INTRODUZIONE
«You are the boss», «Il capo siete voi». Questa non è la frase di un uomo politico
antico. Essa è stata pronunciata al termine del discorso conclusivo della campagna
elettorale per le elezioni presidenziali tenuto da Bill Clinton a Little Rock, capitale
dello stato americano dell'Arkansas, il 3 novembre 1996.
È certamente una frase a effetto, ma essa contiene una verità di fondo che merita
attenzione. Non mentiva Clinton nel pronunciarla. Era compiaciuto e lusingato il
pubblico che lo ascoltava, ma non si sentiva ingannato. Un presidente democratico
riconosceva semplicemente, nella forma più esplicita e diretta, la fonte ultima del suo
potere. L'organizzazione di uno stato vasto e complesso come gli Stati Uniti esclude
la possibilità che ogni singolo cittadino eserciti direttamente l'azione politica. Ma
consente a un ragazzo orfano, nato in uno degli stati più poveri del paese, di diventare
il presidente della nazione più potente del mondo e che i cittadini, o almeno una
buona parte di loro, si sentano rappresentati da lui. Anche perché nulla vieta che
possano diventare come lui.
Posta in questi termini la risposta non può che essere: «un'oligarchia», ovvero gruppi
ristretti di persone che detengono, per nascita, nomina o meriti particolari, un potere,
per lo più economico, in grado di condizionare quello politico.
Esiste una formulazione compiuta e assai sofisticata dal punto di vista teorico secondo
la quale il governo di uno stato è retto solo da élite, ovvero da oligarchie. Non è un
caso che la "legge ferrea dell'oligarchia" sia stata formulata proprio da un pensatore
politico italiano, Roberto Michels, alla vigilia dello scoppio della Prima guerra
mondiale. Una società complessa come quella odierna ha certamente poco in comune
con quella antica.
Anche tra i sistemi politici ateniese e romano le differenze sono molto forti, come
emerge in tutta evidenza dal saggio di Christian Meier che li pone a confronto, così
come da quelli specificamente dedicati ad Atene e a Roma di Domenico Musti e di
Emilio Gabba. Eppure, la questione della democrazia può essere riconsiderata in
un'ottica differente se al problema del «chi comanda» subentra quello delle modalità
di partecipazione popolare alla vita politica e delle possibilità di controllo del popolo
sul momento decisionale. Forse la nostra democrazia parlamentare non è la migliore
forma di democrazia. Ma non è detto che la democrazia diretta sia in assoluto la
migliore. Essa, nei rari casi in cui è oggi in vigore (in minuscoli cantoni della
Svizzera), risulta aver prodotto delle conseguenze negative, come il rallentamento
dello sviluppo economico e della stessa dinamica democratica, per esempio
frapponendo ostacoli alla concessione del diritto di voto alle donne.
Forse ha ragione O. Duhamel a intitolare Les démocraties (Seuil, 1993), una ricerca
specifica dedicata alla pluralità delle situazioni istituzionali dei tanti paesi che oggi si
possono definire democratici.
In fondo è la stessa conclusione (se ce n'è una) che si può trarre da questo dossier. Le
differenze tra la democrazia greca e quella romana appaiono così forti da giustificare
anche per loro l'uso del plurale.
Il problema si sposta allora sulle grandi regole dell'attribuzione del potere che
determinano il sistema politico. La democrazia ateniese esercita il fascino di un
modello che opera in condizioni pressoché ideali. Ed a essa ci si riferisce sempre,
come a ragione sottolinea Musti, ogni qualvolta in una contingenza storica balzano in
primo piano le esigenze dell'individuo. Ma altrettanto innegabile è la compattezza
civica della cittadinanza romana.
Il saggio di Gabba torna a mostrarlo in modo convincente. C'è da chiedersi, in
proposito, quanto le suggestioni dell'esperienza contemporanea, per quanto vitali ed
essenziali per il progresso della ricerca storica, abbiano davvero maturato una
comprensione della vita politica del mondo antico più esatta di quella degli stessi
greci e romani. Il problema posto dalla rottura della coesione interna a Roma,
avvenuta dopo la distruzione di Cartagine, e dalle tensioni che emersero tra le
strutture politiche della città-stato e le dimensioni dell'impero, era ben presente già
alla storiografia romana.
La questione dell'esistenza o meno di una vera democrazia a Roma, che pure è giusto
riproporre, come abbiamo fatto anche noi, è, a ben guardare, una questione che
abbiamo mutuato dai greci. Il cittadino romano si sentiva tale grazie alla
consapevolezza che aveva di essere sottratto agli abusi dei magistrati.
Il modello della democrazia ateniese è assai seducente visto dall'interno. Lo è molto
meno visto dall'esterno, se lo si considera nella prospettiva degli esclusi. In fondo, per
avere la misura del problema, conviene rifarsi ad Aristotele. Ad un certo punto, nella
Politica (VII, 4) si chiede come si possa considerare un vero stato quello che sia
troppo numeroso: «Uno stato composto di troppi non sarà un vero stato per il
semplice motivo che non può avere una vera costituzione. Chi può essere il generale
di una massa tanto smisurata? E chi può esserne l'araldo se non Stentore?»
Boulé (consiglio dei cinquecento): con boulé si designa di solito il consiglio dei
cinquecento. Il consiglio consisteva di cinquecento cittadini scelti per sorteggio
all'interno delle dieci tribù dell'Attica. Il consiglio si riuniva ogni giorno lavorativo e
preparava le delibere che dovevano essere votate dall'assemblea.
Ekklesía: l'assemblea popolare, dove tutti i cittadini maschi adulti avevano diritto di
parlare e di votare. Si riuniva quaranta volte l'anno di solito sulla pnice: vi prendevano
parte almeno seimila cittadini.
Nomoteti: commissione legislativa i cui membri erano scelti per sorteggio e che
rimanevano in carica un solo giorno.
Oligarchia: governo dei pochi in cui i diritti dei cittadini comuni sono limitati rispetto
a quelli dei ricchi.
Pàtriòs politéia: “costituzione degli antenati” designante l'età aurea di Atene. Sorta di
slogan politico usato dalle parti in lotta nella vita politica ateniese che a essa si
appellavano.
Nel II libro delle Storie, nel corso dell'orazione funebre per i caduti ateniesi del primo
anno della guerra del Peloponneso (capitoli 36 e ss.), Tucidide mette sulle labbra di
Pericle una definizione di demokratía di grande portata storica sotto l'aspetto delle
istituzioni e regole politiche, sotto quello socio-economico e socio-logico, sotto il
profilo delle forme mentali. Prima fra tutte le regole, quella per cui la maggioranza
governa; che è poi, secondo un illustre teorico della politica, ancora ai nostri giorni la
migliore definizione della democrazia: un sistema di regole di cui la principale è
quella per cui la maggioranza prevale e governa(1). «Il regime politico in cui viviamo
– dice Pericle in uno stile, alla Tucidide, un po' contorto, ma di una tortuosità che è
ricchezza di idee e scrupolo analitico e definitorio, non certo caotico groviglio
concettuale – si chiama democrazia, per il fatto che ci governiamo basandoci sui più,
non sui pochi; però è subito da dire che tutti, secondo le leggi, partecipano di uguali
diritti, in relazione alle differenze (o anche: divergenze) private (pròs tà ídia
diàphora); e, tenendosi conto della valutazione che ognuno riceve in qualche ambito,
non viene designato a funzioni pubbliche (es tà koinà) per la sua ricchezza più che per
i suoi meriti (areté); d'altra parte, se povero, l'oscurità del suo rango non gli impedisce
di fare qualcosa di buono per la città, se è in grado di farlo.» In un testo in cui, alla
complessità della situazione, corrisponde la complessità espressiva, Tucidide ha dato
il succo della posizione di Pericle.
L'esame linguistico chiarisce bene i diversi piani di lettura e il loro intreccio.
Considerando sia la klimax, cioè il «crescendo» espressivo – dai pochi (di cui si nega
la preminenza), ai molti, o meglio ai più, che governano, ai tutti, che vengono tutelati
dalla legge nei loro diritti e che in questo senso sono uguali –, sia il valore
primariamente quantitativo della parola dêmos – inclusa in demokratía –, ci
accorgiamo che una nozione quantitativa è appunto l'asse portante della definizione.
Ma, notato ciò, avvertiamo anche subito che la categoria, o meglio coppia di
categorie, di privato e di pubblico, diventa davvero il centro di gravità di tutta la
complessa ed equilibrata costruzione periclea; a essa infatti si collega, come robusta
appendice, la distinzione economica tra ricchi e poveri, e la ulteriormente conseguente
valutazione dell'immagine e del ruolo sociale della persona, cioè tutto quel che è
riportabile alla sfera dell'ídion. La nozione totalizzante di dêmos (popolo) ne risulta
immediatamente articolata sotto il profilo quantitativo (molti-pochi-tutti),
socioeconomico (poveri-ricchi) e, naturalmente, sociologico (aspetti del pubblico e
del privato). È il campo dell'ídion, del privato, si distingue da (ma deve coordinarsi
con) quello del koinón (o, più specificamente e statualmente, demósion), cioè il
pubblico, il comunitario. Ora, nell'età di Pericle, la democrazia ha ormai superato la
fase squisitamente libertaria, di preminente contrapposizione alla tirannide, e si
arrischia già sul più difficile terreno dell'uguaglianza, cioè su quello delle questioni
sociali.
