune novità che
avrebbero visto notevoli sviluppi in futuro. La stessa suddivisione del corpo civico, in
quattro classi a seconda del censo, rappresentava un progresso rispetto all'epoca in cui
l'unico criterio di valutazione dei cittadini era quello del sangue. Anche i teti poi, i
contadini poveri che non potevano accedere alle magistrature, avevano diritto di
sedere in assemblea e di far parte del tribunale del popolo (eliea), mentre venivano
ridotte le competenze dell'areopago, l'organismo fondamentale di governo dell'Atene
aristocratica.
Le riforme di Clìstene furono realizzate dopo la parentesi rappresentata dalla tirannide
di Pisistrato e dei suoi figli. Esse avevano come scopo quello di spezzare il predomino
degli aristocratici: essenziale in questo senso risultò il raggruppamento della
popolazione in dieci tribù (secondo il nesso già chiaro a Erodoto nel passo citato
prima), il più possibile omogenee tra di loro. Quanto allo sviluppo della democrazia in
quanto tale, si è soliti contrapporre una prima fase moderata, che va dal 507 al 462, a
una radicale, posteriore a questa data. Nel 462, infatti, un leader democratico, Efialte,
realizzò una riforma dell'areopago, il consiglio formato dagli ex arconti e che
rappresentava l'ultima roccaforte della nobiltà. I suoi restanti poteri furono di fatto
trasferiti alle assemblee popolari.
La democrazia ateniese conobbe il suo apogeo durante quella che è nota come età
periclea. Scoppiata la guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, nel 431, e morto
Pericle due anni dopo, le vicende del regime democratico appaiono subordinate agli
sviluppi della situazione politica. Per ben due volte, nel 411, e nel 404-403, dopo la
sconfitta finale nella guerra del Peloponneso, ad Atene fu introdotto un regime di
stampo oligarchico. In entrambi i casi si trattò di esperimenti di breve durata. Il
carattere della democrazia ateniese nel IV secolo è controverso, ma non è fuor di
luogo affermare che essa raggiunse un certo grado di stabilità interna che fu sconvolta
solo dall'intervento macedone negli affari interni della Grecia.
Una prima considerazione che può apparire sorprendente è che non abbiamo
attestazioni di una compiuta teoria politica, che si sia fatta portatrice o promotrice
della costituzione democratica. Un ulteriore aspetto di cui si deve tener conto è che gli
ordinamenti democratici, che si realizzarono al di fuori di Atene a partire della
seconda metà del V secolo, furono introdotti per l'influenza, se non la pressione, di
Atene stessa. Va inoltre tenuto presente che il termine demokratía non è
contemporaneo alla democrazia. Tale termine compare nelle nostre fonti
relativamente tardi, attorno alla metà del VI secolo (una delle sue prime attestazioni è
proprio il passo di Erodoto citato). E oggetto di discussione se esso sia entrato nell'uso
comune solo in quel periodo: la sua assenza dalle fonti, d'altra parte, si giustifica con
il fatto che mancano anche i contesti nei quali il termine sarebbe dovuto comparire.
Da un punto di vista etimologico, il significato del termine demokratía è trasparente:
"potere (krátos) del dêmos". Nel termine dêmos è tuttavia presenta una certa
ambiguità, dovuta al fatto che nelle fonti può essere impiegato tanto per designare il
popolo nel suo complesso, quanto una parte maggioritaria di esso contrapposta a un
gruppo privilegiato. Il fatto che la parola d'ordine dei "democratici" non fosse
originariamente demokratía, bensì isonomía, ovvero "parità di diritti", in quanto
parità, uguaglianza di fronte alla legge, al nómos, si spiega in base alla storia dei
concetti politici e della loro evoluzione.

Democrazia come uguaglianza


La città-stato arcaica, nella quale si deve presupporre una situazione di notevole
compattezza sociale con modeste differenziazioni socio-economiche, aveva come
concetti cardine di riferimento della sua organizzazione interna quelli di díke
(giustizia) e di eunomía (buon ordine). L'affermarsi nel mondo greco tra VII e VI
secolo delle tirannidi, dovuto al modificarsi dei rapporti sociali nelle varie città in
relazione anche a un accresciuto livello di ricchezza, portò al rovesciamento di questo
"ordine giusto". La tirannide era considerata la forma peggiore di governo perché si
sottraeva al vinco-lo della legge e si imponeva con la forza ai cittadini. Facendo
riferimento al caso di Atene, il rovesciamento della tirannide alla fine del VI secolo
non poteva significare il ritorno alla situazione precedente, perché la maggioranza dei
cittadini si era ormai resa consapevole dei propri diritti nella gestione della cosa
pubblica. Ecco allora la forte sottolineatura del concetto di uguaglianza, come emerge
bene anche da un passo di Erodoto, ove è questione di un fittizio dibattito sulla
migliore forma di costituzione (Storie, III, 80): "Il governo del popolo ha innanzi tutto
il nome più bello del mondo, l'uguaglianza dinanzi alla legge (isonomía); esso esercita
le magistrature, ha un potere soggetto a controllo e presenta tutte le proposte
all'assemblea generale".
Che all'origine dell'idea greca di democrazia ci fosse una forte sottolineatura del
concetto di uguaglianza è provato da altri neologismi coevi in cui pure compare la
radice ísos (uguale): isegoría (uguale diritto di parola, in particolare davanti
all'assemblea); isogonía (uguaglianza di nascita); isokratía (uguaglianza di potere);
isópsephos (ugual diritto di voto). Si noti, in proposito, come tra queste rivendicazioni
di uguaglianza non ce ne sia una specifica che riguardi l'uguaglianza dei beni,
un'istanza in linea di massima meno sentita nelle democrazie antiche. Il vero
problema per i democratici antichi è quello di offrire un'uguale posizione politica di
partenza ai poveri come ai ricchi, e non di livellare le fortune. Tuttavia l'esito delle
riforme di Clìstene fu profondo anche a livello di organizzazione di ridefinizione dello
spazio civico e nella realizzazione di una nuova comunità che incarnava dentro di sé
questi nuovi valori di uguaglianza. Negli studi più recenti si tende a riconoscere come
la democrazia-isonomía abbia dato origine a nuovi moduli abitativi, nei quali si
realizza non solo l'uguaglianza ma anche l'armonia.

La mancanza di una teoria politica compiuta. Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto


n. 31, gennaio-aprile 1997.

Aristotele     

La democrazia radicale periclea

Gli storici antichi e moderni concordano sul fatto che le riforme di Pericle furono
determinanti nell'imprimere alla democrazia greca una svolta in senso radicale.
Particolarmente rilevante apparve l'introduzione di una paga (due oboli al giorno)
per i giudici dei tribunali.

In seguito, allorché Pericle prese la direzione del partito popolare [...] la costituzione
diventò ancora più democratica. [...] Pericle per primo stabilì che i giudici ricevessero
un'indennità gareggiando per il consenso popolare con la ricchezza di Cimone. [...]
Pericle, avendo sostanze molto inferiori per potersi permettere tale munificenza,
accolse [...] il suggerimento di distribuire al popolo quello che era del popolo, dal
momento che non ce la faceva a darglielo del suo: stabilì quindi un'indennità ai
giudici. E questo atto è posto da taluni sotto accusa quale origine del peggioramento
delle cose, dal momento che le persone qualunque mettevano sempre più zelo di
quelle perbene per far-si nominare giudici. E in seguito a questo che cominciò la
corruzione dei giudici. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 27, 1-5

Aristotele     
Ci sono varie forme di democrazia

Il filosofo Aristotele, che scrive circa un secolo dopo Tucidide, ed è pensatore


lucidamente realista, ha valutazioni molto articolate sulla democrazia e sui suoi
limiti. In primo luogo non esiste un'unica forma di democrazia. Nella democrazia
radicale, inoltre, sono i poveri che governano. Aristotele è chiaramente favorevole a
una democrazia moderata, fondata sul censo (soloniana).

Appare manifesto che tante sono le forme di aristocrazia e di democrazia. E


necessario, infatti, che o tutte le classi del popolo prendano parte al governo, o alcune
sì altre no. Perciò quando gli agricoltori o i proprietari di una modesta ricchezza sono
sovrani dello stato governano secondo le leggi (perché se lavorano hanno di che
vivere e non possono stare in ozio, e quindi, messa a capo di tutto la legge, convocano
le assemblee solo nei casi indispensabili), gli altri possono parteciparvi quando si
sono procurato il censo determinato dalle leggi: perciò tutti quelli che lo possiedono
possono parteciparvi. [...] Questa è una forma di democrazia per questi motivi: l'altra
forma è fondata sulla distinzione seguente: è possibile che a tutti quelli che sono di
natali incensurabili sia permesso di partecipare al governo, mentre invece vi
partecipano quelli che possono starsene in ozio: per ciò in una democrazia di tal sorta
le leggi imperano per la mancanza di entrate. La terza forma è che a tutti quanti sono
liberi è permesso prender parte al governo, ma in realtà non vi prendono parte per il
motivo ricordato sicché è necessario che anche in questi imperi la legge. Questa forma
di democrazia è quella che, in ordine di tempo, è sorta per ultima negli stati. Siccome
gli stati si sono molto ingranditi rispetto a quel che erano un giorno e c'è abbondanza
di entrate, tutti prendono parte al governo per la preponderanza della massa e vi
partecipano ed esercitano il loro diritto, perché possono starsene in ozio, anche i
poveri, in quanto ricevono la paga. Anzi è proprio questa massa di uomini che sta in
ozio: in effetti non li impedisce la cura degli affari privati, che invece impedisce i
ricchi, i quali per conseguenza non partecipano frequentemente all'assemblea e
neppure all'attività giudiziaria. Perciò la massa dei poveri diventa sovrana del governo
e non le leggi. Aristotele, Politica, IV, 6 (traduzione di R. Laurenti)

Tucidide     
Elogio della democrazia ateniese
Nel contesto della guerra del Peloponneso che, tra il 431 e il 403 a.C., oppose Atene
a Sparta, il grande storico ateniese Tucidide trascrive nella sua opera il discorso che
Pericle tenne in onore dei caduti durante il primo anno di guerra. Dopo aver
richiamato il dovere della memoria per gli antenati che costruiriono le istituzioni
democratiche, Pericle tesse l'elogio delle stesse, per le quali gli ateniesi stanno
combattendo.

37. Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo
più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili
spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di
fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di
parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione
dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo,
non per la provenienza da una classe sociale ma più che per quello che vale. E per
quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è
impedito dall’oscurità del suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti
con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci
nelle abitudini giornaliere, senza adirarci col vicino se fa qualcosa secondo il suo
piacere e senza infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono
spiacevoli ai nostri occhi.Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti
privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni, in particolare a
quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che, pur essendo non scritte, portano a
chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta.38. E abbiamo dato al nostro spirito
moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto
l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente
deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città giunge
ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri
uomini con non minor piacere che dei beni di qui.39. Ma anche nelle esercitazioni
della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti motivi. Offriamo la nostra città in
comune a tutti, né avviene che qualche volta con la cacciata degli stranieri noi
impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa (mentre un nemico che
potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne trarrebbe un vantaggio).
Ché la nostra fiducia è posta più nell’audacia che mostriamo verso l’azione (audacia
che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli inganni. E
nell’educazione, gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed esercizi di
raggiungere un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non per questo
ci rifiutiamo di affrontare pericoli equivalenti. Eccone la prova: neppure i Lacedemoni
invadono la nostra terra da soli, ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo
da soli i nostri vicini, di solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera,
combattendo con della gente che difende i propri beni.Le nostre forze unite per ora
nessun nemico le ha incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e
contemporaneamente per terra facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte
imprese. Se si scontrano con una piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di
averci respinti tutti, mentre se sono vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi.
Eppure, se noi siamo disposti ad affrontare pericoli più col prendere le cose
facilmente che con un esercizio fondato sulla fatica, e con un coraggio generato in noi
non più dalle leggi che dal nostro modo di agire, da questo fatto ci deriva il vantaggio
di non affaticarci anticipando i dolori che ci attendono, e di non apparire, quando li
affrontiamo, meno audaci di coloro che sempre si mettono a dura prova, e per la
nostra città il vantaggio di essere degna di ammirazione per questa e per altre cose.40.
Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza;
adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che per sciocco
vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo
è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari
pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività,
pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a
considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne interessa, e noi Ateniesi o
giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza
pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere
informati dalle discussioni prima di entrare in azione. E di certo noi possediamo anche
questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e
nel ponderare al massimo grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri
l’ignoranza produce audacia e il calcolo incertezza. È giusto giudicare superiori per
forza d’animo coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per
questo si lasciano spaventare dai pericoli. E anche per quanto riguarda la nobiltà
d’animo, noi ci comportiamo in modo opposto a quello della maggioranza: ci
procuriamo gli amici non già col ricevere i benefici ma col farli. Chi ha fatto il favore
è un amico più sicuro, in quanto è disposto con una continua benevolenza verso chi lo
riceve a tener vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore è meno
pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma per
pagare un debito. E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non tanto per
aver calcolato l’utilità del beneficio ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi.
41. Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che
ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente
personalità a ogni genere di occupazione, e con la più grande versatilità accompagnata
da decoro. E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto lo
indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo
modo di vivere. Sola tra le città di adesso, infatti, essa affronta la prova in modo
superiore alla sua fama, e lei sola al nemico che la assale non dà motivo di irritazione
quando costui considera da chi è vinto, né al suddito, motivo di disprezzo, come se
costui non fosse dominato da persone degne. Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza
con importanti testimonianze e molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e
dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può
dilettare per il momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite
sui fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili alla nostra
audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese fortunate o
sfortunate. Per una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non
esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia disposto ad
affrontare sofferenze per lei. Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro II 37-41
Rizzoli, Milano 1997

Aristotele     
Nella democrazia il criterio del numero prevale su quello del giusto
Aristotele, Politica, VI, 2 (traduzione di R. Laurenti)
Secondo Aristotele l'aspetto caratterizzante della democrazia è che in essa il criterio
del numero prevale su quello del giusto: i poveri perciò prevalgono sui ricchi. Il fatto
che poi, come è tipico della democrazia ateniese, le magistrature vengano
sorteggiate, va a discapito della competenza.

Base della costituzione democratica è la libertà (così si è soliti dire, quasi che in
questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il
fine di ogni democrazia). Una prova della libertà consiste nell'essere governati e nel
governare a turno: in realtà, il giusto in senso democratico consiste nell'avere
uguaglianza in rapporto al numero e non al merito, ed essendo questo il concetto di
giusto, di necessità la massa è sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è
questo il giusto: in effetti dicono che ogni cittadino deve avere parti uguali. Di
conseguenza succede che nelle democrazie i poveri siano più potenti dei ricchi perché
sono di più e la decisione della maggioranza è sovrana. E questo, dunque, un segno
della libertà che tutti i fautori della democrazia stabiliscono come nota distintiva della
costituzione. Un altro è di vivere ciascuno come vuole, perché questo, dicono, è opera
della libertà, in quanto che è proprio di chi è schiavo vivere non come vuole. Ecco
quindi la seconda nota distintiva della democrazia; di qui è venuta la pretesa di essere
preferibilmente sotto nessun governo o, se no, di governare e di essere governati a
turno: per questa via contribuisce alla libertà fondata sull'uguaglianza. Posti questi
fondamenti e tale essendo la natura del governo democratico, le seguenti istituzioni
sono democratiche: i magistrati li eleggono tutti tra tutti; tutti comandano su ciascuno
e ciascuno a turno su tutti: le magistrature sono sorteggiate o tutte o quante non
richiedono esperienza e abilità; le magistrature non dipendono da censo alcuno o
minimo; lo stesso individuo non può coprire due volte nessuna carica o raramente o
poche, a eccezione di quelle militari [Aristotele si riferisce alla carica di stratego che
non era sottoposta ai normali vincoli delle altre magistrature]; le cariche sono di breve
durata o tutte o quante è possibile; le funzioni di giudice sono esercitate da tutti.

