Roberto Gritti
Laicità ≠ Secolarizzazione
La laicità riguarda le leggi e le norme di uno Stato; invece, la secolarizzazione riguarda i comportamenti delle
persone.
Le due cose possono sovrapporsi ma non si tratta di una via obbligata (ci sono Paesi secolari ma non laici, come
ad esempio la Gran Bretagna dove la regina Elisabetta II è al tempo stesso capo dello Stato e della Chiesa; al
contrario un Paese laico ma non secolarizzato è la Turchia).
Pertanto, oggi dobbiamo riformulare una visione dei rapporti tra religione, società e politica, considerandola
come elemento costitutivo dell’azione sociale e politica.
Nel 1974 l’Albania scrisse nella Costituzione che il Paese era “ateo” (le religioni venivano perseguitate; lo Stato
non era per nulla neutrale).
La Francia, invece, è laica: non persegue le religioni; lo Stato non danneggia né aiuta le religioni.
La Sociologia politica parte dalla considerazione che fra società e politica esiste una connessione/un’interazione
costante, che nel mondo contemporaneo si manifesta a più livelli (locale, regionale, nazionale, globale)
comprendendo fenomeni diversi: crisi economiche, conflitti per il potere (interni e internazionali, le guerre), i
fenomeni religiosi, i flussi migratori, la comunicazione (vecchie e nuove forme) ecc.
Dunque, di tutti quei processi che mutano le basi sociali dei regimi politici (autoritari, totalitari, democratici, o
eventuali vie di mezzo tra questi), dei sistemi politici e l’attribuzione/distribuzione di potere all’interno della
politica.
La sociologia della politica si occupa delle influenze reciproche con la società e i fenomeni sociali.
La scienza della politica, invece, si occupa del fenomeno politico attraverso la metodologia delle scienze
empiriche.
La sociologia della politica è un ibrido, un incrocio interdisciplinare, tra sociologia e politica che esamina i legami
tra società e politica, le relazioni tra strutture e istituzioni sociali e politiche, tra comportamenti sociali e quelli
politici
Non è la riduzione sociologica della politica, né la riduzione politologica della società.
La visione semplicistica sta nell’affermare che le strutture sociali sono le variabili indipendenti dei fenomeni
politici (e viceversa). In realtà dobbiamo assumere uno schema circolare in cui capire come la società influenza la
politica ma anche viceversa. Ci sono ragioni sociali dell’agire politico ma anche ragioni politiche dell’agire
sociale.
Fin dalle origini (metà 1800) la sociologia si è occupata del rapporto società e politica (prima che la sociologia
politica diventasse una disciplina autonoma).
Basta pensare ai classici, ai padri fondatori: Marx (conflitto, classe), Tocqueville (basi sociali della democrazia),
Weber (stato, classe, potere e status), Mosca e Pareto (teoria delle elites), Michels (oligarchia dei partiti) ecc.
La sociologia politica è importante soprattutto nelle fasi di crisi, quando si parla della crisi o dissoluzione della
democrazia, dei partiti, delle istituzioni. In realtà, tali crisi sono costanti nella storia sociale e politica e il loro
superamento è da sempre la principale sfida della politica. La sociologia politica va intesa come “scienza delle
connessioni” fra mutamento sociale e mutamento politico.
In definitiva la sociologia politica affronta le interdipendenze (circolari) tra conflitti (quali, come), poteri (quali,
come), relazioni sistemiche (chi predomina e quanto), e forme politiche (quali, chi, con quale legittimazione,
come).
LEZIONE 2 (25.02.22)
LO STATO: CUORE DELLA POLITICA
Oggi viviamo in un mondo di stati nazionali (moderni), se ne contano 195 riconosciuti dall’ONU.
Tuttavia, vi sono anche «stati» non pienamente riconosciuti. Ad esempio: la Palestina (ANP), Kossovo (una
specie di protettorato europeo) ecc.
E Stati «falliti» (dopo la decolonizzazione), come ad esempio la Somalia, l’Afghanistan.
Ma nel corso dei secoli sono esistiti modelli alternativi di organizzazione e distribuzione del potere:
forme pre-statali (clan, tribù, federazioni tribali ecc.) – che esistono ancora e sono importanti in quanto
creano fedeltà, a prescindere che questo sia giusto o meno (esempio: Afghanistan),
forme centralizzate,
forme non centralizzate.
E poi gli imperi, le leghe, le città stato, i comuni. Su questo ci torneremo.
In Europa, in epoca moderna, abbiamo avuto lo sviluppo parallelo dello stato-nazione e del sistema capitalistico.
In Europa c’è stato lo sviluppo parallelo dello Stato moderno e del capitalismo.
Possiamo analizzare lo Stato a diversi livelli:
livello sovranazionale
Organismi internazionali (ONU),
Regionali (UE e NATO), MNC, ONG
Chiese e religioni
livello nazionale
Stato nazione (tipo ideale ma non corrisponde alla realtà) e attori sociali politici e economici
livello subnazionale
minoranze e gruppi etnici, linguistici, religiosi (spesso ci sono movimenti separatisti e reclamano
l’indipendenza)
Lo Stato nazione oggi è sfidato dagli organismi sovranazionali, dal livello subnazionale; ma anche al suo fianco
dal potere economico.
Per Max Weber, lo Stato è quella comunità umana, che nei limiti di un determinato territorio esige per sé (con
successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica.
Per Weber è una forma di dominio alla cui base vi è un senso di obbligazione morale ad obbedire ad un comando
sollecitato da chi detiene il potere.
Da questa sintetica definizione si ricava la classica triade: popolo, territorio, sovranità (legittima).
Dal punto di vista sociologico questo rimanda a tre concetti: potere, autorità, legittimità.
In questo senso lo Stato rappresenta il legame istituzionalizzato tra le tre forme.
L’Ucraina è sempre stata oggetto di ingegneria demografica (chi dominava sul territorio voleva portarci le sue
popolazioni russificazione, polonizzazione, ecc.).
Nel 1930:
in Ucraina (che era enteata in URSS nel 1922) l’8% della popolazione era di lingua e nazionalità russa;
nel 1991 si arrivò al 22-23%
i polacchi erano il 5,5% e nel 1991 solo lo 0,4%
gli ebrei il 6,5% e nel 1991 lo 0,9%
Nella striscia da Danzica a Trieste la popolazione ebraica era numerosissima questa stessa terra venne svuotata.
Zelensky è un ebreo ucraino.
Breve cronologia:
1986 disastro nucleare di Cernobyl’.
1991 dissoluzione URSS e dichiarazione di indipendenza di alcuni Stati (con governi filo-russi)
Anche l’Ucraina diventa indipendente con un governo filo-russo.
La Russia ha sempre cercato di controllare la Bielorussia e l’Ucraina, in quando fungevano da cuscinetto.
2004 (rivoluzione arancione con forte nazionalismo ucraino) allontanamento da Mosca, viene cacciato il
presidente filo-russo e viene nominato un presidente filo-occidentale; aspirazione ad entrare nelle UE e nella
NATO.
2014 annessione della Crimea senza sparare un colpo (indipendenza, referendum, annessione), ceduta
all’Ucraina nel 1954, da parte della Russia.
La Crimea fino al 1954 apparteneva alla Russia ma Kruschev, per destalinizzare l’Unione sovietica, cede la
Crimea all’Ucraina, lasciando una popolazione in maggioranza russa.
Dal 2014, in Ucraina, è molto aumentata l’identità nazionale.
1989 l’URSS sigla un patto segreto tra Gorbaciov e Bush per cui le ex repubbliche sovietiche sarebbero dovute
restare neutrali, non aderendo né alla NATO né al Patto di Varsavia, o comunque alla Russia = questa è
un’argomentazione di Putin ma non regge dal momento che gli accordi siglati con uno Stato che non c’è più non
esistono per ovvie ragioni.
A Jalta mancavano due Paesi non imputati a nessuna delle due sfere di influenza, cioè l’Italia e la Grecia
(quest’ultima è stata teatro di una guerra civile tra filo-occidentali e filo-sovietici fino al 1949).
Ma a Kiev giungevano le invasioni provenienti dall’Asia (come i mongoli) quindi la gente si spostò più a Nord,
verso Mosca.
Durante la Prima guerra mondiale viene segnata una zona cuscinetto.
Nel ‘20-‘22 si crea una Repubblica indipendente ucraina che poco dopo aderirà alla Russia.
Oggi la zona critica è quella orientale (Donbass – con Lugansk, Donets e Mariupol).
Le due repubbliche riconosciute da Putin hanno un confine differente rispetto al confine del Donbass.
La comunità ucraina in Italia (quarta comunità per migranti extra UE dopo Marocco, Albania, Cina): 230.639
ucraini residenti in Italia (2020), pari al 6,4% dei cittadini non comunitari.
Dal punto di vista sociologico è l’unica che ha il 75% di donne e solo il 25% di uomini, questo perché le donne
sono impiegate nei servizi alla persona. Si tratta di monofamiglie con forti disparità (spesso lavorano solo le
donne e proprio queste sono costrette a spostarsi in altri Paesi, lasciando la propria famiglia in Ucraina).
Temi di riflessione:
1. Centralità dello Stato come agente della politica internazionale. Lo Stato inteso come attore unitario,
dotato di un certo grado di razionalità, coerenza e, soprattutto autonomia. In realtà, le identità e le lealtà
cambiano, si moltiplicano e si sovrappongono.
2. Autodeterminazione dei popoli – tensione tra due principi che sono alla base della convivenza
internazionale (autodeterminazione dei popoli vs sovranità statale).
Ad esempio, le repubbliche del Donbass possono chiedere l’autodeterminazione ma questa non gli è stata
concessa (su questo Putin avrebbe potuto appellarsi).
Il diritto all’autodeterminazione dei popoli non significa secessione ma va intesa come autonomia
(esempio: Barcellona – fece richiesta di indipendenza qualche hanno fatta e ottenne maggiore autonomia
regionale).
3. Ruolo dell’Occidente.
LEZIONE 3 (2.03.22)
Lo stato è un regime politico, cioè un complesso di istituzioni politiche (strutture, regole e procedure) che
definiscono un ordine politico. In altri termini, è la struttura dei rapporti che legano le autorità e la comunità
politica.
Il termine “regime” non ha alcuna valenza negativa, ma è un termine neutro. Anche il fascismo operò in questo
modo (forma di investitura dovuta alle lezioni) ma si passò dalle elezioni ai plebisciti (possibilità di esprimersi
esclusivamente solo con un sì o con un “no”).
*Benedict Anderson parla di “Comunità immaginate” = termine non negativo che sta ad indicare che esse non
sono solo fantasia ma c’è un qualcosa che le lega, base di verosimiglianza/realtà (costruzione sociale dell’identità
e della comunità).
Ad esempio, il primo a parlare di “Italia” fu Petrarca (diversi secoli prima dell’unificazione di essa nel 1861).
Tutti gli stati moderni sono comunità immaginate.
In Italia, dal 2011 (governo Monti) i capi del governo vengono eletti non dal popolo ma dal Parlamento (è il caso
di Monti, Renzi, Conte, Draghi). In effetti, noi abbiamo un sistema parlamentare: il popolo elegge i rappresentanti
da mandare in Parlamento, i quali eleggeranno a loro volta i capi del governo.
Cosa diversa è il “Presidenzialismo”, che prevede l’elezione diretta dell’esecutivo da parte del popolo.
Ad esempio, la Russia e l’Italia non sono stati-nazione, in quanto non omogenei in termini di popolazione (la
normalità è la diversità) stato moderno ≠ stato nazione.
Per “stato moderno” si intende …… (concetto di “cittadinanza”: le persone non sono più sudditi ma cittadini).
I regimi totalitari sono stati moderni.