In relazione al contenuto del passo, una prima considerazione da fare dal punto di
vista del profilo storico della parola demokratía è che qui essa non viene qualificata,
neppure in piccola parte, come l'opposto della tirannide. Come mi è capitato di
sottolineare del resto in più occasioni, la storia della parola demokratía si muove –
pendolarmente, si direbbe – tra un contesto semantico binario e uno ternario. Nel
primo demokratía equivale a regime non tirannico, non monarchico, equivale dunque
a regime repubblicano, libertario; ma poi (e questo dà luogo a un contesto ternario)
nella storia delle cose, come delle parole, il campo della libertà, della non-tirannide, si
articola in due possibilità, quella democratica filopopolare e quella aristocratica o
oligarchica, e lo spazio politico risulta ormai distinto in tre possibilità. A distinguere
tra le due possibili articolazioni del regime libertario, l'oligarchia e la democrazia,
serve il criterio dell'uguaglianza, maggiore o minore.
La base di partenza della definizione periclea della democrazia è quantitativa. Non
sorprende questa caratteristica, in una cultura, come quella greca, che, pur dando tanto
spazio all'etica, non riesce in definitiva a costruirne una autonoma, centrata su valori
assoluti (forse con ciò operando una scelta felice), bensì produce un'etica in larga
misura relativistica, perché fondata su una nozione appunto più quantitativa che
qualitativa, quella del giusto mezzo, il delfico medèn ágan (in latino ne quid nimis:
bando cioè agli eccessi), per cui tutto finisce, o rischia di finire, per essere lecito,
purché fatto con misura.
Lasciando da parte per il momento un argomento di tale portata, non possiamo non
constatare, e non ci sorprende nemmeno, che lo stesso tema della libertà e dei diritti
politici, dunque il tema della democrazia, sia costruito in primo luogo su nozioni
quantitative. Démos stesso presenta in greco, come il corrispondente «popolo» in
tante altre lingue, pur con varianti specifiche, un'ambivalenza e un'ambiguità proprio
sul terreno delle quantità: dêmos è infatti sia il popolo come totalità di un corpo
civico, totalità degli aventi diritti politici, sia la sola maggioranza numerica di esso. E
la maggioranza numerica coincide naturalmente con i ricchi; sarà Aristotele a portare
a compimento l'analisi della connessione tra i molti e i poveri, e i pochi e i ricchi, a
dare cioè una denotazione economico-sociale a questa distinzione di tipo quantitativo
tra i molti (la maggioranza) e la minoranza, ma le premesse di questa lettura
economico-sociale dei dati qualitativi esistono già nel pensiero pericleo (o tucidideo-
pericleo). Ora, la dicotomia tra i pochi = ricchi e i molti = poveri rompe la nozione
totalitaria di dêmos, come corpo civico; di popolo, come città, come stato, come
koinón, come pubblico. Insomma, l'articolazione stessa, la dinamica stessa della
visione quantitativa, si realizza proprio mediante la nozione di ídion: il koinón si avvia
a diventare un insieme di ídia, perché i tutti (che sono uguali di fronte alle leggi) si
distinguono fra i molti, molti individui, che costituiscono la maggioranza, e i pochi,
che costituisco-no la minoranza. Insomma, già la concezione fondamentale,
quantitativa della democrazia come governo della maggioranza – certo, nel rispetto
delle regole – prelude immediatamente alla tematica del pubblico come valore
generale e ugualitario, e del privato, come valore dell'individuo, dei tanti singoli
individui che vanno a costituire rispettivamente la maggioranza e la minoranza.
L'inferiorità quantitativa comunque non può e non deve significare una inferiorità di
diritti. In termini politici ciò significa rispetto per la minoranza, come in termini
economico-sociali quello per i diritti dei pochi benestanti e per quelli dei molti meno
abbienti o non abbienti, gli uni e gli altri tutelati dalla legge. Alla legge spetta di fare
questa omologazione, questa eguaglianza fra diversità, fra ídia, fra diáphora.
Tucidide e Pericle
Al di là delle riflessioni sul koinón e sull'ídion che la trattatistica greca ha elaborato, e
fra queste certamente quella sul rapporto tra pólis e oikía, con relativo despótes, in
Platone come in Aristotele, matura in Polibio una contrapposizione concettuale, che
ancora una volta, come già in Pericle e nel suo interprete Tucidide, allinea, da un lato,
le seguenti categorie: pólis/koinón/íson (e semmai beni immobili, equamente e
rigorosamente distribuiti) e, dall'altro, diáphoron (perciò sostanzialmente ídion) e beni
mobili e differenza sociale. Sparta, città oligarchica, realizza al meglio il principio
ugualitario; perché caratteristico della democrazia greca è proprio il fatto che
l'ugualitarismo di cui essa si è fatta portatrice riguarda più il terreno dei diritti politici
formali che quello della proprietà. Non è un caso che Polibio associ di fatto,
all'immagine così delineata della società cretese quella di una demokratikè diáthesis,
cioè di una disposizione democratica.
Quando si nega la possibilità di fare uso delle categorie di pubblico e privato per il
mondo antico, si farebbe bene ad aver presente la grande frequenza dell'uso di ídion (e
del suo sinonimo oikeîon) per il privato e di koinón (e del suo parente demósion,
quest'ultimo di ancor più esplicito valore statuale) per il comunitario, il pubblico,
quale appunto la lettura dei lessici e dei testi ci mette sotto gli occhi.
La lingua latina presenta anch'essa questa distinzione e la relativa elaborazione:
basterebbe pensare all'uso che se ne può verificare nelle epigrafi; ma, a mo' d'esempio
(un esempio tanto più forte, in quanto si tratta di un testo poetico: a tal punto questa
«doppia lettura» della realtà sociale permea il pensiero degli antichi), converrà
ricordare una poesia di quel fine lettore e imitatore di moduli greci, genialmente
reinterpretati, che fu Orazio (anche lui, come Ennio, detentore di tria – se non anche
più – corda, per la sua latinità d'espressione, grecità di cultura, italicità di origini): mi
riferisco al quindicesimo dei carmina del II libro. E un'ode di grande interesse dal
punto di vista storico, per la rappresentazione dello sviluppo economico e delle
relative conseguenze sociali. Orazio vi polemizza, in spirito antisuntuario, contro gli
abusi dell'edilizia di lusso, che sta producendo il risultato che le regiae moles stiano
per lasciare ormai solo pochi iugeri all'«aratro», all'agricoltura, e così documenta il
conflitto tra le nuove, sontuose e superflue costruzioni, la cementificazione, e l'attività
produttiva fondamentale, e perciò anche tra privato e pubblico. Ora, dice Orazio, è
così, ma non ai bei tempi antichi, quelli di Romolo e di Catone (e certo la sua
osservazione è nell'insieme storicamente più giusta per i tempi di Romolo che per
quelli di Catone): privatus illis census erat brevis/commune magnum: nulla
decempedis/metata privatis opacam/porticus excipiebat Arcton (il censo dei privati
era modesto, grande il pubblico; non c'erano portici misurati a pertiche per accogliere
a uso privato l'opaco fresco dell'Orsa) [trad. di E. Cetrangolo].
Subito si contrappongono al lusso privato i concetti di lex e di publicus sumptus; in
soli sei versi dell'ode (13-18) ricorre ben due volte la coppia publicus/privatus, e a
privatus (scil. census) è opposto il commune (in generale tutto il bene, il patrimonio
comune): un tempo era piccolo il primo, il privato, grande il secondo dei due termini
della comparazione. La riflessione ellenistica che si sedimenta in Orazio, in un'ode di
prospettiva (o piuttosto retrospettiva) storica, convalida, dal basso dei tempi più tardi,
la solidità della riflessione antica (e greca in prima istanza) su una coppia di categorie
così fondamentale nella democrazia classica.
Ciò che abbiamo affermato finora equivale a dare tre risposte positive ai tre quesiti
che abbiamo detto aver animato negli ultimi anni la discussione sulla democrazia
ateniese del V secolo a.C. Il primo quesito è se Tucidide sia da prendere come buon
testimone del pensiero di Pericle, se quindi si possa attribuire a Pericle la sostanza
delle idee espresse nell'Epitafio. La discussione su questo punto non è ancora chiusa
né si potrà probabilmente mai chiudere. Ma poiché si tratta di storia delle idee, che
corrispondono in ogni caso a una certa epoca (la fine del V secolo a.C.) e a un certo
ambiente (l'Atene periclea e postpericlea), direi che il problema dell'autenticità
periclea dell'orazione funebre, con il suo carico di fondamentali pensieri, sia meno
drammatico di quel che si ritiene. Lo scetticismo, che nessuna argomentazione potrà
mai bandire (non disponiamo di registrazioni, naturalmente, e quindi il costo della
dimostrazione lo scettico potrà rialzarlo all'infinito), si può in questo caso
tranquillamente accantonare, perché, anche a voler negare quei pensieri a Pericle, non
si potrà negare il fatto che un autore di quell'ambiente e di quell'epoca abbia concepito
quell'insieme di pensieri. Ne risulterebbe che quell'ambiente e quell'epoca hanno
prodotto un insieme di pensieri di quel tipo; e, sul piano della storia delle idee
politiche, il risultato sarebbe lo stesso, se non addirittura più forte e significativo.
Infatti l'Atene periclea e postpericlea avrebbe fatto maturare tale complesso di idee in
un autore come Tucidide, che non apparteneva neanche al campo democratico. Poiché
però la ferma distinzione tra pubblico e privato è verificabile anche nella biografia e
negli atteggiamenti quotidiani di Pericle, e poiché nel celebre discorso metodologico
(I 22, 1) Tucidide, con una puntigliosità quasi penosa, sottolinea con forza che, in
mancanza della lettera dei discorsi inseriti nella sua opera (lettera che onestamente
confessa di inventarsi), egli ne riferisce il concetto essenziale, e coerente con le
convinzioni del personaggio che parla, appare tutto sommato più economico lasciare a
Pericle la paternità di quelle idee, che comunque circolavano nella sua epoca e perciò
presumibilmente non senza la sua influenza.