Arnaldo Marcone     


Gli organismi della democrazia ateniese
Il funzionamento della giustizia
La principale assemblea ateniese è l'ekklesía. Essa è di fatto coincidente con lo stato
ateniese in quanto costituita dalla totalità di tutti i cittadini forniti di diritti politici.
Proprio per queste caratteristiche, l'ekklesía è anche sinonimo dell'ordinamento
politico della città, la democrazia. All'ekklesía aveva accesso ogni ateniese di sesso
maschile che fosse maggiorenne (avesse, cioè, più di 18 anni) e che fosse quindi
registrato, in quanto appartenente a un demo, come abilitato a svolgere attività
politica. L'ambito dei cittadini di pieno diritto era delimitato dal fatto che, a partire
dalla metà del V secolo a.C., ogni ateniese che volesse essere inserito in tale elenco
doveva dimostrare che tanto suo padre quanto sua madre erano ateniesi.
L'ekklesía si riuniva originariamente sulla piazza del mercato (agorà) a nord
dell'acropoli. Poiché questa sede si rivelò presto inadeguata ad accogliere tutti i
partecipanti, la sede dell'assemblea fu trasferita in una collina, la pnice, a ridosso
dell'acropoli, che forniva una sorta di auditorium naturale. I partecipanti in un primo
tempo sedevano sulla nuda roccia; solo più tardi su panchine di legno. L'assemblea
iniziava all'alba e poteva durare sino al tramonto. Non erano rari i casi di sessioni che
durassero un'intera giornata. L'assemblea popolare si riuniva relativamente spesso. Per
legge erano previste quaranta sedute l'anno. Poiché l'anno dell'ekklesía era ripartito in
dieci parti, dette pritaníe, anziché nei dodici mesi del calendario, questo significa che
c'erano almeno quattro sessioni dell'assemblea per ogni pritanía. Tra queste quattro ce
n'era una di particolare rilievo che fungeva da sessione principale.
L'ekklesía non aveva un ufficio di presidenza permanente. La pritania svolgeva le
funzioni di ufficio di presidenza indispensabili per la direzione dei lavori e per dare un
minimo di ordine all'assemblea. Il presidente della pritania (epistate), che mutava ogni
giorno, era anche il presidente dell'assemblea. Se la pritania aveva nel suo insieme
una funzione "presidenziale", l'epistate esercitava, per il giorno e la notte di
presidenza dell'assemblea, una funzione assimilabile a quella di "capo dello stato".
L'epistate veniva sorteggiato e non poteva mai esserlo per più di una volta. Per dare
un'idea dell'importanza attribuita dagli ateniesi a questo sistema, si deve tener
presente quale fu la sua evoluzione. Alla fine del V secolo si introdusse un'ulteriore
modifica per impedire la coincidenza tra presidente della pritania e presidente del
consiglio e, quindi, dell'assemblea. Lo scopo era quello di prevenire la possibilità del
determinarsi di qualsiasi forma di influenza politica dovuta alla identità tra le due
presidenze e alla continuità in carica del comitato di presidenza. Per ogni seduta
dell'assemblea e del consiglio si sorteggiavano nove próhedroi (presidenti), uno per
ciascuna delle nove tribù che in quel momento non avevano l'ufficio di presidenza.
Tra questi próhedroi si sorteggiava quindi il presidente della seduta del consiglio.

La boulé
La boulé, o consiglio dei cinquecento, è l'istituzione ateniese che più di ogni altra va
riconnessa alle riforme operate da Clìstene alla fine del VI secolo. Il consiglio era
infatti costituito da cinquanta membri per ciascuna della dieci tribù nelle quali era
suddivisa la popolazione dell'Attica. Poiché ogni tribù era a sua volta costituita da tre
trittíe, ciascuna delle quali raggruppava un certo numero di demi con una popolazione
complessiva il più possibile vicina, i cinquecento consiglieri rappresentavano tutta la
popolazione dell'Attica. Nella composizione della boulé, tesa a evitare la presenza di
gruppi di interesse precostituiti in rappresentanza di particolari ceti della popolazione,
si esprimeva dunque quell'idea di uguaglianza politica che era alla base della
concezione ateniese di democrazia. Essa era ulteriormente rafforzata dal fatto che tutti
i consiglieri erano scelti tramite sorteggio tra coloro i quali avessero avanzato la loro
candidatura.
Ad avere dignità magistratuale era il consiglio nel suo complesso, ma non il singolo
consigliere, anche se la sua posizione era ben distinta da quella di un semplice
cittadino. Ogni consigliere riceveva un'indennità di una dracma per ogni giorno di
seduta. Era esentato per tutta la durata della carica dal servizio militare e sedeva in
teatro in posti riservati. Il consiglio si riuniva ogni giorno, eccezion fatta per i giorni
festivi e quelli infausti. Poiché i giorni festivi in un anno erano circa sessanta si può
presupporre una media di circa trecento sedute l'anno. In linea di principio le sedute
del consiglio erano pubbliche. Luogo di riunione era un edificio costruito allo scopo
(bouleutérion) sul lato sud-occidentale dell'agorà. Accresciutosi a dismisura il
materiale documentario alla fine del V secolo, questo primo edificio fu trasformato in
archivio mentre al consiglio fu riservata una nuova sede, nell'aspetto simile a un
teatro. L'importanza particolare del consiglio derivava dal fatto che, con l'unica
eccezione degli strateghi, solo i componenti del consiglio potevano rivolgere proposte
al consiglio. Compito fondamentale del consiglio era quello di riunire il popolo e di
sottoporgli delle proposte. Questa attività di deliberazione preliminare rappresentava
l'aspetto decisivo nel processo di decisione politica. Un'ulteriore incombenza di primo
piano, che ricadeva sul consiglio, riguardava la giurisdizione. Il consiglio interveniva
in quelle questioni di rilevante interesse per lo stato che esulavano dalle competenze
dei tribunali ordinari (per esempio procedimenti contro magistrati o delitti di natura
politica). Il consiglio, infine, esercitava nel suo complesso una funzione di consulenza
e di supervisione dell'attività dei magistrati.
La funzione essenziale del consiglio era dunque di vagliare quelle che dovevano
essere le decisioni politiche e di trasmetterle all'ekklesía, ai magistrati e ai tribunali. E
evidente che una simile funzione non poteva essere assunta da cinquecento persone
operanti contemporaneamente, il consiglio si articolava nelle dieci parti, di cinquanta
membri ciascuna, di cui si è detto. Ciascuna pritania, o ufficio di presidenza, era in
carica per un decimo dell'anno, dunque per trentasei o trentasette giorni. I pritani
dovevano essere sempre a disposizione e, a tal scopo, disponevano di un locale
apposito, la thólos (rotonda), vicino a quello del consiglio, dove consumavano anche i
pasti. Un terzo dei pritani dovevano rimanere nella thólos anche di notte. Il presidente
della pritania veniva sorteggiato ogni giorno. I pritani dovevano predisporre l'ordine
del giorno dell'ekklesía e convocare le assemblee popolari: a loro si rivolgevano i
magistrati, gli stranieri, i semplici cittadini e gli ambasciatori per ogni necessità. La
pritania e attraverso di essa il consiglio erano gli organismi per opera dei quali si
garantiva al popolo capacità di decisione politica. Se non era un governo vero e
proprio, era tuttavia quanto di maggiormente avvicinabile a un governo nel senso
moderno del termine era ammesso dalla democrazia ateniese.

La giustizia
L'amministrazione della giustizia rappresenta un aspetto peculiare della democrazia
ateniese che può essere compreso sola attraverso un esame puntuale del suo
funzionamento. In particolare va tenuto presente che i giudici ateniesi non sono
giudici professionisti, ma cittadini comuni che emettono il loro verdetto senza alcuna
consulenza di specialisti. Giudice in Atene poteva essere qualunque cittadino che
avesse più di trent'anni. Nel V secolo il numero di coloro che avevano tali requisiti e
che erano disposti ad assumere le funzioni di giudici era così elevato che ogni anno si
doveva procedere al sorteggio dei seimila cittadini da assegnare ai vari tribunali.
Poiché i giudici sorteggiati rappresentavano idealmente la totalità della popolazione
ateniese, è evidente che nel sorteggio si teneva conto di una rappresentanza
equilibrata di ciascuna delle dieci tribù. Proprio perché espressione della sovranità
popolare, il singolo giudice non ha una funzione valutabile: la sua funzione è
legittimata solo all'interno della collettività giudicante. I giudici sorteggiati venivano
suddivisi in diversi tribunali (probabilmente dieci), le cui sedute potevano aver luogo
tutti i giorni tranne quelli festivi. I singoli tribunali avevano una diversa consistenza.
Per i processi pubblici erano previsti organi giudicanti composti da cinquecento
membri. Per i processi pubblici particolarmente importanti venivano riuniti più
blocchi di cinquecento così che potevano riunirsi insieme anche millecinquecento
giudici e oltre. Per le cause private ci si accontentava di collegi di duecento o
quattrocento giudici.
La procedura di assegnazione e di sorteggio dei giudici avveniva sull'agorà, sotto la
direzione dei tesmoteti. I sei tesmoteti avevano la responsabilità di stabilire i giorni
nei quali si doveva amministrare la giustizia e presentare al popolo le accuse di
cospirazione e le altre che riguardassero violazioni del diritto pubblico. In un giorno si
tenevano dibattimenti di cause solo pubbliche o solo private. Uno stesso tribunale
poteva deliberare in un giorno su più cause private, ma solo su una pubblica. I
processi dovevano concludersi necessariamente nell'ambito, di una giornata. Il
dibattimento aveva luogo sotto la direzione di un apposito funzionario, che aveva
come unica funzione di predisporne l'organizzazione e di far rispettare le procedure. Il
tribunale si riuniva in un locale chiuso alla presenza del pubblico che era diviso da
transenne dai giudici e dalle parti in causa.
Il sistema ateniese era congeniato in modo da dare il massimo spazio all'iniziativa
privata: in linea di principio ogni ateniese poteva presentare un'accusa pubblica.
L'unica forma di dissuasione era rappresentata dal fatto che, chi avesse presentato
un'accusa e non fosse riuscito a ottenere più di un quinto dei voti del tribunale, doveva
pagare un'ammenda di 1000 dracme e non gli era più consentito di sporgere accuse
dello stesso tipo. Rispetto all'accusa, la funzione del tribunale era passiva, perché non
poteva trasformare il capo di accusa ma soltanto, ascoltate le parti in causa, deliberare
per la condanna o l'assoluzione dell'imputato.
Un esempio illustre è dato dal processo contro Socrate, accusato nel 399 a.C. di
ateismo e di corruzione dei giovani: il tribunale poteva solo decidere tra la richiesta di
condanna a morte avanzata dall'accusatore e la multa di 30 mine proposta dallo stesso
imputato. Proprio la mancanza di alternative realisticamente praticabili portò al
verdetto di morte per Socrate.
Ogni giudice prima di assumere le proprie funzioni doveva giurare che avrebbe
emesso il suo verdetto sulla base delle leggi di valore generale (némoi) e delle
deliberazioni del popolo e del consiglio. In verità è assai dubbio che nella concreta
realtà della vita giudiziaria ateniese questi principi potessero essere rispettati. Il
formalismo giuridico faceva sì che solo le parti in causa potessero citare il diritto e
che il verdetto dovesse scaturire solo da quanto da loro esposto. Né esisteva, d'altra
parte, una qualsivoglia letteratura giuridica paragonabile a quella che i romani
chiamavano giurisprudenza. Giuristi professionisti non esistevano né ad Atene né
nelle altre città greche. Anche quanti erano specializzati nello scrivere discorsi (i
logografi) per i processi non avevano un interesse specifico per le questioni
giuridiche. E chiaro che al logografo interessava il successo della causa di chi lo
impiegava al proprio servizio, e che gli premeva ottenerlo più attraverso la
persuasione oratoria che non per via di un accertamento puntuale della questione
giuridica.
Questa somma di fattori concorre a creare un quadro fosco del sistema giudiziario
ateniese. Tuttavia, per quanto fossero sempre possibili abusi, era improbabile che un
oratore potesse convincere i giudici della bontà della sua causa se essa fosse stata in
contrasto con la legge. Si deve tener conto del fatto che quasi in nessuno stato antico
si riscontra la propensione che si ha ad Atene di radicare nella legge ogni aspetto della
vita collettiva. La forza del sistema giudiziario ateniese risiedeva nella
consapevolezza che ogni oratore aveva, nel sostenere una causa, che non solo
l'ordinamento legislativo era noto a tutti, almeno nelle sue linee generali, ma anche
che tutti erano consapevoli di rappresentarlo. Il popolo era a un tempo legislatore e
giudice, e per questo considerava qualsiasi violazione dell'ordine come un atto contro
il suo stesso potere sovrano.
Le implicazioni politiche di questo sistema pongono parecchi problemi. Il rapporto
molto stretto tra assemblea popolare e tribunali consente addirittura di vedere, data
l'ampiezza dell'attività giudiziaria e la consistenza dei tribunali, un'identità di fatto tra
le due istituzioni. Il popolo è dunque presente in entrambe e può agire in due forme
differenti. Del tutto estranea all'idea ateniese di democrazia è dunque la moderna
concezione di un potere giudiziario che funga come "terzo potere", con funzioni di
controllo e di riequilibrio rispetto a quello legislativo. Non a caso il numero dei
giudici (seimila) è identico a quello dei partecipanti all'assemblea popolare che erano
considerati rappresentare la totalità del popolo ateniese.
Le materie dibattute nell'assemblea erano in linea di principio diverse da quelle in
discussione nei tribunali. Ma poteva capitare il caso – soprattutto in frangenti delicati
– in cui i giudici erano chiamati a esprimersi su questioni politiche. C'erano alcuni tipi
di accusa che potevano determinare una linea di azione: non mancarono nella storia
della democrazia ateniese dei personaggi che misero tanto l'assemblea popolare
quanto i tribunali al servizio della propria linea politica. I tribunali sono
un'espressione diretta del potere popolare e interessano una serie di aspetti differenti,
ivi compresa l'economia. Dato l'aspetto aleatorio della composizione delle giurie, è
evidente che queste potevano rappresentare ancor più da vicino della stessa assemblea
gli umori del popolo minuto.

Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto n. 31, gennaio-aprile 1997.

Il lessico della politica romana


Cavalieri: originariamente quei cittadini romani che, in virtù del loro patrimonio,
potevano sostenere le spese di mantenimento di un cavallo. A partire dalla tarda
repubblica tutti coloro che, grazie ai proventi di attività affaristiche e commerciali,
ebbero accesso all'ordine detto appunto dei cavalieri.

Clientela: tipico istituto romano in base al quale una persona di condizione libera si
metteva al servizio di un potente ricavandone in cambio protezione e assistenza.

Comizi centuriati: la principale assemblea legislativa ed elettorale romana. Eleggeva


i magistrati maggiori: consoli, pretori e censori.

Comizi tributi: l'assemblea romana nella quale l'unità di voto era la tribù. Aperta a
tutti i cittadini, eleggeva gli edili, i questori e i tribuni militari e votava le leggi.

Consoli: i due supremi magistrati della repubblica romana. I consoli avevano il


comando militare, il diritto di convocare e presiedere le assemblee e di proporre le
leggi.

Gens: a Roma il raggruppamento costituito da famiglie discendenti da uno stesso


antenato, con culti comuni e comuni forme di difesa.

Homines novi: a Roma i cittadini che aspiravano alla carriera politica senza avere
antenati che avessero ricoperto le magistrature maggiori.

Nobilitas: il gruppo di famiglie che a Roma deteneva il potere potendo vantare


antenati che avevano ricoperto il consolato e le magistrature maggiori.

Ordini: articolazione degli strati superiori della società romana. Nella tarda
repubblica fu forte la contrapposizione tra l'ordine senatorio, detentore del potere
politico, e quello equestre, espressione delle classi affaristiche emergenti.

Patrizi: i detentori esclusivi del potere nei primi secoli della repubblica romana in
opposizione ai plebei.

Plebei: uno. dei due fondamentali gruppi sociali di Roma arcaica contrapposto ai
patrizi. Si tratta forse dei gruppi di artigiani e commercianti che si erano arricchiti
verso la fine dell'età monarchica pur rimanendo esclusi dalla gestione diretta del
potere.

Pretori: i magistrati incaricati a Roma dell'amministrazione della giustizia. In origine


in numero di due, furono portati a otto da Silla per far fronte alle necessità dei governi
provinciali.

