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“Uno sguardo critico all’antropologia politica e giuridica”

Luca Sebastianelli/matricola: 1895255


Psicologia e processi sociali
Corso di Antropologia culturale
Capitolo 8 “Sistemi politici e giuridici”

1.1 Introduzione:

Il capitolo1 che ho deciso di trattare affronta due indirizzi dell’antropologia culturale


strettamente correlati tra di loro: quello dell’antropologia politica e quello dell’antropologia
giuridica. Da qui, i contributi dell’antropologia culturale ci forniscono molti esempi di sistemi
politici e giuridici che agli occhi di noi occidentali potrebbero apparire come inusuali e fuori
dal comune.

1.2 Riassunto:

Partendo dall’analisi politica, gli antropologi culturali hanno evidenziato varie tipologie di
organizzazioni politiche, tra le quali spiccano: le bande, le tribù, i chiefdom, i big men, e lo
stato; inoltre le ricerche svolte nel 1990 da Lepowski sull’isola di Vanatinai hanno rilevato
anche l’esistenza di big women alla guida delle tribù autoctone.

Un’altra distinzione rilevante tra le varie organizzazioni riguarda il controllo sociale: mentre
nelle piccole società il potere è gestito in maniera informale, così come anche le punizioni
inferte a chi viola le norme (come l’isolamento, l’ostracismo, il combattimento); diversa è la
questione negli stati. Qui il potere è gestito formalmente ad opera di persone altamente
specializzate (giudici, pubblici ministeri, poliziotti…), all’interno di strutture simboliche adibite
al controllo legislativo (tribunali, carceri…) e le pene tipiche riguardano sanzioni economiche,
penali e raramente anche la pena di morte.

Un’altra questione approfondita dall’antropologia giuridica riguarda i conflitti sociali, che


possono essere così distinti:
1) Conflitti etnici, che nei casi più violenti sfociano in genocidi ed etnocidi
2) Conflitti settari: dati da fazioni religiose in contrasto reciproco.
3) Guerre: A tal proposito, la ricerca in zone potenzialmente molto rischiose segue un
iter di formazioni complesso e diverso dalla comune ricerca antropologica. Infatti,
l’antropologia delle zone di guerra richiede delle conoscenze e delle capacità
dell’antropologo che difficilmente si acquisiscono nei libri di metodologia; ragion per
cui, gli antropologi che si avventurano in queste rischiose ricerche hanno già
frequentato delle zone di conflitto in veste di cooperante internazionale2.

Per ultimo, gli antropologi politici e giuridici indagano anche le trasformazioni che subiscono i
sistemi giuridici e politici nel corso del tempo, come nel caso della democratizzazione.

Relativamente alle applicazioni pratiche, l’antropologia giuridica si occupa anche di quella che
è nota come “responsabilità sociale d’impresa”, un concetto etico con il quale ci si riferisce al

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Capitolo 8: “Sistemi politici e giuridici”
2
Capitolo 2: La ricerca antropologica
fatto che un’espansione aziendale di profitto non debba recare danni alle società autoctone
del posto; i cui danni vengono documentati proprio dagli antropologi in veste di periti.
Un’altra applicazione riguarda i contributi apportati dall’antropologia giuridica critica, che
analizza il modo in cui uno stato usa la legge per mantenere la supremazia dei gruppi
dominanti; e che spesso sfocia in discriminazioni verso alcune categorie sociali, come nel caso
dei rifugiati politici3.

2.1 Motivazioni personali:

Dopo questa prima visione d’ensemble del tema, vorrei ora soffermarmi sui motivi che mi
hanno spinto a scegliere di trattare questo specifico capitolo.

Il tema della politica e della giustizia sono argomenti che mi hanno da sempre incuriosito e
affascinato. Credo che conoscere come uno stato si autogestisca internamente sia molto utile
per comprendere poi come sia effettivamente vivere al suo interno in veste di concittadino o
come straniero.
Penso anche che però il mondo della politica non sia sempre trasparente, e questo perché
trovo molta difficoltà a mantenermi costantemente aggiornato su tutto ciò che accade nel
nostro Paese dal punto di vista politico.
Quando trovo un articolo che tratta di politica, consumo molto del mio tempo per leggerlo e
capirlo a fondo, e questo perché il mondo della politica possiede un linguaggio molto tecnico,
spesso elitario e di difficile comprendonio.

Per questo, quando ne ho l’occasione, mi piace analizzare questo tema trasversalmente,


magari da una prospettiva diversa dal “lettore occasionale” o dall’ “appassionato” nel quale
mi capita spesso di etichettarmi.

