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Nell’ambito della letteratura greca ci sono due sofistiche: il movimento filosofico che si sviluppa nel V
secolo ad Atene e la sofistica di età imperiale (movimento retorico, chiamato la seconda sofistica).
I sofisti sono coloro che possiedono un’alta competenza e sono disposti ad insegnarla solo sotto
pagamento. (Nuvole)
Il loro obiettivo è avere la capacità di avere successo in ambito privato e pubblico, grazie alla persuasione.
I sofisti insegnano a rendere forte un discorso debole, ad avere ragione anche quando hai torto.
Di qui l’importanza dei Δισσοὶ λόγοι= discorsi doppi; i sofisti dicevano che per ogni argomento si poteva
argomentare sia a favore sia a sfavore a seconda dell’utile.
Caratteristica fondamentale di questo periodo è il dibattito fra nomos (leggi dello stato e sono instabili) e la
fusis (legge di natura, che è eterna). E quando vengono in conflitto fusis e nomos, dobbiamo seguire la
natura.
Poiché nella natura il pesce più grosso mangia quello più piccolo, dobbiamo applicare questa visione anche
alla realtà umana: tra gli uomini il più forte deve avere la meglio sul più debole (Tucidide riprenderà questo
concetto nelle Storie).
TUCIDIDE
Tucidide vive gli anni in cui Atene fonda il suo impero sotto l’egida di Pericle, anni in cui Atene raggiunge
l’apogeo della sua esistenza, sotto la guida di Pericle.
Ma Tucidide assiste anche al periodo di declino di Atene, ovvero durante la guerra del Peloponneso.
Quando scoppia la guerra del Peloponneso (431- 404 a.C.) tra Sparta e Atene, Tucidide è testimone oculare
degli eventi che stanno avvenendo ed è anche protagonista di questo evento tragico della storia perché nel
424 a.C. Tucidide viene mandato come stratego ad Anfipoli (città della Tracia, alleata di Atene e invasa
dall’esercito spartano cappeggiato dal generale Brasida).
Tucidide parte con l’esercito e cerca di salvare Anfipoli senza però riuscirci e viene esiliato per 20 anni.
A questa guerra Tucidide dedicherà la sua opera “Storie” in 8 libri, dove lo storico ricostruisce i fatti in
maniera razionale con metodo rigoroso e critico e cercherà di risalire alle cause che hanno determinato
quello scontro. Tucidide porrà le basi della storiografia scientifica.
Lo stesso Tucidide, dichiara nel capitolo 26 libro V, di essere stato esiliato per 20 anni e di aver trascorso il
suo esilio anche nel Peloponneso.
Aristotele, però in contraddizione con quanto detto da Tucidide, dirà che nel 411 a.C. Tucidide si trovava ad
Atene quando venne instaurato il regime dei 400.
La critica moderna ha spiegato questo episodio dicendo che probabilmente dopo l’episodio di Anfipoli
Tucidide non venne esiliato ma fu solo messo da parte dalla vita politica, dedicandosi all’attività di
storiografo
Oltre il problema circa l’esilio di Tucidide, un’altra questione riguarda la sparizione della parte finale
dell’opera poiché le Storie si interrompono bruscamente al capitolo 109 dell’ottavo libro. Nel capitolo 26
del V libro Tucidide aveva affermato che avrebbe raccontato la guerra del Peloponneso dal suo inizio fino
alla sua fine (quindi dal 431 a.C. 401 a.C.), tuttavia la narrazione degli eventi in nostro possesso si ferma al
411 a.C., ben dieci anni prima.
Si apre così la questione Tucididea e, fra le varie testimonianze, quella degna di nota è quella del professor
Canfora. Canfora servendosi della testimonianza di Diogene Laerzio (un altro studioso antico) dice che
Senofonte sarebbe venuto in possesso delle bozze della parte finale delle storie tucididee e le avrebbe
rielaborate e pubblicate. Dunque, l’ultima parte delle Storie di Tucidide sarebbe confluita nell’opera storica
di Senofonte, Le Elleniche e l’esilio a cui si allude nel capitolo 26 del libro quinto non sarebbe l’esilio di
Tucidide ma quello di Senofonte. Anche Senofonte sarà esiliato da Atene per le sue tendenze filo spartane e
per aver partecipato alla spedizione di Ciro (spartano) contro il re Artaserse. Senofonte curò l’edizione
dell’opera Tucididea e, inoltre, la versione del professor Canfora spiegherebbe come mai Aristotele aveva
visto Tucidide ad Atene mentre avrebbe dovuto essere in esilio → nella confusione della trasmissione,
poiché Senofonte aveva scritto una sorta di “paralipomeni”, continuazione dell’opera precedente di
Tucidide, le due figure erano state erroneamente confuse.
Le storie si aprono con il prologo, in cui Tucidide dichiara subito di essersi reso conto, appena scoppiata la
guerra, che sarebbe stata la più impegnativa e la più lunga di quelle avvenute fino ad allora.
A T. si deve l’invenzione di nuovi termini (neologismi) soprattutto quelli terminanti in -sis (profasis, kinesis);
utilizza anche verbi composti dal prefisso -anti, che rende l’idea della realtà vista come opposizione di forze
antitetiche; utilizza molti termini arcaici, per es. anzicchè il doppio “tau” troviamo il doppio “sigma”, oppure
il preverbio -sun diventa in X. -xun; -aiei in forma attica, -aei in T.
SINTASSI DI TUCIDIDE: sintassi irregolare perché proietta la problematica visione delle cose dell’autore; è
irregolare per i bruschi cambiamenti di soggetto, gli anacoluti (frasi che non rispettano la costruzione
sintattica), l’iperbato (inversione nell’ordine di elementi della frase), litote (formulazione attenuata),
allitterazioni, paranomasie (accostamento di termini che a livello di suono sono identici ma di significato
opposto).
