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Lorenzo Furano

Democrazia e democratizzazioni
Sommario
Introduzione....................................................................................................
1. La democrazia come processo.....................................................................
1.1. La narrazione fondatrice..........................................................................
1.2. I principi...................................................................................................
1.3. Tra diffidenza e complottismo..................................................................
1.4. Una, centomila, nessuna..........................................................................
1.5. Democrazia, utopia e felicità....................................................................
1.6. Opinione pubblica e Intellettuali..............................................................
1.7. Democratici disagi....................................................................................
1.8. Popolo, popolazione e populismi.............................................................
1.9. Il mito dell’identità...................................................................................
1.10. Individuo e società.................................................................................
1.11. Rivoluzione digitale e e-democracy........................................................
1.12. Bolle, clickbait, fake news e profilazioni.................................................
2. La lunga marcia...........................................................................................
2.1. I territori del “tra”....................................................................................
2.2. Cina: modernizzare la tradizione..............................................................
2.3. La svolta...................................................................................................
2.4. Confucio: tra etica e politica.....................................................................
2.5. Potere costituente e poteri costituiti........................................................
2.6. Costituzione e poteri................................................................................
2.7. La politica come professione: l’opzione Cina............................................
3. Per concludere............................................................................................
Indice dei nomi............................................................................................
Bibliografia..................................................................................................
Sitografia
Introduzione
Quando mi è stato proposto di scrivere qualcosa sulla democrazia e ho
accennato all’idea che in una gran parte del mondo la democrazia si è global-
mente realizzata a livello di società, mi è stata posta la domanda-obiezione:
"Cosa c’entrano la Cina, la Russia o l’Egitto con la democrazia? Quelli sono Stati
autoritari".
Il testo che ne è uscito è la mia risposta al quesito iniziale. Una risposta
costruita grazie soprattutto agli amichevoli contraddittori che ne hanno accom-
pagnato la formulazione.
La democrazia è nata in Europa e in Europa è cresciuta e, con una mar-
cia definita da Alexis de Tocqueville «inarrestabile», ha messo in atto una rivo-
luzione che ha trasformato leggi, idee, abitudini e costumi, quell’amalgama di
storia, società e uomo che si è imposto in diverse parti del mondo e per il qua-
le Tocqueville usa il termine état social, senza darne una precisa definizione e
lasciando che sia la storia a fissarne il contenuto. Non dirà forse Nietzsche alla
fine del XIX secolo che «definibile è solo ciò che non ha storia»? 1
In Europa la trasformazione è stata resa possibile anche grazie all’arric-
chimento del popolo dei non nobili che ha portato all’uguaglianza democratica
e ha dissolto il legame feudale che vincolava il signore alla protezione e difesa
e il suddito alla fedeltà. Una forma di eguaglianza sociale, prima che giuridica e
politica, che poggia sui tratti caratterizzanti la democrazia: l’eguaglianza delle
condizioni, l’amore per la ricchezza e l’isolamento. In Europa l’état social de-
mocratico ha faticato ad affermarsi mentre in Nord America Tocqueville rileva
che, non avendo trovato impedimenti, ha potuto dispiegare il proprio caratte-
re, sviluppando al meglio l’eguaglianza democratica nella sua configurazione
più libera da condizionamenti storici.
Dovunque si è realizzato l’état social democratico si è imposto con un
unico modo di vivere, di comportarsi e di pensare: quello dell’individuo eguali-
tario che vive in Stati che hanno abolito la società per ceti e la pluralità di stili
di vita e i relativi diritti che imponevano comportamenti eticamente adeguati
al proprio status sociale.
È a partire dal raggiunto état social democratico che ogni popolo co-
struisce la propria forma di governo elaborando diversi sistemi con diversi gra-
di di libertà, di accentramento amministrativo, di anarchia o di dispotismo. An-
che la Cina è compresa in questa prospettiva. Anche il popolo cinese è giunto

1 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, Arnoldo Mondadori, Milano, 1979, p. 62.
all’état social democratico dell’uguaglianza delle condizioni che l’uniformità
del vestire nel periodo maoista ha reso fisicamente visibile, e ha imboccato la
lunga marcia che porta allo stato di diritto ed a istituzioni democratiche. E per
arrivarci ha elaborato una forma di governo che persegue il “socialismo con ca-
ratteristiche cinesi per una nuova era” con il quale cerca di conciliare liberismo
economico e verticismo comunista, stato di diritto e meritocrazia, liberismo e
confucianesimo.
È la loro strada verso la democrazia politica “con caratteristiche cinesi”,
quella che nella parte finale del testo che segue cerchiamo di conoscere me-
glio, guardando anche i problemi e i disagi che la caratterizzano e che non ri-
sparmiano completamente le contemporanee democrazie occidentali. Senza
fare confronti, perché ciascun popolo trova sul proprio cammino peculiari diffi-
coltà storiche, sociali e ambientali, e sta solo a lui scegliere il modo migliore
per superarle. Anche allo stesso Tocqueville “parrebbe una grande disgrazia
per il genere umano se la libertà si mostrasse in tutti i luoghi sotto lo stesso
aspetto”.2

2 Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, Rizzoli, Milano 1982, p. 314.


1. La democrazia come processo
1.1. La narrazione fondatrice
“Lo sai che necessariamente ci sono tanti tipi di uomo
quanti sono i generi di Stato? Credi forse che le costitu-
zioni nascano dalla quercia o dalla pietra, piuttosto che
dai costumi dei cittadini i quali là dove pendono trasci-
nano tutto il resto”
Platone, Repubblica, VIII, 544 D-E

Il sistema politico che abbiamo adottato non emula le leggi dei vicini: ma
siamo noi un modello per alcuni, piuttosto che essere noi a imitare gli al-
tri. E quanto al nome, per il fatto che non compete a pochi ma alla mag-
gioranza, viene chiamata ‘democrazia’. Secondo le leggi, per quanto ri-
guarda la sfera privata, tutti sono alla pari; invece per quanto riguarda la
considerazione pubblica, ciascuno è stimato in quanto gode di reputazio-
ne in un determinato campo: non per la parte sociale da cui proviene
ma per la sua qualità. E quanto alla povertà nessuno, se può fare qualco-
sa di bene per la città, è penalizzato dall’oscurità della sua condizione. 3
Nel discorso riportato da Tucidide e dedicato ai primi greci caduti all'ini-
zio della Guerra del Peloponneso, Pericle tratteggia l’immagine della pratica
decisionale egualitaria usata per la gestione della sua Atene. Un tipo di ammi-
nistrazione che ricerche antropologiche hanno mostrato essere stata in uso an-
che presso altre forme di cultura e civiltà, che non ne hanno però saputo for-
mulare e tramandare la teorizzazione attraverso degli scritti. E così il termine
greco politeia democratica,4 col quale veniva designata la forma di governo
della polis per la sua particolare forma di turnazione per la gestione diretta
della comunità da parte dei cittadini, filtrato dal pensiero filosofico e politico,
confluisce e si confonde in quello di democrazia, presentandosi come un em-
blema tanto seducente da far sì che gli Stati, a partire dalla fine del XVIII seco-
lo, lo adottino come punto di partenza di una narrazione che diventa mito fon-
dativo. Si attua un processo di rifondazione e di recupero in positivo del con-
cetto di democrazia che viene poi applicato alle repubbliche rappresentative,
rendendo così più accettabile per i cittadini l’accentrarsi e lo strutturarsi del
potere coercitivo dei nascenti "stati di diritto oligarchico […] in cui il potere
dell'oligarchia è limitato dal duplice riconoscimento della sovranità popolare e
3 Torricelli, Adriano, Cosa intende Pericle per ‘democrazia’? (Tucidide; Storie: libro II, paragr.
37) https://adrianorapportini.wixsite.com/latino-greco/post/cosa-intende-pericle-per-
democrazia-tucidide-storie-libro-ii-paragr-37
4 In Platone e Aristotele il termine designa il governo dei più per il bene di tutta la collettività.
delle libertà individuali".5
Un netto scarto di significato, perché nella tradizione culturale europea
il termine democrazia, richiamandosi alla forma di amministrazione di Atene e
di altre città greche, per buona parte della sua storia ha connotato l’idea di go-
verno del popolo, quindi instabile, caotico, rissoso, violento, un modello non
certo positivo e da non imitare. Un’idea che non gode di grande diffusione e
favore, almeno fino a quando non viene affiancata e integrata dal termine re-
pubblica, che ha il suo riferimento storico e culturale nella Res publica, la for-
ma di governo di Roma dopo la cacciata dei re.6
Il repubblicanesimo, anche quello delle repubbliche oligarchiche del Ri-
nascimento in Italia e in Europa, più che alla polis democratica si richiama in-
fatti alla Roma repubblicana, dalla quale ricava esempi di comportamento e
modelli di istituzioni politiche e giuridiche assieme al timore del cesarismo e
alla figura di Bruto, il tirannicida ammirato da molti. È questo il modello cui si
ispirano i Padri fondatori degli Stati Uniti d’America, gli Illuministi e i rivoluzio-
nari francesi7 che al fascino della Repubblica romana sono particolarmente
sensibili. In questo senso si esprime l’articolo Démocratie dell’Enciclopédie di
Diderot e D’Alembert che, come da consuetudine d’antico regime, usa il termi-
ne repubblica per indicare quello che oggi chiamiamo Stato e, in senso estensi-
vo, ogni forma di governo in cui il potere sia gestito da un organo di tipo sena-
toriale. Un tipo di gestione che presenta notevoli analogie col sistema delle
odierne democrazie rappresentative, basate sull’idea che la realizzazione del
bene della collettività vada gestito dalle élite economiche e culturali e non ri-
chieda, in situazioni di normalità, la diretta partecipazione popolare. Ed è solo
a condizione di assimilarle, cancellandone le diversità, che le "républiques
d’Athènes & de Rome", possono essere elevate a modelli di governo da imita-
re. L’antidemocratico autore8 della voce può allora affermare con decisione
che, nella democrazia, ogni cittadino non ha nemmeno una parte del potere
sovrano, che risiede soltanto “nell’assemblea generale del popolo convocata
secondo le leggi” e proprio per questo al mondo non vi è traccia di forme di
democrazia pura (che noi definiamo diretta), se non in luoghi come “San Mari-
no in Italia, dove cinquecento contadini governano una miserabile roccia, della
5 Jacques Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2018, p. 89.
6 La repubblica di Cromwell, il breve interregno che ha fatto seguito alla prima rivoluzione in -
glese, non sembra sia stata considerata un modello istituzionale cui ispirarsi.
7 Paul-M. Martin, Presence de l’histoire romaine dans la révolution française, in R. Chevalier,
Influence de la Grèce et de Rome sur l’occident moderne, Actes du Colloque Des 14 - 15 - 19
Décembre 1975 - Extrait.
8 M. le Chevalier de Jaucourt.
quale nessuno ne invidia il possesso”.
Per cogliere un ulteriore segno della distanza che ci separa dall’immagi-
ne idealizzata della democrazia ateniese, è sufficiente osservare che per Jac-
ques Rancière la parola democrazia, che indica il
regno dei desideri illimitati degli individui nella moderna società di mas-
sa […] è l’espressione di un odio. È nata, infatti, come un insulto inventa-
to nell’antica Grecia da coloro che vedevano la rovina di ogni ordine le-
gittimo nell’innominabile governo della moltitudine. Ed è restata sinoni-
mo di un abominio per tutti quelli che pensavano che il potere spettasse
di diritto a coloro che vi erano destinati per nascita o vi erano chiamati
per le loro competenze.9
Questa forma di governo che noi consideriamo la migliore veniva infatti
collocata da Aristotele, ma anche da Platone prima di lui, tra le forme di gover-
no degenerate. Questo perché per i greci la politica, che è gestione della città,
deve essere valutata alla luce del fine che persegue: la buona amministrazio-
ne, che sarà tale solo quando il governo avrà per scopo il bene dell’intera co-
munità, senza escludere nessuno. Anche per questo il mondo greco non vede
di buon occhio la democrazia e considera forme di governo rette la monarchia,
l’aristocrazia e la politeìa,10 mentre la tirannide, l’oligarchia e la democrazia
non ne sono che le degenerazioni, dato che in queste i governanti non ammi-
nistrano per il bene di tutti, ma solo per il vantaggio di se stessi o della parte
che li ha eletti, con l’aggravante che i governati sono spinti alla ricerca della
“prosperità materiale, della felicità privata e dei legami sociali” e orientano
verso “verso altri obiettivi le energie febbrili che si attivano sulla scena pubbli -
ca”.11
Il testo pseudo aristotelico Athenaion Politeia illustra la genesi, i muta-
menti e il funzionamento delle istituzioni di Atene, mostrandoci come queste,
per cause derivanti dal caso o dall’avidità dell’uomo, diano luogo all’anaciclosi,
ovvero alla ciclica transizione dall’una all’altra forma di governo, dalla monar-
chia alla politeia, passando attraverso la tirannia, l’aristocrazia e l’oligarchia. Di
tutte queste, la politeia viene considerata la migliore; ma è cosa rara, perché è
più facile che si attui piuttosto come democrazia, che ne è la forma degenerata
in quanto, pur essendo il governo dei più, trascura il bene comune e favorisce
l'interesse della massa dei più poveri. Mentre la peggiore è l’oclocrazia, ovvero
il predominio politico delle masse, instabili e tumultuose, che si impongono sul

9 Jacques Rancière, L’odio per la democrazia, cit., pp. 7-8.


10 È la forma di costituzione più inclusiva in cui molti governano per il bene di tutti.
11 Jacques Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 14.
potere legittimo e sulla legge stessa.
Che la democrazia ateniese non persegua il bene collettivo è ben evi-
denziato in un altro libello anonimo, falsamente tramandato sotto il nome di
Senofonte, intitolato anch'esso, come quello pseudo aristotelico, Athenaion
Politeia. Si tratta di un opuscolo in cui due interlocutori, schierati su posizioni
antidemocratiche, analizzano l'avversato sistema ateniese, ne esaminano i ca-
ratteri costitutivi, le specificità e ne evidenziano la coerenza. Una durissima cri-
tica della democrazia ateniese, dipinta come un sistema oppressivo, repressivo
e deleterio.
In effetti pure noi, abitanti del XXI secolo che valutiamo la questione an-
che da un punto di vista sociologico, facciamo fatica a considerare democratico
il sistema ateniese. Se andiamo a guardare un po' più da vicino qual è il popolo
cui Pericle si rivolge, vediamo che è composto dai cittadini maschi che hanno
completato l'addestramento militare. Con una certa approssimazione, su un
totale di circa 250.000 abitanti dell'intera città di Atene, il popolo di Pericle ne
comprende tra i 30 e i 50 mila. Il resto è costituito dagli schiavi (circa 100 mila),
dalle donne e da quelli che non avevano diritto di voto per nascita o per status
(ad esempio gli interdetti per debiti) e tra questi figuravano personaggi come
Ippocrate, Anassagora, Protagora, Lisia o Gorgia. Se poi consideriamo che alle
assemblee degli aventi diritto, mediamente partecipava una percentuale sti-
mata tra il 10 e il 20 per cento, risulta che la vita pubblica della democratica
Atene era gestita da una ben piccola parte dell'intera popolazione.
Una conferma la troviamo nel Menesseno, il dialogo dove Platone fa af-
fermare ad Aspasia, già maestra di retorica di Socrate e compagna di Pericle,
che quella che alcuni chiamano democrazia, “in verità si tratta di un'aristocra-
zia accompagnata dal consenso popolare”.12 E, prosegue Aspasia, Atene può
anche aver sempre avuto dei re, ma il vero padrone della città è stato per lo
più il popolo, quello dei 30-50.000, che ha affidato le cariche e i poteri con cri-
teri meritocratici a chi riteneva ne fosse degno, cioè fosse saggio e virtuoso. E
qui Aspasia mette in luce il fondamento di questo tipo di forma di governo: la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, che si sottomettono solo alla superiorità
della virtù e dell'intelligenza e che, cresciuti liberi e uguali, hanno da sempre
combattuto per la libertà, non solo a difesa di tutti contro i barbari, ma anche
contro gli stessi greci quando avrebbero potuto minacciarla.
Per i greci cui Pericle si rivolge, essere cittadino della polis non costitui-

12 Platone, Menesseno, in Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1991,
238c-d, p.1044.
sce un attributo derivante dalla sovrastruttura politica, ma è la base della con-
creta vita materiale. Più che un luogo, la polis è una popolazione autosufficien-
te, in grado di riunirsi in assemblea per trattare in comune i propri problemi.
Una comunità di più villaggi (demo) composti da raggruppamenti di famiglie, le
cellule elementari della vita sociale. In quanto tale, essa costituisce una comu-
nità di uomini uguali, tenuti assieme dalla necessità di soddisfare i loro bisogni
naturali, che costituiscono il legame reale della vita civile e che per l’esercizio
delle funzioni di governo, ovvero per la soluzione dei problemi comuni deri-
vanti dalla loro unione, istituiscono cariche pubbliche, cui accedono con il me-
todo delle turnazioni.13
La polis è una società senza Stato costituita, come afferma Aristotele,
per rendere possibile “una vita felice”, 14 che non può limitarsi al mero soddisfa-
cimento dei bisogni elementari legati alla sopravvivenza, per i quali sono suffi-
cienti la famiglia e il villaggio. Partecipando alla vita della polis i cittadini perfe-
zionano il loro essere uomini e compartecipano all’attività politica in quanto
piccoli proprietari, direttamente e immediatamente cointeressati ai risultati
delle scelte politiche ed economiche adottate. Gli abitanti della polis sono in-
sieme uomini e cittadini, non portano dentro di sé la separazione propria
dell’età moderna, che si compie quando, con la nascita dello Stato e della So-
cietà, viene a cadere l’idea che esista una natura umana che si realizza solo
nella compresenza di altri uomini, necessaria e vitale integrazione delle man-
chevolezze di ciascuno.
Le Rivoluzioni di Francia e America specificano i diritti dell’uomo sociale
e del cittadino dello Stato, fissandoli nelle Carte costituzionali. L’uomo, porta-
tore di diritti universalmente validi15 e indipendenti dal tipo di vita e dal ruolo
svolto nella società ha ora di fronte a sé lo Stato, il detentore di quella forza
pubblica di cui potrebbe essere tentato di abusare in assenza di una inoppu-
gnabile garanzia di protezione. Per questo, i diritti universali “naturali, inaliena-
bili e sacri dell’uomo” devono essere precisati e scritti, “affinché i reclami dei
cittadini, fondati d’ora innanzi su dei principi chiaramente espressi, semplici ed
incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzio-
ne e la felicità di tutti”.16
13 “Uomini uguali devono avere a turno quel che è nobile e giusto, perché questo risponde a
un criterio di parità e di uguaglianza”, Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari, 1973, 1325 b,
p. 228.
14 Ivi, 1252 b, p. 6.
15 Vedi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicem-
bre 1948.
16 Dalla Dichiarazione francese dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789.
Nei confronti dello Stato l’uomo si qualifica così come cittadino, indivi-
duo scisso dagli altri uomini e dalla comunità. Come cittadino accetta volonta-
riamente un implicito patto di autolimitazione dei suoi diritti in quanto uomo.
Un patto che dà luogo a dei doveri, primo fra tutti quello di rinunciare a far au-
tonomamente valere i propri diritti nel caso in cui siano messi in pericolo.
Anche per questo, nell’Atene di Pericle riusciamo a raffigurarci
nient’altro che una democrazia in senso esclusivamente politico e pure questo
con dei grossi limiti, perché scarsamente partecipata, discriminante e priva di
estensione nell’ambito economico e sociale. Ciononostante, l’idea di democra-
zia, con la sua impossibilità di trovare una piena applicazione in ambiti più
ampi e complessi della polis greca, ha esercitato ed esercita un notevole fasci-
no e ci appare l’unica forma legittima di gestione del potere sovrano del popo-
lo, nonostante le sue instabilità, le sue lentezze e le difficoltà di concertare il
consenso, sovente raggiunto dopo lunghe e talvolta estenuanti trattative che
sfociano in accordi che non soddisfano pienamente nessuno.
A questo proposito, Umberto Eco17 ha lanciato una provocazione, defi-
nendo Pericle “figlio di etera”, abile e convincente oratore, populistico esem-
pio di malafede che, facendo balenare davanti agli occhi dei suoi concittadini
l'immagine idealizzata di una realtà inesistente, crea una narrazione della de-
mocrazia che si trasformerà in mito, che potrà essere recuperato e posto a fon-
damento ideale delle moderne democrazie rappresentative. Al politico atenie-
se va comunque riconosciuto il merito di aver promosso e sostenuto una serie
di riforme che hanno fatto di Atene il più importante centro politico, economi -
co e culturale dell'antica Grecia, la cui civiltà ha fornito alla tradizione letteraria
e filosofica delle idee di libertà e uguaglianza che sono riuscite ad attraversare i
secoli e trasformarsi da tradizione elitaria in un comune sentire della cultura
politica e sociale occidentale. Delle idee divenute il modello al quale tanti de-
mocratici si sono ispirati e per la cui realizzazione in tanti hanno combattuto e
sono morti.

17 Umberto Eco, Pericle il populista, la Repubblica. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/ar-


chivio/repubblica/2012/01/14/pericle-il-populista.html
1.2. I principi
La libertà non è mai altro - ma è già abbastanza — che
un rapporto attuale tra governanti e governati, in cui la
misura della scarsa libertà esistente è data dalla mag-
giore libertà richiesta.
Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti
su potere ed etica.

Nella nostra tradizione culturale, la polis greca insegna che la democra-


zia politica si manifesta come capacità di riconoscere l'altro come soggetto che
non dev'essere sottomesso con la violenza, ma va convinto tramite la parola e
il ragionamento, in quanto persona libera e capace di decidere le proprie azio-
ni. Libertà ed eguaglianza sono i principi che Aspasia individua alla base della
(oligarchica) democrazia ateniese, principi che ancora oggi costituiscono i cri-
teri ispiratori delle moderne Costituzioni democratiche. Ma la libertà e l'egua-
glianza di Aspasia non sono quelle che intendiamo noi. Usiamo gli stessi termi-
ni, ma denotiamo cose diverse.
Nell'età contemporanea la libertà è considerata un diritto, che viene
espressamente citato nelle Carte Costituzionali, a cominciare dalla Dichiarazio-
ne ratificata il 12 giugno 1776 dai rappresentanti del “buon popolo della Virgi-
nia”. Un testo che ha fatto storia, al quale si sono ispirate le successive Dichia-
razioni degli altri Stati del Nord America e, passando per la Rivoluzione france-
se, le Costituzioni di molti moderni Stati, non solo europei. L’articolo 1 inizia
affermando che
tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti, e han-
no alcuni diritti innati, di cui, quando entrano in uno stato di società, non
possono con alcun patto privare o spogliare la loro posterità; vale a dire,
il godimento della vita e della libertà, per mezzo dell’acquisto e il posses-
so della proprietà, e il perseguire e ottenere felicità e sicurezza. 18
La libertà viene posta come un obiettivo strumentale mai completamen-
te realizzato, suscettibile di indefinito miglioramento nel cammino verso il vero
fine, che è la felicità. Anche per questo, si finisce col non sentirsi liberi mai ab-
bastanza.
Ma la nostra è la libertà dell’individuo mentre la nozione di libertà espri-
me alle origini una dimensione collettiva e socializzata, che rinvia alla protezio-
ne offerta al singolo soggetto dall’appartenenza a un gruppo. E il gruppo socia-

18 http://www.dircost.unito.it/cs/docs/Virginia%201776%20dich%20diritti.htm
le di base è la famiglia, la cellula del demo, che nella polis trova l’organismo
politico unificante. In un simile contesto, la libertà non può essere considerata
come un diritto, si configura piuttosto come uno status sociale radicato su vin-
coli di appartenenza etnica o associativa. La formula Nomos Basileus (la Legge
è re) definisce la libertà dell’abitante della polis, la condizione del singolo sog-
getto all'interno di un sistema di relazioni sociali, con un codice di regole stabi-
lite, condivise e rispettate da tutti. In una società dove il bene del singolo con-
verge con quello della collettività, si può essere liberi solo “attraverso lo sforzo
comune di uomini liberi, uniti in una comunità politica”, in cui tutti siano con-
sapevoli che “la libertà dell’individuo e la possibilità del suo pieno godimento
esigono la libertà di tutti; e che la libertà di ciascuno va ottenuta e assicurata
dagli sforzi di tutti”.19
La nozione di libertà si costituisce “a partire dalla nozione socializzata di
«crescita», crescita di una categoria sociale, sviluppo di una comunità”. 20 Esse-
re libero significa far parte di un gruppo, essere tra amici e nell’altro libero non
vedere un limite alla propria libertà, come sarà poi per la libertà del liberali-
smo, ma un’opportunità di realizzarsi assieme che non necessita della garanzia
di una forza esterna alla relazione. La libertà non è una mera idea, non indica
un dover essere ma si configura come uno status relazionale, un modo di vive-
re capace di armonizzare le coesistenze di uomini liberi che solo così possono
conseguire obiettivi personali altrimenti irraggiungibili.
Mancando nel mondo antico l'idea stessa di Stato, la società civile non
costituisce un ambito collocato tra i governanti e i governati ed estraneo alla
politica. Essere liberi ha un significato immediatamente politico e significa es-
sere esenti da restrizioni che impediscano la partecipazione alla vita politica
della comunità. La libertà è dunque autonomia politica collettiva e il cittadino
è libero quando non soggiace a un tiranno o quando la città non è sottomessa
a conquistatori stranieri. Similmente, le città e le repubbliche sono da conside-
rare libere se le azioni del corpo politico sono determinate esclusivamente dal-
la volontà del popolo intesa come la somma delle volontà di tutti i cittadini che
hanno il diritto di deliberare. Nella polis democratica i cittadini non solo parte-
cipano ed esprimono il proprio voto nelle assemblee, ma svolgono anche fun-
zioni di governo, assumono pro tempore cariche pubbliche di carattere politi-
co, giudiziario e amministrativo. Il tutto senza alcun bisogno di una specifica

19 Zigmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Paravia Bruno Mondadori Editore, Milano
2002, p. 266.
20 Émile Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les éditions de minuit,
Paris 1969, p. 325.
conoscenza, ed è questo lo scandalo della democrazia: di essere un governo
basato “su di una superiorità che non è fondata su nessun altro principio che
non sia quello dell'assenza di superiorità […] un governo anarchico fondato
sull’assenza di ogni titolo per governare”. 21 Come afferma Protagora22nell’omo-
nimo dialogo platonico, per governare è sufficiente la sola arte politica, l’unica
che Zeus ha voluto distribuire in modo uniforme soltanto tra gli uomini, per
differenziarli dagli animali e metterli in condizione di costruire una società ca-
pace di garantire la sopravvivenza di ognuno e una vita migliore per tutti.
Libero è quindi chi non subisce impedimenti alle proprie capacità di per-
seguire obiettivi autonomamente scelti. La sua libertà inizia e si realizza al di là
del confine stabilito dalla consuetudine e dalle leggi, il cui dominio costituisce
un ambito di pari condizione (isonomia); in tal modo ognuno può essere consi-
derato e sentirsi uguale agli altri, dai quali si differenzia solo per il prestigio ot-
tenuto per le proprie capacità e meriti. Non un'unica libertà quindi, ma tante
libertà quante sono le condizioni particolari di ciascuno. È questa la concezio-
ne della libertà formatasi nella Grecia classica, che trova la propria espressione
giuridica nella formulazione del diritto romano e che si mantiene per tutta la
durata delle società d’antico regime.
Ne Lo Spirito delle leggi Montesquieu dedica diversi capitoli alla libertà
politica e illustra bene il passaggio da libertà politica collettiva a libertà indivi-
duale. Dopo aver riconosciuto che libertà “si dice in molti modi”, precisa che
vanno distinte le leggi che formano la libertà politica nel suo rapporto con la
costituzione statale, da quelle che la formano nel suo rapporto con il cittadino.
Siamo in un nuovo contesto sociale ed economico dove uomo e cittadino non
costituiscono più un’unità.
Mondo politico e mondo sociale sono cose diverse e separate, per cui si
può parlare, come fa Montesquieu, di una forma di libertà che si può avere
solo negli Stati moderati, basati su una Costituzione scritta, con la quale viene
stabilita la separazione del potere: la libertà di tutti può essere garantita solo
se il potere viene indebolito frammentandolo nelle sue tre componenti fonda-
mentali, il potere legislativo, quello esecutivo23 e quello giudiziario. La loro in-
terazione deve realizzare un equilibrio capace di impedire che qualcuno possa
operare al di fuori del proprio ambito di competenza. Un debordamento che
Montesquieu considera inevitabile perché – ed è la grande lezione del mecca-
21 Jacques Rancière, L’odio per la democrazia, cit., pp. 51-52.
22 Platone, Protagora, 322b-323a, pp. 819-820, in Tutti gli scritti, cit.
23 Nella tripartizione di Montesquieu, che è quella che si è fissata nelle democrazie occidenta-
li, il potere esecutivo riguarda però i rapporti con gli Stati esteri.
nicismo hobbesiano - ogni uomo che ha in mano il potere è portato ad abusar -
ne, finché non trova un limite che lo blocchi.
Adesso l’uomo vive e opera nella società materiale, nell’egoistico e pro-
saico mondo degli affari, e può anche non interessarsi al piano politico del cit-
tadino, può isolarsi e vivere esclusivamente nell’ambito dell’economia e del
privato. Mondo politico e mondo sociale sono cose diverse e separate, per cui
si può parlare, come fa Montesquieu, di una forma di libertà che può essere
garantita solo negli Stati moderati,24 nei quali una Costituzione scritta fram-
menta nelle sue componenti fondamentali e distribuisce il potere che lo Stato
sta accentrando nelle mani del monarca. La libertà di tutti può essere garantita
solo se il potere, così indebolito, viene gestito da persone diverse. L’interazio-
ne tra i poteri deve realizzare un equilibrio capace di impedire che qualcuno
possa operare al di fuori del proprio ambito di competenza. Un debordamento
che Montesquieu considera inevitabile perché – ed è la grande lezione del
meccanicismo hobbesiano - ogni uomo che ha in mano il potere è portato ad
abusarne, finché non trova un limite che lo blocchi.
Non solo, per il cittadino la libertà politica è anche quella tranquillità che
deriva dalla percezione di essere al sicuro, condizione che dipende dalla capa-
cità del governo di fare in modo che egli non abbia da temere un altro cittadi -
no. Del resto, per Montesquieu libertà non vuol dire indipendenza e la libertà
politica del cittadino all'interno di uno Stato “non può consistere che nel poter
fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve
volere”.25 Detto in un altro modo, la libertà è il diritto di fare ciò che le leggi
permettono.
Con la Rivoluzione francese, l'ordine del vecchio mondo scompare mar-
chiato come ancien régime e sostituito da un ordine diverso, nuovo, che recu-
pera la distinzione delle libertà di Montesquieu e istituisce i parametri di fondo
di una nuova idea di libertà, che è la nostra e che sarà alla base dei nuovi Stati
nazionali. Atene, Sparta, la Roma repubblicana, i Regni franco-gallici non pos-
sono più essere guardati come modelli di sistemi politici da riprodurre. È que-
sto che, qualche decennio dopo, con il celebre Discorso sulla libertà degli Anti-
chi paragonata a quella dei Moderni, Benjamin Constant cerca di farci capire.

24 La Costituzione del Regno d’Inghilterra aveva reso la giustizia indipendente dal monarca e
poteva garantire la libertà del suddito attraverso le garanzie processuali. Ne è testimonianza
l’antico e ancora vigente diritto dell’habeas corpus. Nella tripartizione di Montesquieu, che
è quella che si è fissata nelle democrazie occidentali, il potere esecutivo riguarda però i rap-
porti con gli Stati esteri.
25 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Vol.I, UTET, Torino 1973, Libro XI, Cap. 3, p. 273.
Chiedetevi innanzitutto, Signori, cosa un inglese, un francese, un abitan-
te degli Stati Uniti d’America, intendano al giorno d’oggi con la parola li -
bertà.
È per ognuno il diritto di essere sottoposto soltanto alle leggi, di non po-
ter essere arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in
alcun modo, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui. È
per ognuno il diritto di dire la propria opinione, di scegliere la propria oc-
cupazione ed esercitarla; di disporre della sua proprietà e persino abu-
sarne; di andare, venire, senza averne ottenuto il permesso e senza ren-
dere conto d’intenzioni o comportamenti. È, per ognuno, il diritto di riu-
nirsi con altri individui, sia per conferire sui propri interessi, sia per pro-
fessare il culto preferito da lui e dai suoi consociati, sia semplicemente
per riempire i giorni e le ore in modo più conforme alle sue inclinazioni,
alle sue fantasie. Infine è il diritto, per ognuno, d’influire sull’amministra-
zione del governo, sia con la nomina dei funzionari, tutti o alcuni, sia a
mezzo di rimostranze, petizioni, richieste, che l’autorità è più o meno ob-
bligata a prendere in considerazione. Paragonate adesso questa libertà a
quella degli antichi.
Essa consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, varie
parti della sovranità tutta intera, nel deliberare, sulla piazza pubblica,
della guerra e della pace, nel concludere trattati d’alleanza con gli stra-
nieri, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi, nell’esaminare i conti,
gli atti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire davanti a tutto un
popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli;; ma, se
era questo ciò che gli antichi chiamavano libertà, nello stesso tempo am-
mettevano, come compatibile con tale libertà collettiva, l’assoggetta-
mento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. […] Niente è
concesso all’indipendenza individuale rispetto alle opinioni, né rispetto
all’occupazione, né soprattutto rispetto alla religione.
[...] Così tra gli antichi, l’individuo, sovrano pressoché abitualmente negli
affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino,
decide della pace e della guerra; come singolo, è limitato, osservato, re-
presso in ogni suo movimento; come parte del corpo collettivo, inquisi-
sce, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magi-
strati o i suoi superiori; come sottomesso al corpo collettivo, può a sua
volta esser privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, ban-
dito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa par-
te. Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita priva-
ta, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua
sovranità è ristretta, quasi sempre sospesa; e se, ad epoche fisse, ma
rare, durante le quali non cessa di essere circondato da precauzioni e
vincoli, esercita tale sovranità, è sempre per abdicarvi. 26
E l’individuo vi abdica quando si reca a votare per eleggere un suo rap-
presentante. Per Constant, e così anche per noi, la differenza essenziale tra gli
antichi e i moderni è che la libertà degli antichi aveva una forte connotazione
politica, quella dei moderni è la libertà del privato cittadino, al quale è stata
sottratta la capacità politica di prendere direttamente decisioni in materia di
affari pubblici. Unica eccezione dove si applica, pur con pesanti limiti, è l'istitu-
to del referendum popolare.
Si ha qui un nuovo soggetto in cui coesistono due tipi diversi di libertà:
l'illimitata libertà esistenziale dell'uomo, che riguarda solo la sfera personale, e
la libertà politica fortemente limitata del cittadino. Limitata perché, come giu-
stamente osserva Benjamin Constant, egli vi abdica nel momento stesso in cui
la esercita eleggendo un suo rappresentante, a cui delega le decisioni politi-
che.
Il problema della rappresentanza politica, che costituisce il fondamen-
tale principio di gestione delle democrazie moderne è stato affrontato teorica-
mente sin dalla nascita dello Stato moderno, quando si è cominciato ad analiz-
zare il concetto di sovranità che ne sta alla base.
Jean Bodin nel suo Les six livres de la République (1576) ne dà questa
definizione, rimasta da allora inalterata: la sovranità è il potere assoluto e per-
petuo di una repubblica, cioè quel potere che nasconde le sue origini dalla vio-
lenza e che è al di sopra di tutte le leggi e dal quale le leggi derivano la propria
forza cogente; un potere che si esercita su un territorio 27 dove vive una molte-
plicità di soggetti o di comunità. Un concetto che Carl Schmitt esplicita preci-
sando che lo Stato è sovrano nel senso che a esso spetta la determinazione del
caso di guerra, anche quando questo sia il caso d’eccezione. In altre parole, lo
Stato definisce i raggruppamenti di amici e nemici. Concentrando in sé le deci-
sioni politiche lo Stato riesce a tenere questo estremo contrasto al di fuori del-
la sfera politica interna che così viene pacificata e nella quale possono agire al -
tri organismi, unità di secondo grado come i partiti, che vengono definiti politi-
ci per via della loro prossimità alla decisione politica primaria. Ciò significa che
nei termini della politica è insita una contrapposizione derivante da una situa-

26 Discorso pronunciato all’Athénée royal di Parigi nel 1819. Benjamin Constant, La libertà de-
gli antichi, paragonata a quella dei moderni, RCS Quotidiani, Milano, 2010, p. 17 e segg.
27 Territorio, popolo e sovranità erano considerati gli elementi costitutivi dello Stato moderno.
Oggi ci si comincia a chiedere se vada ancora mantenuta questa definizione, che non tiene
conto di forme di potere diverse esercitate anche da entità sovrastatali.
zione che rinvia, in modo più o meno blando, alla distinzione amico-nemico. 28
La sovranità è dunque il sommo potere che appartiene al popolo e che il
popolo attribuisce allo Stato. È un principio consolidato, almeno nelle demo-
crazie contemporanee. Ma per arrivare al (quasi) unanime riconoscimento che
questo potere appartiene al popolo c'è voluto del tempo e soprattutto tre rivo-
luzioni (in Inghilterra, in America e l’ultima in Francia).
Rimane il problema del suo esercizio. Essendo impraticabile la parteci-
pazione di tutti alla gestione dello Stato, il popolo deve farsi rappresentare. In
questo modo lo Stato moderno attua il ricambio del ceto di governo attraverso
una limitata rotazione dei cittadini nell’amministrazione pubblica. E le regole
della scelta sono scritte nelle Costituzioni, assieme a quelle per la gestione del
potere statale. Si pone così il problema di chi è legittimato a scrivere queste re -
gole.
Nel gennaio del 1789, sei mesi prima dello scoppio della Rivoluzione
francese, l’abate Emmanuel Sieyès29nel pamphlet Cos'è il Terzo Stato? sostiene
che il potere sovrano è di due tipi: quello costituente e quello costituito.
Quest’ultimo è il potere esercitato nell’ambito e nei modi prescritti dalla Costi-
tuzione vigente mentre quello costituente è il potere che l’ha scritta, stabilen -
do le regole di funzionamento della nuova forma di governo. L’opuscolo ha un
successo strepitoso, perché fornisce il fondamento teorico alla legittimazione
della nuova legalità istituita dalla Rivoluzione francese e da molte altre che se -
guiranno.
Scrive Sieyès: “in ogni sua parte, la costituzione non è opera del potere
costituito, ma del potere costituente. Nessun tipo di potere delegato può mu-
tare le condizioni della propria delega. È in questo senso che le leggi costituzio-
nali sono fondamentali”.30La definizione è diventata famosa, ed è stato fatto
notare che non è altro che la traduzione in forma giuridica del concetto spino-
ziano di natura naturans (Dio, ovvero la causa delle cose) e natura naturata (le
cose naturali, che ne sono la manifestazione). Il paragone calza, perché il pote-

28 La definizione di Schmitt è meno cruenta dell’opposizione, che da sempre l’ha affiancata e


talvolta sostituita, etico-religiosa tra Bene e Male, tra Giusto e Ingiusto, dove il nemico è
trasformato nel Male assoluto da sradicare a qualunque costo. Cfr. Carl Schmitt, Il concetto
di politico, in “Le categorie del ‘politico’”, il Mulino, Bologna 1972.
29 Pur essendo un religioso, viene eletto rappresentante del Terzo stato alla prima Assemblea
Nazionale che, proclamatasi Costituente, redige la Costituzione del 1791, sulla cui base
elegge la nuova Assemblea Legislativa per la gestione ordinaria.
30 Emmanuel-Joseph Sieyès, Qu'est-ce que le Tiers-État?, p. 76 (trad. mia). https://gallica.bnf.-
fr/ark:/12148/bpt6k47521t/f81.item
re costituente non ha nessuno sopra di sé, il suo limite è solo in se stesso.
Destituzione del potere in carica, convocazione di un governo provviso-
rio, nomina di un’Assemblea Costituente, scrittura di una nuova Costituzione,
istituzione del potere costituito sono le tappe definite dalla Rivoluzione france-
se, un percorso che ha fatto nascere molte altre costituzioni.
Quanto al potere costituito, sulle modalità di scelta dei rappresentanti
del popolo ogni Stato ha trovato la sua formula, più o meno democraticamen -
te concordata, più o meno violentemente imposta. Nei governi che si richia-
mano alla democrazia, la trasmissione formale del potere tra il popolo, il de-
tentore della sovranità, e la persona rappresentativa, che esercita le funzioni
di governo, viene periodicamente rinnovata chiamando i cittadini a scegliere i
propri rappresentanti. Il voto è l'unico atto con cui il popolo, esercitando la so-
vranità che gli appartiene, autorizza preventivamente gli eletti all’esercizio del
potere di comando, al quale promette, sia pure con qualche riserva, di obbedi -
re. Così, nel momento in cui esercita il proprio potere, il cittadino lo perde, tor-
na a essere un cittadino privato della facoltà di azione politica. E i suoi rappre-
sentanti, che adottano le deliberazioni politiche, non rappresentano i singoli
elettori che li hanno scelti, ma gli interessi generali della società civile, non
hanno alcun vincolo di mandato 31 e non sono responsabili direttamente di
fronte agli elettori.
La politica, se si resta all’interno delle sue coordinate costitutive, non
può che essere disputa per appropriarsi del diritto all’esercizio del potere
nell’ambito definito dalle regole scritte nelle costituzioni. In una società demo-
cratica, che “si definisce come l’ambito della libertà di tutti e delle libere restri-
zioni tra individui ugualmente liberi” 32 è impossibile pensare a una teoria de-
mocratica del governo, proprio perché governare significa “presentarsi di fron-
te ad altri potendoli guidare”,33 e questo implica il riconoscimento di una supe-
riorità, che la democrazia tende a livellare o addirittura eliminare. 34 Nelle de-
mocrazie può esserci solo amministrazione: nessuno comanda e nessuno ob-
bedisce perché l’obbedienza è preceduta dall’accettazione della dettagliata
analisi e descrizione di tutto ciò che può essere richiesto.
31 L'articolo 67 della nostra Costituzione dice che “Ogni membro del Parlamento rappresenta
la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
32 Alessandro Biral, La società senza governo. Lezioni sulla rivoluzione francese, vol. 2, il prato,
Saonara (Pd) 2009, p. 322.
33 Ivi, p. 328.
34 Cfr. Giuseppe Duso, Buon governo e agire politico dei governati: un nuovo modo di pensare
la democrazia? (A proposito di P. Rosanvallon, ’Le bon gouvernement’, Paris, Seuil, 2015), in
“Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 45 (2016), pp. 619-650.
Il secondo importante principio fondativo è quello dell'Uguaglianza,
strettamente collegato con la libertà. Va precisato tra chi e in che cosa si possa
essere uguali, dato che dire che tutti debbano essere uguali in tutto, che è la
massima estensione del principio egualitario, è irrealistico. In democrazia, la
prima e unica forma di reale uguaglianza tra i cittadini non può che essere
quella politica, che si realizza nella cabina elettorale, dove tutti sono parificati
e “uno vale uno”. Ma accade solo lì. Appena usciti, si entra nel mondo delle di -
versità, dove non tutti hanno gli stessi bisogni, né hanno eguali possibilità di
influenzare le decisioni politiche. Troppe sono le differenze da appianare e al-
cune di queste decisamente insuperabili. Il principio può essere allora tradotto
in pratica solo dicendo che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, tra-
sformandolo in principio cardine delle società democratiche e dello stato di di-
ritto.
Ma se non si vuole dare della democrazia una valutazione meramente
formale, uno dei criteri più importanti per valutarne la qualità è proprio que-
sto: verificare come si comporta nell’affrontare il problema delle disuguaglian-
ze. Sotto questo aspetto, le cose non sembrano andare bene. Oggi, si è sempre
più liberi, ma si è sempre meno uguali. Al crescere della cittadinanza politica
corrisponde un peggioramento della cittadinanza socioeconomica. Nella socie-
tà dei simili, l’uguaglianza, vincitrice della battaglia contro i privilegi della nobil-
tà, non tende a un’equa distribuzione delle ricchezze, anzi non si sta manife -
stando alcuna tendenza al contenimento del divario tra redditi e patrimoni. La
redistribuzione è un obiettivo che fatica a trovare posto tra le opzioni della po -
litica, se non declassato a una ben più modesta riduzione delle differenze 35 o a
una vaga opportunità di parità di condizioni, entrambe incapaci di aprire pro-
spettive, accendere speranze e con scarsissime capacità di mobilitare. Ormai si
ritiene acquisito a livello sociale il concetto di uguaglianza inteso come la non
sottomissione di alcuno alla volontà di un altro.
Alla libertà e all'eguaglianza, i due principi cardine della democrazia, va
aggiunto il metodo che caratterizza il funzionamento nelle democrazie con-
temporanee: il principio maggioritario (o di maggioranza), che stabilisce il cri-
terio per la validità delle decisioni adottate dalle assemblee, qualora non si rie-
sca e ottenere l'unanimità.
Il ricorso al voto è una soluzione che pone due distinte domande. La pri-
ma riguarda il perché la volontà della maggioranza prevalga e obblighi la mino-
ranza dissenziente. La seconda questione è invece di carattere politico e costi-

35 Come riporta l’art. 3 della nostra Costituzione.


tuzionale e riguarda il ruolo della maggioranza e l’estensione dei suoi diritti e,
reciprocamente, della minoranza, in una collettività non omogenea, qual è
quella dei cittadini di uno Stato.
Il principio maggioritario viene dato per scontato. In realtà, non è altro
che una semplice formula, dalla quale derivano effetti giuridici, un espediente
pratico per uscire da situazioni di stallo, in mancanza di una conclusione con-
sensuale, di una sintesi che nessuno trovi tanto inaccettabile da doverla rifiuta-
re. Dall’esito dell’assemblea nessuno deve sentirsi prevaricato. Questo significa
che il principio di maggioranza non può essere applicato fintanto che l'unità
dell'organo decisionale non sia concettualmente distinta dalla somma numeri-
ca dei componenti e non si sia giunti ad accettare la coesistenza di diversi inte-
ressi o di diverse opinioni, superando la rigidità e le difficoltà di svolgere un
processo capace di arrivare a una decisione unanime.
Per funzionare al meglio, il sistema maggioritario deve soddisfare due
condizioni che raramente si trovano riunite: la parità del valore dei voti espres-
si (uno vale uno) e la presenza di un potere coercitivo di livello superiore, che
offra la possibilità di obbligare alla volontà della maggioranza anche chi dissen-
te. Nel caso in cui il potere coercitivo non esista o non sia interessato a interve-
nire, si è da sempre cercato di concertare un accordo che, pur non acconten-
tando pienamente tutti, permettesse di evitare lo scontro.
Nella democratica Atene, anche Aristotele riconosce nella volontà del
numero una capacità maggiore che in quella del singolo. Cosa che viene rico-
nosciuta anche nel diritto germanico e nel diritto pubblico romano, dove però
si farà strada il concetto di una volontà unitaria e indivisibile, non ottenuta
dall’accordo delle singole volontà, ma da un atto di volontà dell’ente collettivo.
Nel caso in cui non si raggiunga l’unanimità, i romani rispondono in modo mol-
to sbrigativo: facciamo come se ciò che la maggioranza ha deciso sia quello che
tutti hanno voluto. Giuridicamente, la minoranza esiste quindi solo finché il
voto non esprime una maggioranza perché subito dopo è come se la minoran-
za non fosse mai esistita: la volontà dissenziente si dissolve e non lascia trac-
cia.
Ci sono voluti secoli perché il principio di maggioranza riuscisse ad affer-
marsi anche nel campo del diritto canonico dove, in caso di non raggiunta una -
nimità, va a sostituire il principio che privilegia la scelta della pars sanior (la più
saggia, a giudizio del superiore ecclesiastico), anche se numericamente mino-
re. Forse solo qui si realizza in modo quasi perfetto l’importante presupposto
dell’equivalenza dei voti espressi, perché in quest’ambito la votazione avviene
all'interno di un gruppo dove esiste una sostanziale omogeneità di interessi e
una piena condivisione di fini. Il dissenso della minoranza costituisce di fatto
un problema di scarsa rilevanza poiché le divergenze non ledono diritti perso-
nali e non costituiscono, di norma, limitazioni della libertà, ma sono solo opi-
nioni a confronto.
Ma nella società civile, l'esperienza mostra che tra i votanti esistono
grandi diversità. L’eguaglianza si può realizzare perciò solo nel campo della leg-
ge dove, al di là delle differenze, tutti hanno gli stessi diritti. Ed è qui che
l’applicazione del principio di maggioranza apre un problema relativo alla limi-
tazione della libertà di chi della maggioranza non fa parte. Il problema si pone
soprattutto in caso di decisioni che incidono in campo sociale o economico,
quando la diversità reale può comportare rinunce che possono essere dannose
per l’interesse della minoranza.
Su questo tema si è focalizzata l’attenzione del pensiero liberale sin dalle
origini e le riflessioni di Stuart Mill, nel suo saggio Sulla libertà, possono costi-
tuire un punto di riferimento sempre attuale per chiunque voglia affermare il
valore non solo dell’individuo e della sua libertà di pensiero e di espressione,
ma soprattutto del suo fondamentale diritto al dissenso. Da notare che qui si
parla solo di diritto al dissenso, che è cosa ben diversa dal diritto alla disobbe-
dienza che, come diritto giuridicamente garantito, negli Stati democratici non
può esistere. Come non esiste nemmeno il diritto di veto, che trova applicazio-
ne solo in particolari ambiti del diritto internazionale o del diritto privato.
Tra la disobbedienza e la cieca obbedienza, che è stata e può essere usa-
ta come giustificazione di azioni criminali, ma che non può più essere conside-
rata una virtù,36 esiste un territorio dai confini incerti: quello dell’obiezione di
coscienza. Un diritto soggettivo che tutela chi si rifiuta di compiere determinati
atti prescritti dalla legge o dall’autorità pubblica, in quanto contrari a principi
morali, etici o religiosi. Ma a parte questo, negli Stati democratici esiste ed è
ben esplicitato il dovere di “osservare la costituzione e le leggi" 37 e di ubbidire
alle regole stabilite dalla pubblica autorità. Questo significa che si può pensare
liberamente ed esprimere il proprio dissenso, ma non si può rifiutare l’obbe-
dienza che la legge richiede e al contempo sottrarsi alle conseguenze previste.
Stuart Mill analizza anche il problema della natura e dei limiti del potere
che la società può legittimamente esercitare sull’individuo. Posto che, nelle