In questo caso, infatti, mi è stata concessa l’occasione di analizzare il tema della politica e del
sistema giustizia sotto una prospettiva antropologica, a me ignota fino a qualche mese fa, che
mi ha permesso di capire come non esista una sola espressione di giustizia e come queste
tematiche sottendano una serie di sfaccettature molto più arzigogolate e insite al suo interno.

È proprio al di la di queste argomentazioni che ristagna il motivo della mia scelta.

2.2 Analisi critica del capitolo:

Entrando ora nel vivo della questione, si è visto come nella prima parte di questa tesina, è
stato dato un ruolo marginale all’importanza che riveste la simbologia nell’ambito giuridico e
politico, un tema che invece, secondo me, dovrebbe essere maggiormente approfondito in
questa sezione.
Effettivamente, la vita politica e giuridica ruota attorno a una simbologia molto varia.
Già nel capitolo introduttivo del manuale viene data molta importanza al fatto che la cultura
sia essenzialmente basata sui simboli4. A tal proposito, si pensi ad esempio alla bandiera di un
paese, che rappresenta simbolicamente una nazione, ai riti, ai cortei pubblici, alle forze di
polizia e alle cerimonie connesse alla politica di un Paese come una simbologia pregnante di
uno stato.

3
Capitolo 12: Popoli in movimento
4
Capitolo 1: La cultura si basa sui simboli
L’antropologo David Kertzer5 si è infatti interrogato chiedendosi se la simbologia politica, i
rituali e le cerimonie pubbliche abbiano soltanto un fine artistico oppure se siano una forma
implicita di potere.
Personalmente, reputo molto interessante approfondire questa argomentazione perché ci
permetterebbe di capire se la società possa detenere il potere di strumentalizzare la politica
per fini personali, utilizzando degli escamotage celati ai nostri occhi per esercitare il proprio
controllo indiretto sui cittadini.

Oltre a ciò, sarebbe interessante approfondire la questione dei rifugiati politici, tema di cui
personalmente sento spesso parlare.
Nel capitolo 8 questa tematica non viene menzionata, per poi essere accennata nel capitolo
12, nel quale viene indicato come i conflitti politici siano la prima causa dei trasferimenti
forzati6.
A mio personale parere, ritengo che dall’analisi della Miller traspaia una visione per lo più
strutturista di questa tematica, come se i rifugiati politici fossero in un certo senso succubi
della volontà di persone a loro gerarchicamente superiori.
Per contro, sarebbe interessante provare ad analizzare questa tematica da una prospettiva
dell’agency7, cercando di capire se anche i rifugiati politici possano esercitare un’influenza
libera e consapevole sulle loro scelte e sul loro futuro.

Infine, nel capitolo 8 viene citato il fatto che la maggioranza degli stati ha un sistema politico
patriarcale, e il sesso femminile costituisce solo il 19% dei membri dei Parlamenti mondiali.
Questa ricerca è stata però condotta da Franceschet e colleghi nel 2012.
Potrebbe dunque essere interessante fare un restudy di questa tematica, a 9 anni di distanza,
per vedere se la propensione maschilista alla politica abbia subito dei cambiamenti, e se la
“domesticazione delle donne” (Rogers, 19798) stia lasciando spazio a una maggior inclusione
femminile nella vita pubblica e politica.
A mio avviso, questa concezione della donna rasenta un’idea arcaica di determinismo
biologico, che vedeva la donna come fisicamente e intellettualmente inferiore all’uomo per
caratteristiche genetiche, e come tale doveva sottomettersi al suo dominio.
Sebbene ad oggi questa attribuzione d’inferiorità sia in parte superata, essa continua ad agire
in maniera sublimata sotto forma di sessismo e misoginia, che possiamo considerare come i
residui di una visione ascientifica e ottusa, così come nel caso del razzismo, ancora oggi
presente e che affonda le sue radici in una visione arcaica e occulta di superiorità della razza
“bianca”.

3.1 Un contributo personale:

Mi piacerebbe ora parlare di una mia esperienza personale strettamente collegata al tema
che ho ivi trattato e che ho vissuto nel mio primo viaggio a Londra nel 2016.

Ricordo chiaramente che appena atterrato all’aeroporto di Heathrow, ero rimasto


particolarmente impressionato dalla quantità di forze armate che si trovavano al suo interno.

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Capitolo 8: box-riti e simboli del potere
6
Capitolo 12: Popoli in movimento
7
Capitolo 1: Agency individuale e strutturalismo
8
Capitolo 13: Cultura e sviluppo-donne e sviluppo
Uscendo, la situazione non era affatto diversa: ovunque mi spostassi vedevo in continuazione
una moltitudine di policemen, che scrutavano con occhi imperturbati e vigili tutti e tutto ciò
che accadeva.