Il tono della narrazione tucididea è oggettivo, però ci sono delle descrizioni dove si nota un certo pathos da
parte di T., quando descrive la distruzione della flotta ateniese in Sicilia o quando descrive la peste (di cui T.
rimase vittima).
Tucidide usa la terza persona singolare perché conferisce una maggiore obiettività al racconto.
1.differenza. Nel testo greco c’è un verbo che fa comprendere come l’opera di Tucidide sia destinata alla
scrittura e non all’oralità (differentemente da Erodoto, storico a lui precedente) ed è ξυνέγραψε (paragraf.
1 rigo 1), composto di συν e γραφω, chiaro riferimento alla forma scritta dell’opera.
Tucidide tiene a sottolineare la grandezza della guerra, per via del coinvolgimento di vari popoli che presero
parte ad essa. Nel testo greco la grandezza che Tucidide riscontra in questa guerra è sottolineata dalla
ripetizione dell’aggettivo μεγας (parag. 1 μεγαν, parag. 2 μεγιστη, parag 3 οὐ μεγάλα → LITOTE, figura
retorica che serve ad accentuare il concetto.
2.differenza: E’ possibile notare un’altra differenza rispetto alla storiografia precedente (Erodoto): infatti
Tucidide ha circoscritto l’argomento della sua narrazione alla “guerra fra ateniesi e peloponnesiaci”, ha dato
cioè CARATTERE MONOGRAFICO alla sua storia incentrata, dunque, su un solo argomento. Invece, Erodoto,
(che aveva scritto delle guerre persiane) nel Proemio delle sue Storie aveva detto di voler raccontare le
imprese grandi e meravigliose dei popoli Greci e di quelli barbari facendo così riferimento a un grande
racconto, di ampia portata, diverso dalla narrazione tucididea circoscritta.
(Tucidide si occupa di eventi politici e militari, a differenza di Erodoto che aveva voluto descrivere imprese
“grandi e meravigliose”;) aggiungendo l’elemento meraviglioso, Erodoto aveva scritto un’opera per il
piacere dell’ascolto, inserendo al suo interno fiabe e aneddoti che servivano ad affascinare il pubblico di
lettori cui si rivolgeva: infatti Erodoto fu anche un grande narratore oltre che uno storico.
La storiografia di Tucidide è obiettiva, non indugia nel meraviglioso. Egli si rende conto che le vicende
politico-militari sono il motore della storia: usa il termine κίνησις per indicare “il motore”.
Inoltre, quella di Tucidide è una storiografia contemporanea: racconta episodi contemporanei all’autore,
basti pensare che Tucidide stesso, in qualità di stratego, provò a liberare Anfipoli. Che la sua sia una storia
contemporanea, Tucidide ce lo dice al paragrafo 3 del proemio: “Giacchè gli avvenimenti precedenti alla
guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo
trascorso […], non li considererò importanti né dal punto di vista militare ne per il resto”
I termini chiave in questo brano che fanno riflettere sul metodo storico di Tucidide: par. 1 il participio
τεκμαιρόμενος “deducendolo”, “ipotizzandolo” che torna poi al paragrafo 3 questo termine ritorna poi al
paragrafo 3 τεκμηριών; questi termini designano un pensare, un ipotizzare in base a delle prove, degli
indizi.
Sono presenti inoltre altri due verbi ορῶν paragraf 1 e σκοποῦντι (paragraf 3) due verbi che appartengono
alla sfera della percezione: vedere. Questo già fa riflettere su come una caratteristica del metodo
storiografico di Tucidide sia l’autopsia: conoscenza diretta delle cose narrate.
Nel proemio egli dichiara subito che è una guerra di portata colossale, “immaginandosi che sarebbe stata
grande e la più importante di tutte quelle avvenute fino ad allora”. Per dimostrare che le guerre del passato
non fossero paragonabili a questa, Tucidide apre un excursus sulla storia della Grecia, dall’età in cui i greci
erano dei popoli nomadi fino alla formazione della lega Delio-Attica, quando Atene inizia a fondare il suo
imperialismo sulle altre città della lega, questa fase si chiama “ARCHEOLOGIA”, da archè, inizio.
Successivamente Tucidide si sofferma sul suo metodo di lavoro e sul suo spirito, dicendo di aver rinunciato
al lavoro fantasioso e piacevole più adatti ai logografi (i logografi sono quelli autori che precedono gli
storici: la storiografia nasce con Erodoto poiché il termine Historia, intesa come indagine, compare per la
prima volta in Erodoto. Il nome historia viene da “id”, da orao e delinea la figura dello storico come di colui
che ha visto personalmente quello di cui si sta parlando, poiché il termine è comparso per la prima volta in
Erodoto, da lì ha inizio la storiografia.
Prima degli storici vi erano i LOGOGRAFI, attivi nella ionia del sesto secolo, autori di testi in prosa in cui
raccontavano le ctiseis (fondazioni di città), mettevano ordine al patrimonio mitico (genealogie),
descrivevano usi e costumi della popolazione. Il più celebre è ECATEO DI MILETO)
Tucidide fa un excursus raccontando degli usi e dei costumi degli egizi, per realizzare ciò, egli avrà fatto
sicuramente riferimento al lavoro dei logografi.
Tucidide ha rinunciato a questo per raggiungere l’AKRIBEIA, la verità, per lasciare ai posteri un’opera che
valga per sempre, quello che lui definisce un κτῆμα ες αἰει, un possesso per sempre. Lo scopo di Tucidide,
dunque, è quello di lasciare un’opera che valga per l’eternità. Tucidide dice che la storia, come la natura
umana ha componenti fisse, prevedibili, così come dirà Cicerone definendo la storia insegnante di vita,
historia magistrae vitae, osservando il passato si può comprendere il presente e evitare di compiere gli
stessi errori. Ecco perché Tucidide pensa che sia un possesso per sempre.
