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CAPITOLO 1: TRA STATO E POTERE: CHE COSA È LA POLITICA

1. La scienza politica: verso una definizione.


La s.p. è lo studio, con la metodologia delle scienze empiriche, della realtà politica al fine di spiegarla il
più compiutamente possibile. La s.p. si differenzia:
1) dalla filosofia politica perché esclude dal proprio ambito i giudizi morali e si concentra sull’analisi dei
dati empirici,
2) dal diritto pubblico perché si concentra sui processi reali e non su quelli formali-legali,
3) dalla storia perché l’analisi dei dati empirici mira a generalizzazioni e non a conoscenze di realtà
specifiche.

2. Che cosa è la politica.


La politica acquisisce caratteristiche professionali solo nel XX secolo quando si rende autonoma dagli
altri campi dell’agire umano, ma il dibattito filosofico sulla politica ha radici antiche che risalgono alla
polis greca: per i greci la polis si identificava con il potenziamento delle capacità della specie umana
come quelle del linguaggio e del ragionamento. In seguito, dal periodo romano, nella civitas inizia ad
essere considerato fondamentale l’ordinamento giuridico, al fine di assicurare una convivenza civile.
Solo nel XV secolo con Machiavelli la politica assume il significato ancora oggi riconosciuto di potere e di
comando ovvero di uno Stato sovraordinato alla società. Con la nascita della scienza economica tra il
XVII e il XIX secolo la politica si separa più nettamente dalla società ed in particolare dal mercato con
economisti liberisti come Smith e Ricardo, per i quali le leggi dei mercati auto regolati devono essere
autonome dalle leggi dello Stato. Se alla base del comportamento economico vi è l’utile e alla base del
comportamento religioso vi è il dovere morale, per definire il comportamento politico occorre
considerare che
1) a far politica sono tutti i cittadini e non solo la classe politica specializzata,
2) che la politica si fa ovunque nello Stato come nell’impresa o nella famiglia,
3) utilizzando gli strumenti del dialogo, del consenso ma anche della forza.
Come sottolineato da Bobbio il concetto di politica è strettamente connesso a quello di Stato e potere.
La s.p. ha approcciato la politica o sottolineando l’aspetto statalistico verticale con il concetto di sistema
politico o ponendo attenzione alla difesa degli interessi individuali con l’approccio razionale o
individuando lo scopo della politica nella costruzione di identità collettive con l’approccio
neoistituzionale.
3. Lo Stato
La costruzione dello Stato è un processo tipicamente europeo che si sviluppa tra il 13° ed il 14° secolo e
si caratterizza:
a) per un progressivo accentramento del potere che porta alla territorialità del comando con la
sottomissione dei signori feudali allo Stato, la perdita del potere temporale della chiesa, l’emergere del
potere del sovrano e la nascita dei confini,
b) il riconoscimento allo Stato del monopolio della forza legittima secondo la classica definizione di M.
Weber, ossia il riconoscimento ad un’unica entità del potere legittimo di usare la forza sia per
mantenere l’ordine interno che per difendere la comunità da attacchi esterni,
c) l’impersonalità del comando con lo sviluppo di una burocrazia pubblica: l’obbedienza al dominio
politico deriva dal riconoscimento della legittimità del comando, non tanto dalla paura della punizione e
quindi la legittimazione del sovrano discende dall’esistenza di leggi che regolano l’uso della forza.

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Fondamentale per la formazione dello Stato moderno è la nascita di una burocrazia pubblica che lo
Stato ha potuto remunerare con l’introduzione della tassazione consentita dallo sviluppo dell’economia
monetaria. La crescita dello Stato viene spiegata in una prospettiva evoluzionista in seguito allo
specializzarsi dei suoi diversi organi che assolvono a specifiche funzioni con la separazione della funzione
politica da quella economica e religiosa e la divisione del lavoro che nell’ambito dello Stato porta alla
separazione del legislativo dall’esecutivo. I moderni Stati nazione, vale a dire quegli Stati che
racchiudono nel proprio territorio un’unica comunità che ha in comune una stessa storia ed etnia,
emergono dai conflitti militari che determinano: la crescita dell’amministrazione statale, l’aumento delle
attività pubbliche, un maggiore intervento dello Stato in economia per far fronte ai debiti accumulati in
tempo di guerra. Le guerre hanno accresciuto il bisogno di risorse materiali e di vite umane e lo Stato
centralizzato giocando un ruolo maggiore ha avuto anche necessità di un maggiore consenso. La
necessità di una legittimazione del potere centrale ha portato ad ampliare i compiti dello Stato in
relazione all’offerta di servizi con lo sviluppo dello Stato del benessere e nell’ambito della
programmazione dello sviluppo con lo Stato programmatore. Richieste di un maggiore intervento statale
sono provenute dai diversi gruppi sociali: sia quelli più deboli che hanno utilizzato il loro peso elettorale
per migliorare la loro condizione sia da parte della borghesia.
4. Il potere.
Nel secondo dopoguerra l’approccio legalistico allo studio della scienza politica viene criticato in Europa
dagli studiosi americani, ad esempio della scuola di Chicago spostando l’attenzione verso la politica reale
e quindi la politica intesa come potere. Il potere è definibile come la capacità dell’attore A di influenzare
il comportamento dell’attore B e quindi la capacità di A di indurre B a fare qualcosa voluta da A. Secondo
la definizione di Weber la potenza è la capacità di imporre la propria volontà all’interno di una relazione
sociale anche di fronte ad un’opposizione, per potere si deve intendere la possibilità che un proprio
comando trovi obbedienza presso certe persone. Le risorse del potere sono la forza che può incutere
paura fisica negli altri, il controllo della produzione di strumenti che possono aumentare la violenza
fisica ed infine le idee che possono legittimare un dominio basato sulla forza. Queste tre risorse
individuano quindi rispettivamente un potere politico, un potere economico e un potere ideologico. Nel
secondo dopoguerra le caratteristiche del potere vengono analizzate secondo diversi filoni di studio:
secondo l’approccio elitista il potere è detenuto da una ristretta minoranza di persone, appunto da un
élite, un tema già affrontato alle origini della s.p. italiana da studiosi come Pareto e Mosca. Secondo
molte ricerche americane, in questo contesto elitario la ricchezza è un fattore che consente di cumulare
potere ideologico e politico (ad es. la ricerca Middletown dei coniugi Lynd che avevano descritto una
struttura di potere di tipo gerarchico e dominata dal denaro o la ricerca di Hunter su Regional City che si
sofferma sul dominio del business e dell’economia come principale fonte di potere da parte di un
ristretto numero di persone molto coese tra loro che detengono la ricchezza e decidono per tutti gli
altri). Il modello elitista venne criticato dalla scuola pluralista guidata da Robert Dahl che considerava il
potere politico diffuso tra più élite in seguito alla dispersione delle risorse economiche, politiche e di
prestigio tra più gruppi della popolazione, per cui le risorse politiche si erano rese autonome dalle altre e
il potere politico appare legato alla capacità dei governanti di costruire consenso da parte dei diversi
gruppi sociali. In questo contesto la natura del potere è anche relazionale nel senso che i governanti
devono tenere in considerazione le preferenze dei gruppi di interesse perché in grado di esercitare
pressioni sulle scelte politiche e degli elettori perché potrebbero togliere loro il mandato a governarli.
Molto importante per la democrazia è l’influenza del potere politico rispetto agli altri poteri vale a dire il
gioco dei poteri:
1)il potere economico esercita una pressione sul potere politico affinché il mondo degli affari possa
svilupparsi (attraverso istituzioni come proprietà, forme societarie, mercati, impresa, ecc.) e lo Stato da
un lato offre tali garanzie al potere economico, dall’altro è spesso venuto in conflitto con esso ad
esempio difendendo i diritti dei lavoratori come il diritto di scioperare ed ha resistito alle richieste
provenienti dal mondo degli affari di ‘meno Stato’ difendendo le proprie competenze