Senato: il principale organo consultivo e deliberativo della repubblica romana,


formato da ex magistrati, con funzioni importanti nella direzione della politica interna
ed estera. Il numero dei senatori fu portato a 600 da Silla.

Tribù: articolazioni dello stato romano presso le quali dovevano venir


obbligatoriamente registrati i cittadini. Le tre originarie tribù gentilizie furono
sostituite da tribù territoriali, 4 urbane da 31 rustiche, nelle quali venivano iscritti i
cittadini sulla base del luogo di residenza.

Tribuni della plebe: i magistrati originariamente istituiti a difesa dei diritti della
plebe. In numero di dieci, essi erano inviolabili e avevano il diritto di opporre il veto
sulle proposte di legge.

Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto n. 31, gennaio-aprile 1997

Emilio Gabba     


Istituzioni politiche e condizioni della democrazia
La formazione di un ceto dirigente a Roma

Fra il mondo greco, e magno greco, e quello romano tra il VI e il III secolo a.C. è
esistito un divario culturale, e quindi anche politico e sociale, molto profondo. Uno
degli aspetti di questo divario sta nel lento emergere a Roma delle strutture tipiche
dello stato-città, per quanto la ricostruzione storiografica romana abbia proiettato alle
origini stesse della città i caratteri di una precisa statalità, sociale, politica, giuridica.
Le più arcaiche strutture patriarcali e gentilizie hanno trasmesso allo stato romano, nel
corso del suo sviluppo politicamente organizzato, una serie notevole di modi di
pensare, di istituzioni civili, di realtà sociali.
Nel corso del V secolo la necessità di una sempre più ampia valorizzazione degli
elementi inferiori della milizia andò di pari passo con l'organizzazione del corpo
civico su base censitaria, sempre meglio articolata nel suo fondamento socio-
economico. Durante il IV secolo l'emergere di capi militari sperimentati procurò loro
riconoscimenti per i meriti acquisiti anche in campo politico con il sorgere di un
nuovo, più accentuato carattere gerarchico. Dopo la metà del IV secolo è attestato un
deciso processo di modernizzazione delle stesse istituzioni militari.
Contemporaneamente la coscienza civica dei romani andò acquistando un vigore
assolutamente nuovo: vennero meno o si attenuarono le forme tradizionali di
dipendenza con gli obblighi delle prestazioni personali: la schiavitù, per quanto
paradossale la cosa possa sembrare, è una forma di modernità. I cittadini romani
poveri, inviati nelle province latine, acquisirono indipendenza economica e autonomia
politica. Tutti questi fenomeni sono tanto più importanti in quanto il corpo civico
romano non conosceva ancora una grande differenziazione al suo interno, e tanto
meno una contrapposizione ideale, fra ceto dirigente e popolo.
Tra IV e III secolo i gruppi dirigenti romani hanno superato, anche e proprio in virtù
del loro ruolo militare e della rinomanza acquisita in questo modo, le chiusure patrizie
e la trasmissione del potere affidata soltanto al peso della tradizione. Talune grandi
personalità vanno emergendo in sfida reciproca. La loro caratterizzazione si basa sulla
virtus e su altre qualità e meriti concreti che sono loro generalmente riconosciuti. Chi
è nobilis, vale a dire conosciuto, lo è pubblicamente, per un generale e larghissimo
consenso popolare.
I gruppi dirigenti hanno degli strumenti molto importanti per proclamare e ricordare i
loro meriti e il riconoscimento pubblico che da essi deriva, vale a dire le laudationes
funebres, il cui alto significato era stato così ben capito da Polibio, e le grandi
iscrizioni funebri che da quelle laudationes derivano e dipendono: per esempio quelle
degli Scipioni. Tuttavia è necessario insistere su un fattore basilare: laudationes e
iscrizioni sono aspetti di autopresentazione e di autocelebrazione della nobilitas, ma a
differenza degli aristocratici ateniesi, che si proclamavano i migliori e reclamavano il
potere in opposizione al demos, a Roma la nobilitas, indifferentemente patrizia e
plebea, ricercava nel popolo la propria legittimazione, anche elettorale. Il consenso è
il riconoscimento da parte di una larghissima maggioranza del corpo civico romano di
virtù militari e civili, che si è tradotto nell'elezione a cariche pubbliche. Il concetto di
optimus nell'ambito dei boni risente, evidentemente e significativamente, di
un'influenza della terminologia politica e quindi di teorie politiche greche.

Atene e Roma
Se si istituisce un confronto tra la situazione ateniese del VI-V secolo e quella romana
fra IV e III risaltano divergenze profonde, non soltanto dovute a sfasature
cronologiche, fra due mondi, in entrambi i quali, almeno apparentemente, il principio
dell'eccellenza avrebbe dovuto garantire a gruppi elitari la conduzione e la gestione
dello stato.
In Atene vi è il concetto di una preminenza fortemente esclusiva anche se legata a una
società di proprietari terrieri, ma collegata all'educazione, alla preparazione culturale,
alla capacità di giudicare e di decidere con conoscenza di causa, che viene
intenzionalmente messa da parte quando la società si modernizza e i ceti inferiori,
diventati indispensabili nelle attività commerciali e marinare e nella creazione
dell'impero, possono pretendere e ottenere un ruolo determinante nel processo di una
libera formazione della decisione politica.
L'oligarchia aristocratica finisce in Atene in una democrazia. A Roma è proprio la
base agraria e contadina della società, potenziata e rinnovata nel corso della conquista
dell'egemonia in Italia, che favorisce l'emergere e lo stabilizzarsi di un ceto dirigente,
nuovo rispetto al passato e in principio non chiuso, la cui autorevolezza e la cui
preminenza non hanno alcuna radice culturale ma sono tali per meriti militari e
conseguente avvedutezza politica (sapientia).
Questo governo dei migliori si fonda proprio su di un largo consenso del popolo.
Questo consenso e accordo dureranno sino a quando le masse popolari si
riconosceranno in un ceto dirigente oligarchico, che saprà organizzare la conquista e
dividerne i frutti.

Le basi collettive dell'imperialismo romano


Si può assumere come dato sicuro che uno degl aspetti essenziali del complesso
fenomeno dell'imperialismo romano sia stato un coinvolgimento, nel senso di
partecipazione attiva, fattiva e consapevole, di tutti gli strati della società romano-
italica; non vi furono soltanto le iniziative trascinanti di una classe sociale o di un ceto
politico o di singole personalità, ma vi furono a vario livello adesione spontanea e
partecipazione interessata, differenti nelle varie fasi storiche del periodo che
prendiamo in esame, ma naturalmente in progressiva crescita e sviluppo. E peraltro
impossibile, o almeno è molto difficile, fissare lo svolgimento di questo processo
collettivo in tutti i suoi livelli, e tanto meno indicare le cause e le motivazioni che lo
hanno prodotto e accompagnato.
Il periodo storico decisivo è quello che va dallo scoppio della prima guerra punica
(264 a.C.) al 107 a.C., quando fu deciso l'arruolamento dei proletari da parte di G.
Mario per la guerra di Numidia. Come già riteneva Polibio, i veri inizi di quella fase
della storia romana che possiamo definire "imperialistica" sono da individuare nel
passaggio dell'esercito romano in Sicilia, al di fuori dell'ambito italico. La data del
107 a.C. segna il momento del passaggio dalla milizia cittadina con i suoi ideali e le
sue premesse sociali ed economiche all'esercito professionale, sganciato da quelle
premesse e da quegli ideali. E gli aspetti socio-militari hanno giocato un ruolo
decisivo nello svolgimento del fenomeno dell'imperialismo, proprio al livello delle
masse.
Il valore politico e sociale che derivava dalle imprese belliche per i membri
dell'oligarchia si estendeva anche al di là del ceto dirigente, come risulta anche dal
teatro del II secolo a.C. Polibio ricorda il grande valore delle cerimonie del trionfo e
dei funerali delle grandi personalità che introducevano le masse a godere della virtus e
della gloria bellica. Si veniva a creare dunque un "entusiasmo imperialistico di
massa" che avrà rappresentato, a sua volta, un supporto non indifferente per la stessa
politica dell'oligarchia. La legittimazione del predominio oligarchico, con la laus e la
gloria belli, si trasforma, quando questi concetti si allargano alle classi inferiori, in
una giustificazione del dominio romano in generale, in quanto l'amor proprio di
massa, creando ragioni di superiorità, può trascendere facilmente a orgoglio di
popolo, alimentando la spirale dell'espansione, della conquista, della sopraffazione.
Lo sfruttamento della vittoria come aspetto fondamentale dell'imperialismo nel corso
del II secolo a.C. si concretizza anche, e soprattutto, nel fenomeno della
colonizzazione dell'Italia settentrionale, diretto nelle sue linee e strutture ufficiali dalla
interessata politica della nobilitas, ma sostanziata dalla larghissima emigrazione delle
classi basse romane e italiche, con carattere anche ampiamente spontaneo.
Si tratta di un fenomeno di grande rilevanza. L'emigrazione dalle città alleate portava
a una diminuzione delle classi medie (degli adsidui), dalle quali si traevano le truppe
richieste da Roma. Emigrazione e colonizzazione da un lato, e decrescita degli adsidui
dall'altro sono due fenomeni strettamente correlati. Questa situazione avrà ancor più
favorito il professionalismo militare, in contrasto con il dovere civico sentito del
servire. Dalla metà del II secolo a.C., quando ormai anche la grande colonizzazione si
era esaurita, si verificò una divaricazione: mentre all'interno dei corpi civici romano e
alleati le classi dirigenti erano sostanzialmente integrate sulle direttrici della politica
di Roma, le classi medie e basse, in fase di avanzata proletarizzazione, perdevano la
completa adesione alla politica espansionistica. L'ampia risposta avuta da Mario nel
107 a.C. tra la plebe rurale al suo invito all'arruolamento volontario era dovuta a
un'esigenza di arricchimento che lo stesso console aveva abilmente fatto balenare; ma
le premesse sociali e politiche erano ben diverse rispetto al volontariato che aveva
caratterizzato le guerre in Asia nella prima metà del secolo.
Un'ulteriore conferma del disagio che percorreva l'Italia nella seconda metà del II
secolo a.C. è data dalla richiesta, che si fa sempre più forte, del diritto di cittadinanza
romana da parte degli alleati italici. Tale diritto è ormai visto come il mezzo per
partecipare alla vita politica dello stato. Tuttavia la struttura dello stato romano alla
fine del II secolo a.C. si presentava con tali caratteristiche che doveva apparire
manifesto anche agli alleati come un'eventuale estensione del diritto di cittadinanza
non potesse garantire alla massa dei nuovi cittadini che limitati vantaggi. E proprio
nel campo in cui i pregi del diritto di cittadinanza maggiormente potevano trovare
concreta esplicazione, cioè nella partecipazione alle assemblee politiche.
Il problema della cittadinanza romana
Già dalla metà del II secolo a.C., infatti, da parte dei cittadini romani abitanti in zone
discoste da Roma si andarono diradando, per la forza delle circostanze, i diretti
interventi nella vita dello stato: è, quindi, comprensibile come si smorzassero in loro
gli stessi interessi politici. Quindi la maggior parte degli alleati non avrà avuto da
attendersi nulla di particolare in campo politico pratico dal conseguimento della
cittadinanza romana, visto che vivevano in condizioni simili a quelle dei cittadini
romani della campagna.
Per le classi socialmente elevate degli alleati vale in buona parte il contrario. Sono
proprio queste, infatti, che si agitarono per ottenere la cittadinanza. Non a caso la
rivolta ha all'inizio un carattere fondamentalmente aristocratico ed è da ritenere che
solo in un secondo tempo l'insurrezione acquistò un aspetto popolare, aspetto
ottenuto, tra l'altro, mediante l'intervento di una propaganda che insisteva soprattutto
su motivi regionalistici e indipendentistici, i quali avevano un limitato riferimento al
problema centrale della cittadinanza romana.
In Oriente, già nel II secolo a.C., i commercianti italici detenevano il monopolio del
traffico. Questi negotiatores, come a Roma i cavalieri, acquistarono nelle varie città
una posizione socialmente dominante perché essi tendevano a ritornare nelle sedi di
origine o a mantenere con esse rapporti. Inevitabilmente questo ceto commerciale si
trovò costretto a prestare attenzione agli atteggiamenti del governo romano in politica
estera e, di riflesso, anche a prendere una posizione sempre più definita di fronte alle
vicende della politica interna di Roma, ove il vario prevalere dei gruppi politici
opposti diveniva sempre più determinante nelle questioni estere. I negotiatores italici,
consci del loro ruolo mediterraneo, accettavano sempre meno che i loro interessi
fossero alla mercé degli oligarchi romani che a tali interessi erano assai poco sensibili.
Tale noncuranza si deve essere manifestata in maniera sempre più concreta verso gli
ultimi decenni del II secolo a.C., vale a dire quando si precisarono le posizioni
politiche della classe commerciale romana e furono evidenti le possibilità di un
contrasto tra le esigenze della politica e gli interessi economici.
E dunque naturale che i sentimenti e i desideri del ceto commerciale siano diventati
ben presto patrimo nio ed esigenza comune anche per quei ceti sociali meno
direttamente interessati alle attività del commercio e che fondavano la loro posizione
economica soprattutto sulla proprietà fondiaria. Su di essi, gelosi custodi dello spirito
autonomistico delle singole regioni, pesava già da tempo la condizione di inferiorità e
di sudditanza che era andata aumentando con il proporzionale centralizzarsi del
governo romano.
Nel I secolo a.C. divenne motivo storiografico comune riguardare la metà del secolo
precedente come il momento iniziale della decadenza dello stato romano, sia che le
cause del declino venissero scorte nella sparizione di Cartagine, sia che si insistesse
nel motivo moralistico di un dissolversi delle virtù e dei buoni costumi, che avevano
presieduto all'ascesa della Repubblica, dovuto alle vittorie in Oriente. Si avverte a
ogni modo una rottura nell'equilibrio dello stato che agli storici e ai politici della fine
della Repubblica sembrò assumere le caratteristiche della contrapposizione di una
parte deteriore della cittadinanza ai boni cives.
Mentre in questa contrapposizione si configura il distacco della classe al potere dalla
realtà sociale e il premere di nuove classi prepotentemente spinte sulla ribalta politica
dalle mutate condizioni dello stato, un'incrinatura sembrò essersi andata formando
anche in seno alla stessa classe detentrice del potere, fra ceto senatorio e ceto
equestre. Essa fu riguardata come un'esiziale condizione in un momento, appunto, in
cui sarebbe stata necessaria l'unione dei ceti elevati contro il prorompere di forze
ostili: la concordia ordinum, il consensus omnium bonorum rappresentarono quindi
per Cicerone, attorno alla metà del I secolo a.C., non già un motivo ideale, ma
realmente il fine da raggiungere a ogni costo di un'attività politica continua e
metodica.
In tale stato di cose l'opposizione tra senato e ceto equestre finisce per divenire,
almeno per le correnti politiche e storiografiche di tendenza filooligarchica, quasi il
filo conduttore, da cui è unificata e inquadrata tutta la storia dell'età postgraccana, sia
pure talora con caratteri differenti. E G. Gracco è comunemente indicato come colui
che "consegnò i tribunali all'ordine equestre e creò uno stato bicipite, origine delle
guerre civili" (Varrone, De vita populi Romani, fr. 114, Riposati).
Il problema degli alleati resta dominante anche in questi anni, ma si presenta con
caratteristiche differenti. L'oligarchia aveva cercato di "contenere" i risultati che gli
alleati le stavano strappando. Davanti al prorompere della rivolta, il senato non aveva
potuto far altro che accogliere, sia pure gradualmente, l'istanza degli alleati: cioè
rendendosi conto che il fine della rivolta era pur sempre il conseguimento della
cittadinanza, l'aveva concessa. E da ritenere, come mostrano i precedenti e le fasi
successive alla lotta armata, che la maggior parte degli alleati abbia accolto di buon
grado il se pur tardivo riconoscimento delle loro esigenze.
Le condizioni di partecipazione alla vita politica dei socii italici
Cerchiamo di impostare secondo una giusta visuale il problema della partecipazione
degli elementi municipali, in gran parte provenienti dopo 1'89 dagli ex alleati, alla vita
politica romana del I secolo a.C. L'immissione degli alleati nello stato romano era
stata voluta da quei ceti che, interessati alla cittadinanza, per ottenere tale fine non
avevano esitato a far scoppiare la guerra. Che tale fosse pur sempre il fine della lotta
doveva essere il convincimento di ambienti vicini, spiritualmente e politicamente a
Roma: non si può pretendere che tale convincimento fosse condiviso in seno alla
massa degli alleati, per i quali il conseguimento della cittadinanza non poteva
significare nulla di sostanziale e di apprezzabile, ma anche nell'ambito stesso della
classe in cui era ampiamente sentito.
Non per tutti cittadinanza poteva significare, pienamente, diritti civici e possibilità di
partecipare in Roma alla cosa pubblica; da altri era nettamente pensata, richiesta e
perseguita come "indipendenza". Era questa una fazione estremista, su cui agivano
disparate passioni: si tratta di ambienti regionali geograficamente ben delimitati, come
il campano o il sannita.
La vittoria romana diede ragione a coloro che desideravano essere "accolti nella
cittadinanza" e fu solo con Cesare che anche la parte indipendentista, ormai prostrata
e convinta della inevitabile realtà creata dalla guerra sociale, fu integrata nella vita
politica dello stato. Esso, come la corrente senatoria prevedeva e paventava, uscì
completamente modificato dalla immissione degli alleati nella cittadinanza: da allora
data la nascita dello stato municipale, per cui il cittadino, oltre che membro del
proprio municipium, è civis dello stato. La differenza con la precedente
organizzazione della penisola, che naturalmente è presupposta dalla nuova, è
sostanziale, poiché, per quanto riguarda il punto fondamentale dell'esplicazione
dell'attività politica dei cittadini, i principi dello stato-città hanno completamente
cessato di esistere o, meglio, hanno cessato di avere valore.
Abbiamo dunque certamente la romanizzazione degli alleati entrati nella cittadinanza,
come è rilevato dalla loro partecipazione alla vita pubblica, ma anche un loro apporto
di altissimo significato, come quello che condusse a un superamento, secondo le loro
concezioni, della struttura fondamentale dello stato in cui venivano accolti.
I caratteri della vita politica romana nel I secolo a.C.
Queste decisive trasformazioni nell'assetto dello stato romano all'inizio del I secolo
a.C. hanno naturalmente dei riflessi sui caratteri della vita politica. E problema ben
noto quello dell'applicabilità ai raggruppamenti politici romani degli schemi propri
dei tempi moderni. Se con il termine optimates si può indicare, con una certa
legittimità, le tendenze conservatrici, lo stesso non si può dire per il termine,
corrispondente e contrapposto, di populares. O meglio, la riduzione a una sola
comune denominazione (populares) di svariate tendenze politiche può essere intensa e
giustificata solo se si suppone che essa è stata fatta in un senso, per così dire,
negativo, cioè appunto ponendosi dal punto di vista degli oligarchici. Questi, per il
carattere esclusivistico delle classi politiche antiche e per la conseguente
identificazione fra stato e gruppi detentori del potere, erano portati a vedere su di una
ugual base e a caratterizzare con un'unica generica etichetta tutti coloro che
manifestavano idee o agivano in maniera comunque contraria a chi deteneva il potere.
Queste considerazioni preliminari servono a comprendere un fatto di capitale
importanza. Tra la fine del II secolo e il I secolo a.C. si andò sostituendo alla tendenza
antioligarchica e democratica che, per intendersi, può essere chiamata graccana,
un'altra in cui hanno parte sempre più preponderante i capi militari, e che finì per
imporsi totalmente alla prima, rimasta come vernice esteriore a nascondere un interno
del tutto nuovo. Anche in questo processo, la guerra sociale svolse una funzione
decisiva nel far piegare nel nuovo senso la situazione ed essa, quindi, assume per lo
storico un aspetto chiarificatore.
Gli anni tra la fine dell'attività politica di Silla e il primo consolato di Pompeo (79-70
a.C.) segnano un periodo di transizione. Da una parte la lotta della parte
antioligarchica si esaurì nelle iniziative e nei tentativi diretti al ristabilimento dei
poteri dei tribuni che con Silla avevano ricevuto una forte riduzione. Dall'altra,
malgrado le misure prese da Silla per ridare vigore al regime oligarchico-senatorio,
egli non aveva potuto cancellare il suo esempio di un impiego brutale delle forze
militari nella vita politica. Il decennio successivo alla sua morte fu precisamente
quello che vide l'affermarsi del potere di Pompeo basato in larga misura sulla milizia.
A proposito di quest'ultimo già Sallustio, nel riconsiderare i prodromi delle guerre
civili, negò a Pompeo ogni veste di repubblicanesimo, mostrando come in lui non vi
fosse altro che il monarca militare, che si sforza di acquistare il potere supremo ed è
interessato, una volta ottenuta la posizione egemonica nello stato, a cercare la
collaborazione delle classi politiche tradizionali nel rispetto, più o meno sincero, delle
loro prerogative. Con ciò si veniva a ridurre ai termini di una competizione per il
potere la guerra con Cesare, nella quale invece Pompeo, secondo lo schema
idealizzato, veniva ad assumere la parte di difensore delle libertà tradizionali.
Resta quindi in tutta evidenza il carattere "epocale" della guerra sociale, proprio per
aver dato avvio a nuovi metodi politici rivoluzionari, dominati in gran parte dalla
forza militare. Lo sgretolamento del potere esclusivista della nobilitas cittadina sotto
l'assalto, prima, delle aristocrazie municipali, poi anche di elementi di origine sociale
più bassa elevati dalla militia è il fenomeno dominante dell'età ciceroniana e prepara
l'avvento dell'Italia di Augusto.
La partecipazione dell'elemento municipale alla vita dello stato romano dopo 1'89 a.C.
è, dunque, un fenomeno spontaneo, conseguenza e conclusione di quegli interessi che
avevano dato origine alla stessa guerra sociale e che si possono, appunto, ricondurre
alla generale esigenza di poter interferire nelle decisioni politiche. Grandissime
personalità come Silla e Cesare seppero servirsi di questo processo già in atto: il
primo pensò e sperò che ne sarebbe venuto un rinforzo all'oligarchia senatoria, che
egli si era impegnato a restaurare dopo la parentesi mariana, il secondo seppe offrire
la temperie favorevole anche a quegli ambienti che le reazionarie restrizioni di Silla
avevano escluso dalla vita politica: quindi essi videro in Cesare il continuatore della
tendenza mariana e il rappresentante delle loro idealità politiche.