Ma se è così, allora dobbiamo dare una risposta positiva anche al secondo quesito, se
cioè non sia esistita anche una teoria democratica della democrazia, accanto alle
rappresentazioni critiche o ostili: è esistita e noi la conosciamo. Buona parte degli
argomenti che ho enunciato sopra, e altri ancora, in favore di una risposta affermativa,
li ho presentati nel mio libro Demokratía. Origini di un'idea, già citato. Ma è da
riconoscere che, negli ultimi anni, diversi studi hanno imboccato questa via
«positiva»: e mi riferisco sia a studi specifici su questi argomenti sia anche solo ad
atteggiamenti sottesi a studi contigui. Citerei in proposito, e solo a mo' di esempio,
alcuni dei saggi raccolti nei volumi miscellanei di Chr. Meier e P. Veyne, L'identità
del cittadino e la democrazia in Grecia(8); di M.R. Connor, M.H. Hansen, K.A.
Raaflaub, B.S. Strauss (a c. di), Aspects of Athenian democracy(9); il saggio Was
Athens a democracy? Popular ride, liberty and equality in ancient and modem
political thought(10); l'articolo di R. Brock, The emergence of democratic
ideology(11); o il libro di D. Kagan, Pericles of Athens and the birth of
democracy(12). E non starei tanto a discutere sull'uso della parola teoria o di altre
consimili definizioni; mi sembra infatti si possa dimostrare che, proprio intorno alla
coppia pubblico/privato, potente corollario della concezione quantitativa (i molti, i
tutti, i singoli), che è alla base di questa forma politica, si costituisca un vero sistema
di idee. Non pretendiamo però, e neppure ci aspettiamo, una analiticità e una
scolasticità degne di un trattato di pieno e avanzato IV secolo, da un testo come
l'Epitafio pronunciato da Pericle: esso è pur sempre un'orazione di circostanza, che
vuole celebrare memoria ed emozioni, ma che alle celebrazioni di rito aggiunge –
dichiaratamente e programmaticamente – una visione sistematica del regime politico e
dei comportamenti individuali che hanno consentito e sorretto la crescita della città.
Note
Domenico Musti è professore di Storia greca all'Università «La Sapienza» di Roma.
Autore di varie opere sulle principali epoche della civiltà greca, tra cui una Storia
greca (Roma-Bari 1994),
ha dedicato recentemente un libro specifico alla democrazia greca: Demokratra.
Origini di un 'idea (Roma-Bari 1995).
1. Si veda N. Bobbio, Il futuro della democrazia Una difesa delle regole del gioco,
Einaudi, Torino 1984.
2. Trad. it. A. Galeotti, con introduzione di R. Bodei, Donzelli, Roma 1996.
3. D. Musti, Demokratía. Origini di un'idea, Laterza, Roma-Bari 1995.
5. Tà kath'heméran, Tucidide, II 38, 1.
6. Philosophofmen àneu malakías: «ci dedichiamo alla cultura, senza con ciò apparire
rammolliti», Tucidide, II 40, 1.
7. Tucidide, II 38, 1; 39, 4; 40, 1.
8. Chr. Meier, P. Veyne, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia, Il Mulino,
Bologna 1988.
9. M.R. Connor, M.H. Hansen, K.A. Raaflaub, B.S. Strauss (a c. di), Aspects of
Athenian democracy, Copenhagen 1990.
10. Was Athens a democracy? Popular rule, liberty and equality in ancient and
modern political thought, “Royal Danish Acad. of Sciences and Letters”, Med. 59,
Copenhagen 1989.
11. R. Brock, The emergence of democratic ideology, «Historia» 40, 1991, pp. 160-
169.
12. D. Kagan, Pericles of Athens and the birth of democracy, ed. inglese e trad. it., A.
Mondadori, Milano 1991.
13. M.I. Finley, Democrazia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1972, 2
ed. 1982; vedi anche M.H. Hansen, The Athenian democracy in the age of
Demosthenes, Blackwell, Oxford and Cambridge Mass. 1991; Id. Was Athenian a
democracy?, cit
Arnaldo Marcone
La democrazia ateniese: “una follia riconosciuta?”
ristofaneLa democrazia ateniese ha sempre avuto critici severi. A giudicare dalle fonti
che ci sono pervenute, nella Grecia antica i censori della democrazia risultano
addirittura numericamente e qualitativamente più consistenti dei suoi sostenitori.
Anzi, si può dire che manchi una letteratura di consenso alla democrazia. Proprio per
questo è così radicata la valutazione negativa del regime democratico ateniese nel
mondo romano prima e nella cultura occidentale poi. A determinare le linee
fondamentali di siffatta valutazione sono soprattutto i filosofi, Platone per primo,
soprattutto con la Repubblica (e Socrate, almeno come compare in alcuni suoi
dialoghi), e quindi Aristotele con la Politica. Anche gli storici non figurano tra i
sostenitori della democrazia o, quanto meno, di quella periclea. Tucidide si può
considerare fautore di un governo democratico moderato. E possibile che il giudizio
sulla democrazia ateniese come di "una follia riconosciuta", che egli mette in bocca ad
Alcibiade, sia una manifestazione del suo modo di pensare. Senofonte era un
dichiarato ammiratore del regime spartano e mostrò sempre un forte distacco nei
confronti di quello vigente in Atene. Anche un oratore politico di rilievo come
Isocrate, nel IV secolo a.C., si schierò a favore di una forma molto moderata di
democrazia. A un livello, per dir così, più "popolare", espressione di sentimenti
antidemocratici sono i commediografi, dei quali Aristofane è il rappresentante più
significativo. Considerazione a parte merita il violento pamphlet di autore sconosciuto
(lo si designa convenzionalmente con il nome di Vecchio Oligarca) che in una data
incerta (probabilmente durante la guerra del Peloponneso) rivolse un attacco frontale
ai fondamenti stessi della democrazia. Ad Atene le voci di dissenso sono frequenti e
talune si spingono apertamente a invocare un ordine diverso da quello costituito.
Tuttavia la mancanza di qualsiasi forma di raggruppamento che potesse dare un
quadro organico di riferimento all'opposizione fa sì che le critiche vengano formulate
a titolo individuale. Circostanze particolari, come sconfitte riportate in guerra da
politici democratici, potevano dar fiato ai loro avversari, che riuscivano talora a
trovare ascolto anche presso le masse. In generale, comunque, chi prendeva le
distanze dalla democrazia, o la combatteva apertamente, aveva come riferimento una
forma costituzionale in cui l'aristocrazia era in grado di giocare un ruolo significativo
nella gestione della cosa pubblica. L'ideale dei critici della democrazia periclea era la
democrazia in vigore all'epoca delle guerre persiane. È caratteristico che, a partire da
un certo momento (grosso modo dopo la disastrosa conclusione della spedizione in
Sicilia nel 413), si invochi il ritorno alle leggi di Clìstene, leggi che però nessuno
conosceva e che nessuno poteva citare. L'obiettivo comunque degli antidemocratici è
chiaro: per colpire i poveri in generale e, soprattutto, i marinai della flotta che
costituivano la componente decisiva nel sostegno della democrazia, essi proposero di
creare un limite di censo per chi volesse rivestire le varie cariche così da consentirne
l'accesso solo a coloro che lo raggiungevano, abolendo nello stesso tempo le indennità
per coloro che svolgevano funzioni pubbliche.
Che d'altra parte ad Atene non ci fosse spazio per un regime oligarchico (=
autoritario) è provato dalle due circostanze in cui esso fu sperimentato, nel 411 e nel
404, non a caso come conseguenza degli sviluppi negativi della guerra del
Peloponneso. Entrambe le volte si pervenne infatti a un rapido ripristino della
democrazia.
Ma quali sono dunque le critiche più forti che vengono rivolte alla forma ateniese di
democrazia dal mondo greco contemporaneo? La prima e la più grave riguarda
l'equiparazione politica di tutti gli ateniesi. L'obiezione è che una uguaglianza di
questo tipo è del tutto astratta, perché prescinde da fattori essenziali di
diversificazione quali l'origine, il prestigio, la cultura, la competenza e le capacità. A
un livello speculativo i filosofi elaborano la teoria della necessità di una preparazione
adeguata per occuparsi di politica, precisamente quello che manca alla maggior parte
dei leader democratici. Essi mettono in risalto come sia inevitabile che, in un sistema
basato sulla persuasione retorica, in un'assemblea pubblica il consenso popolare
tocchi a chi è capace di dire al popolo quello che il popolo vuole ascoltare e non a chi
dice quello che gli conviene. L'idea di fondo che ne viene fuori è quella di un governo
affidato ai capricci e agli istinti di una massa che si esprime solo con deliberazioni
affrettate e ingiuste, che è in balia di persone (i demagoghi) spregiudicate e assetate
solo di potere.
Bibliografia essenziale
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Zùrich 1986.
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Oxford&Cambridge, Mass. 1993.
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Chr. Meier, P. Veyne, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia, il Mulino,
Bologna 1988.
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politics in fifth-century Athens, University of California Press, Berkeley-Los Angeles
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J. Tolbert Roberts, Athens on trial. The antidemocratic tradition in western thought,
Princeton University Press, Princeton 1994.
P. Vidal-Naquet, La democrazia greca nell'immaginario dei moderni, Il Saggiatore,
Milano 1996.
Tucidide riferisce il discorso tenuto da Alcibiade, a Sparta, nel 414, dopo che era
stato allontanato dal comando della spedizione ateniese in Sicilia.
Noi [ateniesi] siamo sempre stati ostili ai tiranni, e tutto quello che si oppone a un
dominatore è chiamato democrazia, e da questo fatto restò a noi la guida del popolo.