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2) il potere ideologico ha dato un notevole contributo al potere politico: gli intellettuali hanno
legittimato l’immagine del potere politico e favorito con il concetto di nazione la costruzione di una
comune identità collettiva, il senso di appartenenza e di reciproca solidarietà, a volte però hanno anche
sostenuto i nemici dello Stato.
5. Il sistema politico.
Negli anni ’50 David Easton inaugura un approccio sistemico alla s.p. analizzando il funzionamento del
sistema politico: esso si caratterizza per due elementi: l’ambiente con il quale il sistema interagisce
attraverso un flusso continuo di immissioni ed emissioni e i confini che separano il sistema
dall’ambiente. Secondo Easton il sistema politico è un sistema di interazioni attraverso i quali si realizza
l’assegnazione autoritativa di valori scarsi (sia beni materiali che immateriali) ad una data società.
L’allocazione dei valori può avvenire attraverso la consuetudine cioè in base a norme tradizionalmente
condivise, o lo scambio cioè la libera interazione tra i soggetti, o il comando politico che consente di
risolvere in modo imperativo i conflitti sull’allocazione dei valori. La principale funzione del sistema
politico è di regolare i conflitti interagendo con la società (convertendo le immissioni in emissioni cioè in
decisioni imperative), all’interno del sistema politico si identificano sottosistemi come il sotto sistema
dei partiti, dei gruppi di pressione, burocratico. Gli inputs sono le domande politiche cioè le richieste di
allocazione autoritative di valori rivolte ai decisori e derivanti da bisogni che emergono nella società. Il
sistema politico si dota di regolatori d’accesso (gatekeepers) per selezionare le domande ed evitare un
pericoloso sovraccarico. I gatekeepers (filtri) possono essere di tipo strutturale come i partiti o culturale
intendendo le procedure e le regole che selezionano le domande in ingresso al sistema. Per Almond e
Powell i generici bisogni si trasformano in domande in seguito ad un processo di articolazione da parte
di gruppi e le domande sono poi combinate assieme in un processo di aggregazione da parte dei partiti.
Insieme alle domande un altro input del sistema è il sostegno (consenso) definito come un insieme di
comportamenti che esprimono approvazione rispetto al sistema e rivolto alla comunità politica (intesa
come insieme delle persone accomunate dalla medesima identità politica), al regime (inteso come
insieme di valori, norme e autorità che presiedono alle interazioni politiche in un territorio), alle autorità
(cioè coloro che occupano ruoli nel sistema politico). Il sostegno può essere specifico, cioè derivante da
una soddisfazione nell’immediatezza della domanda o diffuso se riferito ad una legittimazione di fondo e
di lungo periodo al regime. Nella ‘scatola nera’ della politica si attua il processo di elaborazione delle
decisioni pubbliche dapprima con la formulazione delle politiche cioè con la trasformazione delle
richieste in programmi da parte degli organi politici e poi con l’implementazione delle politiche
pubbliche da parte della burocrazia. Il sistema politico produce poi emissioni (outputs, che sono le azioni
e le decisioni), gli esiti delle politiche (outcomes cioè i risultati) e le retroazioni (feedbacks da cui può
derivare il consenso). Il modello sistemico di Easton è stato criticato per non riuscire a spiegare la realtà,
pur ammettendo l’esistenza di conflitti dovuti all’allocazione autoritativa delle risorse, esso si concentra
sulla sopravvivenza del sistema e pone l’accento agli input della scatola nera più che analizzare gli
outputs.
6 La razionalità in politica.
Con l’approccio della scelta razionale si abbandona la logica del sistema e si analizzano i comportamenti
e le motivazioni individuali in politica, Joseph Schumpeter e poi altri studiosi come Downs hanno
applicato allo studio della politica teorie provenienti dall’economia. Per l’approccio economico
l’individuo è l’attore fondamentale e agisce sulla base di un interesse personale, ordina in modo
razionale le sue preferenze secondo una graduatoria allo scopo di massimizzare l’utilità. Le motivazioni
individuali sono razionali ma egoistiche e guidano sia le scelte degli elettori che degli eletti perseguendo
diversi tipi di beni. Così come i consumatori del mercato economico hanno specifiche preferenze, gli
elettori chiedono particolari decisioni nel mercato politico ai loro eletti, così come le imprese sono
indifferenti al prodotto offerto e sono interessate solo al profitto, i partiti politici puntano solo a
controllare organi di governo attraverso le elezioni. La sovranità del consumatore nel mercato
economico viene assimilata alla sovranità dell’elettore inducendo i rappresentanti a realizzare le
politiche volute dai rappresentati per poter essere rieletti, secondo l’approccio economico la funzione

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sociale viene quindi assolta incidentalmente, in seguito alla ricerca di propri vantaggi individuali e la
democrazia discende dal bisogno degli eletti di soddisfare le richieste degli elettori. In questo contesto
Buchanan, principale esponente dell’approccio della scelta pubblica, ritiene che questa tendenza degli
amministratori provochi debito pubblico e inflazione e metta a rischio la stessa democrazia, essi
puntando alla loro rielezione non si preoccupano della crescita del deficit pubblico ed inoltre tendono a
introdurre regolamentazioni delle attività economiche e sociali per poter controllare i cittadini e a
costituire rendite politiche parassitarie (ad es. con le autorizzazioni, le concessioni, ecc.). Per gli studiosi
della scelta pubblica, critici verso le teorie keynesiane e favorevoli a riforme neoliberiste, occorre ridurre
il ruolo dello Stato in economia attraverso deregolamentazioni e privatizzazioni. Inoltre per i teorici della
scelta pubblica anche il potere delle burocrazie pubbliche tende ad aumentare, infatti i dirigenti pubblici
pur di consolidare la loro situazione di potere accrescono il loro budget di spesa facendo aumentare la
spesa pubblica fino alla inevitabile crisi fiscale dello Stato.

7. Le istituzioni politiche.
L’approccio economico ha sollevato molte critiche sotto diversi aspetti:
1) perché gli elettori non posseggono sufficienti informazioni per agire razionalmente,
2) per l’estensione alla politica delle logiche del mercato in un ambito nel quale manca il denaro come
mezzo che consenta di valutare costi e benefici degli scambi,
3) se la politica agisse sulla base di richieste egoistiche sarebbe incapace di perseguire il bene comune.
Gli autori dell’approccio neo istituzionalista come March e Olsen rifiutano tale impostazione ritenendo
che lo scopo della politica è la formazione delle preferenze attraverso l’elaborazione di identità collettive
e che i processi politici sono determinati dalle istituzioni intese non come organigrammi di funzioni ma
come insieme di norme e valori che danno significati alle azioni degli individui. Alla base del
comportamento non vi sarebbe dunque l’interesse individuale, ma prevalgono obbligazioni culturali e il
rispetto delle norme sociali, cioè è l’appropriatezza del comportamento che guida l’azione umana. Per
Pizzorno l’agire secondo una mentalità calcolante presuppone la costruzione di identità collettive che
consentono di identificare gli interessi e dar significato all’azione, ciò avviene tramite l’ideologia che
comporta la condivisione di fini comuni e il formarsi di solidarietà di gruppo. Una volta costruita
un’identità collettiva i rappresentati possono chiedere ai rappresentanti il soddisfacimento delle loro
utilità. Secondo l’approccio identitario alla politica, il comportamento solidale dell’elettore di andare a
votare pur sapendo che il suo voto non sarà determinante per la vittoria del proprio candidato si spiega
con il suo volersi sentire integrato nella comunità e di appagare il proprio senso di appartenenza ad
essa. Per l’approccio neo istituzionalista anche se il potere è una componente essenziale della politica,
esistono vincoli al potere costituiti dalle istituzioni, mentre il potere senza vincoli si identifica con la
forza.
8. La scienza politica come scienza empirica.
La scienza politica viene definita scienza empirica in quanto la realtà politica viene studiata seguendo
specifiche regole e cercando di comprendere l’origine di determinati fenomeni e le uniformità tra
situazioni in cui gli stessi fenomeni compaiono in condizioni simili. Il processo di ricerca inizia con il
selezionare un argomento anche su temi molto emotivi, ma verso i quali il ricercatore deve tenere sotto
controllo le proprie preferenze e deve fornire una adeguata pubblicità del procedimento scientifico, sia
della presentazione della procedura di ricerca che dei risultati in modo da consentire alla comunità
scientifica di valutare le conclusioni della ricerca stessa. Chiarito il problema da investigare va definita
l’unità di analisi e i concetti rilevanti per la ricerca individuando per tali concetti le proprietà cioè le
caratteristiche e i referenti empirici cioè l’insieme dei fenomeni che vi sono ricompresi. Nell’analisi
empirica le variabili sono osservabili empiricamente e variano cioè casi diversi di osservazione possono
contenere in misura variabile una certa proprietà (es pag. 35). In questo modo un concetto viene
operazionalizzato cioè si determinano i valori che la variabile può assumere delimitando i confini di
variabilità empirica del concetto ed è possibile individuare all’interno di tali stati di variabilità classi