La costituzione romana giudicata da uno storico greco


Alcuni dati documentari indicano che i sovrani ellenistici si posero presto il problema
di capire come funzionasse il sistema politico e di governo di Roma. Si comprende
così come, realizzatosi il fatto storico dell'egemonia romana sul Mediterraneo, si sia
potuti pervenire con lo storico Polibio, verso la metà del II secolo a.C., a elaborare la
teoria che per la conquista di tale egemonia un fattore determinante, insieme al
sistema militare, fosse rappresentato dall'organizzazione costituzionale romana. Il
pensiero politico greco, malgrado il grande interesse riservato anche dalla storiografia
ai fatti costituzionali, non è forse mai giunto a formulazioni così precise come quelle
elaborate da Polibio nel VI libro delle sue storie.
Perché il fatto costituzionale potesse valere davvero come canone storiografico era
indispensabile dimostrare la superiorità della costituzione romana rispetto agli altri
stati greci e a Cartagine. Polibio sa che le tre forme costituzionali, della regalità,
dell'aristocrazia e della democrazia, sono soggette a processi di cambiamento interno,
con fasi di accrescimento, massima fioritura e infine conclusione di tale processo. La
stessa costituzione romana aveva seguito questo svolgimento dall'inizio sino alla fase
di crescita. La peculiarità del regime politico romano derivava dal suo apparente
deviare dall'ordine naturale, dopo il regolare sviluppo avuto da principio.
La spiegazione proposta da Polibio indica nella "costituzione mista" la ragione di tale
anomalia. Secondo lo storico greco, infatti, a Roma si era realizzato, al termine di un
lungo processo, un regime politico che sembrava sfuggire all'inevitabile, necessario
processo di cambiamento in peggio delle altre costituzioni, mantenendo in equilibrio
bilanciato tra di loro, nella loro fase migliore, i tre principi politici fondamentali:
regalità, aristocrazia, partecipazione popolare. Con la discussione sulla circolarità
delle tre forme e sulla costituzione mista Polibio aveva preparato lo schema che gli
consentiva di raggruppare e, nello stesso tempo, di interpretare tutte quelle nozioni di
ordine politico e di diritto pubblico che aveva visto praticamente operanti nella vita
pubblica romana. Si tratta di dati che sono visti nel momento del loro funzionamento
concreto ed è da questo funzionamento che si ricava una teorizzazione o, meglio, la
collocazione teorica dei diversi fattori politici.
Polibio era pienamente consapevole del fatto che, con queste finalità e con questa
prospettiva, la scelta dei materiali che egli doveva inevitabilmente fare avrebbe
suscitato reazioni negative proprio tra i lettori e glì uomini politici romani, ì quali
avrebbero rilevato omissioni anche importanti. A loro il quadro di riferimento
generale predisposto da Polibío doveva importare poco mentre a quel quadro
dovevano essere interessati i lettori greci, influenzati da una pubblicistica e da una
storiografia ostili a Roma.
Polibìo identifica le tre componenti fondamentali dell'ordinamento politico romano, la
magistratura consolare, l'assemblea del Senato, il popolo, con le tre forme basilari di
organizzazione politica, la regalità, l'aristocrazia, la democrazia: questa
identificazione spiega perché le tre componenti siano prese in esame in siffatto ordine,
anche se Polibio non nasconde affatto una preminente centralità del senato. Di quelle
tre componenti sono quindi indicate le principali competenze, con una scelta che cade
soprattutto su quei poteri e su quelle attività che meglio si prestavano a dimostrare di
essere circoscritti dalla presenza di altre `parti' costituzionali. Polibio non entra in una
distinzione fra gli aspetti sostanziali dell'esercizio del potere politico e quelli
prevalentemente formali; è per questa ragione che non si sofferma a descrivere i modi
con i quali si manifestava, per esempio, la volontà popolare. Quest'atteggiamento non
è rimasto senza conseguenze sulla ricerca storica moderna, che continua a ridiscutere
l'effettiva democraticità della vita politica romana nel II secolo a.C. Quello che
importa allo storico è che questa ripartizione delle responsabilità politiche imponeva
una collaborazione delle varie componenti. Essa limitava le possibilità di una loro
conduzione autonoma della direzione politica, ostacolando di conseguenza
l'assunzione di posizioni di prevalenza di una rispetto alle altre.

L'elogio degli Scipioni

Nel sepolcro degli Scipioni, sulla via Appia, il sarcofago più antico appartiene a
Lucio Cornelio Scipione Barbato, il console del 298 a.C. che si distinse in una serie
di operazioni belliche contro i lucani. Tale sarcofago contiene, oltre al nome del
defunto, un suo elogio, sicuramente posteriore alla deposizione del corpo, che si
compone di sei versi saturni. Eccone una traduzione.

"Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto
fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi (apud vos). Prese
Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò ostaggi."

In un altro sarcofago era deposto il corpo del figlio, Lucio Cornelio Scipione, console
nel 259 e censore nel 258 a.C. II suo elogio consta di sette versi saturni.

"Lucio Cornelio Scipione, figlio di Lucio, edile, console, i censore. La maggior parte
dei romani è concorde nel considerare questo Lucio Scipione come il migliore di tutti
gli uomini dabbene. Era il figlio di Barbato, che fu console, censore ed edile presso di
voi (apud vos). Conquistò la Corsica e la città di Aleria; dedicò alle divinità delle
tempeste marine un tempio come esse avevano meritato."

Bibliografia essenziale
E. Gabba, Esercito e società nella tarda Repubblica romana, La Nuova Italia, Firenze
1973;
Idem, Aspetti culturali dell'imperialismo romano, Sansoni, Firenze 1993;
Idem, Italia romana, New Press, Como 1994;
Idem, La concezione antica di aristocrazia, "Rendiconti Accademia dei Lincei", s. 9,
vol. 5, 1995, pp. 461-468;
Idem, L'invenzione greca della costituzione romana, in I Greci, Einaudi, Torino (in
stampa).

Emilio Gabba, professore emerito di Storia romana nell'Università di Pavia, è


Accademico dei Lincei.
Si è occupato di storia politica, socio-economica, di storiografia antica e di
storiografia moderna sul mondo antico in numerosi volumi. Per il problema della
democrazia romana si veda in particolare la raccolta di saggi Aspetti culturali
dell'imperialismo romano (Firenze 1991).

Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto n. 31, gennaio-aprile 1997

Arnaldo Marcone     


Si può parlare di una democrazia romana?

Le condizioni e i limiti del potere sovrano del popolo di Roma


La peculiarità del sistema politico romano in età repubblicana è oggetto di
discussione. È bene fissare le linee essenziali di un dibattito che, come si vedrà, ruota
attorno alla questione dell'effettiva esistenza della democrazia a Roma.
Tra gli storici del mondo antico c'è un accordo sostanziale sul fatto che il popolo
romano poteva partecipare alla vita politica in quanto aveva la possibilità, tramite
procedure istituzionalmente riconosciute, di intervenire nei momenti decisionali. Il
dissenso riguarda invece l'influenza che i ceti popolari erano in grado di esercitare. In
altri termini, è legittimo parlare della democrazia romana, come si è tornati a
sostenere di recente, come di una “democrazia diretta” e di “potere sovrano del
popolo”? A Roma il popolo era nelle condizioni di esprimere la propria volontà
politica nei comizi in quanto assemblee popolari con diritto di voto. I comizi sono
considerati organi decisionali per tre differenti motivi:
1. eleggevano i magistrati;
2. emanavano leggi e decreti vincolanti;
3. pronunciavano verdetti in determinati processi.
In merito all'elezione dei magistrati, si deve tener presente che chi veniva eletto a una
magistratura occupava a vita un seggio in senato e apparteneva così automaticamente
alla élite politica, cioè all'aristocrazia senatoria. In realtà i comizi decidevano in primo
luogo quale giovane delle famiglie aristocratiche o di quelle “nuove” (cioè senza
rappresentanti che avessero rivestito il consolato) dovesse essere eletto alla
magistratura iniziale del cursus senatorio e, quindi, quali dovevano essere coloro che
dovevano essere eletti alle cariche successive (chi, cioè, doveva essere eletto alla
questura e, quindi, all'edilità, alla pretura e, infine, al consolato). E evidente che
queste elezioni, decidendo anche sulle carriere dei membri dell'aristocrazia,
decidevano anche sulle loro possibilità di pervenire a posizioni di potere e di acquisire
così influenza e ricchezza.
Sull'importanza delle decisioni prese dai comizi non vi possono essere dubbi. I dubbi
sorgono invece quando si considerano le persone direttamente interessate all'esito
delle elezioni. Il limitato interesse del popolo per i risultati elettorali va spiegato.
Pochissimi sono infatti i casi in cui il popolo si impegnò direttamente, e con forza, per
sostenere propri candidati: è significativo che la cosa avvenne a sostegno di generali
che avevano conseguito grandi successi militari, come Mario.
Le elezioni appaiono dunque come un tema politico importante per l'aristocrazia,
mentre per la plebe sembrano esserlo solo nella misura in cui lo erano per
l'aristocrazia. Poiché a Roma non c'erano partiti organizzati e non esistevano
programmi politici, gli elettori votavano semplicemente per dei candidati che
sapessero rendersi graditi. È assai problematico, infatti, considerare la politica dei
“popolari” come “democratica” e definire come “democrazia” il tipo di ordinamento
da essa perseguito. Non a caso l'introduzione del voto segreto a partire dal 139 a.C.
comportò il diffondersi della corruzione elettorale (in forma di doni fatti a grupp di
votanti o di somme di denaro versate in caso di vittoria), soprattutto a favore della
prima classe di voto, determinante per l'elezione dei magistrati superiori. In altre
parole il sistema era tale per cui il popolo decideva davvero, ma la qualità di una
decisione compiuta in queste condizioni era chiaramente molto limitata.
Quanto alla funzione legislativa dei comizi, la “sovranità popolare” si esprimeva in
condizioni e in forme ben delimitate. I comizi venivano presieduti da un magistrato o
da un tribuno che presentava nelle vesti di proponente (rogator, oggi si direbbe
“proponente”) una proposta di deliberazione. Si noti che l'assemblea non poteva né
prendere posizione in merito né fare proposte di modifica: poteva soltanto votare a
favore o votare contro. La sede dei dibattimenti, dove poteva avere luogo una
discussione sui contenuti di una legge prima della sua formale presentazione ai
comizi, era la contio. La contio poteva essere convocata da qualsiasi magistrato ed era
la grande tribuna in cui gli uomini politici davano prova della propria oratoria.
Peculiarità della contio era la mancanza di votazione di una proposta di legge. Quanto
ai comizi, in buona sostanza chi avanzava una proposta di legge aveva la pressoché
assoluta certezza, nel caso si fosse arrivati alla votazione, di ottenere la maggioranza
dei votanti. In ogni caso non si ha notizia di bocciature di leggi di una certa rilevanza.