La modernità è un concetto che necessita di essere contestualizzato (Eisenstat teorizza le c.d. “modernità
multiple”, in quanto si sono sviluppate in modi e tempi differenti – il Giappone, che è moderno, non ha fatto la
stessa strada dell’Europa e degli Stati Uniti); da un punto di vista sociologico è una serie di processi sociali che in
alcune parti del mondo sono sincroni e in altre parti sono asincroni. Questi processi sociali tipici della modernità
sono l’industrializzazione, le tecnologie, l’urbanizzazione (concentrazione nelle grandi aree urbane), educazione
di massa (alfabetizzazione), la comunicazione di massa, la democrazia e l’estensione della cittadinanza.
Tutti questi processi non sono sincroni in tutto il mondo e sono diversi nello spazio.
I sociologi hanno anche notato l’importanza di non dare un giudizio di valore necessariamente positivo alla
modernità: ad esempio il nazismo, il fascismo e lo stalinismo sono cose moderne ma terribili e con risvolti tragici.
Ancora oggi nella società tutti sono “sudditi”, ma esiste una differenziazione tra:
nobili (possidenti terrieri),
borghesi (artigiani e commercianti dei borghi e delle città),
villani (i lavoratori della terra).
LEZIONE 4 (4.03.22)
Lo stato moderno è caratterizzato da:
Secolarizzazione
Individualizzazione = nel passato le scelte dell’individuo erano dominate dalla comunità, con
l’individualizzazione le persone si staccano dalla volontà della comunità di riferimento per scegliere
individualmente.
DIRITTI CIVILI: diritto all’integrità della persona, del domicilio e della corrispondenza, alla libertà di
movimento e di opinione, della proprietà privata.
Essi nascono in Inghilterra nel XVIII secolo sotto la spinta della borghesia urbana.
DIRITTI POLITICI: diritto al voto - suffragio elettorale ristretto in base al censo. Poi progressivamente
suffragio
universale maschile e, infine, suffragio universale maschile e femminile (Italia, 1946). Elettorato attivo e passivo
in elezioni libere, pluralistiche e ricorrenti.
Seguono i diritti civili in termini di collocazione temporale, in quanto se ne inizia a parlare nel XIX-XX secolo
con la Rivoluzione americana (tassa sul tè – “no taxation without representation”).
Elettorato attivo: poter votare
Elettorato passivo: poter essere eletti
Elezioni libere, competitive, segrete, pluralistiche e ricorrenti.
Il sistema politico è un insieme di istituzioni, norme, autorità che ha degli input dalla società (esempio legge
sull’aborto, DDL Zan, Ius soli) e che riceve domande, consensi o dissensi; il compito è prendere decisioni.
STATI DEMOCRATICI
La caratteristica fondamentale è il riconoscimento della sovranità popolare (il potere del popolo non è limitato in
quanto esso esercita questo potere nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione).
La democrazia può essere diretta o rappresentativa: nel primo caso il popolo prende direttamente le decisioni
politiche (ad esempio l’istituto del referendum in Italia); nel secondo caso le decisioni vengono prese dai
rappresentanti del popolo liberamente eletti (parlamenti, presidenti).
La forma di stato riguarda rapporto tra la sovranità e il territorio; possiamo avere tre forme di stato:
stati centralistici unitari: quello per eccellenza in Europa è la Francia (eccesso di centralismo);
stati federali: Stati Uniti, Germania, Canada, Brasile, Argentina, Russia = presentano un equilibrio di
potere tra centro e periferia (questi paesi diventano stati federali quando guadagnano la propria
indipendenza);
stati regionali: quello per eccellenza è la Spagna (è costituita da comunità autonome) = via di mezzo in
cui le comunità autonome hanno una buona autonomia.
L’Italia non fa parte di questi tipi ideali, perché è al tempo stesso un po’ stato unitario e un po’ stato regionale.
È più che altro uno stato unitario fortemente decentralizzato.
La forma di governo riguarda il modo in cui il potere dello Stato democratico è distribuito fra i diversi organi che
lo compongono.
Monarchia costituzionale: il capo dello Stato è il Re o la Regina ed è una carica ereditaria per via dinastica.
Svolge la funzione di unità e garanzia quasi sempre senza potere di governo effettivo.
Repubblica: il capo dello Stato è il Presidente della Repubblica (carica elettiva – dal parlamento o dai cittadini).
Può avere funzioni limitate, di unità e garanzia, oppure esercitare un potere di governo effettivo, più o meno
ampio ma sempre bilanciato con altri poteri.
I tipi di Repubblica:
Repubblica parlamentare: esempio – ITALIA: Il popolo elegge il Parlamento. Il Parlamento elegge il
Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica affida l’incarico di formare il Governo al
Presidente del Consiglio (scelto tra/dai partiti politici che formano la maggioranza). Il Governo deve
avere il voto di fiducia dal Parlamento altrimenti è costretto a dimettersi.
Repubblica semipresidenziale: esempio – FRANCIA: Il popolo elegge Parlamento e Presidente. Il
Presidente sceglie il Primo Ministro. Anche il Presidente ha poteri di Governo. Il Governo deve godere
della fiducia della maggioranza parlamentare.
Repubblica presidenziale: esempio - STATI UNITI D’AMERICA: Parlamento e Presidente sono eletti
direttamente dal popolo. Il Presidente è sia capo dello Stato che capo del Governo (potere esecutivo). Non
c’è nessun rapporto di fiducia tra Governo e Presidente.
La nostra Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, divenendo la legge fondamentale dello Stato.
La Costituzione italiana è LUNGA e RIGIDA (pertanto sono necessario apposite leggi di modifica
costituzionali, e non le leggi ordinarie o referendum). Inoltre, essa consta di 4 PARTI:
1. PRINCIPI FONDAMENTALI - articoli 1-12 che stabiliscono l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge, senza distinzione di sesso, razza, religione, lingua, condizioni personali e sociali. Diritti dell’uomo e
centralità del lavoro.
2. DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI - articoli 13-54
3. ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA - articoli 55-139, i quali stabiliscono le modalità di
funzionamento dei vari organi costituzionali.
Gli organi previsti dalla Costituzione sono: il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo (debole), la
Magistratura, gli Enti locali (eccesso di decentramento, attuate Regioni solo nel 1970) e le Garanzie costituzionali.
4. XVIII DISPOSIZIONI TRANSITORIE e FINALI
Alcuni articoli e disposizioni sono stati modificati o abrogati (enti locali, divieto d’ingresso dei Savoia, ecc.).
LEZIONE 5 (9.03.22)
STATI NON DEMOCRATICI: AUTORITARI E TOTALITARI
Innanzitutto, bisogna ricordare che quelli elencati di seguito sono tipi ideali, ma nella realtà c’è un’ibridazione.
Secondo Linz e Stepan (1996) ci sono quattro tipi fondamentali di Stati non democratici:
Regimi autoritari (come il fascismo, che aspirava a diventare totalitario ma non lo diventò mai di fatto)
Regimi totalitari (come nazismo e stalinismo)
Regimi post-totalitari (come i paesi post-comunisti)
Regimi sultanistici
Dalla Seconda Guerra mondiale in poi, si sono andati a definire alcuni sottotipi di regimi autoritari.
Sono quattro i sottotipi di regimi autoritari individuati da Linz nel 1991:
Regimi autoritari burocratico-militari (America Latina) i militari in molti Paesi del Sud del mondo
spesso sono l’èlite più moderna (ad esempio in perù hanno preso il potere de facto ma erano dei
progressisti).
Grecia, Spagna (Franco), Portogallo paesi che si sono liberati dei regimi totalitari per via dei militari.
Regimi a statalismo organico (corporativismo clerico-fascista nel ’38 le reggi razziali e l’abolizione
delle elezioni del Parlamento che invece veniva eletto su base corporativa).
Regimi autoritari di mobilitazione post-liberali (fascismo, franchismo) in Italia tra il 1919 e il 1921
c’è il tentativo di allargare il suffragio; nel 1921 (un anno prima della marcia su Roma) le elezioni
vengono vinte dai nuovi partiti popolari di massa; in questi anni c’è il biennio rosso (rivolte operaie e
contadine, …) quindi il rischio del bolscevismo, ci sono gli ex combattenti della Prima guerra mondiale
che tornano e non hanno più lavoro, ma soprattutto una mobilitazione post-liberale; dall’Unità d’Italia al
1921 governeranno i liberali, ma senza riuscire a fare un partito di massa e pertanto la crisi dei liberali
può essere intesa come una delle ragioni che porterà all’avvento del fascismo.
Regimi autoritari di mobilitazione post-coloniali (Africa e Asia) la fine del colonialismo è iniziata
dagli anni ’50 del secolo scorso ed ha interessato anche gli anni ’60 e ’70, di conseguenza sono crollati
diversi imperi coloniali. Generalmente quando crolla l’imperialismo, in quegli stessi luoghi si instaurano
regimi totalitari (un’eccezione è costituita dall’India, che è la più grande democrazia del mondo).
I regimi possono essere de iure (di diritto) o de facto (di fatto).
REGIME SULTANISTICI
Il sultanismo è caratterizzato dalla confusione tra patrimonio pubblico e quello privato, dall’arbitrio completo del
capo e dei poteri pubblici. Vi è un’assenza di tradizione democratica e parlamentare.
Esempi: Haiti con Duvalier, Paesi del Golfo, Romania di Ceauses, Corea del Nord con la stirpe di Kim il Sung,
Arabia Saudita.
REGIMI AUTORITARI
Sono sistemi a pluralismo politico limitato (interno al regime) che non hanno un’ideologia guida articolata
ma una o più mentalità specifiche (esempio per comprendere: quando si crea l’URSS, dietro Lenin e l’élite che
prese il potere c’era l’idea dell’uomo nuovo che era estremamente pervasiva; il fascismo, nonostante il culto della
personalità, non aveva un’ideologia così pervasiva).
Inoltre, essi presentano una mobilitazione intermittente (Mussolini, in occasione di grandi eventi, faceva le c.d.
“adunate oceaniche” ma ad intermittenza, cioè in particolari momenti in quanto era tutto interesse che le cose
rimanessero sotto il livello di attenzione) del totalitarismo, invece, è tipica la mobilitazione continua.
Anche la leadership dai limiti di potere indefiniti (la classe politica non rende conto del proprio operato) è un
elemento fondamentale, così come la censura e repressione dell’opposizione.
Ovviamente, le elezioni non sono né libere nè competitive (vengono invece fatti i plebisciti).
REGIMI TOTALITARI
Sono caratterizzati dalla pervasività e dal controllo dell’ideologia politica in tutti gli ambiti di vita, annullando
ogni distinzione tra Stato, gruppi sociali e individui. Inoltre, presentano un messianismo politico (avanguardie) e
la volontà di creare l’uomo nuovo (nazismo e razza ariana, URSS di Stalin, Iran di Khomeini, Afghanistan dei
talebani).
Le caratteristiche fondamentali sono: ideologia omnicomprensiva, partito unico guidato da un leader unico (culto
della personalità) che incarna l’ideologia, potere di polizia fondato sul terrore, monopolio dei mezzi di
comunicazione, subordinazione delle forze armate al potere politico, sistema centralizzato di pianificazione
economica e controllo di tutte le organizzazioni.
Un grande sociologo parlò di tradizionalismo ideologico da parte di alcuni regimi totalitari, facendo riferimento al
fatto che da una parte lascia liberi i cittadini di fare alcune cose come, ad esempio, esportare i prodotti ma d’altra
parte resta ben saldo sulla propria posizione politica.
LE CRISI
Crisi dello Stato: con la glocalizzazione (unione dell’aspetto globalizzante con le realtà locali) i flussi
sovranazionali di capitali, personali e di comunicazione erodono l’autonomia dello Stato. Esistono inoltre
organismi internazionali e regionali (ONU, BM, FMI, …). Multinazionali delocalizzazione, dumping
sociale.
A livello sub-nazionale: nazionalismi, etnie, localismi, criminalità organizzata.
Crisi dello Stato sociale: lo Stato sociale è molto costoso e non sempre è sostenibile perché c’è una
differenza tra chi paga e chi ne beneficia (crisi fiscale dello Stato sociale). I modelli sono due:
chi paga: contributi dei lavoratori e aziende; chi ne beneficia: lavoratori (Bismarck);
chi paga: fiscalità generale; chi ne beneficia: tutti i cittadini (e non) (Scandinavia).