Inoltre, quando una città era governata da una democrazia, spesso era necessario
adattarsi alla situazione. E nell'agire pubblico cercammo di essere più moderati di
quanto non comportasse la sfrenatezza che vi era. Altri vi erano, anticamente e ora,
che spingevano la folla alle azioni più disoneste e costoro scacciarono anche me. Noi
eravamo alla testa di tutti i cittadini, convinti che dovevamo conservare quella forma
di governo per cui la città era grande e libera, e che ci era stata tramandata, giacché
noi, che avevamo un po' di intelligenza, sapevamo che cosa fosse la democrazia e io
stesso non meno degli altri, in quanto potrei anche insultarla. Ma su una riconosciuta
pazzia non si potrebbe dire nulla di nuovo; e il cambiare quella forma di governo non
ci pareva sicuro quando voi ci assalivate come nemici.
A. A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico, che consenta
alla canaglia di star meglio della gente per bene. Poiché però l’hanno scelto, voglio
mostrare che lo difendono bene il loro sistema, e che a ragion veduta fanno tutto
quello che gli altri Greci disapprovano.
Dirò subito che è giusto che lì i poveri e il popolo contino più dei nobili e dei ricchi:
giacché è il popolo che fa andare le navi e ha reso forte la città. E lo stesso vale per i
timonieri, i capi rematori, i comandanti in seconda, i manovratori, i carpentieri: è a
tutta questa gente che la città deve la sua forza, molto più che agli opliti, ai nobili, alla
gente per bene. Stando così le cose, sembra giusto che le magistrature siano
accessibili a tutti — sia quelle sorteggiate che quelle elettive —, e che sia lecito, a
chiunque lo voglia, di parlare all’assemblea.
Ancora. Il popolo non ama rivestire quelle magistrature dalla cui buona gestione
dipende la sicurezza di tutti e che invece, se rette male, comportano rischi: perciò
esclude dal sorteggio il comando dell’esercito e il comando della cavalleria. Queste
cariche preferisce lasciarle ai più capaci. Invece cerca di rivestire tutte quelle che
comportano uno stipendio ed un profitto immediato.
C’è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più spazio alla canaglia,
ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gente per bene: ma è proprio così che
tutelano — come vedremo — la democrazia. Giacché appunto, se stanno bene e si
accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia.
Quando invece il popolo consente che prosperino i ricchi e la gente per bene, non fa
che rafforzare i propri nemici. Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono i
nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di
ingiustizia, e il massimo di inclinazione al bene; nel popolo invece c’è il massimo di
ignoranza, di disordine, di cattiveria: la povertà li spinge all’ignominia, e così la
mancanza di educazione e la rozzezza, che in alcuni nasce dall’indigenza.
B. Uno però potrebbe dire che non li si doveva lasciar parlare tutti
indiscriminatamente all’assemblea, o accedere al Consiglio, ma consentire ciò solo ai
più bravi e ai migliori.
B. Si potrebbe obiettare: ma un tipo del genere come può capire ciò che conviene a lui
o al popolo?
A. Ma loro capiscono che la stupidità, la ribalderia, la complice benevolenza di costui
giova di più che la virtù, la saggezza e l’ostilità della gente per bene. Naturalmente
una città dove si vive così non è la città ideale! Però è proprio questo il modo migliore
per difendere la democrazia.
B: Il popolo non vuoi essere schiavo in una città retta dal buongoverno, ma essere
libero e comandare: del malgoverno non gliene importa nulla.
[...]
Io dico dunque che "il Popolo di Atene" sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla
canaglia. Ma, pur sapendolo, predilige quelli che gli sono benevoli ed utili, anche se
sono canaglie, e la gente dabbene la odia proprio in quanto per bene: pensano infatti
che la virtù, nella gente per bene, sia nata per nuocere al popolo, non per giovargli.
[...]
A. Molto si può fare in Atene col danaro, e ancor più si potrebbe se se ne desse di più.
Però so bene che la città non sarebbe ugualmente in grado di sbrigare gli affari di tutti
i postulanti, qualunque somma di argento o di oro uno offrisse. E poi c’è da giudicare
quest’altro genere di cause: se uno non ha riparato la nave, o costruisce su suolo
pubblico; e poi occorre dirimere le liti per l’assegnazione dell’allestimento dei cori
per le varie feste: Dionisie, Targelie, Panatenee, Prometie, Efestie – il tutto ogni anno.
Ogni anno vengono eletti quattrocento trierarchi, e anche tra costoro si debbono
regolare ogni anno le eventuali controversie. E poi debbono sottoporre all’esame i
magistrati ed espletare i relativi processi, fare l’esame degli orfani e nominare i
guardiani delle prigioni. Anche questo ogni anno. Poi, di tanto in tanto, debbono
sbrigare processi per diserzione, o se si verifica improvvisamente qualche crimine, o
si compiono insoliti oltraggi o atti di empietà. E tralascio molte altre cose: ho citato
quelle più grosse, tranne la definizione dei tributi (che avviene ogni quattro anni).
[...]
B: Secondo me c’è ancora un altro campo in cui gli Ateniesi si comportano male:
quello della politica estera. Quando ci sono città divise da lotte civili, loro si schierano
sempre con gli elementi peggiori.
Benjamin Constant mette in chiaro come in Grecia non ci fosse considerazione per la
libertà individuale, ritenuta una conquista della società moderna, ma solo per quella
politica, intesa come partecipazione diretta alla gestione degli affari dello stato.
Il commercio ispira agli uomini un intenso amore per la libertà individuale. Il
commercio provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, senza l'intervento
dell'autorità. [...] Atene era, fra tutti gli stati greci, il più attivo nel commercio e
accordava perciò ai suoi cittadini una libertà individuale molto più ampia che non a
Roma e a Sparta. [...] Tuttavia, poiché molte delle altre circostanze che decidevano
del carattere delle nazioni antiche sussistevano anche ad Atene; poiché esisteva una
popolazione di schiavi e il territorio era molto limitato, vi ritroviamo alcuni aspetti
della libertà propria degli antichi. II popolo fa le leggi, esamina la condotta dei
magistrati, chiama Pericle alla resa dei conti, condanna a morte i generali che avevano
combattuto la battaglia delle Arginuse. Allo stesso modo, l'esistenza dell'ostracismo,
questo arbitrio che a noi pare, come deve apparire, una rivoltante iniquità, prova che
l'individuo ad Atene era asservito alla supremazia del corpo sociale molto più di
quanto lo sia oggi negli stati liberi dell'Europa. Da quanto ho finora esposto, risulta
che noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che si basava sulla
partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve basarsi sul
pacifico godimento dell'indipendenza privata. La parte di sovranità nazionale che
spettava a ciascuno nell'antichità non era affatto, come lo è oggi, una ipotesi astratta.
La volontà di ciascuno aveva un'influenza reale: l'esercizio di questa volontà
costituiva un piacere vivo e ripetuto. Di conseguenza, gli antichi erano disposti a fare
molti sacrifici per la conservazione dei loro diritti politici e della loro partecipazione
all'amministrazione dello stato. Ognuno, rendendosi conto con orgoglio di quanto
valeva il suo suffragio, trovava in questa coscienza della sua importanza un ampio
indennizzo. Oggi questo indennizzo per noi non esiste più. Disperso nella moltitudine,
l'individuo quasi mai si rende conto dell'influenza che esercita. Mai la sua volontà
impronta di sé la collettività, niente prova ai suoi occhi la sua cooperazione.
L'esercizio dei diritti politici ci offre, dunque, solo una parte dei vantaggi che gli
antichi vi scorgevano, e allo stesso tempo, i progressi della civiltà, la tendenza della
nostra epoca al commercio, la comunicazione dei popoli fra loro, hanno moltiplicato
all'infinito i mezzi del benessere privato. B. Constant, La libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni, discorso pronunciato all'Università di Parigi nel
1819, in A. Zanfarino (a c. di), Constant. Antologia di scritti politici, il Mulino,
Bologna 1963, pp. 43-45.
Cicerone
Superiorità della costituzione romana rispetto a
quella ateniese
Secondo lo storico inglese Mitford, il fatto che ad Atene i molti poveri non lavoravano
per i pochi ricchi impedì il formarsi di un legame di solidarietà sociale, che alla fine
risultò fatale per il regime democratico.
In circostanze quali erano quelle della repubblica ateniese, i ricchi e i poveri non
potevano ovviamente vivere in armonia. [...] In effetti, quando l'equilibrio della
costituzione di Solone venne distrutto e il potere supremo divenne in questo modo
assoluto nelle mani di nullatenenti, o piuttosto nella mani di un qualche demagogo che
riusciva sul momento a capeggiarli, anche gli interessi di tutti coloro che avevano
delle proprietà rese inevitabilmente costoro dei cospiratori, ostili al governo esistente.
In verità, in tutta la Grecia i nobili e i ricchi, serviti dai loro schiavi non solo in qualità
di domestici, ma anche di contadini e di artigiani, ebbero ben pochi rapporti con la
massa dei più poveri, se non per comandarla, negli stati oligarchici, o per intimorirla,
adularla, corromperla, ingannarla o essere da lei comandata, negli stati aristocratici.
Nessuno, o ben pochi furono gli interessi comuni che unirono queste due categorie di
uomini: cosicché per conservare l'ordine civile e tenere unito lo stato, l'adulazione e la
corruzione erano i soli mezzi che potevano persuadere questa moltitudine, e l'unica
alternativa era la violenza. Di qui l'impossibilità di far durare l'armonia, di qui quella
facilità al conflitto estremo che le repubbliche greche hanno dimostrato in modo così
impressionante. W. Mitford, The history of Greece, London 1814, trad. it., E.
Meiksins Wood, Contadini-cittadini&schiavi. La nascita della democrazia ateniese,
Il Saggiatore, Milano 1994, p. 29.
Platone
In un regime democratico la libertà diventa anarchia
Platone svolge nella Repubblica (inizio IV secolo a.C.) una critica severa ai processi
degenerativi che mettono a repentaglio uno stato retto da una democrazia. A parlare
è Socrate rivolto a un interlocutore.