Non nego che vivendo in un paese dei Castelli Romani che conta sedicimila abitanti, è un fatto
più unico che raro vedere forze armate appostate a scrutare come falchi la situazione; anche
ora che frequento Roma per l’università, al di là delle forze armate che incontro in stazione
Termini, non mi capita di vedere in giro così tanti ufficiali in divisa.

Ritornando alla mia esperienza, ricordo che già dopo qualche giorno avevo cominciato a
sentirmi un po' a disagio, ansioso e irrequieto. Con l’andare avanti del viaggio, mi sono reso
conto che forse questa mia strana sensazione era data dal fatto che se da una parte il vedere
così tanti controlli mi trasmettesse una sensazione di sicurezza, dall’altro lato mi era
sembrato come se fossi costantemente controllato, qualunque cosa facessi.
Questa strana sensazione è perdurata per tutto il viaggio.

3.2 Analisi dell’esperienza personale

Alla luce degli approfondimenti condotti in aula, posso pensare di essere stato vittima
dell’effetto di “shock culturale”. Rielaborando la definizione che viene fornita sul manuale,
possiamo intendere lo shock culturale come una sensazione di estraniamento e disagio
causato dalla presa di consapevolezza di una tangibile differenza tra la culturale ospitante (nel
mio caso quella londinese) e la propria.

In un certo qual modo, credo che alla base di questa sensazione che ho provato, ci sia stata la
perdita di riferimenti relativi alla mia cultura, in quanto mi sono trovato immerso in un
sistema giustizia completamente nuovo ai miei occhi e dunque difficile da accettare
nell’immediato.

Se rivivessi questa esperienza oggi, alla luce anche delle nuove conoscenze acquisite,
affronterei l’esperienza con maggior consapevolezza.
Innanzitutto, ho preso atto che la mia non è stata un’esperienza universale ma
completamente personale e soggettiva.
Inoltre, mi porrei delle nuove domande come, ad esempio, il perché siano richieste tutte
queste forze dell’ordine a Londra; mi interrogherei poi su quale sia l’importanza che gli inglesi
danno al sistema giustizia e come essa viene percepita; e ancora cosa rappresentano (in
termini simbolici) le forze di polizia per i londinesi.

3.3 una ricerca etnografica a partire dalla mia esperienza

Per contro, sarebbe interessante anche chiederci come gli inglesi vivono il loro soggiorno
all’estero e se magari anche a loro salta all’occhio fin da subito la differente gestione
dell’ordine pubblico in un altro stato. Del resto, questa discrasia culturale potrebbe turbare gli
inglesi tanto quanto io mi sia sentito turbato a Londra, e anche loro potrebbero provare la
medesima sensazione di shock culturale che ho provato sulla mia pelle.

La differenza risiede nel fatto che mentre io mi sono sentito turbato per l’eccessivo controllo
che ho percepito, magari un londinese in viaggio potrebbe sentirsi disorientato per l’esatto
opposto: potrebbe dunque provare disagio perché percepisce di essere poco protetto e
controllato, oppure magari può accadere anche a lui di sperimentare la mia stessa sensazione
e di sentirsi costantemente scrutato dalle forze dell’ordine del Paese ospitante (da qui le
ipotesi della mia ricerca).

Da questa mia riflessione potrebbe partire una ricerca antropologica deduttiva, in quanto
partirei dalle mie ipotesi per poi recarmi sul campo per cercare di dare una risposta ai quesiti
che ho appena proposto.

Per portare sul campo quella che così sembrerebbe una mera ricerca da tavolino, ho pensato
di realizzare una ricerca etnografica multisituata (vale a dire condotta su più territori) nella
quale affiancherò una persona londinese che è spesso in viaggio per motivi di lavoro.
Inoltre, scegliendo un inglese non avrò problemi nel conversare con lui anche senza l’ausilio di
un interprete.

Per prima cosa dovrei partire con l’individuare il mio soggetto.

A tal proposito, sta prendendo sempre più piede la figura del “nomade digitale”, che può
essere considerato come un social media creator senza fissa dimora, e cioè che produce i suoi
contenuti spostandosi in continuazione, viaggiando da un posto all’altro con il fine di
informare giornalmente i suoi followers su tutte le esperienze che vive, pubblicando i suoi
“vlogs” (brevi video non più lunghi di 40 minuti, nei quali riprende la sua giornata) sulle
piattaforme digitali più famose.