La crisi deriva anche dall’emergere di nuovi bisogni, difficoltà economiche per gli alti costi e del pensiero
liberista secondo il quale c’è troppa assistenza, e sarebbe opportuno che ci fosse “meno Stato più
mercato”.
Crisi della democrazia rappresentativa: ciò sta ad indicare che la gente si disaffeziona alla qualità della
democrazia; un indicatore di ciò è l’astensionismo. Nei regimi post-democratici si perde la qualità e
l’intensità della democrazia. È sempre più presente la sfiducia e la stanchezza nei valori, nelle procedure
e istituzioni democratiche.
Negli ultimi anni si è sperimentata un po’ ovunque la personalizzazione e la mediatizzazione della
politica.
Ci si trova spesso anche a vedere democrazie che formalmente sono tali ma non si comportano come se lo
fossero (democrazie illiberali).
Addirittura, si è parlato di “democradura” (democrazia dittatura) e di “dictablanda” (dittatura
blanda).
I temi della crisi della democrazia sono: la personalizzazione il populismo e il sovranismo (i
nazionalismi).
Populismo: descrive una situazione in cui c’è un rapporto diretto tra il leader e le masse (no mediazione); spesso
esso appare come un modo per ottenere il consenso, dicendo al popolo ciò vuole sentirsi dire.
Nelle democrazie rappresentative questo rapporto è mediato dai corpi intermedi (partiti), invece il populismo
“salta” questo step (esempio: Berlusconi e Salvini
in Italia). Ma bisogna fare attenzione: il populismo
non è sempre sbagliato o negativo, ad esempio le
trasmissioni nazionalpopolari (interpretazione del
popolare, facendo venir fuori ciò che il popolo non
riesce a esprimere o dire).
LEZIONE 6 (11.03.2022)
PARTITI POLITICI
I soggetti politici più importanti sono i partiti politici: essi sono i soggetti intermedi tra Stato e popolazione.
Cosa sono e a cosa servono? Una definizione in senso ampio di Duvergen (1980): afferma che essi “sono
raggruppamenti più o meno organizzati in vista della conquista e dell’esercizio del potere politico” (concezione
generalissima e astorica).
La parola “partito” sta per “parte rispetto l’intero”, essi dividono quindi la politica in parti, in fazioni.
Tale divisione può avvenire:
1. verso l’esterno: i partiti chiedono il riconoscimento e l’individuazione delle singole parti in campo,
offrono verso l’esterno un’identità collettiva; quindi, si ha un processo di costruzione di una identità
collettiva.
2. verso l’interno: sussiste il problema di tenere insieme tutto il gruppo e dell’integrazione del gruppo
politico, quindi di tutti coloro che chiedono di ispirarsi ad un certo partito. Cercano dunque di identificare
gli individui con questa loro parte, cercano di creare lealtà e solidarietà (logica dell’identità). Gli aspetti
di identità, lealtà e solidarietà devono essere di lunga durata. C’è un impegno materiale, morale, emotivo
(“parteggiare”).
C’è un’incessante dinamica tra interno ed esterno. Dal punto di vista sistemico, i partiti sono sia parte, ma al
tempo stesso si trovano nel ‘’tutto’’, nell’insieme collettivo. Dunque, oltre alla logica delle parti sopra citata, c’è
anche la logica del conflitto.
Logica dell’identità: chi/cosa i partiti dicono di essere.
Logica del conflitto: cosa fanno e come si relazionano alle varie parti (che relazioni intrattengono).
A partire da queste dinamiche si può dare una definizione più stretta del partito: con la modernità l’idea di partito
assume un valore positivo, (elemento di divisione visto in modo positivo in quanto introduce la pluralità di
opinione e interessi) e viene riconosciuto come forma organizzativa essenziale e necessaria della politica.
Burke (1770) parla dei partiti come ‘’onorevoli connessioni di individui’’, da queste parole possiamo fare un
excursus: nel mondo anglosassone i partiti potevano essere di due tipi, Burke parlava dei partiti che nascevano
dentro il Parlamento Inglese, essi sono detti partiti di origine interna; al contrario ci sono i partiti di origine esterna
che nascono nella società (questa caratteristica è comune per i partiti di massa, si pensi ai partiti socialista e
comunista che in Italia sono nati nella società e che poi sono entrati al parlamento nel 1919). Dopo l’unità d’Italia
c’erano due partiti destra e sinistra storica che erano partiti interni, coloro che vi partecipavano erano persone di
rilievo quali notabili, farmacista medici. La destra e la sinistra storica sono rimasti fino all’inizio del 900, quando
iniziano ad emergere anche forme di partiti esterni come quello socialista.
Già dai partiti di inizio 900 ci sono alcuni aspetti che sono indicatori dei partiti moderni:
1) Organizzazione formale, non sono più gruppi di persone come medici e notai che interloquiscono tra di
loro, ma iniziano ad essere più formali e organizzati, anche se tale organizzazione all’inizio del 900 era
molto debole e discontinua.
2) Partecipano alla competizione elettorale: i partiti competono alle elezioni e sono uno strumento
fondamentale per la democrazia. I soggetti che si trovano sulla scheda elettorale sono i partiti.
3) Aspirano al governo: Perché? Qual è l’ottica per cui i partiti che si presentano alle elezioni vogliono
andare al governo? Per fare politiche pubbliche, ovvero andare al governo perché lì riesco a mettere in
pratica i propri interessi, ideali.
4) I partiti esprimono di solito un ideale comune su interessi e identità.
Max Weber (1922) definisce i partiti politici in maniera più precisa, cioè come associazioni fondate su
un’adesione formalmente libera, costituita al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza
all’interno della comunità e ai propri militanti attivi la possibilità di perseguire o fini oggettivi o per
raggiungimento dei propri di vantaggi personali o per entrambi gli scopi.
(Spesso i partiti cambiano forma, ad esempio Forza Italia di Berlusconi dopo Manipulite ha raccolto personalità
della DC, o del PSI: i partiti rinascono e cambiano nome.)
Ritornando alla definizione di Weber ci sono 4 dimensioni chiave che caratterizzano i partiti moderni:
Organizzativa: struttura formale associativa che tiene insieme capi, dirigenti e militanti.
Teleologica: orientata a realizzare alcuni fini, tra cui quelli
o Materiali: come, ad esempio, i partiti di patronato per acquisire posizioni di potere o cariche
amministrative.
o Interessi specifici: soprattutto all’inizio i partiti rappresentano sempre delle classi sociali e ne
perseguono gli interessi delle basi sociali, tanto che si parla di partito di ceto o di classe. Ad esempio,
il partito comunista era rappresentativo delle masse. Oggi non c’è più, si può parlare di elementi
interclassisti.
o Finalità di ideali, religiosi, etnici: se il PC era un partito di classe, il DC era un partito più ideale. La
Lega, ad esempio, nasce con una finalità ideale, la Padania, Nord vs Sud. Ad esempio, i partiti
religiosi che sono ispirati ad una visione, intuizione del mondo.
Competitiva: i partiti presentano candidati e programmi, attraverso i partiti i cittadini influenzano la
direzione e la politica dello Stato. I partiti si presentano per raccogliere suffragi, presentano agli elettori
candidati e programmi. Così attraverso i partiti i cittadini partecipano e influenzano la direzione e le
politiche dello Stato.
Istituzionale: i partiti moderni sono presenti sia nello Stato democratico che nei regimi autoritari, dove
però hanno delle caratteristiche diverse, ad esempio non c’è la competitività. Si parlerà maggiormente si
partiti democratici, ma è necessario sottolineare che ci sono anche dei partiti non democratici.
(I partiti moderni sono possibili solo all’interno di uno Stato liberal-democratico che attraverso
costituzione e riconoscimento dei diritti limita il potere. Parliamo di «partiti democratici»)
Dunque, per Weber le azioni dei partiti sono degli strumenti di distribuzione del potere in una comunità, dunque
sono dei corpi di connessione (intermedi) tra la società e lo Stato, fondamentale in una democrazia.
È importante dire che i partiti sono corpi intermedi.
Essi cercano il successo elettorale (vote seeking), per poi avere il controllo delle cariche pubbliche, (office
seeking), della distribuzione delle risorse pubbliche (patronage) e la possibilità di indirizzare decisioni e politiche
pubbliche (policy seeking).
Nel libro si analizzano i partiti in prospettive di studio e nel loro impatto sui sistemi politici, sono sei:
① Prospettiva funzionale (funzioni dei partiti)
a. Integrazione e mobilitazione dei cittadini: organizzano la partecipazione attraverso la socializzazione
politica e il filtraggio delle domande dal basso. Inoltre, con l’elaborazione ideologica costruiscono
identità collettive.
b. Strutturano il voto: attività di “electioneering”; presentando candidati e programmi, organizzando
campagne elettorali; cercano di influenzare l’opinione pubblica (militanti ed elettori attraverso
propaganda, uso dei media).
c. Aggregazione degli interessi: trasformano le domande in alternative politico-programmatiche;
inoltre, i partiti devono essere capaci di aggregare, mediare, regolare e interpretare tutti gli interessi.
Dunque, fungono un ruolo di filtro o gatekeeper rispetto ai gruppi di interesse o di pressione.
d. Selezione del personale politico (reclutamento leader e personale politico): sono i partiti che indicano
agli elettori chi si deve votare per cariche elettive, di governo o amministrative. Sono loro che fanno
la selezione.
e. Organizzano il potere di governo: devono andare al potere per mediare tra il potere legislativo e
quello esecutivo.
f. I partiti vogliono influenzare le politiche pubbliche: capacità di problem solving e di influenza sul
processo di policy making; passare dalle “promesse” ai “fatti”, alle politiche pubbliche per rispettare
il “mandato” ricevuto dagli elettori.
② Prospettiva sociostrutturale: teoria dei cleavages, ovvero di frattura sociale. Non tutte le fratture sociale
si trasformano in partiti, si pensi ad esempio alla frattura dell’ambientalismo, che in Italia non ha avuto
successo e non si è trasformato in un partito.
Nelle società soprattutto nei momenti di grande cambiamento si formano delle spaccature sociali. Quindi
i cleaveges sono linee di divisione che caratterizzano la società. La società ha quindi delle fratture, dalle
quali molto spesso nascono dei partiti.
Quali sono dunque le fratture fondamentali? Lipset e Rokkan parlano di quattro tipi di frattura:
o Stato vs Chiesa Il partito che lo rappresenta in Italia è la DC, oppure il partito della Merkel in
Germania. Da questa frattura sono nati vari partiti.
o Centro vs Periferia La Lega nasce su questa frattura.
o Urbano vs Rurale In Italia è una frattura che esiste ma che non ha dato vita a partiti; nei paesi
dell’est invece possiamo ritrovare i partiti dei contadini.
o Lavoro vs Capitale da questa frattura sono nati il partito comunista e socialista.
Questi sono i fondamentali, altri possono essere Rivoluzionari vs Riformisti; Ambientalisti vs Industrialisti;
In questa visione i tipi di partiti possono essere classificati sulla base delle famiglie ideologiche e politiche.
Ideologie nate dai cleavages e dai conflitti.
Il tema di Rokkan è l’inclusione progressiva delle masse in politica, passare da sudditi a cittadini.
Il processo di inclusione e democratizzazione è visto come il superamento di 4 successiva soglie:
o Soglia legittimazione: libertà negative = diritti di petizione, critica, dimostrazione, opposizione,
associazione, libertà di stampa (in altri termini liberalizzazione e cittadinanza civile).
o Soglia di incorporazione: diritti politici, riconoscimento diritti di partecipazione politica, ovvero il
voto (liberalizzazione e inclusione).
o Soglia di rappresentanza: si indeboliscono le barriere istituzionali all’ingresso di nuovi partiti. Dal
maggioritario al proporzionale (ingegneria elettorale). Nuovi partiti che incarnano quelle richieste
vengono inseriti.
o Soglia del potere esecutivo: accesso al governo a tutti i partiti che controllano la maggioranza dei
seggi parlamentari.