In questo passo Tucidide espone gli elementi su cui si basa il suo essere storico, paragraf. 2, criterio
dell’autopsia mettendo in luce come quando non si è stati testimoni si possono prendere testimonianze di
altri purché siano state esaminate, vagliate con cura: “Quanto ai fatti avvenuti durante la guerra, non ho
ritenuto che fosse il caso di raccontarli secondo le informazioni avute dal primo che capitava, né come a me
pareva, ma ho riferito quello stesso a cui ero presente, e per quelli che ho appreso da altri ho compiuto un
esame su ciascuno di essi con la massima accuratezza possibile”
3.differenza In quest’ambito vi è un ulteriore distacco da Erodoto. Infatti, anche Erodoto si era servito delle
altre testimonianze orali ma non aveva preso una decisione ferma, aveva lasciato aperto un ventaglio di
testimonianze agli ascoltatori: stava al pubblico scegliere quale fosse quella reale. Tucidide compie un altro
passo: è lui che esamina le testimonianze, le sceglie e porta al lettore quella che ritiene vera.
La polemica con Erodoto è espressa anche al paragrafo 4 :“Forse l’assenza del favoloso nei fatti li farà
apparire meno gradevoli all’ascolto”, in Erodoto l’elemento fantastico era presente, mentre la narrazione
di Tucidide è più fredda, obiettiva.
Un’altra caratteristica di Tucidide è l’uso dei discorsi, “Per quanto riguarda i discorsi...” Tucidide riporta
vari discorsi pronunciati dai personaggi dell’epoca ma non li ripropone con fedeltà assoluta, dice infatti che
è impossibile ricordare a memoria come ciascuna figura storica abbia parlato, quindi, egli afferma di aver
ricostruito il senso generale del discorso e di averlo inserito nell’opera. I discorsi hanno, secondo Tucidide,
la funzione di facilitare la comprensione degli eventi storici.
Fra i discorsi più celebri ne ricordiamo alcuni, soprattutto i tre discorsi attribuiti a Pericle, stratego di Atene
che la guidò nella guerra nei primi due anni e che portò l’assemblea ateniese ad impegnarsi in questa
guerra.
•Il primo di questi discorsi fu pronunciato da Pericle davanti all’assemblea degli ateniesi che si erano riuniti
dopo alcuni eventi che avevano portato Atene e sparta ad entrare in conflitto fra di loro: questi eventi, che
possono apparire marginali, scatenarono la guerra. In particolare erano scoppiate rivalità fra Corcira e
Corinto: Corcira, colonia di Corinto, si era ribellata alla madre patria e aveva chiesto aiuto ad Atene. Atene,
desiderosa di dare l’aiuto a Corcira e di estendere su tutta la Grecia la sua influenza era intervenuta.
Corinto, non avendo digerito l’intromissione ateniese, per vendicarsi della non-accettazione di Corinto
aveva vietato ad un’altra città, Potidea, un’altra colonia corinzia, di ricevere gli ambasciatori corinzi come
faceva ogni anno (Potidea, membro della lega delio-attica, era stata fondata da Corinto e manteneva
l’usanza di accogliere gli ambasciatori corinzi una volta l’anno). Quando viene imposto l’annullamento di
tale consuetudine Potidea si rifiuta e Atene la assedia. La città di Atene si intromette in questioni che le
servono per estendere la sua potenza, dominata dalla logica del potere imperialista, volenterosa di
estendere quanto più può la sua egemonia su tutta la Grecia. Questi incidenti crearono un clima di tensione
fra Atene e Sparta (poiché Corinto era alleata di Sparta), clima che si va sempre di più ad accendere.
Dunque, si riunisce questa assemblea di ateniesi in cui Pericle parla e dice agli ateniesi di non cedere alle
richieste dei peloponnesiaci che avevano chiesto agli Ateniesi di ridare la libertà ai greci. Pericle invita gli
ateniesi a non togliere l’assedio da quelle zone assediate (come Potidea) perché, se l’avessero fatto
sarebbero apparsi paurosi e avrebbero incoraggiato gli avversari a fare richieste ancora più pesanti. Il primo
discorso di Pericle è alla vigilia della guerra, questo discorso infiammò i cuori degli ateniesi, li invitò a non
retrocedere, poiché convinto che avrebbero vinto un eventuale guerra. Pericle è il fautore della guerra del
Peloponneso.
• L’altro discorso è quello di quando gli Spartani invasero per la seconda volta l’Attica, e in un
momento di sconforto, anche perché era scoppiata la peste, Pericle invita gli ateniesi a non abbandonare la
guerra dicendo loro che “la vostra libertà si regge sull’impero che avete costruito” rinunciare alla guerra
voleva dire rinunciare all’impero e alla libertà. Pericle effettua un ragionamento simile a quello di Hegel
nella storia del “servo-padrone” dicendo che il padrone non riuscirà più a fare a meno del suo servo e
diventerà anche lui servo del suo schiavo. Pericle mostra come sia la stessa cosa per Atene, potente, ma la
cui libertà dipende anche, in parte della città sottomesse.
• Terzo discorso, quello più importante è quello che viene considerato il manifesto della democrazia
ateniese. Si tratta dell’“Epitaffio per i caduti del primo anno di Pericle” (discorso in onore dei caduti,
omaggio che lo stratego doveva fare alla fine del primo anno di guerra in onore dei caduti). Pericle viene
definito da Tucidide come l’uomo che “in quel tempo era il primo fra gli ateniesi e il più capace nel parlare e
nell’agire”. dimostra l’ammirazione incondizionata verso Pericle. In un momento così triste con molte
perdite Pericle pronuncia il suo discorso pg 739 vol. 2
L’epitaffio è un’occasione per Pericle e per Tucidide di celebrare Atene, considerata il paradigma, il modello
e la suola dell’Ellade, la città democratica per eccellenza. L’epitaffio di Pericle prende avvio da una
caratteristica comune a tutti gli epitaffi che si aprivano con una celebrazione degli avi, degli antenati
“Prenderò innanzitutto le mosse dai nostri antenati […] libera e abitata dalla stessa gente”
Tucidide poi elenca le qualità di Atene, grande grazie al suo sistema politico democratico: cap.37 par 1 “Il
nostro sistema politico non si propone di imitare le leggi degli altri popoli: noi non copiamo nessuno, siamo
noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia poiché nell’amministrazione si qualifica non
rispetto a pochi ma alla maggioranza”
Successivamente si distacca subito dalla forma di governo spartana e fa riferimento agli altri popoli che
volevano imitare la democrazia ateniese (Siracusa o Roma che mandò un’ambasceria ad Atene per studiare
la democrazia, modello che affascinava tutti).