La clientela romana
Un esempio significativo della peculiarità del sistema legislativo romano si ha nel
modo in cui si pervenne alla dichiarazione di guerra contro Filippo V di Macedonia
decisa dal senato nel 200 a.C. In un primo momento i comizi centuriati respinsero la
dichiarazione di guerra che era stata loro proposta di deliberare dal console Sulpicio
Galba. All'esito favorevole si giunse solo grazie a una seconda votazione, dopo una
serie di interventi del senato per porre rimedio a un primo voto negativo.
Per tutta questa serie di ragioni, taluni studiosi considerano i comizi una sorta di
“organo di consenso” e le complesse procedure di voto una sorta di “rituale di
consenso”. In tale ottica, dunque, i comizi fungevano solo come strumento di ratifica
di una decisione presa altrove. Altri ritengono che i comizi ritrovavano un'effettiva
funzione decisionale nei casi di contrasti forti all'interno dell'aristocrazia.
Il problema di fondo è costituito dall'istituto della clientela che caratterizza in modo
determinante la società romana. Attraverso i legami clientelari la gran massa della
popolazione era vincolata alle decisioni delle famiglie aristocratiche.
La nobilitas (l'aristocrazia senatoria) controllava in modo così sistematico la politica
da rendere per lo più pura formalità le decisioni delle assemblee popolari. Alla
mancanza di veri contenuti alternativi nella competizione politica romana
corrispondeva l'importanza eccezionale delle decisioni personali che si traduceva in
coalizioni di breve durata all'interno del ceto dirigente.
Questo sistema subì un progressivo deterioramento per una serie concomitante di
fattori. In primo luogo l'allargamento della cittadinanza tra III e II secolo a.C. a
territori sempre più estesi della penisola italiana faceva sì che i cittadini votanti
fossero solo un campione degli aventi diritto. L'introduzione del voto segreto
contribuì ad attenuare i vincoli clientelari con il risultato di indebolire la
rappresentatività sociale del voto delle assemblee senza tuttavia creare alcun
meccanismo alternativo nella formazione del processo decisionale. Il popolo non
aveva comunque altra possibilità se non quella di votare a favore della proposta di
legge che gli veniva presentata.
In realtà, nel giudicare la peculiarità della democrazia romana, si deve tener conto,
come emerge dal contributo di Gabba, dell'alto grado di consenso sociale che legò il
popolo al senato fino alla metà del II secolo.
Questo spiega perché, almeno sino a quel momento, l'aristocrazia sembri godere di
una sorta di delega fiduciaria sulla gestione dell'attività politica. La plebe, da parte
sua, vigila che da parte aristocratica non ci siano abusi o violazioni alle norme
fondamentali di comportamento.

Il senato dirige la vita politica romana


Cicerone, nel passo che segue, rende palese quale ruolo a suo parere è riservato al
popolo nella dialettica politica.
«La povera gente (homines tenues) ha nei suoi rapporti con la classe senatoria una
sola opportunità per meritarsi un favore o ripagarlo: cooperare alle nostre campagne
elettorali con questo accompagnamento. Si deve lasciare che chi ripone in noi ogni
speranza abbia pure qualcosa da offrirci. E se da offrirci non avranno altro che il loro
voto, i poveri, se pur votano per qualcuno, non hanno nessuna influenza politica;
personalmente non possono difenderci in una causa, né farsi nostri garanti, né
invitarci a casa loro: sono tutte cose queste che essi sollecitano da noi, ma i favori che
ottengono da noi ritengono impossibile ricambiarli in altro modo tranne che con il
loro assiduo accompagnamento».
Cicerone, In difesa di Murena, 60.

Bibliografia essenziale
A favore della rivalutazione del ruolo del popolo nella politica romana di età
repubblicana si è schierato di recente con decisione lo storico britannico Fergus Millar
in due importanti saggi:
The Political Character of the Classical Roman Republic, 200-151 B.C., “Journal of
Roman Studies”, 1984, n.74, pp. 1-19; Politics, Persuasion and the People Before the
Social War (150-90 B.C.), ivi, 1986, n. 76, pp. 1-11.

Una messa a punto delle questioni fondamentali si può avere ora in M. Jehne (a c. di),
Demokratie in Rom? Die Rolle des Volkes in der Politik der römischen Republik,
Stuttgart 1995.
Sulla nobilitas senatoria è fondamentale il saggio di M. Gelzer, The roman nobility,
Oxford 1969 (trad. ingl. dell'edizione tedesca del 1912).

Sulla clientela e le principali componenti della vita politica e sociale a Roma in età
repubblicana si legga P. Brunt, The Fall of the Roman Republic and Related Essays,
Oxford 1988.

Sugli ordinamenti politici lo studio fondamentale è quello di J. Bleicken, Lex publica.


Gesetz und Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975.

A. Marcone, Si può parlare di una democrazia romana?, in “I viaggi di


Erodoto”, n. 31, gennaio-aprile 1997.
Arnaldo Marcone     
La vita politica romana

Le peculiarità del sistema elettorale


Il discorso sulla vita politica romana si concentra di necessità sull'età repubblicana, il
solo periodo, cioè, in cui, sia pure con caratteristiche molto particolari, a Roma
esisteva un regime democratico. Con l'avvento dell'Impero, infatti, il popolo non era
escluso soltanto dalla scelta del magistrato supremo (l'imperatore), ma anche da
quella di tutti gli altri. I protagonisti della vita politica risulteranno allora, oltre
all'imperatore/principe, gli eserciti provinciali, il senato, a seconda delle circostanze
ed entro limiti ben precisi e la plebe urbana che andava tenuta tranquilla con cibo e
divertimenti. In ogni caso, i cittadini romani non votavano più.
Non diversamente dalle altre città antiche, a Roma la vita pubblica si fondava su una
disuguaglianza di fatto oltre che di diritto. Oltre alla distinzione fondamentale tra
liberi e schiavi, i quali erano privi di qualsiasi capacità giuridica, c'erano ulteriori
disuguaglianze all'interno del corpo sociale (di sesso, di censo, di nascita) che
condizionavano lo svolgimento dell'attività politica. A Roma il censo distingueva gli
individui rispetto alle loro capacità di armarsi. Tale differenziazione si rifletteva, a
livello politico, nelle modalità di voto dei comizi centuriati, vera assemblea del
popolo in armi e principale assemblea elettorale romana, ove la maggioranza era in
mano ai più abbienti.
In età repubblicana due sono le caratteristiche del sistema di voto a Roma. La prima è
che tutti i cittadini sono dotati di suffragio; la seconda è che il voto avviene per
gruppo e non per testa. È probabile che tali caratteristiche si spieghino
reciprocamente: il sistema di voto per gruppo (curie, centurie e tribù) era funzionale al
mantenimento degli interessi dello stato basato sul censo senza violazione del
principio del suffragio universale maschile.
Un presupposto importante che si deve tener presente, anche senza entrare nei
particolari minuti delle procedure, è che date e luoghi delle varie assemblee elettorali
erano variabili: a ogni buon conto lo svolgimento delle operazioni era particolarmente
minuzioso e formalistico. È comunque necessario sapere che data la natura delle due
funzioni fondamentali delle assemblee romane – elettorali e legislative – esse
comportavano un'attività considerevole: secondo il calendario solo
centonovantaquattro o centonovantacinque giorni all'anno erano considerati fasti, tali
per cui in essi era consentita la convocazione delle assemblee.
Il sistema di votazione subì una modifica radicale nella seconda metà del II secolo
a.C., tra il 137 e il 129 a.C.: fino ad allora il voto era stato orale. Il singolo
componente di ciascuna unità di voto passava davanti a un esaminatore (rogator),
nominato dal magistrato presidente. Il rogator registrava la risposta (o il nome del
candidato) su di una apposita lavagna: alla fine la proposta o il candidato che avevano
ottenuto più voti erano considerati i prescelti dalla centuria o tribù. Il voto palese si
prestava a inconvenienti molto chiari. L'introduzione del voto segreto portò anche a
modifiche nel luogo di votazione. Gli elettori sfilavano su speciali passerelle (i
cosiddetti pontes, che furono fatti restringere da Mario nel 119 a.C. con una apposita
legge) che li incanalavano per farli accedere al tribunale ove si trovavano il presidente
dei comizi e le urne.
Abbiamo visto dunque che, almeno in linea di principio, dire cittadino (ovvero: libero,
maschio e adulto) significava dire elettore. In realtà il sistema elettorale imponeva
alcune restrizioni all'universalità della partecipazione. Nell'assemblea centuriata era
raro che fossero chiamate a votare le centurie delle ultime classi. Quanto alle tribù
c'erano forti diversità dovute alla loro consistenza e al grado di lontananza da Roma.
Deve comunque essere chiaro che il voto non era obbligatorio, né era previsto un
quorum (come in Grecia per l'ostracismo), cioè un numero minimo di partecipanti al
voto: da un'allusione polemica di Cicerone sappiamo che, per alcune votazioni
legislative davanti ai comizi tributi, alcune tribù potevano essere rappresentate solo da
cinque elettori (che a loro volta potevano essere di altre tribù).
Un metodo per il calcolo dei votanti potrebbe essere quello di basarsi sul tempo
necessario per le votazioni. Diverse sono le considerazioni per le votazioni nei comizi
centuriati rispetto a quelli tributi. Nei primi erano comunque determinanti i cavalieri e
i membri della prima classe. Nei secondi – che nella fase finale della Repubblica
erano divenuti assai importanti – contano tutti i voti (con la precisazione che gli
elettori rurali erano legati al calendario dei lavori agricoli).
Il meccanismo elettorale romano era inoltre condizionato da aspetti procedurali e da
vincoli di natura formale, dal problema della lontananza geografica (i votanti
provenienti dalle aree rurali nelle occasioni importanti non venivano a Roma ma
piuttosto vi venivano portati), da una serie di vincoli di natura formale. In primo luogo
non vi erano date fisse di riunione: le convocazioni che avvenivano per ragioni
specifiche, potevano essere invalidate in vari modi, per auspici sfavorevoli, per un
veto frapposto da un altro magistrato di alto rango o da un tribuno. E quando
un'assemblea si riuniva non c'era discussione: c'era solo un voto per procedere alla
elezione sulla base del magistrato presidente o per approvare o respingere una
proposta di legge che gli fosse stata sottoposta in precedenza.
Si può considerare ormai un luogo comune il concetto secondo cui il partito politico
moderno fosse interamente estraneo alla scena politica romana. Il candidato romano
non rappresentava gli interessi di un gruppo vasto che comprendesse una parte
riconoscibile di popolazione, non era impegnato nel sostegno di specifiche politiche e
in genere non sembra che neppure cercasse di identificarsi agli occhi dell'elettorato
con un particolare credo politico. La campagna elettorale era essenzialmente una
competizione di persone.
Motivi di differenziazione politica erano difficilmente introdotti nella campagna di un
candidato. Secondo quel prezioso documento che è il manuale elettorale, il
Commentariolum petitionis, indirizzato da Quinto Cicerone al fratello Marco –
l'oratore candidato al consolato nel 63 a.C. –, il sostenere una precisa posizione
politica doveva essere evitato con cura. Mentre il candidato moderno si preoccupa in
primo luogo di guadagnarsi l'elettore incerto convincendolo della giustizia della
propria causa, l'obiettivo della campagna di un candidato romano consisteva
nell'assicurarsi che coloro i quali erano impegnati nel suo seguito personale fossero
presenti ai comizi in numero sufficiente per garantirgli la vittoria.
La campagna elettorale di un aristocratico andava oltre l'anno in cui poneva la propria
candidatura. Per quanto grandi potessero essere le cerchie di amicizie e le clientele
ereditate dalla propria famiglia, dovevano essere fatti sforzi considerevoli agli esordi
per stabilire nuovi e duraturi contatti con quelli che potevano avere influenza nel voto.
Un po' sempre, ma in particolare nell'ultimo secolo della Repubblica, c'erano
personalità che, in ragione della propria posizione, erano in grado di disporre di un
numero di voti elettorali maggiore rispetto ai loro colleghi. Esistevano inoltre
personaggi che pochi candidati si potevano permettere di annoverare tra i propri
nemici e che molti, se non altro per ragioni di convenienza, si sarebbero compiaciuti
di annoverare tra i propri amici.
Un problema particolare è rappresentato dal rapporto intercorrente tra propaganda e
unità di voto. Là dove era la tribù a essere l'unità base di voto, ovviamente la
propaganda doveva essere condotta tenendo presente la divisione del popolo in tribù.
È interessante vedere come a Cicerone sia consigliato, da parte del fratello Quinto, di
studiare con attenzione la carta dell'Italia e di imparare a memoria quali aree fossero
assegnate a quali tribù.
La cosa non era così ovvia come potrebbe apparire: dal 241 a.C. in poi la vecchia
prassi di creare nuove tribù, per includervi i nuovi territori di recente acquisizione, fu
abbandonata e quindi i nuovi territori furono assegnati alle tribù preesistenti. Questo
in pratica significava che nel I secolo a.C. le tribù romane non corrispondevano più a
unità territoriali compatte, ma erano somme di un gran numero di territori spesso
molto distanti tra loro (per esempio la tribù in cui votava Cicerone era costituita da
un'area vicino a Roma, una vicino ad Arpino, una in Umbria, una nel territorio sannita
e una nel Salento). Il segno dell'abilità del candidato risedeva proprio nella sua
capacità di sapere dove concentrare i suoi sforzi per stabilire i legami che gli
premevano.
Un aspetto del sistema elettorale romano era rappresentato dalla corruzione elettorale.
È ovvio che lo spettacolo offerto dalle operazioni elettorali negli ultimi anni della
Repubblica non doveva essere molto edificante. I costumi relativamente onesti, che
Polibio ancora poteva guardare con ammirazione attorno alla metà del II secolo a.C.,
si erano molto degradati. In proposito, in mancanza di dati statistici e nella massa
delle informazioni scandalistiche, si deve evitare di cadere nella tentazione di
esagerare.
Bisogna comunque tener presente l'arcaismo di un sistema elettorale che funzionava
alla morte di Cesare così come funzionava più di un secolo e mezzo prima all'epoca
della seconda guerra punica. Tuttavia le caratteristiche del sistema elettorale
ponevano di per sé dei limiti alla corruzione. I comizi centuriati dovevano conoscere
un grado minore di corruzione in quanto almeno le centurie equestri e quelle della
prima classe avevano poco interesse a farsi corrompere dal denaro. Il problema
viceversa si poneva per quelli tributi.
Un passo di un'orazione ciceroniana può valere come esempio. Nella Pro Plancio
Cicerone si rivolge all'accusatore del suo candidato, M. Giovenzio Lateranense, e gli
chiede sarcasticamente: «Scegli una tribù, quella che vuoi e facci sapere chi aveva i
fondi con cui è stata corrotta e chi li ha distribuiti». Cicerone sta evidentemente
pensando ad amici influenti a Roma che contattavano e procuravano amicizie a favore
dei candidati mobilitando per loro i votanti presenti.
Raccomandazioni elettorali

Quinto consiglia al fratello Marco Tullio come conquistarsi il consenso popolare per
la sua elezione al consolato del 63 a.C.
«Poiché ho parlato abbastanza della creazione di legami di amicizia, bisogna che parli
dell'altro aspetto dell'attività dei candidati, che consiste nell'assicurarsi il favore del
popolo. Questo esige naturalmente che si conoscano gli elettori per nome, che si sia
assidui, generosi, che si ecciti l'opinione pubblica, che si risveglino delle speranze
politiche.
La generosità si manifesta nei banchetti, che devi provvedere ad allestire o a far
allestire dai tuoi amici, con invitati sia presi in tutta la città sia tribù per tribù. Bisogna
non che la tua reputazione giunga al popolo attraverso questi partigiani, ma che il
popolo stesso abbia per te questi sentimenti.
Bisogna, inoltre, in questa candidatura, che ci si aspetti molto da te per la repubblica,
che si abbia una buona opinione di te. Dovrai tuttavia evitare, nel corso della
campagna, di intervenire direttamente negli affari correnti del senato o nelle
assemblee. Ma dovrai sempre ricordare questo: il senato dovrà ritenere, sulla base
delle tue elezioni passate, che tu sarai il difensore della sua autorità, i cavalieri
romani, le persone dabbene e i ricchi dovranno aspettarsi da te la difesa del loro
riposo e della loro tranquillità; la massa, sulla base della testimonianza dei discorsi
popolari che tu hai pronunciato nelle assemblee o davanti ai tribunali, che tu non ti
opporrai ai loro interessi.»