36 Si veda Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù. https://www.famigliacristia-
na.it/articolo/l-obbedienza-non-e-piu-una-virtu-il-testo-di-don-lorenzo-milani.aspx
37 Così l’art. 54 della nostra Costituzione.
moderne democrazie il potere appartiene al popolo, il filosofo inglese osserva
che quel popolo non coincide con coloro sui quali il potere viene esercitato.
L’autogoverno non è il governo di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti su
ciascuno. E la volontà che si impone come volontà di tutti è quella della parte
del popolo più numerosa o più attiva. Si crea quindi una minoranza teorica-
mente oppressa perché è costretta a subire il volere dei più. A questo proposi -
to, Stuart Mill propone una soluzione tanto elegante quanto di irrealistico fair
play, la versione politica del classico “non fare agli altri quello che non vorresti
fosse fatto a te”, ossia suggerisce alla maggioranza di adottare solo le leggi che
accetterebbe se fosse minoranza.
Mill amplia però il diritto dell’individuo non solo alla libertà nei confronti
dell'autorità di governo, ma anche alla libertà dal conformismo, che viene
esercitato a livello sociale dalla maggioranza, quando questa non tollera e re-
prime ogni forma di divergenza o di autonomia. È il potere della mediocrità ti-
rannica delle masse della società industriale, incapaci di apprezzare il valore
della diversità e dell'originalità. Una società libera ha bisogno di persone che
sappiano uscire dal coro. È questa la proposta di Stuart Mill perché ciò che
oggi appare la follia di uno, non è detto che domani non possa diventare il
buon senso di molti.
Da ultimo, ma non meno importante degli altri per il buon funzionamen-
to delle democrazie, c'è un altro principio, del quale poco si parla, la diffiden-
za. È la ragione che suggerisce al cittadino democratico di essere diffidente,
portatore di un attivo sentimento di vigilanza, mosso dall'attaccamento ai valo-
ri democratici. Una passione che poco ha a che fare con la sfiducia, che ne co-
stituisce la degenerazione.
1.3. Tra diffidenza e complottismo
La diffidenza [...] è la custode dei diritti del popolo; sta
al sentimento profondo della libertà, come la gelosia
sta all'amore.
M. Robespierre, Discorso all'Assemblea Legislativa, 18
dicembre 1791

Collocare la diffidenza tra i principi costitutivi della democrazia può ap-


parire sorprendente. Viene da chiedersi come sia possibile che, in un regime
che proclama tutti liberi e uguali, venga data tanta importanza a un principio
che può apparire disgregatore. Ma la diffidenza, come dice il proverbio, è la
madre della sicurezza ed è proprio Montesquieu che la eleva a principio fonda-
mentale del sistema del governo, quando afferma che occorre prestare atten-
zione a non concentrare il potere in mani che sono inclini ad abusarne e pro-
pone di suddividere il potere sovrano in tre parti da affidare a diversi gestori.
In questo, Montesquieu mostra la cartesiana modernità di una ragione che si
radica nel dubbio, come fa la scienza moderna che esprime una sostanziale
diffidenza nei confronti di tutto ciò che la circonda.
Questo è l'aspetto della diffidenza che viene espresso a livello costituzio-
nale. Ma ce n'è un altro, altrettanto importante che, pur se non realizzato
dall’architettura del potere disegnata dalle Carte costituzionali, emerge duran-
te le rivoluzioni quando le forze in campo sovente non hanno il tempo e forse
nemmeno la volontà di usare un linguaggio fatto di allusioni che velano il rea-
le. I dibattiti dei rivoluzionari esprimono in modo più chiaro del solito ciò che
in tempi normali resta sullo sfondo, come possiamo vedere in alcuni discorsi di
Maximilien Robespierre nei quali viene evidenziato il ruolo della diffidenza nel-
la società del nuovo regime che sta nascendo.
Robespierre considera la diffidenza (défiance) una potente forza di coe-
sione sociale, una virtù necessaria ai patrioti per non soccombere di fronte ai
nemici della Patria che tramano contro la riconquistata libertà del popolo fran-
cese. In polemica con chi la ritiene una cosa tremenda e divisiva, che impedi-
rebbe ai ministeri di agire di concerto, egli risponde che i ministri devono mo-
strare con i fatti di meritare fiducia e che la diffidenza dei patrioti è lo scudo
delle libertà, almeno fintanto che non sarà terminata la rivoluzione. E sostiene
che bisogna diffidare in primo luogo dei nemici interni, delle manovre della
monarchia e di tutti quelli che patrioti non sono, quelli che poi verranno di-
chiarati “sospetti” e, in quanto tali, destinati in molti a fare una brutta fine. Con
una rivoluzione in corso, egli considera la diffidenza una virtù salutare per
sconfiggere le cospirazioni e proteggere le conquiste rivoluzionarie, 38 mentre
in tempi di normalità il sistema della divisione dei poteri, che è la garanzia co -
stituzionale della libertà, può offrire ai cittadini una sufficiente protezione. An-
che al cittadino dello Stato democratico è però richiesto di avere una vita poli-
tica attiva, a cominciare dalla scelta dei suoi rappresentanti, sul cui comporta-
mento deve poi vigilare partecipando alle scelte che investono la collettività
per portarvi la propria opzione e sostenerla, se non per farla diventare maggio-
ritaria, almeno per arrivare a una mediazione. Insomma, per Robespierre an-
che in tempo di pace la fiamma della democrazia deve essere tenuta accesa da
un clima di perenne, lieve turbolenza.
E questo vale soprattutto oggi, quando in una democrazia come quella
degli Stati Uniti d’America, che della democrazia sono stati a lungo il modello
ispiratore, Noam Chomsky39 rileva l’isolamento in cui sono mantenuti i cittadi-
ni. Una caratteristica tipica dei regimi totalitari, che usano un metodo di gover-
no basato sull’assenza di associazioni e di forme autonome di informazione e
scambio. Isolati tra loro, i cittadini sono chiamati a esprimere la propria scelta
elettorale tra opzioni limitate, peraltro gestite dai media, trovandosi di fatto
costretti a ratificare decisioni comunicate da politici che non sono che degli
attori, più o meno abili a recitare un copione scritto altrove e da altri. E in que-
sta direzione, nel XX secolo il più alto livello è stato raggiunto con l’elezione di
Ronald Reagan, attore di professione, prototipo di un presidente che svolge
funzioni rappresentative analoghe a quelle della regina d’Inghilterra. Un presi-
dente usato come facciata per mantenere la forma della partecipazione, te-
nendo però lontani i cittadini, i detentori di un potere che, non potendo essere
controllato con la forza, viene addormentato con l’indottrinamento da parte di
personaggi che servono per creare l’opinione pubblica.
Una versione attualizzata della robespierriana diffidenza è quella forma
di democrazia innovativa che il politologo americano John Keane40 definisce

38 “La libertà poggia su basi più salde e più elevate: si fonda sulla giustizia e la saggezza delle
leggi, sull'opinione pubblica, forza sovrana, i lumi del popolo; sulla stessa diffidenza degli
amici della Costituzione, più che giustificata da quanto accaduto; sulla diffidenza, l'egida
della libertà fino a quando la rivoluzione non sarà finita, fino a quando tutti i tuoi nemici sa-
ranno confusi”. M. Robespierre, Discorso pronunciato al Club des Jacobins il 26 marzo 1792.
Discours, tome VIII, PUF, Paris, 1953, p. 232 (traduzione mia).
39 Noam Chomsky, La democrazia del grande Fratello, Edizioni Piemme, Casale Monferrato
2004; cfr. in particolare il cap. 12.
40 Si veda l’intervista rilasciata al giornale Avvenire il 16 marzo 2021 https://www.avvenire.it/
democrazia monitorante che si basa sulla creazione e diffusione di nuovi orga-
ni di partecipazione diretta dei cittadini per esercitare un controllo diretto con-
tro abusi di potere, corruzione e cattiva amministrazione della cosa pubblica.
Un metodo utile anche per riavvicinare alla politica cittadini che esprimono la
propria disaffezione nei confronti dei partiti e del sistema disertando gli ap-
puntamenti elettorali, consapevoli di aver poca o nessuna possibilità di incide-
re anche su problemi che li toccano da vicino. Con delle eccezioni, perché la
radicalizzazione emotiva può coinvolgere un largo pubblico inducendo ad ac-
costarsi al voto anche chi pareva ormai rassegnato ad accettarne l’inutilità. Ne
è un esempio la partecipazione degli elettori alle elezioni presidenziali ameri-
cane del 2020 che hanno registrato un record di afflusso.
Ma la percentuale dei votanti da sola non basta per esprimere una valu-
tazione sulla qualità di una democrazia rappresentativa. Alla partecipazione
elettorale vanno aggiunte altre
regole che definiscono il minimo che consenta a un sistema rappresenta-
tivo di dichiararsi democratico: mandati elettorali brevi, non cumulabili,
non rinnovabili; monopolio dei rappresentanti del popolo sull'elabora-
zione delle leggi; interdizione per i funzionari dello Stato di essere rap-
presentanti del popolo; riduzione al minimo delle campagne e delle spe-
se per le campagne elettorali e controllo dell'ingerenza delle potenze
economiche nei processi elettorali.41
Ma nemmeno questo è sufficiente per Pierre Rosanvallon42che suggeri-
sce che, per comprendere e valutare la qualità delle democrazie rappresentati-
ve dell’età della sfiducia, sia necessario ampliare il terreno di indagine al di là
della prospettiva esclusivamente normativa e regolamentare, per mezzo di una
visione più aperta delle attività democratiche. In questo modo Rosanvallon
cerca di superare l’opposizione tra democrazia reale e democrazia formale,
mettendo in evidenza che esistono anche delle forme di partecipazione non
istituzionali e convenzionali che arricchiscono il paniere delle democrazie.
Nell’analisi propone perciò di includere tutte le attività di istituzioni e di
contro-poteri sociali informali che operano nella società civile e compensano
l’erosione della fiducia espressa in sede elettorale, mettendo in atto tutto un
insieme di pratiche che definisce contro-democratiche. Questo non vuol dire
che sono il contrario della democrazia, ma solo che sono le azioni di una serie

agora/pagine/il-politologo-john-keane-in-democrazia-serve-umilta-intervista-zaccuri
41 Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 88.
42 Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma
2014.
di contro-poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, i quali contribuiscono a
dare consistenza a quello status di diffidenza, quel rapporto attento e sospet-
toso che una sana democrazia deve saper mantenere per supportare, stabiliz-
zare e correggere, se serve anche contrastando, la fiducia espressa dal manda-
to rappresentativo.
Si realizza in questo modo una prassi contro-democratica che, nella sua
dichiarata impoliticità costituisce una vera e propria forma politica di parteci-
pazione attiva. Considerate parte del sistema democratico, le pratiche contro-
democratiche non sono altro che uno dei mezzi con cui la società reagisce alle
disfunzioni delle prassi democratiche originate dai regimi rappresentativi, com-
pletando e migliorando l’azione delle istituzioni democratiche legali. Queste
sono pratiche che si attuano come forme di sorveglianza, controllo, interdizio-
ne, rifiuto e politicizzazione anche della giustizia, e sono espressioni concrete
di diffidenza attiva e di sovranità sociale negativa che vengono spesso attuate
direttamente dai cittadini. Mirano più alla trasparenza dell’azione politica che a
prendere parte all’organizzazione delle responsabilità di gestione. Rosanvallon
le considera vere e proprie forme di democrazia indiretta, espressione della vi-
talità della società civile che rifiuta il ripiegamento nel privato e che in questo
modo esercita un controllo diretto sull’operato di uomini di scienza e politici.
Per mezzo di questa visione multiforme dell’attività democratica, Rosan-
vallon invita a considerare in modo diverso anche i classici indicatori del coin-
volgimento dei cittadini, mettendo in evidenza che queste forme di partecipa-
zione non convenzionale integrano e per certi versi surrogano la diminuzione
della fiducia espressa dal decrescere della partecipazione elettorale nelle sca-
denze elettorali con una vigilante attenzione dei cittadini sull’operato della po-
litica e degli eletti.
Ma ciò non toglie che alla virtù unificante della diffidenza si stia sosti-
tuendo la sfiducia che aumenta l’isolamento. In un mondo in cui non c'è la ra-
gionevole sicurezza di riuscire a conservare quanto si è conquistato, dove non
ci sono certezze e il domani è per molti vuoto di obiettivi, appare sempre più
difficile possedere la forza d'animo che la diffidenza e il buon uso del sospetto
richiedono;43 subentra la sfiducia sulle proprie e sulle altrui capacità e si tende
a ricercare un capro espiatorio.
Se a questo si aggiunge un po’ di nostalgia per un passato idealizzato e
di malcontento per le difficoltà del presente, si crea un terreno favorevole alla

43 Donatella Di Cesare Il complotto al potere, Einaudi, Torino 2021; cfr. in particolare il cap.
Elogio del sospetto, pp. 83 e segg.
diffusione di teorie complottiste che leggono come inutile complicazione la
complessità del reale e offrono la possibilità di sentirsi parte di un gruppo pri-
vilegiato, accorto e lungimirante che ha saputo accedere alla verità. In questo
modo si soddisfa il proprio insopprimibile bisogno di sicurezza e si supera
“l’impossibilità di sopportare ciò che è sconosciuto, enigmatico”, placando così
la “difficoltà umana di affrontare l’angoscia esistenziale e l’instabilità politica”. 44
Il disvelamento del complotto inoltre riqualifica chi lo smaschera, che è insie-
me vittima, medico e profeta: risana ed esorta alla salvezza. E quando lo sma-
scheratore è il leader populista, le sue capacità fobocratiche riescono a com-
pattare la comunità dei "noi" contro "loro", il nemico, i poteri forti della finan-
za internazionale ma anche imprecisati comunisti, sindacalisti e migranti. E così
accadimenti che sono esito di una molteplicità di cause sono ricondotti al sem-
plicistico schema interpretativo del complotto, frutto della volontà di soggetti
ben nascosti, ma comunque individuabili, che ordiscono sofisticati ma intelligi-
bili piani.
L’idea di complotto ha avuto un certo peso anche nel portare Donald
Trump alla Casa Bianca. Si trattava di sconfiggere il potere occulto di pedofili e
satanisti annidatisi nelle istituzioni statunitensi e riuniti in una setta capeggiata
da Hillary Clinton, l’antagonista candidata dei democratici. Poco importava che
il neoeletto presidente si dimostrasse poco capace: gli bastava affermare che la
sua non era che una tattica perché in realtà stava vincendo la vera battaglia,
quella che si svolgeva nel deep state, che è occulto per definizione.
La tendenza a considerare tutti i fatti di potere come cospirazioni è però
qualcosa di più che una visione inquietante ma rassicurante e semplificatrice. È
anche una reazione al weberiano “disincanto del mondo” perché recupera una
spiegazione mitica e creazionista: ciò che accade è per volontà di agenti che,
come gli dèi dell’antichità, intervengono nelle vicende umane. In questo modo
si riesce a stare ben saldi nelle proprie convinzioni difensive, si giustifica la pro-
pria impotenza e si rifiuta di esplorare l’ignoto.
Ed è anche per questo che la struttura genetica del complotto è rimasta
praticamente la stessa da secoli. Uno schema che prevede di individuare un
preciso antagonista da trasformare in nemico e di raccogliere pezzetti di verità
da assemblare per costruire un plausibile quadro distorto della realtà stessa.
Con l’avvertenza però, ed è il terzo punto, che non si devono usare argomenti
nuovi, ma elementi in parte già noti al pubblico. Ne esce così un racconto che

44 Ivi, p. 26.
conferma le aspettative del pubblico 45 offrendogli dei bersagli sui quali scarica-
re ogni propria incertezza e paura.
Visto dall’interno, il complotto appare anzitutto “la forma politica che
resta nel tempo dell’eclissi della politica”. 46 Più che strumento al servizio del
potere è il complesso di rapporti di forze, istituzioni, pratiche di governo, pro-
cedure scientifiche e tecniche, quell’insieme che Foucault chiama dispositivo
“in cui il potere si articola, si esercita, si dissimula. È la maschera del potere nel
tempo del potere senza volto”.47 Un potere che si cela dietro l’apparente caos
della globalizzazione per imporre un Nuovo Ordine Mondiale gestito da un go-
verno planetario occulto che non vuole che venga intaccato il livello di agiatez-
za raggiunto. A tal fine elabora strategie per ridurre il numero dei commensali
alla tavola dell’umanità, assoggettandola e decimandola usando tutti i più mo-
derni ritrovati della tecnica, dai microchip ai sistemi di sorveglianza e geoloca-
lizzazione fino alle pratiche di ingegneria genetica.
E un fenomeno multiforme come quello migratorio non viene più consi-
derato la risultante di intricate situazioni economiche e geopolitiche, ma è rite-
nuto frutto del “rimpiazzismo globale” per sostituire i popoli europei bianchi e
cristiani con popolazioni musulmane dalla pelle scura. 48 Un mega complotto,
forse superato dal disegno criminale del gruppo capeggiato da Bill Gates, Geor-
ge Soros e Hillay Clinton che avrebbe invece per obiettivo la trasformazione
della popolazione mondiale in zombie tramite l’impianto di microchip. Letta in
quest’ottica, la pandemia da Covid 19 diventa sospetta sia nel suo insorgere,
sia per il ruolo che in essa gioca il vaccino, generatore di enormi extraprofitti
per Big Pharma, quando non ritenuto essere il vettore di mortifere mutazioni
genetiche.
Ma se le teorie complottiste si sono così tenacemente e ampiamente
affermate e diffuse nelle democrazie occidentali tanto da insinuarsi persino tra
gli anticomplottisti, che credono di scorgere ovunque l’inquietante presenza
dei complottisti,49 è anche perché si sono avute manifestazioni di condotte

45 Si veda Enrico Buonanno, Non ce lo dicono. Teoria e tecnica dei complotti dagli Illuminati di
Baviera al Covid-19, UTET, Torino 2021.
46 Donatella Di Cesare, Il complotto al potere, cit., p. 17.
47 Ivi, p. 5.
48 Il romanzo di Jean Raspail Il campo dei santi (1973) è un punto di riferimento per l’estrema
destra xenofoba e razzista che coltiva il mito della “grande sostituzione” narrata da Renaud
Camus ne Le Grand Remplacement (2011).
49 Sull’argomento si veda l’articolo di Frédéric Lordon, Le complotisme de l’anticomplotisme,
Le Monde diplomatique, ottobre 2017, https://www.monde-diplomatique.fr/2017/10/LOR-
DON/57960
poco trasparenti e di uso spregiudicato di menzogne per giustificare discutibili
scelte politiche.50 Di fronte a tali comportamenti delle autorità la diffidenza de-
mocratica di una parte dei cittadini, che si sentono manipolati ed esclusi dalla
politica, si è con facilità trasformata in cultura del sospetto e del complotto, in
rifiuto di riconoscere anche l’evidenza della realtà.
Scetticismo e sfiducia che non risparmiano nemmeno gli scienziati, la cui
superiorità epistemica viene rifiutata da quanti mettono in discussione la loro
indipendenza dai poteri economici e quindi non riconoscono loro alcuna auto-
rità di guida. Di conseguenza, si manifesta sfiducia pure nei confronti della
scienza, anche se nel corso della pandemia da Covid-19 si è registrato un suo
riposizionamento come punto di riferimento per i più. Forse la scienza sta ri-
prendendo il posto che le spetta. Posto che è stato fortemente minato da una
particolare forma di “populismo scientifico” che ha trovato nel Web un terreno
molto favorevole. Le tesi di uomini di scienza (o sedicenti tali), respinte e prive
di seguito negli ambienti scientifici, vengono diffuse dai loro ideatori tra il pub-
blico dei social. Il dibattito scientifico si trasforma così in una questione di op-
zione tra tesi contrapposte, spacciate a un pubblico inesperto come equivalen-
ti e di pari consistenza scientifica. Con simili premesse, se l’eliocentrismo aves-
se avuto come unico criterio di legittimazione il consenso del pubblico, sarem-
mo ancora a discuterne confrontandolo col geocentrismo.
E' pur vero che molte delle scoperte scientifiche sono nate fuori dagli
ambienti accademici e istituzionali e hanno faticato a imporsi per il loro carat-
tere innovativo. Ma il dibattito restava all'interno del mondo degli studiosi che
condividevano un'etica e i relativi codici comportamentali, primo fra tutti il
metodo della scienza moderna, che prevede verifiche, esperimenti, capacità di
lettura dei dati e non votazioni di tifosi. Una scienza praticata da uomini non
certo in cerca del consenso di incompetenti in materia, come fanno oggi i que-
stuanti di click nel Web, spesso a scopo di lucro. Perché
la buona fama di un intellettuale, se ne ha una, non si fonda in primo
luogo sulla celebrità o la notorietà, bensì su una reputazione che deve
aver acquisito nella propria corporazione [...] prima che egli possa fare
un uso pubblico del suo sapere e della sua reputazione. Se interviene
con degli argomenti in un dibattito, deve rivolgersi a un pubblico che
non consiste di spettatori, bensì di potenziali interlocutori e fruitori che
possono chiamarsi in causa l’un l’altro. Si tratta idealmente di scambiare

50 Ad esempio, le inesistenti “armi di distruzione di massa” esibite per giustificare l’intervento


militare americano contro Saddam Hussein o i depistaggi delle indagini sulle bombe neofa-
sciste e le trame golpiste in Italia a partire dagli anni Sessanta.
delle ragioni, non di inscenare una corrispondenza di sguardi. 51
Lo scienziato deve tenere presente che difficilmente l’opinione pubblica
è disposta ad accettare tesi in conflitto con i valori politici o religiosi, con gli in -
teressi economici o con lo stile di vita. Questo significa, ed è importante tener-
ne conto che, nel formare una parte dell’opinione pubblica, fatti oggettivi e ac-
certati risultano meno influenti rispetto fatti non verificati ma accettati come
veritieri in considerazione di appelli alle emozioni, alle convinzioni e ai pregiu-
dizi personali. Un concetto entrato nel lessico col nome di post-truth, dichiara-
ta parola dell’anno 2018 dall’Oxford English Dictionary.
La pandemia ha però creato una situazione nuova alla quale non erano
preparati né gli scienziati né il vasto pubblico. I primi perché sono stati chiama-
ti a rendere pubblicamente conto delle loro ricerche, il secondo perché la so-
cietà dell’informazione in cui viviamo ha spalancato le porte dei laboratori di
ricerca e indirizzato sulle riviste scientifiche l’attenzione anche di chi aveva
poca dimestichezza col metodo della scienza. Per entrambi è stata la prima vol-
ta e in un contesto che ha cambiato il rapporto tra scienza e società. Come
suggerisce Elena Cattaneo “siamo a pieno titolo nella società della conoscenza
e della post-verità [...] Accanto all’accountability (il dovere di rendere conto)
della scienza, non dobbiamo dimenticare il critical thinking (il pensiero critico)
e l’engagement (l’impegno) sociale”.52 Ma i tempi talvolta lunghi dell’occulto
dibattito tra le diverse opzioni scientifiche non sono considerati accettabili per
far fronte alla prima
‘pandemia social’, sovrapposta a un’infodemia mediatica, condita da
fake news e polarizzazioni d’opinione. Soprattutto, per la prima volta la
cittadinanza, globalmente intesa, si è trovata ad assistere in diretta alla
‘scienza nel suo farsi’, alimentando richieste e urgenza. Prima di Covid-
19, la società aveva un’idea statica della scienza: teorie e possibili tera-
pie venivano comunicate al pubblico quando erano già ‘codificate’ a valle
di corposi studi e [...] in momenti in cui non ce n’era urgente bisogno. 53
Solo una migliore conoscenza del metodo scientifico può trasformare un
largo pubblico di cittadini in protagonisti consapevoli. E nelle democrazie que-
sto richiede una presenza attiva degli scienziati anche fuori dai laboratori per
spiegare l’avanzamento e i risultati delle loro ricerche, contrastando con l’infor-
mazione l’insorgere di manipolazioni e pregiudizi antiscientifici. Non è sempli-

51 Jürgen Habermas, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, Laterza, Bari-Roma 2018,


p. 10.
52 Elena Cattaneo, Armati di scienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2021, p. 29.
53 Ivi, p. 31.
ce perché nel corso della sua evoluzione la scienza moderna si è allontanata
dal senso comune54 che non cerca di spiegare i fatti né di estendere la cono-
scenza. E soprattutto non richiede, come avviene nel sistema istituzionalizzato
della scienza, la propensione a mettere alla prova le spiegazioni e ad abbando -
nare le credenze che non superano i controlli di validità.
Una sana ed efficiente democrazia richiede però che tutti i cittadini “ri-
spettino i fatti e concordino con le metodologie per accertarli”, 55 che siano in
grado di capire di chi fidarsi in caso di controversia e posseggano la preparazio-
ne adeguata per passare dalla concezione del mondo come appare a quella del
mondo come veramente è, accettando risposte che il più delle volte contrasta-
no col senso comune. Nel processo evolutivo si sono sviluppati meccanismi ce-
rebrali che hanno originato un modo di ragionare in cui si mescolano procedi-
menti intuitivi e pregiudizi che sono sufficienti, e magari utili, a soddisfare do-
mande e bisogni immediati, ma non sempre compatibili con la scienza e i suoi
metodi. Il ragionare scientifico “non è un tratto umano che si manifesta natu-
ralmente o spontaneamente”.56 Quando tuttora ci si oppone ad esso, la verità
scientifica diventa irrilevante rispetto a tanto dubbie quanto irremovibili con-
vinzioni57 di persone che cercano soluzioni alla complessità del reale con meto-
di pseudoscientifici. Si riesce forse a placare l’ansia provocata dalla dissonanza
cognitiva, ma si possono causare danni molto seri alle persone e alla società
nel suo insieme in nome di una presunta libertà di scelta in qualsiasi ambito. Il-
lusoria credenza, sulla quale fanno leva i diversi populismi.

54 Si veda Gilberto Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011, in particolare
il cap. III, 6 e il cap. IV.
55 Ivi, p. 14.
56 Ivi, p. XIX.
57 Corbellini a questo proposito cita lo psicologo sociale Leon Festinger: “Una persona con una
convinzione è una persona difficile da cambiare. Ditele che siete in disaccordo con lei, e se
ne andrà. Mostratele fatti e numeri, e metterà in discussione le vostre fonti. Fate ricorso alla
logica, e non sarà in grado di capire il vostro punto di vista”. Gilberto Corbellini, Nel paese
della pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà, Feltrinelli, Milano
2019, p.133.
1.4. Una, centomila, nessuna
Io rifiuto come irrilevante ogni tentativo di scoprire che
cosa “realmente” o “essenzialmente” la “democrazia”
significhi, per esempio traducendo il termine in “gover-
no del popolo”. (Infatti, [...] “il popolo” [...] non si go-
verna mai da se stesso in alcun senso concreto, prati-
co).
Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici

Costituzionale, presidenziale, parlamentare, diretta, rappresentativa, so-


cialista, maggioritaria, partecipativa, plebiscitaria, pluralistica, sono aggettivi
che caratterizzano le contemporanee idee e realizzazioni della democrazia.
Una parola che, se non è accompagnata da almeno uno di questi aggettivi, rie-
sce solo ad apparire un marchio esportabile ovunque, un nome usato come
strumento potente ma vuoto e adatto per tutti gli usi e, proprio per questo,
inutilizzabile.
Ma qualsiasi sia l'aggettivo o gli aggettivi che la definiscono, di una cosa
possiamo essere certi: a partire dall’età moderna la democrazia si basa sulla
concezione individualistica di una società nella quale siano garantiti i diritti in-
violabili del singolo, primi fra tutti quelli derivanti dalle libertà definite inalie-
nabili: il diritto alla vita, alla sicurezza di non essere sottoposto a tortura e di
partecipare al governo del proprio Paese. A questi diritti nessuno può né deve
rinunciare perché sono quelli di cui ogni persona deve godere in quanto appar-
tenente al genere umano. Sono questi i diritti che per primi si sono affermarti
storicamente e sono stati formalmente enunciati nelle Dichiarazioni delle Na-
zioni Unite a partire dal 1948, estesi poi sino a comprendere diritti economici,
associativi e culturali come la sicurezza sociale, l'equità nella retribuzione e
nelle condizioni sul lavoro, la protezione della maternità e dell’infanzia, l’auto-
determinazione dei popoli, la pace, lo sviluppo e la salute.
Capire se uno Stato è governato in modo democratico, a prima vista
sembra anche troppo facile: ci sono dei cittadini liberi, una stampa libera, la di -
visione dei poteri e soprattutto libere elezioni. Ma poiché la democrazia non è
definibile solo da un punto di vista procedurale, appare difficile considerare
una democrazia quella plebiscitaria, che si istituisca tramite elezioni o tramite
acclamazione,58 al di là del favore popolare di cui può temporaneamente gode-

58 Per alcuni così è ancora meglio, perché la volontà del popolo si manifesta direttamente e in
re. Forse sarebbe preferibile considerarla per quello che è, una forma di potere
cesaristico, carismatico e autoritario nel quale un uomo viene “democratica-
mente” eletto e posto al comando. Nazismo e fascismo sono da ritenersi degli
scarti dal percorso di democratizzazione, anche se i leader possono essere stati
voluti dal popolo e per un certo periodo hanno goduto del favore popolare.
Come scarto dal percorso democratico possono essere considerate le attuali
democrature, regimi con forti tendenze cesariste che delle democrazie man-
tengono il nome e gli istituti fondamentali, impoveriti o svuotati di contenuti
sostanziali. Addomesticata dai media, la popolazione mantiene la libertà di
espressione solo all’interno delle coordinate fissate dal regime, che non esita a
intervenire in modo drastico per tacitare il dissenso che ne superi la soglia.
Ci troviamo così di fronte a un problema che riguarda il concetto di de-
mocrazia, ovvero se questa sia da considerare uno status o piuttosto un pro-
cesso, un sogno, un’utopica idea limite priva di possibilità di compiute realizza-
zioni nell’ambito che le è proprio e in altri che a torto non consideriamo pro-
priamente politici ma nei quali la democrazia va o andrebbe estesa. In tale
caso, sarebbe più opportuno parlare di democratizzazione, come ad esempio
fanno György Lukács e Norberto Bobbio59 che considerano le democrazie rea-
lizzate tappe di un percorso e la democrazia l’irraggiungibile meta. In questo
senso, che ci sentiamo di condividere, non si può parlare di democrazia come
sistema compiuto considerando solo l’ambito del diritto pubblico e ammini-
strativo, limitandosi cioè a quella che viene definita democrazia procedimenta-
le.
Il processo di democratizzazione coinvolge anche tanti altri ambiti diver-
si da quello che riguarda il cittadino elettore e le norme costituzionali. Con la
diffusione di un sistema produttivo basato sulla fabbrica, il potere è stato eser-
citato per mezzo di varie forme di controllo, a partire da quello sui corpi: carce-
ri, ospedali, scuole, caserme, sono diventati i luoghi della microfisica del pote-
re disciplinare per indurre nel soggetto il principio dell’obbedienza e fargli ac-
quisire abitudini disciplinatrici compatibili con le regole del modo di produzio-
ne.60 Il potere di governo si è così strutturato in un insieme di meccanismi in -
trinseci ai rapporti sociali e di produzione. È per questo che il diritto alla demo-
crazia deve riguardare l’uomo anche nella quotidianità e nei luoghi della vita
sociale. Sono quegli ambiti che completano quello della democrazia politica, i

modo più immediato.


59 György Lukács, La democrazia della vita quotidiana, manifestolibri, Roma 2013; Norberto
Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1991.
60 Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005.
posti nei quali il potere si è sviluppato in una molteplicità di forme associative
e di istituzioni più o meno totalizzanti, che caratterizzano le società contempo-
ranee in modo così pervasivo da far seriamente dubitare che una democrazia
sostanziale possa instaurarsi solo conquistando la mitica “stanza dei bottoni”.
Certo, acquisire il potere politico è un buon risultato e la presa del Palazzo
d’Inverno mantiene ancora il proprio valore simbolico, ma deve essere solo
l’inizio, se si vuole arrivare arrivare a coinvolgere in maniera non oppressiva
anche l’uomo nella sua totalità.
Per questo, un regime può essere democratico ma sicuramente può es-
serlo di più, mentre regimi che democratici non appaiono potrebbero contene-
re qualche scintilla di democrazia suscettibile di sviluppo e capace di produrre
risultati nella direzione indicata dagli obiettivi di una democrazia reale: la liber-
tà e l’isonomia, intesa come parità di diritti politici e civili a cui si va ad aggiun-
gere la ricerca di un’eguaglianza economica o perlomeno, delle opportunità.
Perciò, per capire se la democratizzazione sta avanzando o retrocedendo, più
che alla percentuale dei votanti si deve guardare se vi siano forme di autono-
ma organizzazione dal basso che cooperano alla determinazione delle scelte
politiche di indirizzo e di dettaglio e alla definizione della priorità di quelle scel-
te. Occorre inoltre verificare quanta e quale tipo di partecipazione abbia con-
tribuito alla formazione del processo decisionale e deliberativo, perché i citta-
dini devono avere a disposizione gli strumenti per poter vivere attivamente la
loro cittadinanza e rendere concreti idee e progetti.
Il neoliberismo contemporaneo ha affiancato ai dispositivi di controllo
dell’età industriale un nuovo tipo di potere che si presenta sempre più permis -
sivo e che “nella sua permissività, anzi nella sua benevolenza, depone la nega -
tività e si offre come libertà”.61 Una forma di potere che ottiene risultati miglio-
ri sfruttando le pratiche e le forme espressive della libertà. Esercita la sorve-
glianza sfruttando la libertà. Subdola e intelligente, la tecnica del potere neoli-
berale esorta all’efficienza e all’auto-ottimizzazione, non sottomette al potere
ma asseconda la sottomissione spontanea, non estorce informazioni ma inco-
raggia l’autoesposizione e la rivelazione volontaria. Non guarda al cittadino,
ma incoraggia il consumatore.
La ragione e la legittimità della forma democratica di governo dovrebbe-
ro avere la capacità di promuovere una comunità di soggetti aperti sul mondo
e capaci di iniziativa; vediamo invece isolati cittadini-consumatori della politica

61 Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere,


Nottetempo, Milano 2016, p. 13.
come prodotto, chiusi nella ristrettezza del proprio Io, esigenti ma passivi
spettatori, capaci di reagire solo criticando o lamentandosi, come fa il consu-
matore di fronte a prodotti o a servizi che non gli piacciono. È la democrazia
stessa che assume caratteristiche nuove, a cominciare dai politici e i loro parti-
ti, che adottano anch’essi la logica del consumo. Organizzati per promuovere
un prodotto, si presentano e vengono considerati dei “fornitori, che devono
soddisfare gli elettori intesi come consumatori o clienti”.62
La partecipazione del cittadino-consumatore non è innovativa e creativa
e la società della trasparenza, popolata da consumatori indisponibili a un co-
mune agire politico, diventa quella che Byung-Chul Han definisce democrazia
degli spettatori, nella quale la richiesta di trasparenza “serve soprattutto a
mettere a nudo i politici, a smascherarli o a suscitare scandalo”, 63 ma non è la
rivendicazione di cittadini impegnati che chiedono partecipazione ai reali pro-
cessi decisionali, bensì l’imperativo di spettatori difficili da accontentare ma
inerti. Sono spettatori che talvolta manifestano indignazione, e motivi per indi-
gnarsi ce ne sono tanti, basta guardarsi intorno, come invita i giovani a fare
Stéphane Hessel, col suo pamphlet Indignez-Vous!. Ma le occasionali vampate
di indignazione, in assenza di un ancoraggio politico, sono destinate a spegner-
si ben presto, senza esiti, nell’indifferenza e nel qualunquismo.
Fondamentale per il processo di democratizzazione è combattere l’isola-
mento culturale dei cittadini favorendo la presenza dei tradizionali luoghi della
democrazia partecipativa, che comprendono tutti quei posti dove le persone si
incontrano e possono dialogare, scambiarsi delle opinioni e, nel rispetto delle
iniziali diversità, mettere a punto regole condivise di comportamento ed even-
tuali obiettivi comuni. Perché la diversità, quando si basa sul reciproco rispetto
e sull’ascolto, ha un elevato valore epistemico. Certo che, spinta all’eccesso,
l’eterogeneità dei fini individuali può portare alla frammentazione, ma resta un
grande valore democratico, ed è per questo che le Costituzioni sono in genere
affiancate da Carte dei diritti, dove vengono tutelati i diritti fondamentali, che
costituiscono la radice che accomuna, il patrimonio condivisibile e da difende-
re.
La diversità è dunque un valore democratico che va riconosciuto e soste-
nuto. Un valore che si manifesta e si mette alla prova in spazi sociali dove le
persone si incontrano e formano gruppi o comunità temporanee, in ogni luogo
e occasione in cui si incrociano argomenti, informazioni e punti di vista ina-

62 Ivi, p. 10.
63 Ivi, p. 11.
spettati. La potenza creativa della diversità arricchisce gli individui e rafforza la
realizzazione del principio della sovranità politica, che non considera le perso -
ne come individui statici, ma come soggetti capaci di evolvere.
1.5. Democrazia, utopia e felicità
Prima infatti le stirpi degli uomini abitavano la
terra del tutto al riparo dal dolore, lontano
dalla dura fatica, lontano dalle crudeli malattie
che recano all'uomo la morte [...] Ma la
donna di sua mano sollevò il grande
coperchio dell'orcio e tutto disperse,
procurando agli uomini sciagure luttuose.
Sola lì rimase Speranza nella casa
infrangibile, dentro, al di sotto del bordo
dell'orcio, né se ne volò fuori [...] E altri mali,
infiniti, vanno errando fra gli uomini."
Esiodo, Le Opere e i Giorni

Il mito ci dice che senza la dea Speranza la vita non è che dolore e scia-
gura, fino a quando Pandora riapre il vaso per far uscire anche Speranza, che
ridà agli uomini una nuova e migliore possibilità di vita. Ma solo questo. Dolo-
re, fatica, povertà, malattie e morte restano ancora ben presenti. E per chi si
sente spaesato in una situazione conflittuale, con una realtà che gli appare im-
possibile mutare e non trova appagante l'attesa della nuova vita che la religio-
ne promette nell'aldilà, cosa c'è di meglio di una visione compensatrice delle
sofferenze che sta vivendo? L'incertezza del presente, che in epoche di crisi si
trasforma in paura del futuro, alimenta la speranza che possa esistere un mon-
do affidabile e sicuro dove tutto accade in modo regolare, prevedibile e senza
afflizioni.
Un bisogno che si è avuto in tutti i tempi, ma che si accentua quando le
relazioni di viaggio nell'epoca delle grandi scoperte geografiche accendono
l'immaginazione. I racconti dell'esistenza di inaspettati popoli contribuiscono a
mettere in discussione le organizzazioni sociali contemporanee e forniscono
prove che è possibile un diverso modo di vivere. Ed è sufficiente aggiungere un
po' di lavoro di fantasia per creare l'immagine di un luogo fuori dal tempo e
dallo spazio: Utopia, il buon luogo che non c'è. Così lo definisce Thomas More
nel 1516 nel titolo alla sua opera più famosa.
Utopia è il sogno ma è anche il modello di un mondo in cui l'uomo ha
saputo risolvere le sue inquietudini e liberarsi da oscure e imprevedibili minac-
ce, incertezze e paure. Un mondo nel quale non esistono più i mali che deriva-
no dall'intrinseca insufficienza strutturale del reale; un mondo che propone un
vivere sociale fuori dal tempo. C’è nostalgia del passato ma anche anticipazio-
ne di un auspicabile avvenire; immaginario superamento del presente, della
sua irrazionalità e delle sue miserie e prefigurazione di un domani tanto mera-
viglioso quanto difficile da raggiungere. È un mondo nuovo, immobile in un
eterno presente, fissato come in una fotografia nel modo in cui lo descrivono i
viaggiatori o i sognatori. Ma è anche immagine che può rovesciarsi nell'orribile
visione di un avvenire di sgomento o di terrore. Diventa allora distopia, utopia
negativa, che mostra un possibile futuro da incubo, prodotto dall'uso scriteria -
to della scienza o frutto dello sviluppo fino alle estreme conseguenze di paure
latenti nel presente.
Pur non fornendo concreti elementi di progettualità, le utopie dell'Età
contemporanea hanno espresso la dimensione escatologica del progetto di un
mondo nuovo e ne auspicavano la realizzazione, avendone magari già ricono-
sciuto presenti gli indizi, sia pure allo stato embrionale. Proprio per questo, sin
dal Rinascimento le utopie hanno costituito un decisivo fattore propulsivo del
processo politico che quel mondo, pensato come possibile, voleva realizzare.
Alla fine del XIX secolo l'idea della forza attrattiva dell'utopia si è radicata così a
fondo nel senso comune che alcuni l'hanno considerata la forza propulsiva del
progresso, visto come una continua corsa da un'utopia all'altra e manifestazio-
ne della capacità degli uomini di fare grandi cose, a partire dall’abilità di creare
e credere a narrazioni immaginarie.
Ora però si è persa la fiducia nella possibilità un mondo migliore e diver -
so. Digitando “utopia” su Google escono in un secondo circa 155.000.000 risul-
tati.64 Questo oggi, maggio 2022, perché nel 2005, quando Bauman fa questa
ricerca, ne escono 4.400.000.65 Il termine appare dunque vitale ma al significa-
to originario adesso è accostata e prevale una nuova accezione. Utopia non co-
stituisce più il punto d'arrivo di un progresso che porta al miglioramento col-
lettivo, perché il progresso non solo ha perso molto del suo fascino, ma a molti
appare una minaccia incombente, un percorso verso un futuro da evitare. Vi
domina il timore che aggravi l'incertezza e l'insicurezza del presente. Fa presa-
gire più pericoli che vantaggi. L'obiettivo diventa allora la sopravvivenza indivi-
duale, la personale ricerca di riuscire a mantenere quello che ognuno è riuscito
a ottenere, per quanto poco possa essere. L'Utopia ha perso la sua forza di
propulsione sociale e, in un mondo rimasto senza utopie positive, le democra-

64 Risultato che può variare notevolmente in base alla personalizzazione dell’algoritmo di Goo-
gle.
65 Zigmunt Bauman,Modus vivendi: Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Roma-Bari
2007, p. 116.
zie vivono una crisi più di performance che di legittimità, proprio quando sem-
bravano indiscutibilmente vincenti di fronte al fallimento dei tentativi attuati
nel XX secolo di realizzare, su visioni piuttosto distopiche, un mondo nuovo.
Ma la dissoluzione delle utopie non può intaccare la propensione
dell’uomo verso l’unico fine che non può scegliere, che gli si impone senza rin-
viare a qualcos’altro: la ricerca della felicità, perché è questa che “regge come
principio e fine tutta la vita dell'uomo e l'uomo tutto vede alla luce della felici-
tà o nella luce di una delle molte prospettive che essa dischiude”. 66 Il bene che
gli uomini perseguono, qualsiasi esso sia, non può che essere uno strumento
per raggiungere la felicità, non certo un fine in sé, e “ciò che l'uomo ricerca
come fine ultimo è anche il principio che governa questa stessa ricerca”. 67
La felicità che oggi si ricerca è diversa dalla libertà, il bene più grande di
cui può godere il cittadino della democrazia che Platone definisce una “piace-
vole forma di stato anarchica e variopinta, distribuente una certa qual ugua-
glianza a uguali e disuguali”.68 E ciononostante le rimprovera di consentire a
ciascuno di organizzarsi un suo particolare modo di vita, quello che più gli pia -
ce, facendo sì che tutti, assetati di libertà, si dirigano inconsapevoli verso la ti-
rannide.
Ed è ben diversa anche dallo stato di tranquillità interiore che caratteriz-
za l’uomo felice aristotelico, il virtuoso la cui vita, una volta al sicuro dalle in-
certezze della sorte, realizza, per quanto possibile, l’umana perfezione soltanto
all’interno della comunità. Per Aristotele però “una rondine non fa primave-
ra”,69 la felicità non può durare un attimo ed è contraddistinta dalla continuità
con cui l’uomo virtuoso realizza l’attività della parte razionale dell’anima, quel-
la che connota una vita propriamente umana. Ed è proprio perché “la felicità
consiste in un’attività”70 [che] per l’uomo solitario la vita è difficile” e solo la
frequentazione di altri uomini buoni gliela può rendere facile e piacevole.
L’uomo di valore infatti, “gode delle azioni conformi a virtù, mentre soffre per
le azioni derivanti dal vizio […] E dalla vita in compagnia con gli uomini buoni
può derivare pure un certo esercizio della virtù.” 71
Ma questo poteva accadere solo nel lontano e idealizzato mondo aristo-
telico. Per noi, abitanti del XXI secolo, meglio si addice l’accezione di felicità

66 Alessandro Biral, Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 139.


67 Ivi, p. 138.
68 Platone, Repubblica, vol. II, Bur, Milano, 1993, libro VIII, 558c, p. 300.
69 Aristotele, Etica Nicomachea, Rusconi, Milano, 1993, 1098a, p. 67.
70 Ivi, 1169b e segg., p. 361.
71 Ibid.
terrena data da Thomas Hobbes, che la definisce “il continuo successo
nell'ottenere quelle cose che di volta in volta si desiderano, vale a dire la conti-
nua riuscita”.72 Dissolta la possibilità di pieno e compiuto godimento, di conse-
guimento di uno status felice che solo il mondo premoderno poteva promette-
re, la felicità ora si frammenta e si trasforma nell’inquietudine di una vita che
non è altro che un’insensata corsa verso obiettivi sempre più avanzati. Essere
felici significa riuscire a superare qualcuno che ci sta davanti, mentre l’essere
superati è fonte di infelicità, in una corsa senza meta cui solo la morte mette
fine.73
Incalzato da appetiti che continuamente gli prospettano il desiderio di
ulteriori beni, l’uomo hobbesiano è in un perenne stato di incertezza, inquietu-
dine e ansia nei confronti del futuro. Il suo unico vero fine è il raggiungimento
dell’oggetto di volta in volta desiderato, che in alcuni casi può diventare un
mezzo per un fine più lontano. Ma non c’è quel “fine ultimo, in cui gli antichi fi-
losofi hanno posto la felicità […] non v’è una tal cosa a questo mondo, né una
via per essa, più che per Utopia: infatti finché viviamo abbiamo dei desideri, e
un desiderio presuppone un fine più lontano”. 74 La felicità del raggiungimento
è infatti immediatamente offuscata dalla mira di un ulteriore traguardo. Incal-
zato dai desideri l’uomo non può far altro che “continuare a desiderare […per
questo] quanto più gli uomini ottengono ricchezze, onori o altro potere, tanto
più il loro appetito continuamente cresce […] e la felicità […] consiste non
nell’aver prosperato, ma nel prosperare”. 75
Cancellata anche l’illusione delle utopie, che per molti si riduceva solo
alla speranza di miglioramento di un difficile presente, al mondo contempora-
neo non restano che le hobbesiane aspettative di felicità. Il luogo cui le utopie
si sarebbero potute realizzare non esiste più e il presente che queste invitava -
no a superare appare spesso più appetibile di un futuro denso di minacce.
Nel suo isolamento, l’individuo perde la capacità di “sognare il futuro”,
al punto che spesso gli sembra illusoria qualsiasi ricetta di miglioramento della
sua condizione. Preferisce girarsi verso retrotopie, nostalgiche e rassicuranti
idealizzazioni di un passato perduto ma non ancora morto, prive di una qual-

72 “Continual Successe in obtaining those things which a man from time to time desireth, that
is to say, continuall (sic) prospering, is that men call FELICITY” (corsivo e maiuscolo nel
testo),Thomas Hobbes, Leviathan, Everyman’s Library, New Yok 1976, p. 30.
73 Thomas Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 75-
76.
74 Ivi, p. 51.
75 Ivi, p. 52.
siasi prospettiva futura. La fiducia e la speranza lasciano il posto a un diffuso
sentimento di nostalgia. Il passato viene idealizzato come un luogo di affidabi-
lità e stabilità, al contrario dell'instabilità, incertezza e insicurezza (non solo
esistenziale, ma per molti anche fisica) del futuro. Sulle antiche paure scende
l'oblio, mentre le nuove si ingigantiscono. In mancanza di credibili alternative,
viene in genere preferito il presente, le cui difficoltà hanno almeno il vantaggio
di essere note. Hanno perduto il loro principale presupposto, la speranza nel
futuro, anche i partiti, soprattutto quelli che si erano presentati come i porta-
tori delle moderne religioni di salvezza terrena, possibili agenti di una raziona-
lizzazione miglioratrice della società.
Riducendo il più possibile il ruolo della politica in nome delle dottrine
neoliberali, le democrazie occidentali hanno vinto la sfida del secondo millen-
nio lanciata dai tentativi di costruire una società basata sui principi del sociali-
smo reale. Per il buon andamento della comunità ritengono sufficienti il mer-
cato e le sue leggi: basta assecondarli ed eventualmente fare qualche lieve ag-
giustamento. Con queste premesse è ovvio che la politica si svalorizzi e perda
energia. Oltre a mostrare poca incisività di fronte ai problemi di carattere loca-
le e insignificanza nei confronti dei grandi temi del presente, è di scarso aiuto
anche nel combattere il diffuso sentimento di incertezza e di insicurezza. Spes-
so infatti anche le norme adottate per mitigare gli effetti della disgregazione
sociale finiscono per accrescere l'isolamento dei cittadini e alimentano il so-
spetto di oscuri interessi dei “poteri forti” che permeano qualsiasi ambito e
contro i quali ogni discussione è inutile.
Si dissolve così quel comune terreno di dialogo che la pratica politica do-
vrebbe garantire e ogni punto di vista differente non viene più ritenuto
un’argomentazione da comprendere, ma un cavilloso paralogismo da combat-
tere. Le argomentazioni razionali sono sostituite da epiteti e da insulti che au-
mentano diffidenza e divisione e si alimenta la disgregazione delle comunità.
Ed è soprattutto il declino di queste che minaccia il futuro della democrazia
creando condizioni favorevoli all’avanzare dell'antipolitica. Una strisciante rivo-
luzione conservatrice che reclama la necessità di un'azione veloce e produttiva
di risultati, bypassa la politica con i suoi rituali, le sue procedure e i suoi meto-
di ritenuti inutili fonti di lungaggini, e guarda alle più diverse forme di demo-
crature, le democrazie illiberali, delle quali ammira l’efficienza.
1.6. Opinione pubblica e Intellettuali
Gli intellettuali possono influire sul formarsi delle opinioni soltan-
to quando sono ben collegati a una opinione pubblica vigile e in-
formata, capace di farsi cassa di risonanza. … Appartengono a
un mondo dove la politica non si risolve nell’attività statale; il
loro mondo è una cultura politica della contraddizione, nella
quale possono essere scatenate e mobilitate le libertà di comuni-
cazione dei cittadini.
Jürgen Habermas, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa

Nel 1922 Walter Lippman scrive che “in qualsiasi società che non sia tal-
mente assorbita nei suoi interessi né tanto piccola, che tutti siano in grado di
sapere tutto su ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del
campo visuale dell’individuo, e che per di più sono difficili da comprendere”. 76
Questo significa che le azioni, ma forse è meglio parlare di reazioni, che l’indi-
viduo compie non si fondano su informazioni provenienti direttamente
dall’ambiente, ma si basano su immagini dell’ambiente che lo stesso individuo
si crea o che gli vengono fornite e che costituiscono uno pseudo-ambiente col-
locato tra la mente dell’individuo e l’ambiente reale in cui l’individuo stesso
agisce.77 Anche gli affari pubblici si basano quindi sulle immagini “di se stessi,
di altri, delle loro esigenze, dei loro intenti e dei loro rapporti”, 78 vale a dire su
rappresentazioni di “realtà indirette, non viste e sconcertanti [...] Le situazioni
a cui si riferiscono le opinioni pubbliche sono note solo come opinioni”. 79 In
senso proprio, Lippman definisce l’Opinione Pubblica (quella con le maiuscole)
come l’insieme di “immagini in base a cui agiscono gruppi di persone o indivi -
dui che agiscono in nome di gruppi”.80
La sua definizione di opinione pubblica è importante perché su di essa si
fonda la teoria e la prassi della propaganda, che fa leva sul fatto che i messaggi
provenienti dall’esterno possano essere influenzati o stravolti dalle “immagini
riposte nella mente, dai preconcetti e dai pregiudizi”. 81 Ma dalla definizione
non emerge la pluralità di significati generati storicamente dell’aggettivo pub-
blico, i quali possono portare a equivoci se applicati sincronicamente al mondo