④ Prospettiva organizzativa: tipi di partito. Sono molte le variabili possibili per costruire la tipologia.
⑤ Prospettiva competitiva: descrizione del sistema dei partiti
⑥ Prospettiva comunicativa
! LEZIONE 7 (16.03.22)
Ricordiamo che stiamo parlando di TIPI IDEALI, utili per semplificare e capire la realtà, che invece è
molto più complessa.
Dal punto di vista sociologico, con il termine “ideologia” si intende una certa “visione del mondo” semplificata
(l’ideologia serve per ridurre la complessità del reale; ad esempio: buoni vs cattivi). Si tratta di un concetto
neutro.
Storicamente, la letteratura divide i partiti in tre gruppi: partiti di élite, partiti di massa e partiti elettorali.
Consideriamo 4 variabili fondamentali:
1. Azione collettiva e partecipazione
2. Organizzazione e istituzionalizzazione
3. Mobilitazione delle risorse
4. Identità vs Competizione
LEZIONE 8 (18.03.22)
I partiti d’élite possono essere:
Partiti di notabili = sono partiti borghesi, presenti nella fase del parlamentarismo classico, rappresentano
limitati gruppi di elettori socialmente omogenei. L’unità organizzativa è il comitato elettorale. Tali partiti
si attivano in occasione delle elezioni.
Partito clientelare = cominciò ad emergere proprio quando il partito tradizionale di notabili fu esposto
alle sfide dei settori dell’elettorato affrancato di recente all’interno di società in via di industrializzazione
e urbanizzazione. Si basa sulla rete di rapporti interpersonali occorrenti tra chi è in grado di dispensare
favori, i politici, e chi ne ha bisogno. Per tutta la metà del Novecento le macchine partitiche americane si
sono alimentate dell’apporto dei voti degli immigrati – che spesso non conoscevano neanche la lingua –
in cambio di protezione e assistenza.
PARTITI DI MASSA (tipo base del partito) generalmente guardano a un blocco preciso della società.
Nascono richiedendo e assistendo all’allargamento del suffragio, affermandosi come i protagonisti della fase della
“democrazie dei partiti”; quindi, la democrazia diventa oggetto dei partiti. Essi svolgono una funzione di
integrazione sociale e portano all’interno del sistema politico classi che prima ne erano escluse (pertanto
favoriscano la partecipazione degli iscritti che costituiscono la loro fonte principale di finanziamento); sono
radicati nel territorio con una presenza capillare, ma al contempo sono burocratizzati.
Michels (1911) parla di legge ferrea dell’oligarchia, in riferimento allo studio del partito socialdemocratico
tedesco.
Partiti elettorali = hanno strutture organizzative leggere e intermittenti. Essi possono favorire la partecipazione
dei simpatizzanti e utilizzarla spesso per ragioni competitive tra i leader. In questo contesto giocano un ruolo
fondamentale alcuni professionisti delle campagne elettorali (spin doctor, sondaggisti).
Oggi esiste anche il “partito in franchising”, nel senso che “è in affitto” al potentato locale.
Durante la prima Repubblica italiana c’era un sistema con 7 partiti (da sinistra verso destra: PC, PS, repubblicani,
DC, liberali, socialdemocratici, MSI). Dal ’48 al ’94 i governi duravano in media un anno (critica di instabilità
politica – ma essa era apparente), tuttavia al governo c’era sempre lo stesso partito. Dal ‘62/’63, quando i
socialisti entrano al governo dopo la rottura con i comunisti, si ha una svolta (non ci fu più al governo il PC con la
conventio ad exludendum e il MSI).
Secondo Sartori, per contare i partiti bisogna tenere a mente due regole di conteggio per discriminare i partiti
che “contano” e quelli irrilevanti:
Potenziale di coalizione: se il partito è indispensabile per formare maggioranze di governo.
Potenziale di ricatto (o intimidazione): se la presenza del partito condiziona la direzione della
competizione e la produzione delle politiche pubbliche, a prescindere dalla sua forza
parlamentare/elettorale (esempio: PC e MSI).
Soglia della
destrutturazione
Bipartitismo Bipartitismo Competizione moderata, Bipolare
alternanza
Pluralismo limitato (3-5) Multipartitismo moderato Competizione centripeta Bipolare
Pluralismo estremo (5-7) Multipartitismo polarizzato Competizione centrifuga Multipolar
e
Partiti deboli Sistema politico atomizzato Centrifugazione Multipolar
e
In realtà, in Italia si contano solo due partiti (DC e PC) ma è imperfetto perché non vi è alternanza al potere.
2) il sistema elettorale
a) la struttura del voto;
b) la soglia di sbarramento/premio di maggioranza;
c) la formula elettorale
d) l’ampiezza del collegio o della circoscrizione (quanti eletti? Uninominale, plurinominale)
3) le procedure elettorali (leggi e codici di comportamento specifici relativi ad aspetti pratici e tecnici):
a)
LEZIONE 9 (23.03.22)
Grafico che esemplifica la distribuzione degli elettori si tratta di un grafico ideale
utile per fornire un’idea generale.
Forma a campana: la maggior parte degli elettori (salvo casi eccezionali) sta nel
centro dello spettro politico (votante mediante/centrale); i votanti di estrema sinistra
e estrema destra sono molti di meno.
Questo grafico ci fa capire perché la maggior parte dei partiti corre verso il
centro, ovvero perché qui si collocano la maggior parte degli elettori (c.d.
elettori centrali).
Secondo Sartori il sistema era un sistema polarizzato e la competizione era centripeta (le frecce verso l’interno).
Nella prima Repubblica la competizione era centrifuga (le frecce erano verso l’esterno).
Gli elettori non andavano verso il centro per via del sentimento dell’appartenenza e soprattutto per l’occupazione
del centro da parte della DC (Democrazia Cristiana).
Per quanto rigurarda l’identificazione politica sono due i dati che emergono con chiarezza:
a) autocollocazione sul tradizionale cleavage destra/sinistra è notevolmente in calo, pur tuttavia le nozioni di
“destra”, “centro” e “sinistra” persistono come criterio minimo a cui riferirsi nella infinita transizione
italiana;
b) solo poco più del 50% degli italiani si autocolloca con decisione e senza ambiguità vicino ad un partito
politico/coalizione (fino alla crisi della Prima Repubblica questa quota si attestava normalmente intorno
al 75% circa);
c) al declino dei partiti come fonte primaria di identificazione politica si accompagna invece la nuova
centralità assunta dalle figure dei leader e dai mass-media (vecchi e nuovi) come agenzie “affidabili” di
orientamento politico. La vecchia democrazia parlamentare e die partiti sembra aver lasciato il posto ad
una indistinta quasi-democrazie basata sui flussi e riflussi dell’opinione pubblica e costruita.
GRAFICO DELL’ASTENSIONE STORICA. AREA DEL NON VOTO (elezioni per la Camera, ITA)
Dai dati riguardanti l’Italia e la Francia si evince che circa ¼ degli elettori decidono se e come votare negli ultimi
sette giorni prima delle elezioni, e una parte non indifferente (9%) lo decide addirittura l’ultimo giorno.
consumatori
Elettori come
Cerimonie mediatiche
TARGETING ELETTORI Mobilitare la propria base Trasversale, pigliatutto Segmentazione del mercato,
sociale (esempio: indecisi) target specifiche categorie
Mediatizzazione della
politica
Bisogna sottolineare che possono coesistere stati, laici e società scarsamente o non del tutto secolarizzate (come la
Turchia) o, al contrario, società fortemente secolarizzate in stati non formalmente laici (vedi la Gran Bretagna).
La parola “secolarizzazione” deriva dal latino saeculum (“il mondo”). Nel contesto cristiano sta anche a
significare un tempo indefinito come nella preghiera che termina con l’esortazione “in saecula saeculorum”.
Il termine venne utilizzato per la prima volta all’inizio del XX secolo da Max Weber e Ernst Troeltsch per
designare tutto ciò che, nel mondo cristiano, stava sfuggendo al controllo della Chiesa.
Per i padri della sociologia moderna la secolarizzazione aveva a che fare con il mutamento sociale e culturale
della religione, cioè con il ruolo nella formazione dei valori e dei comportamenti collettivi e individuali. Dunque,
la secolarizzazione era concepita come fortemente connessa ad altri processi tipici della modernità: la
razionalizzazione e l’individualizzazione.
Allo stesso tempo prendeva piede il concetto di laicità, per indicare essenzialmente una dottrina di rigida
separazione tra Stato e Chiesa. Questo termine è recente e sostanzialmente francofono, anche se in realtà le sue
radici risalgono all’antichità: la parola latina laicus e quella greca laikos stava ad indicare “ciò che
riguardava il popolo”.
Venne utilizzato per la prima volta nel significato che gli attribuiamo ancora oggi nel Dictionnaire de
pedagogie (Francia, tra il 1882 e il 1887), a cura di Ferdinand Buisson.
La teoria tradizionale della secolarizzazione si deve a Max Weber (il declino della religione era da mettere in
relazione con l’avanzare di una visione razionale del mondo) e ad Emile Durkheim (la scomparsa del sacro era
dovuto al processo di differenziazione funzionale delle società moderne) vedi sotto.
LEZIONE 10 (25.03.22)
INIZIO SECONDA PARTE DEL CORSO: LA POLITICA E LA RELIGIONE
In questa parte del corso l’obiettivo sarà cercare di capire la rilevanza del fenomeno religioso in quanto fatto
sociale.
Per millenni le identità, le ideologie e i comportamenti sociali e politici spesso sono dipesi dal credo, dalla fede o
dall’adesione religiosa (sistema di credenze e di valori).
La modernità (intesa come serie di processi che investono vari ambiti) e l’Illuminismo hanno portato in primo
piano identità e ideologia secolari (comunismo, socialismo, fascismo); questa opera ha portato all’idea di una
specie di scomparsa della religione dall’orizzonte politico e sociale.
Due dei processi fondamentali della modernità sono l’individualizzazione (le persone iniziano a fare scelte per sé
stessi e non per i gruppi di appartenenza originari) e la secolarizzazione.
Peter BERGER (sostenitore della secolarizzazione vecchio stampo) si rese conto che il mondo, nel 1999, non era
mai stato così furiosamente religioso; pertanto, tutta la letteratura precedente riguardante la secolarizzazione era
“sbagliata”.
SACRO significa “separato”, “ciò da cui si deve star lontani perché straordinario, potente”, ma anche “maledetto”
o “pericoloso”. La sacralità è una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l’uomo,
non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuiti a una dimensione, in seguito denominata
“divina”, pensata come “separata” e “altra” rispetto al mondo umano.
In tutte le società è presente il riferimento al sacro, al trascendente o semplicemente al religioso (il religioso è una
parte del sacro). Tutto ciò che all’uomo appare come punto di concentrazione di questa forza sovrannaturale
diventa sacro, tremendo, prezioso, inavvicinabile. L’atteggiamento dell’uomo ….
In sociologia religione e sacro non sono sinonimi, per cui se ogni espressione religiosa comprende in sé il sacro,
non è sempre vero il contrario.
RELIGIONE parola che deriva dal latino religio che significa “credere e riverire gli dèi”. Questa parola proviene
dal verbo religare, cioè “legare insieme”. L’idea è che la religione sia una relazione, un legame (verticale), tra la
persona devota e l’oggetto di tale devozione (dio, gli dèi, ecc.). Ma è anche il legame (orizzontale) che unisce tutti
coloro che condividono le stesse convinzioni religiose (comunità dei credenti). La religione tende ad unire opposti
apparentemente inconciliabili: il “qui e ora” con “l’aldilà”, l’immanente con il trascendente, il secolare con il
sacro, il naturale e il sovrannaturale, il temporale e l’eterno.