Credo che la democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria,
ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a
condizioni di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi sono determinate
per lo più con il sorteggio. [...I In uno stato democratico sentirai dire che la libertà è il
bene migliore e che soltanto colà dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente
libero. Ebbene, l'insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto non mutano anche
questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide? Quando,
credo, uno stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e
troppo s'inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai
miti e non concedano grande libertà, li pone in stato d'accusa e li castiga come
scellerati e oligarchici. E coloro che obbediscono ai governanti li copre di improperi
trattandoli da gente contenta di essere schiava e buona a nulla, mentre loda e onora
privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili ai governati e i governati
che sono simili ai governanti. Non è inevitabile che in uno stato siffatto il principio di
libertà si allarghi a tutto? E così, mio caro, dissi, vi nasce l'anarchia e si insinua nelle
dimore private e si estende fino alle bestie. Platone, Repubblica, libro VIII.
Nella democrazia greca la corruzione era inevitabile, perché non esisteva un sistema
che fosse in grado di mantenere l'ordine tra le classi.
[Ad Atene] poiché non c'era nessuna autorità che si levasse sopra i ricchi e i poveri
insieme, e che potesse costringerli a rimanere in pace, sarebbe stato desiderabile che i
principi economici e le condizioni del lavoro fossero stati tali che le due classi fossero
costrette a vivere in buon accordo. Sarebbe stato necessario, per esempio, che
avessero avuto bisogno l'una dell'altra; che il ricco non potesse arricchirsi se non
domandando al povero il suo lavoro e che il povero trovasse i mezzi per vivere dando
il suo lavoro al ricco. Allora, la disuguaglianza degli averi avrebbe stimolato l'attività
e l'intelligenza dell'uomo, invece di generare la corruzione e la guerra civile. [...] Il
cittadino trovava impiego, poco lavoro; la mancanza di occupazioni lo rese presto
pigro. Poiché non vedeva lavorare che schiavi, disprezzava il lavoro; così le abitudini
di economia, le regole morali, i pregiudizi, tutto si univa insieme per impedire al
povero d'uscire dalla miseria e di vivere onestamente. La ricchezza e la povertà non
erano stabilite in modo da poter vivere in pace. [...] Il povero cominciò con
l'impegnarsi a vivere del suo diritto di voto. Chiese di essere pagato per prendere parte
alle assemblee, o per risolvere cause nei tribunali. Se la città non era sufficientemente
ricca per permettersi una spesa di questo tipo, il povero aveva un'altra risorsa.
Vendeva il suo voto e, se le occasioni di votare erano frequenti, poteva vivere. N.D.
Fustel de Coulanges, La città antica, Vallecchi, Firenze 1924, p. 433; ed. orig. Paris
1864.
La storia della democrazia ateniese dura per poco meno di due secoli. Il suo inizio può
essere fissato alla fine del VI secolo a.C. e, più precisamente, al 507, data delle
riforme di Clìstene che, secondo quanto sostiene Erodoto, la nostra fonte più antica,
"istituì per gli ateniesi le tribù e la democrazia" (Storie, VI, 131). La sua conclusione
si fissa al 322 a.C., allorché si concluse con un insuccesso il tentativo di Atene di
ribellarsi alla Macedonia. Stabiliti questi limiti cronologici fondamentali, vanno
comunque introdotte ulteriori periodizzazioni e puntualizzazioni. Antesignano della
democrazia, era considerato dagli stessi ateniesi Solone, che, all'inizio del VI secolo,
in un momento decisivo di superamento dell'assetto istituzionale della città-stato
aristocratica, realizzò alcune riforme per porre rimedio a una situazione di grave
tensione sociale. Dal punto di vista politico Solone introdusse alcune novità che
avrebbero visto notevoli sviluppi in futuro. La stessa suddivisione del corpo civico, in
quattro classi a seconda del censo, rappresentava un progresso rispetto all'epoca in cui
l'unico criterio di valutazione dei cittadini era quello del sangue. Anche i teti poi, i
contadini poveri che non potevano accedere alle magistrature, avevano diritto di
sedere in assemblea e di far parte del tribunale del popolo (eliea), mentre venivano
ridotte le competenze dell'areopago, l'organismo fondamentale di governo dell'Atene
aristocratica.
Le riforme di Clìstene furono realizzate dopo la parentesi rappresentata dalla tirannide
di Pisistrato e dei suoi figli. Esse avevano come scopo quello di spezzare il predomino
degli aristocratici: essenziale in questo senso risultò il raggruppamento della
popolazione in dieci tribù (secondo il nesso già chiaro a Erodoto nel passo citato
prima), il più possibile omogenee tra di loro. Quanto allo sviluppo della democrazia in
quanto tale, si è soliti contrapporre una prima fase moderata, che va dal 507 al 462, a
una radicale, posteriore a questa data. Nel 462, infatti, un leader democratico, Efialte,
realizzò una riforma dell'areopago, il consiglio formato dagli ex arconti e che
rappresentava l'ultima roccaforte della nobiltà. I suoi restanti poteri furono di fatto
trasferiti alle assemblee popolari.
La democrazia ateniese conobbe il suo apogeo durante quella che è nota come età
periclea. Scoppiata la guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, nel 431, e morto
Pericle due anni dopo, le vicende del regime democratico appaiono subordinate agli
sviluppi della situazione politica. Per ben due volte, nel 411, e nel 404-403, dopo la
sconfitta finale nella guerra del Peloponneso, ad Atene fu introdotto un regime di
stampo oligarchico. In entrambi i casi si trattò di esperimenti di breve durata. Il
carattere della democrazia ateniese nel IV secolo è controverso, ma non è fuor di
luogo affermare che essa raggiunse un certo grado di stabilità interna che fu sconvolta
solo dall'intervento macedone negli affari interni della Grecia.
Una prima considerazione che può apparire sorprendente è che non abbiamo
attestazioni di una compiuta teoria politica, che si sia fatta portatrice o promotrice
della costituzione democratica. Un ulteriore aspetto di cui si deve tener conto è che gli
ordinamenti democratici, che si realizzarono al di fuori di Atene a partire della
seconda metà del V secolo, furono introdotti per l'influenza, se non la pressione, di
Atene stessa. Va inoltre tenuto presente che il termine demokratía non è
contemporaneo alla democrazia. Tale termine compare nelle nostre fonti
relativamente tardi, attorno alla metà del VI secolo (una delle sue prime attestazioni è
proprio il passo di Erodoto citato). E oggetto di discussione se esso sia entrato nell'uso
comune solo in quel periodo: la sua assenza dalle fonti, d'altra parte, si giustifica con
il fatto che mancano anche i contesti nei quali il termine sarebbe dovuto comparire.
Da un punto di vista etimologico, il significato del termine demokratía è trasparente:
"potere (krátos) del dêmos". Nel termine dêmos è tuttavia presenta una certa
ambiguità, dovuta al fatto che nelle fonti può essere impiegato tanto per designare il
popolo nel suo complesso, quanto una parte maggioritaria di esso contrapposta a un
gruppo privilegiato. Il fatto che la parola d'ordine dei "democratici" non fosse
originariamente demokratía, bensì isonomía, ovvero "parità di diritti", in quanto
parità, uguaglianza di fronte alla legge, al nómos, si spiega in base alla storia dei
concetti politici e della loro evoluzione.
Aristotele
Gli storici antichi e moderni concordano sul fatto che le riforme di Pericle furono
determinanti nell'imprimere alla democrazia greca una svolta in senso radicale.
Particolarmente rilevante apparve l'introduzione di una paga (due oboli al giorno)
per i giudici dei tribunali.
In seguito, allorché Pericle prese la direzione del partito popolare [...] la costituzione
diventò ancora più democratica. [...] Pericle per primo stabilì che i giudici ricevessero
un'indennità gareggiando per il consenso popolare con la ricchezza di Cimone. [...]
Pericle, avendo sostanze molto inferiori per potersi permettere tale munificenza,
accolse [...] il suggerimento di distribuire al popolo quello che era del popolo, dal
momento che non ce la faceva a darglielo del suo: stabilì quindi un'indennità ai
giudici. E questo atto è posto da taluni sotto accusa quale origine del peggioramento
delle cose, dal momento che le persone qualunque mettevano sempre più zelo di
quelle perbene per far-si nominare giudici. E in seguito a questo che cominciò la
corruzione dei giudici. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 27, 1-5
Aristotele
Ci sono varie forme di democrazia
Tucidide
Elogio della democrazia ateniese
Nel contesto della guerra del Peloponneso che, tra il 431 e il 403 a.C., oppose Atene
a Sparta, il grande storico ateniese Tucidide trascrive nella sua opera il discorso che
Pericle tenne in onore dei caduti durante il primo anno di guerra. Dopo aver
richiamato il dovere della memoria per gli antenati che costruiriono le istituzioni
democratiche, Pericle tesse l'elogio delle stesse, per le quali gli ateniesi stanno
combattendo.
37. Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo
più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili
spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di
fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di
parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione
dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo,
non per la provenienza da una classe sociale ma più che per quello che vale. E per
quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è
impedito dall’oscurità del suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti
con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci
nelle abitudini giornaliere, senza adirarci col vicino se fa qualcosa secondo il suo
piacere e senza infliggerci a vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono
spiacevoli ai nostri occhi.Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti
privati e nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in
obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni, in particolare a
quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che, pur essendo non scritte, portano a
chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta.38. E abbiamo dato al nostro spirito
moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto
l’anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente
deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città giunge
ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri
uomini con non minor piacere che dei beni di qui.39. Ma anche nelle esercitazioni
della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti motivi. Offriamo la nostra città in
comune a tutti, né avviene che qualche volta con la cacciata degli stranieri noi
impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa (mentre un nemico che
potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne trarrebbe un vantaggio).