76 Walter Lippman, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 1995, p. 15.


77 Non per caso il cap. I del libro è preceduto da una lunga citazione da Platone, Repubblica, li-
bro VII, 514a e segg., dove Platone racconta il mito della caverna.
78 Walter Lippman, L’opinione pubblica, cit., p. 30.
79 Ivi, p. 28.
80 Ivi, p. 30.
81 Ibid.
in cui viviamo.
Da un lato, si definisce pubblico ciò che è accessibile a tutti, a differenza
di ciò che è privato.82 Dall’altro, quando si riferisce alla reputazione di un sog-
getto o alla pubblica opinione si riconnette ai significati di “pubblicità, pubbli-
care [...] soggetto di questa sfera pubblica è il pubblico quale depositario della
pubblica opinione”.83
Pubblico finisce poi per diventare anche affine a statale cui fa da con-
trappunto la società civile le cui “attività e dipendenze [...] oltrepassano la so-
glia della sfera domestica per vedere la luce nella sfera pubblica”. Le condizioni
dello sviluppo economico “sono per la prima volta di interesse generale” 84 e
assumono una veste pubblica nella quale il pubblico interesse della sfera priva-
ta della società civile è preso in considerazione come interesse proprio e non
più come oggetto di cura esclusiva da parte del governo.
La società civile, inizialmente composta da nobili e borghesi d’ancien ré-
gime, si arricchisce di uno strato di “«borghesi», che assumono una collocazio-
ne centrale in seno al «pubblico»”.85 È un nuovo raggruppamento sociale di
giuristi, impiegati dell’amministrazione statale, medici, parroci, ufficiali e pro-
fessori: il pubblico dei "dotti" che arriva a includere anche il popolo e comincia
a contrapporsi allo Stato assumendo un atteggiamento critico che manifesta
attraverso la stampa. La voce dell’opinione diventa allora pubblica, collettiva e
mantiene in sé la bivalenza della filosofica doxa e di reputation “la fama, la
considerazione, quello che si rappresenta nell’opinione degli altri”. 86
È a questa opinione che si rivolgono i seicenteschi savants, gli studiosi
con diverse competenze che vogliono mettere al servizio della collettività.
Sono le persone istruite che possiedono un sapere “superiore” e che per que-
sto sentono l’obbligo morale e si ritengono in diritto di guidare la società indi-
rizzando le azioni dei governanti e del popolo. E i loro eredi, i philosophes del
movimento illuminista uniti tra loro da una fitta rete di comunicazioni, rivendi-
cano - e viene loro riconosciuta - un'autorità collettiva politica, morale ed este-

82 In senso ampio, ciò che si riferisce alla sfera personale ritenuta irrilevante ai fini dell’agire
politico.
83 Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari-Roma 1974, p. 4. Alla
funzione critica dell’opinione pubblica si riferisce, ad esempio, il carattere pubblico dei di -
battiti processuali mentre nell’ambito dei mass media la pubblicità diventa attributo di colui
che attira su di sé l’opinione pubblica.
84 Ivi, p. 32.
85 Ivi, p. 36.
86 Ivi, p. 112.
tica con prospettive globali, una sorta di Super-Io sociale, fondato su un nucleo
di valori condivisi, che diventano alternativi a quelli tradizionali. Nel corso del
XVIII secolo questi cosmopoliti cittadini della république des lettres guidano
l’opinione pubblica nella lotta contro l’oscurantismo, per la rigenerazione dei
costumi, l’affermazione della ragione e il progresso dei Lumi. Ma la dimensione
dell’opinione pubblica è ancora sostanzialmente letteraria, rimane all’interno
della ristretta cerchia dei dotti. È solo con la Rivoluzione francese, nello stadio
“legato al nome di Robespierre [che] entra in funzione, diciamo così per un
istante, una dimensione pubblica che ha dimesso la sua veste letteraria; il suo
soggetto non sono più i ceti colti, ma il volgo incolto”.87
Con la Rivoluzione le masse fanno irruzione nella politica attiva: il popo-
lo degli illetterati è un pubblico certamente razionale e capace di giudizio, ma
bisognoso di guida. Di questo erano consapevoli Condorcet, Sieyès e Duhamel
che nell’aprile del 1793, dal cuore della Rivoluzione francese, scrivono nella
presentazione del primo numero del Journal d'Instruction Sociale:
ogni società che non è illuminata dai filosofi, è ingannata dai ciarlatani.
Qui non possiamo che combatterne una specie: i ciarlatani politici. Non
tutti sono dei Cesari o dei Cromwel [sic], ma per combinare dei disastri
in questo campo è sufficiente un mediocre talento e spesso anche poco
impegno. Tutti seguono lo stesso percorso, tutti vogliono essere i favoriti
del popolo, per divenirne i tiranni. Tutti calunniano la virtù, fino a quan -
do non hanno il potere di sopprimerla. Tutti odiano i talenti che non si
umiliano a servirli. Tutti temono che si diffondano i lumi, perché non
possono vincere che combattendo nelle tenebre. Uno dei primi doveri
degli scrittori che si sacrificano alla causa della verità e della patria è di
mostrare al popolo le trappole in cui questi uomini vogliono catturarlo. 88
Da uomini dell’Illuminismo quali sono, attualizzano la concezione del
buon governo esposta da Platone nel dialogo Repubblica in uno slogan d’effet-
to che collega illuminismo, tenebre e politica. Eredi dei savants, dei quali rac-
colgono ed enfatizzano lo spirito, gli Illuministi sono quelli che Julien Benda
chiama chierici contrapponendoli al mondo laico che persegue interessi con-
creti e non ha tempo o capacità di dedicarsi al pensiero, alle scienze o alle arti.
Sono quei dotti la cui attività, per natura, non persegue fini pratici ma che, cer-
cando la soddisfazione nell’esercizio dell’arte, della scienza o della speculazio-
ne metafisica, hanno un atteggiamento di formale opposizione al realismo del -
le masse e di distacco nei confronti delle passioni politiche.
87 Ivi, p. 8.
88 https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k97249/f14.item.r=condorcet%20Sieyès, pp. 9-10, tra-
duzione mia.
Anche per loro i fatti del 1789 costituiscono un contesto inaspettato, che
fa capire che la rivoluzione non è un evento prodotto da cause naturali, al qua -
le ci si può solo adeguare e portatore di cambiamenti secondo lo schema
dell’anaciclosi della Grecia classica. Sarà la stessa prassi rivoluzionaria a mo-
strare loro che la rivoluzione può, e anzi deve, essere progettata e che il suo
obiettivo non può limitarsi al cambiamento di un regime politico, ma deve
coinvolgere anche l’ambito socio-economico ed essere capace di portare a un
totale rinnovamento dell’uomo. I rivoluzionari capiscono che la rivoluzione
non può camminare da sola, che ha bisogno di guide illuminate che sappiano
progettarne e guidarne il percorso. La rivoluzione ha ora bisogno degli intel-
lettuali89 che, per questo, hanno cominciato a stampare il loro Journal.
Le ondate rivoluzionarie si infrangono ben presto nel Direttorio e con la
Restaurazione tramonta l’Illuminismo e con esso i philosophes. Ma anche il
consolidamento della prima rivoluzione industriale e l’avvio della seconda ne-
cessitano di guide capaci. Da una parte, nelle fabbriche si attua una netta se-
parazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e questo richiede nuove
forme organizzative delle forze produttive e di disciplina delle masse contadine
che si trasformano in manodopera industriale. Dall’altra, anche gli operai han-
no bisogno di organizzarsi, elaborare teorie di emancipazione e di individuare
delle figure che li guidino verso migliori condizioni di lavoro e di vita. Il termine
intellettuale va a designare queste figure emergenti che gestiscono le nuove
dinamiche e che assumono così il ruolo di rilevanza politico-culturale che era
stato dei philosophes. Il termine fa la sua comparsa in Francia nella seconda
metà del XIX secolo e si afferma diffondendosi quando scoppia il caso Drey-
fus.90 Viene allora definitivamente abbandonato il termine settecentesco philo-
sophe, troppo legato alla vecchia classe dominante e poco adatto a connotare
questa nuova forza politica inizialmente composta da uomini di cultura e pro-
fessionisti, i dreyfusards, coagulati intorno al J’accuse di Zola, tanto più che ora
la filosofia tende a separarsi dalla società, si annida nelle università e si fram-
menta in una pluralità di discipline accademiche.
Come afferma Ayn Rand, “l’uomo d’affari e l’intellettuale di professione
sono venuti alla luce assieme, come fratelli nati dalla rivoluzione industriale.
89 Nascono in questo periodo i primi rivoluzionari di professione, la cui sorte è direttamente
legata alla rivoluzione. Il XIX secolo vedrà la nuova figura del rivoluzionario senza rivoluzio -
ne che si dedica alla progettazione delle rivoluzioni.
90 Il caso si apre nel 1894 e riguarda l’ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionag-
gio. La successiva campagna mediatica che ne proclama l’innocenza assume rilevanza politi-
ca e la forte opinione pubblica innocentista riesce a ottenere la revisione del processo e la
successiva assoluzione dell’imputato.
Sono entrambi figli del capitalismo e, se periranno, periranno insieme”.91 E, per
certi versi, così è stato. Non è certo scomparso il capitalismo, ma è quel tipo di
capitalismo a non essere più dominante: il capitalismo industriale si è trasfor-
mato, ha trovato una nuova vita assumendo forme compatibili e funzionali con
la globalizzazione produttiva e finanziaria. Mentre molta parte dell’élite intel-
lettuale novecentesca è rimasta arroccata sui vecchi schemi e sul nuovo terre-
no fatica a muoversi.
Collocandosi al di sopra degli interessi settoriali del proprio ambito pro-
fessionale o artistico e svincolati da ogni tradizione locale o comunitaria, gli in-
tellettuali hanno elaborato e diffuso un sapere universalistico ed extraterrito-
riale. La loro azione ha orientato il legame collettivo, definendone il funziona-
mento e scrivendone le leggi, quando necessario anche di ordine morale, e tal-
volta in aperto contrasto con un altro Super-Io legislativo sociale, quello reli-
gioso.92 Spesso privi di potere e responsabilità, si sono collocati ai vertici della
politica grazie all’autorità che derivava loro soprattutto dalla capacità di padro-
neggiare il sapere e i nuovi media. E si sono mostrati abili a promuovere le loro
idee attraverso coinvolgenti campagne informative utilizzando ogni tipo di me-
dia, ma soprattutto, per mezzo dei partiti politici.
Come i philosophes si rivolgevano ai sovrani, così i nuovi intellettuali si
rivolgono principalmente ai partiti, il nuovo despota a cui forniscono idee e
consigli e col quale molti di loro stabiliscono un rapporto organico, in quanto
legati da una comunità di interessi politici.
Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino. Con la disgregazione del
blocco dei Paesi del Socialismo reale e il palese insuccesso del tentativo di rea-
lizzare il sogno socialista si dissolve anche l'utopia che gli stava alla base. Si
chiude così un'epoca di grandi conflitti ideologici e dell’egemonia culturale del-
la sinistra, e si spalancano le porte alla globalizzazione. Capitalismo e neolibe-
ralismo appaiono vincenti; non solo scompare la figura dell’intellettuale orga-
nico,93 ma anche la stessa funzione dell’intellettuale non sembra più risponde-

91 “The professional businessman and the professional Intellectual came into existence to-
gether, as brothers born of the industrial revolution. Both are the sons of capitalism — and
if they perish, they will perish together”, Ayn Rand, For the New Intellectual, Random Hou-
se, New York 1961, p. 9.
92 Écrasez l’Infâme, schiacciate l’infame, ovvero il fanatismo delle religioni, scriveva Voltaire
alla fine delle sue lettere al tempo della campagna illuminista contro l’intolleranza e la su-
perstizione.
93 Per Gramsci il nuovo intellettuale non è un “puro oratore”, capace di suscitare affetti e pas-
sioni momentanee, bensì un “costruttore, organizzatore, persuasore permanentemente …
[che] dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica,
re ai problemi irrisolti delle democrazie liberali. Sono punti critici rimasti sullo
sfondo durante il periodo della contrapposizione dei blocchi e dello sviluppo
economico e industriale del dopoguerra, quando intere nazioni sono riuscite a
raggiungere “i livelli minimi di prodotto interno lordo pro capite che i sociologi
e gli economisti ritengono un requisito necessario per far nascere e rendere
stabile una democrazia”.94 E soprattutto quando in molti ormai si rendono con-
to che, come aveva scritto Edward L. Bernays poco prima della Grande depres-
sione,
la manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitu-
dini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica,
coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un
potere invisibile che dirige veramente il paese. Noi siamo in gran parte
governati da uomini di cui ignoriamo tutto, ma che sono in grado di pla-
smare la nostra mentalità, orientare i nostri gusti, suggerirci cosa pensa-
re.95
Nel mondo globalizzato gli intellettuali faticano a trovare una collocazio-
ne e un linguaggio per farsi ascoltare, capire e seguire. Inizialmente la televi-
sione si presenta come il nuovo intellettuale collettivo, con un linguaggio più
semplice e immediato, fatto di immagini. Gradualmente va a sostituire la paro-
la stampata e, come rileva Jürgen Habermas, “essendo un medium che rende
visibile qualcosa, la televisione fa diventare importanti coloro che compaiono
pubblicamente, nel senso che li rende notori”. 96 La scena televisiva, dove tutti
rappresentano se stessi, costituisce quindi un potente stimolo per la “patologi-
ca vanità di certi intellettuali”, 97 dimentichi che quel palcoscenico porta alla de-
differenziazione e all’equiparazione dei ruoli.
In quella sede l’intellettuale, che non viene consultato in quanto esper-
to, dovrebbe saper prendere posizione su questioni normative e delineare pro-
spettive ricche di spunti nuovi per distinguersi dagli esperti frequentatori dei
senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico)”.
Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Editori Riuniti, Roma 1971,
p.18.
94 Assieme a una molteplicità di fattori strutturali, socio-economici e culturali. Cfr. Gilberto
Corbellini, Scienza, quindi democrazia, cit., p. XIV.
95 Edward L. Bernays, Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia,
Fausto Lupetti, Bologna 2013, p. 9. Nipote di Freud, Bernays nel 1917 partecipa con Walter
Lippman al Creel Comittee, la prima agenzia di propaganda di Stato creata dal governo ame-
ricano per convincere l’opinione pubblica contraria a scendere in campo che la cosa giusta
era dichiarare guerra agli imperi centrali.
96 Jürgen Habermas, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, cit., p. 9.
97 Ivi, p. 10.
salotti televisivi avvalendosi dell’unica capacità che ancor oggi lo dovrebbe
contraddistinguere: “il fiuto avanguardistico per ciò che conta. Egli deve saper-
si preoccupare per gli sviluppi critici quando gli altri percepiscono ancora un
business as usual”.98
La rivoluzione del digitale, del Web coi suoi social, supera la passività dei
telespettatori che si trasformano in internauti con possibilità di esprimersi e far
circolare le proprie opinioni. E l’intellettuale diventa obsoleto, si riduce a svol-
gere la funzione di interprete che traduce ”affermazioni, fatte all'interno di una
tradizione fondata sulla comunità, in modo tale che possano essere capite
all'interno del sistema di conoscenza basato su di un'altra tradizione”. 99 Un
ruolo non certo trascurabile, perché
c'è bisogno (o così si spera) di qualcuno che garantisca le regole che han-
no guidato la lettura del significato e che hanno in tal modo reso valida o
autorevole l'interpretazione [...] ma la strategia dell'interpretazione dif-
ferisce da tutte le strategie di legislazione per un aspetto fondamentale:
essa abbandona apertamente, o tralascia come irrilevante rispetto al
compito immediato, il presupposto della universalità di verità, giudizio o
gusto.100
Dal punto di vista etico e politico, oggi stiamo vivendo in una notte in cui
tutti i gatti ci sembrano grigi. La luce che l'Illuminismo aveva acceso appare
lontana, non brilla più e questo rende difficile individuare i ciarlatani della poli-
tica, che sembrano avere vita facile. Tutto è rapidamente mutato, dai sistemi
produttivi nazionali che hanno dovuto fare i conti con la globalizzazione, ai
partiti che hanno iniziato a subire le conseguenza dell’antipolitica. E gli intel-
lettuali, soprattutto quelli che si erano dedicati alla politica militante della sini-
stra, assieme all'utopia socialista perdono anche un importante punto di riferi-
mento sociale: il mondo operaio. Si erano attribuiti il compito storico di libera-
re il proletariato dalle sue catene, e adesso guardano con sbigottimento quello
che consideravano il loro popolo rivolgersi ad altri leader, con i quali intrattiene
un rapporto puramente emotivo, apparentemente privo di motivazioni razio-
nali, senza peraltro riuscire a esprimere che una paternalistica comprensione
per un comportamento che non vogliono o non riescono ad analizzare politica-
mente.
Molti vecchi e nuovi poveri, molti lavoratori hanno loro voltato le spalle

98 Ivi, p. 11 (corsivo nel testo).


99 Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Borin-
ghieri 2007, p. 15.
100 Ivi, pp. 221-222.
e si affiancano a quei ricchi e a quelle destre che non considerano più contro-
parte. Al contrario, la controparte sembrano essere diventati proprio loro,
identificati come una casta separata ed egoista, che parla una lingua incom-
prensibile alle periferie, i luoghi metaforici dell’emarginazione, della gente lon-
tana dal potere. Con i dovuti distinguo, sembra proprio la versione volgarizzata
della critica che Rousseau rivolgeva a Voltaire e ai philosophes, mondani alleati
delle élite al potere, che parlano in nome di una astratta ragione, senza mini-
mamente considerare le emozioni che agitano l’anima e il corpo dell’uomo.
Per circa un secolo la funzione di legame tra élite di governo e cittadini,
tra popolo e politica è stata svolta dal sistema dei partiti politici: anche se solo
in minima parte sono stati palestre per la selezione e la formazione della classe
dirigente, punto di collegamento tra eletti ed elettori e hanno gestito il difficile
rapporto tra politica e cultura. Ma con il loro indebolimento, il personale politi-
co appare sempre più scadente, spesso a livelli di imbarazzante improvvisazio-
ne e mediocrità. E anche questo gioca a favore della crescita dell’antipolitica.
Nel mondo della globalizzazione e della cultura di massa, la funzione di
raccordo è stata raccolta dalla nuova meta-autorità, i gestori del web che attra-
verso algoritmi determinano criteri di giudizio e consensi: un mercato costruito
con metodi “oggettivi” di valutazione quantitativa, misurata quotidianamente
ed espressa da cittadini-consumatori che sono spinti a scegliere tra opzioni
spesso proposte come equivalenti, qualsiasi sia la fonte di provenienza. È sfu-
mato il principio di autorevolezza della fonte, sostituito dalla pulsione indivi-
duale. Non è più il consenso dei philosophes o dei cittadini, ma è appunto
quello di consumatori, nemmeno tanto attrezzati.
Si prospetta un quadro desolante, dove anche l’ambito più prettamente
artistico e culturale è ridotto alla marginalità. Nella loro autoreferenzialità i
partiti sembrano non percepire più quanto possa essere importante l'apporto
della cultura anche per lo sviluppo sociale ed economico. Regna quello che
Asor Rosa definisce “il grande silenzio” e il rapporto tra politica e cultura che
nel nostro paese “è stato molto forte fin dal principio della storia unitaria [...] è
andato lentamente polverizzandosi lasciando un vuoto enorme sia nell'agone
politico sia nella sfera dell'intellettualità, frammentata in monadi poco comuni-
canti tra loro e separate dal resto della società”. 101
Ma forse il silenzio che regna in quel vuoto non è proprio tale, forse è
solo la nostra inidoneità a percepire le nuove voci che stanno nascendo, che si

101 Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali , Laterza, Roma-Bari 2009,
pp. 6-7.
esprimono su frequenze fuori dalla nostra capacità uditiva. Il mondo globaliz-
zato e informatizzato ha un nuovo modo di esprimersi, che gli è peculiare. E se
è vero, come afferma McLuhan, che il medium è il messaggio,102 dobbiamo ac-
cettare l’idea che il Web ci abbia cambiato e ci stia cambiando, o più precisa-
mente, stia cambiando radicalmente il modo di acquisire le informazioni e, di
conseguenza, anche il modo di pensare. Perché, il medium non è un neutro
portatore di messaggi ma opera nelle nostre menti e le trasforma. È accaduto
con tutti i media che si sono succeduti, a cominciare dalla stampa a caratteri
mobili. Tutti hanno cambiato il nostro stesso modo di pensare e adesso il Web,
che ha reso possibile la navigazione nella rete coi suoi link ipertestuali, lo ha
anche sganciato dalla tirannia che il testo scritto esercitava sui nostri pensieri e
sensi.
L’introduzione delle nuove tecnologie, che riescono a trasformare i con-
cetti e andare oltre a radicati modi di pensare e di agire, determina anche un
cambiamento di valori.103 E il Web è un medium nuovo e straordinariamente
potente che non solo sta trasformando il modo con cui apprendiamo, ma sta
anche formando una nuova élite culturale.
Internet ha ampliato enormemente la dimensione mediatica pubblica,
veicolando un volume e una pluralità di servizi e dati ancora inconcepibili fino
a pochi anni fa. Si è così destrutturata la sfera pubblica, si sono livellati i ruoli,
si sono ampliati i contesti comunicativi e si manifesta un notevole potenziale
sovversivo: tutti possono accedere a contenuti decentralizzati e indistintamen-
te occuparsi degli stessi temi in un’atmosfera di generale egualitarismo. Ovvio
che in questo contesto il contributo degli intellettuali perda forza e valore e ne
tragga vantaggio una nuova élite, capace di elaborare un differente sapere di
massa, che privilegia la velocità all’approfondimento e si accosta in maniera di-
versa anche alla politica, superando gli antichi schemi rigidi e inadatti alle re-
gole del mondo nuovo.
Separata dalla cultura e svuotata della sua carica ideale, la politica tende
a diventare o per lo meno ad essere percepita come pura macchina di potere
in mano a pochi, sempre più lontana, assente e facilmente aggredibile dalla
corruzione; un ambiente dove si muovono a proprio agio le lobby a difesa dei
propri interessi, e dove gruppi di arrivisti e profittatori si battono per occupare

102 Marshall Mcluhan, Gli strumenti del comunicare, Donzelli, Roma 2008.
103 A titolo di esempio si pensi a come l’introduzione delle armi da fuoco abbia trasformato la
stessa idea di guerra, che da antico gioco crudele di duellanti che combattono alla pari di-
venta una corsa al potenziamento di strumenti per la distruzione del nemico, moralmente
dequalificato.
le posizioni di maggior vantaggio. Si diffonde così un forte senso di smarrimen-
to, e molte forme di autorità perdono fiducia e credibilità. Sfuma anche il Su-
per-Io sociale, facendo venir meno i modelli di comportamento un tempo per
gran parte condivisi e rispettati.
L'attenuarsi della funzione normativa ed educativa fa cadere proibizioni,
norme sociali e censure, assieme agli ideali trasmessi tradizionalmente dalla
famiglia e dalla società, mentre attraverso il Web vengono proposti spesso in
maniera aggressiva valori diversi su cui si costruiscono consensi tanto vasti
quanto momentanei. Da qui origina il disorientamento nell'individuo, perché
non è facile trovare un equilibrio in una società che non fornisce una gerarchia
di valori su cui fondare il rispetto di regole di comportamento comuni. Una
norma etica non può fondarsi solo sull'obbligo dell'obbedienza, richiede piut-
tosto il riconoscimento di una vera auctoritas legittimata non solo formalmen-
te all’esercizio del potere. Ha bisogno del consenso e si radica sulla condivisio-
ne di valori, sulla lealtà e sulla fiducia.
A livello individuale, per molti la reazione è giocare in difesa, rinchiuder-
si nell'egocentrismo, cercando così di mantenere un equilibrio psichico minac-
ciato dalla frammentazione e da un senso di vuoto interiore. L'agire quotidiano
viene impostato sull'elaborazione e l'attuazione di strategie di mera sopravvi-
venza. Non ci si può aspettare altro da chi ha rinunciato al passato e al futuro.
E chi si trova in difficoltà, sommerso da una massa di informazioni dalla
quale non gli è facile separare i fatti dalle opinioni e queste dalle menzogne
può solo scivolare nello scetticismo, nell’apatia e nel disimpegno. Gli ambiti nei
quali entra (e dai quali esce) nel corso della giornata e della vita gli appaiono
tutti volontari e separabili, ognuno dagli altri e ciascuno da sé. E questo vale
anche per la politica. Può interessarsi a essa o trascorrere tutta la vita cercan-
do di evitarla. Ma la politica possiede una caratteristica che gli altri ambiti non
hanno: detiene un'incontrastata superiorità, esercita poteri su tutti gli ambiti
della nostra vita, che condiziona dettando norme, proibendo o autorizzando
comportamenti. Ci si può disinteressare della politica, ma non è possibile sfug-
girle.
Paradossalmente, in democrazia la fuga nel disimpegno, nel disinteresse
per la politica e nella ricerca di libertà individuali, richiederebbe più politica
per poterne realizzare le condizioni. Persino l'invito che viene rivolto di scopri-
re la vera libertà ricercando dentro di sé finisce per ingabbiare ancora di più.
Non è infatti facile trovare stabilità per un'identità problematica e per una per-
sonalità frammentata. Né è possibile trovare compensazione nella ricerca
dell’immediata soddisfazione di qualsiasi impulso, alla ricerca di emozioni sem-
pre più forti e sempre più numerose, che lasciano comunque il generico e in-
soddisfabile scontento del solitario cacciatore di sensazioni.
Il risultato è una società individualistica e divisiva, che i politici al potere
lamentano essere sempre più difficilmente governabile, proprio quando temi
globali come pandemie, catastrofi ecologiche e migrazioni di popoli richiede-
rebbero strategie condivise e risposte rapide.
1.7. Democratici disagi
La tendenza ad attaccare la democrazia è assai forte,
perché la democrazia è frustrante. Anche quando fun-
ziona, di rado porta a gratificazioni immediate, perché
ogni singola azione dovrà essere mediata attraverso
forme di compromesso. Poiché è molto probabile che
includa punti di vista ampiamente conflittuali, i proces-
si democratici, di solito, sono estremamente complicati
e richiedono forme di pensiero e comunicazione ricche
di sfumature. Di sicuro, la democrazia non è fatta per
gli istinti umani.
Christopher Bollas, L’età dello smarrimento

Le tre grandi aree culturali createsi a partire dall'era assiale 104 costitui-
scono ora un'unica civiltà globale resa tangibile dalla possibilità di essere inter-
connessi in tempo reale. La diffusione delle innovazioni tecnologiche ha uni-
formato modelli di produzione e sviluppo e ha prodotto la rapida crescita
dell’integrazione economica e commerciale tra le diverse aree del pianeta,
dando vita ad un mondo caratterizzato da una sempre maggiore interdipen-
denza, tanto da far diventare d'uso corrente il termine globalizzazione. Contra-
riamente all’idea di universale,105 non rimanda a una volontà unificatrice, bensì
a qualcosa che è accaduto e che sta accadendo, a una situazione che riguarda
in particolare l'unificazione dei mercati economici e finanziari, dei modi di pro-
duzione e di consumo diffusi e integrati a livello mondiale. Un mondo sempre
più interconnesso e uniforme, almeno per quanto riguarda il modo di produ-
zione e lo stile di vita delle élite urbane, dove anche un piccolo cambiamento
nelle condizioni del sistema può determinare effetti globali e imprevedibili:
l’effetto farfalla della teoria del caos.
Ma globalizzazione è un termine che contiene anche delle ambiguità.

104 Karl Jaspers in Origine e senso della storia (1949) rileva che tra l'800 e il 200 a.C. in tre gran-
di aree Cina, India e in Occidente (Iran, Palestina e Grecia) si è avviata un'evoluzione poli -
centrica, che ha messo fine a un periodo di sviluppo dell'umanità fino ad allora sostanzial-
mente uniforme. Sono nate tre diverse culture e civiltà, ciascuna portatrice di una nuova e
autonoma concezione del mondo. A partire da quest’epoca, che Jaspers definisce periodo
assiale, le linee di sviluppo delle diverse aree sono procedute autonomamente, sostanzial-
mente ignorandosi a vicenda.
105 Quello di universale è un concetto che fa parte della nostra storia culturale e che, fuori dal
pensiero occidentale, è costretto a mettere in discussione la certezza della sua realizzabilità.
Unisce e divide, amalgama e separa, apre spazi di libertà e incombe come un
ineluttabile destino. Ciò che attua per alcuni, si realizza al contrario per altri,
perché le due facce della medaglia difficilmente si mostrano assieme. Nelle
aree economicamente più forti ci si può permettere un approccio sereno, per-
sino entusiasta per le opportunità di un'offerta economica e culturale sempre
più ampia e le élite sono in grado di sfruttare appieno i vantaggi della globaliz-
zazione, stabilendone anche le regole. Per i molti che invece ne ricavano pochi
vantaggi o ne subiscono solo gli effetti negativi, la globalizzazione è cosa ben
diversa, e le sue regole costituiscono un muro invalicabile per la loro libertà di
scelta. Assistono passivi a dei cambiamenti che li disorientano, vedono mutare
il proprio stile di vita e crollare certezze, sulle quali, a torto o a ragione, faceva -
no affidamento. Ad esempio, alla fine del secolo scorso si è avviato il processo
di delocalizzazione di molte proprietà aziendali e di centri decisionali. Ma così
non è stato, né può essere, per i lavoratori e per i servizi che, a differenza della
proprietà azionaria, sono legati al territorio e non possono seguire l'azienda,
quando questa decide di migrare altrove. Gli investitori si sono liberati dalla di-
pendenza derivante dalla localizzazione dell'attività e ora godono della libertà
di poter svolgere le loro funzioni dovunque vogliano e da qualsiasi luogo si tro -
vino. La mobilità, oggi forse il più importante fattore di stratificazione sociale,
gioca a loro vantaggio. Quanti invece rimangono, e sono i più, vivono in un cli-
ma di ineluttabilità, con la consapevolezza e la frustrazione di non essere in
grado di contrastare il fenomeno, di non riuscire a esercitare alcun potere di
controllo.
Peculiare della globalizzazione la tendenza all’uniformità in assenza di
un centro unitario di controllo, di una struttura direzionale. Un sistema risul-
tante dell'imprevedibile interazione di disposizioni prese da decisori il più delle
volte tanto anonimi quanto irraggiungibili, dove si esercita un potere indecifra -
bile e incontrollabile per chi lo subisce. Politicamente, un primo, elementare li-
vello di uniformità politica mondiale è stato raggiunto: la forma Stato si è oggi
affermata ovunque come unico modello di organizzazione di governo e 193
Stati sovrani (praticamente tutta la popolazione mondiale) sono membri
dell’ONU con pari rappresentanza nell'Assemblea generale. Tutti, almeno for-
malmente, condividono i principi ispiratori a partire dal riconoscimento dei di-
ritti umani, e tutti condividono il senso di obsolescenza di tante mediazioni e
opposizioni, che hanno caratterizzato e determinato l’attuale ordine politico
del mondo.
Le moderne democrazie liberali, nate nel mondo anglosassone e svilup-
patesi in gran parte dell'Europa, forti anche al sostegno degli intellettuali di di-
verso orientamento culturale e politico, hanno impostato e governato con suc-
cesso lo sviluppo economico e industriale avviato dopo la Seconda guerra
mondiale. È stato il periodo del loro trionfo: i governi democratici hanno porta-
to libertà e prosperità, cercando di coniugare la crescita dei diritti civili con
quella dei diritti sociali. E grazie alla combattiva presenza di forti organizzazioni
politiche e sindacali anche le classi lavoratrici hanno potuto beneficiare dello
sviluppo economico e sociale. Anche se non dappertutto in modo uguale, per
qualche decennio si sono ridotte ineguaglianze, si è sbloccata la mobilità
ascensionale e si sono aperte nuove opportunità a chi ne era da sempre stato
escluso.
Oggi il meccanismo si è inceppato, e non soltanto dal punto di vista della
crescita socio-economica. Dall’inizio del XXI secolo le democrazie stanno su-
bendo un declino. Non solo si assiste alla nascita di democrazie “illiberali” ma,
cosa ben più grave, anche all’interno di democrazie ritenute saldamente con-
solidate si sono manifestate insidiose derive e minacce, come è accaduto
quando la riluttanza di Donald Trump a riconoscere la sconfitta e lasciare
l’incarico ha dato il via con l’assalto al Campidoglio a un vero e proprio tentati -
vo di colpo di stato.
Dal 1941 Freedom House, un'organizzazione non governativa finanziata
in gran parte dal governo statunitense, svolge un'attività di ricerca (e propa-
ganda) sull’andamento della libertà e della democrazia liberale nel mondo. Av-
valendosi di una serie di indicatori quali la libertà di stampa, l'indipendenza
della magistratura, lo svolgimento di libere elezioni e altri parametri ancora,
questa ONG attribuisce un punteggio agli Stati in base al livello di democrazia
realizzato e pubblica annualmente una classifica.
Dagli ultimi rapporti si evidenzia che dall’inizio del 2000 la democrazia
sta arretrando nei Paesi avanzati, Stati Uniti compresi. Sulla base di una ricerca
comparativa globale, effettuata a seguito della constatazione del “gradual de-
cline in respect for political rights and civil liberties over the past decade” negli
Stati Uniti Freedom House pubblica nel 2021 un rapporto speciale dal titolo
From Crisis to Reform: A Call to Strengthen America’s Battered Democracy, nel
quale individua
three enduring problems that play an outsized role in undermining the
health of the American political system: unequal treatment for people of
color, the improper influence of money in politics, and partisan polariza-
tion and extremism.
Racial injustice […] the flow of large campaign donations and other finan-
cial inducements into the political system has surged with each new elec-
tion, buying access and influence that are unavailable to ordinary voters.
And partisan polarization has escalated for more than a generation, driv-
ing many Americans into mutually hostile camps, fueling conspiracy theo-
ries and even violence, and eroding trust in independent, fact-based jour-
nalism, an indispensable bulwark of democracy.106
Freedom House, razionalizzando e quantificando dei fatti che sono sotto
gli occhi di tutti, ci aiuta a vedere e capire cose delle quali abbiamo già perce-
zione, a cominciare da quello che è stato definito come processo di regressione
oligarchica della democrazia. Un processo di verticalizzazione del potere politi-
co, per il quale i centri decisionali più rilevanti si spostano in territori che appa-
iono sempre più lontani e irraggiungibili. Le decisioni politiche sono così sot-
tratte alle sedi partecipate e diventano appannaggio di ristretti gruppi. Lo Stato
sovrano appare sempre più sovrano solo a parole, grazie anche al fatto che la
globalizzazione ha privato i governi nazionali di molti poteri e attributi, ridu-
cendone la sovranità. E questo aumenta la generale insoddisfazione per lo
scarto, non solo temporale, tra le istanze e le aspettative dei cittadini e le ri-
sposte degli apparati statali e burocratici.
Anche questo è un effetto collaterale della globalizzazione, un fenome-
no che si è sovrapposto e in parte sostituito all’idea di universalizzazione, che
esprimeva in positivo la volontà di cambiare e migliorare il mondo e la cui
mancata realizzazione ha lasciato spazio a un “nuovo disordine mondiale”. È
una situazione alla quale si è giunti progressivamente: dalle mire imperialisti-
che degli Stati europei della fine del XIX secolo, passando per il predominio
mondiale degli Stati Uniti e la deregolamentazione neoliberista del sistema fi-
nanziario, si è arrivati alla fase attuale, quella successiva al collasso del sociali-
smo reale sovietico e dell’ascesa della potenza cinese a livello mondiale. Paral-
lelamente, si è allentata l'unità di politica e potere; si è indebolita la capacità
dei singoli Stati di intervenire con misure di controllo e indirizzamento.
Da un lato, il sapere scientifico, sempre più ridotto a tecnica e tecnolo-
gia, è diventato un prodotto, una merce di scambio indispensabile allo svilup-
po produttivo almeno quanto, se non di più, delle materie prime o della mano-
dopera a basso costo. Di conseguenza, la politica della ricerca e dello sviluppo
scientifico ora dipendono sempre meno dagli Stati nazionali. Dall’altro lato,
questi hanno dovuto prendere atto che la loro politica manca di strumenti legi-
slativi adeguati, e spesso anche di leader politici all'altezza della situazione,
per contrastare validamente l'anonimo potere transnazionale della finanza e

106 https://freedomhouse.org/report/special-report/2021/crisis-reform-call-strengthen-ameri-
cas-battered-democracy
dell’economia, che valutano il proprio operato solo in funzione del profitto e
dell'interesse degli azionisti.
Appare evidente che la globalizzazione richiede un ampliamento della
capacità di azione anche della politica, in modo da costruire un sistema di rela-
zioni internazionali in grado di fronteggiare il fenomeno e i problemi che esso
comporta: crescente arricchimento di pochi a spese dell'impoverimento di
molti, equa tassazione dei guadagni delle multinazionali, migrazioni, eteroge-
neità sociale e difficoltà di integrazione e di dialogo tra culture, per citare solo i
più noti. Problemi ai quali si è aggiunta la vulnerabilità sanitaria del pianeta
portata drammaticamente alla ribalta dalla pandemia da corona virus. Le pan-
demie non sono certo una cosa nuova per l'umanità, ma lo è la velocità con cui
si è diffusa l'ultima zoonosi grazie alla facilità di spostamento di uomini e mer -
ci. Sono questioni che richiedono di essere affrontate in modo unitario con
schemi culturali flessibili e politiche sovranazionali condivise.
La politica appare sempre più debole e i cittadini sono trasformati in
pubblico passivo, in consumatori subissati di notizie futili e svianti che dipingo-
no una realtà ipersemplificata e banalizzata. Un vero e proprio processo di de-
democratizzazione delle democrazie liberali, nelle quali lo scetticismo sulla ca-
pacità del cittadino medio di affrontare temi complessi ed esprimere giudizi
critici impoverisce il dibattito politico e lo incanala sempre più su irrilevanti
questioni marginali. Più che un vigoroso scambio di idee e opinioni, che è quel-
lo che esige la democrazia, si crea e si alimenta un clima di permanente cam -
pagna elettorale, in cui si impone come prioritaria la ricerca di soluzioni a pro-
blemi più percepiti che reali, e comunque temporanei.
Il risultato è che passano in secondo piano le effettive priorità strutturali
del cittadino e del Paese, sulle quali buona parte dell’opinione pubblica, aggre-
dita da una massa di notizie di apparente pari importanza e sviata da mass me-
dia attivi operatori di disinformazione, non viene adeguatamente informata.
Un metodo che per elettori ed eletti può essere appagante nel breve periodo,
ma nel medio-lungo termine è sicuramente disastroso per tutti, come per lo
stesso sistema democratico, la cui solidità richiede partecipazione e la più am-
pia diffusione delle idee. Non bastano il voto e il rilevamento continuo dell’opi -
nione pubblica serve l’apporto costante di idee e proposte da parte di cittadini
e di organizzazioni autonome che, esprimendo le proprie esigenze, collabora-
no attivamente alla definizione delle priorità del sistema, concorrendo alla de-
finizione degli obiettivi e dei programmi della politica.
In mancanza di tale apporto, i cittadini finiscono sentirsi impotenti di
fronte agli esiti delle crisi del mondo globalizzato e scaricano sulla politica e sui
politici la colpa di essere incapace di proteggerli. Una inadeguatezza che si
specchia nella crisi vissuta anche all'interno della stessa soggettività del cittadi-
no che si sente confuso perché vorrebbe vivere come un soggetto libero e re-
sponsabile del proprio destino, mentre si scopre inerme vittima di circostanze
che non può controllare. Ed è deluso, perché i politici gli prospettano superfi-
ciali e spesso irrealistiche soluzioni che, alla prova dei fatti, si rivelano del tutto
inadeguate, quando proprio non praticabili, per affrontare e risolvere proble-
matiche ben più complesse di quanto le semplicistiche ricette elettorali aves-
sero fatto percepire. Da qui molta della sua sfiducia per una politica ridotta
all’esercizio di opzioni tra opinioni ritenute equivalenti. Una politica che si in-
debolisce ritraendosi da importanti settori della società in nome della privatiz-
zazione e della deregolamentazione, cedendo così terreno a forze che demo-
cratiche non sono: il mercato finanziario e commerciale, governato da potenti
oligopoli sostenitori dell’obiettivo neoliberista di minimizzare il ruolo della poli-
tica e lasciar fare al mercato.
Per quanto riguarda la realizzazione del principio fondativo, quello
dell'uguaglianza107, è chiaro che non si tratta solo di un'istanza morale, e che i
suoi effetti vanno ben oltre il mero aspetto economico. Le disuguaglianze che
mettono a rischio il buon funzionamento dell’intero sistema, rappresentano
per tutti i governi una sfida multidimensionale. Riguardano infatti molti aspetti
della vita sociale e individuale, i più evidenti dei quali sono la disparità delle
condizioni di reddito e di ricchezza, con la conseguente sperequazione delle
opportunità. Su questo tema nel sito delle Nazioni Unite il 13 febbraio 2020 è
stata pubblicata una relazione dal titolo UN75 – I grandi temi: disuguaglianza,
come colmare il divario, dove si afferma che le disuguaglianze vanno oltre il
denaro perché
influiscono sull’aspettativa di vita delle persone e sull’accesso ai servizi di
base come assistenza sanitaria, istruzione, acqua e servizi igienico-sani-
tari. Possono limitare i diritti umani degli individui attraverso, per esem-
pio, la discriminazione, l’abuso e la mancanza di accesso alla giustizia. Un
alto livello di disparità non incentiva la formazione personale, soffoca la
mobilità economica e sociale e lo sviluppo umano e, di conseguenza, fre-
na la crescita economica. Inoltre alimenta incertezza, vulnerabilità e insi-
curezza, compromette la fiducia nelle istituzioni e nel governo, aumenta
i dissensi e le tensioni sociali e provoca violenze e conflitti. 108

107 Vedi infra, cap. 1.2.


108 https://unric.org/it/un75-i-grandi-temi-disuguaglianza-come-colmare-il-divario/
Sono effetti deleteri non solo per le democrazie, ma per qualsiasi forma
di governo. La stessa relazione prosegue affermando che il miliardo di persone
uscite dalla povertà estrema negli ultimi trent’anni, costituisce un buon risulta-
to per il mondo intero, ma lo squilibrio tra ricchi e poveri non è per questo di -
minuito, tutt’altro. Nonostante la produzione economica mondiale sia più che
triplicata dal 1990, la percentuale di reddito della metà più povera dell’umani-
tà è rimasta pressoché invariata e le disuguaglianze compromettono il progres-
so economico. E sono disuguaglianze che continuano a esistere all’interno e
tra i diversi Paesi, e che derivano da reddito, posizione geografica, genere, età,
etnia, disabilità, orientamento sessuale, classe sociale e religione. Nel mondo
intero, le parità di accesso alle risorse e alle opportunità sono compromesse e,
in alcune nazioni, queste disparità stanno diventando più evidenti e fanno
emergere divari in nuovi ambiti, quali l’accesso alle tecnologie mobili e al Web.
Dal punto di vista della tutela dei diritti gli Stati dell’Unione hanno sti-
pulato la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali, in base alla quale hanno istituito la Corte Europea dei Di-
ritti dell'Uomo (CEDU) con sede a Strasburgo. 109 È stata così creata un'istanza
giurisdizionale superiore, cui possono appellarsi i singoli cittadini, nel caso in
cui si sentano vittime di violazioni di diritti a opera delle autorità nazionali. Si è
così estesa la democrazia formale interna degli Stati componenti, realizzando
una forma attenuata di cittadinanza europea che comporta diritti e doveri non
condivisi con Paesi terzi.
Il mercato unico europeo, che è il più sviluppato e aperto del mondo, as-
sicura ai cittadini dell'Unione libero movimento e dunque la possibilità di vive-
re e lavorare, trasferire denaro, vendere e comprare beni in qualsiasi paese al
suo interno. L'Unione offre opportunità per attività culturali e formative per i
giovani e fornisce finanziamenti per un'ampia gamma di progetti e programmi
nei settori più diversi, come lo sviluppo urbano e regionale, la ricerca e l’inno-
vazione, l'agricoltura, l'occupazione, gli aiuti umanitari.
E oggi l’UE, attraverso il piano finanziario poliennale NextGeneratio-
110
nEU, sta aiutando concretamente gli stati membri a superare la crisi causata
dalla pandemia di COVID-19, che ha portato il mondo intero alla peggiore re-
cessione economica dalla fine della seconda guerra mondiale, con una riduzio-
109 Da non confondere con la Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE), che ha sede in
Lussemburgo, ed è l’organo dell’Unione Europea posto a garanzia della corretta e
omogenea applicazione del diritto dell'UE in ogni paese dell’Unione
110 È un inedito strumento temporaneo con cui l’Unione ha stanziato 806,9 miliardi di Euro.
https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it
ne del PIL che in molti Stati ha annullato i progressi fatti negli ultimi anni.
Un pacchetto senza precedenti grazie al quale dovrebbe svilupparsi
un'Europa più ecologica, digitale e resiliente in grado di affrontare le future si-
tuazioni di incertezza. Una decisione che ha migliorato notevolmente il livello
di gradimento degli europei nei confronti dell’Unione, tanto che a fine estate
2021 Il sondaggio periodico dell’Eurobarometro 111 ha rilevato che l’atteggia-
mento dei cittadini verso l’UE ha registrato il livello di ottimismo più alto dal
2009, che la fiducia si sta mantenendo su livelli elevatissimi e anche il sostegno
all’euro non è mai stato così alto dal 2004.
Ciò nonostante, la questione delle disuguaglianze sta assumendo sem-
pre maggiore importanza, anche se con una certa disomogeneità. La Scheda
Tematica per il Semestre Europeo dal titolo Affrontare le Disuguaglianze 112 pre-
sentata dalla Commissione Europea il 22.11.2017 afferma che negli ultimi anni
le disuguaglianze sono aumentate nella maggior parte degli Stati membri e
mostra preoccupazione per la sostenibilità e l'inclusività della crescita, che non
va a vantaggio delle famiglie, della coesione sociale e del senso comune di ap -
partenenza. Il documento individua inoltre i due concetti chiave in questa sfida
nell'Unione europea: le disparità di reddito e le disparità di opportunità (so-
prattutto per i giovani). Due tipi di divario strettamente correlati, perché la di-
sparità di reddito può contribuire a quella di opportunità, e viceversa.
Ovviamente, le cause della disparità di reddito variano da uno Stato
membro all'altro, perché diverse sono le situazioni economiche e sociali. In al-
cuni casi questa disparità deriva dallo scarso effetto redistributivo di imposte e
prestazioni sociali, mentre per quasi tutti gli Stati membri è determinante il
ruolo svolto dalla disoccupazione che risente degli effetti dell’innovazione tec-
nologica: decisamente positivi sulla crescita economica, ma negativi sulle di-
sparità dei redditi. Il progresso tecnologico premia infatti le qualifiche elevate,
ma tende a precarizzare i lavoratori con livelli di competenze medio-bassi che
sui lavori meno specializzati subiscono anche la concorrenza degli immigrati.
I dati ISTAT dicono che in Italia nel 2020
sono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie
(7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4%

111 Con questo strumento viene periodicamente rilevato l’atteggiamento dei cittadini degli stati
europei nei confronti dell’Unione. I dati si riferiscono all’indagine condotta tra il 14 giugno e
il 12 luglio 2021. http://europa.formez.it/content/eurobarometro-pubblicati-esiti-sondag-
gio-estivo-2021
112 https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/file_import/european-semester_thematic-fac-
tsheet_addressing-inequalities_it.pdf
da 7,7%). Dopo il miglioramento del 2019 rispetto all’anno precedente,
nell’anno della pandemia la povertà assoluta raggiunge il livello più ele-
vato dal 2005 (inizio delle serie storiche). Per quanto riguarda la povertà
relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da
11,4% del 2019).113
Un totale di circa 8 milioni di persone si trovano in questa situazione,
coinvolte in maniera inversamente proporzionale in base al titolo di studio,
con una distribuzione geografica che rispecchia le consuete differenze tra Nord
e Sud e colpisce in percentuale maggiore gli stranieri residenti..
Sono numeri ragguardevoli, e il World Inequality Database (WID),114 che
riporta i dati sull’evoluzione storica della distribuzione mondiale dei redditi e
delle ricchezze, ci mostra che, come nell'insieme dei Paesi occidentali, anche in
Italia la disuguaglianza dei redditi è aumentata, tanto che, secondo l’Istat, alla
fine del primo semestre del 2020, il 20% degli italiani più ricchi possiede il 70%
della ricchezza nazionale, e di questi il 5% più ricco detiene il 41% della ric-
chezza nazionale netta, mentre il 60% della popolazione più povera ne possie-
de appena il 13,3%. Non sono certo risultati buoni per la democrazia italiana.
Se poi guardiamo alla distribuzione della ricchezza nel mondo, si vede che l’1%
della popolazione possiede il 43% della ricchezza globale, mentre miliardi di
persone non hanno praticamente nulla. Su grande scala, si può notare che,
mentre da un lato sono aumentati a dismisura i compensi più elevati (dai qua-
dri dirigenti ai campioni dello sport, ai manager di banche e grandi aziende),
dall’altro è cresciuto il numero di quanti sono costretti a vivere con i salari più
bassi.
L’indice Gini115 ci conferma che negli ultimi decenni la distribuzione della
ricchezza è andata a vantaggio dei più ricchi, invertendo la precedente linea di
tendenza. Nel suo La società dell’uguaglianza, Pierre Rosanvallon può quindi a
ragione sostenere che le democrazie contemporanee, mentre hanno fatto
grandi progressi nel campo della cittadinanza politica, sono invece regredite
nella campo della cittadinanza sociale. Una lacerazione che si origina nella cre-
scita delle disuguaglianze e che, come afferma nell’introduzione, costituisce il
fenomeno principale del nostro tempo, “il tarlo latente”116 che silenziosamente
indebolisce il legame sociale e fa venire meno la solidarietà.
113 Dalla newsletter del 16/05/2021 della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome
http://www.regioni.it/newsletter/n-4092/del-16-06-2021/stampa/
114 https://wid.world/
115 Nel 1914 lo statistico Corrado Gini (1894 – 1965) elabora e propone un indicatore per misu -
rare la disparità di distribuzione della ricchezza nel mondo.
116 Pierre Rosanvallon, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2014, p. 16.
E il futuro non lascia intravedere un’inversione di tendenza a breve ter-
mine, anche a causa dell’impatto dell’emergenza sanitaria sull’economia
dell’intero pianeta, alla quale si sommano gli effetti dell’invasione dell’Ucraina
da parte della Russia. La recessione causata dalla pandemia e quella dovuta
alla guerra ora toccano quasi tutti i settori impoverendo intere categorie di la-
voratori e di imprenditori e generano nuove povertà e discriminazioni. E, come
sempre, i più colpiti sono i più poveri, a cominciare dagli immigrati, spesso più
vulnerabili e in una situazione socio-economica più fragile di quella dei nativi.
L'ineguaglianza non investe solo la sfera della capacità individuale di ac-
quisto, ma ha un alto peso politico in quanto comporta una sempre più diso-
mogenea distribuzione delle risorse politiche, vale a dire degli strumenti che
consentono di influenzare il processo democratico. Informazione, cultura, tem-
po libero, le stesse relazioni sociali si concentrano nelle mani di pochi. Ne sono
una prova la contrazione della classe media, l'aumento del numero dei poveri,
il degrado di vaste aree delle città, la disgregazione del tessuto sociale dei
quartieri (che non può certo essere sostituito dallo shopping nei grandi centri
commerciali) e lo svuotamento di negozi dei centri cittadini, con offerte spesso
al di sopra delle possibilità economiche dei residenti. Gli squilibri di opportuni-
tà di vita e di capacità politica non vanno certo a favore delle democrazie rap-
presentative nell’età del neoliberalismo.
È per questo che Alain Badiou può affermare che il “nemico oggi non si
chiama Impero o Capitale. Si chiama Democrazia. Con questo intendiamo non
soltanto la forma vuota del sistema «rappresentativo”, ma il sistema che egli
definisce “capital-parlamentarismo”,117 quella forma di democrazia che, oltre
all’eguaglianza di principio su cui si basa il diritto di voto e la libertà di opinione
ha saputo realizzare solo l’eguaglianza che concede all’individuo, ridotto a con-
sumatore, di esercitare la sua infinita possibilità di scelta tra l'illimitata offerta
di prodotti commerciali che il mercato gli propone.
Ma non sono certo vere scelte quelle che vengono effettuate tra opzioni
che non mettono in discussione il corso delle cose, che non hanno la potenza
di cambiare sul serio la realtà o di avviare nuovi percorsi. Sono solo opzioni che
offrono una parvenza di libertà di scelta, magari supportata da sollecitazioni
che si realizzano in situazioni prestabilite e che garantiscono la stabilità del si-
stema e l'arricchimento di alcuni. È la scelta che si esercita al supermercato,
tra prodotti in apparenza concorrenti, ma sempre più indistinguibili. Non è la
scelta del cittadino, ma quella del consumatore, al quale viene proposto ciò