La caratteristica fondante della democrazia è l’uguaglianza dei cittadini, perciò, quando si attribuisce una
carica pubblica lo si fa per merito: una società democratica si basa sulla meritocrazia. Cap.37 par 1 “Le leggi
regolano le controversie private […] ma in virtù del merito”
L’altra caratteristica di una società democratica è la libertà: cap 37 par 2 “La nostra tuttavia è una vita libera
[…] nessuno si scandalizza se un altro si comporta come meglio gli aggrada” la società democratica è
caratterizzata dalla libertà ed essa si concretizza nel fatto che lo stato non esercita un controllo coatto sul
cittadino e neppure fra i cittadini vige il regime del sospetto, gli ateniesi si fidano gli uni degli altri e non c’è
invidia fra di loro, bensì libertà.
L’uguaglianza e la libertà, principi importantissimi di ogni regime democratico, sono già presenti ad Atene e
saranno i principi ispiratori della rivoluzione francese, già radicati nella democrazia ateniese del quinto
secolo a.C.
Tucidide sottolinea anche un altro metodo del regime democratico di Atene e dice che gli ateniesi
rispettano le leggi quasi con un timore reverenziale: cap.37 par 3 “Nella vita pubblica il timore ci impone di
evitare col massimo rigore di agire illegalmente […] e a quelle che, anche se non sono scritte, per comune
senso minacciano l’infamia”.
Non rispettano solo le leggi scritte ma anche quelle non scritte: si tratta di un richiamo all’Antigone di
Sofocle, la cui protagonista Antigone, figlia del re, vede morire i suoi fratelli Eteocle e Polinice. I due
avrebbero dovuto governare Tebe per un anno ciascuno ma, al termine del suo anno, Eteocle non cede lo
scettro a Polinice ed egli marcia contro Tebe. Nello scontro muoiono entrambi i fratelli. Antigone vorrebbe
seppellire entrambi, poiché entrambi suoi fratelli, ma Creonte, zio di Antigone e nuovo re, rappresentante
delle leggi scritte, vuole seppellire solo Eteocle, poiché Polinice era andato contro la sua stessa patria.
Antigone invece afferma di voler seppellire entrambi per via delle leggi del cuore (nonostante esse sia non
scritte, AGRAPTA NOMINA)
Tucidide ribadisce ciò: il merito di Atene è quello di conoscere sia le leggi scritte che quelle non scritte.
Un ulteriore merito di Atene è quello di alleviare la fatica con feste, gare olimpiche, merci importanti giunte
grazie al Pireo → idea edonistica di Atene, che giova all’anima, capitale anche della cultura. Cap. 38 par. 1
“Nel nostro lavoro abbiamo provveduto a creare un gran numero di momenti di riposo […] da cui traiamo
un quotidiano diletto che rasserena l’animo”
Parag. 39: διαφέρομεν, verbo con DUPLICE SIGNIFICATO o essere differenti o essere superiori. Inoltre è
importante l’uso dell’aggettivo monos con funzione predicativa. monoi con valore predicativo, lo
traduciamo con “solo noi”, volto a sottolineare la superiorità rispetto agli altri popoli
Un altro merito di Atene è quello espresso al parag. 39 “Offriamo la nostra città agli altri come un bene […]
cui tale visione non sia stata impedita”
Gli ateniesi si presentano come un popolo aperto, non sospettoso, pronto ad accogliere il diverso e fanno
leva su quel dono dell’ospitalità molto caro ai greci per cui chi non era ospitale attirava su di se la punizione
divina, i viandanti dovevano essere accolti senza ricevere domande circa la provenienza dello straniero.
Circa la guerra vi è un esplicito riferimento a Sparta: nonostante gli ateniesi vivano in modo più rilassato,
non rigido, e senza un addestramento spartano, essi hanno ugualmente coraggio e sono in grado di
affrontare un pericolo. Gli spartani avevano la nomea di essere attanagliati da una sorta di sciagura, paura
esistenziale, nell’incubo di affrontare i pericoli. cap. 39, par 1“In realtà, più che dei preparativi e degli
stratagemmi, noi ci fidiamo del nostro coraggio, di cui diamo prova nell’azione”. Nonostante la
preparazione bellica ateniese non fosse rigida quanto quella spartana, gli ateniesi si dichiarano in grado di
affrontare il pericolo.
Essi, inoltre, amano la bellezza e la sapienza, i piaceri intellettuali senza rancore e ammettono anche la loro
povertà, cercando di venirne fuori al più presto: cap.40 par.1 “Amiamo il bello, ma non lo sfarzo, e
coltiviamo i piaceri intellettuali, ma senza languori […]” ma, ciò che contraddistingue gli ateniesi è la
coordinazione fra parola e l’azione, cap 40 par 2 “poiché non pensiamo che il dibattito arrechi danno
all’azione”, invece fra gli spartani c’è indugio e indecisione. Infine, Pericle, dopo aver elencato tutte queste
doti, esordisce al paragrafo 41 affermando che ogni singolo cittadino come αυτη η δυναμις της πολεως, la
stessa forza della città.