Ché la nostra fiducia è posta più nell’audacia che mostriamo verso l’azione (audacia
che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli inganni. E
nell’educazione, gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed esercizi di
raggiungere un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non per questo
ci rifiutiamo di affrontare pericoli equivalenti. Eccone la prova: neppure i Lacedemoni
invadono la nostra terra da soli, ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo
da soli i nostri vicini, di solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera,
combattendo con della gente che difende i propri beni.Le nostre forze unite per ora
nessun nemico le ha incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e
contemporaneamente per terra facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte
imprese. Se si scontrano con una piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di
averci respinti tutti, mentre se sono vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi.
Eppure, se noi siamo disposti ad affrontare pericoli più col prendere le cose
facilmente che con un esercizio fondato sulla fatica, e con un coraggio generato in noi
non più dalle leggi che dal nostro modo di agire, da questo fatto ci deriva il vantaggio
di non affaticarci anticipando i dolori che ci attendono, e di non apparire, quando li
affrontiamo, meno audaci di coloro che sempre si mettono a dura prova, e per la
nostra città il vantaggio di essere degna di ammirazione per questa e per altre cose.40.
Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza;
adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che per sciocco
vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo
è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari
pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività,
pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a
considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne interessa, e noi Ateniesi o
giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza
pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere
informati dalle discussioni prima di entrare in azione. E di certo noi possediamo anche
questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e
nel ponderare al massimo grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri
l’ignoranza produce audacia e il calcolo incertezza. È giusto giudicare superiori per
forza d’animo coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per
questo si lasciano spaventare dai pericoli. E anche per quanto riguarda la nobiltà
d’animo, noi ci comportiamo in modo opposto a quello della maggioranza: ci
procuriamo gli amici non già col ricevere i benefici ma col farli. Chi ha fatto il favore
è un amico più sicuro, in quanto è disposto con una continua benevolenza verso chi lo
riceve a tener vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore è meno
pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma per
pagare un debito. E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non tanto per
aver calcolato l’utilità del beneficio ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi.
41. Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che
ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente
personalità a ogni genere di occupazione, e con la più grande versatilità accompagnata
da decoro. E che questo non sia ora un vanto di parole più che una realtà di fatto lo
indica la stessa potenza della città, potenza che ci siamo procurata grazie a questo
modo di vivere. Sola tra le città di adesso, infatti, essa affronta la prova in modo
superiore alla sua fama, e lei sola al nemico che la assale non dà motivo di irritazione
quando costui considera da chi è vinto, né al suddito, motivo di disprezzo, come se
costui non fosse dominato da persone degne. Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza
con importanti testimonianze e molte prove, e saremo ammirati dagli uomini di ora e
dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un altro, che nei versi può
dilettare per il momento presente, mentre la verità sminuisce poi le opinioni concepite
sui fatti, ma per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili alla nostra
audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese fortunate o
sfortunate. Per una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non
esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia disposto ad
affrontare sofferenze per lei. Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro II 37-41
Rizzoli, Milano 1997
Aristotele
Nella democrazia il criterio del numero prevale su quello del giusto
Aristotele, Politica, VI, 2 (traduzione di R. Laurenti)
Secondo Aristotele l'aspetto caratterizzante della democrazia è che in essa il criterio
del numero prevale su quello del giusto: i poveri perciò prevalgono sui ricchi. Il fatto
che poi, come è tipico della democrazia ateniese, le magistrature vengano
sorteggiate, va a discapito della competenza.
Base della costituzione democratica è la libertà (così si è soliti dire, quasi che in
questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il
fine di ogni democrazia). Una prova della libertà consiste nell'essere governati e nel
governare a turno: in realtà, il giusto in senso democratico consiste nell'avere
uguaglianza in rapporto al numero e non al merito, ed essendo questo il concetto di
giusto, di necessità la massa è sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è
questo il giusto: in effetti dicono che ogni cittadino deve avere parti uguali. Di
conseguenza succede che nelle democrazie i poveri siano più potenti dei ricchi perché
sono di più e la decisione della maggioranza è sovrana. E questo, dunque, un segno
della libertà che tutti i fautori della democrazia stabiliscono come nota distintiva della
costituzione. Un altro è di vivere ciascuno come vuole, perché questo, dicono, è opera
della libertà, in quanto che è proprio di chi è schiavo vivere non come vuole. Ecco
quindi la seconda nota distintiva della democrazia; di qui è venuta la pretesa di essere
preferibilmente sotto nessun governo o, se no, di governare e di essere governati a
turno: per questa via contribuisce alla libertà fondata sull'uguaglianza. Posti questi
fondamenti e tale essendo la natura del governo democratico, le seguenti istituzioni
sono democratiche: i magistrati li eleggono tutti tra tutti; tutti comandano su ciascuno
e ciascuno a turno su tutti: le magistrature sono sorteggiate o tutte o quante non
richiedono esperienza e abilità; le magistrature non dipendono da censo alcuno o
minimo; lo stesso individuo non può coprire due volte nessuna carica o raramente o
poche, a eccezione di quelle militari [Aristotele si riferisce alla carica di stratego che
non era sottoposta ai normali vincoli delle altre magistrature]; le cariche sono di breve
durata o tutte o quante è possibile; le funzioni di giudice sono esercitate da tutti.
La boulé
La boulé, o consiglio dei cinquecento, è l'istituzione ateniese che più di ogni altra va
riconnessa alle riforme operate da Clìstene alla fine del VI secolo. Il consiglio era
infatti costituito da cinquanta membri per ciascuna della dieci tribù nelle quali era
suddivisa la popolazione dell'Attica. Poiché ogni tribù era a sua volta costituita da tre
trittíe, ciascuna delle quali raggruppava un certo numero di demi con una popolazione
complessiva il più possibile vicina, i cinquecento consiglieri rappresentavano tutta la
popolazione dell'Attica. Nella composizione della boulé, tesa a evitare la presenza di
gruppi di interesse precostituiti in rappresentanza di particolari ceti della popolazione,
si esprimeva dunque quell'idea di uguaglianza politica che era alla base della
concezione ateniese di democrazia. Essa era ulteriormente rafforzata dal fatto che tutti
i consiglieri erano scelti tramite sorteggio tra coloro i quali avessero avanzato la loro
candidatura.
Ad avere dignità magistratuale era il consiglio nel suo complesso, ma non il singolo
consigliere, anche se la sua posizione era ben distinta da quella di un semplice
cittadino. Ogni consigliere riceveva un'indennità di una dracma per ogni giorno di
seduta. Era esentato per tutta la durata della carica dal servizio militare e sedeva in
teatro in posti riservati. Il consiglio si riuniva ogni giorno, eccezion fatta per i giorni
festivi e quelli infausti. Poiché i giorni festivi in un anno erano circa sessanta si può
presupporre una media di circa trecento sedute l'anno. In linea di principio le sedute
del consiglio erano pubbliche. Luogo di riunione era un edificio costruito allo scopo
(bouleutérion) sul lato sud-occidentale dell'agorà. Accresciutosi a dismisura il
materiale documentario alla fine del V secolo, questo primo edificio fu trasformato in
archivio mentre al consiglio fu riservata una nuova sede, nell'aspetto simile a un
teatro. L'importanza particolare del consiglio derivava dal fatto che, con l'unica
eccezione degli strateghi, solo i componenti del consiglio potevano rivolgere proposte
al consiglio. Compito fondamentale del consiglio era quello di riunire il popolo e di
sottoporgli delle proposte. Questa attività di deliberazione preliminare rappresentava
l'aspetto decisivo nel processo di decisione politica. Un'ulteriore incombenza di primo
piano, che ricadeva sul consiglio, riguardava la giurisdizione. Il consiglio interveniva
in quelle questioni di rilevante interesse per lo stato che esulavano dalle competenze
dei tribunali ordinari (per esempio procedimenti contro magistrati o delitti di natura
politica). Il consiglio, infine, esercitava nel suo complesso una funzione di consulenza
e di supervisione dell'attività dei magistrati.
La funzione essenziale del consiglio era dunque di vagliare quelle che dovevano
essere le decisioni politiche e di trasmetterle all'ekklesía, ai magistrati e ai tribunali. E
evidente che una simile funzione non poteva essere assunta da cinquecento persone
operanti contemporaneamente, il consiglio si articolava nelle dieci parti, di cinquanta
membri ciascuna, di cui si è detto. Ciascuna pritania, o ufficio di presidenza, era in
carica per un decimo dell'anno, dunque per trentasei o trentasette giorni. I pritani
dovevano essere sempre a disposizione e, a tal scopo, disponevano di un locale
apposito, la thólos (rotonda), vicino a quello del consiglio, dove consumavano anche i
pasti. Un terzo dei pritani dovevano rimanere nella thólos anche di notte. Il presidente
della pritania veniva sorteggiato ogni giorno. I pritani dovevano predisporre l'ordine
del giorno dell'ekklesía e convocare le assemblee popolari: a loro si rivolgevano i
magistrati, gli stranieri, i semplici cittadini e gli ambasciatori per ogni necessità. La
pritania e attraverso di essa il consiglio erano gli organismi per opera dei quali si
garantiva al popolo capacità di decisione politica. Se non era un governo vero e
proprio, era tuttavia quanto di maggiormente avvicinabile a un governo nel senso
moderno del termine era ammesso dalla democrazia ateniese.
La giustizia
L'amministrazione della giustizia rappresenta un aspetto peculiare della democrazia
ateniese che può essere compreso sola attraverso un esame puntuale del suo
funzionamento. In particolare va tenuto presente che i giudici ateniesi non sono
giudici professionisti, ma cittadini comuni che emettono il loro verdetto senza alcuna
consulenza di specialisti. Giudice in Atene poteva essere qualunque cittadino che
avesse più di trent'anni. Nel V secolo il numero di coloro che avevano tali requisiti e
che erano disposti ad assumere le funzioni di giudici era così elevato che ogni anno si
doveva procedere al sorteggio dei seimila cittadini da assegnare ai vari tribunali.