Qual è il contenuto di un sistema di credenze che definiamo di tipo religioso? Un sistema di credenze per essere
definito di tipo religioso deve contenere i seguenti elementi:
una visione della realtà (cosmologia, teologia, antropologia);
una dottrina della salvezza e della redenzione (soteriologia);
una dottrina del giusto comportamento (ortoprassi);
una dottrina relativa al destino ultimo di tutte le cose (escatologie);
delineare la natura e le modalità di appartenenza alla comunità dei fedeli (ecclesiologia).
Il fenomeno religioso è stato categorizzato e tipizzato sulla base di una lunga serie di variabili finalizzate a farne
emergere le differenze. Le categorizzazioni più frequente sono:
religione monoteista/politeista
religione rivelata/non rivelata
religione con dio/senza dio
religione basata sull’ortodossia e/o sull’ortoprassi
religioni istituzionalizzate/non istituzionalizzate
RELIGIOSITA’ è un indicatore degli studi empirici che indagano le scelte e le pratiche individuali e
collettive.
Le ricerche più importanti identificano tra livelli della religiosità individuale:
1) partecipazione religiosa = si manifesta o nella regolare presenza ai riti collettivi (funzioni liturgiche) o
nelle quotidiane pratiche individuali (preghiera, meditazione);
2) valori religiosi = ovvero la rilevanza o meno dell’identità religiosa nella vita quotidiana e sociale delle
persone; l’eventuale distanza tra valori e pratica religiosa può essere utile per indicare la differenza tra
credenti nominali e credenti “ferventi”;
3) credenze religiose = che si riferiscono alle convinzioni spirituali profonde, all’influenza
dell’insegnamento e delle norme religiose; gli indicatori sulle credenze permettono di stabilire tipologie
degli atteggiamenti individuali e collettivi nei confronti del fenomeno religioso (dall’ateo al credente
fervente) e delle issues morali (aborto, divorzio ecc.) ad esso collegate.
LEZIONE 30.03.22
FONDAMENTALISMI RELIGIOSI
Quello religioso non è l’unico tipo di fondamentalismo possibile: esistono infatti anche i fondamentalismi etnici o
nazionali, o quelli legati a specifiche issues (ad es. quello ecologista).
Concetto passe-partout, pigliatutto, insomma troppo dilatato, nel senso che tende ad identificare fenomeni tra loro
diversi e distanti. Termini equivalenti: estremismo, radicalismo, integralismo
Il termine proviene dall’esperienza del movimento religioso protestante americano a cavallo tra XIX e XX secolo
che si articolò intorno ad alcuni “fundamentals”, fondamenti o dati fondamentali, e sosteneva la centralità
dell’interpretazione letterale della Bibbia nella vita e nell’insegnamento cristiano.
Correnti fondamentaliste esistono in tutte le tradizioni religiose sia pure con intensità differenti.
Tendenze fondamentaliste connaturate all’essenza stessa della religione. Una zona periferica e spesso marginale.
Ogni fondamentalismo religioso affonda le sue radici nella tradizione religiosa di riferimento, è molto simile ad
essa ma non identico. Condivide con la propria religione di riferimento il corpus di testi sacri e i suoi sistemi di
credenza e di culto ma vi differisce per obiettivi, sistemi di organizzazione e di comportamento. Il
fondamentalismo religioso è un’ideologia che dà luogo ad una subcultura politico-religiosa.
Fondamentalismo evoca un ritorno ai fondamenti della religione, agli insegnamenti originali, che la modernità
sembra aver corrotto e distorto, attraverso una interpretazione letterale dei testi sacri. Ma a questo significato se ne
aggiunge un altro: il ritorno alla vera fede richiede che la società, la politica e lo stato in cui si vive siano anch’essi
ispirati e modellati sui fondamenti della religione.
MODERNITA’ E RELIGIONE
Molte delle ideologie, dei movimenti sociali e delle vicende politiche della modernità avevano promesso e
prospettato un mondo senza Dio. Ma la modernità attuale (postmodernità, modernità radicale, globalizzazione)
dimostra l’esatto contrario. Dio, il sacro, nelle sue diverse accezioni e declinazioni, è presente e SI constata
l’immanenza del trascendente.
Dopo l’epoca dei Lumi, tutti i padri fondatori delle nuove scienze umane e sociali – Comte, Marx, Durkheim,
Weber e Freud – sostennero che la religione avrebbe perso d’importanza in seguito all’avvento delle moderne
società industriali, fino al punto di scomparire. La morte di Dio e della religione diventò da allora una sorta di
premessa indiscussa e indiscutibile della riflessione sociologica e delle altre scienze sociali.
La modernità venne intesa (XIX-XX sec.), come un pacchetto “tutto incluso” che le società dovevano adottare.
L’insieme di molti processi: industrializzazione, urbanizzazione, burocratizzazione, razionalizzazione,
individualizzazione, progresso tecnico-scientifico ecc. La modernità includeva anche la secolarizzazione e il suo
risvolto istituzionale e normativo, la laicità.
L’emergere di società moderne avrebbe comportato una contemporanea rimozione del sacro, dei suoi simboli, dei
suoi riti e delle sue pratiche; le religioni sarebbero diventate sempre più marginali nella vita sociale e politica.
Il sacro percepito come residuo della tradizione, oggetto archeologico che riguardava solo il passato.
Al massimo, la religione – cancellata dalla sfera pubblica – avrebbe potuto sopravvivere, isolata e quasi nascosta,
nella sfera privata e intima degli individui. In questa concezione “idraulica”, il sacro e il secolare erano come dei
vasi comunicanti: allo svuotamento del primo sarebbe corrisposto l’innalzamento del secondo.
Ma le cose non sono andate così e i fatti storici e sociali si sono incaricati di smentire, almeno in parte, le teorie –
e le «profezie» – sociologiche. Proprio nel momento in cui il paradigma della secolarizzazione ha raggiunto il suo
zenith (anni ’60 e ’70 del Novecento) la dimensione sacra e religiosa delle società contemporanee riprendeva –
inaspettatamente – forza e vigore. Con uno sguardo retrospettivo possiamo dire che, negli ultimi 50 anni, sono
accadute molte cose che hanno ribaltato la prospettiva.
Questi ultimi decenni hanno fatto registrare una nuova vitalità dell’elemento religioso e un suo massiccio ritorno
nell’arena politica.
Negli ultimi anni la tesi della morte di Dio e della religione ha subito critiche sempre più forti e le teorie della
secolarizzazione e della laicità (e con esse tutto il paradigma della modernità) sono state messe in discussione.
In realtà i classici vedevano la modernità “come una costellazione di processi e come il prodotto di una
molteplicità di fattori; la vedevano cioè come un insieme di tendenze solidali fra loro ma in qualche misura anche
autonome, e a volte contraddittorie. E ne coglievano l’ambivalenza…” (Jedlowski 2013).
Teorie secolarizzazione avevano “dimenticato” alcune lezioni: ad es. “le premesse religiose della modernità” in
Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Per spiegare “la rivincita di Dio” è stato necessario ripensare la modernità. Dalla modernità unica, omogenea e
lineare (quella del modello europeo occidentale) alle modernità multiple e plurali (Eisenstadt) e, quindi, alle
secolarizzazioni multiple. Non esiste solo una via secolare alla modernità ma anche una via religiosa alla
modernità (o, meglio, più vie). (Pace 2009).
SECOLARIZZAZIONE E LAICITÀ
I due termini indicano due processi convergenti verso un fine unico: la progressiva esclusione del sacro e
dell’influenza religiosa dalla società, dalla vita degli individui, dalla politica e dallo Stato.
Secondo Dobbelaere (1981), quello di secolarizzazione è un concetto multi- o pluri- dimensionale poiché si
riferisce
• Ai sistemi societari in senso ampio con particolare riferimento alle istituzioni (laicità)
• Alle organizzazioni religiose
• Alla sfera del coinvolgimento religioso dell’individuo
Ci possono essere società secolarizzate in stati formalmente non laici (es. Regno Unito) e stati laici in società
scarsamente secolarizzate (es. Turchia moderna).
Chiariti a grandi linee i significati/definizioni di sacro, religione, religiosità, fondamentalismo religioso,
secolarizzazione e laicità, torniamo ai temi di sociologia della religione relativi a secolarizzazione e laicità.
LEZIONE 1.04.22
CAPITOLO 2: LE FORME DELLA LAICITA’
Il massimo grado di integrazione tra religione e politica si ha quando un potere politico riconosce formalmente
una chiesa o una religione come ufficiale. In cambio esse offrono al potere politico, sostegno e lealtà. Lo stato può
applicare misure per favorire la religione ufficiale, come il sostegno istituzionale, finanziario, fino alla
persecuzione o proibizione di altri culti.
Al contrario, la separazione tra stato e chiesa rappresenta la garanzia della reciproca autonomia tra politica e
religione. Questa differenziazione è legata alla modernità e si realizza nella convergenza dei processi di
secolarizzazione di una società e di laicizzazione dello stato.
La questione delle religioni e delle chiese di Stato ha molto a che fare con la storia del cristianesimo.
Dopo lunghe persecuzioni, l’editto di Milano del 313 sancisce il cristianesimo come religio licita (imperatori
Costantino e Licinio); nel 380, il cristianesimo diviene Chiesa di Stato con l’editto di Tessalonica dei tre
imperatori (Graziano, Valentiniano II e Teodosio I il Grande).
Il principio della laicità dello Stato si è andato costituendo in Occidente durante i secoli.
Lo spazio storico entro cui si emerge progressivamente il concetto di laicità dello Stato è delimitato da tre grandi
rivoluzioni:
- inglese (1648-1649);
- americana (1763-1787);
- francese (1789-1799).
Le prime “avvisaglie” di una concezione laica dello Stato in Europa si ritrovano implicitamente già nei trattati di
Westfalia (1648-1649), in cui vennero riconosciuti alcuni diritti alle religioni minoritarie sia pure all’interno della
riaffermazione del principio Cuius regio eius religio quella di Westfalia fu una specie di pace religiosa in
quanto pose fine alle sanguinose guerre di religione del XVI e XVII secolo e permise il progressivo affermarsi del
principio di tolleranza.
In Inghilterra, dopo la Rivoluzione Gloriosa, fu emanato il Toleration Act di Guglielmo III d’Orange; e nello
stesso anno anche la Lettera sulla tolleranza di Locke.
Gli Stati Uniti d’America furono il primo paese laico della storia, in quanto la separazione tra stato e chiesa fu
sancita costituzionalmente e rafforzata dall’approvazione del primo emendamento.
Nel 1801 Napoleone e Papa Pio VII firmarono un concordato storico tra lo Stato e la Chiesa Cattolica.
Nel 1803 Napoleone sciolse il Sacro Romano Impero germanico.
Dal punto di vista giuridico, la laicità si definisce sulla base di due opposte dimensioni:
a) In senso positivo e includente con la garanzia dei diritti e delle libertà individuali e pubbliche;
b) In senso negativo attraverso la separazione tra Stato e Chiese.
Per comprendere i diversi percorsi della laicità si possono utilizzare due variabili:
1. L’“intensità” della laicità messa in atto, che può essere moderata o radicale;
2. Il contesto istituzionale e il regime politico entro cui la laicità si è realizzata, che può essere democratico o
autoritario.
La vera e ideale laicità non può che essere democratica.
Sono emersi 4 tipi fondamentali attraverso cui è stata declinata storicamente la laicità; ad essi sono stati aggiunti
due tipi entro i quali rientrano ad oggi molti sistemi politici al di fuori del mondo occidentale.
La Francia è il modello per eccellenza della laicità radicale e democratica basata essenzialmente su tre pilastri: la
netta separazione tra Stato e Chiesa, la neutralità dello Stato negli affari religiosi, la rinuncia delle Chiese a
esercitare direttamente o indirettamente un potere di tipo politico.
LEZIONE 27.04.22
LA DISTRIBUZIONE SPAZIALE/DINAMICA DELLE RELIGIONI
Analizzare la distribuzione/diffusione è utile in quanto permette di distinguere fra religioni “universali” e “locali”
e, di conseguenza, inferire qualcosa circa il loro ruolo e la loro influenza nei diversi contesti geopolitici (globale,
regionale, nazionale, locale).