117 Alain Badiou, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2001, pp. 14 e segg.


che desidera, e la cui sovranità consiste nell’ottenere ciò che vuole e si esercita
in una ben precisa situazione, quella imposta dai limiti del sistema dei prezzi e
della sua capacità di spesa. Ma, al di là di queste limitazioni che ci fanno senti-
re soggetti sottomessi a scelte altrui, ci sentiamo, e ci sentiamo dire, con una
singolare affermazione paradossale di double bind 118comunicativo, che ci in-
trappola a compiere un’azione comunque perdente, che siamo, e che dobbia-
mo essere progetti liberi.
Si manifesta così nettamente l'affermazione del più caratteristico aspet-
to della libertà dei moderni: la libertà della volontà, come libertà di volere. 119 È
una forma di libertà che ha le radici nell'agostiniano libero arbitrio, e che pos-
siamo trovare teoreticamente fondata in Cartesio, con la sua ricerca di un me-
todo che conduca a una conoscenza certa, partendo dall'analisi della causa dei
propri errori. Per Cartesio, gli errori testimoniano la presenza dell'imperfezione
nell'uomo e dipendono dal concorso di due cause: l’intelletto, che è la facoltà
di conoscere e il libero arbitrio, che è la facoltà di scegliere. Quest'ultima è una
facoltà ampia e perfetta, ben diversa da quella – limitata - dell'intelletto, che
corrisponde al giudicare rettamente, che è solo un acconsentire, un accettare
la verità. L'idea della volontà che Cartesio sperimenta dentro di sé è grande,
ampia ed estesa quanto nessun'altra, tanto che la sua presenza permette di ri-
conoscere l'immagine e la somiglianza di Dio nell'uomo. È la sola facoltà infini-
ta presente nell'uomo e consiste solamente nella facoltà di “affermare o nega-
re, perseguire o fuggire” le cose che l’intelletto ci propone e nel farlo “agiamo
in modo tale da non sentire alcuna forza esteriore che ci costringa”. E possia-
mo scegliere tanto più liberamente quanto più incliniamo verso una delle due
opposte opzioni perché “Dio così ha disposto il contenuto del mio pensiero”,
indipendentemente dal riconoscimento “del bene e del vero”. Siamo cioè liberi
di scegliere, e quindi di sbagliare, anche in mancanza di idee chiare e distin-
te.120
Il platonico mito della caverna ci insegna che il sapiente raggiunge la
vera libertà nel momento in cui abbandona le ombre che vi sono proiettate sul

118 “Nella teoria della comunicazione, un double bind è il sovrapporsi di due ingiunzioni con-
traddittorie ricolte a un soggetto in posizione subordinata (one-down) da parte di un’istanza
super ordinata (one-up). Ti ordino di volermi bene o ti ordino di essere libero, sono due tipici
casi di double bind affettivo e politico, rispettivamente”, Alessandro Dal Lago, Populismo di-
gitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina, Milano 2017, pag 19.
119 Un secondo aspetto riguarda la manifestazione “intima” della libertà come privacy,
120 René Descartes, Méditations métaphysiques, Méditation quatrième. Du vrai ed du faux, pp.
293-308. https://fr.wikisource.org/wiki/M%C3%A9ditations_m%C3%A9taphysiques/M
%C3%A9ditation_quatri%C3%A8me
fondo e accoglie la luce della verità. È liberazione dalle false immagini,
dall'errore, dai dogmi, ma è una liberazione che è anche sottomissione, sia
pure solo alla verità e alla ragione, che è un dono che tutti posseggono e che,
sotto questo punto di vista, ci rende uguali. Che 2+2 faccia 4, è oggettivamente
vero, lo dice l'intelletto, e lo è per tutti. Però può anche non piacermi. Ma che
libertà è, afferma Cartesio, se non posso rifiutare quel risultato? Se mi sento
propendere per il no, perché Dio così ha disposto l'interno del mio pensiero,
allora posso liberamente scegliere il no, e rifiutare quel risultato che l’intelletto
mi propone e che mi sento di non condividere. È qui che opera il libero arbitrio
individuale, è qui che ci fa sentire la sua infinita potenza e fornisce la prova
della sua vera sovranità; non certo quando l’intelletto non coglie la verità
dell'assunto e, di conseguenza, si è incerti su quale comportamento scegliere,
semplicemente perché si prova indifferenza per entrambe le opzioni proposte.
Questo è solo il livello più basso della libertà di scelta, di un arbitrio che è libe-
ro all'interno di un campo ben circoscritto.
Ma l’esercizio della scelta non va visto in maniera astratta, al di fuori del-
la situazione in cui si svolge. In ogni contesto sociale la libertà va concepita,
proposta ed esercitata come forma di vita compatibile con l’organizzazione del
sistema. La libertà non è solo manifestazione del valore distintivo del sistema,
ma è anche un mezzo per il suo consolidamento. E se è vero che le scelte de-
mocratiche presuppongono l’autonomia, non possono essere considerate vali-
de quelle compiute da individui che sono stati manipolati o ingannati o che
sono forzati dal bisogno, dall’ingiustizia sociale e dalla povertà. Entra in gioco
quella che Cass Sunstein chiama l’architettura della scelta, la situazione cioè
che può condizionarla o impedirne l’attuazione. Una situazione può essere ca-
suale, come una giornata di sole o di pioggia, o costruita artificialmente per fa-
vorire una scelta piuttosto che un’altra, come avviene nei supermercati dove
alcuni prodotti vengono esposti in modo da promuoverne la vendita. Ma non
basta scegliere un obiettivo, c’è anche un dopo che riguarda il come: la naviga-
bilità, ovvero i tempi e i mezzi per arrivare a destinazione. Anch’essa fa parte
dell’architettura della scelta e può fare la differenza, perché i problemi di navi -
gabilità possono arrivare all’annullamento della scelta e costituire un ostacolo
alla libertà.
Nell’architettura della scelta vanno perciò considerati i “pungoli” (nud-
ges), le “spinte gentili”, quegli “interventi che guidano le persone in determina-
te direzioni, pur tutelando la loro libertà di scelta”, 121 orientandola senza offrire

121 Cass R. Sunstein, Sulla libertà, Einaudi, Torino 2020, pp. 11-14.
incentivi o penalizzazioni, oppure possono facilitarne il raggiungimento. Sono
“pungoli” il navigatore satellitare dell’auto, la segnaletica stradale di indicazio-
ne o di pericolo, l’etichettatura con l’indicazione della provenienza dei prodotti
o l’informazione sul loro apporto calorico. A questo livello si manifesta l'ideolo-
gia pluralista della sovranità del consumatore, che riduce la libertà di scegliere
all'interno dell'ambito di cose intercambiabili. Mentre la scelta, quella che con-
ta, che stabilisce una differenza che può permanere, è già stata fatta altrove e
da altri come fa, ad esempio, l'algoritmo di Google che presenta i risultati per-
sonalizzati in base alla profilazione dei richiedenti.
Viviamo in società lontane dal modello di polis platonico-aristotelico, e
la politica postmoderna fa della libertà un valore fondante di comunità compo-
ste di individui, isolati e in competizione tra loro. Così è stato per la libertà
come libera concorrenza in Età moderna, ai tempi della nascita del capitali-
smo, quando è stata utile al modo di produzione e la libertà dell’individuo è
stato un modo per realizzare la libertà del capitale. Oggi, il sistema neoliberale
ha reso in molti casi difficile individuare la distinzione tra sfruttati e sfruttatori
e tende a trasformare sempre più lavoratori in imprenditori122 che sfruttano se
stessi per affermarsi nel sistema concorrenziale.
“Tutti gli esseri umani sono imprenditori” aveva proclamato Muhammad
Yunus, l’economista bengalese insignito del premio Nobel per la pace nel 2006
per aver ideato e realizzato, fondando la Grameen Bank, un percorso di uscita
dalla povertà per mezzo del microcredito. E i risultati sono stati decisamente
buoni, perché la concessione di piccoli prestiti basati più sulla fiducia che sulla
solvibilità ha permesso a tanti artigiani e piccoli imprenditori o aspiranti tali, di
affrontare le spese di avvio o di ammodernamento delle proprie attività. Il si-
stema del microcredito si è affermato a livello mondiale, ed è stato adottato a
livello ufficiale da diversi Stati e governi locali. Ma si va ben oltre, quando
l’invito a essere liberi proviene da una società che dell’assenza di costrizioni fa
la propria bandiera, e viene trasformato in “siate/diventate imprenditori di voi
stessi”, rivolgendosi senza distinzione a tutti. L’identificazione di libertà con im-
prenditorialità finisce per mettere tutti in una situazione di autocostrizione,
trasforma lo sfruttamento in autosfruttamento e, in caso di fallimento, ne fa ri-
cadere sul soggetto la responsabilità, assolvendo la società. Può essere la ri-
cetta appropriata per alcuni, ma certo non per tutti. Perché fare di se stessi
una startup, significa lavorare permanentemente in modalità Beta, in una in-
definita crescita alla ricerca di opportunità di innovazione e di adattamento

122 Byung-Chul Han, Psicopolitica, cit.


per trasformare le proprie passioni in vantaggio rispetto alla concorrenza. Uno
stile di vita che può portare i soggetti più fragili a situazioni di stress emotivo
tipiche di chi è pressato da problemi più grandi di lui, isolato in una situazione
che rende difficile organizzare un’azione comune.
Fondata su queste premesse, non può destare meraviglia che oggi, nelle
democrazie neoliberiste occidentali, la libertà individuale regni incontrastata e
mistificata, che essa costituisca il supremo valore e che anche una pur minima
rinuncia possa essere vissuta in maniera adolescenziale come imposizione di
vincoli che attentano alla libertà dell'individuo e del sistema. Né stupisce che
possa essere da alcuni considerato inaccettabile anche ciò che la scienza affer-
ma, quando ciò comporti l'adozione di comportamenti contrastanti con con-
vinzioni personali, le cartesiane “inclinazioni”. Allora anche la scienza diventa
sospetta e gli scienziati, si trasformano in nemici. Da qui l'anti-intellettualismo
e l'inanità degli appelli alla ragione e all'evidenza scientifica. E anche da qui
possono attingere forza i movimenti antidemocratici.
1.8. Popolo, popolazione e populismi
Popolo … nome collettivo difficile da definire, per-
ché se ne formano idee diverse nei diversi luoghi,
nei diversi tempi, e in base alla natura dei governi.
Diderot, Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné
des sciences, des arts et des métiers

“Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire, qui nel suo bosco,
che Dio è morto”,123 dice dentro di sé Zarathustra al suo primo incontro con gli
uomini. Ma se il Dio che costituisce il fondamento della stabilità dei poteri del
mondo antico non c’è più, occorre trovarne uno nuovo, su cui fondare il potere
sovrano dello Stato.
La nuova origine diventa allora il popolo, una sorgente che, come la pre-
cedente, necessita ancora di un atto di fede che ne definisca l’esistenza, la
composizione e l’idoneità alla funzione, in considerazione anche della tradizio-
ne delle élite politiche, economiche e culturali occidentali che esprime diffi-
denza per le deliberazioni e le pratiche decisionali pubbliche. Per secoli ha pre-
valso la convinzione che il popolo non fosse in possesso delle qualità necessa-
rie a garantire stabilità ed equilibrio nella gestione della cosa pubblica; il con-
cetto di popolo portava con sé “paura, odio o disprezzo per il popolo riunito
nell’agorà per deliberare e governarsi” una forma quasi patologica di avversio-
ne: l’agorafobia politica.124
Certo, si sono avuti casi di convinto apprezzamento per le forme di go-
verno popolari come, ad esempio, fa Machiavelli che, consapevole di uscire dal
coro, afferma che “un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile,
prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe ,
eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un principe, sciolto dalle leggi, sarà
ingrato, vario ed imprudente più che un popolo”,125 ma anch’egli guarda più al
popolo romano legato al Senato, che a quello della democrazia delle città della
Grecia classica. La sua concezione di popolo si rifà al concetto giuridico di po-
pulus dell'antica Roma, il quale designa un organismo tenuto assieme dalla
legge, un’assemblea di cittadini o anche la totalità dei cittadini, patrizi esclusi,
123 Nietzsche, Friedrich W., Così parlò Zarathustra, Rizzoli, Milano 1997, p. 27.
124 Francis Dupuis-Déri, La peur du peuple. Agoraphobie et agoraphilie politiques, Lux Éditeur,
Québec, Canada 2016, p. 18.
125 Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio in Tutte le opere, Sansoni, Firenze,
1971, p. 140.
titolari di pieni diritti civili, e che esprime quindi il concetto di cittadinanza e di
collettività (la comunità giuridica di interessi) privo di qualsiasi connotazione
culturale o etnica. Un popolo, dal quale si distingue nettamente la plebe
(plebs, turba, vulgus) formata dai proletari, dai poveri, dai non cittadini. E que-
sti sì, che sono solo singoli individui.
Gli Illuministi sapevano bene che non fosse una cosa semplice definire
cosa sia il popolo e lo avevano scritto nella loro Encyclopédie. Quando loro e le
settecentesche élite di governo parlano di popolo, intendono due distinte ca-
tegorie di persone: da una parte il Demos, composto dai cittadini, le menti illu-
minate o illuminabili che presentano ed esprimono interessi, idee, valori;
dall'altra la populace, la moltitudine, la massa indifferenziata delle classi so-
cialmente pericolose da sorvegliare, controllare e guidare, oggetto quindi di
tutela, cura e, se necessario anche repressione, in quanto temuta espressione
di forza insubordinata e fonte di ribellione.
L'obiettivo dei philosophes è di fornire ai sovrani idee razionali per rea-
lizzare e rafforzare una società ordinata e capace di mantenere l'ordine, anche
quello delle ineguaglianze. È un ordine dai confini non ben definiti ma comun-
que abbastanza stabili, considerata la ridotta e lenta mobilità ascensionale del-
le società d’antico regime, perché tra demos, popolo, e populace si collocano le
classi laboriose, i lavoratori, nei cui confronti ci sono espressioni di compassio-
ne accompagnata da dubbi sia sul loro bisogno di Lumi e di istruzione, sia sulle
loro capacità di recepirli. Tema quest'ultimo su cui i philosophes hanno un at-
teggiamento non omogeneo. Concordano però nel ritenere necessario riorga-
nizzare lo Stato per fargli svolgere la funzione di pianificazione e gestione
dell'ordine produttivo e sociale.
La Rivoluzione francese fa da spartiacque, perché da allora il termine po-
polo identifica tutti quelli che non godono di privilegi di nascita, i non nobili e,
in senso generico, gli abitanti di un territorio accomunati da una lingua o un
dialetto.126 Caratterizzata da una certa imprecisione, l’idea di popolo pone un
problema che riguarda l’espressione della sua volontà. Ed è un problema parti-
colarmente importante perché le democrazie costruiscono sul consenso popo-
lare la propria legittimazione e sono in molti quelli che si richiamano alla vo -
lontà del popolo, il detentore della sovranità.
Nel Contratto sociale Rousseau ci dice però che la volontà di tutti non
126 Un ricordo della separazione tra popolo e aristocrazia si ritrova in una parte della cultura di
ispirazione marxista incline a identificare il popolo con i ceti medi o medio bassi della socie-
tà: lavoratori dipendenti, piccoli commercianti e artigiani, in contrapposizione ai ricchi, i ca-
pitalisti.
può essere il fondamento della società civile, perché non è altro che la somma
delle diverse volontà dei cittadini e che queste non possono certo costituire la
base dell’interesse collettivo. Sono troppo volubili, legate alle passioni del mo-
mento, ai bisogni più immediati, al passeggero interesse del singolo. 127 Cosa
che vediamo confermata ai giorni nostri, nel tempo del consumismo e della so-
cietà liquida, dove la crisi del concetto di comunità fa emergere un individuali-
smo che porta a una generale incertezza, alla ricerca di un continuo cambia-
mento e al disinteresse per obiettivi comuni a lungo termine.
Ben altra cosa è invece per Rousseau la volontà generale, che mira sem-
pre al bene comune e all’eguaglianza, valori sui quali può essere fondata la
convivenza all’interno dello Stato. Il difficile è riconoscerla, perché è il risultato
di un calcolo impossibile nella pratica: è la somma delle volontà particolari dal-
la quale vanno detratte le differenze, i più e i meno che tra loro si annullano.
La volontà generale rispecchia dunque un qualcosa che è comune a tutti i desi-
deri espressi dalle volontà individuali; per questo tende sempre all’utilità pub-
blica ed è stabile e retta. È una sorta di massimo comune divisore di tutti i desi-
deri manifestati, quel fattore che li rende tutti ugualmente legittimi e tutti po-
tenzialmente realizzabili perché palesati all’interno della situazione di sicurez-
za e stabilità assicurata dallo Stato.
Quando, a partire dal XVII secolo, nello scenario politico occidentale si
affaccia un altro attore, la popolazione, i nascenti Stati nazionali si rendono
ben presto conto che il nuovo soggetto politico presenta problemi e caratteri-
stiche variabili propri 128 e un comportamento che lo differenzia dal suddito,
mero oggetto di obbedienza alla legge.
La popolazione è molteplicità di corpi e di forze che comprende gli indi-
vidui biologicamente legati all’ambiente in cui esistono. In questo senso, è ma-
teria primordiale che non è possibile cambiare per legge. Possiede infatti la na -
tura specifica propria dei rapporti che gli uomini intrattengono tra loro quando
vivono assieme formando una società che costituisce un ambito separato dallo
Stato. In quanto tale essa ha propri meccanismi interni di regolazione derivanti
127 “Il y a souvent bien de la différence entre la volonté de tous et la volonté générale; celle-ci
ne regarde qu'à l'intérêt commun; l'autre regarde à l'intérêt privé, et n'est qu'une somme
de volontés particulières: mais ôtez de ces mêmes volontés les plus et les moins qui s'entre-
détruisent (g), reste pour somme des différences la volonté générale”, Jean Jacques Rous-
seau, Du contrat social, Aubier Editions Montaigne, 1943, p. 145. Rousseau tratta il tema
della volontà generale anche nell’articolo Economie da lui scritto per l’Encyclopédie e nel Di-
scorso sull’economia politica.
128 Cfr. Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984,
Medusa, Milano 2001.
dalle interazioni delle forze in gioco e degli interessi che vanno rispettati e la-
sciati liberi di esprimersi.129 Questi sono ambiti sui quali il potere sovrano im-
para che può intervenire solo operando su fattori magari privi di effetti imme-
diati, ma capaci nel tempo di indurre il cambiamento.
Nasce così la biopolitica, una pratica di governo la cui genesi e sviluppo
è stata al centro della ricerca di Foucault e che ha per oggetto la popolazione
intesa come entità composta di esseri viventi retti da processi biologici. La vita
biologica acquista sempre maggiore centralità nella politica: per il controllo
della società è infatti indispensabile che lo Stato vigili su di essa, soprattutto
quando si indebolisce il ruolo sociale della religione e, di conseguenza, il lega-
me di obbedienza per paura di punizioni ultraterrene.
Diversamente dalla sovranità, la biopolitica attua pratiche di governo
per garantire e rafforzare la salute del corpo collettivo, in particolare negli am-
biti della natalità, morbilità, abilità, ambiente. Il biopotere, mette a disposizio-
ne dei governi le tecniche per gestire la vita degli individui e della specie attra -
verso gli strumenti di controllo passivo dei dispositivi della società disciplinare,
integrati soprattutto nell‘era digitale da quelli di controllo attivo della psicopo-
litica, più versatili ed efficaci.
Per mezzo di politiche demografiche e sanitarie la biopolitica controlla
gli indici di natalità, mortalità e longevità, e vigila sulla diffusione di malattie
endemiche o epidemiche che potrebbero indebolire le prestazioni del corpo
sociale. Sostiene il sistema della sicurezza sociale organizzando strutture assi-
curative, preventive e previdenziali che tutelino gli individui nel caso in cui la
loro capacità sia indebolita o compromessa e vigila sulla qualità dell’ambiente
in quanto sistema naturale (geografico, climatico, idrografico) antropizzato.
Come per la legge, anche per la biopolitica la pluralità delle differenze
che caratterizzano gli individui come corpi trova una parificazione meramente
statistica: uno vale uno. Così almeno nominalmente l'uguaglianza diventa un
fatto ormai consolidato, anche se le differenze sociali ed economiche non solo
permangono, ma si stanno accentuando. La deindustrializzazione su larga scala
che destabilizza la manodopera, aumenta il numero dei disoccupati e dei

129 Vanno in questa direzione le misure per la liberalizzazione del mercato dei cereali adottate
in Francia nel 1773-74, con le quali lo Stato abbandona la precedente politica giuridico di -
sciplinare di prezzi calmierati, regolamentazione delle colture e divieti di esportazione che
aveva prodotto carestie, impennate dei prezzi e sommosse popolari. Si veda Michel Fou-
cault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., in particolare la lezione del 18 gennaio 1978,
pp. 32-48.
NEET130, accentua il divario tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha un titolo
di studio, tra uomini e donne, tra generazioni e tra territori. Acquista sempre
maggior rilevanza la disparità di opportunità e la paura del futuro invade an-
che i ceti medio-bassi, che si sentono pericolosamente sulla soglia del declas-
samento sociale. La globalizzazione incontrollata, le migrazioni di massa e un
multiculturalismo vissuto come imposto acuiscono le tensioni sociali. E atten-
tati terroristici e guerre potenziano un'insicurezza generalizzata che porta in-
stabilità e ansie.
Sfiducia e diffidenza pervadono la società e prendono di mira soprattut-
to la politica. L'antipolitica diventa così il contenuto di messaggi e immagini
che alcuni leader usano per catturare consensi che non possono, per forza di
cose, che essere fugaci. E nella società della sfiducia una parte della politica fa
della sfiducia una risorsa di cui appropriarsi per farla diventare Il cuore di mes-
saggi che chiudono alla possibilità di miglioramento. Le reazioni contro questa
condizione ritenuta insopportabile e senza sbocchi assumono molteplici for-
me, accomunate dal loro indirizzarsi contro un sistema politico ritenuto inade-
guato a risolvere i problemi economici, sociali e ora anche ambientali, di un
mondo in rapida trasformazione, dove non funzionano più le antiche ricette,
ed è evidente la difficoltà o l'incapacità di elaborarne di nuove. Da un lato,
l'abbandono dei partiti tradizionali porta all'allontanamento dalla politica e
all'astensionismo. Dall'altro, emerge una forte domanda di autorità, di ritorno
all'ordine, di qualcuno che riesca a gestire la situazione. Da questo malessere
diffuso e dai sentimenti di odio, disprezzo e paura che lo accompagnano, han-
no origine i movimenti e i leader populisti che questo malessere tendono a
esasperare perché da esso traggono la loro forza.
Usato in senso polemico come dequalificante, il termine populista in ge-
nere serve per connotare un movimento o un partito tendenzialmente di de-
stra e antidemocratico,131 condotto da un leader che sa trarre vantaggio dalle
nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione e che sa usare e
piegare ai propri fini gli strumenti della democrazia. Da abile demagogo qual è,
il leader populista manifesta tendenze autoritarie e nazionaliste, un atteggia-
mento paternalistico, un forte orientamento anti-statu quo e frequenti richia-
mi al buon senso del popolo, contrapposto a una élite.
Negli ultimi anni gli esclusi, o quelli che tali si sentono, delusi dall'incom-
prensione, dal rifiuto o dall’incapacità dei partiti tradizionali di proporre soddi-
130 Not (engaged) in Education, Employment or Training: chi non è non impegnato nello studio
o in percorsi di formazione.
131 Ma è esistito ed esiste anche un populismo di sinistra.
sfacenti soluzioni al loro malessere, hanno contribuito molto a portare al suc-
cesso elettorale leader telegenici, demagoghi (tutti termini declinabili anche al
femminile) che hanno promesso loro una rivincita. L'evento ha sbigottito
l'establishment e i partiti più tradizionali, sorpresi da un fenomeno nuovo, che
non avevano saputo né prevedere né prevenire e difficile da classificare. Un fe-
nomeno la cui comprensione avrebbe richiesto una seria analisi, un po’ di
umiltà, tanto lavoro e un'autocritica, seguita da coerenti tentativi di ricostruire
il rapporto di fiducia con l’elettorato per recuperare il terreno perduto tramite
una politica nuova. Si è invece preferita la strada più semplice e più comoda,
che non richiede alcuna autocritica: si è connotato il nuovo usando i vecchi
schemi. Riconducendolo a un passato già conosciuto e vinto, si è risparmiato
uno sforzo intellettuale e se ne è esorcizzata la paura dicendo che l'ignoto non
era proprio tale e si è recuperata una vecchia etichetta: fascismo.
Una parola per spaventare soprattutto quelli che lo hanno combattuto e
che sono sempre meno per motivi anagrafici, o usata come epiteto per mette-
re a tacere l'individuo o il gruppo politico a cui viene applicata. Una parola che
però, soprattutto ai più giovani, appare povera di significato e si rivela essere
una consolatoria illusione esplicativa che si sostituisce all'indagine sui fattori
che hanno prodotto il fenomeno, all'analisi di quanto sta succedendo e, so-
prattutto, all’autocritica e alle azioni da avviare per recuperare la situazione. In
questo modo il “terremoto” politico è stato declassato a transitorio successo
di qualche abile demagogo, immagine e portavoce di un passato ritenuto irri-
mediabilmente superato e già sconfitto. Una convinzione oltremodo rassicu-
rante, che si fa forte di una citazione di Marx: “Hegel nota in un passo delle
sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia mon-
diale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la
prima volta come tragedia; la seconda volta come farsa”. 132
A un passato non ancora completamente superato è stata così ridata
una nuova vita. E si tacciano di fascismo questi movimenti o leader che
dell’essere portavoce del popolo, della "gente semplice", della "gente comu-
ne" hanno fatto una delle strutture portanti del loro sistema di organizzazione
del consenso. Sapendo coagulare il malcontento, danno risposta al desiderio
diffuso in ampi strati di cittadini di trovare soluzioni ai bisogni senza rivolgersi
alle forze politiche e sociali tradizionali. Scavalcando antiche barriere tra destra
e sinistra i populisti e i loro leader incanalano in qualche modo nella politica lo
scontento e la rabbia che potrebbero esplodere in forme violente. Da un certo
132 È la frase con cui inizia Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in Karl Marx, Rivoluzione e reazione
in Francia 1848-1850, Einaudi, Torino, 1976, p. 171.
punto di vista, possiamo perciò considerare i populismi anche come tentativi di
colmare il distacco creatosi tra governanti e il governati, cercando di superare
l’idea del sistema rappresentativo come unico o miglior metodo di governo. In
questo senso, i sistemi democratici si trovano ad affrontare un reale problema,
quello della necessità di individuare una forma di governo che consenta di an-
dare al di là della democrazia pluripartitica senza cadere nel populismo, inteso
come forma degenerata di democrazia diretta.
Lo scontento viene usato dai leader populisti come base cui assemblare
tutto quello che è compatibile con la loro lacerata visione del mondo sociale e
politico fatta di contrapposizioni: onesti contro corrotti, cittadini comuni contro
politici, quelli che lavorano e producono contro i parassiti e così via, alla ricerca
di linee di demarcazione e di nuove spaccature, come quella tra sostenitori e
detrattori dell’Unione Europea, o tra chi sostiene e chi è contro la casta, tra chi
è pro-vax e chi invece è no-vax. L'importante è individuare, o creare, sempre
ulteriori discriminanti che consentano di presentarsi come gli unici in grado di
appianare le questioni, in modo ovviamente pressoché istantaneo, perché loro
sanno come fare, possiedono la giusta ricetta. Ma solo questo, perché da quel-
la ricetta, più semplicistica che semplice, non nasce un progetto, una reale pro-
posta di soluzione politica. È solo un'eco amplificata di quel sentimento che,
alla prova dei fatti, continuerà ad essere insoddisfatto e deluso; è riflesso am-
plificato di un sistema politico ed economico basato sulla moltiplicazione di bi-
sogni artificiali e sul confronto invidioso, che non spinge a dare il meglio di sé.
Una prassi politica che propone un modello diverso e alternativo di partecipa -
zione, una nuova forma di democrazia con un solo rappresentante della volon-
tà popolare: lui, il leader che si rivolge agli sfiduciati, il "suo" popolo. Un popo -
lo indistinto di singoli individui, ai quali si rivolge direttamente, senza bisogno
che inutili corpi intermedi come partiti, sindacati, organizzazioni di categoria,
rendano più difficile il dialogo. E gli altri, quelli che non lo seguono sono i ne -
mici del popolo.
Se caratteristica del leader, lo dice la parola, è dirigere, guidare, condur-
re verso qualcosa, paradossalmente, abbiamo però a che fare con dei leader
che spesso del leader hanno ben poco. Non possiedono un patrimonio di idee
e riferimenti culturali che ne indirizzino l’azione né quello che Foucault chiama
potere pastorale,133 che è esercizio di potere di governo sugli uomini, a imma-
gine del Dio ebraico, un Dio onnipotente e benefico che senza obiettivi egoisti-
ci vuole la salvezza del suo gregge, lo cura, lo nutre e lo guida. L’idea che il po-
133 Sul potere pastorale si veda Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., in particolare le
lezioni di febbraio 1978.
tere del pastore sia servizio per il benessere del gregge e di ogni singola peco-
ra, per la quale è disposto a sacrificarsi, è penetrata nel mondo occidentale at-
traverso la mediazione della Chiesa cristiana, che ne ha codificato i temi e li ha
installati nell’impero romano.
Con la politica diventata un “affare da ovile”, l’uomo occidentale impara
a sentirsi pecora (nei casi estremi incondizionatamente) obbediente, che si
aspetta la salvezza da un pastore disposto a sacrificarsi per lui. Ma questi po-
pulisti non possiedono nemmeno il carisma weberiano del capo eroico, con
saldi principi normativi e magari anche una certa aria di santità. Conforme-
mente alla logica del consumo, si comportano piuttosto da follower che forni-
scono ciò che richiedono le incostanti emozioni degli elettori intesi come con-
sumatori o clienti.
In questo senso, è una sconfitta per una classe dirigente che mostra di
non avere obiettivi verso cui condurre, ma è diretta dalle mutevoli ansie e desi-
deri del pubblico. Dalla democrazia dei partiti si è pervenuti a una democrazia
di platee, in cui si è frammentata l’opinione pubblica, priva di stabili punti di ri-
ferimento. Si instaura così una critica e una prassi politica che colpiscono al
cuore il sistema rappresentativo. Se da un lato si manifesta così l'esistenza di
una condizione di sofferenza a causa di un dolore non compiutamente espres-
so, dall’altro, il populismo si propone di lenire il malessere con un sogno ingan-
natore, un nuovo oppio, che non è altro che una confusa idea di popolo. Una
prassi politica che possiamo considerare anche una forma di terapia, risolutiva
di scontenti, disillusioni, ansie e paure.
In questo agire trovano posto anche leader che, pur non presentando
chiare connotazioni cesaristiche, adottano schemi simili a quelle del populismo
cesaristico "di destra": si rivolgono direttamente agli elettori e cercano nuove
modalità aggregative per superare le vecchie forme di rappresentanza politica.
In Francia Macron, in Italia Grillo e il Movimento 5 Stelle e per certi aspetti an-
che Renzi sono degli ottimi esempi di un nuovo tipo di leader verticisti senza
partito. Il Web ha senza dubbio spinto in questa direzione perché ha scardina-
to l’approccio tradizionale all’informazione e alla politica. Esso offre una plura-
lità di fonti di informazione su cui si forma ormai prevalentemente buona par-
te dell’opinione pubblica, che qui ha anche la possibilità di esprimersi diretta-
mente su questioni di interesse pubblico e contemporaneamente consente an-
che ai politici di interloquire senza bisogno delle mediazioni dei tradizionali or-
gani di informazione e di formazione.
I politici di destra si sono mostrati più abili nello sfruttare i vantaggi che
possono derivare dall'uso del Web. Da un lato, perché beneficiano dell’incapa-
cità delle classi dirigenti in carica se non proprio di governare gli effetti della
globalizzazione, almeno di contrastarne con efficacia gli aspetti più negativi;
dall'altro, perché più abili a creare un rapporto diretto coi loro potenziali elet-
tori, dei quali sono più inclini a seguire le mutevoli emozioni. In genere, sono
leader che possiedono un notevole carisma digitale, capaci di trasformare in
virtù la mancanza di una struttura politica stabile di supporto. Tagliano proce-
dure e tempi di decisione, mostrandosi così più vicini ai desideri dell'elettora-
to. Questo però solo a parole, perché quando si tratta di passare ai fatti, al
fare, le cose vanno in modo assai diverso. È un populismo che è stato definito
digitale134, perché la relazione diretta col popolo si realizza soprattutto nel
Web, un ambiente artificiale che crea l'illusione della libertà e di un'indipen-
denza che spesso è solo inconsapevole soggezione.
La tendenza alla personalizzazione, come scorciatoia per la ricerca del
consenso, si è diffusa un po' ovunque e i partiti tendono a diventare strutture
di supporto dei leader populisti, più che di intermediazione tra cittadini e poli-
tica. La perdita di centralità politica dei partiti è evidente visivamente anche
nei manifesti elettorali, gran parte dei quali ormai riporta ben evidenziato il
nome del leader e, quando c'è, il simbolo di partito, spesso in piccolo e in se-
condo piano. Partiti che nella società sono presenti prevalentemente attraver-
so il leader che, con la complicità dei media, si dedica a una perenne campa-
gna elettorale fatta di slogan e priva di concrete proposte, pura lotta per desta-
bilizzare il governo in carica, all’inseguimento dei minimi scostamenti dei son-
daggi, sempre più frequenti. Qualcuno la chiama sondaggiocrazia. Anche il lin-
guaggio si fa sempre più simile, perché tutti si adattano e fanno propria la lin-
gua delle rivendicazioni populiste, forse nella speranza che sia sufficiente ac-
quisirne le modalità espressive per riacquistare i consensi perduti e opporsi ai
contenuti.
E nemmeno il sistema referendario di democrazia dire tta, che pur ha
ottenuto qualche ottimo risultato, soddisfa l’esigenza di risposte imme-
diate. Vi riesce meglio il Web, perché nella rete il rapporto col pubblico
è im-mediato e bypassa ogni forma di rappresentanza. Le modalità e i
canali di comunicazione tra popolo e potere sono cambiati e la sfiducia
in ogni forma di rappresentanza tende a trasformare la democrazia rap-
presentativa in popolocrazia: nel Web infatti si incontra quel popolo così
difficile da definire perché nella realtà non esiste, e la cui consistenza
134 Si veda Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, cit.
poteva apparire solo nelle convenzioni della democrazia rappresentativa
o nelle dichiarazioni delle Carte Costituzionali. Un popolo che anche nel
Web è mutevole, evanescente, con una consistenza virtuale che reclama
una propria identità attraverso la possibilità di esprimersi quanto e
quando vuole e praticamente su tutto.
Si sono depotenziate le antiche e moderne agorà dove prendeva
forma la dimensione politica degli ambiti sociali; la piazza ora è la rete,
luogo congeniale per la nuova politica. Anche il leader politico usa il
tweet per comunicare col suo popolo: non più che uno slogan di 280
battute che rendono impossibile argomentare e che non si presta ad al-
cun approfondimento. Ma in questo spazio il popolo e il leader possono
incontrarsi, sia pure virtualmente in una realtà che, pur mantenendo
ciascuno nel proprio isolamento, consente di mettersi in relazione in
una dimensione dove vita pubblica e vita privata hanno labili confini, evane-
scenti come lo sono i soggetti del rapporto. Da una parte, il cittadino virtuale,
talvolta nascosto dietro un nickname, dall’altra l’immagine del leader curata
dallo staff all’uopo assoldato.
1.9. Il mito dell’identità
Il Bruco e Alice si guardarono per un po' in silenzio: fi-
nalmente il Bruco si tolse il narghilè dalla bocca e le si
rivolse con voce languida e assonnata.
"Chi sei?" Disse il Bruco. [...] "Io [...] io lo so appena, si-
gnore, al momento so solo chi ero."
Lewis Carrol, Alice nel Paese delle Meraviglie.

Il fenomeno migratorio, uno dei più mal gestiti esiti della globalizzazio-
ne, trova oppositori in molti cittadini che, al di là delle questioni economiche,
vivono con crescente disagio il mutamento sociale che deriva dall’entrare in
contatto con persone di altre etnie, culture e tradizioni. In molti Paesi sono
quindi emersi leader che cercano il consenso degli elettori richiamandosi al re-
cupero di presunte identità locali in funzione xenofoba.
Il richiamo all’identità e alla sua salvaguardia sta progressivamente ero-
dendo il consenso un tempo goduto dal mito della razza. Lo fa proponendo
delle tesi più sottili e accattivanti, essendo difficile, di fronte alle scoperte della
genetica, sostenere teorie razziste che giustifichino differenti diritti in base a
presunte differenze del DNA. Più facile spostare l'attenzione e il dibattito su
terreni diversi, più visibili e rilevabili con facilità, ad esempio sul piano cultura -
le, individuale, sociale e religioso. Il richiamo all’identità appare così una discri-
minante decisamente più presentabile, quasi al di sopra di ogni critica, tanto è
vero che è usato senza imbarazzo, anzi, spesso come una rivendicazione orgo-
gliosa e più che legittima.
Identità è infatti una parola molto usata nel linguaggio comune, in quel-
lo politico, nei media e nelle scienze umane. Una parola che emana un appa-
rente senso di stabilità e di sicurezza, forse per il suo uso corrente in ambito
amministrativo e giuridico, a partire dalla certificazione statale del documento
d'identità e dal riconoscimento dell'identità personale tra i diritti inviolabili
dell'uomo riconosciuti da molti ordinamenti giuridici. La nozione di identità è
invece caratterizzata da una radicale inafferrabilità135 e rinvia a qualcosa affatto
privo della certezza che aspira a garantire, “qualcosa che va inventato piuttosto

135 Francesco Remotti sostiene che l’attenzione per l’identità nell’ambito delle scienze umane e
sociali sorge all’inizio della seconda metà del XX secolo, quando si eclissano le prospettive
universalistiche e l’attenzione si sposta verso configurazioni o contesti locali, portatori di ir-
riducibili significati particolari. Francesco Remotti L’ossessione identitaria, Laterza, Bari
2010.
che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un "obiettivo", qualcosa che è
ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qual-
cosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto”. 136
Dal punto di vista filosofico, in Aristotele l'identità è il nucleo invariabile
e permanente che coincide con l'essenza, la sostanza, il principio organizzativo
della materia, ciò che sempre permane identico nel tempo e nello spazio, sia
pure nelle diverse e contingenti forme che la materia assume. Ma questo ap-
pare chiaro e indubitabile solo se ci fermiamo ad Aristotele e all'aristotelismo.
Le cose stanno ben diversamente a cominciare dall'età moderna, quando il
concetto di identità comincia a essere problematizzato e assurge al rango di
prima legge del pensiero in Hegel, che ce ne mostra tutta la complessità.
All'identità il filosofo dedica i primi due capitoli del libro secondo della sua
Scienza della logica dimostrandoci che identità è un concetto relazionale, che
presuppone la presenza dell'altro, 137 che non è possibile affermare l'identità di
una cosa se è assente il riferimento ad altre, ovvero che non si può avere iden-
tità se manca il rapporto col diverso.
Ma la complessità e contraddittorietà del termine emergono quando
viene usato in contesti diversi da quello filosofico e soprattutto oggi che, come
constata Bauman, sul piano politico
è la questione all’ordine del giorno […] l’idea di identità, e di identità na-
zionale in particolare […] è un’idea introdotta a forza nella Lebenswelt
degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come finzione. Si è conge-
lata in un «fatto», un «elemento dato», proprio perché era stata una fin-
zione e perché si è allargato un divario, dolorosamente percepito, tra ciò
che quell’idea implicava, insinuava, suggeriva, e lo status quo ante.138
Soprattutto per gli abitanti dei piccoli borghi il sentimento identitario
spesso non andava infatti al di là dei confini del proprio villaggio. Ed è per que -
sto che l’idea si trasforma in appello, in progetto destinato a restare incompiu -
to, ma necessario allo Stato che vuole assicurarsi l’obbedienza dei cittadini.
Passano così in secondo piano quelle forme “minori” di identità locali e sociali
che oggi, nelle società globalizzate dove lo Stato si è visto erodere parte della
sovranità, tornano a essere rivendicate nella convinzione illusoria che i proble-
mi che hanno radici globali possano trovare soluzioni a livello locale.
In mancanza di solidi ancoraggi sociali molti sono “alla ricerca di approdi

136 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p.13.


137 Wilhelm Friedrich Hegel, Scienza della logica, Vol. I, Laterza, Roma-Bari 1974, Libro II, Sez. I,
Cap. II. Cfr. in particolare la nota II.
138 Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., pp. 19-20.
sicuri, stabili e affidabili in mezzo alle maree dell’incerto cambiamento”, 139 ap-
prodi che credono di trovare in un concetto inguaribilmente ambiguo come
quello di identità. Una problematica analoga si manifesta anche nel caso
dell’Io impiegato per esprimere la coscienza della continuità di se stessi nello
spazio e nel tempo. Se da un lato l’identità rinvia a un nucleo profondo, stabile
e permanente, l'aristotelica sostanza, dall'altro si richiama al prodotto
dell'interazione tra l’irriducibile molteplicità dell’Io 140 che emerge dall’analisi di
Pascal e il contesto in cui agisce. Un soggetto che muta e viene mutato, in
quanto appartenente a una comunità che vive nella storia, inserito in un flusso
di cambiamento che richiede un adattamento continuo. Anche in ambito so-
ciologico l’identità è qualcosa che risulta dall'interazione dell'individuo (o del
gruppo) con l'ambiente sociale in cui vive. E anche qui appare solo un modo
per cercare di conciliare stabilità e variazione: la pretesa stabilità viene trasfor-
mata in ciò che sovrintende alla modalità di attuazione del processo di cambia-
mento.
Se si considera che la trasformazione è alla base delle culture, diventa
assai difficile pretendere di fissare una volta per tutte delle caratteristiche im-
mutabili, che consentano di parlare di identità, se non in un senso vago e con-
fuso. In quest’ottica appare condivisibile dire che l’identità culturale non esi-
ste,141 come sostiene François Jullien per il quale trattare le culture in termini
di differenze e di identità schematizzandole e sistemandole per tipologia, iso-
landole le une dalle altre non avrebbe alcun senso e porterebbe allo scontro.
Meglio sarebbe riconoscere l’eterogeneo proprio di ogni cultura (la sua "etero-
topia" interna), che si dispiega al suo interno e la rafforza. Un esempio è il di-
battito che si è svolto al Parlamento Europeo sulle presunte radici cristiane
dell’Europa. Un dibattito che non ha raggiunto una conclusione condivisa e che
ha messo in luce che “ciò che fa l’Europa è il fatto di essere al tempo stesso cri-
stiana e laica (e altro), e di essersi sviluppata nello scarto tra le due cose: nel
grande scarto tra la ragione e la religione, tra la fede e i Lumi”. 142 Questo scarto
ha costituito per il pensiero religioso e per quello laico una sfida a dare il me-
glio di sé, elaborando risorse disponibili a tutti, quelle risorse che formano
l’odierna cultura europea. Le risorse culturali non sono quindi dei valori cui
aderire in modo più o meno razionale ed è per questo che non si possono di-

139 Ivi, p. 72.


140 Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, cit., p. 52.
141 François Jullien, L’identità culturale non esiste, ma noi difendiamo le risorse di una cultura,
Einaudi, Torino 2018, in particolare il cap. IV.
142 Ibid.
fendere creando barriere facilmente superabili, ma vanno usate per quello che
sono, patrimoni disponibili dai quali ricavare nuove opportunità.
Il contatto con altre culture può costituire un comune terreno d'incontro
e le differenze possono essere un buon punto di partenza per un modo diverso
di pensare se stessi e di rapportarsi con gli altri. Altrimenti prevale l’arroganza
delle proprie convinzioni e lo scontro. Basta pensare ai ripetuti tentativi di del-
le potenze occidentali di esportare i propri modelli, ritenendoli universali, nel
nome della democrazia e del rispetto dei diritti umani, dietro cui peraltro sono
stati camuffati troppo spesso altri interessi. I risultati sono stati tutt’altro che
soddisfacenti, soprattutto nelle società e culture saldamente costituite su altre
tradizioni.
Il modello di vita occidentale ha scatenato spesso violente reazioni di ri-
getto e ha trovato una tenace resistenza anche teorica, come quella dell’irania-
no Seyyed Jalāl Al-e-Ahmad che nel 1962 pubblica, subito ritirato dalla censu-
ra, il libro Gharbzadegi,143 un duro atto d'accusa contro la debolezza e la passi-
vità con cui gli iraniani, sotto la guida dello scià, accolgono e fanno propria la
cultura occidentale. Gharbzadegi (occidentosi) è il morbo venuto da fuori, che
si propaga in un ambiente pronto ad ammalarsi. Un morbo che evidenzia il
contrasto tra due mondi: l’Ovest dei paesi progrediti, sviluppati, industrializza-
ti, con una parvenza di democrazia, ereditata dalla Rivoluzione Francese e,
prosegue Al-e-Ahmad, con una sostanziale omogeneità interna, al di là
dell'apparente divisione ideologica tra paesi comunisti e capitalisti; e l'Est, del
quale fanno parte i Paesi che allora si chiamavano in via di sviluppo, ricchi di
materie prime e di tanta potenziale forza lavoro e nessuna democrazia lasciata
in eredità della prima ondata di imperialismo. Due raggruppamenti che anda-
vano in opposte direzioni.
E, oggi, non può essere letto solo come nostalgia del proprio paese il
sentimento di rifiuto di un modo di vivere di una civiltà denunciata come ma-
terialistica e immorale, manifestato da migranti con le più diverse radici cultu-
rali. Un sentimento identitario che ha alimentato il senso di superiorità di fran-
ge estremiste e ha fornito le basi ideologiche per il terrorismo e il reclutamen-
to di mercenari. Come appaiono di difficile comprensione le ondate di violenza
distruttrice, apparentemente priva di obiettivi, di movimenti dei quali non
sono sempre chiare le origini e le finalità. Dall’altro lato, nelle democrazie occi-
dentali abili demagoghi hanno gioco facile nel richiamarsi a valori identitari mi-
nacciati o perduti: riescono a sfruttare il rancore e il malcontento indirizzandoli

143 Il termine gharbzadegi è tradotto anche con Westernstruckness o westoxication.


verso capri espiatori trasformati in nemici pubblici, e lasciano senza risposta i
numerosi interrogativi che questi eventi lasciano dietro di sé.
L’identità, della quale Jullien mostra l’infondatezza teorica, manifesta co-
sì la propria presenza sotto forma di sentimento presente nell’Io, in cui Camus
colloca lo spirito di rivolta. Un sentimento che è una presa di coscienza e nasce
dalla percezione che “c’è nell’uomo qualche cosa con cui identificarsi, sia pure
temporaneamente”.144 Un qualcosa che è riconoscibile anche nell’altro ed è
talmente grande da essere preferibile a tutto, anche alla vita. Una passione
che Camus ritiene possibile “solo nei gruppi in cui un’eguaglianza teorica celi
grandi disuguaglianze di fatto” come nelle nostre società occidentali, perché
solo nelle società occidentali desacralizzate l’uomo ha coscienza dei propri di-
ritti e può ribellarsi, “rivendicare un ordine umano in cui tutte le risposte siano
umane, cioè razionalmente formulate”.145 Ma la rivolta è un atto che non ap-
partiene solo a chi è oppresso. Essa va oltre il semplice rifiuto dell’umiliazione
propria o altrui, perché mira a “far riconoscere qualche cosa che [l’uomo] ha, e
che egli stesso, in quasi tutti i casi, ha già riconosciuto più importante di ciò
che potrebbe invidiare. […] Lotta per l’integrità di una parte del proprio esse-
re”,146 per la propria identità. Soltanto con la ribellione l’uomo in rivolta riesce
a dare un senso alla propria vita e uscire dalla propria individuale solitudine:
“mi rivolto, dunque siamo”,147 autori e protagonisti della storia.
Camus si richiama così a un sentimento potente che già Platone ha te-
matizzato quando tratta della tripartizione dell’anima: 148 il thymós, che dell’ani-
ma è la parte irascibile, la custode dello spirito guerriero, della rabbia e
dell’orgoglio, quella che reagisce quando si subisce un torto perché ambisce al
riconoscimento del proprio valore, della propria dignità. Ed è qui che Francis
Fukuyama individua la radice dell’identità, 149 in questo sentimento che è da
sempre esistito, ma che solo nei tempi moderni si è legato a quello di un Io in -
terno che molto spesso la società non riconosce in modo conforme alle aspet-
tative individuali. Si crea così un divario tra come l’individuo valuta il proprio Io
e come invece lo riconosce la società, che può attribuirgli un ruolo inferiore a
quello che egli ritiene di meritare. Da qui la domanda su quale sia la propria
vera identità e l’esigenza di essere rispettato al pari di tutti gli altri. La richiesta
144 Albert Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano 1988, p. 634.
145 Ivi, p. 640-641.
146 Ivi, p. 638.
147 Ivi, p. 643.
148 Cfr. in particolare Platone, Repubblica, in Tutti gli scritti, cit., libro IV, pp. 438 e segg.
149 Cfr. Francis Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, UTET, Torino
2019, in particolare il cap. 2.
di isotimia150 esprime un bisogno di riconoscimento di pari dignità che nelle
democrazie trova la massima espressione perché le democrazie si fondano
sull’uguaglianza oltre che sulla libertà. Ma proprio questa libertà porta a una
cacofonia di sistemi di valori in competizione e per la maggioranza delle perso -
ne questa molteplicità non è opportunità di opzioni tra le quali esercitare scel -
te autonome, bensì è fonte di insicurezza che spinge alla ricerca di una identità
comune che ristabilisca un condiviso orizzonte morale. 151 Un orizzonte che può
esaurirsi nel microcosmo di villaggio o estendersi fino a comprendere una na-
zione e che, in prima istanza, in ogni caso consiste nel riconoscimento della le -
gittimità del sistema politico, qualunque esso sia, e delle regole per l’accesso
alla comunità, e circoscrive l’ambito della cultura e dei valori.
Così intesa, l’identità può anche essere vista come un percorso che com-
bina coercizione e consenso in un processo che può attuarsi intorno ai principi
della democrazia. La tensione verso l’affermazione di forme di identità nazio-
nali non può, quindi, essere considerata un fatto in sé negativo. Ma queste si
devono radicare su un insieme di regole e valori democratici piuttosto che su
basi etniche, illiberali, intolleranti e aggressive, perché la storia ci mostra quan-
to sia costato, e tuttora costi, in termini di morti e di sofferenze l’appello identi-
tario portato all’esasperazione e trasformato in brutali tentativi di sopraffazio-
ne delle identità altrui. II riconoscimento di forme di identità anche all’interno
delle nazioni, d’altra parte, impedisce la polverizzazione individuale e il reci-
proco isolamento. Il rimodellamento dell’identità per adeguarla alle mutevoli
caratteristiche sociali diviene così un percorso che si svolge su due livelli:
dall’alto per mezzo di leggi e regole certe sulla cittadinanza, sulla residenza e
l’immigrazione e, dal basso, per mezzo di un processo è costruito sulle “storie
di appartenenza raccontate dagli artisti di una società, musicisti, poeti, cinea-
sti, storici e cittadini comuni che riferiscono sulla propria provenienza e le pro-
prie aspirazioni”.152
In Europa, dove non c’è un senso di identità paneuropeo capace di supe-
rare le identità dei singoli stati membri, al problema già complesso delle identi-
tà nazionali si è aggiunto quello della“reazione politica che gli immigrati e la di-
versità culturale creano. I demoni dell’anti-immigrazione e anti-Ue che sono