L’ultimo verbo, εκτησαμεθα da ktaomai e tema, possesso, è utile a Tucidide per evidenziare come la sua
opera sia un possesso per sempre e, allo stesso modo Atene è un possesso per sempre non solo per la
Grecia ma per l’intera civiltà occidentale.
Tucidide ha riportato tale discorso anche se la situazione ad Atene non era così come la prospetta Tucidide,
non era idilliaca ma vi erano diversi problemi, quali la divisione sociale, la piaga dei processi,
l’emarginazione della donna, degli stranieri e dei teti (cittadini liberi ma non possidenti). Ci si chiedeva se
questo discorso pronunciato da Pericle coincida con la visione politica di Tucidide. Pericle è un democratico
e anche Tucidide, fautore di una democrazia moderata che tenesse a freno gli eccessi del popolo. Tucidide
vede nel governo di Pericle un momento ideale per la storia di Atene. Dopo la morte di Pericle (Pericle
morirà per la peste) Tucidide rimpiangerà il governo pericleo perché Atene sarà data in mano a demagoghi
come Cleone che porteranno alla rovina e alla sconfitta definitiva. Tucidide appare come un ammiratore
incondizionato di Pericle: ne è prova un altro passo chiamato “epitaffio di Pericle”, cioè il bilancio che
Tucidide fa su questo personaggio storico dopo la sua morte→ il governo di Pericle è definito come
capeggiato da un uomo che ha saputo governare con moderazione la sua città, l’avverbio usato da Tucidide
è “metrìos”, ha guidato la città con moderazione e l’ha resa grandissima.
Questo epitafio non è nessun discorso pronunciato, ma è il giudizio che Tucidide scrive su questo stratego
(Pericle).
Tucidide appare come un ammiratore incondizionato del governo pericleo, soprattutto se Tucidide fa il
confronto fra Pericle e quelli che succederanno a lui ovvero Cleone, anche se Tucidide è il fautore di una
democrazia moderata e riscontra in Pericle questo tipo di governo ideale.
Questo brano fa riferimento alla morte di Pericle, che dopo due anni e mezzo dallo scoppio della guerra
morì a causa delle peste che colpì Atene e di cui fu vittima lo stesso Tucidide.
Quindi a due anni e mezzo dallo scoppio della guerra e dopo la morte di Pericle, Tucidide ci offre un bilancio
del suo operato, definito un “bilancio positivo”.
Tucidide definisce Pericle “l’uomo più indicato per i bisogni della città intera” (par.4) e Tucidide sottolinea
che Pericle governò “con moderazione”, metrìos (par.5).
E inoltre il governo di Pericle diede alla città “il sommo e la grandezza”, meghiste.
“Quando poi scoppiò la guerra, si vide che anche qui ne aveva previsto la gravità risolutiva. Non sopravvisse
che 2anni e 6 mesi; e dopo la morte, ancor più evidente apparve la sua preveggenza nei riguardi della
guerra” par.6-7: Pericle era stato il fautore di questa guerra e aveva spinto Atene ad entrare in guerra
contro Sparta però aveva anche dato i consigli agli ateniesi su come vincere, Pericle consigliava agli Ateniesi
di non andare oltre i propri limiti fino ad espandersi troppo e non continuare la loro politica imperialistica e
di aver cura della flotta .→ “egli infatti diceva che…. avrebbero avuto in mano la vittoria “par.7.
Tucidide però afferma: “Gli Atniesi, invece, fecero tutto il contrario di quanto egli consigliava” par.7,
Tucidide si sta riferendo al fatto che dopo la morte di Pericle con l’avvento alla strategia di Cleone e di tutti
gli altri, gli Ateniesi si andarono ad intromettere nella spedizione ateniese in Sicilia (per la smania di
estendere la loro influenza).
Continua nel passo l’alienazione che Tucidide prova nei confronti di Pericle, che aveva una dignità e una
superiorità intellettuale notevole: “egli era molto influente per stima e assennatezza e reggeva il popolo
senza sacrificare la propria libertà” par.8.
Pericle era un uomo degno di stima perché lui aveva conquistato il potere per merito e non adulando il
popolo come i demagoghi (Cleone): “e siccome la sua autorità… non aveva bisogno di adulare il popolo”
par.8.
Tucidide afferma: “insomma, di nome era un governo di popolo (democrazia), ma in effetto il governo era
nelle mani del primo cittadino” (Pericle, lo stratego illuminato) par.9
L’appoggio di Tucidide al governo Pericleo si deduce nel paragrafo 13: “tanta era l’abbondanza di mezzi per
i quali...una facile vittoria nella guerra contro i Peloponnesiaci da soli” → Tucidide caldeggia e appoggia
l’opinione di Pericle ovvero che se gli Ateniesi avessero ascoltato i suoi consigli avrebbero vinto.
Dopo la morte di Pericle la decadenza di Atene fu immediata a causa dei successori di Pericle (Cleone) e con
il loro governo si perse ogni senso di moderazione e Atene si abbandonò ad atti di megalomania e brutalità;
esempio ne è il comportamento degli Ateniesi nei confronti dell’isola di Melo, piccola isola delle Cicladi,
colonia di Sparta che non era ancora entrata nella lega dell’Oattica cappeggiata da Atene e nella quale
aderivano molte città della Grecia.
La lega dell’Oattica è considerata lo strumento dell’imperialismo ateniese perché lei si serve di questa lega
per esercitare il suo predominio sulle città confederate e quando Atene costruisce il suo imperialismo nel
periodo che va dalla fine delle guerre persiane fino allo scoppio della guerra del Peloponneso
(Pentecotechia, 50 anni).
Strumento della potenza imperialistica di Atene in questi 50 anni sarà la lega degli Oattica fondata nel 477
a.C.