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omogenee in cui poter suddividere i casi empirici. Per operazionalizzare un concetto si può far ricorso ad
uno o più indicatori rappresentati da indici o tipologie. Per controllare le relazioni tra le variabili si
considera in che modo al variare di una certa variabile (indipendente) varia l’altra (dipendente). Per
grandi ricerche su macrofenomeni come ad esempio se all’aumentare del numero dei partiti si riduce la
durata dei governi, con il metodo comparato a causa della difficoltà di analizzare grandi quantità di dati
si riduce il controllo delle ipotesi ad un numero ristretto di casi scelti con tecniche particolari di controllo
logico.

CAPITOLO 2: TRA LIBERTÀ E DIRITTI: CHE COSA È LA DEMOCRAZIA.

1. Democrazie e non-democrazie.
La democrazia è potere dal popolo, del popolo e per il popolo: il potere deriva dal popolo appartiene al
popolo e deve essere usato per il popolo, quindi il potere dei governanti deriva dall’investitura popolare.
Dahl ha sottolineato che la caratteristica principale della democrazia è la capacità dei governi di
soddisfare le preferenze dei cittadini: affinché un governo possa rispondere ai cittadini dovrebbe
garantire a ciascuno 1) di formulare le proprie preferenze, 2) di presentarle ai concittadini e al governo
attraverso azioni individuali e collettive, 3) fare in modo che tali preferenze siano tenute in
considerazione dal governo senza discriminazioni sui contenuti e sull’origine. Queste tre condizioni si
realizzano se ci sono otto garanzie costituzionali: libertà di costituire ed aderire ad organizzazioni, libertà
di espressione, diritto di voto, diritto di competere per il voto ed il sostegno, eleggibilità delle cariche
politiche, pluralità di fonti di informazione, elezioni libere e corrette, istituzioni che rendano il governo
dipendente dal voto. Le elezioni hanno un ruolo centrale nelle democrazie rappresentative che non
potrebbero esistere senza elezioni periodiche che rendono i governanti responsabili verso i governati.
Non è sufficiente che si svolgano le elezioni perché vi sia democrazia, ma esse devono essere corrette,
competitive e ricorrenti in modo che gli eletti sappiano che dovranno rendere conto del loro operato agli
elettori. Il potere costituzionale inoltre limita ogni tipo di potere compreso quello degli organi
rappresentativi sottomettendolo al diritto, così ad esempio i diritti delle minoranze sono tutelati
attraverso la costituzionalizzazione dei diritti vale a dire mettendo al riparo alcuni diritti dalle
prevaricazioni della maggioranza.

2. La prima democratizzazione.
Le democrazie si sono evolute con il riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali, l’estensione di
questi diritti viene analizzata da Stein Rokkan con l’analisi delle soglie, da Dahl con i percorsi di
democratizzazione, da Barrington Moore con lo sviluppo storico delle democrazie.

2.1 Le soglie istituzionali.


Per S. Rokkan un movimento politico per essere integrato nelle istituzioni deve superare 4 soglie: la
soglia di legittimazione collegata al diritto di esprimere le proprie idee, la soglia di incorporazione
collegata alla possibilità di influenzare le scelte dei rappresentanti, la soglia della rappresentanza legata
all’ingresso nel parlamento, la soglia del potere esecutivo collegata alla capacità di controllo del
governo. Il superamento delle 4 soglie ha avuto un evoluzione temporale diversa nei vari paesi: la soglia
di legittimazione viene superata da dopo la formazione della nazione quando si inizia a riconoscere il
diritto di critica al regime, la soglia di incorporazione da dopo il riconoscimento dei diritti delle
opposizioni, la soglia della rappresentanza da quando al parlamento hanno potuto accedere i nuovi
movimenti, la soglia del potere esecutivo da quando il parlamento ha cominciato ad esercitare
un’influenza diretta sul processo decisionale.

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2.2 I percorsi di democratizzazione.
I percorsi per giungere alla democrazia per Dahl sono stati diversi e si sono attuati secondo due
dimensioni: il diritto di opposizione vale a dire una serie di garanzie costituzionali per controllare e
contestare l’operato del governo e il grado di inclusione vale a dire la proporzione di cittadini ai quali
viene garantito il diritto di opposizione cioè il grado di partecipazione consentito ai cittadini per
controllare e criticare l’azione del governo. Combinando i due fattori si ottengono quattro tipi di regimi,
che costituiscono la scatola di Dahl: egemonie chiuse (nessun diritto di opposizione per nessun
cittadino), oligarchie competitive (diritti di opposizione consentiti a gruppi ristretti), egemonie inclusive
(consentito un basso grado di partecipazione a tutti i cittadini), poliarchie (ampi diritti di opposizione
estesi a tutti). Dahl ha definito liberalizzazione la concessione di diritti di opposizione e inclusione
l’estensione di tali diritti alla maggior parte della popolazione. I percorsi verso le poliarchie, cioè verso la
democratizzazione sono stati diversi: a volte la liberalizzazione ha preceduto l’inclusione: in questo caso
si ha un passaggio graduale da un’egemonia chiusa ad un’oligarchia competitiva che poi aumentando
l’inclusività del regime si trasforma in poliarchia (come è avvenuto in Inghilterra dove prima si sono
aumentati i diritti dell’opposizione e poi è stato esteso il suffragio). Questo per Dahl è il passaggio più
salutare per la politica in quanto le regole della democrazia prima si consolidano all’interno di gruppi
ristretti e in seguito quando gruppi sociali più estesi sono ammessi alla politica è possibile socializzarli
alle pratiche già consolidatesi tra le élite. A volte poi l’inclusione precede la liberalizzazione, in questo
caso l’egemonia chiusa si trasforma in inclusiva (ad esempio con l’estensione del diritto di voto), ma si
tratta di un percorso rischioso in quanto le arti della politica potrebbero non essersi ancora consolidate
nell’ambito delle elite. A volte infine c’è un brusco passaggio da egemonie chiuse a poliarchie e questo
per Dahl raramente porta a democrazie stabili.