150 L’isotimia può essere integrata o sostituita dalla megalotimia, il desiderio di status, l’orgoglio
derivante dal riconoscimento di una superiorità sociale.
151 La ricerca dell’identità individuale si è estesa a quella dei raggruppamenti omogenei di indi-
vidui invisibili o repressi, trasformatisi in movimenti sociali che rivendicavano il riconosci-
mento della propria isotimia.
152 Francis Fukuyama, Identità, cit., pp. 156-157.
stati evocati sono spesso profondamente illiberali e potrebbero minare l’ordi-
ne politico aperto su cui si è basata la prosperità della regione”. 153 Per questo
motivo, più che un rifiuto dell’identità in sé, occorrerà saper progettare la co-
struzione di identità nazionali che promuovano un senso di comunità demo-
cratica e aperta al cambiamento. La caratteristica peculiare dell’identità è in-
fatti di essere modificabile, e
la condizione della modernità è quella di avere identità multiple, model-
late dalle nostre interazioni sociali a tutti i livelli. Abbiamo identità defi-
nite dalla razza, dal genere, dal luogo di lavoro, dal livello di istruzione,
dalle affinità e dalla nazione. Per molti adolescenti l’identità si forma at-
torno allo specifico genere musicale che loro e i loro amici ascoltano. Ma
se la logica della politica identitaria consiste nel dividere le società in
gruppi sempre più ristretti e autoreferenziali, è anche possibile creare
identità più ampie e più capaci di integrazione. 154
E, prosegue Fukuyama, invece che negare le potenzialità e le esperienze
vissute degli individui il sistema democratico deve saper insegnare che anche
valori e aspirazioni possono essere condivisi con cerchie di cittadini molto più
ampie. Il sentimento di identità va quindi accettato, presidiato e soprattutto in-
dirizzato a rendere più funzionale la democrazia adottando forme di rispetto
per la reciproca dignità dei cittadini.
Solo così il campo della politica dell’identità non viene lasciato all’inva-
sione delle destre populiste abili a giocare sulla paura, che è un ottimo stru-
mento di controllo sociale, specialmente in tempi di instabilità socioeconomi-
ca, di disorientamento culturale e di crescente atomizzazione della società, che
si riflettono sull’equilibrio emotivo dell’individuo che, isolato, lasciato da solo
coi suoi impulsi e ardori passeggeri, finisce spesso per maturare un’insofferen-
te irritabilità e una forte carica di ostilità universale, tali da far definire
quest’epoca come l’Età della rabbia.155

153 Ivi, p. 168.


154 Ivi, p. 179.
155 Per una lettura su scala globale, si veda Pankaj Mishra L’Età della rabbia. Una storia del pre-
sente, Mondadori, Milano 2018; per una visione psicanalitica e sociale, si veda Nicoletta
Gosio, Nemici miei. La pervasiva rabbia quotidiana, Einaudi, Torino 2020.
1.10. Individuo e società
È rimasto sul campo di battaglia, abbandonato a se
stesso, soltanto l'ego, il quale non ha potuto far altro
che dispiegare le sue misere armi, del tutto inadeguate
per sostenere lo scontro sempre più violento con
l'assurdità di una vita transitoria in un universo eterno.
Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale

Il 10 maggio 1831 il visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocquevil-


le sbarca in America, dove si ferma per circa un anno assieme a un amico colle-
ga di lavoro. Entrambi magistrati hanno l’incarico di studiare il sistema peni-
tenziario americano per ricavarne spunti utili a una riforma di quello francese.
In realtà, i due amici si propongono di studiare soprattutto il funzionamento
delle istituzioni democratiche americane. E nel 1835 Tocqueville pubblica il pri-
mo dei due volumi de La Democrazia in America, un’accurata e acuta analisi,
che costituisce ancora oggi uno dei testi base per lo studio del sistema demo-
cratico e del suo protagonista, l’uomo.
Agli occhi di questo nobile liberale europeo, che riesce a cogliere gli
aspetti peculiari del sistema democratico e della libertà e dell’eguaglianza che
ne stanno alla base, non si tratta solo di una forma di governo, ma di una i nar-
restabile rivoluzione sociale, che in America ha avuto la possibilità di affermar-
si con facilità, senza dover lasciare dietro di sé le rovine di un precedente regi-
me. La democrazia americana di inizio Ottocento gli evidenzia e gli consente di
studiare il carattere dell’uomo democratico, i suoi pregiudizi, passioni e abitu-
dini, che nel regime dei liberi e uguali si possono esprime ai più alti livelli. Negli
americani egli vede uomini che amano profondamente la libertà, verso la qua-
le hanno un'inclinazione naturale e per la quale nutrono “una passione arden-
te, insaziabile, eterna, invincibile; vogliono l'uguaglianza nella libertà, ma, se
non possono ottenerla la vogliono anche nella schiavitù. Sopporteranno la po-
vertà, la soggezione, la barbarie, ma non l'aristocrazia”. 156
L’uomo democratico è travagliato da due contrastanti istinti, il bisogno
di essere guidato e il desiderio di restare libero, che non può annullare. Cerca
allora di conciliarli combinando sovranità popolare e centralizzazione, dando
vita a un potere che, valido per tutti, lo mette sotto tutela. È un potere che egli
stesso si sceglie e che ama, anche se è incline a odiare e disprezzare chi lo

156 Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, cit., p. 514.


esercita e ne sopporta con fatica le regole. Inquieto e invidioso nei confronti di
chi, a lui uguale, riesce in qualche modo a elevare la propria condizione,
l’uomo democratico vive in una perenne situazione di instabilità, oscillante tra
opposte tendenze. La libertà gli costa una vita piena di inquietudine, cambia -
menti e pericoli. Cova nell’animo una nozione oscura e un amore istintivo per
l’autonomia politica, che lo rende individuo indipendente dagli altri e gli offre
la sensazione di seguire esclusivamente la propria volontà. Può anche soppor-
tare l’esistenza di rapporti tra servo e padrone, ma solo a patto che i ruoli sia-
no potenzialmente intercambiabili.
L’antico egoismo che porta l'uomo a riferire tutto soltanto a se stesso e a
preferire sé a tutto, viene allora sostituito dall’individualismo, un sentimento e
un termine nuovo di origine democratica, che nasce e cresce di pari passo con
lo sviluppo della rivoluzione industriale.
Tocqueville ci mostra come si manifesta questo aspetto asociale
dell’Adamo americano, fiero responsabile del proprio destino, che vive il pre-
sente senza legami col passato e senza un progetto di futuro. L’individualismo
non è, a differenza dell’egoismo, una passione istintiva, è piuttosto un senti-
mento “riflessivo e tranquillo”, che deriva da una valutazione, che Tocqueville
ritiene sbagliata, riguardante la migliore possibilità di sopravvivenza in una so-
cietà di uguali. È una valutazione che porta il cittadino a isolarsi, a chiudersi in
un piccolo mondo costruito intorno a sé. Un mondo che lo appaga e lo trattie-
ne dal ricercare il rapporto coi suoi simili. Il suo animo, che tende soprattutto a
curare gli interessi personali e a trascurare gli affari comuni, si impigrisce e fini-
sce per essere assorbito nell’egoismo, vizio antico quanto il mondo. Per la so-
cietà democratica è un elemento di debolezza, perché inaridisce la fonte delle
virtù pubbliche e aumenta l’isolamento e la solitudine, che sono propri di una
forma di governo che allenta i legami tra persone e tra gruppi sociali, resi in -
differenti e quasi stranieri tra di loro.
Oggi, a distanza di circa un secolo e mezzo dal viaggio di Tocqueville,
l’adamismo americano nella società industriale si è evoluto. L’individuo per
istinto cerca di tenersi lontano da durevoli forme di vita comunitaria, ma se
l’immaginazione può suggerirgli di essere un atomo indipendente, i suoi biso-
gni lo riconducono inesorabilmente alla realtà, alla consapevolezza che il mon-
do che lo circonda non è vuoto e
ciascuna delle sue attività essenziali e delle sue proprietà, ciascuno dei
suoi impulsi vitali diventa il bisogno, la penuria, che trasforma il suo
egoismo, il suo desiderio di sé, in desiderio di altre cose e di altri uomini
fuori di lui. [...] ogni individuo è quindi costretto a creare questa connes-
sione, diventando parimenti il mediatore fra il bisogno altrui e gli oggetti
di questo bisogno.157
L’Adamo americano finisce così per dipendere, involontariamente e
sempre più controvoglia, da organizzazioni a lui esterne: lo Stato, le aziende e
le istituzioni, cui non può fare a meno di ricorrere per soddisfare i suoi bisogni
materiali. Perché, al di là della sua volontà di libertà, della sua stessa asocialità,
egli è tenuto saldamente unito agli altri membri della società civile dalla “ne-
cessità naturale” e dalle “proprietà umane essenziali”, dall’interesse. Il vero le-
game reale che tiene assieme questi uomini egoistici è nella vita civile, e “solo
la superstizione politica può far loro immaginare che la vita civile debba di ne-
cessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre, al contrario, nella realtà lo Sta-
to è tenuto unito dalla vita civile”.158
il sociologo e storico americano Christopher Lasch definisce narcisismo
la dimensione psicologica causata da questa non voluta e mal sopportata di-
pendenza e non lo considera più soltanto una forma individuale di patologia
mentale. Il narcisismo gli appare piuttosto la reazione difensiva propria del cit-
tadino, che cerca di controllare le tensioni e le ansie indotte dalla società con-
temporanea. È questa infatti che spinge l’individuo a vedere il mondo come
uno specchio in cui verificare continuamente lo stato della propria personalità
in crisi. È una risposta diffusa, che negli individui si manifesta assumendo, sia
pure in forma attenuata, i tratti patologici della sindrome psicotica, quali la ri-
cerca della dipendenza emotiva unita alla paura della stessa, la rabbia ine-
spressa, il senso di vuoto interiore e di non autenticità. 159
Nella società americana degli anni Settanta, ma diffuso ora anche a livel-
lo globale, il narcisismo, non è altro che la manifestazione di un Io minacciato
dalla disintegrazione e da un vuoto interiore, una forma di cultura della so-
pravvivenza, cui è costretta a ricorrere una massa di individui che vivono in
condizioni difficili e avverse. È una tecnica di controllo delle emozioni, che si
manifesta in comportamenti come l’apatia selettiva, il disimpegno emotivo, la
rinuncia al passato e al futuro, spesso accompagnati dalla determinazione di
vivere alla giornata. Una scelta obbligata, sulla quale si è orientata la vita della
gente comune, per cercare di sottrarsi al sistema di controllo che pervade la
società dei consumi, e che induce uno stato di ansia e di inquietudine; l’indivi -

157 Friedrich Engels, e Karl Marx, La sacra famiglia ovvero Critica della critica critica. Contro
Bruno Bauer e soci, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 157-158.
158 Ivi, p. 158 (i corsivi sono nel testo).
159 Si veda Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età
di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1992.
duo, fatto costantemente oggetto di ricerche di mercato e di istituti di statistica
che lo guidano nelle scelte omologandole a quelle altrui, avverte compromes-
sa la sua capacità di giudizio su ciò che può dargli benessere e renderlo felice.
Sono tutti segni di una profonda crisi che negli anni ‘60 la scrittrice e fi-
losofa di origine russa Ayn Rand imputa alla separazione creatasi tra l’impren-
ditore professionale che produce ricchezza e l’intellettuale, diventato portavo-
ce di “benevolenti banalità e apologetiche genericità sull'amore fraterno, sul
progresso globale e la prosperità universale a spese dell'America”. 160 Ciò che
manca, sostiene Ayn Rand, è una nuova figura di intellettuale che ricostruisca il
legame con l’imprenditore professionale e adotti una filosofia e nuovi ideali
morali che colmino il vuoto spirituale che affligge la società e facciano rinasce -
re una speranza per il futuro. Serve una “rivoluzione morale” che riabiliti
l’egoismo razionale e non consideri più l’altruismo come il supremo valore so-
ciale. Il nuovo intellettuale randiano deve possedere un “ego autosufficiente” e
deve saper trovare l’interesse principale in se stesso, nella sua volontà di non
sottomettersi, nella sua capacità di creare e affrontare il proprio destino. Come
Prometeo o come Adamo è un creatore che sa di dover pagare per il proprio
coraggio, ma sa anche che solo vivendo per se stesso egli riesce a “realizzare
quelle cose che sono la gloria dell’umanità”.161
Questo è l’individualismo che Ayn Rand pone alla base della storia degli
Stati Uniti, “il paese più nobile nella storia degli uomini”, quello delle “più
grandi conquiste, della maggiore prosperità, della più grande libertà. Le leggi
di questo paese non sono state basate su principi altruisti, sul sacrificio, sulla
rinuncia, su precetti di questo genere, ma sul diritto degli uomini alla ricerca
della loro felicità, non quella degli altri”. 162 E ancora oggi, l’Ayn Rand Institute 163
continua a proporre l’individualismo radicale di quello che viene definito come
prometeismo randiano.
Il cittadino individuo è pronto per la politica imposta all’Inghilterra degli
anni ottanta con mezzi autoritari da Margaret Thatcher, la leader del partito
conservatore che ha guidato il Regno Unito dal 1979 al 1990. La Lady di ferro si
è fatta forte anche delle sue origini popolane per attuare una politica neolibe -
rista, populista e decisionista, incentrata sulle privatizzazioni, sui tagli alla spe-
sa pubblica, alle politiche sociali e alle tasse. Una politica che ha incoraggiato
fortemente l’iniziativa individuale e che le ha dato una grande popolarità. La
160 Ayn Rand, For the New Intellectual, cit., p. 8. Traduzioni mie.
161 Ivi, p. 62.
162 Ivi, p. 67.
163 https://aynrand.org/
stessa Thatcher, in una famosa intervista sul Sunday Times,164 afferma che il
neoliberismo della sua politica economica non è un fine perseguito per se stes-
so, bensì un metodo per cambiare l’anima e isolare il più possibile gli individui.
Convinta che esistano solo gli individui, ha operato per eliminare ogni forma di
empatia e solidarietà dai legami sociali, per trasformare gli individui in atomi
isolati e ringhiosi, convinti che la vita non sia altro che competizione di tutti
contro tutti, nonostante sussistano ancora reciproci obblighi, alcuni dei quali
purtroppo ineludibili.
Gli ideali di cooperazione e di mediazione che avevano guidato la ripresa
postbellica delle democrazie occidentali non sono più compatibili con l’indivi-
dualismo del modello culturale della competizione. E alla disgregazione della
comunità contribuisce non poco lo svuotamento e la scomparsa dei riti, 165 di
quelle pratiche simboliche ripetitive che riuniscono le persone e creano tra
loro un legame aggregandole in una totalità. I riti danno vita e concretezza cor-
porea a ordini e valori in vigore in una comunità, rendendola capace di armo-
nia, di un ritmo comune che non ha nemmeno bisogno di comunicazione. Ma
l’atomizzazione della società e il crescente narcisismo individualistico non pos-
sono che sviluppare ostilità nei confronti dei simbolismi rituali, della forma e
del formalismo, visti come vuoto e inutile conformismo; e l’uomo contempora-
neo, individuo alla perenne ricerca di nuovi stimoli, non può trovare appagante
la ripetizione, che è il tratto essenziale dei riti.
Convinti dell’impossibilità di poter esercitare un controllo sull’ambito del
sociale, di promuovere un cambio di direzione, gli individui hanno scelto l’iso-
lamento e l’autogestione per garantirsi in qualche modo la sopravvivenza psi-
chica. Ma l’autoaffermazione di sé resta ancora un’opzione possibile che può
passare solo attraverso il recupero e la ricostruzione dei luoghi della democra-
zia, luoghi fisici e virtuali dove sia possibile l’intreccio di legami sociali capaci di
rafforzare il discorso democratico, andando oltre l’indifferenza e l’apatia.

164 Pubblicata il 3 maggio 1979, l’intervista porta il titolo Economics are the method: the object
is to change the soul https://www.margaretthatcher.org/document/104475
165 Sul ruolo dei riti nella società vedi infra, cap. 2.4.
1.11. Rivoluzione digitale e e-democracy
A fronte delle nuove notizie di abusi nell’utilizzo del
Web è comprensibile che molti provino timore e non
siano certi che il Web sia davvero una forza positiva.
Ma considerando quanto il Web è cambiato negli ultimi
30 anni bisognerebbe essere disfattisti e privi di imma-
ginazione per ritenere che sia impossibile cambiarlo in
meglio nell’arco dei prossimi 30 anni. Se adesso rinun-
ciamo a costruire un Web migliore, allora non sarà il
Web ad averci deluso, saremo noi ad aver deluso il
Web
Tim Berners-Lee 11 marzo 2019, Lettera per il trenten-
nale del Web

Quella del digitale è stata ed è una rivoluzione. Una di quelle vere, non
di quelle che, in un mondo che adesso chiamiamo antico, investivano il solo
ambito della politica e dunque i gruppi di governo, mentre per il resto, tutto ri-
maneva come prima.166 E neanche di quelle che sono venute dopo e si propo-
nevano di cambiare il mondo e di creare l'uomo nuovo, a cominciare da quella
francese. Sono seguiti due secoli di rivoluzioni più o meno progettate a tavoli-
no e imposte dall'alto, che hanno promesso molto e realizzato molto meno;
spesso hanno finito col divorare i propri figli e passare la mano a burocratizza-
zioni e a restaurazioni che hanno cercato o di cancellarne gli effetti o di cam-
biarne la direzione.
Quella del digitale è una rivoluzione diversa. Non è partita da un manife-
sto ideologico e, più che cambiare il mondo, voleva facilitarne la gestione, al-
meno secondo i suoi primi attori, che cercavano solo un metodo semplice per
trovare soluzioni senza il supporto di mediatori. È diversa perché ha avuto ef-
fetti enormi non progettati da chi l'aveva avviata, ma semplicemente inevitabili
e necessari date le sue premesse. Non aveva un messaggio da portare, ma ha
fatto molto di più: ha dato vita a un nuovo medium che ha cambiato il modo di
pensare. Ha posto le premesse per eliminare, superandola, l'idea di confine.
Una concezione del mondo che si rivela artificiosa soprattutto adesso che di-
sponiamo delle immagini della Terra vista dallo spazio; immagini simbolo, che
inizialmente la NASA sembra non volesse nemmeno rendere pubbliche.

166 Non a caso, in origine il termine rivoluzione si riferisce alle orbite dei corpi celesti, il percor-
so che ritorna su se stesso.
Una rivoluzione che sta mutando la comprensione che l’uomo ha di se
stesso perché sta mutando il contesto in cui vive. Se già Copernico aveva spo-
destato l’uomo dal centro dell’universo, internet gli fa vivere una nuova espe-
rienza spazio-temporale. Abitiamo in un mondo in cui distanze e tempo sono
enormemente ridotte dalla “funzione spazio-temporale tipica della rete”: 167 la
velocità. Siamo tutti vicini gli uni agli altri, tutti a potenziale portata di click.
L’uomo non è più entità isolata ma inforg, organismo informazionale intercon-
nesso nell’infosfera, ambiente globale costituito da tutti gli agenti informazio-
nali, dalle loro proprietà, interazioni e relazioni reciproche. Un mutamento che
non solo ha migliorato la vita dell’uomo con nuove tecnologie, ma che ne ha
soprattutto trasformato la natura intrinseca. L’uomo è stato riontologizzato168
per mezzo di strumenti che non gli hanno richiesto solo un adattamento, ma lo
hanno anche educato all’uso di interfacce di comunicazione con accesso ad
una nuova realtà: il cyberspazio.
Lo stesso linguaggio manifesta la trasformazione. Non è la macchina che
entra nella vita dell’uomo, è l’uomo che entra in una nuova realtà che ci siamo
abituati a chiamare virtuale; è lui che è online, che naviga nel web. Diventa im-
materiale e incorporeo, come le forme di produzione dell’avanguardia
dell’odierno capitalismo. Il Web trasforma il modo in cui comunichiamo tra noi
e, di conseguenza, modifica anche la natura delle relazioni sociali, il nostro
modo di interagire con il prossimo. Molte persone ormai "si incontrano” sul
Web e vi intrattengono rapporti commerciali e personali, molto spesso senza
mai incontrarsi nella realtà. Il Web si sta dimostrando uno strumento efficace,
che si affianca alla biopolitica, per superare le resistenze del corpo, che sta per-
dendo la sua centralità come forza produttiva. 169
È una rivoluzione che nasce dall’intuizione di un ingegnere informatico
inglese, Tim Berners-Lee,170 che scrive il codice sorgente di un global hypertext
system, che chiama World Wide Web, il famoso WWW. L’ipertesto è inteso
come un testo non lineare composto da un insieme di documenti contenenti
informazioni di varia natura (testi, immagini, brani musicali, filmati) collegati
l'uno all'altro per mezzo di nessi logici e rimandi (i link) che consentono a cia-
scuno di costruirsi un autonomo percorso. Funziona come la nostra mente
quando vaga passando per associazioni di idee da un argomento all'altro. Un
sistema che privilegia ed esalta l'immagine rispetto allo scritto e che migliora la

167 Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, cit., p. 61 e segg.


168 Cfr. Luciano Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice Edizioni, Torino 2012.
169 Cfr. Byung-Chul Han, Psicopolitica, cit., p. 19.
170 Lavora a Ginevra, presso il CERN Conseil européen pour la recherche nucléaire.
capacità di sintesi e la velocità, ma resta in superficie, a discapito dell'appro-
fondimento.
Il successo è immediato: nel 1990, di siti Web ce n'è solo uno,171 quello
di Berners-Lee che rinuncia al brevetto e mette a disposizione di tutti il codice
sorgente. Dopo quatto anni i siti Web sono circa 3.000, nel 2014 si supera il mi-
liardo e a gennaio 2020 sono più di 1,74 miliardi, con oltre 4,4 miliardi di uten-
ti. Di fronte a numeri di questa dimensione è facile capire quanto l'avvento del
digitale abbia cambiato profondamente modo di pensare e comportamenti.
L’effetto valanga è strettamente collegato alla diffusione di massa dei compu-
ter, iniziata tra il 1981 e il 1984 con l’immissione nel mercato del Sinclair ZX
Spectrum, del pc Ibm, del Commodore 64, del Mac della Apple e delle nuove
tecnologie informatiche. Contemporaneamente si sviluppano i software con la
creazione del primo protocollo per le email, la digitalizzazione della musica con
i primi CD e il protocollo per gli MP3 cui segue a ruota la digitalizzazione della
fotografia e delle immagini, per finire con quella del libro a stampa, trasforma-
to in ebook. Zone sempre più ampie del mondo reale si dematerializzano, en-
trano in circolo nel Web e diventano accessibili attraverso un’esperienza imma-
teriale.
La tendenza è velocizzare, saltare passaggi e intermediazioni. Vacillano
così molti luoghi comuni, come quello che ottenere buoni risultati richieda pa-
zienza, tempo e magari ricorrere a degli esperti. Per molte cose non è più così.
L’esempio più eclatante è Wikipedia, che nasce nel 2001: la compilazione, la
modifica e l’aggiornamento delle voci è affidata agli stessi utenti, senza preclu-
sioni. Nel giro di pochi anni è diventata la più grande enciclopedia del mondo e
oggi è online in 309 diverse lingue. 172 Non possiede l'affidabilità di un'enciclo-
pedia “classica”, elaborata da esperti e non garantisce direttamente l'attendibi-
lità dei propri testi, perché è uno strumento di secondo livello, che pubblica in-
formazioni tratte da altre fonti. Al concetto di attendibilità Wikipedia sostitui-
sce quello di verificabilità: ogni affermazione deve poter essere facilmente
controllabile, quindi ogni voce pubblicata è accompagnata da strumenti per
verificare ciò che vi si trova scritto, chi lo ha scritto.
È crollato anche il bisogno di mediazione e questo vale ormai per svaria-
ti ambiti: dalla posta all’home banking, dall’accesso ai servizi della pubblica
amministrazione e della sanità agli acquisti online, fino all’organizzazione di
171 info.cern.ch ed è stato attivato il 6 agosto 1991.
172 Alla fine di agosto 2020 l'edizione italiana conta più di 1.6 milioni voci (quella inglese ne ha
più 6 milioni), cresce più di 5.000 voci al mese, si compone di 6.780.556 pagine e ha
2.017.283 di utenti registrati, di cui 7.644 attivi.
una vacanza e molto altro ancora. Basta accedere a internet e andarsi a cerca-
re quello che serve. E per molti servizi l’utente ha la possibilità di lasciare una
valutazione sulla qualità. Una forma di rating “democratico”, utile per consenti-
re ad altri di farsi un'idea della qualità dell'offerta.
Un altro grande passo avanti avviene con la nascita e la diffusione dello
smartphone. Il primo è Quark, immesso nel mercato nel 2003 da BlackBerry.173
Ha prestazioni da personal computer ed è concepito, almeno in teoria perché
comunque molto costoso, per essere alla portata di tutti. Nello stesso anno na-
sce Facebook, inizialmente progettato per favorire la socializzazione degli stu-
denti di Harvard, presto allargato a quelli di altre scuole e poi a tutti, dai 13
anni in su. Il successo è enorme, nel 2021 gli iscritti sono più di 2,8 miliardi, dei
quali 1,84 è quotidianamente attivo. 174 Nel 2005 Nasce YouTube, nel 2006
Twitter e nel 2007 Amazon lancia il suo lettore di ebook Kindle.
Il salto di qualità avviene nel 2007, quando Steve Jobs sbalordisce il pub-
blico presentando Iphone, il primo smartphone accattivante e facile da usare
con la sua tecnologia touch che ne rende la gestione intuitiva e più amichevo-
le. Svolge le funzioni in precedenza affidate all’orologio, all’agenda, al libretto
per gli appunti, alla macchina fotografica; sostituisce il registratore, il lettore
portatile di cassette o di CD, la radio, volendo anche cinema e TV. Ci fa andare
in giro più leggeri e, soprattutto, consente di essere connessi alla rete venti-
quattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette; è stato calcolato che quasi il
53% del tempo che passiamo online è per opera dei telefoni cellulari. Lo
smartphone diventa l’oggetto simbolo del digitale, un vero e proprio oggetto
devozionale, lo strumento principe di identità personale, che ci portiamo ap-
presso dovunque.175
Si apre una nuova epoca e si abbatte un’altra barriera: lo smartphone
può fare tantissime altre cose, basta caricarvi l'App giusta. E tutto senza dover
imparare un linguaggio da programmatore o memorizzare sequenze di coman-
di, basta acquisire una nuova gestualità: la complessità c’è ed è grande, ma è
nascosta; i progettisti hanno saputo trasformarla in un gioco da ragazzi, nel
vero senso della parola. Le App hanno successo perché rendono tutto facile e a
portata di mano, soprattutto per i nativi digitali. Nell’App Store di Apple ce ne
sono ormai più di 2,2 milioni a disposizione, nel Google Play Store sono 2,8 mi-

173 Esce di scena nel 2016, vittima della rivoluzione che aveva avviato.
174 Digital 2021 riporta che 4,20 miliardi gli utenti delle piattaforme social, circa il 53% della po-
polazione mondiale https://wearesocial.com/it/blog/2021/01/digital-2021-i-dati-globali
175 Ibid. La stessa fonte riporta che 5,22 miliardi di persone, circa il 66% della popolazione
mondiale usa i telefoni cellulari.
lioni. Mediamente, un proprietario di smartphone utilizza trenta App al mese.
Numeri impressionanti. Le App permettono di fare di tutto e costano poco o
sono gratuite.
Ma la questione si intorbida, perché se il prodotto è gratis, allora proba-
bilmente diventiamo noi il prodotto o meglio, ciò che ci trasforma in prodotto
è il graduale, leggero e impercettibile cambiamento del nostro comportamen-
to e della nostra percezione. Immettiamo con leggerezza nel Web tanti dati
che ci riguardano sottoponendoci a una forma di autodenudamento volontario
che de-interiorizza la persona in modo non costrittivo e non violento, perché i
social media assomigliano sempre più a panottici digitali. 176 E questo non è un
problema di poco conto, non soltanto per le democrazie. I social e i motori di
ricerca non sono strumenti tecnologici neutri, ma hanno obiettivi propri (di so-
lito, fare più soldi possibile) sono dotati dei mezzi per raggiungerli, primo su
tutti, l'Intelligenza Artificiale (IA) che studia e realizza sistemi per rendere le
macchine capaci di apprendere e riprodurre il comportamento umano 177.
Gli sviluppi assunti dall'Intelligenza Artificiale costituiscono un salto che,
andando oltre il mero aspetto tecnologico, apre un nuovo orizzonte. L’IA è in
grado di incrementarsi da sola, è capace di imparare in un modo tanto veloce
che un essere umano non riesce a starle al passo e negli ultimi anni è arrivata a
superare le prestazioni umane in numerose competenze e mansioni. 178 È dav-
vero una rivoluzione nella rivoluzione perché raggiunge risultati imprevedibili e
spesso incomprensibili anche per i suoi stessi creatori, e pone questioni etiche
prima inimmaginabili, se si vuole che l’IA sia al servizio della capacità creativa
dell’uomo, nel rispetto dei principi etici e dei valori riportati nella Dichiarazio-
ne universale dei diritti179 che devono guidare l’innovazione tecnologica e lo
sviluppo di una IA trasparente dal punto di vista della motivazione delle pro-
prie azioni, inclusiva, equa, sicura e rispettosa della dignità umana e della pri-
vacy.180
Per le trasformazioni introdotte dalla rivoluzione digitale rimane valida
176 Cfr. Byung-Chul Han, Psicopolitica, cit., pp. 9-11.
177 Per una definizione aggiornata di IA si veda il documento elaborato dal Gruppo di esperti
incaricato dalla Commissione Europea, https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/library/
ethics-guidelines-trustworthy-ai
178 Tra i molti ambiti di applicazione dell'IA c’è anche quello della sicurezza pubblica, in partico -
lare nel campo della videosorveglianza a riconoscimento facciale.
179 Vedi infra, cap. 1.1.
180 Si veda Call for an AI Ethics – 2020, l’appello per un approccio etico e responsabile all’Intelli-
genza Artificiale firmato dalla Pontificia Accademia per la Vita, Microsoft, IBM, FAO e il Go-
verno italiano https://www.romecall.org/
la lezione di Marshall Mcluhan che, già nei primi anni sessanta, aveva analizza-
to nel suo Understanding Media: The Extensions of Man181 il potere di trasfor-
mazione del media in se stesso, al di là dei contenuti che veicola. Si pensi, ad
esempio, all’orologio e al mutamento culturale che si operò quando “si trovò il
modo di fissare il tempo come qualcosa che accade tra due punti” e come da
questa divisione del tempo in “unità uniformi e trascrivibili” sia derivato “il no -
stro senso della durata e la nostra impazienza.” L’orologio si configura come
una
macchina che produce ore, minuti e secondi uniformi secondo lo sche-
ma della catena di montaggio. Trattato in modo uniforme, il tempo viene
separato dai ritmi dell’esperienza umana. Insomma l’orologio meccanico
contribuisce a creare l’immagine di un universo numericamente quanti-
ficato e mosso da forze meccaniche.182
Se da questo punto di vista anche un orologio è un media, perché il suo
uso cambia il nostro vivere, tanto più potere di trasformazione avranno i me-
dia per definizione come il cinema, la radio, la televisione e la rete che allora
non c'era.
Scrivendo che "il media è il messaggio", McLuhan ci mette in guardia sul
fatto che è il media stesso che influenza il nostro modo di pensare e, di conse -
guenza, modifica i nostri comportamenti. Se ci lasciamo accecare dal contenu-
to esibito, non riusciamo a vedere gli effetti profondi che esso produce in noi.
Ci sfugge che il vero "messaggio" di un media o di una tecnologia è il muta-
mento di ritmo e di schemi che introduce nella mente dell’uomo e nei rapporti
umani. Senza che ce ne rendiamo conto, il media ci cambia, interviene sulla
struttura delle nostre menti, modificandone le reazioni sensoriali o le forme
della percezione. Questo significa che il medium non è uno strumento neutrale
e non deve farcelo dimenticare il dibattito, che di solito riguarda solo i conte-
nuti, sui quali possiamo o meno concordare.
Le osservazioni di McLuhan possono esserci di grande aiuto perché ci
troviamo ad affrontare una rivoluzione tecnologica, nella quale le antiche for-
me di percezione e di valutazione vengono permeate dall’informatica. 183 La no-
stra mente, non senza traumi e tensioni, si ristruttura e si adegua a questa
nuova normalità che ci fa apparire sempre più inattuali e bizzarri consapevo-
lezze e atteggiamenti fino a ieri consueti. Il cervello è indotto a crearsi collega-
menti e canali di comunicazione che vanno a sostituire quelli che non usa più.

181 Titolo tradotto in italiano con uno sviante Gli strumenti del comunicare.
182 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., pp. 155-156.
183 Che nei suoi libri McLuhan chiama “elettrica”.
Ciò significa che acquisiamo nuove competenze, ma a detrimento di quelle già
in nostro possesso. Si pensi a quanto l’uso intensivo del navigatore satellitare
può aver indebolito la capacità di orientarci con le vecchie mappe.
Ma l'abuso dei nuovi mezzi può anche compromettere le capacità cogni-
tive e l’empatia necessaria per continuare ad avere rapporti sociali del tipo che
ci era abituale. La tecnologia digitale può favorire un tipo di apprendimento,
ma a discapito di un altro modo di apprendere. Ci risparmia di fare del lavoro
mentale, ma favorisce un modo di pensare più superficiale e rende sempre più
apparentemente inutile, oltre che faticoso fissare le informazioni che consenti-
rebbero di sviluppare autonome capacità. Il copia e incolla semplifica e velociz-
za la composizione di un testo, ma a scapito della sua memorizzazione. Per im-
parare, funziona infatti meglio il copia e trascrivi, perché aiuta a fissare il con-
tenuto nella memoria e non agevola l’insorgere di quella che il neuroscienziato
e psichiatra Manfred Spitzer chiama demenza digitale, un fenomeno che si sta
diffondendo soprattutto tra i giovani. Perché “demenza non significa solo man-
canza di memoria [...] il problema riguarda soprattutto il rendimento mentale,
il pensiero, la capacità critica e di orientarsi nella giungla delle informazioni”.184
Questo vuol dire che il declino della capacità funzionale della mente sarà tanto
più lento quanto più intenso è stato lo sforzo mentale e fisico, quanto più il
cervello si è sforzato di “interagire attivamente con l’ambiente, […] da quanto
teniamo in allenamento la mente”.185
Sono solo alcuni degli effetti collaterali della rivoluzione che stiamo vi-
vendo e che si aggiungono ad altri, in parte già accennati, come la robotizza-
zione, che comporta una diminuzione dei posti di lavoro e professionalità di-
verse o il boom del commercio online, che ha fatto chiudere e mette a rischio
molte attività commerciali e ridisegna i centri urbani, imponendo di pensare e
attuare nuovi modelli di urbanizzazione e di vita.
È una rivoluzione che ha spiazzato le vecchie élite culturali e ideologiche
che non sanno ritrovare una loro collocazione funzionale nel nuovo mondo in -
formatizzato. Ha spiazzato anche i partiti tradizionali, i grandi mediatori tra il
singolo e la politica e lo stesso sistema politico, lo Stato liberal-democratico,
nato sull'onda della prima rivoluzione industriale e adeguato per gestire un
mondo fatto di fabbriche e operai, di istituzioni legate a territori, di stratifica-
zioni sociali consolidate. La tecnologia informatica richiede flessibilità e veloci-
tà e ha aspetti e potenziale innovativi che si colgono a fatica e che impattano
184 Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio,
Milano 2013, p. 15.
185 Ivi, p. 52.
su molti ambiti delle moderne società. Le ricadute ci sono anche sul sistema
politico-amministrativo, non solo per la raccolta di informazioni o per consulta-
zioni, ma anche per il coinvolgimento dei cittadini nell’elaborazione di stru -
menti e strategie sui temi di di interesse collettivo (policy making), per favorire
la loro partecipazione nell'attività di governo e per delineare forme di demo-
crazia adeguate all'era digitale.
Quando parliamo di e-democracy, è opportuno però accennare a chi
non può ancora accedere ai servizi offerti dal Web. E gli esclusi sono ancora
molti; vale la pena di ricordarlo perché è una questione di democrazia non la-
sciare che siano abbandonati offline, senza essere messi in grado di portare il
proprio contributo.
A settembre 2020, circa il 40% dei cittadini del pianeta era ancora offli-
ne. Dal rapporto Digital 2021 risulta che sono 4,66 miliardi le persone connes-
se a internet (316 milioni più del 2020). Sono numeri imponenti, ma ci dicono
anche che molto è ancora da fare, che la democrazia dell'accesso non funziona
per tutti allo stesso modo e che esiste un vero e proprio divario digitale che
penalizza principalmente i paesi in via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia del Sud.
Ma non solo loro. Anche nelle grandi potenze industriali sono ancora offline
molte località periferiche, per le quali un calcolo meramente economico non
considera vantaggioso l’investimento per collegarle alla rete. E questo merita
una riflessione perché tra le priorità del servizio pubblico vi è la gestione dei si-
stemi di comunicazione e di collegamento tra cittadini, che nel terzo millennio
non riguardano solo la viabilità, la rete ferroviaria o le linee navali e aeree. An-
che le cosiddette autostrade elettroniche appartengono ai servizi di pubblico
interesse che devono essere garantiti, in modo da offrire pari opportunità an-
che a chi risiede, per scelta o per necessità, in zone periferiche. È una questio-
ne di democrazia, visto che l’accesso al Web è stato rivendicato come un dirit-
to fondamentale tanto da essere diventato oggetto di dibattito: c’è chi ritiene
che l’articolo 21 della nostra Costituzione “tutti hanno diritto di manifestare li-
beramente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione” ne sia una implicita dichiarazione e chi invece sostiene la necessità
di rendere esplicito il diritto a Internet, inserendolo in un articolo 21 bis.
Ma anche nelle aree connesse sussistono motivi di esclusione dovuti a
disparità di condizioni economiche, sociali, di età, di sesso, o semplicemente
alla carenza delle capacità necessarie per partecipare attivamente alla comuni-
tà online. Il problema, in tutte le sue sfaccettature, è emerso drammaticamen-
te con la necessità, imposta dalla pandemia, della didattica a distanza e, in par-
te, del lavoro cosiddetto agile.
Al di là del problema di accesso al Web, affinché l’uso della rete possa
essere riconosciuto come diritto umano e strutturarsi per il bene pubblico an-
rebbero considerate le sue potenzialità per lo sviluppo del processo di demo-
cratizzazione. Non dobbiamo però nutrire troppe illusioni sulla possibilità che
la rivoluzione digitale conduca a una rivoluzione politica, né sul potere tauma-
turgico del digitale di porre rimedio ai vari malesseri delle democrazie contem-
poranee.
Certo, le forme di e-government e di e-governance,186 che si riferiscono
all'uso di tecnologie digitali per rendere più economica, efficiente e trasparen-
te l’offerta dei servizi da parte della pubblica amministrazione, a cominciare
dalla fase di valutazione preventiva dei bisogni fino a quella della la verifica de -
gli esiti, sono aspetti importanti della e-democracy che regola, almeno in par-
te, i rapporti tra cittadino e Stato. Le nuove tecnologie della comunicazione di-
gitale hanno un indubbio ruolo nel migliorare il flusso di informazioni verso i
cittadini, non solo perché istituiscono canali di dialogo per raccogliere indica-
zioni e proposte, ma perché possono integrare i metodi di partecipazione digi-
tale in tutte le fasi dei processi di formazione della volontà politica.
Il coinvolgimento dei cittadini e delle associazioni nella governance loca-
le e nazionale aumenta la fiducia nella pubblica amministrazione e può indurre
un miglioramento della qualità dei servizi erogati. Si contribuisce così al raffor-
zamento del sistema politico, fornendo ai cittadini un elemento legittimante
l'accettazione dei processi decisionali pubblici e della rappresentanza politica.
Un processo che presenta due volti: da un lato mette in mano ai governanti
strumenti di sorveglianza e controllo senza precedenti; dall’altro, va a vantag-
gio della democratizzazione del sistema e apre alla speranza di istituire un dia -
logo alla pari tra il cittadino e la pubblica amministrazione. Anche per questo la
click-democracy, ispirata al chimerico sogno della democrazia diretta, ha dato
avvio in diverse parti del mondo a numerosi tentativi di realizzare un’agorà di -
gitale, sinora sempre con scarsi risultati, a dimostrazione di quanto sia difficile,
se non impossibile, attuare per via algoritmica il mito della democratica Atene
dell’età di Pericle. Il rischio è trasformare
la democrazia di fatto in una sorta di referendum istantaneo permanen-
te sulla volontà popolare. Un incubo, se si considera quanta poca atten-
zione si presti a contenuti complessi in una logica di click-democracy, e

186 L’e-government riguarda il processo di innovazione delle funzioni amministrative e di gover-


no della P. A. e delle istituzioni, mentre l’e-governance copre un campo più ampio, che coin-
volge più direttamente i cittadini e la razionalizzazione di processi e servizi, in particolare
l'erogazione di servizi elettronici.
quanto le nostre capacità di mantenere alto il livello di attenzione siano
già duramente messe alla prova dall’enorme serie di stimoli con cui ve-
niamo quotidianamente bombardati, spesso in simultanea.187
A questo proposito, può essere interessante notare che anche Jean-Jac-
ques Rousseau, che vede nel popolo il detentore della sovranità, cerca un pun-
to di mediazione tra la realtà e i principi da lui fissati nel Contratto sociale. Nei
suoi progetti di costituzione del governo della Corsica e della Polonia, Rous-
seau mette da parte il sogno di costruire una chimerica democrazia diretta per
ripiegare su gestibili progetti di riorganizzazione puntando sulle classi dirigenti
feudali, a cui affida il compito di costruire, per mezzo di sapienti e dosati ritoc-
chi dell'assetto istituzionale vigente, società nelle quali non trovi ostacolo la
mobilità ascensionale. Ispirati alla prudenza politica, i suoi progetti suggerisco-
no di compiere il pur necessario mutamento solo dopo aver insegnato al popo-
lo cosa sia la libertà, e quanti sacrifici imponga a ogni individuo l'essere libero
in una società di liberi.
Se a Rousseau sembrava impossibile la realizzazione di una democrazia
diretta in Stati medio-grandi, gli strumenti messi a disposizione oggi dalla tec-
nologia pongono una sfida per la ricerca di nuove modalità di partecipazione
attiva nella gestione della cosa pubblica e di strutture decisionali che non cer-
chino semplicemente di coniugare, come fa la e-democracy, procedure e prati-
che democratiche con i meccanismi coercitivi dell’apparato statale. Oggi l’opi-
nione pubblica, in gran parte sganciata dai tradizionali vincoli ideologici di fe-
deltà ai partiti e dai loro rituali di organizzazione del consenso interno, si sta
trasformando in opinione digitale.188 I cittadini dispongono di una pluralità di
fonti che rende concreta una autodeterminazione informativa tale da far sì che
basti un minimo di sforzo per non essere un mero spettatore passivo.
Non solo, il Web oltre ad offrire un modo più immediato per acquisire le
notizie riducendo l’influenza dei media tradizionali, fornisce la possibilità di
esprimere istantaneamente la propria opinione, di non essere un mero spetta-
tore passivo. Ma se l’immediatezza può apparire un vantaggio, va notato che
in politica non sempre è tale, almeno per la solidità del sistema democratico.
L’opinione sull’onda dell’emozione momentanea non è certo incline al dialogo,
difficilmente considera prospettive future né si pone il problema di rispettare
gli interessi altrui. Mancanza di sfumature, velocità di adesione o rifiuto e pro-
pensione a repentini cambiamenti sono caratteristiche della rete che si rifletto-

187 Fabio Chiusi, Critica della democrazia digitale. La politica 2.0 alla prova dei fatti, Codice Edi-
zioni, Torino 2014, p. 40.
188 Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, cit., p. 12.
no anche sui temi della politica. Per alimentare un dialogo democratico, Face-
book e gli altri social non sono certo il foro pubblico189 ideale, frequentati come
sono da “interlocutori fantasmatici, immersi in un presente continuo e sempre
visualizzabile attraverso uno schermo”, divisi tra loro tanto da costituire un in-
sieme definibile come “sciame digitale”, 190 composto da individui anonimi e
isolati che si muovono in modo caotico e imprevedibile. E questo va tenuto
presente nell’analizzare il comportamento in rete di questo tipo di raggruppa-
menti, perché costituisce un’importante novità, anche per la politica. Il com-
portamento dello sciame digitale è figlio di impulsi conformistici e di una cultu -
ra della mancanza di rispetto, che trova nel Web un medium in cui dispiegare
le proprie caratteristiche.
Innanzitutto lo sciame non è un raggruppamento che va a costituire
un’unità, non ha un’anima, uno spirito proprio; è composto da individui che re-
stano isolati e non sviluppano un’identità collettiva in un Noi in grado di svilup-
pare un comune progetto d’azione. Lo sciame non possiede né coerenza né
voce unitaria; in esso i singoli componenti mantengono il proprio profilo e
l’identità privata, anche se spesso preferiscono mostrarsi in forma anonima. Si
riuniscono virtualmente rimanendo ciascuno nel proprio isolamento, che può
arrivare fino all’estremizzazione dell’hikikomori.
Lo sciame non sviluppa nemmeno un’azione comune, solo comporta-
menti analoghi; per questo non genera alcun potere, si dissolve con la stessa
rapidità con cui si è formato e spesso si esprime in modo violento scatenando
chiassose tempeste di insulti e commenti ingiuriosi, le shitstorm.191 Incontrolla-
bili come le tempeste, sono manifestazioni di uno stato di eccitazione che nel
Web trova sfogo istantaneo e, proprio per questo, i toni sono al di sopra delle
righe. E incidono poco sulla politica, perché non prendono di mira il rapporto
di potere, ma in genere puntano a singole persone e si limitano a esprimere
una rabbia che diventa fenomeno sociale, e tuttavia incapace di azione, scate-
nata dagli argomenti più disparati, accomunati dalla facilità con cui vengono
trasformati in una pretestuosa occasione per scaricare su altri, contenuti vio-
lenti. Sono campagne diffamatorie che mostrano il livello di intensità raggiunto
189 Cfr. Cass. R. Sunstein, #republic, cit., p. 52 e segg.
190 Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Milano 2015. Cfr. la nota
dell’editore e la parte 1, cap. 4. Sul tema dello sciame, si veda anche Zygmunt Bauman, Vo-
glia di comunità, Roma-Bari, Laterza 2001, in particolare il cap. 9.
191 Nel 2012 il termine inglese shitstorm, letteralmente “tempesta di merda”, in Germania è
stato scelto come anglicismo dell’anno. Poiché il mondo virtuale del Web si trova a mediare
problematiche antiche che nel mondo reale hanno trovato una sistemazione normativa,
pongono anche un problema giuridico nuovo.
dal linguaggio dell’odio e vanno ben al di là della libertà di espressione che le
democrazie devono garantire.
La libertà della rete è infatti doppiamente virtuale, da un lato perché è
elemento costitutivo del mondo del Web, virtuale per definizione; dall’altro
perché il Web non è libero, come l’utente è indotto a pensare, ma è condizio-
nato da scelte di fondo effettuate dai proprietari dei nuovi media, i social e le
grandi multinazionali dell’IT che compongono un gruppo che è stato denomi-
nato GAFAM.192 Oltre a ciò, come nella vita reale, si può creare anche nel mon-
do digitale la situazione tragica che Alessandro Dal Lago definisce double bind
politico-comunicativo,193 perché la rete è il luogo in cui si unisce l’illusione di
essere liberi a quella di potervi decidere liberamente, e la pseudo libertà che vi
regna si presta a essere usata per scopi poco democratici. Di fatto, la rete si ri-
vela essere un potente strumento di controllo di procedure politiche solo for-
malmente democratiche, attuate da leader che usano i social per sviluppare un
nuovo tipo di rapporto con il loro pubblico: sfumando al massimo i confini tra
bugia e verità, fanno leva sugli istinti più bassi, quali l’intolleranza, la paura e la
rabbia delle persone per raccogliere consensi. Come è avvenuto quando, nel
corso della campagna elettorale Donald Trump ha cercato di screditare Barak
Obama costruendo e diffondendo la falsa notizia della sua nascita in Africa
Il Web crea opportunità, permette di raccogliere con rapidità firme e
presentare istanze e petizioni, dà voce a gruppi emarginati e semplifica la no-
stra vita quotidiana, ma offre un vasto pubblico a chi diffonde l’odio e rende
più semplice commettere svariati tipi di abuso e di azioni criminose. Sono
aspetti negativi che non devono scoraggiare chi pensa che sia necessario e
possibile rendere il Web un posto migliore, affrontando le problematiche
emerse nei suoi primi trent’anni di vita.194 Le azioni criminose sono inelimina-
bili anche dal Web e vanno quindi affrontate creando leggi e regole per mini-
mizzarle, come peraltro si è da sempre fatto offline. Sono problematiche di
grande interesse politico, che richiedono da un lato una classe politica all'altez-
za del compito, dall'altro la capacità e la possibilità dei cittadini di scegliere
rappresentanti che abbiano almeno la sensibilità per capire quanto urgente sia
un adeguato intervento anche normativo.