Melo era rimasta neutrale e non aveva preso parte alla lega degli Oattica e nel 416 gli Ateniesi decidono di
assoggettare l’isola di Melo ma prima di passare alle armi inviano degli ambasciatori per invitare gli abitanti
di Melo alla resa e dunque piegarsi di fronte la potenza di Atene (legge del più forte)
IL DIALOGO DEI MELI E DEGLI ATENIESI P. 755
La struttura del discorso, riportato da Tucidide, ha un impianto tipicamente sofistico (dissoi logoi): da un
lato c’è la posizione degli Ateniesi e dall’altro la posizione dei Meli (abitanti dell’isola di Melo)
Paragrafo 89: gli ateniesi in un primo momento dicono che sia inutile ribadire i loro precedenti illustri,
ovvero le guerre persiane durante le quali gli Ateniesi hanno liberato i Greci dai Barbari.
Gli ateniesi affermano “chi è più forte fa quello che ha potere di fare e chi è più debole cede” (par 89) →
proclamazione della legge del più forte, secondo la quale il più forte debba soccombere al più debole.
REAZIONE DEI MELI DI FRONTE A QUESTA DICHIARAZIONE (par. 90): tentano di convincere gli ateniesi a
desistere ai loro propositi appellandosi ad alcuni concetti, soprattutto al criterio dell’utile (“a nostro parere,
almeno, è utile”).
I meli cercano di convincere gli ateniesi a vantaggio che potrebbe derivare loro da un atteggiamento
conciliante.
Par. 104: I meli confidano nella divinità e nell’aiuto di Sparta, dato che Melo è una colonia di Sparta e verrà
in suo aiuto: “noi confidiamo di non essere da meno per quanto riguarda la sorte che ci manderà la divinità
…. Che l’inferiorità delle nostre forze sarà compensata dall’alleanza coi Lacedemoni”.
Par. 91: Gli ateniesi, invece, affermano che loro non temono assolutamente la fine dell’impero e smontano
le attese dei Meli perché secondo loro è inutile che i Meli facciano appello alla divinità perché la legge
divina e quella naturale per gli Ateniesi coincidono: “Ma noi non temiamo la fine del nostro impero se
anche dovesse finire…”
Par. 105 (2): Gli ateniesi affermano che è inutile anche riporre fiducia negli spartani→ “Noi crediamo infatti
che per la legge di natura chi è più forte comanda: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per
convinzione”
Par 105 (3): “quanto alla convinzione che avete nei riguardi dei Lacedemoni…per un sentimento d’onore”
“considerano onesto ciò che è piacevole e giusto ciò che è utile” → gli ateniesi vogliono dire che è inutile
riporre fiducia negli Spartani e negli dei perché loro sono i più forti e loro vinceranno.
Questo dialogo rappresenta un unicum nell’opera tucididea proprio per la struttura sofistica che richiama i
dissoi logoi.
Uno storico antico Dionigi di Alicarnasso biasimava Tucidide per aver fatto pronunciare agli Ateniesi nei
confronti dei Meli queste frasi molto sconvenienti, come se gli Ateniesi fossero dei briganti, pirati ad
applicare la legge del più forte.
Lo stesso Dionigi mette in dubbio la veridicità del dialogo perché secondo lui quando avvenne questo
dialogo, Tucidide non era ad Atene ma in Tracia e quindi non avrebbe potuto riportare in maniera adeguata
la natura del dialogo.
Tucidide, nel dialogo, si è limitato ad un’analisi realistica dell’imperialismo Ateniese, che egli considera un
fatto di natura estraneo ad ogni valutazione morale.
L’immagine che si ha di Atene è un’immagine completamente diversa da quella dell’Epitafio sopra ai caduti
del primo anno di guerra (Atene era la scuola dell’Ellade e città per eccellenza greca); mentre qui appare
come una città tirannica e questo è un mutamento comprensibile, dice Tucidide, perché è un mutamento
che una città subisce durante la guerra, “la guerra è una maestra violenta che toglie il benessere delle
abitudini giornaliere e che priva i cittadini dei sentimenti migliori” afferma Tucidide nelle Storie.
Interessante è anche la lettura di questo passo che ha fatto una critica, Enrica Fabbri.
Lei riguardo all’imperialismo ateniese ha detto che a suo avviso Tucidide ha voluto “giustificare
l’imperialismo ateniese” sia sul piano morale perché secondo Tucidide Atene aveva diritto all’egemonia
perché gli Ateniesi avevano salvato i greci dalle guerre Persiane, sia sul piano politico perché gli ateniesi
erano stati quasi sobillati all’imperialismo grazie alla fama raggiunta dopo le guerre persiane e hanno
dovuto accettare, nell’interesse dell’intera Grecia, un peso che suscitava odio e che costringeva alla
violenza.
Par. 94-95: i meli dicono “E non potreste accettare che noi…ma alleati di nessuna delle due parti?”
Gli ateniesi rispondono che la potenza di un impero si misura dall’odio che hanno i nemici nei loro
confronti, cioè i confederati: “No, perché la vostra ostilità non ci danneggia…mentre l’odio lo è della nostra
potenza”.
La critica Fabbri, per questo motivo, giustifica l’imperialismo ateniese perché Atene aveva dovuto
sopportare un peso che suscitava odio e costringeva alla violenza.
L’analisi che ha fatto Tucidide riguardo il dialogo in questione, secondo la critica Fabbri, mostra che
l’imperialismo ha un duplice volto: la volontà egemonica da un lato e l’accettazione da parte di Atene di
essere costantemente sottoposta al pericolo costante cioè il fatto che qualcuna delle città confederate o le
altre città greche possa ribellarsi (come Melo) e per questo motivo Atene deve ricorrere alla violenza per
sopravvivere e nello stesso tempo deve cedere il passo e perdere tutto quando una potenza più grande di
lei si affaccia (Sparta).
Tucidide sottolinea che l’uomo è dominato oltre che dalla tuxe, anche dall’ imponderabile perché Tucidide
dice che a determinare la sconfitta di Atene c’è stata la tuxe con lo scoppio della peste e la morta di Pericle.