A. Marcone, La vita politica romana, in “I viaggi di Erodoto”, gennaio-aprile


1997, n. 31.

Christian Meier     


La differenza tra cives e politai nel contesto di
ulteriori peculiarità
Il modo di essere cittadini Come è potuto avvenire che toccasse ai greci di essere i
primi nella storia del mondo a sviluppare delle democrazie? Come è potuto accadere
che i romani, con la Repubblica come assetto istituzionale, abbiano potuto conquistare
un impero mondiale e successivamente, in altre forme, conservarlo? Entrambi i
fenomeni ebbero molteplici effetti. Si poterono realizzare così quegli antichi
presupposti che direttamente o indirettamente, e non in misura secondaria attraverso il
cristianesimo scaturito da radici ebraiche, tanto contribuirono a.,che su di un terreno
ulteriormente nuovo sorgesse qualcosa di radicalmente diverso. Per dirlo con una
parola: l'Europa. La mia riflessione si muoverà sull'ampio sfondo di queste questioni.
Io desidefo tentare di precisare la peculiarità di greci e romani operando un confronto.
Non nel senso che tali peculiarità possano essere considerate come "cause" della
democrazia greca e della creazione dell'impero romano. Ma giocano
condizionate/condizionanti un grande ruolo in connessione con la loro formazione. E
soprattutto: la loro conoscenza contribuisce in modo sostanziale alla loro
comprensione. Le poleis greche e la repubblica romana avevano originariamente
molto in comune. Esse formavano piccole società prevalentemente di proprietari
terrieri con centro cittadino. Le loro società consistevano di tre gruppi di censo:
cavalieri, opliti-contadini e per il resto, per dirlo alla greca, "i teti". Il servizio militare
veniva svolto dai proprietari terrieri. I cittadini dovevano pagare solo eccezionalmente
delle imposte, in forma di quota. Il rivestimento delle magistrature, tranne che nelle
democrazie, dove anche i più poveri potevano accedervi, non comportava ricompensa.
Non c'era governo, non c'era burocrazia. Per tempo quasi tutte le città greche, così
come Roma, si erano liberate delle loro monarchie. Successivamente il governo fu
tenuto dai nobili, accanto ai quali c'era tuttavia almeno un'assemblea popolare che
comunque dapprima aveva poco potere. Accanto a questi punti in comune tuttavia si
possono osservare notevoli differenze. Sono proprio tali differenze che costituiscono
il nostro tema. Nello specifico si tratta di qualcosa che io chiamo struttura di
appartenenza. Con questo io mi riferisco al modo in cui i cittadini greci e romani
appartenevano alla loro comunità. In altri termini: la forma specifica con la quale essi
erano cittadini. Poiché tale appartenenza alla comunità si pone di necessità in modo
concorrenziale con altre appartenenze, non ci si deve accontentare semplicemente
delle specificità dell'essere cittadini, ma si deve proprio investigare la struttura in cui
le diverse appartenenze si riconnettono. Abbiamo qui, in ultima analisi, problemi di
identità collettiva. Compete alla comparazione che i fatti che vengono posti in
rapporto reciproco siano noti in termini generali. Nello specifico nel migliore dei casi
possono venir estrapolati dei particolari che sinora erano stati piuttosto trascurati.
L'esito della comparazione consiste essenzialmente in questo, che il significato dei
fatti e, soprattutto, di determinate connessioni che essi formano con altri viene meglio
chiarito. In proposito, entro certi limiti si lascia al gusto dell'osservatore quanto
proporre di volta in volta a confronto. Si possono paragonare le città greche con Roma
così come con città del Medioevo (e per giunta per epoche differenti), ma anche con
regni orientali e stati moderni. Ogni confronto ne richiederà altri che possano essere di
interesse. Nessuno basta di per sé perché una peculiarità sia sufficiente. Con i termini
moderni "cittadino", "citoyen", "citizen", "Bürger" designiamo nello stesso tempo il
polites dell'antica Grecia e il civis romano. Ma gli aspetti comuni di polites e di civis
si limitano al fatto che entrambi indicano l'appartenenza alla "cittadinanza". Infatti in
Grecia e a Roma con cittadino si intende qualcosa di molto diverso. Io desidero in
primo luogo dare evidenza a quattro differenze tra cittadini greci e romani. Il
"valore" politico del diritto di cittadinanza Il peso politico del diritto di
cittadinanza è molto differente non solo presso i greci e i romani. Ci sono inoltre
differenze a seconda delle epoche, e presso i greci tra democrazie e oligarchie. Si
prescinde qui dal fatto che tanto per i romani come per i greci l'accesso a determinate
cariche era subordinato a un determinato patrimonio e di solito presso i greci a un
censo. La cosa è comprensibile se si tiene conto che si presuppone che il magistrato
sia disponibile e che deve essere responsabile in solido con i suoi beni. Solo nelle
democrazie tutti (o quasi) hanno il diritto di essere consiglieri e giurati; in Atene
potevano addirittura rivestire tutta una serie di cariche. E per facilitare anche i più
poveri, si pagavano anche indennità giornaliere. A Roma,. come si sa, il rivestimento
delle magistrature in generale era riservato a una cerchia ristretta idi famiglie;
rimanevano comunque possibilità di ' ascesa anche per altri. Quello che preme qui è
che sussiste una differenza tra tutti i greci da una parte e i romani dall'altra. Essa
riguarda il peso dell'elementare diritto di partecipazione, il diritto di voto
nell'assemblea popolare. Nelle assemblee greche il voto di ciascuno all'interno della
collettività contava tanto quanto quello di ciascun altro: one man one vote. Il risultato
finale scaturisce dal computo complessivo (o dalla stima) di tutti i voti. E possibile
che non ogni cittadino abbia il diritto di prendere parte all'assemblea popolare.
Democrazie moderate, e soprattutto oligarchie possono per questo prestabilire un
patrimonio minimo, e ci sono anche altre difficoltà. Perciò una parte degli
appartenenti alla città può essere esclusa dai diritti di cittadinanza politica. Solo quelli
che non sono interessati da tale limitazione hanno un diritto di voto di uguale valore.
A Roma, al contrario, ogni assemblea popolare deliberativa è ripartita in unità di voto
e l'uguaglianza del diritto di voto – one man one vote – vale solo nell'ambito delle
singole unità di voto. In esse vengono computati i singoli voti e accertati i risultati, il
che significa più o meno: l'unità di voto elegge i candidati X e Y. Solo questo
risultato, non il numero dei voti dati di volta in volta, viene notificato e contribuisce al
voto definitivo dell'assemblea. Questo principio di computo risultava quindi avere
delle conseguenze particolarmente gravi, dal momento che le unità di voto potevano
essere davvero assai diverse. Certo non sin da principio, ma con l'andar del tempo il
diritto di voto al loro interno ebbe un valore sempre più accentuato e le differenze
potevano essere considerevoli. A Roma si voleva che tutti i cittadini avessero parte
nelle votazioni, ma non con il medesimo peso. Le nostre fonti sottolineano che era
importante che nessuno fosse escluso dalle elezioni, dal momento che ci si era
assicurati quanto è espresso con una formula da Cicerone: ne plurimum valeant
plurimi. Questo vale in misura eclatante nei comitia centuriata che, almeno in origine,
erano un'assemblea militare. Qui presumibilmente tale principio è sorto in un primo
tempo per ragioni pratiche, forse però anche per dar conto della diversa importanza
militare delle diverse classi patrimoniali. Dapprima in questa assemblea c'era una sola
classis cui – diversamente dai cavalieri da un lato e dagli uomini infra classem
dall'altro – appartenevano i contadini in grado di portare le armi. Successivamente le
cinque classi si sono differenziate in base alla stima del patrimonio, differenziando
l'antica tripartizione al centro e certamente accogliendo anche contadini poveri nelle
classi inferiori. Le centurie dei cavalieri rimanevano al livello superiore e inoltre
c'erano determinate centurie per artigiani e musicanti che servivano in guerra e infine
quelle nelle quali votava la gente senza patrimonio, i proletari i . Qui si mostra
un'interessante differenza con l'antica Atene, dove Solone pure modificò la
tripartizione originaria. Egli però creò dalla classe superiore dei cavalieri un'ulteriore
classe verso l'alto, quella dei pentakosiomedimni. Le due riforme rispondevano a due
esigenze del tutto diverse. A Roma con questa differenziazione evidentemente si
doveva graduare in modo preciso il diritto di voto; ad Atene, al contrario, si voleva
creare un gruppo autonomo che potesse essere chiamato in misura più massiccia a
contributi fiscali e i cui membri potessero rivestire determinate cariche per le quali, in
caso di deficit, fossero nella condizione di rispondere con il loro patrimonio. Per le
votazioni nell'assemblea popolare ateniese questa differenziazione non aveva alcun
significato. Le differenze esistenti a Roma tra le classi non consistevano però solo nel
fatto che nelle classi superiori poteva determinare l'esito della votazione, nella loro
unità di voto, un numero molto inferiore di persone che nelle classi inferiori. Infatti, le
centurie votavano l'una dopo l'altra anche in rapporto al livello del loro rango. La cosa
aveva un significato, perché la votazione veniva interrotta non appena si raggiungeva
la maggioranza assoluta per il necessario–numero di candidati o per una. proposta di
legge. Per le elezioni consolari, peraltro, dove ciascuno aveva due voti, si potevano
produrre grandi differenze. Candidati che erano forti nelle classi inferiori, potevano
essere molto danneggiati nei confronti di altri. E alla fine non si accertava più a favore
di chi propendevano le classi inferiori. Del resto operavano – cosa che non è da
sottovalutare – anche molteplici suggestioni a favore di una unificazione del voto;
anche questo tornava utile alle classi superiori. Roma aveva d'altra parte ancora un
altro tipo di assemblea popolare, i comitia tributa, che eleggevano i magistrati
inferiori e che di solito, anche se non esclusivamente, votavano su delle leggi. Qui
non valevano distinzioni di classe, il principio della ripartizione era geografico. Ma il
principio di calcolo era il medesimo. E se la consistenza numerica delle tribus
dapprima potrebbe essere stata grosso modo la medesima per tutte, sul lungo periodo
anche qui si determinarono svariate differenziazioni. Le quattro tribus urbane, per
esempio, erano numericamente molto più forti di quelle rustiche. Tra le tribù rustiche,
poi, ne venivano preferite alcune, così che mantenessero grosso modo la medesima
consistenza, mentre in altre venivano iscritti nuovi cittadini e questi potevano essere
moltissimi, come quando, per esempio, il diritto di cittadinanza veniva concesso a
intere città. Nell'insieme si può dunque arrivare a questa conclusione: il diritto di voto
dei cittadini a Roma aveva un peso assai diversificato; rispetto a esso tutti i romani
(sino a una particolare categoria di stranieri che erano stati accolti come "cittadini
senza diritto di voto") avevano diritto a partecipare alle votazioni. Persino i latini, con
i quali Roma era alleata, ma che però non erano cittadini romani, potevano votare,
quando si trovavano a Roma, in un'unità di voto scelta a sorte almeno nei comitia
tributa. Rispetto a questa disuguaglianza si pone l'uguaglianza del diritto di voto dei
greci per tutti i cittadini politicamente abilitati. Essa aveva come complemento la
possibilità di limitare l'ambito degli abilitati. Qui dunque il significato politico del
diritto di cittadinanza ha un'importanza di gran lunga superiore, tanto nelle
democrazie che nelle oligarchie. Per ragioni di semplicità lasciamo da parte alcune
forme intermedie di ammissione alla cittadinanza. Il grado della libertà nell’esercizio
dei diritti politici Alla crescente differenziazione del peso del diritto di voto a Roma
corrispondeva la notevole dipendenza della maggioranza dei cittadini romani dai
nobili. Gli appartenenti ai ceti medi e inferiori erano originariamente per lo più clienti
dei nobili, con estese obbligazioni che legavano tra loro in modo abbastanza penoso
clienti e patroni. Questo sistema rimase in vigore con qualche correzione per vari
secoli, insieme al potere della nobiltà; solo con il tempo conobbe modifiche
sostanziali. Perciò anche in seguito si dovette garantire l'accesso alle autorità cittadine
attraverso i patroni; e poiché il sistema funzionava, la forza della nobiltà ne risultò
rafforzata. Il sistema svolse poi il proprio servizio anche come mezzo di connessione
con le città in tutto l'ambito della sovranità romana e si rafforzò così anche nella sfera
dell'autorità. A Roma dunque continuavano a predominare "solidarietà verticali" tra
alto e basso. In altri termini: quando al singolo interessava qualcosa sul piano politico
cercava di ottenerla attraverso il suo patrono. E, viceversa, egli doveva sostenere il
patrono in occasione di elezioni e in altre circostanze. Così il diritto di voto a Roma
risultava di solito ancora una volta limitato: alla disuguaglianza si aggiungeva la
dipendenza (tanto più che le votazioni a lungo avvenirono per via orale e dunque
erano controllabili). Agli elettori rimanevano pur sempre determinati spazi di gioco.
Per esempio si deve supporre che in occasione delle elezioni consolari essi erano
spesso legati a un solo candidato; l'altro potevano votarlo eventualmente sulla base di
altri punti di vista, come il merito, il gusto, la considerazione ecc. E nelle votazioni
delle leggi c'erano, almeno a partire dall'introduzione del voto segreto, alcune
possibilità di votare liberamente. A Roma esistevano peraltro delle istituzioni che nel
loro insieme consentivano di fare opposizione nei confronti della nobiltà. Si tratta dei
tribuni della plebe e dei comitia tributa plebei sui quali essi si appoggiavano.
All'inizio della Repubblica la cittadinanza romana era consistita di due parti assai
diverse, i patrizi e i plebei. All'origine evidehtemente la comunità era formata da una
cerchia di capi gentilizi che inoltre organizzavano e curavano i rapporti con gli dei.
Da ciò e dalla molteplicità dei rapporti di dipendenza, e precisamente dai vincoli
clientelari, essi acquisirono una superiorità che poterono mantenere a lungo. La plebe
al contrario si compattò al suo interno e lottò per ottenere l'eliminazione di numerose
ingiustizie e abusi e acquisire diversi diritti di libertà e uguale possibilità di accesso
alle magistrature per le loro famiglie più in vista. La conseguenza fu che si formò una
nobiltà più estesa e che i plebei da parte loro furono più decisamente vincolati nelle
clientele (tanto più che essi dovevano essere riconoscenti ai loro capi) e che in caso di
più gravi conflittualità era possibile per loro tutelarsi rispetto ad abusi attraverso
autonomi atti legislativi (e ottenere il soddisfacimento di importanti richieste). In
questo senso all'interno della plebe romana sussisteva una "solidarietà orizzontale",
ovvero quella coesione tra uguali contro i "superiori" che si basa sul fatto che è nota
tra loro la comunione di interessi sostanziali e che è in grado di operare (non dunque i
legami verticali attraverso i quali i singoli di volta in volta possono ottenere di più). Si
sostenevano interessi plebei, tanto comuni quanto quelli singoli di grossi gruppi, e
originariamente il peso del diritto di voto dei singoli era palesemente il medesimo, dal
momento che le tribus devono aver avuto all'incirca la stessa consistenza. Tuttavia,
malgrado tanti successi, la plebe in generale non poteva essere altro che una
opposizione che interveniva relativamente compatta nel caso di particolari contrasti.
Questi casi infatti rimanevano eccezioni. Attraverso l'organizzazione e i diritti della
plebs la generale dipendenza dai nobili non fu dunque eliminata ma solo modificata. I
greci, al contrario, anche se in età arcaica si ebbero diverse forme di dipendenza dai
nobili, non conobbero mai regolari clientele, legami che instaurassero degli obblighi
duraturi e reciproci, di una forza tale da investire tutta la società. L'etica della