192 Dalle iniziali di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. In In Cina l’acronimo BATX
raggruppa Baidu, Alibaba, Tencent, e Xiaomi. In Russia e in America latina la situazione è
analoga.
193 Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, cit., p. 18.
194 Vedi l’affermazione di Tim Berners-Lee riportata in esergo, https://webfoundation.org/
2019/03/web-birthday-30
Rientrano in questo ambito problematico e costituiscono una diretta mi-
naccia per la democrazia anche gli usi del Web da parte di entità statali per
mettere in atto comportamenti criminali, come la pirateria e gli attacchi infor-
matici. E molte sono oggi le nazioni che posseggono sofisticate unità di guerra
informatica e sono in grado di sferrare attacchi per scuotere le basi della fidu-
cia dei cittadini sul funzionamento della loro democrazia (haking elettorale), o
per scuotere la fiducia nella sicurezza di base della loro società (hacking delle
infrastrutture). Le pratiche di questo tipo di cyber war, la guerra cibernetica
nata con intenti soprattutto psicologici e propagandistici o di disturbo, sono al-
trettanto sofisticate e pericolose quanto quelle della cyber warfare, dagli esiti
ed effetti di una guerra vera.195
Un’altra fonte di pericolo per la democrazia riguarda un aspetto più psi-
cologico: la mancata esposizione degli utenti del Web a punti di vista discor-
danti, perché dal Web riceviamo sollecitazioni individualizzate sulla base dei
gusti personali, frutto di attività di controllo continuo su quanto riversiamo e
manifestiamo nella rete. Il pericolo sta proprio qui, in questo sfruttare la ten-
denza che noi tutti abbiamo a ricercare quanto sentiamo affine. Una tendenza
di per sé innocua, che si attenua spontaneamente nella vita reale dove siamo
forzati al contatto con la diversità.
Nella rete non è così: gli algoritmi che ci classificano e ci offrono quello
che asseconda meglio i nostri gusti e le nostre opinioni. Ci gratificano mostran-
doci le parti di mondo a noi amiche e offrendoci quello che gli algoritmi giudi-
cano essere ciò che desideriamo. In questo modo fanno venir meno la vera li-
bertà di scelta dato che non ci arrivano mai opzioni inaspettate, anche radical-
mente diverse dal nostro modo di essere. Un processo molto simile ad una
censura rovesciata, apparentemente benevola: è il Web che decide cosa fa per
noi, interviene nascondendo, e così ci priva della possibilità di operare una
scelta o di formarci un opinione fondata su notizie non artatamente filtrate.
È un’architettura di controllo che minaccia la libertà individuale e la de-
mocrazia e ha come risvolti la frammentazione, la polarizzazione e l’estremi-
smo. La rete, e i social, ci trattano da consumatori passivi, non da cittadini atti-
vi. Perché quanto Facebook ci propone personalizzando il News Feed, per mo-

195 Il primo esempio di guerra cibernetica è stato l’attacco haker e le azioni di disturbo che han-
no bloccato i media ed i centri di comando militari permettendo alle truppe russe di invade-
re la Georgia (2008). Altri due clamorosi esempi di uso del Web per azioni di guerra a scopo
dimostrativo sono stati il primo nel 2010 in Iran, alle centrifughe nella più grande struttura
di arricchimento dell’uranio, e il secondo nel 2017 ai sistemi di cento centrali nucleari statu-
nitensi, da parte dei russi.
strarci quello che concorda con il nostro pensiero, non ci rende più liberi. È
come leggere un giornale ad personam, costruito cioè su misura, dove sono ri-
portate solo le cose che ci piace vedervi scritte. Un motivo di orgoglio per la
nostra sovranità di consumatori perché ci conferma che “il cliente ha sempre
ragione”, ma una sconfitta per la sovranità politica del cittadino, che andrebbe
esercitata e irrobustita in un’architettura della scelta che esponga a situazioni
non selezionate, a prospettive e temi imprevisti: l’architettura della serendipi-
tà, quell’opportunità di imbattersi in situazioni e scoperte, tanto più piacevoli
quanto meno previste o pianificate. Ma questa presuppone una salda adesio-
ne ai principi della democrazia, per i quali la diversità è un comune valore fon-
dante, desiderio di ricerca e curiosità nei confronti del nuovo e insieme dispo-
nibilità ad accogliere e integrare, senza volontà di sopraffazione.
1.12. Bolle, clickbait, fake news e profilazioni
Posso credere a tutto purché sia sufficientemente incre-
dibile.
Oscar Wilde

I social, operando una selezione degli utenti in base ad affinità politiche,


religiose, culturali e altro ancora, creano il fenomeno delle camere di risonanza
(echo chamber),196 bolle di omogeneità di pensiero: le idee subiscono un pro-
cesso di progressiva depurazione e vengono ritrasmesse amplificate, potenzia-
te e magari estremizzate e distorte. Uniti esclusivamente dalla propria volontà
e per il proprio bene, gli aderenti vi partecipano pienamente “liberi da ogni le-
game, da ogni obbligazione, da ogni funzione sociale”. 197 Formano delle comu-
nità virtuali acritiche dove tutti, più o meno consapevolmente, cooperano nel
consolidare le posizioni inizialmente condivise, sviluppando una forte tenden-
za all’isolamento, alla polarizzazione e all’intolleranza. Sempre più lontano dal-
la complessità del reale, il gruppo si fa più omogeneo grazie a una discussione
che tende a spostare il baricentro sulle posizioni più estreme. In alcuni casi,
questo ha sortito un esito positivo, perché magari ha dato vita e voce a forti
movimenti sui diritti civili e a battaglie di civiltà, ma troppo spesso i social ven-
gono usati come camere di risonanza di false notizie (fake news) tra un pubbli-
co presupposto incline ad accettarle acriticamente.
La disinformazione e la diffusione di informazioni deliberatamente ma-
nipolate per ingannare le persone è un uso strumentalizzante della rete che
costituisce una seria minaccia per il sistema democratico perché mira a far sci-
volare nel caos l’intera società, frammentata in tanti atomi polemici e litigiosi,
portatori di opinioni prive di criteri di validità. Si tratta di un fenomeno sempre
più rilevante a livello globale, che non risparmia neanche chi ha competenze
digitali. Il gioco dei produttori di bufale sta appunto nell'orientare le opinioni
attraverso l’inganno generato dalla confusione tra notizia e opinione, confidan-
do sull’incapacità degli utenti di riconoscere le fonti e discriminare i comunicati
di un'agenzia indipendente dalle opinioni personali di un blogger. Nel febbraio
2019 il Parlamento Europeo ha pubblicato una scheda che, fornendo indicazio-

196 Cfr. L’articolo di Walter Quattrociocchi How does misinformation spread online? https://
www.weforum.org/agenda/2016/01/q-a-walter-quattrociocchi-digital-wildfires/
197 Questa è la definizione che dà Augustin Cochin delle Società di pensiero operanti in Francia
nel XVIII secolo e che ben si applica alle camere di risonanza del Web. Cfr. il suo La Révolu-
tion et le libre pensée, Copernic, Paris 1979, p. 20.
ni su come riconoscere le notizie false, aiuta a orientarsi nel mare della rete. 198
Una “bussola”, che ci avverte anche che l'85% circa degli europei ritiene che
queste siano un problema nel loro Paese e l'83 % crede che costituiscano un
problema per la democrazia in generale.
Ma a che pro creare disinformazione? Chi ci guadagna cosa? Chi ha inte -
resse a diffondere fake news, amplificare pettegolezzi e dicerie, polarizzare po-
sizioni e conflitti? E qui non ci riferiamo a quanto messo in rete da singoli o da
siti199 il cui obiettivo dichiarato è la satira, ma parliamo di chi crea e diffonde,
magari camuffandole da satira o da ironia, notizie false della peggior specie
per interesse personale, di qualsiasi natura esso sia, comunque non dichiarato
e non dichiarabile.
In primo luogo, ci guadagnano gli inserzionisti dei messaggi pubblicitari,
che sono alla continua ricerca di visibilità. Poiché pagano per far passare online
la pubblicità dei loro prodotti, sono in competizione per attirare la curiosità e
l'attenzione del frequentatore del Web e in particolare dei social. Lo fanno per-
ché hanno capito che sensazionalità della notizia, la polarizzazione e l'estre-
mizzazione dei conflitti sono metodi molto efficienti per trattenere gli utenti
online. Ci guadagnano i gestori dei media online, 200 divisi tra il mantenere la
credibilità del proprio brand e l’incremento del numero di lettori che deriva
dalla diffusione di tali notizie costruite apposta per diffondersi rapidamente.
L’interesse di questi attori del mercato si capisce se si tiene presente che, ri-
spetto a quelle vere, le notizie false nascono per essere, e quasi sempre sono,
più attraenti e condivisibili e per questo si diffondono a una velocità fino a sei
volte maggiore. E ci guadagnano ancora di più i gestori dei social che vendono
la nostra attenzione agli inserzionisti, potendo presentarci pagine e pubblicità
personalizzate, create in base a ciò che sanno di noi.
Il più delle volte le notizie pubblicate sui social vengono condivise in ma-
niera immediata, sottoposte a malapena a un’occhiata veloce o, nel migliore
dei casi, a una lettura superficiale. E non è una questione di cultura o di età.
Anche persone giovani e con competenze digitali hanno difficoltà a identificare
le notizie manipolate. A questo proposito, è interessante notare il significato
assunto dal termine virale che, passando nel mondo del Web, perde la conno-
tazione negativa di agente patogeno per riferirsi esclusivamente alla rapidità
198 Parlamento Europeo, Come riconoscere le notizie false. https://www.europarl.europa.eu/
RegData/etudes/ATAG/2017/599386/EPRS_ATA(2017)599386_IT.pdf
199 Ad esempio, la testata satirica italiana Lercio, lo sporco che fa notizia.
200 I media tradizionali, come quelli online, forniscono prevalentemente messaggi unidireziona-
li, dall’azienda al cliente e altri stakeholder.
con la quale si diffondono determinati contenuti. E, ovviamente, per diventare
virale, la notizia deve essere accattivante al punto da tacitare con disinvoltura
la tentazione di controllarne la veridicità. La viralità diventa così un primo indi-
catore della probabilità di trovarsi di fronte a una bufala.
La capacità di attrarre si lega anche a una perversa forma di erogazione
di compensi che premia i siti Web in base al numero di visitatori, ai quali ven-
gono sottoposti gli inserti pubblicitari. Questa prassi, che a prima vista appare
sensata, incentiva la creazione di siti, la cui principale funzione è unicamente
di attirare il maggior numero possibile di internauti per generare rendite pub-
blicitarie. È il sistema del clickbait, l’acchiappa-click che diffonde disinformazio-
ne facendo leva su curiosità ed emozioni. Tipico è l’uso di titoli che lasciano in
sospeso la conclusione. Se occorre cliccare per scoprirla, non ci si trova davanti
a una normale pratica di marketing, ma ad una trappola per catturare click.
Il vero nemico è perciò il modello imprenditoriale basato sull'incentivo
economico sottoposto all'avidità e alla pressione degli azionisti, in assenza di
una regolamentazione che tuteli non solo i diritti e i privilegi di alcune potenti
società, ma anche i diritti dei cittadini, a cominciare da quello di non essere og -
getto di manipolazioni occulte. Perché gli effetti collaterali di questo modello
imprenditoriale sono molteplici e molto pericolosi sia per il sistema democrati-
co, aggredito da più parti e destabilizzato da narrazioni manipolatorie, sia per
l'individuo, dal quale la tecnologia riesce a far emergere il lato peggiore, quello
più aggressivo e intollerante che si radicalizza con facilità grazie alle camere di
risonanza.
Inizialmente visto come portatore della speranza di illimitata libertà, il
Web ha ben presto rivelato l’altra faccia, quella del controllo e della sorveglian-
za. Siamo come una rana nel pozzo, alla quale si vuole far credere di essere
nell’oceano. L’idea di libertà della rete deve infatti fare i conti con una realtà
fortemente sbilanciata: il Web è in mano alle multinazionali del GAFAM che ri-
cavano, elaborano e detengono i dati delle nostre attività, sulle quali riescono
a esercitare un notevole controllo da cui traggono enormi guadagni. Operano
praticamente al di fuori di qualsiasi regolamentazione effettiva determinando
dinamiche di potere inaspettate, che richiedono di pensare a nuovi modelli di
partecipazione e di politica che mettano gli Stati in condizione di vigilare sul ri-
spetto dei diritti fondamentali dei cittadini. 201
201 Va in questa direzione il General Data Protection Regulation (GDPR) 2016/679 che è princi-
pale la normativa europea in materia di protezione dei dati personali, cfr. Unione Europea,
General Data Protection Regulation (GDPR) 2016/679 disponibile al https://protezionedati-
personali.it/regolamento-generale-protezione-dati
Attraverso il continuo monitoraggio delle persone, i programmi di sorve-
glianza202 di massa da parte di grandi aziende tecnologiche, ma anche di gover-
ni, raccolgono e registrano le nostre tracce digitali, le “briciole virtuali” che,
come nella favola di Pollicino, ci lasciamo dietro ogni volta che operiamo nel
Web o nella vita reale, quando facciamo uso di strumenti legati alla rete. Prese
singolarmente sono praticamente insignificanti ma, messe insieme, costitui-
scono un surplus di informazioni comportamentali economicamente e politica-
mente importante. Perché sono fatti, che riguardano il mondo reale, le cose e
le persone con i loro comportamenti. Per mezzo del reality mining203 si ricava-
no dati che posseggono un elevato valore commerciale, perché la loro profila-
zione permette di analizzare e valutare situazione economica, stato di salute,
preferenze, interessi, opinioni politiche o religiose, affidabilità, comportamenti
abituali e ubicazione dell’utente. A partire da questi dati, grazie alle reti neuro-
nali e agli algoritmi di tipo predittivo, processi di elaborazione basati sull'Intelli-
genza Artificiale individuano interessi e pronosticano comportamenti. Da que-
sto al vero e proprio indirizzamento il passo è breve: modelli sempre più accu-
rati e personalizzati sono in grado di incidere pesantemente sulle persone, fino
a far cambiare quello che pensano e fanno. E come questo viene fatto per de-
terminare gli acquisti, può essere fatto (ed è stato fatto) anche per esercitare il
controllo della popolazione, per influenzarne i comportamenti, per orientarne
le scelte, anche politiche.
Le profilazioni sono la vera ricchezza della civiltà dell'informazione: pos-
seggono un enorme valore per chi le acquisisce e le usa ma non per gli utenti,
che del loro uso (soprattutto quello improprio) subiscono le conseguenze.
La pratica del reality mining scavalca qualsiasi normativa che regola la
privacy. Crea e afferma una nuova forma di potere che Shoshana Zuboff defini -
sce instrumentarian,204 che permette di conoscere e influenzare a proprio van-
taggio il comportamento umano. Ne è un esempio lo scandalo, emerso nel
2018, della Cambridge Analytica, l'azienda privata che ha illecitamente acquisi-
to i dati personali di milioni di account Facebook e li ha usati per manipolare,
agendo sulle inclinazioni e paure, il pensiero degli elettori in occasione delle
elezioni presidenziali americane del 2016 e del referendum inglese per l'uscita
202 A volte si tratta di sousveillance, la sorveglianza dal basso, che riguarda anche dati che for-
niamo spontaneamente nei social.
203 Già il nome dovrebbe metterci in guardia perché è indicatore di un’attività che non si svolge
alla luce del sole (il mining è un’attività estrattiva, mineraria) e che è redditizia, come in ge-
nere lo sono quelle minerarie.
204 Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi
poteri, Luiss University Press, Roma 2019, p. 534 e segg.
della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Questa nuova forma di capitalismo
realizza concentrazioni di ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti,
espropriando diritti umani (primo fra tutti quello alla privacy) e imponendo il
proprio potere strumentalizzante sull'odierna società “dell'informazione”, ba-
sata sulla liberalizzazione delle telecomunicazioni e la diffusione massiccia di
Internet.
Dal punto di vista economico, questo nuovo tipo di capitalismo si affian-
ca a quello produttivo, da sempre legato all'industria e a quello cognitivo, che
valorizza l'insieme di conoscenze che sono generate dal ciclo produttivo del ca-
pitalismo industriale. Per produrre maggior profitto, alla conoscenza scientifica
e tecnologica viene ora affiancata una conoscenza di tipo diverso, non più in-
corporata nella materialità della merce, ma ricavabile dal flusso di informazioni
che riguarda l'intero processo produttivo. Un nuovo capitalismo predatorio,
che incrocia il prodotto del mining con una rete di rapporti ora trasformati in
merce a elevato valore di scambio. Qui la rivoluzione informatica svela uno dei
suoi lati oscuri, quello del sistema economico che Shoshana Zuboff, consape-
vole che per denotare una cosa nuova occorre usare termini nuovi, con un al-
tro neologismo definisce capitalismo della sorveglianza.
È un mutamento antropologico che si riflette anche nella democrazia
che entra nell’era della psicopolitica digitale, che fa leva sulla libertà e permet -
te di esercitare un potere indiscusso, nascosto e tanto forte da non essere
nemmeno tematizzato e perciò privo di contrapposizioni che sarebbero indice
di debolezza di chi lo detiene. Un potere di tipo nuovo, che invece di rendere
docili gli uomini cerca di renderli dipendenti, perché “seduce invece di proibi-
re”, al punto che il “denudamento volontario”, 205 col quale si forniscono spon-
taneamente informazioni personali al pubblico della rete, rende obsoleta an-
che l’idea di una reale protezione degli utenti. Un problema molto serio che
desta preoccupazioni nei governi democratici e in chi ha a cuore democrazia:
viene messo in sofferenza il diritto pubblico, che non pare in grado di esercita-
re il suo potere di controllo su questo importante settore, in cui il capitale tec-
nologico è concentrato nelle grandi aziende monopolistiche e multinazionali
del GAFAM.
Trovare la giusta rotta in un mare di menzogne e disinformazione non è
certo facile. Redazioni di giornali, di agenzie di informazione e di reti televisive
hanno cominciato a organizzare strutture atte a contrastare la disinformazione
attraverso la verifica delle informazioni e dei materiali raccolti nella rete, dalle

205 Byung-Chul Han, Psicopolitica, cit., pp. 14-19.


“soffiate” ricevute da fonti non ancora verificate alle dichiarazioni dei politici.
Sono i debunker o fact-checker, verificatori di notizie specializzati per aree te-
matiche (geografiche o culturali), che fanno capo a reti internazionali come
l’International Fact-Checking Network (IFCN).206
Ai navigatori del Web è richiesto di prestare un minimo di attenzione sia
nell’immettere dati personali, sia sulla attendibilità delle notizie, che vanno
controllate attraverso fonti riconosciute come affidabili, e segnalate se false. Il
cittadino non può comunque essere lasciato solo ad affrontare questo tipo di
problemi. Lo Stato dovrebbe intervenire con strumenti regolamentali fornendo
un codice di comportamenti ispirati alla correttezza, alla verificabilità e com-
pletezza delle informazioni fornite tramite il Web e, se serve, anche reprimen -
do. E come la stampa è soggetta a regole e responsabilità ben precise, sarebbe
auspicabile un controllo per ridurre al minimo i falsi account, che garantiscono
anonimato e licenza di disinformare, rendendo obbligatoria l'identificazione di
chi pubblica in rete.
Per contenere il fenomeno, alcuni big del Web come Twitter, Google e
Facebook hanno deciso che a tutela dei propri interessi sia meglio intervenire
bloccando le inserzioni pubblicitarie sui siti segnalati come inaffidabili e i profili
di chi diffonde notizie palesemente false. Certo, ci sarà chi grida che si tratta di
una illecita censura, ma è sicuramente più grave una neutralità complice di chi
ordisce un colpo di stato o di chi semina odio razziale e divisione nella socie-
tà.207 Qualcosa dunque si sta muovendo, ed è interessante notare come le
aziende abbiano acquisito, seppur nel loro interesse, consapevolezza delle cri-
ticità presenti nel sistema e delle proprie responsabilità. Anche perché, pur es -
sendo in generale condivisibile la tesi che non spetta a un privato stabilire cosa
è vero e cosa è falso, non si tratta solo di definire un criterio astratto di verità,
ma di avallare eventualmente azioni che possono avere anche rilevanti risvolti
penali.

206 Gli aderenti svolgono attività di monitoraggio delle tendenze e delle politiche di controllo
dei fatti in tutto il mondo, pubblicano articoli, una newsletter settimanale e organizzano il
Global Fact, un meeting annuale. Un nodo di questa rete di “esploratori di notizie” è pre-
sente anche in Italia. Cfr. International Fact-Checking Network (IFCN). https://www.poyn-
ter.org/ifcn/
207 Facebook ha cominciato a usare l'Intelligenza Artificiale per intercettare, bloccare e segnala-
re ai moderatori i post che diventano virali troppo velocemente.
2. La lunga marcia
2.1. I territori del “tra”
[…] il dottor Franz Kuhn attribuisce a un'enciclopedia ci-
nese che si intitola Emporio celeste di conoscimenti be-
nevoli la classificazione degli animali in a) appartenenti
all'Imperatore, b) imbalsamati, c) ammaestrati, d) lat-
tonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi
in questa classificazione, i) che si agitano come pazzi, j)
innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di
pelo di cammello, 1) eccetera, m) che hanno appena
rotto il vaso, n) che da lontano sembrano mosche.
J. L. Borges, La lingua analitica di John Wilkins

Oriente e Occidente sono termini che usiamo per connotare tradizioni


culturali che ci portiamo dietro da più di due millenni, sin dai tempi delle Guer-
re persiane in cui Erodoto racconta la contrapposizione di due mondi: da una
parte i cittadini delle democratiche e libere città greche, 208 dall'altra i sudditi
del dispotico impero persiano, fondato sulla illibertà dell’obbedienza. Una nar-
razione che, trasmessa dalla tradizione filosofica e letteraria, fissa una forma di
determinismo geografico eurocentrico,209 i cui elementi costitutivi sono ormai
parte di un comune sentire, al punto da essere diventati stereotipi di una cul-
tura e di una civiltà, quella delle democrazie rappresentative a economia liberi-
sta, in contrapposizione a tutti gli altri Stati retti da sistemi politici con diverse
tradizioni culturali.
Il temine Occidente richiama i concetti di civiltà e di cultura unite a for-
mare una nozione “radicata in un confine indistinto tra tradizioni testuali e for-
me di pratica quotidiana”,210 ignorando il contributo dell’islamizzazione alla
cultura occidentale e che quello che è stato definito Occidente nel XIX secolo,
per molti secoli ha compreso anche una buona parte di medio Oriente. Quan-
do usiamo i termini Oriente e Occidente, dobbiamo quindi ricordarci che nel
senso ormai comune sono mere etichette, convenzioni prive di contenuti pro-
pri, soprattutto nel mondo attuale, dove ogni forma di governo si trova a dover
agire all’interno di una rete di interdipendenze in condizioni che richiedereb-

208 Ma la democrazia ateniese descritta da Pericle sorvola sui rapporti di violenza instaurati
all’interno con i non cittadini e, all’esterno, con le città tributarie “alleate”.
209 Montesquieu e l'Illuminismo francese costituiscono dei buoni esempi in materia.
210 David Graeber, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, de-
mocrazia diretta, Elèuthera, Milano 2012, p. 49 e segg.
bero nuovi paradigmi di pensiero, di associazione e di azione politica.
Per conoscere un po’ meglio il sistema politico cinese, coglierne i capi-
saldi e i punti critici, ci si deve svincolare, per quanto possibile, dai nostri pre-
giudizi e a priori, e tenere presente che la lingua-pensiero cinese descrive dav-
vero un mondo molto lontano dal nostro, un mondo in cui concetti per noi abi -
tuali non esistono o denotano contenuti diversi. A cominciare da quell'io-sog-
getto, sul quale si è costruita la moderna filosofia occidentale e che nella lin-
gua-pensiero cinese,211 come suggerisce François Jullien, semplicemente non
esiste. Ed egli la definisce “lingua-pensiero” e non “filosofia” perché della filo-
sofia, come è andata sviluppandosi nel pensiero occidentale, non ha la struttu-
ra e non conosce alcune delle nostre fondamentali categorie di pensiero.
Come è possibile considerarla filosofia priva com'è del momento della sog-
gettività? E dove può radicarsi la nostra idea di libertà, se manca il soggetto?
Sono domande che gli appaiono prive di senso. Come ritiene altrettanto privo
di senso il confronto tra i nostri e i loro ambiti istituzionali o culturali, che pos -
sono attrarci per la raffinatezza delle forme, ma i cui contenuti sono incompati-
bili con la nostra sensibilità e cultura.
Già Hegel aveva capito che Oriente e Occidente sono un rapporto rela-
zionale e che l'Oriente appare quando entra in contatto con l'Occidente e vice-
versa, in un gioco di specchi, talvolta deformanti. Ed evidenzia che la grande
intuizione universale dell'Oriente ai nostri occhi appare una filosofia quando
entra in contatto con l'Occidente, la “patria della singolarità, del limite, dove lo
spirito della soggettività è preponderante”. 212 Per Hegel quella orientale non è
altro che una rappresentazione religiosa, un’intuizione del mondo, definita fi-
losofia solo per comodità, per poter farla rientrare in schemi noti, consueti,
magari mettendola a confronto con il pensiero, questo sì filosofico, dei primi
pensatori greci.
Quello tra Oriente e Occidente è un rapporto che si forgia con i contenu-
ti che ci mettiamo, come anche noi ci forgiamo grazie ai contenuti che ci deri -
vano dall'interazione con altre culture che, soprattutto se profondamente di-
verse, ci costringono a ri-pensare presupposti e filosofemi dati per acquisiti
all'interno della nostra tradizione filosofica, linguistica e politica. Ed è ciò che
propone di fare François Jullien partendo dal concetto di differenza al quale, in
relazione alla diversità culturale, preferisce il concetto di scarto.213 Uno scarto
211 François Jullien, Essere o vivere, Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti.-
Feltrinelli, Milano 2016.
212 Gorge Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma - Bari 2013.
213 François Jullien, Essere o vivere, cit., in particolare pp. 261-266. Si veda anche dello stesso
che crea quel "nessun dove" che egli definisce come il luogo del "tra", “che
non è mai isolabile, che non possiede nulla in proprio, che è privo di essenza e
di qualità ma proprio per questo è «funzionale», «comunicativo» […] e per-
mette di operare” senza irrigidirci in sterili contrapposizioni. E mentre per noi è
solo una preposizione che indica una posizione intermedia, alla quale qui attri-
buiamo una valenza concettuale, Jullien ci segnala che è ben lontano dal no-
stro: più che separazione è apertura che rinvia anche a una disposizione etica,
al restare disponibili alla luce che non acceca e all'aria che ci fa respirare. 214
È un tra che ci rende vitali e nasce dal contatto che la globalizzazione ha
creato tra i nostri due mondi dopo una lunga indifferenza reciproca, e che ci fa
capire che i riferimenti culturali che stanno alla base del nostro concetto di po-
litica sono di fatto solo nostri.
In Occidente, filosofia e politica sono sin dalle origini intimamente lega-
te. Il pensiero greco nasce nella polis, il luogo della comunanza dei diversi per
il più alto comune obiettivo: il vivere bene. Ed è proprio per questo che nel
mondo greco la politica, la virtù unificante di cui tutti gli esseri umani sono do-
tati, non ha nulla a che fare col potere e non si esprime come rapporto di for-
za, salvo che in caso di risoluzione di controversie.
Per il pensiero cinese antico, il mondo si origina e viene mantenuto vita -
le dall'interazione tra il cielo, che dà la vita e dispone l'ordine della natura, e la
terra, che dà la forma e sostiene attuando il decreto celeste, al quale non si
può che obbedire. L'uomo è quel microcosmo mortale che collega l'uno
all'altra215 nel nuovo ordine che lui crea attribuendo i nomi. Rompe così l'ordi-
ne primigenio, porta frammentazione e divisione nell'armonia dell'indifferen-
ziato e stabilisce una nuova armonia e una gerarchia di valori che dissolve la
bontà e l'ordine originari di un universo senza cosmogonia.
L'uomo non occupa nel mondo un posto di riguardo in virtù di una parti -
colare essenza, né possiede un luogo ove collocarvi un'anima, almeno per
come la intendiamo noi. Non c'è alcuno spazio per l'antropocentrismo; l'uomo
può distinguersi e prevalere sugli altri esseri solo se collabora al mantenimento
dell'ordine sociale, vivente specchio dell'ordine della natura. Allora è il Capo, il

Jullien Contro la comparazione Lo “scarto” e il “tra” Un altro accesso all’alterità, Mimesis


Edizioni, Milano-Udine 2014.
214 L'ideogramma jian 间 raffigura i due battenti di una porta 门 che non “opacizza e blocca […]
ma lascia indefinitivamente passare”. François Jullien, Essere o vivere, cit., pp. 177-178.
215 L’uomo sta eretto, ha la testa rotonda (come il cielo) e i piedi quadrati come la terra, pos -
siede una natura propria, che gli viene dal cielo e una forma corporea, che gli viene dalla
Terra, cfr. Marcel Granet Il pensiero cinese Adelphi, Milano 1971, p. 271 e segg.
Saggio, l'Uomo Nobile del confucianesimo, che predomina tramite l'auctoritas,
la Virtù del principe (ma che può essere anche di tutti), all'interno di un ordine
fisico e morale che si pone come modello da seguire, con i suoi rituali da appli-
care. Nessuno spazio per le leggi naturali come le intendiamo noi, tutto si ri-
conduce all'armonia universale.
Per i cinesi la storia del Mondo inizia e si confonde con la biografia e le
opere dei primi mitici Sovrani, quasi a indicare il ruolo privilegiato attribuito
all'etica, alle regole del comportamento sociale, all'etica che si fa politica. E
come il cielo decreta operando, senza fornire spiegazioni per imporre la sua ar-
monia, e il ritmo giorno-notte o quello delle stagioni semplicemente accadono,
così anche ogni uomo, qualunque sia il suo posto nel mondo, può adeguarsi
all'ordine della natura operando, esprimendo nella pratica quotidiana la virtù
che ognuno ha in sé.
In tale universo non può esservi posto per la libertà, come veniva intesa
nel mondo greco e come viene comunemente fra-intesa oggi da noi occidenta-
li quando, come già affermava Spinoza, molti “credono di essere liberi solo per-
ché sono consapevoli delle proprie azioni, e ignari delle cause da cui sono de-
terminati”;216 ignorano cioè che le loro determinazioni derivano dai mutevoli
appetiti del corpo, ovvero da desideri che possono anche essere indotti. Ma il
messaggio del seicentesco tornitore di lenti, che covava il sogno di un'umanità
pacificata attraverso una rifondazione della politica su indubitabili basi, non è
stato colto. La filosofia e la politica hanno imboccato la strada dell'individuali-
smo cartesiano, con i risultati che possiamo vedere nella quotidianità della
vita, dove la libertà astratta viene limitata dal complesso di regole sociali che si
basano su uno spazio pubblico di valori condivisi, al cui interno si mantengono
e si sviluppano le peculiarità di ognuno. Sono valori che vanno difesi perché la
loro erosione può portare alla disgregazione. Tutte le forme associative hanno
infatti bisogno di regole che determinino comportamenti e divieti e forniscano
i parametri per una valutazione della qualità, anche etica, delle azioni. E se è
vero che “libero è soltanto colui che vive integralmente secondo il solo detta-
me della ragione”,217 l’obbedienza del suddito di un governo democratico non è
indice di schiavitù perché è proprio la ragione a fargli capire che il comando ha
per finalità il suo interesse e che “senza un simile consenso pratico scivolerem-
mo lentamente in una società fatta di fazioni tribali”. 218
Nella lingua-pensiero cinese, in mancanza della categoria del soggetto
216 Spinoza, Ethica Ordine geometrico demonstrata.
217 Spinoza, Trattato teologico-politico cap. XVI.
218 Slavoj Žižek, Un vaccino contro il sistema, Internazionale, 8/14 ottobre 2021.
come supporto logico, la nostra idea di libertà, intesa come autonomia, non
trova il terreno su cui radicarsi. In luogo di un soggetto, di un Io che vuole im -
porsi, che si staglia di fronte a un insieme di oggetti e di circostanze, troviamo
una persona collocata all'interno di una situazione, della quale è parte attiva e
della quale deve saper cogliere la natura. Deve cioè conoscerne gli elementi,
prendere in considerazione la natura delle cose che la compongono e agire su
di esse per sviluppare il loro potenziale a proprio favore.
Nell'Arte della guerra,219 Sun Tzu non pone delle regole, ma offre un me-
todo da applicare. Ci dice che un buon generale deve conoscere se stesso, poi
il nemico e infine la situazione, dalla quale ricavare il potenziale per la vittoria.
Da questo emerge che, innanzitutto, egli deve capire che non possiede alcuna
astratta libertà di azione, ma deve analizzare tutti i fattori in gioco e compor-
tarsi nel modo più opportuno; la sua abilità sta tutta nella sua capacità di com -
prendere la situazione. Essendo portatore di un'etica che non procede per re-
gole, ma per mezzo di una regolazione continua del comportamento, non pre-
para un piano pensato per circostanze astratte, bensì, calato nella situazione
reale, la deve fare pro-pendere a suo vantaggio sfruttando al massimo i fattori
a lui favorevoli e quelli che svantaggiano l'avversario. Posto che la virtù è adat-
tarsi alle cose e armonizzarle, la virtù del generale competente consiste nel sa-
persi sintonizzare con la situazione della quale è parte. La sua virtù coincide
con la sua libertà, che è ben lontana dal consentirgli di fare ciò che vuole, con -
sistendo piuttosto nell'essere parte consapevole e attiva della situazione, delle
sue naturali inclinazioni e opportunità.
E il capolavoro, l’apice della sua suprema abilità si ha quando l'esercito
nemico realizza che sta andando incontro a una inevitabile sconfitta e perciò si
arrende senza combattere. La vittoria realizzata senza ricorre alle armi, senza
dover palesare la propria supremazia e capacità bellica, appare una cosa così
naturale, così facile, da sembrare alla portata di tutti. Ed è per questo che il
daoista Zhuang-zi può dire che “l'uomo perfetto è senza io, l'uomo ispirato è
senza opera, l'uomo santo non lascia nome”. 220 È questo il significato del som-
mo principio del non-agire, che non è il pigro, inerte non fare niente, ma il si-
tuazionale non forzare le cose deviandole da loro corso, traendo vantaggio dal-
la loro propensione.

219 Sun Tzu, L’arte della guerra Mondadori, Milano 2003.


220 Kia-hway, Liou (a cura di), Zhuang-zi, Milano, 1993, p. 15.
2.2. Cina: modernizzare la tradizione
«Ma la Cina acceca», dite. E io rispondo: la Cina acce-
ca, ma c'è della luce da trovare. Cercatela.
Blaise Pascal, Pensieri, 672

Convinti della propria supremazia culturale nei confronti delle popola-


zioni al di là dei confini dell’impero, i cinesi hanno per secoli nutrito il mito
dell’autosufficienza e dell’intangibilità del proprio territorio e sono vissuti colti-
vando con orgoglio il proprio isolamento. Per millenni, fino alla bruciante scon-
fitta delle guerre dell’oppio e alla successiva resa agli interessi predatori delle
potenze occidentali e del Giappone, si sono considerati all’apice dello sviluppo
culturale e scientifico del mondo a loro conosciuto.
Sin dai tempi dell’impero romano non era certo mancato l’interscambio
commerciale tra Oriente e Occidente, ma avveniva per tramite della gelosa in-
termediazione di altri popoli. I tentativi di costruire un rapporto diretto, ovvero
di controllare il traffico commerciale dalle pianure del fiume Giallo al Mediter-
raneo lungo la Via della seta, aveva portato ai romani solo guerre e sconfitte.
Per i romani il popolo dei Seres era lontano e misterioso, come per i cinesi
l’impero romano non era altro che un’altra grande Cina, situata in un mondo
che consideravano barbaro e pericoloso perché non civilizzato nell’unità armo-
nica data dal comando dell’imperatore, il “figlio del cielo”. Una reciproca pro-
fonda ignoranza mantenutasi per secoli, con qualche isolata missione esplora-
tiva o evangelizzatrice verso quelle terre sconosciute.
A partire dal XIII secolo, il Milione di Marco Polo dà un volto alla leggen-
da raccontando che laggiù vive un popolo laborioso e culturalmente evoluto, e
che il Gran Khan è il capo di un impero civilissimo e ricco. Dalla metà del XV se-
colo l’interesse predatorio si volge anche a Oriente. Si intensificano le missioni
religiose e commerciali, che creano un nuovo contatto diretto, stavolta anche
via mare. In Cina gli stranieri vengono visti con sospetto, non possono spostarsi
liberamente e sono rigidamente controllati. Ma le ricchezze cinesi sono troppo
attrattive per l’imperialismo coloniale britannico che, per pagarsi l’import dalla
Cina, alla fine del XVIII secolo vi introduce l’oppio prodotto nelle colonie inglesi
delle Indie. Il tentativo cinese di contrastare il lucroso commercio scatena le
“guerre dell’oppio” e l’aggressione inglese, seguita da quella di Francia, Giap-
pone, Russia, Germania e Giappone.
Gli anni che vanno dalle sconfitte cinesi nelle due “guerre dell'oppio”
della metà del XIX secolo fino alla rivoluzione del 1911 e la caduta dell’impero,
vedono la Cina sconfitta, costretta a cedere Hong Kong e ad aprire i porti alle
potenze coloniali. L’impero è ridotto in uno stato di povertà e fragilità che gra -
dualmente si trasforma in una condizione semicoloniale e semifeudale. Uno
smacco terribile per chi sente ancora vivo l'orgoglio di un impero ma si scopre
incapace di opporsi alla supremazia militare di quelli che considerava dei bar-
bari: portatori di violenza, di disprezzo per le regole e di germi di una civiltà,
forse meno raffinata, ma dotata di un sapere scientifico e una tecnologia supe-
riori e capace di formulare interessanti teorie filosofiche, giuridiche e politiche,
come la democrazia e il socialismo, su cui si stanno formando solide formazio -
ni statali.
È il “secolo dell'umiliazione nazionale” che termina solo dopo la Secon-
da Guerra mondiale con la nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949,
e il cui ricordo, ancora oggi, è vissuto come monito di una sempre possibile ri -
caduta, qualora venisse meno una solida struttura politica, sociale e militare. È
anche il periodo in cui la classe dirigente cinese prende coscienza della propria
debolezza e avvia la ricerca delle cause del crollo che ha travolto la tradizionale
struttura sociale e politica. Costretta a ripensare la propria cultura, al divario
tecnologico che la separa da quella occidentale, riconosce la necessità di pro-
cedere a una rapida modernizzazione, a delle riforme istituzionali in modo da
consolidare lo Stato, sollevare il popolo dalla povertà e rendere la Cina una na-
zione moderna.
Anche per questo, quando si conclude la millenaria epoca imperiale, il
confucianesimo viene messo sotto accusa e identificato come una concausa
dell'arretratezza culturale, politica ed economica della nazione. Molti intellet-
tuali confuciani cominciano a dubitare della sua attualità e validità e cercano di
integrarne gli insegnamenti con la cultura occidentale, preferiendola a quella
tradizionale che era stata per secoli alla base della formazione del ceto dirigen-
te imperiale, a cominciare dai mandarini. E molti vanno a studiare all’estero
per impossessarsi di quel sapere che si è mostrato vincente e in grado di porta-
re benefici per tutti. Contemporaneamente si avvia anche la rilettura del con-
fucianesimo per fornire una solida base culturale ed etica alle riforme ritenute
indilazionabili. Ma nel nuovo contesto, il puro e semplice recupero degli ideali
confuciani non è più sufficiente. All’idea di "saggezza interiore", che può porta-
re all'isolamento del saggio, si affianca e viene valorizzata ora quella di "regali-
tà esteriore", che pone l’accento sull'aspetto politico e sociale.
In questo clima si apre il dibattito sulle possibilità di arricchire la cultura
tradizionale cinese non soltanto con la scienza e la tecnologia occidentali, con-
siderate fino ad allora mere applicazioni pratiche di una cultura di scarso inte-
resse, ma anche con i nuovi ideali cui la cultura occidentale si richiama: demo -
crazia, libertà, eguaglianza, eliminazione di discriminazioni sociali ed emanci-
pazione delle donne. Vengono coniati due slogan che segneranno il rapporto
tra le due culture anche nelle successive modernizzazioni: il primo afferma la
necessità di imparare dall’Occidente per superare l’Occidente, mentre il secon-
do, che propone di mantenere gli insegnamenti cinesi per i principi fondamen-
tali e adottare quelli occidentali per le applicazioni pratiche, manifesta la con-
vinzione che la tecnologia sia uno strumento neutro e facilmente assimilabile.
La parola d'ordine è modernizzazione, che appare un’improrogabile ne-
cessità sia sul piano delle strutture amministrative e produttive, sia su quello
etico e politico, a partire dai criteri di formazione dei funzionari imperiali. Ser-
vono uomini nuovi per la Cina che si apre e guarda all’Occidente. Viene così
abbandonato il sistema del mandarinato che, con qualche breve periodo di in-
terruzione, era durato circa 13 secoli e aveva svolto con buoni risultati, oltre
alla funzione amministrativa, anche quella di ascensore sociale. E Shanghai, la
Parigi d’Oriente è l’immagine di questo slancio innovativo. In pochi anni, tra il
1910 e il 1930, passa da 1 a 3 milioni di abitanti e diventa una città ricca e co -
smopolita.
In questo contesto, spicca la figura di Sun Yat-Sen,221che anche il regime
comunista considera un grande “precursore della rivoluzione cinese”,222 tanto
da citarlo nel preambolo della Costituzione del 2018; a lui viene riconosciuto il
merito di aver fondato la prima Repubblica cinese, pur non avendo poi saputo
portare a termine la “storica missione del popolo cinese” di opporsi al feudale -
simo e all’imperialismo. Figlio di una povera famiglia contadina, Sun Yat-Sen
riesce a laurearsi a Hong Kong e poi si dedica alla causa della rivoluzione. Di
idee repubblicane, per evitare che la Costituzione dell’auspicata nuova repub-
blica sia solo un’astratta enunciazione di principi validi solo sulla carta, capiti e
condivisi solo da pochi, ritiene possibile abbandonare la cultura tradizionale
solo dopo aver messo il popolo cinese in condizioni tali da poter apprezzare

221 A lui si deve l’adozione del termine Zhōnghuá 中 ;; 华 che è entrato nella denominazione
adottata nel 1949 di quella che sarà la nuova Repubblica Popolare Cinese 中华 人民共和国
Zhōnghuá Rénmín Gònghéguó. L’ideogramma Zhōng che si accompagna a huá (fiore, cultu-
ra, raffinatezza) indica la centralità spaziale e la virtù dinamica e attrattiva della giusta via.
Cfr. Anne Cheng Storia del pensiero cinese, 2 voll., Einaudi, Torino 2000, Introduzione.
Sull’origine del nome cfr. anche l’articolo di Renata Pisu disponibile al https://ilmanifesto.it/
la-sindrome-dellimpero-di-mezzo/
222 Giorgio Mantici, Sun Yat-Sen, oggi, in Cina, “Cina”, 1975, n. 12, pp. 227 - 244. http://www.j-
stor.org/stable/40855532
una forma di governo di tipo occidentale. Nel 1905 fonda la Lega cinese che si
proponeva un’insurrezione antidinastica e la nascita di una repubblica; nel
1911, caduto l’imperatore, diviene il presidente provvisorio della nuova Re-
pubblica della quale, prima di essere costretto a emigrare, elabora il program-
ma politico.
Il suo tentativo di fondare la nuova Cina ha indicato la direzione da se-
guire nel processo di modernizzazione: per creare uno Stato forte e moderno
occorre saper coniugare i valori e la prassi politica della cultura occidentale con
quelli trasmessi dalla millenaria sapienza cinese. Una nazione indipendente,
repubblicana, basata sul potere del popolo e che del popolo persegua il benes -
sere. Sono questi i "Tre Principi del Popolo" per un governo costituzionale che
già circolavano tra i rivoluzionari e che Sun Yat-Sen sistematizza e fa propri.
Sono principi che, sia pur diversamente coniugati, influenzeranno anche il PCC,
che contro il Kuomintang, il partito fondato da Sun Yat-Sen e solo inizialmente
da lui diretto, condurrà la guerra civile di liberazione nazionale. Ed è così che il
concetto di democrazia entra nel lessico politico cinese e si comincia a concre-
tizzarne l’idea, assieme alla consapevolezza della necessità di innestare quel
nuovo principio sul corpo del pensiero etico-politico tradizionale.
Per quanto attiene ai poteri dello Stato e alla loro separazione, nella sua
Costituzione Provvisoria del 1912 Sun Yat-Sen elabora una originale teoria, che
segna un sostanziale scostamento rispetto alla tradizionale ripartizione dei po-
teri, come viene interpretata e realizzata in Occidente. La sua proposta integra
i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario con altri due poteri tradizionali: quel-
lo delle magistrature del Potere di esame, composte da soggetti indipendenti
che selezionavano i candidati all’accesso delle cariche amministrative, 223 e
quello delle magistrature del Censorato che, ai tempi dell’impero, esercitavano
il potere di controllo sull’operato di tutti gli organi del governo. Magistrature
che godevano di una tale autonomia di potere da essere in grado di contrap-
porsi anche all’imperatore, tanto che alcuni studiosi hanno attribuito loro un
potere quasi di impeachment.
Il periodo che precedette la fondazione della Repubblica Popolare Cine-
se (1949) è stato uno dei periodi più tormentati della storia della Cina, che ha
rischiato di smembrarsi con la guerra civile. La vittoria del PCC guidato da Mao
Zedong costituisce una radicale rottura col passato. Si impone una nuova clas-
se dirigente con una forte connotazione ideologica e nuovi principi che porta-

223 La proposta di riforma ricalca il metodo di selezione per esami di accesso alle cariche, un
punto di forza per il buon funzionamento e la stabilità dell’impero.
no ad una riconsiderazione della storia nazionale, che non risparmia nemmeno
la parentesi repubblicana tra la caduta dell’impero e la nascita della nuova Re -
pubblica Popolare. La spinta modernizzatrice di ispirazione occidentale avviata
con la Prima Repubblica viene abbandonata assieme a tutta la ricerca costitu-
zionalista che l’aveva accompagnata.
In nome del primato della politica rivoluzionaria, il funzionario di partito
sostituisce definitivamente il mandarino, il funzionario-letterato, colto e poten-
te, colonna portante della struttura governativa dell’impero a livello territoria-
le, che ora viene considerato corresponsabile del sottosviluppo e del tracollo
della nazione. Il mandarino si occupava con notevoli capacità di fisco, di pro-
blemi amministrativi ed economici, di lavori pubblici e di giustizia. E quando
era chiamato a risolvere delle controversie, cercava una soluzione “armonio-
sa”: tutto era affidato alla sua rettitudine e alla sua sensibilità e il ricorso alla
norma giuridica veniva considerato un rimedio da adottare solo quando
l'armonia e la pace sociale erano state compromesse, per esempio, da reati
che richiedevano una giusta punizione in grado di ristabilire l'equilibrio turba-
to. Una figura superata, ma che lascia in eredità una forma mentis che fatica a
morire anche nella nuova Repubblica, dove alla ricerca dell’armonia il nuovo
funzionario sostituisce il primato della politica e tende a dare poca importanza
al rispetto delle leggi scritte.
Anche il confucianesimo, già collocato tra le cause principali dell'arretra-
tezza della Cina, torna a essere guardato con sospetto. Dalla tolleranza iniziale,
si passa all’ostilità e, infine, con la rivoluzione culturale voluta da Mao, alla pro-
scrizione, e professarsi confuciano può mettere a rischio la vita.
2.3. La svolta
Poiché il popolo è numeroso, … che si deve fare di più?
Arricchirlo, rispose Confucio.
E quando fosse ricco, che si dovrebbe fare ancora?
Istruirlo, rispose Confucio.
I Dialoghi, pp. 202-203
Alla fine degli anni Settanta Deng Xiaoping avvia la riforma della Cina del
dopo Mao con l’obiettivo di far uscire dal sottosviluppo “un paese-continente
[…] deciso a mantenere l’indipendenza politica e a conseguire l’autonomia tec-
nologica per avanzare verso una modernità socialista”, 224 e di trasformare la
Cina da Paese arretrato a moderna potenza industriale.
La Repubblica Popolare Cinese, con un territorio di 9,6 milioni di Km
quadrati e all’epoca circa un miliardo di abitanti, si rimette in marcia e passa
dal primato maoista della politica al capitalistico “Arricchirsi è glorioso”.
All’uguaglianza nella povertà la nuova leadership cinese sostituisce un proget-
to per migliorare le condizioni di vita, eliminare le sacche di povertà assoluta e
formare un solido ceto medio, al quale non è però consentito di realizzare poli-
ticamente la sua forza economica al di fuori degli spazi di dibattito all’interno
della struttura del Partito Comunista Cinese. 225
Le "riforme" di Deng Xiaoping partono dall’idea di un approccio gradua-
le alla democrazia socialista basato sullo sviluppo delle forze produttive. Alla
trasformazione dei rapporti di produzione, che sono l’autentico obiettivo della
formulazione rivoluzionaria marxiana, la nuova leadership predilige un nuovo
modello economico, politico e sociale, un percorso che propone obiettivi di
medio e lungo termine formulati in base a una programmazione scandita dai
piani quinquennali approvati dai congressi nazionali del Partito Comunista Ci-
nese (PCC) e delle assise dell’Assemblea Nazionale Popolare. Si avvia così il
progetto delle "quattro modernizzazioni" (industria, agricoltura, scienza e tec-
nologia, difesa) che ha come obiettivi prioritari lo sviluppo economico e il de-
potenziamento della lotta di classe e che, ironia della sorte, porta a compi-
mento, almeno in parte e in modo imprevisto, i contenuti della rivoluzione cul-
turale del Movimento maoista contro i quattro vecchiumi (vecchio pensiero,
vecchia cultura, vecchi costumi e vecchie abitudini).
La scelta della nuova leadership è netta: incoraggiare gli investimenti