Oltre all’imponderabile, dice Tucidide, la natura umana è dominata dalla necessità (anankazo) che porta
l’uomo ad autoaffermarsi e quindi l’uomo cerca il potere e lo esercita nel proprio interesse ed è normale
che questo potere diventi sempre più forte e dispotico ed è necessario che il suddito (dominato) odii chi lo
domina e cerca di liberarsi di lui e prendere il suo posto.
Quindi è normale che due potenze così forti come Sparta e Atene prima o poi vengano a contrasto fra di
loro perché l’uomo per sua natura è dominato dalla necessità di autoaffermarsi e quindi è compressibile lo
scontro fra queste due potenze.
SPEDIZIONE ATENIESE IN SICILIA
La descrizione della spedizione ateniese in Sicilia (415 al 413 a.C), segue nella narrazione tucididea al
racconto del dialogo degli ateniesi.
Tucidide quando deve analizzare un episodio fa la ricerca delle cause, facendo una distinzione tra aitia
(pretesto) e profasis (causa vera).
L’aitia della spedizione in Sicilia: Atene trova una scusa ovvero di portare aiuto alla città di Segesta in Sicilia
che stava combattendo con Selimunte, alleata di Siracusa (città dorica).
Prima che si decidesse di affrontare la spedizione, ad Atene c’erano pareri contrari e favorevoli.
Nicia infatti, controvoglia venne scelto come capo di questa spedizione perché lui era uno stratega
prudente e aveva cercato in ogni modo di dissuadere gli ateniesi nell’affrontare questa spedizione perché
lui la riteneva un’impresa ardua, rischiosa e inutile perché Atene non avrebbe ricavato alcun vantaggio da
questa spedizione.
Favorevole invece era Alcibiade perché questa spedizione rientrava nell’indole di Alcibiade, giovane
ambizioso e aveva cercato in ogni modo di infiammare i cuori degli ateniesi nell’affrontare questa
spedizione.
Alcibiade è una figura molto controversa nella storia greca; discendeva da una nobile famiglia quella degli
acmeonidi (famiglia aristocratica ateniese).
Fu discepolo di Protagora (sofista) e Isocrate; Platone dice che per quanto Alcibiade fosse una persona un
po’ strana, aveva cercato di sedurre addirittura Socrate.
Prima della spedizione in Sicilia fu coinvolto in uno scandalo, “la mutilazione delle erme”.
Le erme, su una base quadrangolare, erano portate lungo le strade ad Atene nei templi e nelle case private,
come omaggio che gli ateniesi facevano al dio.
La notte prima della spedizione in Sicilia, queste erme furono mutilate e deturpate nel volto; questo
episodio fu interpretato come un presagio nefasto per la riuscita della spedizione e si dice che in questo
atto vandalico fosse coinvolto lo stesso Alcibiade.
In realtà chi mutilò le erme non si seppe mai, probabilmente si trattò di un tentativo per mettere in cattiva
luce e far ricadere la colpa su Alcibiade, considerato ad Atene un personaggio un po’ scomodo; oppure si è
trattata di una bravata di qualche ragazzo o una sorta di complotto politico da parte dell’oligarchia e della
democrazia ai danni di Alcibiade.
Alcibiade, venne quindi coinvolto in questo episodio, che venne richiamato in patria dalla Sicilia e
processato.
Una delle ipotesi per cui la spedizione andò a finire male fu il ritiro di Alcibiade dalla spedizione.
Alcibiade però non si presentò al processo e si rifugiò a Sparta e questa sua fuga da Atene a Sparta venne
considerata dagli ateniesi come una sorta di tradimento nei loro confronti.
I lacedemoni finirono per criticare e dubitare dell’idea di Alcibiade e lo condannarono a morte ma Alcibiade
riuscì ancora una volta a fuggire e questa volta si rifugiò presso un satrapo (governatore delle provincie
della Persia) persiano Tissaferne, governatore della Lidia e del Caria.
Alcibiade quindi va prima dagli spartani e poi dai Persiani, cambiando schieramento politico e se non fosse
stato ucciso, ricorda Plutarco nelle vite parallele, Alcibiade era arrivato al gran re di Persia, Artaserse, e
stava complottando con lui per fomentare una guerra contro la Grecia.
Tucidide dopo essersi soffermato sull’episodio della descrizione della mutilazione delle erme, si sofferma
sulla descrizione della folla che si era radunata al porto il Pireo per assistere alla partenza della spedizione.
Tucidide in questa descrizione sottolinea l’incoerenza del popolo che ha un comportamento contraddittorio
perché prima la folla avevano caldeggiato questa spedizione ma al momento della spedizione vera e propria
si fanno prendere dalla tristezza del distacco e si facevano assalire dal dubbio.
Capitolo 31: i verbi “apiston”= incredibile (flotta), “politelestàte”= flotta costosissima e “euprepestate”=
flotta bellissima, sottolineano la grandezza di questa spedizione.
La spedizione, tre anni dopo la sua partenza, ebbe una drammatica conclusione: gli ateniesi vennero
sorpresi sul fiume Assinàro dall’esercito spartano e furono sbaragliati.
Pochi sopravvissero a questa distruzione e i pochi sopravvissuti vennero rinchiusi nelle latomie (litos, pietra
e temno, tagliare) = grotte di pietra scavate nella roccia che venivano utilizzate per estrarre la pietra.
Le condizioni di vita delle latomie erano molto dure sia perché i prigionieri erano accatastati l’uno sull’altro,
avevano difficoltà nel respirare, sia forti escursioni termiche e scarsa igiene.
Tra le latomie, presenti a Siracusa, c’è una chiamata orecchio di Dionisio (tiranno della città di Siracusa)
perché si riteneva che Dionisio da quella cavità ascoltasse i discorsi dei detenuti e il termine “orecchio di
dionisio” fu dato da Caravaggio che ambientò un suo quadro “il seppellimento di santa Lucia”.