2.3 Le origini sociali della democrazia e della dittatura.


Barrington Moore ha individuato tre vie che hanno portato alle società moderne: la via del capitalismo
associata alla democrazia parlamentare e sostenuta dalle grandi rivoluzioni (francese, americana),
capitalistica ma basata su forme totalitarie come il fascismo e comunista. Vari fattori hanno favorito
l’affermarsi della democrazia in Europa occidentale: 1) la monarchia assoluta costituì un freno per la
nobiltà e allo stesso tempo la nobiltà limitò il potere delle monarchie venendosi a creare un equilibrio
tra corona e nobiltà che diede una spinta alla democrazia parlamentare, 2) l’esistenza di una borghesia
urbana interessata allo sviluppo dei diritti individuali (proprietà privata, contratti, ecc.), 3) l’evoluzione
mercantile dell’aristocrazia terriera specie in Inghilterra grazie allo sviluppo de commerci, e infine 4) la
democrazia potette svilupparsi perché non vi fu una contrapposizione di aristocratici e borghesi contro
contadini e lavoratori.

3 I diritti di cittadinanza.
I diritti di cittadinanza intesi come insieme dei diritti civili, politici e sociali, si completano nel XX secolo
specie in seguito alla mobilitazione di larghe fasce sociali escluse. Rehinard Bendix in polemica con i
marxisti sostiene che il processo di mobilitazione è stato innanzitutto di rivendicazione politica prima
che dovuto allo sfruttamento economico, e quindi di affermazione dell’uguaglianza a partecipare alla
comunità politica dello Stato nazione. L’estensione della cittadinanza è stata graduale fino a diffondersi
nel XIX secolo con l’affermarsi del concetto di Stato inteso come nazione che richiedeva l’affermazione di
diritti comuni per tutti gli appartenenti alla medesima comunità. Ma l’affermazione di diritti uguali
contrastava con le disuguaglianze socio economiche determinando l’ingresso delle masse operaie
nell’arena politica ed il consolidamento del diritto di cittadinanza attraverso, secondo il sociologo inglese
Marshall, i diritti civili (le libertà individuali di parola, pensiero, di proprietà, ecc.), i diritti politici (i diritti
a partecipare alla vita politica come elettore o come autorità politica), i diritti sociali (i diritti a
partecipare al benessere economico della società e a vivere secondo uno standard sociale prevalente). I

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diritti civili sono legati alle istituzioni della giustizia e si formano nel 18° secolo, i diritti politici ai
parlamenti nazionali e si formano nel 19° secolo, i diritti sociali ai servizi sociali e nascono nel 20° secolo.
I primi diritti civili ad affermarsi furono quelli legati alle libertà individuali (proprietà privata e diritto a
firmare contratti), in particolare con la rivoluzione francese si affermarono i principi dell’individualismo
ed una certa diffidenza verso le forme intermedie tra individuo e Stato considerate fonti di faziosità e di
tutela di interessi di pochi privilegiati contro il bene comune. I sindacati inizialmente vietati per un
principio di uguaglianza formale di fronte alla legge, dopo decenni di lotte vennero legalizzati come le
altre associazioni consentendo la tutela dei lavoratori salariati. Per quel che riguarda i diritti politici,
dopo la rivoluzione francese il suffragio universale venne conquistato gradatamente, Bendix individuò
cinque criteri di limitazione del suffragio: limitato ai capi di determinati gruppi in base al loro status
sociale, su base di censo cioè in base al reddito, in base all’alfabetizzazione, limitato ai soli capifamiglia,
in base a criteri di residenza in un certo territorio e per un certo tempo. A volte i diritti civili e politici,
considerati un requisito della nuova società, apparivano contrapposti a quelli sociali che venivano
ritenuti tipici delle società controllate del passato. Nel 19° secolo l’esercizio dei diritti civili e politici era
limitato dalla mancanza di opportunità economiche e sarà solo a partire dal 20° secolo con la diffusione
del benessere economico e dell’istruzione che si ha un riequilibrio tra tali diritti.

4. Lo stato sociale.
Nel XX secolo si assiste all’evoluzione del welfare state: lo Stato interviene per proteggere le fasce più
deboli della popolazione, dapprima introducendo l’estensione dell’istruzione considerata un requisito
per il godimento del diritto di cittadinanza, poi con i programmi di assicurazione sociale per coprire i
lavoratori contro i rischi di incidenti sul lavoro, malattia, disoccupazione, vecchiaia. Dopo la seconda
guerra mondiale con le politiche keynesiane si puntò a programmi di sostegno sociale per garantire uno
standard minimo di vita a tutti i lavoratori e non più solo ai più poveri e a proteggere le classi lavoratrici
dagli andamenti altalenanti del mercato attraverso politiche di sostegno della domanda e a favore della
piena occupazione. A differenza del sistema liberale il welfare state comporta il riconoscimento da parte
dello Stato di una responsabilità nei confronti degli individui e quindi la necessità dell’universalità delle
prestazioni. Per alcuni studiosi il welfare state è un prodotto collaterale dello sviluppo economico e
consente allo Stato di investire più risorse per il benessere dei cittadini, mentre per i marxisti esso è una
necessità del capitalismo per affermare una sua legittimazione e la sua riproduzione, in questo modo il
conflitto di classe si attenua e i lavoratori accettano la legittimità del capitalismo in cambio di benefici.
Secondo un’altra interpretazione invece lo sviluppo del welfare state è stato determinato dalla lotta
delle classi più deboli che ha portato in alcuni paesi come nel caso svedese ad un’alleanza tra
organizzazioni dei lavoratori e governi diretti da partiti di sinistra sottraendo le classi più deboli dal
ricatto del mercato. Da un’analisi comparata tra i diversi stati emerge che maggiori spese sociali ed una
più elevata fiscalità è presente nel modello scandinavo che assicurano servizi a tutti i cittadini, una più
bassa fiscalità si è avuta in Giappone e SU e nell’Eur meridionale il welfare ha tutelato in modo
differenziato le diverse categorie. E’ da notare che la crescita del welfare si è accompagnata ad
un’espansione delle burocrazie pubbliche anche per venire incontro alle richieste degli elettori.

5 Le non-democrazie.
Le non-democrazie sono i regimi presenti nella maggior parte degli stati del mondo e subiti dal maggior
numero di abitanti del globo. Gli studiosi hanno considerato diverse variabili che possono definirli come
il grado di accentramento del potere detenuto dalla coalizione dominante, i gruppi sociali che alla base li
sostengono, il livello di repressione verso le opposizioni, il grado di mobilitazione o di smobilitazione
delle masse, il livello di ideologia in essi contenuto. La tipologia di regimi non democratici più vasta è
costituita dai regimi autoritari che secondo la definizione di Linz sono caratterizzati da scarso pluralismo
politico e assenza di mobilitazione e ideologie guida e che in generale si distinguono dai regimi
democratici per l’assenza di responsabilizzazione (non ci sono elezioni competitive) e per concentrare il
potere in una ristretta oligarchia (spesso gerarchie religiose, élite economiche e monarchia formano una
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stretta alleanza) sostenuta dai militari. La base sociale dei regimi autoritari è varia: a volte sono sorti per
difendere i ceti medi dalle rivolte popolari, altre volte per sostenere le rivolte popolari ma in seguito
sono divenuti difensori degli interessi degli apparati del partito unico. I regimi totalitari riferiti
soprattutto allo stalinismo in Urss e al nazismo in Germania, si distinguono da quelli autoritari e sono
caratterizzati da assenza di pluralismo politico, presenza di forti leader, forte repressione verso le
opposizioni, alto livello di mobilitazione popolare e di trasformazione ideologica della società. I regimi
non democratici tradizionali invece sono basati sul potere di un leader che gestisce la cosa pubblica
come sua dotazione privata, non vi è in genere mobilitazione ed ideologizzazione delle masse. Di solito
precedono le prime democratizzazioni. Una particolare categoria di regimi tradizionali è costituita dal
sultanismo presente ancora oggi in Medio Oriente e dove vi può essere un vario grado di repressione del
dissenso e di appropriazione delle ricchezze del paese da parte del sultano.