224 Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi , La
scuola di Pitagora, Napoli 2012, p. 86.
225 Cfr. ivi, pp. 74-75.
stranieri, avviare esperimenti di cooperazione con l’economia internazionale,
introdurre metodi e tecniche di gestione capitalistiche, a cominciare dalle
"zone economiche speciali".226 Di pari passo si sviluppa la ricerca per fornire
solide basi teoriche alla nuova linea politica. La teoria politica marxiana si pone
soprattutto l’obiettivo di legittimare il diritto degli sfruttati di riappropriarsi del-
le ricchezze di cui il modo di produzione capitalistico li ha espropriati accumu-
lando il surplus ottenuto mercificando i lavoratori. Ma se per rivoluzione non si
intende solo l’abbattimento del modello di sviluppo capitalista e vi si include
anche la costruzione di un nuovo regime, in Marx non c’è una teoria rivoluzio-
naria. Come afferma Domenico Losurdo questa è “una grave lacuna. A colmar-
la non serve né il ritorno a Marx né ad altri classici. È un compito nuovo, di
straordinaria difficoltà, ma assolutamente ineludibile”. 227 Per di più mancano
tentativi di attuazione cui ispirarsi: troppo breve e storicamente determinato è
stato quello della Nuova Politica Economica (NEP), con la quale Lenin pone fine
all’egualitarismo “al tempo stesso utopistico e da caserma proprio del comuni-
smo di guerra”,228 tentativo conclusosi precocemente nella fossilizzazione tota-
litaria del regime stalinista.
Il Partito Comunista cinese trova una soluzione in un’inedita proposta
politica che avvia la modernizzazione del sistema produttivo e dell'organizza-
zione statale prendendo una direzione chiamata “via socialista con caratteristi-
che cinesi”. Un percorso originale che parte dalla consapevolezza della “neces-
sità di dover permanentemente coniugare socialismo, democrazia e mercato,
superando una visione semplicistica e grossolanamente omogenea della nuova
società da costruire”,229 e dell’esigenza di armonizzare fattori difficilmente con-
ciliabili, in un territorio inesplorato tra verticismo comunista e democrazia po-
polare, stato di diritto e meritocrazia, liberismo e confucianesimo. Il risultato è
un sistema di gestione politica nel quale il Partito Comunista detiene il potere,
dirige e controlla saldamente le forze del mercato in un difficile equilibrio tra
“la forma più estrema di queste due caratteristiche: lo Stato forte e autoritario,
e la dinamica del capitalismo sfrenato [in quella che si propone come] la forma
più efficace di socialismo ai nostri giorni”. 230
La via del “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” ab-

226 Shenzhen, Zhuhai, Shantou e Xiamen.


227 Domenico Losurdo, Fuga dalla storia?, cit., p. 75.
228 Ivi, p. 83.
229 Ibid.
230 Slavoi Žižek, Dal punto di vista comunista. 35 interventi inattuali, Salani, Milano 2020, p.
177.
bandona la visione messianica che il socialismo porti inevitabilmente al dissol-
vimento dello Stato, e la sostituisce con la realizzazione di un regime a econo-
mia mista basato su un sistema imprenditoriale a tre livelli: grandi aziende go-
vernative centrali con le quali mantiene il controllo su settori strategici, società
ibride locali e straniere e un capitalismo su piccola scala. Un sistema socio-eco-
nomico che non ha precedenti e che sbalordisce il mondo per i risultati econo-
mici e politici che ottiene.
La Cina si avvia così a diventare una delle maggiori potenze mondiali,
concentrando in pochi decenni i cambiamenti e gli sconvolgimenti che i Paesi
europei hanno maturato in un paio secoli. Il popolo si adegua rapidamente al
nuovo stile di vita, benché la trasformazione non sia né semplice né indolore. Il
travaglio traspare dalla letteratura cinese contemporanea che racconta la no-
stalgia della povera gente, l’insoddisfazione per l’erosione di antichi valori, la
diffusione della corruzione, l’enorme divario tra ricchi e poveri, l’inquinamento
e l’instabilità sociale, prodotti collaterali del travolgente sviluppo economico.
Moltissime cose cambiano ma, nonostante i numerosi tentativi di trova-
re un sistema alfabetico valido per una trascrizione semplificata della lingua, ri-
mane inalterato il sistema di scrittura,231 che è unico per tutto il Paese, basato
sui caratteri cinesi: tutti scrivono nello stesso modo, ma leggono in maniera di-
versa. Questo ha una grande rilevanza anche politica ed è ciò che ne spiega
l’attaccamento in funzione aggregante dell’identità nazionale.
Questo epocale cambiamento in un Paese così complesso, con un passa-
to di disgregazione, di umiliazione coloniale e di guerra civile è avvenuto, tra
l’altro, senza modelli cui ispirarsi, se non in negativo. Perché per i cinesi è stato
uno shock assistere al fallimento del socialismo reale, alla dissoluzione del si-
stema politico, economico e sociale dell'Unione Sovietica e alla frammentazio-
ne e alla guerra civile dell’ex Jugoslavia. È stato traumatico assistere al crollo di
un Paese che per anni era stato un mito e un modello di successo anche scien-
tifico e tecnologico, ma soprattutto vedere folle di moscoviti scavare
nell'immondizia, ridotti alla fame e alla miseria dall'economia di mercato e dal
liberismo che avevano sostituito brutalmente il comunismo. Riuscire a gover-
231 La scrittura cinese è di tipo non alfabetico e questo l’ha resa oggetto di molti pregiudizi, si
veda Viviane Alleton, L’écriture chinoise: mise au point, in AA.VV., La pensée en Chine au-
jour’hui, a cura di Anne Cheng e Jean-Philippe Tonnac, Gallimard 2007, pp. 241-269.
Oltre ai sistemi escogitati dagli occidentali, a partire dalla fine del’’800 anche i cinesi hanno
cercato di elaborare sistemi di trascrizione alfabetica, soprattutto per facilitare la scolarizza-
zione. Dagli anni ‘70 si è diffuso il Pinyin come sistema di trascrizione mediante l’alfabeto la -
tino.
nare il Paese e a mantenerlo unito ha richiesto un grande sforzo politico e una
solida struttura organizzativa, ma soprattutto degli obiettivi condivisi e una no-
tevole dose di disciplina, perché nel nome del primato della politica, la rivolu-
zione culturale maoista aveva destituito gli organi di sicurezza pubblica, i tribu-
nali e le procure creando un sistema cesaristico basato sul rapporto diretto tra
le masse e il leader. La legge vigeva soltanto nominalmente in un sistema lega-
le di per sé lacunoso, con tradizioni più etiche e sociali che giuridiche.
Per giunta, “se si aprono le finestre per fare entrare aria fresca, è neces-
sario aspettarsi che entrino anche delle mosche”. La frase, attribuita a Deng
Xiaoping, ben si addice alla situazione della Cina delle riforme del dopo Mao.
Sono stati trent’anni di sviluppo vertiginoso e caotico che hanno creato grandi
ricchezze per pochi, benessere per molti, la censura per tutti; che hanno semi -
nato i germi dell’individualismo e moltiplicato gli incidenti di massa, come ven-
gono ancora definiti scioperi, rivolte, proteste, manifestazioni, che si sono avu-
ti e si hanno in tutto il Paese e dei quali poco si parla nelle cronache ufficiali.
Per coglierne la dimensione non resta che applicare, come propone il filosofo
Slavoi Žižek, la regola “fondamentale dell’ermeneutica stalinista: dal momento
che i media ufficiali non raccontano apertamente i problemi, il modo più affi-
dabile di scoprirli è cercarne gli eccessi compensatori nella propaganda di Sta-
to: più l’«armonia» è celebrata, più in realtà ci sono caos e antagonismo”. 232 La
Cina contemporanea si richiama infatti spesso al valore politico dell’armonia,
un richiamo che, all’inizio del suo mandato, anche Xi Jinping233fa subito suo, in-
dividuando nella lotta alla corruzione e nel recupero dei valori tradizionali due
importanti punti della linea politica del partito.
A proposito degli incidenti di massa, al di là del numero che viene tenu-
to segreto, ciò che qui importa rilevare è il cambiamento del tipo di rivendica-
zioni dopo l’incidente di massa del 1989 di Piazza Tian’anmen. Se, come affer-
ma Yu Hua, prima di questa manifestazione la gente scendeva in strada per “il
futuro del Paese, per ottenere libertà e democrazia”, 234 adesso lo fa per difen-
dere interessi corporativi di gruppo. 235 Ne sono un esempio le manifestazioni
delle famiglie degli studenti che temono di veder ridotte le possibilità di acces-
so all’università, lo sciopero degli autotrasportatori o quelli di tanti lavoratori
232 Slavoi Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, Salani, Milano 2012, p. 76.
233 Xi ricopre dal 2012 la carica di Segretario del PCC e dal 2013 quella di Presidente della Re -
pubblica e della Commissione militare Centrale: sono le tre massime cariche dello Stato ci -
nese.
234 Yu Hua, Mao Zedong è arrabbiato. Verità e menzogne dal pianeta Cina, Feltrinelli, Milano
2018, p. 17.
235 Ovviamente, il discorso è diverso per Hong Kong.
ipersfruttati, costretti a doversi accontentare di paghe, con cui stentano a so-
pravvivere.
Ma non si può governare solo con la legge e i “cambiamenti stravolgenti
che hanno toccato il Paese sotto ogni profilo [con] trasformazioni radicali nel
modo di pensare e nel modo di vivere, così come nella visione del mondo e nel
sistema di valori tradizionali”236 ispirati al buddismo e al confucianesimo, eti-
che che pure valutano positivamente la ricerca del benessere individuale.
Come si è verificato in Occidente, la diffusione del modo di produzione capita-
listico non poteva però non incidere sui valori, a cominciare da quelli della fa-
miglia, prima vittima dell’individualismo del libero mercato. Non a caso, ades-
so “il Partito incoraggia vivamente la devozione verso i genitori, con un colpo
di spugna al passato in cui l’aveva scoraggiata, e addossa all’individualismo la
colpa della scomparsa dei valori”. 237 In quest’ottica, nel 2013, entra in vigore la
“Legge per la tutela dei diritti e degli interessi delle persone anziane della Re-
pubblica popolare cinese”, 238 accompagnata da un'intensa campagna mediati-
ca sui casi di abbandono o di abuso sugli anziani.
Si impone quindi una ripresa e riconsiderazione della funzione sociale e
politica del pensiero di Confucio, il "Sovrano senza corona" la cui saggezza è da
sempre equiparata a quella dei sovrani virtuosi dell’antichità.

236 Yu, Hua, Mao Zedong è arrabbiato, cit, p. 15.


237 Ivi, p.78.
238 Entrata in vigore il primo luglio 2013, all’articolo 18 la legge stabilisce che “I familiari che
hanno comune residenza con persone anziane sono tenuti a occuparsene o a visitarle spes-
so” e prevede sanzioni per gli inadempienti e 20 giorni di permesso annuo per i figli che si
prendono cura degli anziani.
2.4. Confucio: tra etica e politica
Se lo guidi con le leggi e lo rendi uniforme con le puni-
zioni, il popolo le scanserà e non conoscerà vergogna.
Se lo guidi con la virtù e lo rendi uniforme con i riti, co-
noscerà la vergogna e perverrà (al bene).
Confucio, I Dialoghi, p. 132

Nel nuovo clima politico e culturale creatosi con la politica della "porta
aperta" avviata da Deng Xiaoping si dischiude un ampio spazio politico anche
per il nuovo confucianesimo, purché non si limiti alla classica tematica del per-
fezionamento morale ma rivolga particolare attenzione all’applicazione della
pratica confuciana nell’ambito della società. E col problema del rapporto tra la
tradizione e la necessaria e inevitabile modernizzazione si ripresenta con forza
anche la questione dell'annosa disputa con i legisti, se sia cioè possibile impo-
stare una società che si regga solo sul rispetto formale della legge, solo
sull'obbedienza per paura della punizione. Perché al “socialismo con caratteri-
stiche cinesi” occorre un collante associativo compatibile con i propri ideali so-
ciali, una “ideologia” che unisca gli uomini, colmi il vuoto spirituale che accom-
pagna l’insorgente individualismo capitalistico cinese e permetta la realizzazio-
ne di una società armoniosa basata su un’etica condivisa. Per questo la Cina si
rivolge soprattutto al confucianesimo, nonostante la diffusione del daoismo e
del buddismo, entrambi considerati poco inclini allo sviluppo di una morale so-
ciale.239 Tanto più che Confucio parlando di sé diceva “io tramando, non creo.
Stimo e amo gli antichi”,240 indicando chiaramente che nella sua etica sociale
aveva fatto proprio quanto di compatibile era stato espresso dal pensiero dei
saggi che erano alle origini della cultura cinese. La benevolenza e il rispetto per
il prossimo, la devozione filiale e sociale, la lealtà, l’osservanza delle convenzio-
ni e dei riti, la correttezza e lo studio, come basi per la costruzione di una so-
cietà florida e armoniosa, sono i fondamenti dell’ideale confuciano di buon go-
verno, che non conosce né auspica il rispetto dei diritti soggettivi o l’autono-
239 In particolare il daoismo che, ispirandosi a forme di vita rivolte al solitario raccoglimento e
alla ricerca individuale del dao (la via), insegna più il distacco critico che l’obbedienza e ma -
nifesta una certa indifferenza per i valori etici espressi dalla vita sociale.
240 I Dialoghi, in I quattro libri di Confucio, a cura di Tomassini F., traduzione di Tomassini F.,
UTET, Torino 2007, p. 162. Confucio filtra e fa proprio il patrimonio di una cultura antica che
risale ai ru, i gruppi di intellettuali emersi durante la dinastia Zhou (dal XII al III secolo a.C.)
dediti all’insegnamento e depositari del patrimonio culturale tradizionale che sta alla base
anche della sapienza daoista.
mia delle scelte individuali, ma ruota appunto intorno al sentimento di armo-
nia e di socialità che lega l’individuo alla famiglia, al gruppo e allo Stato.
I nuovi confuciani ritengono che i loro principi siamo portatori di valori
utili per tutta l'umanità, e non abbiano alcuna incompatibilità di fondo con il
regime politico della Cina. Un comunismo “speciale”, un regime di tipo pasto-
rale, che opera con criteri meritocratici e affida il potere ai più competenti,
confermati nel ruolo dal successo conseguito dalla loro azione di governo, in
primo luogo in campo economico. Un parametro verificabile dal livello di be-
nessere della popolazione. È un regime che preferisce fare in modo che l'obbe-
dienza non sia imposizione, bensì condivisione della razionalità del comando,
anche da parte di chi non approva pienamente gli obiettivi del socialismo ma
considera comunque il duro lavoro e l’istruzione percorsi che possono portare
al successo, e ha a cuore il benessere personale e familiare in un’armoniosa
convivenza sociale.
Il clima è dunque favorevole per una rivalutazione politica del pensiero
confuciano. Nel 1986 il confucianesimo nella sua versione più pragmatica vie-
ne inserito nell’ambito di un progetto nazionale sulle scienze sociali, e i valori
dell'etica sociale confuciana, che hanno fatto (e per secoli conservato) grande
la Cina, vengono fatti propri fino al punto che, nel linguaggio ufficiale, il con-
cetto di "società armonica" affianca i riferimenti al comunismo. Il dibattito esce
così dai circoli accademici e coinvolge la società perché i fattori in gioco si sono
fatti più complessi. Non si tratta solo di conciliare il marxismo-leninismo con il
capitalismo, ma anche la cultura tradizionale con un modello di vita ispirato
alla società dei consumi del neoliberismo occidentale; occorre accettare, gesti-
re e armonizzare i contrasti della nuova epoca: lo sviluppo economico podero-
so ma sbilanciato, la volontà di crescita di una società che genera sempre
meno figli e fa sua l’innovazione tecnologica, continuando a guardare con so-
spetto alle tante istanze provenienti dai mutamenti economici e sociali, divisa
tra la rigidità del sistema politico e le nuove istanze di giustizia e partecipazio-
ne.
E che il confucianesimo continui a essere un'etica perfettamente compa-
tibile anche con l'attuale politica di governo, appare evidente dal fatto che i di-
rigenti comunisti, una volta capito che, contrariamente a quanto affermato
nella prima fase della ricostruzione nazionale, non è di ostacolo né alla moder-
nizzazione né alla visione ideologica corrente, hanno cominciato a ridargli spa -
zio.241

241 Xi Jinping è stato il primo segretario generale del PCC ad aver commemorato pubblicamen-
Va detto che, a parte brevi periodi di declino e di contrasto, la Cina non
ha mai del tutto cessato di essere confuciana. E alla complessità della sua so-
cietà attuale ben si adatta il pragmatismo e la flessibilità del pensiero di Confu-
cio che “non è né un filosofo all’origine di un sistema di pensiero, né un fonda-
tore di una spiritualità o di una religione”. 242 È piuttosto il maestro che mostra
e insegna una saggezza che comporta anche astuzia, capacità di analisi e adat-
tamento alle mutevoli circostanze, abilità tattiche e strategiche ed è quindi “ra-
dicalmente diversa dalla concezione occidentale di verità o veridicità, che si
basa sull'immutabilità e la costanza”. 243
È utile partire proprio da questa mancanza di dogmi per cercare di co-
gliere alcuni aspetti di un pensiero orientato alla prassi che ha caratterizzato la
cultura cinese per oltre due millenni.
Confucio non ha lasciato scritti, né esiste un ”sistema” confuciano, alme-
no nel senso che il termine ha acquisito nel pensiero filosofico occidentale. Il
suo insegnamento si è diffuso dopo la sua morte a partire dalle testimonianze,
dalle annotazioni e dalle raccolte di aforismi e aneddoti scritte dai suoi disce-
poli e collazionate nelle diverse versioni dei Dialoghi. Ci sono così pervenute
laconiche espressioni del suo pensiero e descrizioni del suo modo di vivere ap-
parentemente marginali e prive di significato filosofico del tipo “non sedeva se
la stuoia non era distesa correttamente”, 244 chiaro indice che il confucianesimo
non vuole essere una teoria, bensì una guida alla prassi. I comportamenti del
Maestro sono la dimostrazione di come la sua vita fosse in perfetta sintonia
con la pratica delle regole. Sono comportamenti esemplari che mirano a for-
mare l'uomo, trasmettendogli la cultura dei classici dell’antichità ed esaltando
quei principi morali che lo conducono verso il bene, anche della comunità.
Affermando che può considerarsi maestro “colui che mette in pratica gli
antichi insegnamenti e (ciò facendo) ne impara di nuovi” 245 Confucio mostra la
consapevolezza della potenzialità innovatrice del suo pensiero, senza tuttavia
uscire dalla continuità della tradizione e tenendo presente che i grandi cambia-
menti prendono avvio dalle piccole cose e dai banalissimi comportamenti del
te nel 2015 il compleanno di Confucio. Il governo ha di recente iniziato a promuovere la
diffusione della lingua e della cultura cinesi nel mondo attraverso l'Istituto Confucio che or-
ganizza partenariati educativi con scuole e università in altri paesi. l primo Istituto Confucio
è stato aperto nel 2004 in Corea del Sud, e da allora ne sono sorti oltre 590 in tutto il mon -
do.
242 Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. 1, cit. p. 44.
243 Byung-Chul Han, Shanzhai Deconstruction in Chinese, MIT, 2017, p. 6 (traduzione mia).
244 I Dialoghi, in I quattro libri di Confucio, cit., p. 183.
245 Ivi, p. 134.
vivere quotidiano. È un agire che pratichiamo non sempre nel modo più cor-
retto e quasi sempre senza consapevolezza del valore etico. Da qui l'importan-
za attribuita al rispetto del cerimoniale. Non a caso le Memorie sui riti è uno
dei testi base del suo pensiero perché in un mondo frammentato è necessario
creare microambiti di ordine, nei quali sviluppare il buon comportamento per-
sonale attraverso il controllo delle emozioni.246
I riti sono il fondamento dell’Ordine (sociale e cosmico). Grazie ad essi
emergono “le necessarie e imprescindibili distinzioni in seno alla famiglia e alla
società: fra padre e figlio, marito e moglie, fratello maggiore e fratello minore,
sovrano e ministro. L’osservanza dei li determina la naturale conservazione
della struttura sociale”.247
Il rito non ci costringe, non è altro che “vivere secondo le prescrizioni
senza esserne prigionieri”.248 È un modo di “allenarsi” per non essere in balia
del caos del mondo. Nelle situazioni artificiali (rituali) i partecipanti recitano un
ruolo fittizio di cui sono consapevoli e assumono il giusto comportamento ver-
so gli altri abbandonando l’“abituale” modo di essere, quello dettato dalle
emozioni e dai sentimenti. Con la sua consapevole ripetizione il rito ci fa agire
“come se” fossimo realmente diversi. 249 Ed è questa sua facoltà di produrre un
cambiamento che lo rende formativo. Come accade con la cortesia, le forme
rituali “rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche
un bel rapporto delicato con le cose”.250 È questo che ci fa diventare migliori.
Indipendentemente dalla collocazione nella società, secondo Confucio,
chi possiede un animo “nobile” pratica i riti per disciplinare se stesso e mode-
rare l’esternazione dei propri sentimenti. E il buon sovrano in questo deve es-
sere il primo, per dare l’esempio e per equilibrare il modo di governare, otte-
nendo la fiducia e il consenso senza ricorrere a leggi e sanzioni penali, che svi-
luppano l’obbedienza ma non la convinzione interiore del suddito. Senza saper
educare, si eserciterebbe solo il potere usando coercizione e forza, mentre il
buon governante deve saper indicare la retta via col suo comportamento
esemplare.
246 Il termine cinese termine “li” viene “variamente reso con "riti religiosi", "decoro", "norme
di comportamento etico", "etichetta", "buone maniere" e "deferenza". Cfr. Tiziana Lippiello,
Il confucianesimo. L'etica sociale della società cinese, Il Mulino, Bologna 2009, p. 36.
247 Ivi, p. 68. Ma si veda anche Marcel Granet, Il pensiero cinese, cit., p. 308.
248 Zhuang-zi, cit., pp. 98 - 99.
249 Si veda Michel Puett e Christine Gross-Loh, La via. Un nuovo modo di pensare qualsiasi
cosa, Einaudi, Torino 2016, in particolare cap. III.
250 Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo, Milano
2021, p. 14.
Il termine zheng zhi, “politica” nella lingua-pensiero cinese, non ha al-
cun riferimento alla polis251 rinvia piuttosto al significato di “retto; raddrizzare,
ristabilire un equilibrio perduto”. Obiettivo della politica è infatti raddrizzare e
disciplinare il popolo, conservare l’ordine, a partire da quello del singolo indivi-
duo fino alla famiglia, alla società e allo Stato. È rispettare l’armonia del mon-
do, dove i riti stabiliscono le distinzioni necessarie fra gli uomini. La pace, che
regna nell’equilibrio del macrocosmo, può riflettersi nell’organizzazione dei mi-
crocosmi sociali grazie all’ascendente dei saggi che col loro silenzioso compor-
tamento fanno “vedere l’evidenza”,252 come fa il Cielo, che opera in silenzio
affinché vi sia armonia nell’alternarsi del giorno e della notte e in tutti i suoi ci -
cli.
L'insegnamento di Confucio è orientato alla prassi e può essere sintetiz-
zato in: sei quello che fai. Ma se sei quello che fai, e quello che fai può essere
modificato e migliorato con l'aiuto dei riti, questo implica che non c'è una
“vera” natura in cui riconoscersi. Non ha quindi alcun senso cristallizzarsi attri-
buendosi (o attribuendo ad altri) un’identità che si trasforma in un'etichetta.
Darsi (o dare) una rigida e definitiva classificazione può solo bloccare, impedire
di evolvere. Dobbiamo piuttosto considerare il rapporto tra dire e fare, tra pa-
rola e azione. Per il pensiero cinese 253 la parola non è solo un mezzo di comuni-
cazione, un modo per evidenziare una rappresentazione del mondo, ma è an-
che costitutiva dell'esistenza delle cose. La parola predetermina la struttura
dell'azione ed è il segno tangibile della presenza dell'uomo che, mettendo i
nomi, prestabilisce dei comportamenti. Nominare è già un fare, col quale viene
attribuita realtà alle cose, che escono dall'indeterminatezza originaria. Essere
uomo non ha valenza essenziale, esprime solo la relazione che si intrattiene
col mondo. Una relazione che lega l'uomo alle cose e determina anche l'ambi-
to dell'azione propria di ciascuno definendone il giusto comportamento, la via
(il Dao) per entrare in sintonia con l’universo.
Da questa impostazione deriva l'attenzione che i sapienti antichi riserva-
no alla parola e al linguaggio, strumento da trattare con estrema cautela, da
rendere privo di ogni equivocità. Se sapere è fare, se conoscere significa sco-
prire i percorsi che il nome porta in sé, appare chiaro l'invito di Confucio a
251 “Governare (zheng 政 ) equivale a essere nella rettitudine (zheng 正 ), dove zheng rinvia
all’idea di “ordinare il mondo contenuta nella nozione di zhi 治, termine che originariamen-
te significa curare un organismo malato nel senso di ristabilirvi un equilibrio perduto, Anne
Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. 1, cit., p. 68.
252 François Jullien, Il saggio è senza idee, Einaudi, Torino 2002, p. 119.
253 Si veda Attilio Andreini, Breve riflessione sul dire e sul fare nel pensiero cinese classico,
https://www.academia.edu/5002177/Dire_e_Fare_nel_pensiero_cinese_antico.
rettificare i nomi, perché
se i nomi non sono corretti, le parole non corrispondono (alla realtà); se le pa-
role non corrispondono, gli affari non giungono a compimento; se gli affari non giungo -
no a compimento, non fioriscono i riti e la musica; se non fioriscono i riti e la musica, i
castighi e le pene non sono giustamente irrogati; se i castighi e le pene non sono giu-
stamente irrogati, il popolo non sa come muovere le mani e i piedi. Perciò, quando il
saggio nomina (qualcosa) deve potersi dire così; quanto dice, deve potersi eseguire.
Nell’uso delle parole il saggio non è mai improprio. 254
Dal corretto uso dei nomi e dai comportamenti che ne derivano dipende
la stabilità255 della società, dove il nome definisce il ruolo che in essa viene
svolto: “Il principe faccia il suo dovere di principe [...] il ministro quello di mini -
stro; il padre compia i suoi doveri di padre, il figlio quelli di figlio”. 256 Il nome
assume pertanto un valore prescrittivo, comporta un'assunzione di responsa-
bilità e obbliga a comportamenti che definiscono la persona degna del nome
che porta. Ed è il destinatario dell'azione colui che riconosce la dignità del ruo-
lo assunto. Così chi si comporta amorevolmente verso una persona anziana si
comporta da figlio, anche se non lo è. E altrettanto, chi agisce per il bene del
popolo è un buon principe, anche se non ha avuto alcuna investitura: è un cri-
terio di legittimazione extra-giuridico che si basa sulla capacità di prendersi
cura delle persone. Nel caso dei governanti, questa abilità è oggettivamente
verificabile in base al benessere dei sudditi, ai quali va assicurata la possibilità
di una vita dignitosa e serena.
Per il confucianesimo l’azione di governo non risponde a criteri astratti
di formalismo giuridico, ma si fonda sulla capacità di promuovere e difendere il
benessere e il buon governo è quello che mira innanzitutto a migliorare la vita
materiale del popolo. Emerge qui la sua dimensione politica: la rettifica dei
nomi sottende un forte impatto etico, perché è prescrittiva per l'agente, al
quale impone un'armonia di comportamenti che non si esaurisce in un singolo
atto, ma richiede una coerenza di vita all'interno della società, dove si rivela
un'altra caratteristica fondamentale del pensiero confuciano, quella legata al
concetto di benevolenza. È grazie ad essa che l’uomo manifesta la sua umanità
nella relazione con gli altri, nella rete di rapporti che intrattiene nello svolgi -
mento del proprio ruolo, a cominciare dalla famiglia.
Il governo dello Stato è possibile solo a chi abbia saputo governare la

254 I Dialoghi in I quattro libri di Confucio, cit., p. 201.


255 Il concetto di stabilità è importante anche nella politica della Cina contemporanea e lo si
trova sia nello Statuto del PCC che nei discorsi di Xi Jinping.
256 Dialoghi, cit., p. 196.
propria famiglia, essendo riuscito prima a perfezionare sé stesso. Disciplina,
accettazione del proprio ruolo, osservanza di un codice etico tramandato per
generazioni, sono questi i pilastri portanti della struttura dell'insegnamento
confuciano. Sono fattori che precedono il diritto. Più che dalla legge, le azioni
dell'uomo sono guidate dall’innata benevolenza e amore per prossimo espres-
si dal termine confuciano ren.
Sono premesse che dobbiamo tenere presenti perché il confucianesimo
permea anche la sfera del diritto e della legge: in Cina non si verifica quella se-
parazione tra diritto e morale che è propria del diritto romano e della cultura
occidentale. Le leggi cinesi possono apparirci vaghe perché fanno riferimento a
fattori che, in un’ottica confuciana, non hanno bisogno di essere normati ri-
guardando comportamenti ritenuti già ben radicati nell'uomo. L’uomo è infatti
considerato inserito in un insieme di relazioni, di interdipendenze e legami fa-
miliari e sociali che si basano non tanto su prescrizioni incondizionate come
sono le leggi, quanto sul sentimento di benevolenza che tutti possiedono e sul-
la rettitudine dei funzionari governativi. Una tematica sulla quale si è sviluppa-
to in Cina un millenario dibattito non ancora sopito tra confuciani e legisti (o
legalisti). Mentre i primi fondavano l'obbedienza sulla rettitudine personale, su
un'etica condivisa, sulla tradizione e sui riti, i legisti preferivano la chiarezza e
la precisione della legge, un metodo più pratico e sicuro, che permetteva di
operare anche in assenza di tradizioni a cui richiamarsi, là dove le proprie non
potevano essere imposte.
Riuniti nella Scuola delle Leggi, i legisti erano uomini del principe, si oc-
cupavano di diplomazia, dell’organizzazione del territorio e dell’esercito, di
economia, di finanze e di questioni sociali. Nella loro concezione le leggi erano
prescrizioni con forza imperativa che il magistrato doveva applicare. Per questo
acquistavano valore obbligatorio solo dopo la pubblicazione, quando cioè era-
no state comunicate a tutti, scritte su tavole ed esposte negli uffici amministra-
tivi, in modo che la pena potesse essere considerata l'inevitabile e giusto esito
dell'inosservanza. Questo non valeva solo per il suddito ma anche per il princi-
pe che in esse trovava un limite (non sempre invalicabile) al suo potere. I legi-
sti consideravano quindi importante la scrittura di codici ma solo in materia
penale o amministrativa, perché quello che chiamiamo diritto civile è continua-
to ad essere un campo lasciato per lungo tempo alle consuetudini, che guarda-
no ai rapporti sociali, familiari e patrimoniali, ispirandosi all’insieme dei riti
della tradizione.
2.5. Potere costituente e poteri costituiti
Se disegni male una tigre, assomiglia a un cane.
Proverbio cinese

La svolta di Deng Xiaoping ha aperto la Cina all’Occidente, che guarda


alla trasformazione del Paese con un misto di stupore e ammirazione per un si-
stema di gestione e azione governativa dimostratosi in grado di tenere sotto
controllo la metamorfosi industriale del Paese e le sue contraddizioni, pur ma-
nifestando perplessità per il metodo adottato. Un sistema e un metodo sui
quali all’opinione pubblica occidentale arriva molta disinformazione ideologica
e poche informazioni che vadano oltre l’affermare che la Cina ha una strana
forma di governo poco o per niente democratica, il socialismo con caratteristi-
che cinesi che nel perseguire i suoi obiettivi si sta avvalendo anche di categorie
occidentali come democrazia e stato di diritto inserite in un contesto del tutto
atipico. Una forma di governo che si è rivelata molto valida dal punto di vista
dello sviluppo economico e produttivo e in situazioni di crisi che richiedono
l’adozione di decisioni rapide e univoche.
Se nel mondo liberal democratico lo stato di diritto è un modo di limita-
re il potere statale attraverso una regolamentazione per proteggere il cittadino
da ogni tentativo di esercizio arbitrario, nel contesto cinese questo aspetto
non è ancora in primo piano. Il principale obiettivo politico dell’attuale leader -
ship cinese appare piuttosto quello di far acquisire agli organi statali una cultu -
ra di amministrazione fondata sul diritto, e non solo sul criterio confuciano di
armonia o su quello maoista del primato della volontà politica.
Sieyès257 ci insegna che le modifiche delle Costituzioni degli Stati sono
opera del potere costituente o del potere costituito in base alla situazione so-
ciale e politica del luogo e del momento. La storia ci mostra che quelle effet-
tuate dal potere costituito sono attuate dai governi in carica che, talvolta ope -
rando formalmente nell’ambito della legalità, grazie a una serie di forzature e
distorsioni al limite dell’invito all’insurrezione o del colpo di Stato, riescono a
stravolgere la Costituzione vigente. E ancora la storia ci mostra che sono pochi
i casi in cui un nuovo Stato nasce nell’alveo della continuità costituzionale. Il
più delle volte, l’origine degli Stati è extra-costituzionale e avviene dopo la so-
spensione o la rottura dell’ordine giuridico vigente, ottenuta con un atto di for-
za, in nome di principi di carattere etico o religioso.
257 Cfr. infra, cap. 1.2
E così è stato anche per la Repubblica Popolare Cinese, nata alla fine
della lunga guerra civile tra i nazionalisti del Kuomintang e l’Esercito Popolare
di Liberazione del Partito Comunista cinese (PCC). La conseguenza di questo
atto di fondazione è che, nella nuova Repubblica, il PCC non è un partito tra i
molti, ma incarna il potere costituente che avoca a sé il potere sovrano del
nuovo Stato e le relative funzioni di governo. Un ruolo che gli viene attribuito
dalla prima Costituzione del 1954 e che viene confermato dalle versioni suc-
cessive. Ponendosi al di fuori dello Stato, il PCC opera anche al di fuori delle re-
gole del mercato e può esercitare il suo potere sia a favore delle imprese sia a
protezione dei lavoratori. Si costituisce così una modalità di intervento extra-
giuridica, capace di affrontare con rapidità le situazioni di crisi senza dover
adattarsi alle lentezze e alle garanzie offerte dalle procedure democratiche. Su
questo fondamento il primo articolo della vigente Costituzione 258 afferma che
The People’s Republic of China is a socialist state governed by a people’s
democratic dictatorship that is led by the working class and based on an
alliance of workers and peasants.
The socialist system is the fundamental system of the People’s Republic
of China. Leadership by the Communist Party of China is the defining
feature of socialism with Chinese characteristics. It is prohibited for any
organization or individual to damage the socialist system.
Affermazione quest’ultima che rende del tutto illecita qualsiasi ipotesi di
sovvertimento del ruolo di guida del PCC. Il secondo articolo chiarisce che il
potere appartiene al popolo che lo esercita ad ogni livello attraverso l’Assem-
blea Nazionale del Popolo (ANP)259 e le varie assemblee locali che gestiscono
ogni ambito dello Stato.
Per capire meglio in cosa consista la leadership del PCC va considerato
anche lo Statuto del 2017 dello stesso PCC 260, il cui primo paragrafo precisa che
il Partito
is the vanguard of the Chinese working class, the Chinese people, and
the Chinarse nation. It is the leadership core for the cause of socialism
with Chinese characteristics and represents the developmental demands
of China’s advanced productive forces, the orientation for China’s ad-
vanced culture, and the fundamental interests of the greatest possible

258 Approvata nel 1982 e innovata per mezzo di successivi emendamenti. L’ultimo (il 5°) è del
2018. http://www.npc.gov.cn/englishnpc/constitution2019/constitution.shtml
259 Nella versione inglese troviamo National People’s Congress.
260 Constitution of the Communist Party of China Revised and adopted at the 19th National
Congress of the Communist Party of China on October 24, 2017 https://www.mfa.gov.cn/
ce/ceil/eng/zt/19thCPCNationalCongress/W020171120129543247718.pdf
majority of the Chinese people. The Party’s highest ideal and ultimate
goal is the realization of communism.
Viene qui espressa con chiarezza la dichiarazione di impoliticità del po-
polo. Le esigenze, l’orientamento e gli interessi della “maggior parte possibile”
del popolo vengono infatti rappresentati dal Partito che, nel farlo, implicita-
mente dichiara che la parte minoritaria, quella non rappresentata, costituisce
un non-popolo da sorvegliare, in quanto esprime esigenze divergenti da quelle
che il Partito rappresenta. Il popolo è quindi fuori dalla sfera della politica che
conta, quella che stabilisce i fini ultimi dell’azione politica. Il popolo vive, agisce
e si sviluppa sotto la protezione del Partito, la sua “anima” e coscienza pensan-
te. Il Partito si colloca dunque prima della legge costituzionale che si limita a ri-
conoscerne il ruolo, rovesciando così la tradizionale cultura democratica, per la
quale è il popolo l’elemento politico, che definisce l’impolitico. Il Partito è il po-
tere costituente che redige la nuova Costituzione, elabora e presenta le Costi-
tuzioni successive e tutti i vari emendamenti con i quali decide e regola la vita
dello Stato e del popolo, trasformato in corpo impolitico, in popolazione.261
Partito, Stato e Popolo262 sono i tre elementi su cui si fondano i principi
costituzionali dell’unità politica nazionale cinese. Dei tre, il Partito è l’elemento
dinamico, il detentore della sovranità, il potere costituente che sorregge, per-
vade e guida lo Stato e il Popolo. Lo Stato è l’elemento politico statico, costitui-
to dall’apparato di autorità e istituzioni, dall’organizzazione di comando, di am-
ministrazione e di giustizia, e comprende l'esercito e i funzionari statali, men-
tre il popolo è la componente impolitica, che si sviluppa sotto la protezione e
la guida delle decisioni politiche del Partito. Al popolo la Costituzione attribui-
sce un campo di amministrazione autonoma che si esplica in posizione subor-
dinata nell’ambito sociale ed economico, in particolare a livello dell’ammini-
strazione locale.
La legittimità del PCC a svolgere il ruolo di guida e di detentore e gestore
della sovranità si fonda su due punti. Il primo è la narrazione storica del ruolo
svolto dal Partito nella fondazione della Repubblica, punto di avvio del proces-
so di rinascita. Il secondo, si fonda invece sul fatto che, come affermato nel suo
stesso Statuto, il PCC è “un’organizzazione pluralistica che punta a rappresen-
tare l’intero paese”.263 Sotto questo aspetto, il PCC non è “né comunista, né un

261 Cfr. infra, cap. 1.8.


262 Teoria elaborata da Carl Schmitt sin dagli anni 30 del XX secolo, applicabile a tutti gli Stati
contemporanei.
263 Daniel Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss University
Press, Roma 2019, p. 231.
partito”.264 Ma è grazie alla sua qualità di rappresentante del popolo che le de-
cisioni del Partito non costituiscono l’imposizione del dominio di una volontà
eterogenea e, in quanto tale, tirannica, ma si configurano come la vera manife-
stazione della volontà generale del popolo depoliticizzato. 265 Una tesi che costi-
tuisce una estensione della tradizione marxiana che, al di là delle sue varianti
interpretative, appare concorde nell’identificare nel Partito la coscienza di clas-
se del proletariato. Gli obiettivi del Partito esplicitano quindi anche quelli in-
consapevoli del popolo, ne concretizzano l’evanescente volontà generale e si
articolano su più livelli.
Il fine ultimo che il PCC persegue è la realizzazione del comunismo;
obiettivo strategico di lungo periodo, di fatto un ideale cui tendere attraverso
l’acquisizione di un risultato strumentale intermedio, ovvero la realizzazione di
una società socialista moderatamente prospera, “fully developed and highly
advanced”.266 Lo stadio finale del comunismo potrà quindi essere raggiunto
solo al termine di un lungo processo di impostazione e assestamento di un
nuovo modello di socialismo, che deve fare i conti con la concretezza prodotta
dalla storia e deve essere adattato alla realtà cinese. Per questo, più che per
mezzo dell’ortodossia della dottrina che ha portato a clamorosi fallimenti di
svariati tentativi di attuazione, il Partito ha scelto di esercitare, in sintonia con
la tradizione confuciana, la propria egemonia in qualità di garante in grado di
armonizzare i divergenti interessi dei gruppi sociali ed economici mantenendo
la stabilità sociale e il benessere che deriva dalla crescita economica, nella con-
sapevolezza che "poverty is not socialism [...] socialism means eliminating
poverty. Unless you are developing the productive forces and raising people's
living standards, you cannot say that you are building socialism". 267
In quest’ottica, riveste particolare importanza l’idea, sovente citata nei
discorsi dei leader, del “sogno cinese” ovvero quell’ideale di rinnovamento che
deve rendere prospera, forte e felice la Cina. 268 Obiettivo di lungo periodo, al
cui interno si collocano due progetti specifici, che vengono chiamati “del cen-

264 Ibid.
265 La teoria presenta delle affinità con quella della rappresentazione della volontà generale
delle democrazie rappresentative, dislocata su un diverso livello.
266 Constitution of the Communist Party of China, cit.
267 La frase attribuita a Deng Xiaoping viene citata da Xi Jinping il 20 agosto 2014 in un discorso
tenuto al seminario commemorativo del 110° anniversario della nascita di Deng Xiaoping.
In The Governance of China, vol. II, Foreign Language Press Co, Beijing 2017, p. 5.
268 Il Chinese Dream è stato posto come obiettivo del PCC nel novembre 2012 dal XVIII Con-
gresso del Partito, lo stesso in cui Xi Jinping viene nominato Segretario e viene approvata la
revisione della Costituzione. http://www.npc.gov.cn/englishnpc/xjptgoc/xjptgoc.shtml
tenario”. Il primo riguardava l’incremento del reddito di quanti si trovavano
sotto la soglia della povertà assoluta e la realizzazione di una società modera-
tamente prospera.269 Un progetto di lotta alla povertà da concretizzare attra-
verso uno sviluppo economico in grado di portare miglioramenti concreti e ve-
rificabili alla vita della gente, in particolare dei più poveri. Il risultato è stato
annunciato come conseguito già agli inizi del 2021, anno di celebrazione del
secolo di vita del PCC, quando le analisi sulla distribuzione dei redditi della po-
polazione hanno accertato che nel Paese non c’erano più zone con reddito pro
capite inferiore o al limite della soglia di povertà assoluta. 270 Va però tenuto
presente che il risultato va reso stabile nel tempo e la sopraggiunta pandemia
da Covid-19 non aiuta certo a consolidarlo.
L’obiettivo comunque è stato raggiunto e ne ha dato conferma anche la
stampa internazionale, pur esprimendo riserve sui metodi talvolta troppo di-
sinvolti di qualche autorità locale. 271 Lo si è infatti raggiunto anche perché è
stato trasformato in parametro primario per la valutazione delle prestazioni
dei quadri di partito, dei pubblici amministratori e dei funzionari ai diversi livel-
li amministrativi, con conseguenze dirette sugli avanzamenti di carriera. Un
metodo così efficace da produrre in alcuni casi forzature che hanno richiesto
interventi per frenare lo zelo di politici e funzionari tanto orientati a quel risul-
tato da far loro trascurare l’espletamento di altri compiti. Gran parte del tema
del buon governo è stato così trasformato nella semplice valutazione verifica-
bile del livello di benessere materiale del popolo.
Certo, la battaglia contro la povertà è stata vinta, ma ciò non toglie che
esistano ancora inaccettabili divari di reddito tra la popolazione urbana e quel-
la rurale, oltre che disparità tra le varie province e una grande sproporzione tra
i redditi dei lavoratori e gli enormi patrimoni accumulati da molti nuovi ricchi.
Disparità che hanno pesanti ripercussioni sulle aspettative di mobilità sociale
269 http://www.npc.gov.cn/englishnpc/xjptgoc/xjptgoc.shtml
270 La prima parte del progetto contro la povertà assoluta si è svolta dal 1981 al 2005 , interes-
sando circa 600 milioni di persone. Sul tema si veda l’articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore il
30 dicembre 2018 https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/12/30/rivoluzione-cina-
deng-xiaoping-xi-capitalismo/
271 Per vedere come è stata accolta la notizia da alcuni organi di informazione locale
https://www.huffingtonpost.it/entry/la-cina-ha-sconfitto-la-poverta-il-miracolo-di-xi-e-solo-
allinizio_it_6037b654c5b69ac3d35cd66b
https://www.internazionale.it/opinione/rafia-zakaria/2021/03/21/cina-poverta-sconfitta
https://www.asianews.it/notizie-it/Xi-Jinping:-Abbiamo-azzerato-la-povert%C3%
A0.-Ma-i-conti-non-tornano-52449.html
http://www.csinternazionali.org/bulletin/pechino-dichiara-raggiunto-lobiettivo-di-debel-
lare-la-poverta-estrema-nel-paese
dei residenti delle province più disagiate, dei lavoratori delle campagne, dei
ceti medi e dei poveri.
Ben più ambizioso il secondo progetto del centenario, il cui consegui-
mento è previsto entro il 2049, quando la Repubblica cinese compirà il secolo
di vita. Per quella data, il PCC si propone di aver trasformato la Cina in un mo -
derno Paese socialista, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e
armonioso.272 Obiettivo complesso che investe aspetti fondamentali della vita
sociale e chiama direttamente in campo la sovranità politica, cui spetta il com-
pito di realizzare le condizioni per consentire a una molteplicità di persone di
ottenere una migliore qualità di vita, mantenendo quella coesione sociale su
cui si fondano prosperità e armonia. A tal fine non bastano le leggi che chiedono
solo obbedienza, serve piuttosto un insieme di istituzioni e di tecniche di ge-
stione del potere in grado di dirigere e di esercitare la sorveglianza, se neces-
sario anche sfruttando la pseudo libertà del Web. Cosa possibile, perché lo Sta-
to controlla il Web e chi vi opera esercitando una censura particolarmente at-
tenta e inflessibile e, avendo eretto la sua grande Muraglia virtuale, è in grado
all’occorrenza di isolare la propria rete. 273 Le critiche anti-governative vengono
oscurate direttamente dai provider dei social, i cui server bloccano in automa-
tico i post considerati più critici, ovvero quelli che contengono parole “sensibi-
li”, che possono manifestare o indurre dissenso politico. Ma la regola “fatta la
legge, trovato l’inganno” non trova applicazione solo in Occidente. La libertà di
espressione in rete può essere limitata ma non interdetta. Per eludere la cen-
sura è nata una nuova forma di libertà di espressione definita in modalità “35
maggio”.274 Come afferma Yu Hua, “per esprimere la propria opinione, i cinesi
sfruttano appieno le potenzialità retoriche della lingua, portando a livelli subli -
mi allusioni e metafore, parodie e iperboli, affidando il loro sarcasmo e la loro
indignazione a insinuazioni velate e perifrasi astute […] sempre più persone
vorrebbero sentire la verità, ma sono ancora poche quelle che osano dirla […]
abbiamo solo una libertà alla ‘35 maggio’, niente libertà del ‘4 giugno’ per
noi”275
Oltre alla censura, l’altro metodo molto efficiente consiste di inondare i
272 Cfr. http://www.npc.gov.cn/englishnpc/xjptgoc/xjptgoc.shtml
273 Di pari passo con le riforme liberiste, la Cina infatti ha sviluppato una vera e propria sovrani-
tà digitale, svincolata dai grandi server che si trovano in Europa e negli Stati Uniti. In questa
direzione stanno andando anche Russia e Turchia.
274 Il 4 giugno 1989 è la data della repressione di piazza Tienanmen. Per controllare il dissenso
il regime aveva vietato qualsiasi commento che si riferisse a tale data, che i dissidenti hanno
rinominata 35 maggio.
275 Yu Hua, Mao Zedong è arrabbiato, cit., pp. 151-152.
post sgraditi con commenti e precisazioni svianti, grazie a una partecipazione
guidata e massiccia nei forum e nelle discussioni on line. Un metodo praticato
anche nelle democrazie occidentali, ma che in Cina viene messo in atto da “ol-
tre due milioni di persone nei dipartimenti governativi e nelle aziende private
dedicate solo a occuparsi di controllare i contenuti on line”.276 È l’esercito dei
50 cents, che integra le intelligenze artificiali addestrate a scandagliare la rete
e bloccare i contenuti non graditi.