L’universalità di una religione è un concetto vago, aleatorio e soggettivo: più che con il numero degli aderenti ha
che vedere con la diffusione spaziale (incluso il ruolo delle diaspore) e la continuità storica di una determinata
tradizione religiosa.
Cristianesimo, nelle sue differenti declinazioni, è la religione principale in oltre la metà dei casi (56,1%) (88 paesi
su 157), Islam (26,1%) maggioritario in 41 paesi; religioni tradizionali (5,7%), buddhismo (4,5%), induismo
(2,6%), scintoismo e l’ebraismo (un paese ciascuno).
La tabella riporta anche i paesi (6, pari al 3,8% del totale) in cui vige una qualche forma di laicismo radicale:
IL “PESO” GLOBALE DELLE DIFFERENTI RELIGIONI
Sulla base di stime attendibili risulta che attualmente gli orientamenti cristiani nel loro complesso sono quelli
maggioritari (33%) tra la popolazione mondiale; seguono l’islam (19,6%), l’induismo (13,3%) e le varie religioni
orientali (12,5%). Il 15% della popolazione mondiale, concentrata nel nord del mondo e in quelli comunisti o ex
comunisti, non segue alcuna religione e si dichiara laica, secolarizzata, agnostica o atea.
Disaggregando i dati relativi al cristianesimo, la religione più seguita diventa l’islam seguita dal cattolicesimo
(17,4% della popolazione mondiale) e dall’induismo. Questi tre orientamenti religiosi unitamente alla categoria
della non appartenenza religiosa sommano quasi i 2/3 della popolazione mondiale.
Ma anche per l’islam andrebbero disaggregati i dati relativi a sunniti e sciiti; a quel punto sunnismo e
cattolicesimo avrebbero percentuali di diffusione sostanzialmente simili.
In declino sono anche le religioni tradizionali, l’ortodossia e l’ebraismo; nel primo caso la diminuzione va
imputata principalmente alla crescita di altri orientamenti religiosi (cristiani e islamici), soprattutto in Africa,
mentre per gli ultimi due appare centrale l’effetto della secolarizzazione.
La meridionalizzazione è connessa al fenomeno della crescita delle nuove denominazioni indipendenti ovvero a
tutte quelle chiese che non si riconoscono nelle grandi correnti tradizionali: cattolica, protestante, ortodossa,
anglicana o orientale. Le chiese indipendenti sono essenzialmente di tre tipi: quelle tradizionali (come i mormoni,
o movimento dei Santi dell’Ultimo Giorno, che nel mondo sono circa 11 milioni), il movimento pentecostale e le
varianti locali delle grandi correnti tradizionali.
Secondo David Barrett (2001) esistono attualmente nel mondo circa 34.000 gruppi cristiani e oltre la metà di
questi sono chiese indipendenti, non interessate a stabilire legami formali con le denominazioni tradizionali.
Le nuove chiese indipendenti fanno proseliti soprattutto fra i nuovi migranti (interni o internazionali) e i
diseredati. In America latina spostamento di gruppi molto ampi dal cattolicesimo verso i movimenti evangelici e
pentecostali.
Il successo delle chiese indipendenti africane o latinoamericane è spesso legato alla loro capacità di mantenere e
integrare nella dottrina e nei rituali diverse pratiche tradizionali (poligamia, mutilazioni sessuali, riti di iniziazione,
esorcismo, pratiche di guarigione, profezie).
Le chiese indipendenti tendono a sovvertire le regole tradizionali e occidentali del cristianesimo. Tutte promettono
“miracoli personalizzati” e i pastori sostengono continuamente che Dio interviene direttamente nella vita
quotidiana.
Di fronte all’avanzata protestante/indipendente la Chiesa cattolica ha reagito in diversi modi.
In positivo, creando essa stessa le cosiddette comunidad eclesiales de base o gruppi carismatici che imitano
organizzazione e comportamenti tipici dell’evangelismo e dei movimenti pentecostali.
In negativo, esprimendo una forte preoccupazione e opposizione rispetto al fenomeno delle chiese indipendenti. Il
risentimento della gerarchia cattolica contro i movimenti evangelici è stato ben sintetizzato da Giovanni Paolo II
che li ha definiti, nel 1992, come dei “lupi famelici”.
La ragione è ben descritta da Chesnut (1997) che afferma che se la Chiesa Cattolica ha scelto i poveri, i poveri
hanno scelto il pentecostalismo.
La ragione profonda dell’arretramento cattolico in America latina va ricercata anche nella posizione negativa
assunta dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti dei movimenti socio-religiosi di base come la teologia della
liberazione (Gustavo Gutierrez, Camilo Torres,H. Camara)
L’analisi delle nuove chiese indipendenti ci dice alcune cose circa le tendenze del cristianesimo globale:
1) nei paesi del nord del mondo, con qualche eccezione, prevale un cristianesimo “culturale”, relativista,
essenzialmente impegnato a mantenere l’incerto equilibrio con stati laici e società altamente
secolarizzate;
2) nel nord del mondo dove esiste un revival religioso questo è dovuto principalmente agli immigrati, alle
nuove comunità etniche; sono loro gli attori di una ricristianizzazione dell’occidente;
3) infine, visti i nuovi rapporti di forza, oggi la nuova ortodossia cristiana viaggia dal sud al nord del mondo
e non più al contrario come avveniva in passato; non a caso attualmente i nuovi immigrati sono
maggioranza nel clero cattolico del nord (ultimo Papa Francesco) ed è su di loro che le gerarchie
ecclesiastiche puntano per rievangelizzare e ricristianizzare un occidente stretto fra la secolarizzazione e
il fascino per le religioni “altre” provenienti dall’oriente.
Lungi dall’essere un monolite cristiano, l’Europa sembra piuttosto un complesso mosaico religioso in cui sono
confluiti nel corso dei secoli molteplici apporti. A grandi linee si riconoscono almeno 6 “Europe” definite sulla
base di diverse culture religiose:
1. l’Europa cattolica, formata da Portogallo, Spagna, Italia, Francia, Belgio,
Polonia, Lituania, Austria, Malta, Croazia, Slovenia, gran parte
dell’Ungheria, della Cechia, della Slovacchia, della Lettonia, la parte
occidentale e meridionale della Germania (ovest renano e sud bavarese),
parte della Svizzera e dell’Olanda;
5. l’Europa ebraica che conta oggi su una popolazione di circa 1,6 milioni di
persone;
6. l’Europa laica, agnostica, atea, perché non vi è dubbio che tra le grandi
eredità europee vi sia anche quella “umanista”, secolare e laica.
Tra le dieci potenze demografiche musulmane, in cui vivono oltre i 3/4 della popolazione totale, in 5 paesi l’Islam
è religione di stato. Di fatto, poco meno del 55% dei musulmani vive in sistemi politici in cui l’Islam è – in parte o
totalmente – dottrina dello stato.
La scelta operata è quella di suddividere l’universo musulmano in due categorie:
i mondi (arabo, turco, iranico, indiano, sud-est asiatico e quello dell’Africa sahariana e sub-sahariana) che
rappresentano aree geopolitiche e culturali sufficientemente omogenee al loro interno, in cui le
popolazioni musulmane sono la maggioranza o comunque una consistente macro-minoranza (come nei
casi del sub-continente indiano e dell’Africa sahariana e sub-sahariana);
le varianti, ovvero quei contesti socio-culturali caratterizzati da altre tradizioni civili e religiose, in cui
esistono importanti minoranze musulmane che si sono costituite nei processi migratori e si confrontano
quotidianamente con regole e stili di vita sostanzialmente differenti da quelle dei loro paesi di
provenienza.
MUSULMANI IN EUROPA
Da una parte abbiamo una “vecchia” presenza musulmana nella parte orientale del continente, dai Balcani fino
alla Russia, che è il risultato di un insediamento ultrasecolare che possiamo definire come “l’eredità ottomana”
dell’Europa. Si tratta dei musulmani presenti in Albania, Kossovo e Bosnia-Herzegovina, dove sono maggioranza
assoluta, e minoranze consistenti in paesi come Macedonia, Montenegro, Cipro, Bulgaria e Russia.
Dall’altra riconosciamo invece una “nuova” presenza musulmana, concentrata soprattutto nell’Europa occidentale,
che è il frutto di un massiccio arrivo di lavoratori e migranti provenienti da paesi di cultura islamica a partire dagli
anni ’50 del Novecento anche a seguito del processo di decolonizzazione.
Questa nuova presenza, che in Italia ed in altri paesi del sud del continente come la Spagna si è materializzata solo
a partire dagli anni ’90, rappresenta oltre i 2/3 del totale della popolazione musulmana in Europa ed è formata da
immigrati di prima e seconda generazione, anche se nei paesi di più vecchio insediamento (si pensi a Francia e
Germania) si è ormai alla terza generazione con importanti conseguenze sul loro status, soprattutto in termini di
acquisizione della piena cittadinanza.
Dal punto di vista sociologico le nuove chiese cristiane indipendenti e pentecostali sono delle sette,
fondamentaliste e carismastiche, teologicamente e politicamente conservatrici, con una forte propensione alla
dimensione spirituale.
Le chiese indipendenti tendono a sovvertire le regole tradizionali e occidentali del cristianesimo.
Solo con il passare del tempo e se hanno successo queste sette sono destinate a diventare delle vere e proprie
chiese. Alcune delle nuove chiese indipendenti del sud del mondo, come la chiesa kimbanguista, la Chiesa del
Signore (Aladura) e gli harristi, hanno intrapreso questa via e sono recentemente entrate nel Concilio Mondiale
delle Chiese.
Il fenomeno religioso più rilevante degli ultimi decenni è sicuramente quello dei movimenti pentecostali e
carismatici.
Questi sono i gruppi che hanno fatto registrare, all’interno del cristianesimo, i tassi più elevati di crescita: nel 1906
contavano su poche migliaia di aderenti negli Stati Uniti, nel 1970 erano circa 75 milioni in tutto il mondo, mentre
oggi vi sono oltre 500 milioni di aderenti (25% del totale dei cristiani), principalmente nei paesi del sud del
mondo.
I movimenti pentecostali e carismatici possono essere collocati all’interno del grande movimento evangelico
protestante dei cristiani rinati o “born again”.
Per approssimazione potremo dire che il cristiano evangelical è persona di profonda fede individuale che si
colloca nella tradizione delle Chiese della Riforma protestante, impegnata a leggere regolarmente la Bibbia che
interpreta con criteri prevalentemente letteralistici, convinta che ‘Gesù sia il suo personale salvatore’”.
I caratteri fondamentali del pentecostalismo sono:
nonostante le sue origini americane questo è ormai un fenomeno prevalentemente non occidentale,
fortemente presente nel sud del mondo;
il movimento pentecostale non va inteso semplicemente come una nuova denominazione quanto piuttosto
come una coerente visione religiosa del mondo finalizzata a mutare radicalmente il profilo del
cristianesimo: in questo senso il pentecostalismo assomiglia molto a ciò che rappresentò l’affermazione
della riforma protestante nel cristianesimo europeo;
anche se non è semplicemente una denominazione, il movimento pentecostale e carismatico produce a
sua volta diverse denominazioni.
È questo curioso incrocio di miracoli, tecnologia e misticismo, questo sovrapporsi di umano e divino, piuttosto
che una serie ben definita di dottrine e rituali, ad identificare la specificità pentecostale dottrinaria dei pentecostali:
1) fondamentale è l’esperienza personale centrata su Dio: tutte le cose sono relazionate a Dio e Dio è
collegato a tutte le cose;
2) la visione del mondo pentecostale è olistica e sistemica: lo spirito di Dio è presente in tutti gli eventi umani, ne
è la causa e li spiega;
3) la visione pentecostale è transrazionale nel senso che la conoscenza implica una relazione con il divino e non
può essere limitata all’ambito delle esperienze razionali e sensoriali;
4) l’incontro con Dio può avvenire solo attraverso una corretta interpretazione del testo biblico; a differenza degli
evangelici e dei fondamentalisti la Bibbia è un testo vivo nel quale lo Spirito Santo è sempre attivo.