Prendendo in considerazione uno dei nomadi digitali più conosciuti nello scenario italiano,
Marcello Ascani, posso supporre che un nomade digitale viaggi all’incirca 11 mesi l’anno, per
una permanenza media di 15-20 gg in ogni posto che visita.
Dunque, a conti fatti, se affiancassi una persona che svolge questo tipo di lavoro per 1 anno,
lo accompagnerei per circa 15 viaggi totali.

È fondamentale cerca di istaurare fin dall’inizio una relazione etnografica con il mio soggetto.
A tal proposito, mentre a me sarà concesso di seguire il mio nomade per motivi di ricerca;
dall’altro lato potrei offrire lui la possibilità di far conoscere ai suoi seguaci una disciplina così
interessante come quella dell’antropologia, magari intervenendo nei suoi video con il fine di
ampliare il suo pubblico di ascoltatori.
In questo modo si creerebbe uno scambio mutuo e reciproco.

Per quanto riguarda la dimensione etica, chiarirei fin dall’inizio i motivi, già citati, per cui sto
facendo questa ricerca, e i contesti in cui verranno pubblicate le mie considerazioni (per
esempio, potrebbero essere usate proprio per il corso di antropologia culturale nella facoltà
di psicologia), e infine potrei chiedere al mio nomade se ha piacere nel collaborare con me
per scrivere l’articolo conclusivo alla fine dell’esperienza.

Individuato il soggetto, bisogna capire come svolgere questa ricerca.

Per giungere a una ricerca quanto più completa possibile, potrei pensare di usare il metodo
combinato: affiancando l’intervista all’osservazione partecipante:
Attraverso l’intervista strutturata potrei porre alcune domande (individuate a priori) per
capire quanto il mio nomade digitale si sia sentito spaesato quel giorno, se ha avuto
l’occasione di incontrare nell’arco della giornata qualche forza armata e in caso di risposta
affermativa di stimarne anche il numero, se ha notato differenze tra una guardia armata della
sua città d’origine e quella del posto in cui ci troviamo, quanto si è sentito controllato e
osservato, o ancora se ha rilevato delle stranezze che gli sono rimaste particolarmente
impresse sulla gestione dell’ordine pubblico nel posto che ci ospita.

Eventualmente, dopo aver ottenuto il consenso informato, potrei pensare di utilizzare anche
un registratore vocale (in quanto è uno strumento piccolo, leggero e pratico da portare in
valigia per un viaggio che mi terrà impegnato fuori casa per molto tempo).

Invece, attraverso l’osservazione partecipante potrei comprendere gli effetti


comportamentali che la gestione dell’ordine pubblico (vale a dire l’ambiente esterno sul quale
ho deciso di soffermarmi) esercita sul mio soggetto, e inoltre potrei condividere le sue
medesime esperienze, annotando dettagliatamente i suoi comportamenti e modi di fare, così
da capire se anche lui si stia sentendo spaesato e in preda allo shock culturale per la presenza
(o assenza) di una quantità eccessiva (o deficitaria) di forze dell’ordine.

Per ultimo, reputo doveroso mettere in guardia il lettore anche dai possibili limiti che questa
ricerca potrebbe comportare: Innanzitutto, le considerazioni finali alle quali potrei giungere
restano comunque circoscritte al parere di una sola persona che guarda il mondo con le sue
lenti personali. Mi dovrò quindi limitare a fare delle considerazioni su quelle che sono le
esperienze percepite dal punto di vista di un singolo nomade digitale inglese, in quanto risulta
impossibile individuare su basi scientifiche una persona che possa essere ritenuta
rappresentativa di un’intera cultura.

Poi, bisogna fare anche un’importante considerazione: un nomade digitale, proprio per il
lavoro che svolge, vive costantemente la vita con una fotocamera puntata in volto. Per cui, è
facile pensare che abbia fatto molte esperienze di viaggio e che le persone spesso lo abbiano
scrutato con fare curioso, ragion per cui il nomade che seguirò potrebbe essere abituato a
percepire quella strana sensazione che si prova quando si è costantemente con gli occhi
puntati contro, non rendendosi magari nemmeno conto della presenza di agenti che lo stanno
osservando con irresolutezza.
Per cercare di aggirare questo problema, potrei rendere ancora più severe le caratteristiche
che il mio nomade digitale deve possedere, magari scegliendo una persona inglese, che ha
vissuto in maniera stabile a Londra, e che si è affacciata al mondo del nomadismo digitale in
tempi piuttosto recenti.