riconoscenza era nota anche a loro, ma la peculiarità del sistema clientelare romano,
che si basava sul fatto che ogni servigio che veniva reso a un cittadino lo obbligava
stabilmente anche sul piano politico, non poteva proprio per questo prender terreno in
Grecia, perché qui gli aristocratici e i magistrati non detenevano tanto potere quanto a
Roma. In Grecia in generale mancava anche la forte disciplina aristocratica che
connotava Roma; quanto meno si deve tener conto del fatto che la situazione era
diversa da città a città; e che Sparta rappresentava un'eccezione isolata. Di converso,
non c'era presso i greci nessun compattamento dei ceti inferiori contro la nobiltà che
quindi sarebbe stato trasferibile in forme istituzionali come a Roma. Nel caso di
grosse sollevazioni succedeva che un singolo usurpasse il potere come tiranno, sino a
che alla fine ampi strati del demos non fossero pervenuti alla condizione di assumerlo
direttamente. Sorgeva così una forma completamente nuova di solidarietà orizzontale
e, cioè, non eccezionalmente, come a Roma, ma di regola. Ed essa era così forte che
fu possibile offrire parole d'ordine alla superiorità di nobili e ricchi, quella superiorità
dei ceti dirigenti che suole sempre riproporsi – a meno che un'efficace coesione di
ampi ceti non possa bloccarla stabilmente con l'aiuto di istituzioni idonee –. Proprio
questo è il caso della Grecia, a partire da Clìstene. Fu così possibile che i cittadini si
"politicizzassero" e tenessero lontane le loro questioni domestiche dalla politica. Essi
furono perciò capaci di agire in un modo fondamentalmente concorde. L'indipendenza
del voto dei singoli poteva avere occasionalmente delle limitazioni attraverso forme di
pressione, tanto più che il voto (salvo il caso in cui all'ordine del giorno non ci fossero
decreti contro singole persone) anche qui era pubblico. Tuttavia tali condizionamenti
erano molto lontani da quelli originati dalla dipendenza da patroni. La gestione degli
elenchi dei cittadini Per i greci era molto importante che l'appartenenza alla
cittadinanza fosse controllata con precisione. La cosa iniziava con l'accoglimento dei
neonati nell'elenco dei cittadini. Esso avveniva, per quel che possiamo vedere, in
piccole suddivisioni della.eittadinanza, per esempio nelle . fratríe (come esse si
chiamavano ad Atene e altrove). Queste dovevano accertare la nascita legittima del
figlio di un cittadino. Alcuni membri potevano sollevare obiezione. In queste fratríe,
che erano anche associazione di culto (da cui scaturiva un certo legame dei loro
membri), al più tardi a partire dal VI secolo a.C. si trovavano insieme nobili e non
nobili. E malgrado tutte le possibili influenze dei nobili (in età arcaica) esse sembrano
essere state concepite in modo prevalentemente associativo. Può darsi che anche le
curiae, nelle quali era ripartita la cittadinanza romana all'inizio della Repubblica e che
parimenti rappresentavano delle associazioni di culto e che riunivano dei plebei
insieme ai patrizi (anche se forse non tutti i plebei), controllassero nel loro ambito
l'appartenenza alla cittadinanza. Noi però non sappiamo niente di questo e,
quand'anche tale funzione fosse stata effettivamente svolta, venne meno già in età
arcaica. Tanto a Roma che in Atene (e altrove) ebbero luogo, rispettivamente nel VI e
nel V secolo a.C., nuove ripartizioni della cittadinanza su base geografica. Tuttavia,
mentre ad Atene le nuove ripartizioni rappresentavano associazioni di culto con
numerosi compiti, le tribus romane non avevano alcuna vita autonoma. Questa si
incontrava solo nei villaggi, nei distretti, nei borghi e nei piccoli punti di 'Incontrò,
vale a dire nelle unità amministrative minori nelle quali le tribus potrebbero essere
state ripartite in un primo momento (più tardi però esse facevano riferimento diretto ai
magistrati e al senato). Noi sappiamo poco di questo. A ogni modo i cittadini romani
che vi vivevano tenevano delle assemblee, eleggevano dei capi ed emanavano delle
deliberazioni, per esempio sulla costruzione di edifici o il percorso di strade; e
facevano sacrifici. In questo senso, al livello inferiore si ha una corrispondenza con le
unità più piccole della cittadinanza attica, i demi. Tuttavia, diversamente che a Roma,
i demi dell'ordinamento attico avevano il compito di gestire un elenco dei cittadini,
quello degli adulti; un secondo tipo di elenco, oltre a quello delle fratríe, che
conteneva i figli dei cittadini di pieno diritto. Anche qui si decideva in modo
collettivo sui casi dubbi. Il consiglio dei cinquecento poteva controllare le decisioni
dei demi. A Roma, al contrario, la gestione dell'elenco dei cittadini era competenza di
un magistrato, del censore e dei suoi aiutanti nella tribus. Allorché la cittadinanza
romana aveva raggiunto una determinata consistenza, era usuale (cosa che in casi
singoli può essere stata praticata già prima) che certi magistrati nelle colonie, nei
municipi, nelle prefetture romane stilassero le liste dei loro cittadini e le mandassero a
Roma. Non è noto se in funzione di ciò ci siano state delle assemblee di cittadini.
Qualcosa parla nel senso che ci fossero assemblee delle tribus ma niente indica che le
loro funzioni andassero oltre l'elezione di qualche capo e (più tardi) di giurati. La città
di Atene si basava dunque in modo molto più deciso sulle piccole unità nelle quali
ciascuno si conosceva. E attribuiva all'insieme dei cittadini più competenze che non ai
magistrati circa la questione, così importante per i greci, di chi fosse cittadino o meno.
Il che vale a dire, alla rovescia: il cittadino era qui molto più decisamente
caratterizzato dallo spirito comunitario dei membri dei demi. La rappresentanza del
demos nel consiglio dei cinquecento, l'organo che preparava le sedute dell'assemblea
popolare, avveniva in forme simili, soprattutto nei casi in cui quest'ultima non poteva
entrare in azione e quindi il consiglio, a partire da un certo momento in poi,
rappresentava l'organismo superiore di decisione. Esso era costituito in misura
proporzionale alla forza dei demi, per cui c'era un consigliere ogni sessanta cittadini, e
annualmente tutti i consiglieri venivano rieletti. Il complesso della cittadinanza e le
sue sottoripartizioni erano dunque strettamente connessi. Si deve presupporre che una
parte della formazione della volontà del demos attico avvenisse nei singoli demi.
Viceversa, nei vari insediamenti dell'ager Romanus, la formazione della volontà dei
membri si sarà limitata alla sfera locale, ivi compreso il caso in cui avevano da
trasmettere preoccupazioni ai loro patroni a Roma. Qui contavano in primo luogo le
solidarietà verticali, mentre la solidarietà orizzontale in Attica si sarà estesa sino ai
demi. E il fatto che essi dovessero controllare l'appartenenza alla cittadinanza
potrebbe esserne stata una componente. Interessante, inoltre, è qualcosa di diverso: le
fratríe offrivano aiuto ai loro appartenenti, per esempio nel caso di vendetta cruenta e
quando, non ci fossero stati altri discendenti: dieci membri eminenti si facevano allora
avanti al loro posto. Non è noto niente di simile per Roma. Si deve certo pensare che
in tali casi i patroni si impegnavano per i loro clienti. Al massimo ci sarà stato
qualcosa di paragonabile nelle curiae di età arcaica. In termini generali: a Roma le
tradizionali relazioni di patrono/cliente intervenivano là dove in Grecia dovevano
operare le sottoripartizioni della cittadinanza. In un caso come nell'altro in un primo
tempo i bisognosi di difesa, di aiuto, di rappresentanza dipendevano dai nobili. Solo
che, presso i greci, questo stato di cose poté essere modificato creando nuove
sottoripartizioni nelle quali tale situazione non aveva più valore. A Roma, al
contrario, il vincolo di dipendenza clientelare non poté essere sostituito. Così proseguì
la disuguaglianza. Il conferimento del diritto di cittadinanza agli stranieri In
quest'ambito c'è una differenza che balza agli occhi e che aveva colpito già molti
osservatori nel mondo antico. Se si fa un confronto, risulta che i greci hanno concesso
con molta parsimonia il loro diritto di cittadinanza, i romani con molta generosità. A
Roma ogni schiavo affrancato da un romano diventava automaticamente cittadino
romano anche se il suo diritto di voto era molto limitato e tanto lui che i suoi figli non
potevano candidarsi ad alcuna magistratura. D'altra parte, a Roma si tendeva sempre a
concedere il diritto di cittadinanza a stranieri, tanto a singoli che a intere collettività
cittadine, e solo in misura limitata – e temporanea – quello senza diritto di voto. Ad
Atene, invece, nell'età classica del V secolo a.C., non c'erano quasi conferimenti di
diritto di cittadinanza. Al contrario: con la famosa legge di Pericle, il diritto di
cittadinanza fu ulteriormente limitato a quanti fossero ateniesi da parte di padre e di
madre. In certe occasioni si conferiva il diritto di cittadinanza come onore a principi e
benefattori; eccezionalmente anche a cittadini di altre città; una volta in una situazione
di particolare emergenza, un'altra quando la città di Platea, che da molti decenni era
strettamente legata agli ateniesi, fu distrutta dai nemici. In età più tarda,
nell'Ellenismo, in proposito si fu più generosi; si svilupparono le forme dell'isopolitia
e della simpolitia: ma discuterne ora ci porterebbe troppo lontano. Le forme della
partecipazione politica Il significato politico del diritto di cittadinanza romano era
dunque assai inferiore a quello greco. Di conseguenza poteva essere conferito con
generosità ad altri. Le decisioni avvenivano fondamentalmente in senato, dunque in
ambito nobiliare. Tuttavia il diritto di cittadinanza romano aveva funzioni importanti.
Ma per i più, e in misura crescente con l'andar del tempo, in primo piano erano i diritti
di libertà (ai quali il romano si appellava per esempio quando dichiarava: civis
Romanus sum!). Ci si richiamava sempre al diritto di appello che tutelava
sistematicamente i romani dall'arbitrio di un magistrato. Un ulteriore diritto di libertà
era rappresentato dal diritto al voto segreto (introdotto solo più tardi). Inoltre risultò
poi noto a tutti che i diritti strappati dai tribuni, per esempio quello all'intercessione,
servivano a tutela dei cittadini. Grazie a questi diritti di libertà, e soprattutto grazie ai
tribuni della plebe, si rafforzarono peraltro anche i meccanismi delle clientele. I nobili
dovevano sempre prestare attenzione a garantire ai cittadini quella tutela e quell'aiuto
al quale essi avevano diritto e che tornava pure utile a garanzia dei loro diritti. Il
diritto di cittadinanza greco al contrario era partecipatorio. Aristotele si è dato molta
pena nel definire i cittadini. La soluzione, che gli è parsa più illuminante, parte dalla
partecipazione ai diritti politici dal metéchein (l'aver parte): il cittadino non è
definibile da nient'altro se non dal fatto che prende parte nell'attività giudicante
(krísis) e in quella di governo (arché). Con riferimento ad alcune poleis organizzate in
modo particolare egli aggiunge questa limitàzione: cittadino è colui che ha la •
possibilità di aver parte in cariche deliberanti o giudicanti. In ultima analisi questo
significa che cittadino è soprattutto colui che ha parte negli (mori, cioè nelle
magistrature. Si vede di che cosa propriamente si tratta; e proprio per questo l'attività
di consigliere e di giurato deve essere considerata come "magistratura" e come
governo; infatti non tutti ricoprivano cariche o ne avevano la possibilità. Ovviamente
anche ai greci premevano i diritti di libertà. Alla fine essi avevano combattuto a lungo
e duramente per il diritto e per la giustizia. In molte località si arrivò a una
codificazione (per altro in modo molto simile a quello che avvenne a Roma). Ad
Atene fu stabilito che nessun cittadino potesse essere giustiziato senza condanna. La
tortura era proibita e le punizioni corporali furono quanto meno limitate. La sicurezza
dell'abitazione fu sempre più garantita e così pure quella della proprietà. Tutto questo
e altro rientrava nel concetto di "leggi" delle quali si era orgogliosi. Malgrado questo,
Jacob Burckhardt ha osservato che un "governo attraverso pochi" presso i greci non
era conciliabile con la "libertà per tutti". Non seppero infatti mettere in rapporto la
parità civile con la disuguaglianza politica. Il povero anzi, per tutelarsi da un torto,
doveva votare, si trattasse di giudici o magistrati. Si doveva impegnare politicamente
per poter dare efficacia ai suoi diritti. Non peraltro Euripide fa dire con orgoglio che
appartiene alla libertà (della democrazia) che il piccolo, quando è nel suo diritto, può
vincere sul grande. Si palesa in ciò nello stesso tempo l'altro aspetto della società
greca: e cioè che essa si attendeva da quanti avevano pienezza di diritti un ampio e
regolare impegno politico. La cosa è attestata tanto da Democrito quanto (per Atene)
da Pericle, ma è presupposta anche dalle stesse istituzioni politiche. Mentre i romani
(a prescindere dall'aristocrazia) in generale erano chiamati all'impegno politico
soprattutto quando c'era in gioco un interesse dei loro patroni nobili, oppure
(raramente) della plebe, i greci dovevano impegnarsi regolarmente nella politica.
Aristotele si interroga, a proposito del governare (per dirla in termini generali: della
partecipazione alla politica), se questo sia qualcosa di buono o di cattivo: se i cittadini
sono uguali per natura è giusto che tutti vi abbiano parte. La partecipazione ai diritti
politici trovava la sua espressione nel passaggio dal governare al venir governati.
Corrispondeva ad altri tipi di partecipazione, come per esempio prendere porzioni di
carne dopo il sacrificio o del denaro, che deve essere distribuito se una città consegue
delle eccedenze. Nel servizio militare naturalmente si realizza la situazione opposta.
In modo sorprendente qui la posizione del singolo è determinata dal fatto di aver parte
a delle divisioni; detto altrimenti: deve ricevere molto da quello che è comune.
Quanto è comune molto concretamente deve essere fatto parte a tutti i cittadini. Al
contrario, per i romani non è noto niente di simile. E un cambiamento da governare a
essere governati avviene solo in misura limitata. Quando ci sono delle divisioni, si
tratta per lo più di una forma di benevolenza che alcuni nobili manifestano ai loro
seguaci o alla plebe in generale. Infatti, in ultima analisi, governa su tutto
costantemente l'aristocrazia, anche se c'è una rotazione annuale delle magistrature. Il
principio della partecipazione dei cittadini ai diritti politici creò le condizioni, presso i
greci, affinché in certe circostanze il loro ambito venisse ristretto. L'uguaglianza
infatti valeva solo tra oligarchi. A Roma, al contrario, il potere di uno si ricollega ai
diritti di libertà e a determinati diritti a tutela di altri, cosa che in ultima analisi viene
mediata dai rapporti di clientela. Questo rende possibile che tutti i cittadini abbiano
diritti politici, certo assai disuguali. Anche qui torniamo ad avere a che fare con
differenze nella struttura di appartenenza. Ad Atene la condizione di cittadini è di
estrema importanza. Una gran parte della forza, del tempo, dell'attenzione dei cittadini
si concentra sul politico. Di conseguenza gli appartenenti alle democrazie sono
cittadini in una misura e con una intensità quale altrove si realizza al massimo in casi
eccezionali. Ed essi lo sono tanto nella sfera politica quanto – in ispecie ad Atene – in
quella militare, tanto al centro della città quanto nelle sottoripartizioni; così nella vita
quotidiana come nelle feste. Tutte le altre appartenenze, in generale, al di là di quelle
di casa e dei rapporti di vicinato, passano in secondo piano, oppure vi si riferiscono.
Anche la religione era sostanzialmente un fatto di pertinénza della polis. Proprio per
tale ragione l'appartenenza alla cittadinanza era connotata in modo molto superiore
alle altre; era predominante una ben formata identità civica. Questa identità civica era