Poiché i giudici sorteggiati rappresentavano idealmente la totalità della popolazione
ateniese, è evidente che nel sorteggio si teneva conto di una rappresentanza
equilibrata di ciascuna delle dieci tribù. Proprio perché espressione della sovranità
popolare, il singolo giudice non ha una funzione valutabile: la sua funzione è
legittimata solo all'interno della collettività giudicante. I giudici sorteggiati venivano
suddivisi in diversi tribunali (probabilmente dieci), le cui sedute potevano aver luogo
tutti i giorni tranne quelli festivi. I singoli tribunali avevano una diversa consistenza.
Per i processi pubblici erano previsti organi giudicanti composti da cinquecento
membri. Per i processi pubblici particolarmente importanti venivano riuniti più
blocchi di cinquecento così che potevano riunirsi insieme anche millecinquecento
giudici e oltre. Per le cause private ci si accontentava di collegi di duecento o
quattrocento giudici.
La procedura di assegnazione e di sorteggio dei giudici avveniva sull'agorà, sotto la
direzione dei tesmoteti. I sei tesmoteti avevano la responsabilità di stabilire i giorni
nei quali si doveva amministrare la giustizia e presentare al popolo le accuse di
cospirazione e le altre che riguardassero violazioni del diritto pubblico. In un giorno si
tenevano dibattimenti di cause solo pubbliche o solo private. Uno stesso tribunale
poteva deliberare in un giorno su più cause private, ma solo su una pubblica. I
processi dovevano concludersi necessariamente nell'ambito, di una giornata. Il
dibattimento aveva luogo sotto la direzione di un apposito funzionario, che aveva
come unica funzione di predisporne l'organizzazione e di far rispettare le procedure. Il
tribunale si riuniva in un locale chiuso alla presenza del pubblico che era diviso da
transenne dai giudici e dalle parti in causa.
Il sistema ateniese era congeniato in modo da dare il massimo spazio all'iniziativa
privata: in linea di principio ogni ateniese poteva presentare un'accusa pubblica.
L'unica forma di dissuasione era rappresentata dal fatto che, chi avesse presentato
un'accusa e non fosse riuscito a ottenere più di un quinto dei voti del tribunale, doveva
pagare un'ammenda di 1000 dracme e non gli era più consentito di sporgere accuse
dello stesso tipo. Rispetto all'accusa, la funzione del tribunale era passiva, perché non
poteva trasformare il capo di accusa ma soltanto, ascoltate le parti in causa, deliberare
per la condanna o l'assoluzione dell'imputato.
Un esempio illustre è dato dal processo contro Socrate, accusato nel 399 a.C. di
ateismo e di corruzione dei giovani: il tribunale poteva solo decidere tra la richiesta di
condanna a morte avanzata dall'accusatore e la multa di 30 mine proposta dallo stesso
imputato. Proprio la mancanza di alternative realisticamente praticabili portò al
verdetto di morte per Socrate.
Ogni giudice prima di assumere le proprie funzioni doveva giurare che avrebbe
emesso il suo verdetto sulla base delle leggi di valore generale (némoi) e delle
deliberazioni del popolo e del consiglio. In verità è assai dubbio che nella concreta
realtà della vita giudiziaria ateniese questi principi potessero essere rispettati. Il
formalismo giuridico faceva sì che solo le parti in causa potessero citare il diritto e
che il verdetto dovesse scaturire solo da quanto da loro esposto. Né esisteva, d'altra
parte, una qualsivoglia letteratura giuridica paragonabile a quella che i romani
chiamavano giurisprudenza. Giuristi professionisti non esistevano né ad Atene né
nelle altre città greche. Anche quanti erano specializzati nello scrivere discorsi (i
logografi) per i processi non avevano un interesse specifico per le questioni
giuridiche. E chiaro che al logografo interessava il successo della causa di chi lo
impiegava al proprio servizio, e che gli premeva ottenerlo più attraverso la
persuasione oratoria che non per via di un accertamento puntuale della questione
giuridica.
Questa somma di fattori concorre a creare un quadro fosco del sistema giudiziario
ateniese. Tuttavia, per quanto fossero sempre possibili abusi, era improbabile che un
oratore potesse convincere i giudici della bontà della sua causa se essa fosse stata in
contrasto con la legge. Si deve tener conto del fatto che quasi in nessuno stato antico
si riscontra la propensione che si ha ad Atene di radicare nella legge ogni aspetto della
vita collettiva. La forza del sistema giudiziario ateniese risiedeva nella
consapevolezza che ogni oratore aveva, nel sostenere una causa, che non solo
l'ordinamento legislativo era noto a tutti, almeno nelle sue linee generali, ma anche
che tutti erano consapevoli di rappresentarlo. Il popolo era a un tempo legislatore e
giudice, e per questo considerava qualsiasi violazione dell'ordine come un atto contro
il suo stesso potere sovrano.
Le implicazioni politiche di questo sistema pongono parecchi problemi. Il rapporto
molto stretto tra assemblea popolare e tribunali consente addirittura di vedere, data
l'ampiezza dell'attività giudiziaria e la consistenza dei tribunali, un'identità di fatto tra
le due istituzioni. Il popolo è dunque presente in entrambe e può agire in due forme
differenti. Del tutto estranea all'idea ateniese di democrazia è dunque la moderna
concezione di un potere giudiziario che funga come "terzo potere", con funzioni di
controllo e di riequilibrio rispetto a quello legislativo. Non a caso il numero dei
giudici (seimila) è identico a quello dei partecipanti all'assemblea popolare che erano
considerati rappresentare la totalità del popolo ateniese.
Le materie dibattute nell'assemblea erano in linea di principio diverse da quelle in
discussione nei tribunali. Ma poteva capitare il caso – soprattutto in frangenti delicati
– in cui i giudici erano chiamati a esprimersi su questioni politiche. C'erano alcuni tipi
di accusa che potevano determinare una linea di azione: non mancarono nella storia
della democrazia ateniese dei personaggi che misero tanto l'assemblea popolare
quanto i tribunali al servizio della propria linea politica. I tribunali sono
un'espressione diretta del potere popolare e interessano una serie di aspetti differenti,
ivi compresa l'economia. Dato l'aspetto aleatorio della composizione delle giurie, è
evidente che queste potevano rappresentare ancor più da vicino della stessa assemblea
gli umori del popolo minuto.
Clientela: tipico istituto romano in base al quale una persona di condizione libera si
metteva al servizio di un potente ricavandone in cambio protezione e assistenza.
Comizi tributi: l'assemblea romana nella quale l'unità di voto era la tribù. Aperta a
tutti i cittadini, eleggeva gli edili, i questori e i tribuni militari e votava le leggi.
Homines novi: a Roma i cittadini che aspiravano alla carriera politica senza avere
antenati che avessero ricoperto le magistrature maggiori.
Ordini: articolazione degli strati superiori della società romana. Nella tarda
repubblica fu forte la contrapposizione tra l'ordine senatorio, detentore del potere
politico, e quello equestre, espressione delle classi affaristiche emergenti.
Patrizi: i detentori esclusivi del potere nei primi secoli della repubblica romana in
opposizione ai plebei.
Plebei: uno. dei due fondamentali gruppi sociali di Roma arcaica contrapposto ai
patrizi. Si tratta forse dei gruppi di artigiani e commercianti che si erano arricchiti
verso la fine dell'età monarchica pur rimanendo esclusi dalla gestione diretta del
potere.
Tribuni della plebe: i magistrati originariamente istituiti a difesa dei diritti della
plebe. In numero di dieci, essi erano inviolabili e avevano il diritto di opporre il veto
sulle proposte di legge.
Fra il mondo greco, e magno greco, e quello romano tra il VI e il III secolo a.C. è
esistito un divario culturale, e quindi anche politico e sociale, molto profondo. Uno
degli aspetti di questo divario sta nel lento emergere a Roma delle strutture tipiche
dello stato-città, per quanto la ricostruzione storiografica romana abbia proiettato alle
origini stesse della città i caratteri di una precisa statalità, sociale, politica, giuridica.
Le più arcaiche strutture patriarcali e gentilizie hanno trasmesso allo stato romano, nel
corso del suo sviluppo politicamente organizzato, una serie notevole di modi di
pensare, di istituzioni civili, di realtà sociali.
Nel corso del V secolo la necessità di una sempre più ampia valorizzazione degli
elementi inferiori della milizia andò di pari passo con l'organizzazione del corpo
civico su base censitaria, sempre meglio articolata nel suo fondamento socio-
economico. Durante il IV secolo l'emergere di capi militari sperimentati procurò loro
riconoscimenti per i meriti acquisiti anche in campo politico con il sorgere di un
nuovo, più accentuato carattere gerarchico. Dopo la metà del IV secolo è attestato un
deciso processo di modernizzazione delle stesse istituzioni militari.
Contemporaneamente la coscienza civica dei romani andò acquistando un vigore
assolutamente nuovo: vennero meno o si attenuarono le forme tradizionali di
dipendenza con gli obblighi delle prestazioni personali: la schiavitù, per quanto
paradossale la cosa possa sembrare, è una forma di modernità. I cittadini romani
poveri, inviati nelle province latine, acquisirono indipendenza economica e autonomia
politica. Tutti questi fenomeni sono tanto più importanti in quanto il corpo civico
romano non conosceva ancora una grande differenziazione al suo interno, e tanto
meno una contrapposizione ideale, fra ceto dirigente e popolo.
Tra IV e III secolo i gruppi dirigenti romani hanno superato, anche e proprio in virtù
del loro ruolo militare e della rinomanza acquisita in questo modo, le chiusure patrizie
e la trasmissione del potere affidata soltanto al peso della tradizione. Talune grandi
personalità vanno emergendo in sfida reciproca. La loro caratterizzazione si basa sulla
virtus e su altre qualità e meriti concreti che sono loro generalmente riconosciuti. Chi
è nobilis, vale a dire conosciuto, lo è pubblicamente, per un generale e larghissimo
consenso popolare.