Tucidide definisce la spedizione ateniese in Sicilia come una panomerìa (pas, pasa, pan+ ollumi, distruggere)
ovvero distruzione totale perché fu distrutto l’esercito, la flotta e le risorse finanziare furono perse.
Quando ad Atene si diffuse che la spedizione non andò per il verso giusto, la reazione fu quella di
incredulità ma allo stesso tempo di sgomento e risentimento verso coloro che avevano caldeggiato
l’impresa.
Tucidide ha costruito il brano con una con una costruzione ad anello, la descrizione della sconfitta (p.765)
realizza con il brano della descrizione della partenza, una descrizione ad anello.
LA PESTE DI ATENE p.746
La peste scoppia nel secondo anno di guerra e l’analisi che T. fa di questo elemento imponderabile è simile
a quella di un medico che fa l’analisi della malattia infatti T. parte dall’osservazione dei sintomi e della loro
evoluzione fino alla agonia e alla morte, utilizzando un preciso lessico medico e fornendo una descrizione
realistica.
T. dice che questo male colpì tutti, a prescindere dallo stile di vita che praticavano o dalla possanza fisica.
Pericle era stato il promotore della decisione di trasferire tutta la popolazione ateniese dentro le mura di
Atene per metterla a riparo dalle devastazioni spartane e l’aver ammassato tutta la popolazione ateniese
all’interno delle mura, fu una concausa dello scoppio della peste.
E sull’origine di questo male T. esprime i dubbi, non si sa come sia scoppiata la peste e infatti utilizza per
indicare la parola “peste” termini come vosos o lo definisce un “tokakon” utilizzando termini che vengono
utilizzati per altre malattie e questo porta a capire come T. non sappia l’origine di questo male.
Capitolo 49 (2): descrive come si manifestava la malattia così come la farebbe un medico.
La parte più sconvolgente di questa malattia, dice T., non era tanto il danneggiamento fisico quanto quello
psichico. “il lato più difficile della malattia era lo scoraggiamento” → T. parla di “atumia”, ovvero il venir
meno degli stati d’animo, lo scoraggiamento, provocando disperazione e desolazione dell’animo.
A ciò si aggiunge l’“anomias” (mancanza di leggi, il sovvertimento orale e legale delle cose) → capitolo 53
(1,2, 4).
T. esamina il lato emotivo di questa catastrofe e il sovvertimento della legge che la diffusione della peste
comportò.
Gli ateniesi, che avevano fatto del nomos il fondamento del loro governo, sono i primi a infrangere la legge
perché l’unica certezza che hanno gli ateniesi è la morte, di fronte alla quale ogni altra regola perde valore
e viene trasgredita.
Atene ci appare la città idilliaca nell’epitaffio, la città tirannica nel dialogo degli ateniesi e dei Meli e invece
qui ci appare una città distrutta dalla violenza della malattia e la perdita del senso civico e morale.
La peste nell’Iliade (Omero): l’esercito acheo è devastato dalla peste perché Apollo, che ha preso le
sembianze della peste, vuole vendicare l’offesa che i Greci e in modo particolare Agamennone ha fatto al
sacerdote Crise.
Agamennone ha sottratto la figlia di Crise (Criseide) e l’ha fatta diventare la sua concubina.
La peste ha un valore di punizione divina anche nella tragedia di Sofocle, l’edipo re: Tebe è devastata dalla
peste perché è ancora in vita l’assassinio (Edipo) del precedente sovrano Laio.
Edipo inconsapevolmente ha ucciso Laio, suo vero padre e ha sposato Giocasta, la vera madre,
commettendo un’infrazione nei confronti della natura sia perché ha commesso un parricidio sia per
l’incesto.
In Tucidide la peste non è una punizione divina ma un EVENTO NATURALE, infatti T. analizza in modo
scientifico i sintomi del morbo e i comportamenti umani.
La peste Tucididea può essere interpretata come l’emblema della fine dell’età classica → Atene perderà la
sua egemonia, verrà instaurato un regime oligarchico con Sparta e da li a poco al potere di Sparta
subentrerà l’egemonia di Tebe e infine con Alessandro Magno la fine dell’epoca classica.
Per i romani Virgilio ci parla della peste del norico nelle georgiche, Ovidio nelle metamorfosi e Lucrezio nel
De rerum natura che chiude il suo poema descrivendo la peste che colpì la città di Atene.
Lucrezio ha parlato della peste di Atene perché il De rerum natura è l’esposizione della filosofia epicurea a
cui aderiva Lucrezio e il maestro dell’Epicureismo era Epicuro, nato ad Atene.
A Firenze nel 1348 scoppia la peste e Boccaccio ne parla: 10 ragazzi abbandonano Firenze e si rifugiano sui
colli euganei per scappare al contagio ma anche per ristabilire l’equilibrio che in città non c’era.
Anche Manzoni parla di peste: a Milano nel 1630 scoppia la peste; anche per Manzoni come per Boccaccio,
la peste è un evento naturale.
Manzoni va alla ricerca delle cause umane che diffusero questa malattia e aumentarono il morbo con
atteggiamenti irrazionali e superstiziosi, dice Manzoni e sta facendo riferimento alla caccia all’untore, in cui
venivano visti questi individui come capri espiatori e perseguitati perché ritenuti diffusori della peste.
Manzoni pone la sua attenzione sulla peste vista come contesto in cui si manifesta lo spirito cristiano e di
carità, permeato dalla figura di padre Cristoforo.
Nella letteratura inglese, ricordiamo nel 1665, quando scoppia la peste a Londra l’opera di De foe: anche
per lui la peste è un evento naturale, frutto di cause sovrannaturali; lui descrive che la peste scoppiò a
Londra in quegli anni e prima di quello scoppio era stata anticipata dal passaggio di una cometa, vista come
una portatrice di sventure.
1947 lo scrittore Camuss scrive un’opera “la peste” e racconta di una peste immaginaria che scoppiò negli
anni ’40 in una città dell’Algeria.