formata in modo particolare nei ceti medi e inferiori. Essa non si basava solo sul fatto
che la qualità di cittadino fosse così importante, ma anche nell'essere uguali in essa. In
un modo o nell'altro si deve essere realizzata la netta differenziazione dell'ordine
politico da quello sociale. L'uguaglianza nella politica sussisteva accanto a una
sempre esistente, molteplice disparità di patrimonio, formazione, relazioni ecc. Essa
poteva manifestarsi solo in una grande solidarietà, la solidarietà tra uguali. La loro
concentrazione sul politico corrispondeva a una sottolineatura dell'aspetto
comunitario, a un venir meno di tutte le particolarità. I nobili greci, invece, che
tradizionalmente vivevano oltre la città, erano assorbiti in molteplici legami e si
dedicavano alle più diverse attività, di regola non si pensavano così radicalmente
cittadini, anche se l'Atene classica poté vincolarli in un modo relativamente forte. A
Roma, al contrario, valeva per la nobiltà senatoria mutatis mutandis qualcosa di simile
alle cittadinanze democratiche: essa era vincolata rigidamente al suo ruolo politico.
Per gli altri l'appartenenza alla cittadinanza era sì rilevante, ma acquisiva uno spazio
significativo nella loro vita solo in caso di servizio militare. Da un punto di vista
politico, essi erano in generale poco impegnati, se si prescinde da certi periodi di
rivoluzione e, con una certa regolarità, in occasione delle elezioni. Di esse Cicerone
dice che venivano assegnate cariche da persone che non vi si opponevano, ma che non
potevano rivestire esse stesse tali cariche. Perciò la maggior parte dei cittadini romani
era impegnata nelle attività economiche e sociali. Molto più importanti erano le
differenze tanto di ordine quanto di situazione patrimoniale e infine di professione. Da
ciò scaturiva una minor compattezza. Il politico rimaneva inserito nel complesso
dell'ordinamento sociale tradizionale. La struttura di appartenenza era complessa. Ci
si potrebbe porre, sia detto tra parentesi, una serie di domande sulla misura in cui tali
differenze tra greci e romani abbiano influenzato anche la rispettiva raffigurazione
dell'uomo nelle arti plastiche. L’aristocrazia a Roma Il confronto tra greci e romani
produce come conseguenza il fatto che numerosi aspetti appaiano in una luce
migliore. Quanto sorprendente possa apparire la gestione degli elenchi dei cittadini da
parte del censore lo si nota solo se si considera i romani dal punto di vista dei greci. E
la stessa considerazione vale per la ripartizione in tribus e classi, il principio di
computo nella votazione e molto altro. Parallelamente, risulta poco comprensibile la
gestione dell'elenco dei cittadini da parte delle fratríe e dei demi se lo si prende in
considerazione nella prospettiva romana. Tanto l'uguaglianza quanto la
disuguaglianza suscitano nuovi interrogativi. Il grado eccezionalmente elevato di
difformità di Roma dalla Grecia e, soprattutto, da Atene, emerge in tutta evidenza. Ci
si chiede come si spieghino tali differenze, tali peculiarità. La risposta non può
scaturire dal confronto. Si tratta peraltro di un problema particolarmente complesso,
in sé non risolubile, quello di trovare delle "cause" di fenomeni storici complessi
come per esempio la specificità di un popolo. In genere è già molto se si individuano
con la maggiore precisione le peculiarità e le si sa disporre in una connessione
plausibile. Proprio in riferimento a ciò il confronto può dare un buon aiuto. Voglio
cercare di delinearlo come conclusione. Metto in primo piano un problema: come si
deve valutare la sorprendente generosità nella concessione del diritto di cittadinanza
da parte dei romani e l'altrettanto sorprendente esclusivismo della città greca e la sua
accentuazione da parte di Pericle? Per Roma si palesa, proprio nel confronto con la
Grecia, quanto forte la sua cittadinanza si basasse in modo peculiare su una comunità
dominata dall'aristocrazia. In modo peculiare, significa in primo luogo uno stretto
legame verticale tra nobili e non nobili. In secondo luogo una combinazione altamente
efficace di potere e di libertà. In terzo luogo si dovrebbe aggiungere la concentrazione
sulla res publica della nobiltà, ma anche del resto della .cittadinanza, almeno come
soldati, che legittimava e disciplinava la nobiltà, rendendola insostituibile (cosa che si
connetteva strettamente con gli straordinari successi della città). I diritti di libertà
strappati a questa nobiltà stabilizzarono il suo governo. Anche grazie alla forza di
formazione morale di tale governo poté per esempio, se non venir introdotta, almeno
essere affermata la graduazione dei diritti di voto; in funzione dell'autorità e della
disciplina poteva operare una magistratura come la censura il cui compito, tra l'altro,
era quello di amministrare la disuguaglianza civile. I proprietari potevano comunque
godere di diritti pressoché illimitati, per esempio decidere sulla vita e la morte di
quanti erano sottoposti alla loro autorità, oppure anche lasciare che i loro schiavi
entrassero a far parte della cittadinanza. Tuttavia, in considerazione dei predominanti
rapporti di dipendenza, gli aristocratici avevano un preciso interesse all'accoglimento
di nuovi cittadini. La cosa tornava utile al loro potere. Essi comunque potevano
bloccarsi a vicenda. In generale però la cittadinanza romana nel corso delle conquiste
si era affinata in una forma aperta, nella quale altri potevano essere sempre accolti. In
proposito si presupponeva una certa assimilazione, ma dovevano continuare a
sussistere molteplici differenze: i nuovi cittadini, infatti, non erano nelle condizioni di
contare molto. Non c'era niente infatti che dipendesse da loro. Nella capitale, a Roma,
si raccoglieva un pubblico fatto di ogni tipo di persone e paesi, di schiavi affrancati
provenienti dalle estremità dell'impero, di commercianti, artigiani ecc. Per chi viveva
lontano c'era uno svantaggio in più. Almeno sino a quando ci fu la repubblica i diritti
politici, infatti, potevano essere esercitati solo a Roma. La costituzione e la stabilità
dell'impero romano ebbero le premesse più svariate. Tuttavia sarebbero state
difficilmente realizzabili senza la peculiare formazione del diritto di cittadinanza
romano e delle relazioni che esso presupponeva, senza la capacità di trasformare i
sottomessi in alleati e, spesso, gli alleati in romani. E difficile accertare se le città
gfeche in età arcaica fossero più esclusive di quelle romane. In origine, comunque, dei
singoli o dei piccoli gruppi potevano essere accolti al loro interno. Ma, in generale,
esse rimasero per vari secoli chiuse in se stesse. Solo così, visto nel suo insieme, poté
continuare a sussistere il gran numero delle loro piccole città indipendenti. E evidente
che esse svilupparono un'ostilità alla conquista di altre città e soprattutto rispetto
all'incorporazione dei loro cittadini. Le regole confermano le eccezioni. Non per altre
ragioni si esportava l'eccesso di popolazione in colonie che si trovavano assai lontano.
Questa esclusività, che naturalmente dipendeva dalla condizione della città come
comunità di culto, diede come esito una particolare coscienza di omogeneità, che per
noi è difficile da cogliere, ma forse era molto più forte delle diversità tra i cittadini di
comunità per lo più molto vicine tra di loro e che, quindi, andavano evidenziate in
modo artificiale. In questo risiedeva un'importante differenza rispetto a Roma.
Tuttavia il sentimento di stretta appartenenza comune all'interno della città (con tutta
l'apertura sull'esterno) deve aver di nuovo avuto a che fare con il particolare
significato della partecipazione nella città, che potrebbe essersi limitata in un primo
momento ai nobili e a una cerchia di cittadini abbienti. Noi sappiamo che i greci
attribuivano molto peso all'autarchia delle loro case. Questa autonomia aveva come
complemento il fatto che la polis non doveva più essere il complemento di quanti le
appartenevano. Il tutto, le cui parti erano i cittadini greci, non doveva andare oltre le
parti ma, al contrario, scaturire direttamente da loro. En gar toi pollói éni ta pànta
("nel molto infatti risiede il tutto"). Anche questo concetto potrebbe essere contenuto
nella formulazione di Erodoto. Proprio in ciò si manifestava il fatto che si voleva
molto concretamente prendere parte di quanto era comune: alle feste, ai sacrifici, ai
banchetti pubblici, alle gare sportive; agli onori politici; anche alle guerre, ma di
regola si combattevano solo "guerre da torneo", che non producevano conquiste.
Siffatto presupposto aveva come conseguenza negativa il fatto che i greci per lo più
non erano in c.ondizione di raccogliere grandi energie al centro della comunità,
fornendo per esempio un cospicuo potere autonomo ai magistrati. Inoltre
evidentemente il vincolo reciproco nei rapporti di clientela avrebbe disturbato la loro
indipendenza. Essi volevano essere superiori agli altri ma possibilmente non essere
vincolati ad altri. Come paragone: a Roma la comunità formava un insieme che
andava un bel pezzo oltre tutti gli individui. Tuttavia in certe circostanze consentiva a
questi singoli di esercitare un gran potere, ma pur sempre – per prevenire ogni
possibile abuso – alla condizione del suo esercizio corretto rispetto alla disciplina
dell'ordine e alle sue molteplici obbligazioni. Fra comunità e collettività Dove però
la comunità, come presso i greci, consiste in modo così concreto dei suoi componenti
è difficilmente concepibile che sia conciliabile con altri, con stranieri, con collettività.
Questi cittadini volevano e potevano, se non sussistevano particolari motivi, non
"farsi assorbire" in associazioni numerose. Là dove si ha parte nel tutto in modo così
accentuato è imprevedibile quanto succede se il tutto si scioglie in qualcosa di più
grande. Infatti anche l'autonomia, la grandezza relativa del singolo risulterebbe
minacciata dal confronto con la totalità. La stretta connessione della coscienza
partecipativa della polis e dei cittadini con i principi dell'esclusivismo e
dell'omogeneità si può cogliere specialmente nel caso anomalo di Sparta, la cui
capacità di concentrare nel suo centro un grande potere risiedeva in sommo grado
nella disciplina e nello stesso tempo nell'omogeneità e nell'esclusivismo. Con queste
condizioni di base dell'età arcaica, i criteri, il senso della vita nella polis furono
definiti per molto tempo. Allorché i ceti medi richiesero parità dei diritti politici,
manifestarono a questa polis come fatto naturale che essi da parte loro volevano
semplicemente avervi parte appieno. In questo si doveva mostrare il loro rango, a
questo si indirizzava l'interesse di avere tutti l'uno a fianco dell'altro e da questo
secondariamente sorse la loro solidarietà orizzontale. Poiché la loro partecipazione
doveva essere diretta, questi uomini non potevano farsi rappresentare politicamente da
altri. Nel consiglio dovevano sedere a turno. In questo si manifestava la loro
uguaglianza. In (* Vedi anche: Chr. Meier, La nascita della categoria del politico in
Grecia, Il Mulino, Bologna 1988; Chr. Meier, P. Veyne, L'identità del cittadino e la
democrazia in Grecia, Il Mulino, Bologna 1988; Chr. Meier, Atene, Garzanti, Milano
1996) misura uguale il politico, inteso in senso ampio, ivi compresi feste e sacrifici,
entrava al centro della loro esistenza. Si arrivò così alla loro marcata identità civica,
che era la premessa di ogni democrazia, che potevano fondare solo nella
partecipazione diretta. Si delineava però dal complesso delle appartenenze alla città
anche il concetto politico di cittadino: dove gli inferiori potevano, in forza del loro
essere maggioranza, rivolgere la superiorità contro i superiori, gli oligarchi dovevano
vedere di delimitare i diritti politici a un piccolo numero. Là dove però la città
scaturisce così immediatamente dalla maggioranza dei cittadini, il loro diritto di
cittadinanza è così ripieno di contenuti concreti, è così connesso con la loro identità,
che essi non lo possono partecipare con altri. Inoltre la città non può superare una
determinata dimensione. L'esclusivismo della cittadinanza partecipatoria deve quindi
risultare tanto più forte quanto più l'ambito di chi vi partecipa politicamente si estende
ai ceti medi e inferiori. Ma perché la legge sulla cittadinanza di Pericle del 451 a.C. ha
ulteriormente ristretto la cerchia degli ateniesi rispetto alle leggi sino ad allora in
vigore? Secondo il nostro modo di vedere nella situazione dell'Atene di allora, in
considerazione di un esteso dominio, che si doveva mantenere e garantire, sarebbe
stato piuttosto consigliabile ampliare la propria cittadinanza, a ogni modo non
limitarla. Così, però, non è pensare alla greca. Tale soluzione infatti avrebbe
comportato un dover rinunciare a se stessi per affermare il proprio dominio.
Evidentemente qui premeva di più l'identità che non l'agire primariamente secondo un
fine. E a questa identità comportavano, secondo la concezione greca, omogeneità e
compattezza. Non ti è dubbio che le si vedevano minacciate non già dai matrimoni
internazionali dei nobili, ma dai legami di altri che portavano donne ad Atene da paesi
sempre nuovi. Chi pensa in questi termini difficilmente può dar vita a una signoria
duratura, ma può guadagnare fama, dar sfoggio di brillantezza e forse Pericle ha
anche pensato, con l'omogeneità e la compattezza, di garantire in primo luogo il suo
potere. Da ciò si vede la sua grandezza, ma anche il limite delle sue possibilità.
Emerge, dunque, come romani e greci siano stati assai lontani gli uni dagli altri: così
nel diritto di cittadinanza, inteso soprattutto come diritto di libertà, rispetto al
partecipativo, così nella repubblica nobiliare, rispetto alla democrazia, così infine
nell'impero, rispetto alla polis. Il confronto potrebbe estendersi alla guerra e alla
concezione dello spazio, allo sport, alla religione, al rapporto dei sessi, dei gruppi di
età e a molte altre cose ancora. Ovunque emergerebbero nessi di questo tipo. La
democrazia si poteva costruire allora solo con il diritto di cittadinanza partecipativo,
un impero universale da parte di un'aristocrazia in modo stabile solo con un diritto di
cittadinanza flessibile, concentrato nei diritti di libertà. In conclusione, un punto va
messo in evidenza: la democrazia greca, nella misura in cui era rivoluzionaria,
presupponeva il pensiero e la filosofia politica e portò parimenti a una magnifica,
ulteriore fioritura di filosofia e delle tecniche più disparate, ivi comprese la tragedia e
l'arte. Ma c'era una scienza che solo i romani, sia pure con aiuto greco, potevano
sviluppare: la giurisprudenza. Evidentemente la si poteva avere solo là dove l'autorità
di un pretore e la disciplina di un ceto, sulla quale essa si basava, rendevano possibile
un progressivo affinamento e una graduale scientificizzazione del diritto, e là dove i
diritti di libertà dei cittadini e il dovere di assistenza dei patroni richiedevano che ci si
desse cura in modo molto puntuale della norma giuridica. Se si proseguisse nel
paragone dovrebbe risultare più evidente perché quest'antichità classica, fatta di greci
e romani insieme (e solo perché si sono incontrati), poté esercitare un'influenza così
forte e ampia anche dopo. La questione non può quindi essere indifferente in
riferimento alla nostra Europa che oggi cresce tutta insieme e che non senza ragione
può fare appello alle sue tradizioni romane e latine, e specialmente proprio al diritto di
cittadinanza romano. Il problema consiste, appunto, nel vedere come, in siffatto
contesto, possa sussistere la democrazia, anche nella sua forma contemporanea di
democrazia statale.

Christian Meier è professore di storia antica nell'Università di Monaco di Baviera. È


autore di numerose pubblicazioni sulla vita politica greca e romana e sul pensiero
politico antico, molte delle quali tradotte anche in italiano, tra cui, con P. Veyne,
L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia (Bologna 1988).

Testo pubblicato in I viaggi di Erodoto n. 31, gennaio-aprile 1997.

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