I gruppi dirigenti hanno degli strumenti molto importanti per proclamare e ricordare i
loro meriti e il riconoscimento pubblico che da essi deriva, vale a dire le laudationes
funebres, il cui alto significato era stato così ben capito da Polibio, e le grandi
iscrizioni funebri che da quelle laudationes derivano e dipendono: per esempio quelle
degli Scipioni. Tuttavia è necessario insistere su un fattore basilare: laudationes e
iscrizioni sono aspetti di autopresentazione e di autocelebrazione della nobilitas, ma a
differenza degli aristocratici ateniesi, che si proclamavano i migliori e reclamavano il
potere in opposizione al demos, a Roma la nobilitas, indifferentemente patrizia e
plebea, ricercava nel popolo la propria legittimazione, anche elettorale. Il consenso è
il riconoscimento da parte di una larghissima maggioranza del corpo civico romano di
virtù militari e civili, che si è tradotto nell'elezione a cariche pubbliche. Il concetto di
optimus nell'ambito dei boni risente, evidentemente e significativamente, di
un'influenza della terminologia politica e quindi di teorie politiche greche.
Atene e Roma
Se si istituisce un confronto tra la situazione ateniese del VI-V secolo e quella romana
fra IV e III risaltano divergenze profonde, non soltanto dovute a sfasature
cronologiche, fra due mondi, in entrambi i quali, almeno apparentemente, il principio
dell'eccellenza avrebbe dovuto garantire a gruppi elitari la conduzione e la gestione
dello stato.
In Atene vi è il concetto di una preminenza fortemente esclusiva anche se legata a una
società di proprietari terrieri, ma collegata all'educazione, alla preparazione culturale,
alla capacità di giudicare e di decidere con conoscenza di causa, che viene
intenzionalmente messa da parte quando la società si modernizza e i ceti inferiori,
diventati indispensabili nelle attività commerciali e marinare e nella creazione
dell'impero, possono pretendere e ottenere un ruolo determinante nel processo di una
libera formazione della decisione politica.
L'oligarchia aristocratica finisce in Atene in una democrazia. A Roma è proprio la
base agraria e contadina della società, potenziata e rinnovata nel corso della conquista
dell'egemonia in Italia, che favorisce l'emergere e lo stabilizzarsi di un ceto dirigente,
nuovo rispetto al passato e in principio non chiuso, la cui autorevolezza e la cui
preminenza non hanno alcuna radice culturale ma sono tali per meriti militari e
conseguente avvedutezza politica (sapientia).
Questo governo dei migliori si fonda proprio su di un largo consenso del popolo.
Questo consenso e accordo dureranno sino a quando le masse popolari si
riconosceranno in un ceto dirigente oligarchico, che saprà organizzare la conquista e
dividerne i frutti.
Nel sepolcro degli Scipioni, sulla via Appia, il sarcofago più antico appartiene a
Lucio Cornelio Scipione Barbato, il console del 298 a.C. che si distinse in una serie
di operazioni belliche contro i lucani. Tale sarcofago contiene, oltre al nome del
defunto, un suo elogio, sicuramente posteriore alla deposizione del corpo, che si
compone di sei versi saturni. Eccone una traduzione.
"Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto
fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi (apud vos). Prese
Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò ostaggi."
In un altro sarcofago era deposto il corpo del figlio, Lucio Cornelio Scipione, console
nel 259 e censore nel 258 a.C. II suo elogio consta di sette versi saturni.
"Lucio Cornelio Scipione, figlio di Lucio, edile, console, i censore. La maggior parte
dei romani è concorde nel considerare questo Lucio Scipione come il migliore di tutti
gli uomini dabbene. Era il figlio di Barbato, che fu console, censore ed edile presso di
voi (apud vos). Conquistò la Corsica e la città di Aleria; dedicò alle divinità delle
tempeste marine un tempio come esse avevano meritato."
Bibliografia essenziale
E. Gabba, Esercito e società nella tarda Repubblica romana, La Nuova Italia, Firenze
1973;
Idem, Aspetti culturali dell'imperialismo romano, Sansoni, Firenze 1993;
Idem, Italia romana, New Press, Como 1994;
Idem, La concezione antica di aristocrazia, "Rendiconti Accademia dei Lincei", s. 9,
vol. 5, 1995, pp. 461-468;
Idem, L'invenzione greca della costituzione romana, in I Greci, Einaudi, Torino (in
stampa).
La clientela romana
Un esempio significativo della peculiarità del sistema legislativo romano si ha nel
modo in cui si pervenne alla dichiarazione di guerra contro Filippo V di Macedonia
decisa dal senato nel 200 a.C. In un primo momento i comizi centuriati respinsero la
dichiarazione di guerra che era stata loro proposta di deliberare dal console Sulpicio
Galba. All'esito favorevole si giunse solo grazie a una seconda votazione, dopo una
serie di interventi del senato per porre rimedio a un primo voto negativo.
Per tutta questa serie di ragioni, taluni studiosi considerano i comizi una sorta di
“organo di consenso” e le complesse procedure di voto una sorta di “rituale di
consenso”. In tale ottica, dunque, i comizi fungevano solo come strumento di ratifica
di una decisione presa altrove. Altri ritengono che i comizi ritrovavano un'effettiva
funzione decisionale nei casi di contrasti forti all'interno dell'aristocrazia.
Il problema di fondo è costituito dall'istituto della clientela che caratterizza in modo
determinante la società romana. Attraverso i legami clientelari la gran massa della
popolazione era vincolata alle decisioni delle famiglie aristocratiche.
La nobilitas (l'aristocrazia senatoria) controllava in modo così sistematico la politica
da rendere per lo più pura formalità le decisioni delle assemblee popolari. Alla
mancanza di veri contenuti alternativi nella competizione politica romana
corrispondeva l'importanza eccezionale delle decisioni personali che si traduceva in
coalizioni di breve durata all'interno del ceto dirigente.
Questo sistema subì un progressivo deterioramento per una serie concomitante di
fattori. In primo luogo l'allargamento della cittadinanza tra III e II secolo a.C. a
territori sempre più estesi della penisola italiana faceva sì che i cittadini votanti
fossero solo un campione degli aventi diritto. L'introduzione del voto segreto
contribuì ad attenuare i vincoli clientelari con il risultato di indebolire la
rappresentatività sociale del voto delle assemblee senza tuttavia creare alcun
meccanismo alternativo nella formazione del processo decisionale. Il popolo non
aveva comunque altra possibilità se non quella di votare a favore della proposta di
legge che gli veniva presentata.
In realtà, nel giudicare la peculiarità della democrazia romana, si deve tener conto,
come emerge dal contributo di Gabba, dell'alto grado di consenso sociale che legò il
popolo al senato fino alla metà del II secolo.
Questo spiega perché, almeno sino a quel momento, l'aristocrazia sembri godere di
una sorta di delega fiduciaria sulla gestione dell'attività politica. La plebe, da parte
sua, vigila che da parte aristocratica non ci siano abusi o violazioni alle norme
fondamentali di comportamento.
Bibliografia essenziale
A favore della rivalutazione del ruolo del popolo nella politica romana di età
repubblicana si è schierato di recente con decisione lo storico britannico Fergus Millar
in due importanti saggi:
The Political Character of the Classical Roman Republic, 200-151 B.C., “Journal of
Roman Studies”, 1984, n.74, pp. 1-19; Politics, Persuasion and the People Before the
Social War (150-90 B.C.), ivi, 1986, n. 76, pp. 1-11.
Una messa a punto delle questioni fondamentali si può avere ora in M. Jehne (a c. di),
Demokratie in Rom? Die Rolle des Volkes in der Politik der römischen Republik,
Stuttgart 1995.
Sulla nobilitas senatoria è fondamentale il saggio di M. Gelzer, The roman nobility,
Oxford 1969 (trad. ingl. dell'edizione tedesca del 1912).
Sulla clientela e le principali componenti della vita politica e sociale a Roma in età
repubblicana si legga P. Brunt, The Fall of the Roman Republic and Related Essays,
Oxford 1988.
Quinto consiglia al fratello Marco Tullio come conquistarsi il consenso popolare per
la sua elezione al consolato del 63 a.C.
«Poiché ho parlato abbastanza della creazione di legami di amicizia, bisogna che parli
dell'altro aspetto dell'attività dei candidati, che consiste nell'assicurarsi il favore del
popolo. Questo esige naturalmente che si conoscano gli elettori per nome, che si sia
assidui, generosi, che si ecciti l'opinione pubblica, che si risveglino delle speranze
politiche.
La generosità si manifesta nei banchetti, che devi provvedere ad allestire o a far
allestire dai tuoi amici, con invitati sia presi in tutta la città sia tribù per tribù. Bisogna
non che la tua reputazione giunga al popolo attraverso questi partigiani, ma che il
popolo stesso abbia per te questi sentimenti.
Bisogna, inoltre, in questa candidatura, che ci si aspetti molto da te per la repubblica,
che si abbia una buona opinione di te. Dovrai tuttavia evitare, nel corso della
campagna, di intervenire direttamente negli affari correnti del senato o nelle
assemblee. Ma dovrai sempre ricordare questo: il senato dovrà ritenere, sulla base
delle tue elezioni passate, che tu sarai il difensore della sua autorità, i cavalieri
romani, le persone dabbene e i ricchi dovranno aspettarsi da te la difesa del loro
riposo e della loro tranquillità; la massa, sulla base della testimonianza dei discorsi
popolari che tu hai pronunciato nelle assemblee o davanti ai tribunali, che tu non ti
opporrai ai loro interessi.»