6. Democratizzazione e transizioni democratiche.

6.1 Democrazia e modernizzazione.


Molti autori come ad esempio Martin Lipset hanno visto uno stretto rapporto tra sviluppo economico e
democrazia, Dahl ritiene che più è alto il livello socioeconomico di un paese maggiore è la probabilità
che il suo regime politico sia democratico e viceversa. Tuttavia la relazione fra sviluppo economico e
democrazia si presenta complessa e variabile: a volte durante il processo di industrializzazione il
percorso democratico si è interrotto oppure paesi economicamente sviluppati sono stati retti da regimi
totalitari come l’Urss. Circa le relazioni causali tra sviluppo economico e democrazia Dahl ha osservato
come il primo fattore influenzi il secondo ad esempio con la maggiore diffusione dell’istruzione e del il
pluralismo sociale in quanto un’economia avanzata richiede una forza lavoro istruita e comporta la
dispersione delle risorse politiche tra le organizzazioni di individui e di gruppi consentendo soluzioni
negoziate quando sorgono i conflitti tra le parti.

6.2 Cultura politica e democrazia.


Lo sviluppo della democrazia dipende inoltre dalla cultura politica intesa come l’orientamento di un
sistema politico nei confronti della politica in un certo tempo. La cultura politica ha tre componenti: 1)
cognitiva legata cioè alle conoscenze detenute da un individuo sul sistema politico nel suo complesso, 2)
affettiva che dipende dai sentimenti provati dall’individuo verso il sistema politico, 3) valutativa legata
cioè alla valutazione morale del sistema effettuata dall’individuo. La cultura politica più favorevole per la
democrazia per alcuni studiosi è la cultura civica intesa come un equilibrio tra due fattori in apparenza
contraddittori: partecipazione ed obbedienza da cui derivano una partecipazione limitata ed un
atteggiamento sottomesso della maggioranza. Secondo questa concezione la democrazia non
deriverebbe quindi dalla partecipazione di molti ma dalla formale possibilità di partecipare tutti. Per
Dahl al fine del processo democratico sono essenziali i reticoli di fiducia orizzontale in quanto la fiducia è
indispensabile nella vita associativa e riduce la pericolosità dei conflitti, al contrario la democrazia viene
ostacolata come ad esempio nei paesi in via di sviluppo se viene a mancare la solidarietà e la fiducia
sostituita da rapporti clientelari e da scambi diseguali. La democrazia risulta favorita in quei paesi dalla
cultura consensuale in cui i cittadini tenderanno a concordare con le scelte dei governi, a differenza dei
paesi con cultura polarizzata dove qualsiasi politica produce insoddisfazione in larghe fasce di gruppi
sociali. Alcune democrazie come Svizzera, Canada, Paesi bassi sono molto solide in quanto basate su un
accordo consociativo tra i leader dei diversi gruppi che realizzano compromessi tali da evitare le tensioni
interne.

6.3 Transizioni alla democrazia.

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Tramontata l’ipotesi di esportare il modello di democrazia occidentale ai paesi in via di sviluppo
ripercorrendo gli stessi percorsi di sviluppo socioeconomico seguiti dai paesi sviluppati, dopo gli anni ’50
la ricerca si è orientata verso un processo di democratizzazione suddiviso in fasi: 1) transizione, 2)
instaurazione, 3) consolidamento: 1) consistono in fasi di passaggio da un regime ad un altro quando
cessano le vecchie regole e le nuove non sono ancora consolidate, allora si aprono spazi di
liberalizzazione per l’opposizione politica: si attenua la censura, si ha il rilascio dei prigionieri politici, si
riorganizzano i movimenti ed i partiti, 2) l’instaurazione porta al pieno riconoscimento dei diritti civili e
politici e all’adozione di istituzioni democratiche, si indicono le prime elezioni che eleggono il governo, 3)
è l’ultima fase e porta al radicamento delle istituzioni e delle procedure democratiche. Diversi sono gli
attori della democratizzazione, in particolare si è studiato il ruolo delle coalizioni dominanti e il
mutamento dei rapporti di forza al loro interno, ad esempio dei militari che sono spesso intervenuti in
America Latina per instaurare regimi autoritari. In seguito alcuni gruppi sociali come le elite economiche,
le gerarchie religiose, le monarchie, parti dell’esercito e più in generale la società civile hanno favorito la
transizione verso la democrazia facendo pressione con manifestazioni di massa. Infine nella fase di
consolidamento, nel momento di aggregazione delle preferenze prima delle elezioni entrano in scena i
partiti politici. Sul piano internazionale, mentre in passato alcuni paesi democratici avevano sostenuto
regimi dittatoriali, più di recente è cresciuta la solidarietà internazionale verso gli attivisti interni ai paesi
non democratici, inoltre le neo democrazie sono state sostenute da organizzazioni soprannazionali che
hanno monitorato le elezioni e il rispetto dei diritti umani e imposto sanzioni in caso di violazioni.

7 Democrazia e diritti: le sfide di oggi.


A partire dagli anni ’90 la riflessione sulle democrazie non riguarda più solo i paesi del sud del mondo,
ma anche le democrazie occidentali dove i processi di globalizzazione portano alla riduzione dei diritti
sociali. La libertà di circolazione di merci e capitali, la limitazione delle tasse, l’introduzione di forme di
lavoro flessibili da qualche anno sono il sintomo di una prevalenza neoliberista che porta alla riduzione
della capacità della politica di controllare il mercato ed al passaggio delle scelte decisionali dagli stati
nazionali ad organismi sopranazionali non elettivi e quindi poco responsabili rispetto ai cittadini. Inoltre
sembra crescere la disuguaglianza nel godimento dei diritti al punto che oggi aumentano nelle
democrazie occidentali i cittadini senza cittadinanza, cioè gli immigrati extracomunitari che hanno molti
meno diritti rispetto ai cittadini dotati di nazionalità. Negli anni ‘90 cominciano così ad essere evidenti i
segni dell’insoddisfazione dei cittadini verso le democrazie più avanzate che devono essere legittimate
dalla capacità di risolvere i problemi la cui soluzione non può essere affidata allo scambio di mercato o
alla cooperazione volontaria della società civile. La democrazia non può basarsi solo sul rispetto delle
procedure ma deve essere capace di integrare i cittadini garantendo loro diritti non solo formali.

CAPITOLO 3: TRA INTERESSI E IDENTITÀ: CHE COSA È LA PARTECIPAZIONE POLITICA.

1. Partecipazione: una premessa.


La democrazia può essere rappresentativa (in cui le decisioni vengono prese da rappresentanti eletti dal
popolo e delegati a governare) o diretta (in cui la delega incontra forti vincoli e le decisioni sono portate
il più vicino possibile alla gente). Nella rappresentanza si presuppone comunque una certa
partecipazione per legittimare i rappresentanti attraverso l’estensione del suffragio e più di recente con
altri istituti come il referendum cioè la consultazione diretta degli elettori su singole tematiche. La
partecipazione politica è stata definita come il coinvolgimento a vari livelli dell’individuo nel sistema
politico e può variare dal disinteresse totale alla titolarità di una carica pubblica. Essa comprende quei
comportamenti dei cittadini orientati ad influenzare il processo politico, per cui nelle forme minime
anche la lettura di un giornale può essere considerata partecipazione politica tuttavia non sempre è
facile valutare quali comportamenti costituiscono forme di partecipazione.