Infine, dal momento che la ricerca che ho progettato implica lo spostarsi di qua e di là in giro
per il mondo, sorge anche il problema dei finanziamenti. Infatti, bisogna calcolare molti soldi
che dovranno essere investiti per gli spostamenti, l’alloggio, il cibo ecc...
Dal momento che i nomadi digitali ottengono spesso finanziamenti molto esosi dalle
sponsorizzazioni di brands noti, potrei proporre al mio soggetto di usare una minima parte di
questi finanziamenti per pagare i servizi dei quali usufruirò, e in cambio potrei offrimi di
aiutarlo per l’editing dei suoi video, così da agevolare il suo lavoro e instaurare ancora una
volta una solida relazione etnografica.

3.4 una ricerca alternativa:

Arrivati a questo punto della tesina, ci tengo a precisare che sono consapevole che quello che
seguirà sarà un’operazione ardita e con molte complicazioni.
Probabilmente, non basterebbe un libro intero per elencare tutti i limiti che l’ipotetica ricerca
che seguirà potrebbe presentare; limiti dati anche dalla poca ricerca che si è condotta in
questo senso fino ad ora.
Per cui, questo è solo un tentativo per far arrivare al lettore un mio personale parere; e cioè
che più ricerca andrebbe fatta sul rapporto tra mondo virtuale e mondo concreto.
Per tal motivo, ho deciso comunque di proporre un esempio alternativo che si discosta dalla
classica metodologia etnografica, con il fine di riflettere su come si potrebbe studiare la
cultura umana anche in questo periodo così paradossale che tutti noi stiamo vivendo.
In altre parole, mi sono chiesto come si potrebbe adattare la ricerca pocanzi proposta alle
limitazioni che stiamo vivendo oggi?

Molti nomadi digitali fanno uso di una piattaforma di live streaming conosciuta come
“twitch”. Qui, è possibile caricare dei veri e propri video in tempo reale dalla durata di
qualche minuto fino ad ore ed ore ininterrotte di streaming.
Per coinvolgere ancora di più il proprio pubblico, soprattutto ora che risulta difficile occupare
il proprio tempo, i nomadi digitali si sono ingegnati andando a documentare la loro vita h24
tramite una webcam attaccata su un cappello.

Utilizzando questo stratagemma, i followers possono seguire il loro idolo giorno e notte; e
interagire con lui tramite un chat online.

Per cui, potrei pensare di seguire il mio nomade digitale proprio su twitch, che diventerebbe
così il mio nuovo sito di ricerca, immergendomi virtualmente nella sua vita tutte le volte che
vorrò, seppur con i limiti (e i confort) che derivano dal rimanere nella propria abitazione.

Ogni fine giornata, compatibilmente anche con i suoi impegni, il mio nomade potrebbe
ritagliare qualche minuto del suo tempo per conversare con me, cosicché io possa porgere lui,
attraverso il metodo dell’intervista online, tutte le domande che ho sopra riportato, così da
avere un quadro complessivo delle sue considerazioni anche in merito al sistema giustizia,
tema dal quale è partita la mia ricerca.

Ovviamente, questo tipo di ricerca mi limiterebbe fortemente nell’osservazione partecipante,


in quanto perderei informazioni preziose sull’ambiente circostante percepito dal mio
soggetto.

In questo difficile momento di minaccia globale, penso sia molto importante sapersi
ingegnare, e questo potrebbe essere un modo per continuare a fare ricerca seppur
rispettando i limiti che ci sono stati imposti, con l’augurio, in futuro, di ritornare a immergerci
in lunghissimi viaggi, così tanto rimpianti ora come non mai.

4 Conclusione e considerazioni finali:

Per concludere definitivamente, credo che con le nuove consapevolezze che mi porterò
dietro, non rivedrei l’esperienza che ho vissuto in prima persona in un modo inquisitorio,
perplesso e turbante ma arriverei alla conclusione che il sistema giustizia italiano non è
assoluto e onnipresente, ma che, alla luce di quanto detto, è un elemento insito all’interno
della propria cultura, da intendersi dunque come parte della microcultura di un Paese, e come
tale dovrebbe spingerci a interrogarci per comprendere e non per accusare, a interpretare più
che a criticare, e a familiarizzare quello che ci sembra estraneo.
In definitiva, dobbiamo stare attenti a non portare con noi le nostre assuefazioni e i nostri
preconcetti, altrimenti vedremo solo ciò che noi proiettiamo: l’idea che da tempo ci siamo
fatti di qualcuno ci potrebbe tappare occhi e orecchie.
In fin dei conti siamo tutti dominati dai pregiudizi, è naturale svilupparli:
È nobile, però, elevarsi al di sopra di essi.

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