Sul piano dell’azione sociale gli elementi specifici del movimento pentecostale e carismatico sono:
1) la centralità della profezia e della funzione profetica che si basa su una concezione democratica del
carisma, nel senso che questo è disponibile per tutti i cristiani rinati; la profezia si basa sulla certezza
dell’imminenza di un secondo ritorno di Cristo che segnerà la fine di un tempo, quello umano, e l’avvento
del regno di Dio;
2) il carattere esperienziale del messaggio religioso, centrato sulla valorizzazione della preghiera e di eventi
paranormali, voci, visioni, miracoli, senso della presenza di Dio e del demonio;
3) il forte impegno missionario, basato anche su un senso di urgenza dovuto all’imminenza di un nuovo
avvento divino, che si inserisce sulle relazioni sociali esistenti, apparentemente senza stravolgerle;
4) un forte sincretismo religioso basato sull’idea che è necessario contestualizzare il messaggio cristiano
nella spiritualità e nella cultura locale; in motli casi ciò significa l’integrazione nella dottrina e nel rituale
di importanti pratiche religiose tradizionali, come ad esempio lo sciamanismo;
5) il tema della glossolalia, il parlare altre lingue, in particolare quelle dei popoli da evangelizzare, è ritenuto
un segno della capacità profetica, un elemento cruciale dello spirito missionario e sincretico del
movimento che, in qualche modo, ne spiega la diffusione;
6) uno dei fattori di successo del movimento è la sua formula organizzativa, il suo essere una
organizzazione-movimento che rifiuta le forme centralizzate e burocratiche delle denominazioni
tradizionali occidentali: si tratta cioè di una organizzazione policefala e reticolare, estremamente flessibile
e adattabile;
7) infine va sottolineato l’ampio uso che tali movimenti fanno dei media e di tutte le forme tecnologiche
della modernità come testimoniato dal fenomeno dei telepredicatori ormai presenti non solo in America
ma in tutto il mondo.
Anche sul piano sociale e politico il profilo dei movimenti pentecostali e carismatici è, pur nella sua estrema
varietà, sufficientemente definito. La stragrande maggioranza degli aderenti a questi movimenti appartiene alle
classi povere e lavoratrici; nel nord del mondo si tratta spesso di immigrati o di strati medi impoveriti mentre nei
paesi del sud la loro base sociale è composta dal sottoproletariato urbano e dai ceti rurali. A livello politico, salvo
rare eccezioni, i movimenti pentecostali esprimono un profilo conservatore se non addirittura reazionario e
fondamentalista di destra.
Gli studiosi sono soliti distinguere all’interno del movimento pentecostale tra tre grandi gruppi di chiese:
1) le chiese pentecostali “classiche”, ormai affermate, riconosciute ed istituzionalizzate come le Assemblee di Dio,
la Chiesa di Dio in Cristo ecc.;
2) le nuove chiese pentecostali revivaliste nate come emanazione o frazionamento di quelle classiche;
3) le chiese “indigeniste” del sud del mondo.
La cristianità pentecostale e carismatica è una cultura globale perché è “esperienziale”, cioè non legata a nessuna
dottrina tradizionale, idealistica, in quanto abbraccia l’insieme della persona e del mondo, biblica, in quanto ricava
la sua autorità dai testi sacri, ed, infine, oppositiva, in quanto è in uno stato di tensione continua con
l’establishment religioso, politico, economico dominante.
Paradossalmente la sua forza e la sua espansione globale risiedono nel “non avere un unico sistema teologico,
un’unica dottrina integrata, nessun particolare tipo di politica, nessuna liturgia comune e nessuna omogeneità
geografica.
LEZIONE 29.04.22
ORIGINI DELL’ISLAM E DIVISONI STORICHE
La nascita dell’Islam
La Rivelazione al profeta Muhammad (Maometto) è l’evento da cui nasce l’Islam.
Dio si manifesta a Muhammad attraverso l’angelo Jibril (Gabriele) durante un ritiro sul monte Hira (610 d.C.)
Muhammad è nābi e rasūl Allāh (profeta e messaggero di Dio). È il fondatore della religione dell’Islam, il
prescelto da
Dio, il modello più alto per i credenti, il migliore degli uomini.
La sua biografia (Ibn Ishaq, ibn Hisham, VIII-IX secc.) è la narrazione fondamentale dell’Islam.
Muhammad comincerà la sua predicazione pubblica nel 612 e la proseguirà fino alla morte nel 632.
Islam in arabo vuol dire sottomissione volontaria all’unico Dio (la parola deriva dalla stessa radice - sa-la-ma -
della parola salām, pace).
Dio in arabo si dice Allāh.
Il termine musulmano (muslim/pl. muslimūn) identifica “coloro che si sottomettono” a Dio.
Il dogma fondamentale della religione islamica è l’unicità di Dio, il tawhīd.
LA PLURALITA’ DELL’ISLAM
Non esiste un Islam, bensì molti Islam.
Una delle fondamentali linee di divisione è inevitabilmente quella religiosa anche se di fatto le separazioni, le
“eresie” islamiche, hanno sempre avuto un flebile contenuto teologico e si sono realizzate piuttosto su questioni
d’ordine politico.
Pluralità non pluralismo. Quest’ultimo si basa sul riconoscimento reciproco che spesso non c’è.
A dispetto della sua pretesa unitarietà, fin dalle origini il mondo musulmano è stato attraversato da una
sorprendente pluralità di sette, di scuole, di famiglie spirituali, di orientamenti filosofici e intellettuali, ciascuna
delle quali ha preteso per sè il monopolio della verità rivelata e sostenuto la propria superiorità
nell’interpretazione dei testi sacri.
Alcune divisioni originarie sono scomparse, altre si sono create e, infine, molte hanno resistito segnando ormai
stabilmente l’universo musulmano, al punto che non poche tensioni e conflitti - anche armati - tra popolazioni e
stati islamici, possono essere spiegati dalla loro presenza e riattivazione.
L’assenza di una gerarchia ecclesiastica universalmente riconosciuta ha determinato, nel corso dei secoli, il
moltiplicarsi dei centri di autorità religiosa e - indirettamente - politica che si arrogavano il primato dell’ortodossia
e bollavano gli avversari come apostati o scismatici. La vivacità e la pluralità dell’Islam sono dunque dovute al
suo essere costantemente articolato in sette piuttosto che in un’unica Chiesa.
Lo stesso Profeta parlò una forte tendenza alla frammentazione religiosa affermando che se i figli di Israele si
erano divisi in 72 famiglie, nella sua umma ve ne sarebbero state almeno 73 che si sarebbero disputate il primato
sull’interpretazione della verità rivelata ma solo una si sarebbe salvata.
Va fatta una distinzione tra le divisioni tradizionali, quelle dei primi secoli dell’Islam, e le più divisioni recenti che
si sono realizzate in epoca moderna, anche se nella realtà sociale queste linee di frattura religiosa si accumulano e
si sovrappongono. Così la distinzione tra sunniti e sciiti, tra le 4 grandi scuole giuridiche sunnite, in alcuni contesti
vanno perdendo di significato. Si tratta di categorie pre-moderne che non sempre aiutano a spiegare le dinamiche
e i conflitti anche se in determinate situazioni e condizioni possono risultare ancora rilevanti.
Oggi di fatto le separazioni più significative sono altre come ad esempio quelle tra tradizionalisti, fondamentalisti,
islamisti, musulmani liberali e musulmani laici. Sfuggire da facili semplificazioni e poter leggere una mappa
religiosa (e politica) tanto complessa.
FALASIFA
Al-Kindi Mu’tazila/ Al-Farabi superiorità ragione sulla rivelazione / Ibn Sina (Avicenna) Filosofia neo-platonica/
Ibn Rushd (Averroè) Filosofia aristotelica e riconciliazione con la Sharia
KHARIGITI
Azraqiti, Sufriti, Ibaditi
SCIITI
Zayditi (Cinquimani)
Ismailiti (Settimani): Drusi, Alauiti, Khoja, Nizariti, Bohra, Mustaliti
Imamiti (Duodecimani)
SUFISMO
Scuola del Khurasan Al-Hallaj (m. 923) sufismo estatico
Scuola di Baghdad Al-Junayd (m. 910) sufismo ascetico
SUNNITI
I sunniti, o partigiani della Sunna (dall’arabo: via, istituzione, tradizione), sono la componente largamente
maggioritaria del mondo musulmano e quella ritenuta – a torto o a ragione – più moderata. Essi vengono chiamati
anche le genti del Corano e della tradizione. La Sunna strettamente intesa comprende gli Hadith e la Sira del
profeta.
Il sunnismo, che si proclama detentore dell’ortodossia della parola del profeta, si afferma definitivamente verso la
fine del dominio degli Omayyadi e si rafforza universalmente sotto gli Abbassidi (725-813). E’ in questo ultimo
periodo che si realizzano fondamentali letture dottrinarie che, attraverso la loro istituzionalizzazione in alcune
grandi scuole giuridiche, formarono un corpus interpretativo che ancora oggi rimane sostanzialmente valido e al
centro della vita politica e religiosa di gran parte del mondo musulmano.
Il sunnismo può essere definito sia in negativo che in positivo.
Esso è, per un verso, la negazione di tutte le sette che sono intervenute nelle dispute sul califfato: sciiti, kharijiti,.
In tal senso tende a farsi “chiesa”, centro dell’interpretazione religiosa ortodossa.
In positivo si caratterizza oltre che per l’accettazione del Corano, per l’imitazione del Profeta e il rispetto della
Sunna (Hadith e Sira) ovvero della via tracciata da Maometto e, infine, per l’istituto della ijma ovvero della
ricerca del consenso comunitario.
Il sunnismo è caratterizzato da un forte pragmatismo politico e antepone la ricerca della legittimazione del potere
e della pacificazione comunitaria alla rivendicazione radicale della giustizia sociale tipica di altri orientamenti
dell’Islam.
Tuttavia, anche il sunnismo è profondamente diversificato, se non addirittura diviso, in almeno quattro grandi
scuole giuridiche, quelle Hanafita, Malikita, Shafiita e Hanbalita, ognuna delle quali ha un radicamento dominante
in contesti geopolitici e culturali differenti.
SCIITI
Gli sciiti, i partigiani o i sostenitori di Ali, sono oggi circa 150-200 milioni suddivisi in diversi orientamenti
religiosi e sette. Gli sciiti si autodefiniscono come persone “elette” (al-khassa) nei confronti degli altri musulmani
(al-amma).
I paesi in cui gli sciiti sono la maggioranza assoluta della popolazione sono quattro: Iran, Azerbaijan, Iraq e
Baharein. In Libano probabilmente rappresentano attualmente la maggioranza relativa.
Importanti minoranze sciite, o in percentuale o in valori assoluti, si trovano in Afghanistan, India, Pakistan,
Tagikistan, Turchia, Yemen, Kuwait, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.
La storia fondante degli sciiti si realizza intorno a quattro figure chiave: Ali, certo la piu’ importante, quarto e
ultimo dei Califfi ben guidati; sua moglie Fatima; e i due figli martiri di Ali, Hassan e Hussain, quest’ultimo
sconfitto nel 680 dal califfo considerato usurpatore Yazid a Karbala, altro elemento, in questo caso storico-
spaziale, su cui si fonda l’immaginario collettivo sciita. Al punto che molti studiosi – a proposito della visione del
mondo sciita – affermano che essa si formo’ proprio in quell’occasione; cosi’ il cosiddetto paradigma di Karbala
[Fischer 1980] sottintende molte cose: l’intransigenza in materia di difesa dei sacri principi religiosi e politici, la
disponibilita’ al martirio, una passione religiosa totale che sfiora il fanatismo, il disprezzo per la morte terrena e
l’accettazione quasi fatalistica degli eventi tragici nel corso della vita.
Per gli sciiti l’unico successore legittimo di Maometto fu appunto Ali e dunque non riconoscono i primi tre califfi
ben guidati come invece fanno i sunniti e gli stessi zaiditi. Per contro Ali, Fatima, Hassan e Hussain sono
ampiamente riconosciuti dal sunnismo.