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2 La selettività della partecipazione.
Numerose sono le ricerche sul coinvolgimento dei cittadini nelle diverse forme di partecipazione.
Milbrath ha individuato una serie di comportamenti graduandoli in base all’impegno richiesto come
votare, cercare di convincere altri ad una certa idea politica, portare un distintivo politico, sostenere con
offerte di denaro un candidato, impegnarsi in una campagna politica, candidarsi a cariche elettive.

2.1 Quanta partecipazione?


Ricerche condotte con sondaggi hanno evidenziato che le democrazie convivono con bassi tassi di
partecipazione, in realtà una democrazia funzionante richiede cittadini informati sulle problematiche
politiche, attivamente impegnati e capaci di influenzare le decisioni pubbliche. Questi sondaggi
evidenziano un comportamento politico dei cittadini che raramente risponde ad un modello attivista e
razionale con un tasso di partecipazione più basso di quello necessario a garantire un buon governo
democratico.

2.2 Partecipazione ed ineguaglianza.


La partecipazione politica inoltre non rappresenta molto la popolazione nel suo complesso, studi hanno
dimostrato che vari fattori concorrono a far variare il tasso di partecipazione nei vari gruppi sociali come
il livello di istruzione, la residenza nelle città o nelle aree rurali, l’appartenenza ai ceti medi piuttosto che
alla classe operaia. In particolare le disuguaglianze socioeconomiche si riflettono in disuguaglianze
politiche: chi ha più risorse (denaro e prestigio) da investire nella partecipazione ottiene maggiori
risultati in termini di tutela dei propri interessi, sa come influenzare le decisioni politiche per via della
maggiore istruzione a differenza di chi non ha tali risorse ed accetta la propria incompetenza delegando
ad altri l’intervento politico. L’eguaglianza politica è dunque utopistica così come l’idea che la
democrazia dando un diritto di voto uguale per tutti avrebbe abolito i privilegi di pochi in quanto i molti
non privilegiati avrebbero sfruttato a proprio vantaggio i diritti politici, in realtà il vantaggio del numero
si controbilancia con l’uso ineguale delle opportunità di partecipazione politica, per cui le opportunità
formalmente uguali di accesso sono poi dai vari gruppi sociali utilizzate in modo diseguale.

3 Le forme nuove della partecipazione.


A partire dagli anni ’70 si ha una crescita di nuove forme di partecipazione politica che configurano
diversi stili di comportamento combinando attività di partecipazione convenzionale e non convenzionale
come ad es. scrivere su un giornale, occupare edifici, aderire a boicottaggi, autoridursi le tasse, firmare
petizioni, prendere parte a cortei pacifici, danneggiare beni, utilizzare violenza contro le persone, ecc. Gli
individui si potranno così distinguere in inattivi coloro che al massimo leggono giornali politici o firmano
una petizione, conformisti, che si impegnano un po’ di più nelle attività convenzionali, riformisti che
partecipano sia in modo convenzionale, ma anche con forme di protesta non convenzionale ma legali
come i cortei, attivisti che aumentano la loro partecipazione fino a forme di protesta non legali e
protestatari che adoperano tutte le forme non convenzionali di partecipazione. La crescita delle forme di
partecipazione non convenzionale registrata in molti paesi non va letta come una delegittimazione della
democrazia ma come un ampliamento degli spazi di partecipazione dei cittadini al punto da far parlare
di una rivoluzione partecipativa, inoltre le varie forme non convenzionali sono complementari alle forme
convenzionali e non alternative.

4 Partecipazione ed identità.
Per uno studioso come Pizzorno la partecipazione politica richiede la costruzione di sistemi di solidarietà
attraverso la creazione di identità collettive, per cui ad es. la mobilitazione della classe operaia come
soggetto collettivo richiede che ciascun operaio compia un processo di identificazione che lo porti ad
acquisire la consapevolezza di appartenere ad un gruppo. Ciò favorisce la partecipazione politica

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accentuando il senso di aggregazione portando anche gruppi dotati di scarso status ad una maggiore
capacità di organizzazione e maggior successo nella difesa dei propri diritti, inoltre la mobilitazione
contribuisce poi ad accentuare il senso di solidarietà e di appartenenza facendo sentire i singoli individui
parte di uno sforzo collettivo.

5 Valori post materialisti e nuova partecipazione.


Alcuni studi hanno collegato lo sviluppo di nuove forme di partecipazione a evoluzioni culturali:
l’individuo moderno ha più fiducia di poter influenzare le scelte politiche attraverso la propria capacità
di informarsi e la propria partecipazione. Negli anni ‘60 emergono nuovi valori post materialisti, cioè vi è
un allontanamento da parte degli individui dagli interessi materiali, ciò accade per lo studioso Inglehart
in quanto nella gerarchia dei bisogni subentrano quelli di ordine più elevato come la crescita
intellettuale della persona in seguito alla soddisfazione di quelli più bassi come la sopravvivenza fisica. La
generazione nata nel secondo dopoguerra vive in condizioni di benessere economico tale da consentire
questo avanzamento nella gerarchia dei bisogni considerando primaria l’espansione della libertà di
opinione, la democrazia partecipativa, l’auto realizzazione nella sfera privata. Valori materialisti erano
considerati ad esempio l’ordine pubblico o il combattere l’aumento dei prezzi, quelli post materialisti il
maggior peso dei cittadini nelle scelte di governo e la libertà di parola. Numerose ricerche hanno
dimostrato la crescita dei gruppi con valori post materialisti rispetto a quelli materialisti
tradizionalmente dominanti. I giovani degli anni ‘60 delle classi medie che non hanno conosciuto vere
privazioni economiche pongono in testa all’agenda dei bisogni valori non economici e questi stessi valori
sono stati trasmessi alle generazioni più giovani.

6 La partecipazione fa bene alla democrazia?

6.1 Democrazia fiducia e apatia.


In uno studio Lipset aveva sostenuto che un certo grado di apatia è positivo per la democrazia in quanto
sottenderebbe un certo consenso, infatti specie dopo l’ondata di proteste della fine degli anni ’60, alcuni
studiosi ritennero che un’eccessiva crescita della partecipazione poneva dei rischi, in particolare
cresceva la domanda al sistema creando rischi di sovraccarico. Specie in caso di recessione economica le
richieste dei cittadini, in particolare quelle dei più istruiti, riducono la capacità di risposta dei governanti
e si rischiava la crisi della democrazia proprio a causa di un eccesso di democrazia. Per altri studi lo
sviluppo di forme di partecipazione non istituzionali sono il segno di un’espansione della democrazia e a
partire dagli anni ’90 si inizia a valutare più che il rischio del sovraccarico al contrario quello
dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, questo accade all’indomani della sconfitta del socialismo
reale proprio quando la democrazia liberale sconfiggeva il suo nemico storico. In ogni caso non è la
validità delle istituzioni democratiche ad essere messa in discussione dai cittadini, quanto le sue
performance, se da un lato i cittadini non mettono in discussione la legittimità della democrazia
dall’altro divengono verso di essa più esigenti.

6.2 Exit o voice.


L’economista Hirshman ha distinto diverse strategie per esprimere scontento: paragonando il
comportamento del consumatore che abbandona un prodotto per un altro, così un cittadino reagirà con
la rinuncia (l’uscita, exit) o con la protesta (la voce, voice) cercando cioè di cambiare uno stato di cose
riprovevole. Sia la voce che l’uscita se eccessive possono provocare altri rischi per cui è necessaria una
certa dose di lealtà politica o apatia.