276 Simone Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Bari-Roma 2020, pp.
90-91.
2.6. Costituzione e poteri
To ensure people’s democracy we must strengthen our
legal system. Democracy has to be institutionalized and
written into law, so as to make sure that institutions
and laws do not change whenever the leadership
changes, or whenever the leaders change their views
or shift the focus of their attention.
Deng Xiao Ping

Nell’affrontare la questione dell'organizzazione costituzionale cinese, oc-


corre tenere presente che il PCC è il detentore del potere costituente e si con -
figura come l’unica arena democratica, nella quale deve convergere ogni forma
di discussione e di dibattito politico. Le regole di funzionamento del Partito as-
sumono quindi un valore che va oltre la costituzione, anche se nella Costituzio-
ne non trovano una compiuta manifestazione. L’esercizio del potere normativo
di livello costituzionale per opera del Partito si è manifestato, e tuttora si po-
trebbe manifestare,277 sia nel lavoro preparatorio delle nuove Costituzioni, sia
nella fase successiva di elaborazione di proposte di variazioni, da proporre o
imporre all’Assemblea Nazionale del Popolo (ANP) per l’approvazione.
Ci sono già stati casi di intervento diretto del Partito. Ad esempio, negli
anni sessanta, la prima Costituzione, quella del 1954, ha dovuto registrare il
fatto compiuto dell’imposizione da parte del PCC della volontà politica eserci-
tata rimuovendo il Presidente dell’Assemblea Nazionale e pilotando la rivolu-
zione culturale maoista, evento per definizione extra istituzionale. Siffatti inter-
venti hanno costituito una prassi benevolmente considerata una forma di “vio-
lazione positiva” della Costituzione, intendendo per tale una modalità di legife-
rare al di là dei confini costituzionali, approvando o modificando leggi che ade-
guano il sistema normativo ai mutamenti economici e politici della società.
Una prassi che ha consentito al sistema cinese di stare al passo con i tempi, a
scapito dello stato di diritto e del rispetto delle norme costituzionali. 278 Se si
considera però che le leggi vengono adottate dall’ANP, il medesimo organo che
ha anche il potere di approvare variazioni alla Costituzione, risulta più com-
prensibile la valutazione positiva della violazione, che appare un’anticipazione

277 Come vedremo più avanti, la politica di Xi Jinping cerca di frenare questa tendenza puntan-
do sul rispetto della Costituzione e sulla realizzazione dello stato di diritto.
278 Nei regimi costituzionali occidentali gli adeguamenti delle costituzioni vengono pragmatica-
mente adottati per mezzo di interpretazioni estensive.
meramente formale, utile per velocizzare il processo di adeguamento costitu-
zionale.
La seconda Costituzione approvata nel 1975 ha costituito una breve pa-
rentesi. Voluta da Mao per dare forma costituzionale ai principi della rivoluzio-
ne culturale, è rimasta in vigore solo fino al 1978, due anni dopo la sua morte.
È un breve testo di 30 articoli, un documento programmatico molto scarno vol-
to a realizzare il socialismo privilegiando l’azione politica a scapito della legge,
della democrazia e dello stato di diritto. Principi che invece le Costituzioni del
1978 e del 1982 mostreranno di voler fare propri per procedere verso la de-
mocratizzazione del sistema.
La Costituzione del 1978 ha segnato un punto di svolta nella tradizione
politica cinese, perché si prende atto della necessità di disporre di un efficace e
puntuale sistema giuridico per raggiungere gli obiettivi della rivoluzione. La Co-
stituzione comincia così a essere considerata anche fonte di doveri di condotta
per i cittadini, oltre che un insieme di regole per l'organizzazione dei poteri
pubblici. I primi passi per la realizzazione dello stato di diritto richiedono
l’abbandono dello slogan del primato della politica, sostituito dall’affermazione
del dovere dei funzionari pubblici di applicare la legge e di fungere da esempio
nel rispetto della Costituzione.
Le aperture economiche di Deng Xiaoping hanno avviato il processo di
sviluppo economico e di modernizzazione del Paese, e la Costituzione allora vi-
gente si rivela ben presto in molte parti del tutto inadeguata. Come previsto
dalla stessa Costituzione, il Comitato Centrale del PCC incarica quindi il Comita-
to Permanente dell’Assemblea Nazionale di predisporne la revisione. Viene
creata una Commissione con l’incarico di elaborare il nuovo testo costituziona-
le, nel quale si cerca di armonizzare la tradizione cinese con le modernizzazioni
in atto, facendosi guidare dai principi del socialismo e cogliendo il meglio delle
esperienze e delle idee straniere. La nuova Costituzione viene approvata nel
1982 e alla dittatura del proletariato viene sostituita la dittatura popolare de-
mocratica.
Si affacciano problemi nuovi, in un contesto in cui lo sviluppo industria-
le, motore della modernizzazione economica e sociale, sta mettendo in crisi i
cardini della cultura tradizionale, basata sul confuciano concetto di benevolen-
za e di armonia sociale; oltretutto mancano anche analisi ed elaborazioni teori-
che in grado di coniugare democrazia e socialismo. L’analisi socio economica
marxiana non ha sviluppato alcuna teoria delle forme di governo democratico
e il sistema sovietico, al di là di alcuni principi affermati da Lenin e dai risultati
ottenuti soprattutto in campo scientifico, non può costituire un modello da
imitare non solo perché non ha saputo migliorare il tenore di vita del popolo, e
per la violenza burocratica e la crudeltà della svolta stalinista, ma anche per il
disastroso crollo finale.
Sotto questo aspetto, è particolarmente importante la revisione costitu-
zionale del marzo 2018 dove è esposto, tra l’altro, il percorso di modernizzazio-
ne compiuto nella teoria e nella prassi dal socialismo cinese, a partire dal mar-
xismo-leninismo e dal pensiero di Mao Zedong, per arrivare, passando per la
Teoria di Deng Xiaoping e per la Teoria delle Tre Rappresentanze di Jiang Ze-
min,279 alla prospettiva scientifica dello sviluppo e al pensiero di Xi Jinping sul
socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era.
La Costituzione del 2018 accoglie il programma di Xi Jinping, che viene
collocato tra i padri ispiratori della nuova Cina, accentra il potere nelle sue
mani e reintroduce nel testo costituzionale l’affermazione della supremazia del
PCC. Essa prende atto dei recenti cambiamenti economici e sociali della socie-
tà cinese, recepisce il progetto anticorruzione introducendo un nuovo organo
costituzionale, la Commissione nazionale di supervisione con le relative Com-
missioni di supervisione decentrate, 280 e dichiara con decisione la volontà di
governare secondo le regole dello stato di diritto. Un’affermazione questa par-
ticolarmente importante, se si considera che molte riforme costituzionali pre-
cedenti erano state precedute da “violazioni positive” della Costituzione.
Ispirate alle magistrature del Censorato istituito dalla Costituzione prov-
visoria di Sun Yat-Sen, la Commissione nazionale e le Commissioni di supervi-
sione decentrate sono un nuovo potere, al quale lo Stato affida il compito di
combattere la corruzione. Nominate dalle Assemblee popolari, 281 assumono
anche competenze proprie delle Procure, operano in parallelo con il potere
giudiziario ed esercitano il loro potere di controllo in maniera indipendente su

279 La teoria afferma che il PCC deve operare in vista delle richieste di sviluppo avanzate dalle
forze produttive e culturali più avanzate, e gli interessi fondamentali della maggior parte del
popolo cinese.
280 È loro dedicato il titolo 7 della Costituzione. Organizzazione, funzioni e poteri dei nuovi or -
gani sono disciplinati da una legge ordinaria approvata dall’ANP il 20 marzo 2018,. Vedi An -
tonio Malaschini, Come si governa la Cina, Rubettino, Soveria Mannelli 2019, p. 116 e segg.
Vedi anche l’articolo di E. Toti disponibile al http://www.cinalex.it/blog/p/la-legge-sulla-
supervisione-istituita-la-commissione-nazionale-di-supervisione-per-la-vigilanza-sullappa-
rato-burocratico-della-cina
281 Il Presidente della Commissione Nazionale è nominato dall’ANP, gli altri membri vengono
nominati dal Comitato Permanente dell’ANP. In modo analogo si procede per le nomine dei
componenti delle Commissioni ai livelli locali.
tutti i pubblici dipendenti (compresi anche gli iscritti al partito), dei quali verifi-
cano il corretto adempimento dei compiti assegnati. A tal fine svolgono auto-
nomamente le indagini e possono raccogliere prove, interrogare testimoni,
condurre ispezioni e sequestrare documenti, anche avvalendosi della collabo-
razione degli organi di polizia, senza necessità di richiedere autorizzazioni
all’autorità giudiziaria. Possono inoltre comminare sanzioni disciplinari e tra-
smettere i documenti all’autorità giudiziaria.
Un altro importante passo verso la realizzazione dello stato di diritto è
l’introduzione dell’obbligo di giuramento di fedeltà alla Costituzione per tutti i
pubblici funzionari statali all'atto della presa di servizio. E il primo a celebrare il
nuovo rito civile è lo stesso segretario del PCC Xi Jinping che viene eletto Presi-
dente della Repubblica e della Commissione Militare Centrale, ma che soprat-
tutto sarà il leader indiscusso che dovrà guidare il Paese verso la realizzazione
del socialismo con caratteristiche cinesi.
Già nel suo discorso per il sessantennale dell’Assemblea Nazionale del
Popolo (ANP) troviamo i richiami alla democrazia e l’indicazione dei quatto
obiettivi prioritari che verranno poi inseriti nell’emendamento costituzionale
del 2018: la realizzazione dello stato di diritto, la lotta contro la corruzione 282 il
sostegno e il miglioramento di tutto il sistema delle Assemblee popolari e
l’attuazione di un solido centralismo democratico, considerato da Xi Jinping il
principio di base dell'organizzazione e del funzionamento dello Stato cinese.
Xi Jinping si richiama alla democrazia applicando l’aggettivo democratico
al centralismo e ai diritti soggettivi
The main criteria for judging whether a political system is democratic
and effective are whether the country can conduct leadership transitions
in a lawful and orderly manner; whether the people can administer na-
tional, social, economic, and cultural affairs in accordance with the law;
whether people can openly express their demands; whether various sec-
tors of society can participate effectively in national political affairs;
whether state decision-making is rational and democratic; whether tal-
ent from a variety of sectors can enter systems of national leadership
and administration through fair competition; whether the governing
party can exercise leadership over national affairs in accordance with the
Constitution and the law; and whether the exercise of power is subject
to effective constrains and supervision.283
282 Xi Jinping ritiene che la corruzione sia una grave minaccia alla stabilità dell’intero sistema
politico perché compromette sia il metodo della meritocrazia politica, sia l’immagine del
partito e la sua legittimità a governare.
283 Xi Jinping, Speech at the Ceremony Marking the 60th Anniversary of the National People's
Costruire ex novo una democrazia non è facile. La Cina è un Paese con
più di un miliardo e 400 milioni di abitanti e 56 gruppi etnici; e il rischio è che
“in attempting to walk like a swan, the crow loses its own gait”. 284 Per questo Xi
Jinping pone gli obiettivi di sviluppare una democrazia popolare più ampia, più
completa e più solida, di promuovere lo sviluppo della democrazia consultiva e
di agire concretamente per proteggere il diritto del popolo di gestire gli affari
dello Stato, della società e le questioni economiche e culturali. E nel rispetto
della salvaguardia dei diritti umani,285 esorta il Partito a incoraggiare la libera
espressione di opinioni e adoperarsi per stabilire sistemi e procedure validi per
elezioni e processi decisionali democratici, sostenendo e migliorando il sistema
di autogoverno dal basso, salvaguardando e sviluppando l’esercizio dei diritti e
consolidando il sistema delle ANP, delle Conferenze Politiche Consultive guida-
te dal Partito,286 delle autonomie etniche regionali e il sistema di autogoverno
pubblico a livello di base.
Xi considera le ANP degli organi fondamentali per la democratizzazione
del Paese. Nato da un’idea di Mao, il sistema delle Assemblee era stato inseri-
to nella Costituzione fin dal 1954 ed era stato adottato dalla Conferenza Con-
sultiva Politica del popolo che, alla fine della guerra civile, ha svolto la funzione
di interim costituzionale.287
Le Assemblee Popolari sono il modo con cui la Cina cerca di attuare una
forma di autogoverno del popolo e costituiscono il sistema democratico di
cooperazione che definiscono “multipartitica” 288 (sic). Il sistema si compone di
Congress, in “Qiushi Journal”, Chinese edition, No. 18, 2019. , http://en.qstheory.cn/2020-
03/20/c_489248.htm
284 Xi Jinping, The governance of China, vol. II, cit., p. 312.
285 Sulla questione dei diritti umani è attribuita un’importanza molto rilevante alla soluzione
del problema della povertà. Per questo Xi Jinping può affermare che “China pursues devel-
opment in light of its national conditions. We always put people's rights and interests above
everything else and have worked hard to promote and protect human rights. China has met
the basic living needs of its 1.3 billion-plus people and lifted over 700 millio n people out of
poverty, which is a significant contribution to the global cause of human rights”. Ivi, p. 598.
286 È un organo composto dal Comitato Nazionale (2238 membri) e da comitati locali col com-
pito di promuovere l’amicizia con le altre nazioni, migliorare il sistema di cooperazione mul -
tipartitica e di consultazione politica. Il Presidente del suo Comitato Nazionale è il numero
quattro nella gerarchia politica. La Cppcc è composta da imprenditori, scienziati, personaggi
famosi nominati sulla base di segnalazioni dei vari Comitati locali e filtrate dal Dipartimento
Lavoro del Fronte Unito dei Comitati locali del PCC.
287 E sono rimaste nelle Costituzioni successive e nei vari emendamenti dell’ultima Costituzio-
ne approvati nel 1988, 1993, 1999 e 2004.
288 Viene definito organo di decisione multipartitica perché ne fanno parte anche i rappresen-
tanti degli otto partiti “patriottici” per la maggior parte formatisi nel periodo delle guerre
una Assemblea Nazionale del Popolo e delle Assemblee popolari locali. La Co-
stituzione afferma che esse sono gli organi costituzionali con cui il popolo eser-
cita, tramite propri rappresentanti, il potere statale, amministra gli affari di Sta-
to, gestisce le imprese economiche e culturali e gli affari sociali. Sono quindi
organi fondamentali per capire i rapporti tra cittadini, Partito e Stato.
Il sistema si articola su più livelli. Il più alto è l’ANP, il massimo organo del
potere statale. I suoi 2980 289 componenti vengono eletti con metodo indiretto
dai rappresentanti delle Assemblee del Popolo delle province, delle regioni au-
tonome, delle municipalità sottoposte direttamente al governo centrale e
dell’esercito. Nella gerarchia politica cinese, il Presidente dell’ANP è al secondo
posto, dopo il Segretario del PCC. Di norma, l’Assemblea, in carica per 5 anni, si
riunisce una volta all’anno con sedute che durano circa due settimane. Nella
prima seduta l’Assemblea nomina i membri del suo Comitato Permanente (CP),
che è l’organo di gestione dei poteri dell’Assemblea e il cui Presidente è la terza
carica dello Stato 290
L’ANP esercita il potere legislativo, può emendare la Costituzione e ne
sorveglia l‘applicazione, elegge tutte le alte cariche dello Stato, civili, giudizia-
rie e militari, decide su problemi di guerra e di pace, esamina e approva i piani
di sviluppo economico, approva l’istituzione di province. Ha in mano la gestio-
ne dello Stato, nei limiti posti dalla Costituzione.
Composto da 166 membri,291 il Comitato Permanente (CP) è il vero mo-
tore dell’Assemblea, della quale svolge le funzioni nel lungo periodo in cui non
è riunita. Interpreta la Costituzione, adotta e modifica leggi, delibera sulla no-
mina o rimozione delle più alte cariche dello Stato, nomina gli ambasciatori,
può dichiarare la guerra, lo stato di emergenza e la mobilitazione nazionale. Di
fatto, esercita un potere maggiore di quello dell’Assemblea che lo elegge. 292 È
anti-giapponese e di liberazione nazionale, durante le quali hanno appoggiato il PCC. I loro
rappresentanti possono occupare fino a un terzo dei seggi.
289 Il numero varia in base alla popolazione
290 Esclusi i rappresentanti dell’Esercito, quelli degli altri livelli amministrativi vengono eletti dai
rappresentanti delle città non metropolitane, dei distretti municipali, delle contee, delle
contee autonome, dei comuni, dei comuni delle nazionalità e delle città. Questi ultimi sono
eletti direttamente a suffragio universale come quelli delle comunità rurali. Cfr. Malaschini,
Come si governa la Cina, cit., pp. 67-90.
291 Di questi, 115 fanno parte del Partito Comunista, gli altri provengono dai partiti “patriotti-
ci”, da organizzazioni dei lavoratori, dall’esercito e da minoranze locali.
292 La cosa si chiarisce se si guarda chi sono i suoi quattordici membri: uno dei sette compo-
nenti il Comitato Permanente dell’Ufficio Politico del PCC, uno dell’Ufficio Politico, cinque
del Comitato Centrale del Partito, Il Procuratore e il Vice Presidente della Corte Suprema del
Popolo, i massimi dirigenti del Partito delle Regioni Autonome (Tibet e Xinjiang) e un mem -
un organo di controllo sul governo, sul comando delle Forze Armate e sugli or-
gani giudiziari ed è il soggetto principale del processo legislativo.
A livello locale eleggono assemblee popolari le province, il livello più
alto di governo locale, 293 le prefetture, le contee e i comuni. Questi ultimi sono
gli organi amministrativi di base, il luogo di frontiera della gestione ammini-
strativa, incaricati di eseguire le decisioni prese dall’Assemblea Popolare della
Città e gli ordini che arrivano dai livelli amministrativi superiori. Sono inoltre il
punto di collegamento tra lo Stato e le comunità rurali, tanto che per i contadi-
ni il regime della città rappresenta lo Stato.
L’organo del potere statale cittadino è l’Assemblea del Popolo, composta
da rappresentanti eletti direttamente dal popolo. Al suo interno viene nomina-
ta l’Amministrazione cittadina, che svolge una duplice funzione: è l’organo ese-
cutivo dell’Assemblea cittadina, ma è anche organo locale dello Stato, del qua-
le costituisce il più basso livello amministrativo. Per questo, l’Amministrazione
cittadina opera sotto il controllo del Consiglio di Stato e risponde del proprio
operato all’Assemblea che l’ha nominata, mentre rende conto al livello buro-
cratico immediatamente superiore per i compiti amministrativi che le sono sta-
ti delegati.
Nelle campagne, le organizzazioni che si collocano alla base del sistema
sono i Comitati dei Residenti Rurali (CRR), 294 Nel 1998 sono state rese obbliga-
torie le elezioni dirette dei comitati di villaggio e nel 2008 hanno esercitato il
diritto di voto 900 milioni di contadini. 295 I comitati sono autonomi, fortemente
radicati nel territorio, si autogestiscono e adempiono sia a compiti di legge, sia
a doveri imposti dai residenti. La loro autonomia si esercita prevalentemente
in ambito sociale. Si occupano di affari pubblici e del benessere del villaggio, ri-
solvono controversie tra cittadini, amministrano le proprietà collettive e avan-
zano proposte al governo delle città.
Pur non essendo organizzazioni di livello inferiore a quelle cittadine, il
rapporto con queste ultime non è così armonioso come vorrebbe la legge. La
conflittualità nasce soprattutto nei casi di imposizione di obiettivi statali da

bro del Comitato Permanente della Conferenza Politico Consultiva del Popolo.
293 Il livello provinciale include Regione autonoma, Municipalità sotto la guida diretta del Go-
verno centrale, e Regioni a Statuto speciale; quello delle Prefetture annovera Contea, Con-
tea autonoma, città non divise in distretti, distretti municipali e distretti autonomi.
294 Riconosciuti dall’art. 111 della Costituzione del 1982, nel 1987, vengono disciplinati con ap-
posita legge che ne stabilisce la natura, poteri, modalità di elezione, ecc.. Nel 2007 sono
610 mila.
295 Daniel A. Bell, Il modello Cina, cit., p. 203.
parte delle amministrazioni delle città. Poiché dalla loro realizzazione dipende
la carriera politica dei dirigenti urbani sono inevitabili le pressioni per l’attua-
zione anche di ordini che agli occhi dei CRR appaiono sbagliati o violazioni del
proclamato diritto all’autonomia. Il rapporto tra città e CRR oscilla quindi tra la
subordinazione amministrativa296 e l’eccesso di indipendenza in nome
dell’autonomia e della responsabilità nei confronti dei loro elettori. Il sistema
viene così messo in difficoltà a causa della diffusa “mancanza di cultura, legali-
tà e coscienza del diritto” a un punto tale che “la magistratura non ha suffi-
cienti basi giuridiche per intervenire”. La carenza di “basi sistemiche e cultura-
li” di tradizione contrattuale democratica e di governo nel rispetto della legge
è un punto sul quale Xi Jinping insiste molto nel suo discorso.
Come si vede, il rapporto tra governo centrale, province città e comunità
locali è complesso, ma in caso di crisi il governo centrale può esercitare
un’autorità incondizionata. E lo si è visto nel caso della pandemia Covid-19; ap-
pena le autorità centrali hanno colto la gravità della situazione hanno dispiega-
to un’organizzazione e un sistema di forze che ha consentito di ottenere buoni
risultati con sorprendente rapidità.
Le riforme dell’economia hanno creato nuovi rapporti giuridici e intro-
dotto nuovi concetti non solo in materia di commercio e di contratti, ma anche
di diritti individuali, di diritto di famiglia, di diritto successorio e in materia di il-
leciti. Pragmaticamente, si sono adottate delle leggi ad hoc297 mano a mano
che si rendeva necessario regolamentare i diversi aspetti della vita civile. È un
buon metodo, coerente con la cultura cinese, ma ha dei limiti perché la disci-
plina dei rapporti giuridici civili richiede di essere codificata in modo unitario,
definendo chiaramente principi, diritti e obbligazioni. Da qui è nata l’esigenza
di disporre anche in ambito civilistico di un codice organico in grado di tutelare
i diritti e gli interessi delle persone fisiche e giuridiche, in accordo con lo svilup-

296 Cfr. Li Zhuzhong, Il rapporto tra il Comitato dei residenti rurali e il potere locale della città in
Cina, in Hiroko Kudo, Giampaolo Ladu, lucio Pegoraro (a cura di), Municipi d’Oriente, Don-
zelli, Roma 2008, pp. 285-304. Si sono registrati casi in cui i membri dei CRR sono stati desti-
tuiti e sostituiti con altri graditi dal governo cittadino.
297 Il termine diritto viene tradotto in cinese con il carattere quan 權, che indica anche potere
politico, autorità, supremazia, dominio posizione vantaggiosa; per il momento, tempora-
neamente, provvisoriamente; pesare o valutare. Quan 權, è il peso che viene fatto scorrere
avanti e indietro su una stadera e descrive la capacità di adattarsi alle mutevoli circostanze
e di trarne profitto. Rientra quindi in una sfera semantica che conferisce alla nozione cinese
di legge o diritti la mancanza di qualsiasi percezione di finalità, assolutezza o invariabilità.
Non ha una posizione fissa e definitiva: è mobile, regolabile e provvisorio. Cfr. Byung-Chun
Han, Shanzai, cit. p. 5.
po del socialismo con caratteristiche cinesi e con gli obiettivi 298 fissati dalla Co-
stituzione della Repubblica Popolare Cinese. L’entrata in vigore del nuovo Codi-
ce Civile (1 gennaio 2021) 299 è una svolta epocale, che rende la Cina un paese
avanzato anche nel settore del diritto, spina dorsale della società. Un punto
importante non solo dal lato giuridico, ma anche da quello politico e sociale.
Dopo i tentativi falliti di inizio XX secolo, che avevano portato al Codice
Civile del 1931, mai completamente applicato, questa è la prima codificazione
realmente vigente in Cina. Ed è interessante rilevare che la Cina non si sia rivol-
ta al modello di legislazione di common law vigente in diversi paesi anglofoni,
ma abbia preferito conciliare la propria tradizione giuridica con la tradizione ci-
vilistica europea, rifacendosi direttamente al diritto romano. 300

298 L’articolo 1 del nuovo Codice civile della Repubblica Popolare Cinese, a cura di Oliviero Dili-
berto, Domenico Dusi, Antonio Masi, Pacini Giuridica, Pisa 2021, afferma che “Il presente
Codice è emanato in conformità con la Costituzione allo scopo di tutelare i diritti e gli inte-
ressi dei soggetti di diritto, regolare i rapporti giuridici, mantenere l'ordine sociale ed eco-
nomico, soddisfare le esigenze di sviluppo del socialismo con caratteristiche cinesi e svilup-
pare i valori fondamentali del socialismo”, p. 5.
299 La stesura del nuovo Codice, avviata nel 1986 in collaborazione con l’Università Sapienza di
Roma e la Zhonguan University of Economics and Law (ZUEL), si conclude il 28 maggio 2020
con l’adozione da parte della Terza Sessione dell’ANP. L’iter è raccontato da Diliberto a De
Angelis nell’articolo disponibile al https://www.huffingtonpost.it/entry/oliviero-diliberto-
porta-giustiniano-in-cina_it_60c75a23e4b0190f32052b68
300 Oliviero Diliberto, La lunga marcia. Il diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese in Lu-
ciano Canfora e Ugo Cardinale (a cura di), Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’inse-
gnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 53
– 67. Ciò ha comportato uno sforzo nel tradurre i concetti del vocabolario giuridico romano
in cinese ricorrendo alla costruzione di neologismi in grado di rendere comprensibile al let -
tore cinese il significato di categorie proprie della tradizione romanistica.
2.7. La politica come professione: l’opzione Cina
La politica consiste in un lento e tenace superamento di
dure difficoltà da compiersi con passione e discerni-
mento al tempo stesso.
Max Weber, La politica come professione

Nelle democrazie europee il compito di formazione e selezione della


classe dirigente è stato svolto per gran parte dai partiti politici, che hanno di
fatto surrogato in questo lo Stato. I partiti hanno consentito a tanti cittadini di
partecipare alle scelte della politica mantenendo aperti luoghi di discussione,
di decisione e di controllo democratici, dove era vivace e palpabile l’indispen-
sabile diffidenza, il contatto diretto della parte attiva degli elettori con gli eletti
e la verifica del loro operato. Anche per questo, quando i partiti son venuti
meno ed è scemato il ruolo degli intellettuali si sono diffusi i populismi ed è
cresciuta progressivamente la mediocrità delle classi dirigenti politiche tanto
da far nascere una riflessione sulla meritocrazia politica 301 e sui requisiti per
l’accesso alle cariche politiche.
Di norma, nelle costituzioni democratiche, l’accesso la carriera politica
non richiede titoli specifici né un particolare curriculum. La democrazia è infatti
per definizione l’unica forma di governo che non fonda il diritto di governare
sul riconoscimento di capacità dovute alla nascita o alla ricchezza. 302 Sono ne-
cessari e sufficienti i voti degli elettori. Nei regimi neoliberisti la meritocrazia
politica passiva pone quindi un serio problema di democrazia, dato che il siste-
ma può funzionare bene solo se sono assicurate pari opportunità di accesso, a
cominciare dalle carriere scolastiche. Senza correttivi adeguati, nelle democra-
zie occidentali la selezione meritocratica rischia di giustificare il permanere
delle disuguaglianze, dato che restano mascherati i condizionamenti economi-
ci e sociali.
Nella nuova Cina, che si è data una forma di governo per il popolo, piut-
tosto che un governo rappresentativo del popolo, la questione è affrontata in
modo diverso: non attraverso il voto ma su base meritocratica. È un metodo
che ha importanti precedenti nel sistema del mandarinato e radici culturali in

301 Cfr. Sabino Cassese Correzioni epistocratiche della democrazia, Prefazione a Jason Brennan
Contro la democrazia e l’articolo di Aldo Berlinguer disponibile al https://www.ilsole24ore.-
com/art/meritocrazia-e-classe-dirigente-ossimoro-ADPb29r
302 Cfr. Infra, p. 14.
Confucio e in Mozi,303 un pensatore vissuto nel periodo immediatamente suc-
cessivo. Mozi sostiene con decisione maggiore di Confucio, che per l'assegna-
zione delle cariche pubbliche, il privilegio di nascita non è un buon criterio e
che è molto meglio incaricare, come facevano i saggi re dell'antichità, i più ca-
paci, quelli cioè che possiedono virtù morali e conoscenze acquisite con lo stu-
dio. Ottimi precedenti per gli attuali vertici del PCC, che hanno fatto proprio il
principio della meritocrazia per selezionare e formare la classe dirigente chia-
mata a gestire il “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Una
classe dirigente dove il funzionario e il politico non sono due figure distinte
con percorsi di avanzamento diversi; le due carriere non sono separate e alcuni
ruoli non sono facilmente distinguibili. Si accede e si svolge la carriera politica
o amministrativa per mezzo di un metodo che prevede la democrazia rappre-
sentativa alla base, la sperimentazione al livello intermedio e la cooptazione
meritocratica ai vertici. È quello che Daniel A. Bell definisce il “modello Cina”,
sintetizzato nella formula: “modello verticale di meritocrazia democratica ”. 304
Poiché gli organi statali a livello locale (Comitati dei Residenti Rurali e
Amministrazioni cittadine) vengono eletti a suffragio universale direttamente
dai cittadini, essi possono costituire un buon punto di partenza per l’avvio di
una carriera politica, assieme all’altro canale di accesso, che per molti funzio-
nari è il superamento degli esami per l'ingresso all'università. Quest’ultimo è
un punto critico della meritocrazia cinese: da un lato, il sistema scolastico offre
a tutti pari opportunità di diritto allo studio, sia pure con i limiti di un sistema
che copre un territorio vasto e con uno sviluppo disomogeneo; dall’altro, le op-
portunità di accesso agli studi universitari sono legate al superamento di un
duro esame di selezione a livello nazionale (gaokao).305 Ma poiché il numero di
posti disponibili e il punteggio richiesto per accedere all’università varia da
provincia a provincia e da università a università, il sistema di fatto avvantaggia
i candidati delle grandi città e delle grandi aree economiche dove si trovano le
università più prestigiose, che però riservano più posti per gli studenti residen-
ti.306 Un ulteriore sbarramento alla carriera politica è dato dal fatto che l’ascesa

303 Maestro Mo, da cui moismo per indicare la sua scuola. Come Confucio, anche Mozi si ri-
chiama alle opere degli antichi, ma dai classici della tradizione cerca i fondamenti razionali,
attraverso la discussione e l'argomentazione, sulla base di alcune semplici regole di ordine
pratico, che colgono il fondamento, l'origine e l'utilità di ogni ragionamento.
304 Daniel A. Bell, Il modello Cina, cit. p. 212.
305 Sembra che solo un candidato su 50 mila riesca a superare l’esame. Si stanno comunque
sperimentando sistemi per rendere più democratico l’accesso, che penalizza i residenti nelle
province più povere.
306 Alcune università private consentono l’iscrizione a studenti che non hanno superato l’esa-
ai vertici del potere richiede, salvo poche eccezioni, 307 di essere iscritti al Parti-
to. E questa non è una banalità.308
Per il passaggio ai livelli politici superiori vige il principio della cooptazio-
ne da parte della élite politica, sulla base del curriculum e dei risultati conse-
guiti nei ruoli assegnati. Di norma, la carriera del funzionario di partito parte
dall’affidamento di un incarico di primo livello e avanza progressivamente di li-
vello in livello; ad esempio, a un funzionario servono circa una ventina d’anni e
passare attraverso una decina di livelli intermedi per arrivare alla carica di vice
ministro. Nel corso della carriera, i funzionari vengono spostati all’interno del
Paese e fatti ruotare tra il servizio statale e quello civile in imprese statali o
presso organizzazioni sociali governative. Da questo punto di vista, nella prima-
vera 2018 Xi Jinping, quando viene confermato Segretario generale del PCC e
Presidente della Commissione militare centrale e sta per essere confermato
Presidente della Repubblica Popolare Cinese, tecnicamente non è una figura
politica che presiede un colossale apparato amministrativo, bensì il funzionario
pubblico che ha raggiunto la vetta del sistema politico-burocratico della Cina.
Il livello intermedio tra la democrazia di base e il centralismo governati-
vo, costituisce uno stadio di verifica delle capacità dei funzionari, ma anche di
sperimentazione di possibili soluzioni politiche da applicare eventualmente su
più ampia scala, come è stato fatto per il sistema di elezione dei Comitati dei
Residenti Rurali, istituiti in via sperimentale da una legge provvisoria del 1982
e poi stabilizzati a livello nazionale con una nuova legge nel 1998. Questa pras-
si è frutto di una svolta rispetto alla politica centralista del maoismo, che non
lasciava spazi per sperimentazioni di forme locali di democrazia. L’unica opzio-
ne era una pronta e totale adesione alle direttive centrali. Ma, una volta posto
come obiettivo centrale quello della crescita economica, il PCC ha avviato varie
“sperimentazioni sotto gerarchia”. Si sono così ampliati gli orizzonti delle rifor-
me, che dall’ambito economico sono arrivate a coinvolgere l’ambito ammini-
strativo, sociale e politico di vasti territori. Alla priorità della crescita del PIL
sono così stati affiancati nuovi parametri di valutazione dei funzionari governa-
tivi, ispirati a criteri più attenti alla protezione dell’ambiente, alla riduzione del-
la povertà e all’ottimizzazione dei servizi pubblici. Sulla base del principio di
me nazionale, ma che possono permettersi di pagare la costosa retta.
307 Giovanni B. Andornino, Una prospettiva italiana sul 19° congresso nazionale del Partito co-
munista cinese, in “Orizzonte Cina”, Vol. 8, n. 5, settembre-ottobre 2017, p. 5. https://
www.iai.it/sites/default/files/orizzontecina_17_5.pdf
308 Si veda l’art. 5 dello Statuto del PCC approvato dal 19° Congresso nell’ottobre del 2017.
https://www.mfa.gov.cn/ce/ceil/eng/zt/19thCPCNationalCongress/
W020171120129543247718.pdf
“imparare facendo”, sono state avviate sperimentazioni di nuove politiche sul-
la proprietà fondiaria, sulla partecipazione di capitali stranieri e sulla liberaliz-
zazione del mercato della forza lavoro, esperienze che, una volta valutate posi-
tivamente, sono diventate veri programmi operativi applicati all’intera Cina.
Il terzo livello della meritocrazia politica cinese riguarda l’accesso ai ver-
tici del PCC e dello Stato. Accesso che evidenzia un grande limite alla democra-
zia del sistema di selezione meritocratica: le agevolazioni e le corsie preferen-
ziali riservate ai figli dei grandi magnati dell’industria e del commercio e ai co-
siddetti “principini”, i figli o nipoti di dirigenti politici, che godono o hanno go-
duto di considerazione e popolarità.
Il ritorno al sistema meritocratico, che il maoismo aveva abbandonato a
vantaggio dell’appartenenza e fedeltà politica, si è reso necessario per la rico-
struzione del Paese dopo la rivoluzione culturale, quando occorreva portare
alla guida della complessa macchina statale persone capaci e con esperienza e
competenze manageriali e professionali, anche se con minore potenziale rivo-
luzionario. Per arrivare ai vertici del potere servono, come abbiamo visto, de-
cenni di esperienze amministrative/politiche e superare molti test di merito. Di
sicuro questa procedura non garantisce virtù e intelligenza ma, premiando il
conformismo, mette al riparo dagli errori e dalle incertezze dell’inesperienza e
aiuta nella formazione di abilità sociali utili nelle trattative per la persuasione
delle persone. Non si deve peraltro dimenticare che la leadership politica cine-
se è di tipo collettivo. Il Comitato Permanente dell'Ufficio Politico del Comitato
Centrale del Partito Comunista Cinese ha dai sette ai nove membri e le sue de -
cisioni sono di norma adottate all’unanimità e, in caso del permanere di diver-
genze, si preferisce rinviare la decisione.
3. Per concludere
Hegel definí la storia come un «immenso mattatoio».
Possiamo dargli torto? In nessun paese del mondo il
metodo democratico può perdurare senza diventare un
costume. Ma può diventare un costume senza il ricono-
scimento della fratellanza che unisce tutti gli uomini in
un comune destino?
Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia

Nei sistemi politici secolarizzati i governati riconoscono legittima la lea-


dership politica quando all’obbedienza subentra l’adesione alle norme e ai va-
lori fondamentali sui quali si fonda l’esercizio del potere. Il consenso si esprime
non solo direttamente tramite il voto, ma anche attraverso varie modalità quali
forme associative, mass media, azioni di protesta o di supporto. In ogni caso, il
giudizio sul sistema di governo, sui principi che ne guidano l’azione, 309 e sulla
loro applicazione viene espresso sulla base di un insieme di argomenti para-
metri politici, giuridici ed economici tra i quali rientrano l’efficacia, l’efficienza e
la rispondenza dell’azione governativa alle aspettative, il livello di benessere, o
di libertà individuali.
Dal punto di vista sostanziale, la valutazione dei processi di democratiz-
zazione oggi incontra numerose difficoltà, a cominciare dall’incapacità di gran
parte degli elettori310 di formulare un giudizio politico razionalmente documen-
tato grazie anche ad un appiattimento generale generato da una diffusa me-
diocrità, quando non ignoranza, che strizza l’occhio a una valorizzazione delle
opinioni piuttosto che delle competenze.
Negli ultimi decenni i sistemi democratici hanno ottenuto alcuni risultati
verificabili: per lo più non sono stati direttamente interessati da conflitti bellici,
sono mediamente ricchi e liberi, hanno retto a molti tentativi di destabilizza-
zione e hanno migliorato i sistemi giuridici per il riconoscimento e la tutela dei
diritti fondamentali. Non hanno però saputo mantenere le loro promesse so-
prattutto dal punto di vista dell’uguaglianza economica e della giustizia redi-
stributiva, che di fatto costruiscono garanzie di libertà. Come afferma Norberto
Bobbio altre promesse mancate riguardano “la sopravvivenza del potere invisi-
309 Alla base si trovano i diritti fondamentali dell’uomo e delle nazioni grandi e piccole, espressi
nello Statuto delle Nazioni Unite. Sul piano delle relazioni esterne, un regime politico è in-
vece legittimo quando è ritenuto tale da altri ordinamenti egualmente sovrani.
310 Vedi infra, cap. 1.6.
bile, la permanenza delle oligarchie, la soppressione dei corpi intermedi, la ri-
vincita della rappresentanza degl’interessi, la partecipazione interrotta, il citta-
dino non educato (o maleducato)”.311 Certo, alcune più che promesse erano
speranze mal riposte mentre altre, che in un certo senso rispecchiano i neces-
sari adattamenti delle idee alla realtà, indicano che qualcosa da sistemare c’è,
in primis per quanto attiene alla presenza di poteri occulti e al mancato svilup -
po di metodi democratici nel sistema politico e nell’apparato burocratico. In
particolare, c’è una carenza che Bobbio ritiene molto importante: l’educazione
della cittadinanza, quel tipo cioè di formazione che si attua per mezzo
dell’esercizio della pratica democratica, attraverso il dialogo e la partecipazione
alla politica, base anche di una adeguata informazione che metta in grado di ri-
conoscere sia il bisogno di competenza, sia chi la possiede. Ma la libertà di
scelta del cittadino è costantemente minacciata dalle sottili tecniche di mani-
polazione della pubblica opinione 312 e questo non aiuta a scegliere una classe
dirigente adeguata ai problemi del mondo contemporaneo. 313
Guardando alla Cina, il criterio di legittimazione dell’azione di governo
trova ispirazione nell’etica politica confuciana e si sostiene su tre “fonti di le-
gittimità non democratica […] il nazionalismo, la legittimità attraverso le pre-
stazioni e la meritocrazia politica”. 314 Le fonti cinesi della legittimità sono para-
metri che ben si adattano alla cultura cinese, ma sono lontani dall’impostazio -
ne liberale e dalle sue categorie, secondo le quali al governo si dovrebbero
dare minori poteri possibili e considerarlo comunque con un certo sospetto. Al
contrario, il principio della tutela è un tipico esempio di legittimazione che
identifica in modo non formalistico la democrazia con il governo per il popolo
da parte delle élite. In questo sistema, chi governa ha il dovere di fare il bene
del popolo e gode di fiducia e rispetto 315 nella misura in cui ne soddisfa le al-
meno i bisogni primari, se non le aspettative. Essendo un criterio che si basa
sulla valutazione delle prestazioni, è strettamente dipendente dai risultati rag-
311 Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1991, pp. XVI-XVII. Al rapporto
tra democrazia e potere invisibile Bobbio dedica un intero capitolo (pp. 85-113). Nel potere
invisibile Bobbio colloca una serie di situazioni tipicamente (forse non solo) italiane come
mafia, camorra, logge massoniche anomale, servizi segreti incontrollati e protettori dei sov-
versivi che dovrebbero controllare. Vi andrebbe aggiunto anche il cyber potere delle multi -
nazionali dell’informazione e della finanza.
312 V. infra, cap. 1.6.
313 Queste tematiche sono ben sintetizzate nell’articolo di Alessandro Magnoli Bocchi pubblica-
to il 29 Ottobre 2018 da Il Sole 24 Ore https://www.econopoly.ilsole24ore.com/
2018/10/29/cinque-errori-democrazia-merito/
314 Daniel A. Bell, Il modello Cina, cit. p. 175.
315 Vedi infra, cap. 2.4.
giunti. Ma le buone prestazioni non garantiscono comunque la stabilità: una
volta raggiunto un adeguato grado di benessere, anche l’impostazione confu-
ciana vede necessaria una forma di realizzazione della persona nella comunità.
In ambito politico si tratta di ampliare la democrazia con una maggior parteci-
pazione del popolo alle scelte.
Da questo punto di vista, il governo del PCC non ha fatto molto, ma ap-
pare comunque saldo, non solo perché ha ottenuto buoni risultati sul piano
della crescita economica e produttiva, permettendo a fasce più ampie di popo-
lazione di raggiungere un minimo grado di benessere, ma anche perché sa far
leva sull’orgoglio nazionale per i risultati ottenuti in campo scientifico e milita-
re; puntando poco sullo sviluppo della partecipazione e più su forme di legitti-
mità ideologica, il PCC si può presentare come il protettore del popolo e il por-
tabandiera dell’unità della nazione, unica forza in grado di affrontare e risolve-
re le crisi e di tenere lontano ogni rischio di ritorno al “secolo dell’umiliazione”.
Una cosa che fa dire a Daniel A. Bell che “i cittadini cinesi professano fede nella
democrazia pur abbracciando un governo non democratico”. 316 E il governo ci-
nese, prosegue Bell, “è riuscito ad assicurarsi la legittimità politica nonostante,
non grazie alla sua ideologia marxista ufficiale. Buona parte di quella ‘legittimi-
tà ideologica’ proviene da una svolta verso il nazionalismo, con il PCC come
veicolo principale e protettore del nazionalismo cinese”. 317 Un concetto questo
che Bell considera importato ed estraneo alla cultura imperiale cinese, che
considerava la Cina il centro di un mondo “unificato senza confini territoriali,
governato da un re saggio e virtuoso.” 318 Un nazionalismo che si nutre di risen-
timento per i torti del passato, favorisce una forte centralizzazione, sostiene
una politica di chiusura di fronte a ogni tentativo di interferenza esterna e pro-
muove una forte istruzione patriottica nelle scuole.
Il processo di democratizzazione che Tocqueville ritiene sia iniziato nel
mondo occidentale a partire dal secolo XI per mezzo dell’irresistibile rivoluzio-
ne sociale ha sviluppato la tendenza all’eguaglianza e di essa si è alimentato
acquistando sempre maggior forza. La rivoluzione politica e sociale che ne è
derivata si è affermata prima e in modo più veloce in America del Nord, dove
non ha dovuto abbattere antiche strutture, poi più lentamente in Europa, dove
le forze radicate nel passato ne hanno rallentato il cammino e hanno imposto
adattamenti locali. Adesso sta dilagando in tutto il mondo. Ma guardando agli
americani giustamente osserva Tocqueville di essere “ben lontano dal credere
316 Daniel A. Bell, Il modello Cina, cit., p. 174.
317 Ivi, p. 176.
318 Ibid.
che essi abbiano trovato la sola forma di governo che possa darsi la democra-
zia”319 e che i governanti europei devono essere consapevoli che “a un mondo
completamente nuovo occorre una nuova scienza politica”. 320 Una politica in-
novativa della quale Tocqueville detta linee guida tuttora valide:
educare la democrazia, rianimarne, se è possibile, la fede, purificarne i
costumi, regolarne i movimenti, sostituire a poco a poco la scienza degli
affari all'inesperienza, la conoscenza dei suoi veri interessi agli istinti cie-
chi; adattarne il governo ai tempi e ai luoghi; modificarlo secondo le cir-
costanze e gli uomini: questo è il primo dei doveri che si impone oggi ai
governanti.321
E oggi, quando gli individualisti abitanti dello spersonalizzato villaggio
globale sono alle prese con problemi non solo sociali e di iniqua distribuzione
delle risorse e della ricchezza, ma anche climatici, sanitari, migratori e ambien-
tali, l’esortazione di Tocqueville è quanto mai attuale.
Sono problemi complessi e interconnessi, che richiedono uno sforzo di
ricerca di soluzioni utilizzando tutti gli strumenti disponibili, perché, come af-
ferma Karl Marx è sempre accaduto che “l’umanità non si propone se non quei
problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova
sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua so-
luzione esistono già o almeno sono in formazione”. 322 Anche la democrazia e la
sua manifestazione politica concreta devono perciò essere sempre ripensate in
modo da adattarsi di volta in volta alle esigenze che vengono ad imporsi. Per-
ché rimane pur vero che vanno trovate soluzioni capaci di dare forma di gover-
no alla secolarizzazione della sovranità per popoli composti da esseri umani,
perché solo “un popolo di dèi, se ci fosse si governerebbe democraticamente.
Un governo così perfetto non si addice agli uomini”. 323
Un buon motivo per guardare con sospetto i tentativi di chi propone di
realizzare una democrazia digitale diretta, senza precisarne la configurazione,
e guarda al digitale come se questo strumento fosse neutrale e, indipendente-
mente dalle proprie regole e dalla volontà dei sui gestori, fosse capace di ren-
dere concreta una vera democrazia che stando a Rousseau “nella sua rigorosa
accezione, non è mai esistita [...] e non esisterà mai” 324. Per il suo funziona-

319 Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, cit., p. 27.


320 Ivi, p. 22.
321 Ibid.
322 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, pp. 5-6.
323 Jean-Jacques Rousseau, Du Contrat Social, cit., p. 277.
324 Ivi, p. 275.
mento sono richieste troppe cose, a cominciare dalla virtù dei cittadini. 325
Anche se circoscritta solo al controllo diretto della funzione esecutiva, la
democrazia digitale appare una cosa difficile da realizzare senza prima attuare,
come afferma Byung-Chul Han, un “cambio di paradigma da un idealismo di-
scorsivo a un materialismo digitale”.326 Il Web, infatti, è un ambito con proprie
regole, un ambiente favorevole al calcolo dell’oggettività e correttezza della
roussoviana volontà generale che, come sostiene Han, non necessita di alcun
discorso, anzi, “ogni forma di comunicazione la deforma”. 327
Pur riconoscendo la novità del Web, la politica si è, in generale, limitata
ad applicare ad esso schemi vecchi, creando una pseudo politica digitale che
tende e ridursi a e-governance, e-government, e-voting e sottoscrizione di pe-
tizioni. Non ci è stato ancora dato di vedere la sua potenzialità di rinnovare i si-
stemi democratici, di creare agorà digitali, capaci di valorizzare la partecipazio-
ne di individui e gruppi nel ruolo di coautori delle scelte più che di semplici
spettatori-consumatori. Occorre cioè qualcosa di realmente inedito, che non si
limiti a implementare e sviluppare pratiche vecchie.
Nella seconda metà del XIX secolo, Jules Verne narra della progettazione
di un enorme cannone che spara un proiettile cavo, contenente i primi astro-
nauti immaginari. C’è voluto più di mezzo secolo per arrivare all’idea del missi-
le, che ha dischiuso possibilità inimmaginabili per un cannone, sia pure enor-
me e superpotente.
La difficoltà sta proprio qui: pensare il nuovo e saperlo riconoscere. Per-
ché il nuovo per la democrazia è probabile che ci sia già in nuce, ma non riu-
sciamo a vederlo. Pensiamo a cambiamenti avviati dal centro e abbiamo diffi-
coltà a cogliere le tracce dei cambiamenti centripeti che sono presenti nella
società e nel Web. Ad esempio, il nuovo potrebbe trovarsi nella capacità dei
big data di calcolare le azioni future e poterle indurre. 328 E il nuovo potrebbe
essere anche in quella élite culturale che si è creata spazio nel Web, gli influen-
cer, che possono sconfinare con facilità dall’ambito di incentivazione dei consu-
mi per svolgere una funzione di surroga degli intellettuali nell’orientamento
della pubblica opinione su tematiche di carattere etico o politico. È un orienta-
mento privo degli ancoraggi dati dai consueti apparati ideologici, funzionali per
la continuità e la potenza dell’azione politica, ma ideologicamente troppo co-
strittivi.
325 Vedi infra, cap. 1.12.
326 Byung-Chul Han, Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo, p. 30.
327 Ibid.
328 Vedi infra, cap. 1.12.
Di sicuro, i sistemi democratici non possono dimenticare che la vera di-
scriminante è il modo con cui viene affrontata la questione sociale e che ciò
che qualifica l’azione politica democratica è quello che Norberto Bobbio defini-
sce egualitarismo “quando esso sia inteso […] non come l’utopia di una società
in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza, da un lato, a esaltare più
ciò che rende gli uomini eguali che ciò che li rende diseguali, dall’altro, in sede
pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali”. 329
L’egualitarismo, anche nella libertà, è la stella polare che indica la giusta
direzione a tanti popoli che lottano per costruire la propria democrazia e, sen-
za copiare un modello, perseguono quell’unico obiettivo, che è il punto d’arri-
vo della secolarizzazione del potere sovrano. Popoli che cercano di costruire
delle democrazie che, se tali non sono solo di nome, devono sapersi tollerare
consentendo alle realtà più diverse di coesistere e interagire pacificamente in
modo continuativo, cercando di risolvere i problemi e le crisi in un modo com -
patibile con la propria storia e nel rispetto di quella degli altri. Ognuno costrui-
sce il proprio futuro individuando i problemi che deve risolvere e impostando il
proprio cammino. Si tracciano così molteplici percorsi, segnati dalle difficoltà e
dalle diverse velocità e potenzialità: è come entrare nel giardino dei sentieri
che si biforcano, dove coesistono e convergono nel presente “diversi futuri, di-
versi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano” 330, dischiudono e bloc-
cano possibilità, serie infinite di tempi e modi “divergenti, convergenti e paral-
leli”331. Tanti processi di democratizzazione, ognuno dei quali prefigura una de-
mocrazia non solo nell’état social, ma anche “nelle leggi, nelle idee, nelle abi-
tudini e nei costumi”, 332 adattata al contesto in cui è nata e in cui lotta per af-
fermarsi. Tutti diversi ma accomunati dallo sviluppo progressivo della libertà
sociale e dell’uguaglianza con l’incertezza, l’inquietudine, la responsabilità e la
fatica che la secolarizzazione del potere comporta.

329 Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli,
Roma 1995, p. 114.
330 Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Einaudi, Torino 1967,
p. 59.
331 Ibid., p. 61.
332 Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, cit. p. 23.
Indice dei nomi
Adamo
Al-e-Ahmad, Seyyed Jalāl
Alleton, Viviane
Anassagora
Andornino, Giovanni B.
Andreini, Attilio
Aristotele
Asor Rosa, Alberto
Aspasia
Badiou, Alain
Bauman, Zigmunt
Bell, Daniel
Benda, Julien
Benveniste, Émile
Berlinguer, Aldo
Bernays, Edward L.
Berners-Lee, Tim
Biral, Alessandro
Bobbio, Norberto
Bodin, Jean
Bollas, Christopher
Borges, Jorge Luis
Brennan, Jason
Bruto
Buonanno, Enrico
Camus, Albert
Canfora, Luciano
Cardinale, Ugo
Carrol, Lewis
Cartesio
Cassese, Sabino
Cattaneo, Elena
Cheng, Anne
Chiusi, Fabio
Chomsky, Noam
Clinton, Bill
Cochin, Augustin
Condorcet, Nicolas de
Confucio
Constant, Benjamin
Corbellini, Gilberto
Cromwell, Oliver
D’Alembertt, Jean-Baptiste Le Rond
Dal Lago, Alessandro
De Angelis, Alessandro
Deng, Xiaoping
Descartes, René
Di Cesare, Donatella
Diderot, Denis
Diliberto, Oliviero
Dreyfus, Alfred
Duhamel, Jules Michel
Dupuis-Déri, Francis
Dusi, Domenico
Duso, Giuseppe
Eco, Umberto
Engels, Friedrich
Esiodo
Festinger, Leon
Floridi, Luciano
Foucault, Michel
Fukuyama, Francis
Gates, Bill
Gini, Corrado
Gorgia
Gosio, Nicoletta
Graeber, David
Gramsci, Antonio
Granet, Marcel
Grillo, Giuseppe
Gross-Loh, Christine
Habermas, Jürgen
Han, Byung-Chul
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Hessel, Stéphane
Hobbes, Thomas
Ippocrate
Jaspers, Karl
Jaucourt, Louis de
Jobs, Steve
Jullien, François
Keane, John
Lasch, Christophe
Lenin, Vladimir Il′ič Ul′janov
Li, Zhuzhong
Lippiello, Tiziana
Lippman, Walter
Lisia
Lordon, Frédéric
Losurdo, Domenico
Lukács, György
Machiavelli, Niccolò
Macron, Emmanuel
Magnoli Bocchi, Alessandro
Malaschini, Antonio
Mantici, Giorgio
Mao, Zedong
Martin, Paul-M.
Marx, Karl
Masi, Antonio
McLuhan, Marshall
Milani, Lorenzo don
Mishra, Pankaj
Montesquieu
More, Thomas
Mozi
Nietzsche, Friedrich
Obama, Barak
Pascal, Blaise
Pericle
Pieranni, Simone
Platone
Polo, Marco
Popper, Karl Raimund
Prometeo
Protagora
Puett, Michael
Quattrociocchi, Walter
Rand, Ayn
Raspail François Vincent
Remotti, Francesco
Renzi, Matteo
Robespierre, Maximilien
Rosanvallon, Pierre
Rousseau, Jean-Jacques
Saddam, Hussein
Schmitt, Carl
Sieyès, Emmanuel-Joseph
Soros, George
Spinoza, Baruch
Spitzer, Manfred
Stuart Mill, John
Sun Tzu
Sun Yat-Sen
Sunstein, Cass R
Thatcher, Margaret
Tocqueville, Alexis de
Tomassini, Fausto
Tonnac, Jean Philippe
Torricelli, Adriano
Toti, Enrico
Trump, Donald
Tucidide
Voltaire
Weber, Max
Wilde, Oscar
Xi Jinping
Yu Hua
Yunus, Muhammad
Zarathustra
Zemin, Jiang
Zhou
Zhuang-zi
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