La specificità sciita si puo’ far risalire a due fattori. Per un verso la costante contestazione politica della
successione a Maometto alla testa della umma. Da ciò deriva il sostanziale successivo disinteresse circa il potere
politico dei califfi e – invece - la centralita’ dell’autorita’ religiosa. Per l’altro, una tendenza alla moltiplicazione e
alla frammentazione ulteriore al suo interno sulla base delle diverse interpretazioni circa l’ultimo imam legittimo.
KHARIGITI
I kharigiti (arabo khawarig che significa “i secessionisti”, “coloro che sono fuori” o “che sono usciti” ma anche
“coloro che combattono per difendere la causa di Dio”) rappresentano la prima scissione nella umma musulmana.
Essi nascono nel 658 in seguito ad una scissione avvenuta tra i seguaci di Alì, il quarto Califfo ben guidato,
colpevole di essersi sottomesso ad un arbitrato con il ribelle siriano Mu’awiya, iniziatore della dinastia gli
Omayyadi.
Sconfitti da Alì i seguaci della setta furono - secondo la tradizione - condannati alla fuga e all’esilio; uno di loro,
per vendetta, assassinò l’ultimo dei califfi ben guidati dando avvio alla vicenda sciita.
La loro caratteristica era quella di unire un forte rigorismo morale e religioso ad una visione rivoluzionaria e quasi
anarchica della politica ammettendo sia il diritto d’insurrezione verso i detentori del potere sia quello della
comunità dei credenti di scegliere liberamente la propria guida. Tale posizione basata sull’indipendenza e
l’eguaglianza dei credenti derivava dall’idea coranica che “l’autorità appartiene solo a Dio” (la hukma illa li-llah).
I kharigiti si suddivisero a loro volta in diverse sette: l’azqarita o del nadjadat, la sufrita, e l’ibadita.
Gli Azraqiti (684-700 c) si caratterizzarono per l’intransigenza dogmatica e politica verso tutti i peccatori
musulmani e non, e per il ricorso a pratiche terroristiche.
I Sufriti, distinguevano tra una infedelità minore (kufr ni’ma) che non esclude dalla comunità e una infedelità
maggiore (kufr milla) che porta allo statuto di rinnegato, furono i protagonisti di una sanguinosa rivolta nel
Maghreb (740-741). Sconfitti, perseguitati e praticamente dispersi dagli Omayyadi i kharigiti si rifugiarono
soprattutto nell’Africa settentrionale dove la loro dottrina politico-religiosa ebbe successo tra i berberi, molti dei
quali adottarono questo orientamento in chiave anti-araba.
Nel Maghreb il kharigismo fu dunque un fenomeno di massa ma anche molto più moderato che nell’Oriente
musulmano.
Gli Ibaditi fondarono nel 777 a Tahert, in Algeria, il regno dei Rustamidi, che venne poi distrutto nel 909 dai
Fatimidi Ismailiti.
Oggi appartengono a questa tradizione minoritaria dell’islam 2/3 milioni di persone conosciuti come ibaditi, setta
kharigita moderata e tollerante
Le aree di maggior concentrazione sono nel Mzab algerino (conosciuti come mzabiti), nell’isola tunisina di
Djerba, nel
Jabal Nafusa (Libia). MAGGIORANZA IN OMAN 50-60% e poi si sono spostati verso le coste africane (Kenia,
Zanzibar).
Solide situazioni sociali derivanti dalla loro tradizionale propensione al commercio: oggi mantengono posizioni
monopolistiche (ad es. spezie e pane) nel piccolo commercio al dettaglio (Tunisi).
SUFISMO
Nell’Islam, come nel cristianesimo, si possono riconoscere diversi livelli. In primo luogo, vi sono le “chiese”:
sunnita, sciita, karigita che si possono assimilare, in una logica di comparazione da usare con cautela, alle
divisioni tra cattolici, protestanti e ortodossi.
Vi è poi il livello degli “ordini” o delle “confraternite”, ognuna delle quali nel cristianesimo - rimanda ad una
specifica chiesa.
Per contro nell’Islam il sufismo è un movimento che è presente trasversalmente in tutti i principali orientamenti
religiosi; vi sono dunque ordini e confraternite sufi sia sunnite che sciite e le loro caratteristiche comuni sono
quasi sempre più forti delle distinzioni di “chiesa”
Per questa ragione trattiamo il sufismo come orientamento spirituale omogeneo ed autonomo rispetto alle grandi
divisioni dell’islam.
Il Sufismo è l’anima ascetica e mistica dell’Islam, quella della ricerca di Dio attraverso l’introspezione e
l’esperienza interiore.
La parola sufi significa lana, e ricorda le tuniche grezze che portano gli aderenti a questo orientamento religioso;
lo stesso termine può significare anche “purezza”. Nell’immaginario religioso gli “uomini di lana” assomigliano
molto agli anacoreti cristiani e talvolta vengono identificati anche come “bakka’oun” ovvero “i piagnoni”.
Origine tra settimo e nono secolo, come risposta personale e individuale all’Islam ufficiale, come religione vissuta
con il cuore e il sentimento lontana dai rituali e dalle dispute giuridiche e teologiche, il sufismo si trasforma ben
presto in un movimento diffuso organizzato collettivamente attraverso le confraternite (sing. Tariqa, pl. Toroq,
letteralmente “sentiero”, o anche khaniqa, letteralmente “loggia”, o zawiya in Nord Africa).
Il periodo di grande splendore e di sviluppo del movimento sufi va dal X al XIV secolo parallelo all’affermazione
delle grandi scuole giuridiche sunnite. Ciò rivela un aspetto peculiare della religione musulmana: la
complementarietà o la compatibilita’ tra forme popolari (il sufismo) e forme dotte o alte dell’Islam.
Grandi pensatori sufi di questo periodo, al-Ghazali (m. 1111) e Jalal ad-Din Rumi (1207-1273), ritenevano
possibile conciliare l’ortodossia musulmana con il misticismo. Per al-Ghazali “è il cuore che avvicina ad Allah”
Nel medioevo le sette sufi conobbero una vasta quanto rapida diffusione geografica e furono uno dei principali
strumenti di propagazione dell’Islam grazie ad alcune loro caratteristiche fondamentali:
- flessibilità dottrinaria che permetteva, in una sorta di sincretismo religioso, di integrare selettivamente
alcuni degli aspetti delle religioni con cui entravano in contatto
- carattere popolare della predicazione e lontananza sia dal potere religioso che da quello politico ufficiali
- la scarsa attenzione all’arabo come lingua veicolare e sacra a cui ben presto veniva sostituita quella della
terra di missione
- la loro natura di organizzazione prettamente transnazionale con potenti radici locali.
Il sufismo è tradizionalmente l’anima tollerante e universalista dell’Islam, come sintetizzato nel suo tipico
messaggio d’indirizzo “suhl-i-kul”, ovvero “la pace sia con tutti”, musulmani e non.
Per questo il sufismo è forse la forma dell’Islam per eccellenza nelle aree periferiche del mondo musulmano: nei
Balcani, nel subcontinente indiano, in Asia, nei paesi occidentali.
Se queste furono le ragioni del successo del sufismo, le stesse rappresentarono i motivi di avversione dell’Islam
ufficiale, sia sunnita che sciita, che combatterono aspramente la diffusione di questo orientamento, salvo poi, in
determinati momenti di difficoltà del potere costituito, ricercare con tali movimenti una sorta di compromesso.
Resta comunque il fatto che oggi il sufismo è ampiamente minoritario nelle regioni originarie dell’islam in Medio
Oriente mentre ha un forte radicamento nel “nuovo cuore” del mondo musulmano (il continuum Asia Centrale-
subcontinente indiano-Sude est asiatico) dove vive circa la metà della popolazione di religione islamica.
Il sufismo come forma “sommersa” di religiosità. Per questo è sopravvissuto e ha prosperato anche in condizioni
di oppressione e persecuzione religiosa: non a caso gran parte dei musulmani nei paesi comunisti, di oggi (Cina) e
di ieri (URSS e Albania), aderivano e continuano ad aderire a confraternite sufi.
Ovviamente, data la pluralità di orientamenti presenti, il sufismo non fu solo un movimento mistico e tollerante;
molte
confraternite, basate sulla figura del “santo guerriero” impegnato nel jihad, furono assai attive sia sul piano
politico che militare. Da confraternite sufi vennero gli impulsi alla jihad in Africa nel XIX secolo (il califfato di
Sokoto) e inizio del XX secolo (la Sannousiya in Libia contro la colonizzazione italiana).
A parte questi casi, molto raramente lo zelo missionario del sufismo sfocia nell’uso della violenza, anche se
ancora oggi esistono frange e confraternite vicine al fondamentalismo come in Siria.
Oggi le confraternite sufi sono nella maggioranza dei casi alleate con i regimi laici o comunque islamici moderati
e assolutamente ostili ai governi fondamentalisti come fu quello dei Talebani in Afghanistan.
Il sufismo resta l’anima tollerante ed eclettica dell’Islam. La propensione ad essere orientamento religioso di
frontiera è confermato dal fatto che molte delle conversioni all’islam che avvengono oggi nei paesi occidentali.
La struttura delle confraternite sufi – se ne contano centinaia – è estremamente semplice.
Fondate da “santi” che possiedono la grazia divina (baraka), successivamente esse sono guidate da guide spirituali
(pir o anche murshid o shaikh) che rappresentano il punto di riferimento assoluto degli adepti (murids o saliks):
pertanto i confratelli (o dervisci) accettano una sottomissione totale (tawakkul) al potere carismatico del
“maestro”.
Ogni confraternita ha delle specie di conventi o monasteri (tekkes) dai quali irradia il suo insegnamento.
Alcune confraternite, come ad esempio quella della Malamatiya, erano aperte anche alle donne.
Domanda conclusiva: quanti sono i sufi? Pochi milioni o decine di milioni? Qualche esempio: Senegal e Turchia.
Nell’Islam senegalese vale la prima accezione: Sufismo come equivalente dell'affiliazione ad un ordine
(brotherhood, fraternity, confrérie, confraternita, tariqa), accento sull'aspetto sociale e pratico del Sufismo,
sull'esistenza di un'organizzazione religiosa strutturata, dotata di una sua leadership e gerarchia.
È invece lasciato in ombra l'aspetto spirituale, filosofico, mistico, più propriamente «religioso».
In Senegal il vissuto religioso islamico è diffuso e gestito attraverso un sistema sociale (quello delle confraternite),
basato sulla relazione tra maestro e discepolo, e questa relazione ha le sue origini nel Sufismo.
Il successo dell'ordine muride è dovuto alla sua efficienza nell'accumulare ricchezza. Nell'epoca coloniale ciò
avveniva attraverso il sistema delle daara (sorta di scuole-aziende agricole situate nelle zone semidesertiche o di
frontiera) e la coltivazione dell'arachide sotto il controllo dei marabutti; oggi ciò avviene attraverso il commercio e
le attività di servizio (trasporti, ecc.).
È l’Islam dei marabutti dominato dal lavoro dei santi e a scendere dal lavoro dei discepoli segno della grazia.
Marabutto "asceta; marabutto". In principio indica un musulmano considerato "santo".
I marabutti muridi considerano l'accumulo di ricchezza una necessità per rispondere ai molti obblighi inerenti alla
loro posizione.
Le loro fortune provengono innanzi tutto dall'agricoltura, poi dalle addiya (i "doni" periodici dei discepoli) e dalle
donazioni dei discepoli più agiati, infine dallo stato.
Parallelo con Max Weber «L’etica protestante e lo spirito del capitalismo». Il tema della «predestinazione» e i
«segni della predestinazione».
LEZIONE 6.05.22
“L’Islam immaginato” - Costruzione dello stereotipo dei musulmani nei media occidentali
LEZIONE 13.05.22
LA GALASSIA FONDAMENTALISTA: PURITANI, TEOCRATICI, NICHILISTI