6.3 Capitale sociale e democrazia.

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Il capitale sociale è costituito da quel capitale di relazioni sociali, regole di reciprocità, fiducia che
facilitano la cooperazione tra gli individui per il raggiungimento di comuni benefici. La presenza di
capitale sociale facilita il buon governo e la cooperazione volontaria tra gli individui, consente di
migliorare le istituzioni e di monitorare i soggetti coinvolti sanzionandoli in caso di rottura dei rapporti
fiduciari. Ricerche hanno dimostrato che la presenza di associazioni volontarie e reti sociali favorisce la
lotta alla disoccupazione, l’istruzione, la sicurezza, inoltre favorisce lo sviluppo economico locale e quindi
le istituzioni politiche devono intervenire per incentivarlo.

7 L’opinione pubblica tra sfera pubblica e ‘videocrazia’.

7.1 La sfera pubblica.


La sfera pubblica designa un ambito non statale all’interno del quale si discute pubblicamente su
questioni di rilevanza pubblica. Lo sviluppo della sfera pubblica è un tipico processo della società
moderna che cresce assieme alla borghesia mercantile che diviene un interlocutore delle autorità al fine
di curare direttamente i propri interessi senza avvalersi esclusivamente del governo. Gli spazi che utilizza
la sfera pubblica si moltiplicano: i salotti, le logge massoniche, le associazioni varie e infine comincia ad
avvalersi della stampa estendendo il proprio ruolo alla critica del potere statale e al controllo del
governo. Habermas nota come già a partire dalla metà del 19° secolo il dibattito pubblico spostandosi in
altri ambiti (case editrici, poi la radio) si commercializza e si trasforma in bene di consumo il bene
culturale, la compenetrazione tra sfera privata e sfera pubblica introduce rischi di manipolazione della
sfera pubblica.

7.2 Videocrazie?
La mediatizzazione della politica è costituita dalla progressiva autonomia dei mezzi di comunicazione di
massa dal controllo della politica al punto da poter trasformare le regole del gioco democratico. Le
ipotesi più pessimistiche paventano il rischio di videocrazie dove specie la televisione acquisisce un
potere che limita il pluralismo di opinioni. L’informazione politica viene inoltre ridotta a spettacolo e si
sottolineano più gli aspetti superficiali di intrattenimento e sensazionalistici che non l’informazione. I
politici stessi si affidano a pubblicitari per curare la propria immagine inducendo gli elettori a votarli per
questo aspetto più che per i programmi politici ed i contenuti. Anche se molti studi hanno dimostrato
che gli effetti dei media sui comportamenti degli elettori è minimo, in realtà nei periodi di campagna
elettorale anche basse percentuali di voti che si spostano, specie da parte di elettori poco informati e
interessati alla politica, possono portare alla vittoria dell’uno o dell’altro schieramento.

7.3 Media e cittadinanza.


Tuttavia i media consentono ai gruppi che non hanno potere di divulgare le motivazioni delle azioni di
protesta facendo guadagnare sostegno da parte dell’opinione pubblica e possono svolgere il ruolo di
difendere gli interessi dei più deboli o addirittura l’interesse collettivo esercitando uno strumento di
controllo sui governanti. Inoltre le nuove tecnologie rendono le trasmissioni dei media bidirezionali,
consentendo ad es. con internet ai cittadini di partecipare alla comunicazione come in una ‘piazza
virtuale’. Le nuove tecnologie hanno reso disponibili maggiori informazioni consentendo mobilitazioni
globali su talune tematiche.

CAPITOLO 4: TRA VANTAGGI PRIVATI E BENI PUBBLICI: CHE COSA SONO I GRUPPI E I
MOVIMENTI.

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1. Gruppi e politica: una introduzione.
Sul rapporto tra gruppi ed interesse generale si sono scontrate due concezioni diverse: secondo una
prima visione il bene comune deriva dall’interazione tra i gruppi che consentono la piena realizzazione
dell’individuo, una seconda visione giudica gli interessi particolari dei gruppi in contrasto con l’interesse
generale ed il sistema politico globale. L’analisi dei gruppi è stata centrale per anni nello studio della
politica, in primo luogo il dibattito si è concentrato sulla definizione del concetto di interesse
relativamente ai gruppi di interesse. L’interesse assume le connotazioni più variegate (interesse della
classe operaia, dei salariati, delle famiglie, dei contribuenti, dei disoccupati, degli anziani, dei
consumatori, degli inquilini, ecc.) e quindi sono state date anche diverse definizioni: per Bentley il
gruppo coincide con una parte della società che agisce in base ad un proprio interesse per cui non può
esistere un gruppo senza interesse, per Truman invece un gruppo di interesse è un qualsiasi gruppo che
presenta domande ad altri gruppi della società, per Almond e Powell un gruppo di interesse è costituito
da individui legati da interessi comuni. La funzione dei gruppi è di influenzare il potere politico
formulando domande politiche e inoltre di articolare gli interessi, queste funzioni possono essere svolte
da più tipi di gruppi: g. di i. anomici vale a dire folle disorganizzate di protesta spontanea che crescono e
rientrano velocemente, g. di i. non associativo basati su interessi comuni di razza, religione, lingua, ecc.
g. di i. istituzionale che si trovano in organizzazioni come partiti, burocrazie, forza armate, chiese, ecc. g.
di pressione associativa che rappresentano gli interessi di un gruppo in particolare come sindacati,
associazioni di industriali e di commercianti, gruppi che difendono cause specifiche come l’ambiente,
ecc.. I gruppi di pressione associativa intervengono in politica cercando di influenzare le scelte politiche,
l’azione di pressione, definita con il termine lobbying, consiste nella pressione esercitata dai delegati dei
gruppi di interesse in contatto con i parlamentari o con i membri del governo. Altre forme di pressione
oltre al lobbying sono la corruzione, campagne verso l’opinione pubblica, e soprattutto il finanziamento
delle campagne elettorali. Altra caratteristica dei gruppi è la volontarietà dell’appartenenza per cui in
definitiva un gruppo di interesse può essere definito come un gruppo organizzato e volontario che
mobilita risorse per influenzare le politiche pubbliche.

2 La teoria dei gruppi.


L’attenzione ai gruppi emerge nella scienza politica con l’opera di Bentley all’inizio del ‘900 secondo cui i
gruppi sono in politica gli attori più rilevanti, i diversi scienziati che se ne sono occupati hanno così dato
vita alla teoria dei gruppi dando inizialmente un giudizio positivo per il loro ruolo in democrazia come
elemento di 1) equilibrio, 2) socializzazione, 3) autonomia dello Stato. 1) L’equilibrio deriva dalla stessa
competizione tra la pluralità dei gruppi che spinge ad una mediazione tra i diversi interessi di cui essi
sono portatori evitando il monopolio di un unico gruppo sugli altri, o che la lotta circoscritta a due soli
gruppi finisca inevitabilmente con l’affermazione di un unico gruppo sull’altro. La sfida proveniente dai
gruppi organizzati può provocare la mobilitazione dei gruppi latenti, cioè di quei gruppi che non si sono
ancora organizzati e questa eventualità spinge i gruppi organizzati ad evitare richieste politiche troppo
radicali, il prevalere di alcuni interessi su altri è dunque solo provvisorio, dura il tempo che occorre ai
gruppi colpiti di organizzarsi. 2) La partecipazione ai gruppi produce effetti educativi in quanto favorisce
la socializzazione inducendo ciascuno a ridimensionare i propri interessi egoistici ed a collaborare
portando coesione e reciproca fiducia. Truman ha poi osservato come la partecipazione di ciascun
individuo ai gruppi possa avvenire con un’appartenenza trasversale a più gruppi (legati ad es. all’attività
lavorativa, a interessi culturali, a attività del tempo libero, religiose, ecc.) aumentando così l’integrazione
tra gli individui in quanto non vi sarebbe un’appartenenza ad un’organizzazione totalizzante ma una
partecipazione a vari gruppi. 3) La partecipazione ai gruppi rende gli individui più indipendenti dallo
Stato in quanto essi si aiuterebbero l’un l’altro. I gruppi rappresentano la capacità della società di
organizzarsi dal basso lasciando allo Stato la funzione di mediazione tra gli interessi. Per questo la teoria
dei gruppi sottolinea la funzione di mediazione della politica piuttosto che l’esercizio dell’autorità.

3 Teoria dei gruppi: i critici.

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La teoria dei gruppi è stata criticata sotto diversi aspetti: innanzitutto solo pochi gruppi hanno le risorse
necessarie per organizzarsi per cui la mobilitazione dei gruppi risulta limitata e fonte di disuguaglianze
perché solo pochi gruppi possono influenzare le scelte dei governi. Lo studioso Olson ha osservato che
l’esistenza di un interesse comune non determina automaticamente un’azione collettiva, infatti proprio
la natura collettiva del bene induce ciascuno ad attendere che siano gli altri a mobilitarsi per tutelarlo
per non pagare il costo dell’azione collettiva. Per Olson quindi le azioni collettive sono giustificate da
incentivi selettivi che premiano o puniscono singoli individui e hanno quindi una funzione di coercizione
sugli individui per indurli a partecipare all’azione collettiva. I gruppi di interesse organizzati possono
motivare i loro sostenitori con incentivi materiali (denaro, beni, ecc.) o simbolici (solidarietà, prestigio,
ecc.). I gruppi si possono inoltre distinguere tra gruppi di interesse pubblico che difendono interessi
comuni agli individui dell’intera comunità nazionale e gruppi di interesse speciale che avvantaggiano
alcuni gruppi a danno di altri. Questi ultimi si organizzano più facilmente essendo più piccoli e
disponendo di maggiori risorse e possono danneggiare l’interesse pubblico, per questo affinché la
democrazia funzioni la politica deve difendere gli interessi più deboli che hanno più difficoltà ad
organizzarsi sottraendosi alle pressioni degli interessi più forti. Un’altra critica alla teoria dei gruppi è di
ritenere equivalenti tutti gli interessi in gioco rendendo il governo incapace di resistere alle pressioni
esterne vanificando il suo obiettivo di raggiungere il bene comune rimanendo catturato da interessi
particolaristici, ciò può portare al declino economico e politico.

4 I movimenti sociali.
Negli anni ’60 emergono nuovi attori della partecipazione: I movimenti sociali. Sono reti di interazioni
informali basate su credenze condivise e solidarietà che si mobilitano su tematiche conflittuali con varie
forme di protesta. Gli individui dei movimenti sociali non fanno parte di organizzazioni specifiche ma si
tratta di reti di relazioni tra attori diversi che condividono un sistema di credenze formando nuove
solidarietà, elaborando nuove visioni del mondo e valori alternativi, per questo i movimenti sono
considerati protagonisti del mutamento sociale. Nelle società contemporanee il tradizionale conflitto
marxiano capitale lavoro viene sostituito da nuovi conflitti tra generi, tra generazioni, sulla difesa
dell’ambiente naturale, la convivenza tra diverse culture, sono alcuni dei temi sui quali si formano i
movimenti sociali e che sono fonte di nuove conflittualità. I movimenti utilizzano una forma inusuale di
comportamento politico: la protesta una forma non convenzionale di azione che cerca innanzitutto il
sostegno da parte dell’opinione pubblica auspicando una democrazia più partecipativa e sfidando le
regole della democrazia rappresentativa.

5 L’evoluzione storica di gruppi e movimenti.


Il fenomeno dei gruppi non è tipico degli Stati moderni, già nel periodo dell’impero romano si erano
costituite le corporazioni costituite da persone che esercitavano la stessa professione ed avevano
privilegi monopolistici, nel Medioevo le gilde assunsero importanti funzioni di governo nei Comuni, in
seguito la classe operaia rivendicò il diritto a formare organizzazioni sindacali. Il sindacato nacque dal
movimento delle leghe e dalle società di mutuo soccorso per assistere i lavoratori e con essi
cominciarono le prime mobilitazioni collettive. A fine ‘800 si formarono i sindacati come associazioni di
categorie di lavoratori ed in seguito nacquero i sindacati industriali per difendere i lavoratori in generale.
La prima g.m. rafforzò le organizzazioni degli interessi: il prolungato stato di necessità indotto dalla
guerra determinò il loro coinvolgimento nelle decisioni pubbliche portando alla nascita della
contrattazione collettiva, aumentarono sia il numero degli iscritti ai sindacati che le associazioni
industriali. Dal secondo dopoguerra lo Stato assume un ruolo attivo nei negoziati tra le parti sociali
attraverso lo scambio politico cioè fornendo beni come sussidi, sgravi fiscali ottenendo in cambio
dall’altra parte il permanere dell’ordine sociale. Lo scambio politico è dunque uno scambio a tre tra
Stato, lavoratori ed imprese con il quale il sindacato diviene un soggetto del sistema politico.
Tradizionalmente la capacità di pressione maggiore viene esercitata dai gruppi più ricchi di risorse
costituiti dai ceti abbienti, tuttavia di recente si è osservata una generale crescita dei gruppi ed in

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particolare di quelli deboli che hanno trovato alleati. Circa l’effettivo potere esercitato dai gruppi appare
rilevante la loro capacità di inserire temi nell’agenda politica più che far provvedere alla loro soluzione.

6. Mobilitazione delle risorse.


Alla base dei movimenti sociali vi deve essere la mobilitazione delle risorse necessarie all’azione
collettiva cioè vi devono essere le condizioni che consentono di trasformare lo scontento in azione.
Salisbury elabora una teoria secondo cui nei gruppi di interesse ci devono essere ‘imprenditori’ dei
gruppi che investono risorse promuovendo i gruppi verso potenziali membri e consumatori che
aderiscono ai gruppi. Per quel che riguarda gli interessi deboli ci saranno altri attori come fondazioni
private o istituzioni pubbliche che mettono a disposizione risorse utili a tal fine. L’organizzazione ha un
ruolo notevole nel favorire la partecipazione e sopperisce quei casi in cui la partecipazione non è
supportata da uno status sociale elevato, quindi un gruppo ben organizzato può innalzare il livello della
sua attività al di sopra delle possibilità individuali dei propri membri compensando l’assenza di risorse
(come accade ad esempio in quei paesi dove la classe operaia ha una forte organizzazione). La
mobilitazione inoltre è favorita se esistono legami di solidarietà dovuti a rapporti affettivi che si
stabiliscono tra persone che condividono credenze e valori diffusi nel gruppo. Ricerche empiriche
mostrano come gli attivisti dei movimenti sociali spesso sono persone già attive ed integrate nella
società. L’adesione al movimento è favorita dall’inserimento degli attivisti in altre organizzazioni formali
che spesso operano come canali di reclutamento. Molti individui che partecipano ai gruppi hanno certe
caratteristiche simili e identiche relazioni sociali, come ad es. accade per gli operai che trascorrono
assieme il lavoro ed il tempo libero in quanto abitano tutti vicino alle fabbriche, per cui relazioni sociali
intense li portano a cooperare ed a riconoscere di avere interessi in comune rafforzando quella che
Marx chiamò la coscienza di classe. Lo sviluppo tecnologico ha accresciuto la capacità di organizzazione
dei movimenti con la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione che riduce i costi di coordinamento,
inoltre il progresso economico e la diffusione dell’istruzione hanno effetti positivi sulla propensione ad
associarsi.

7. Le opportunità politiche.
Non solo il processo di democratizzazione con il progressivo allargamento dei diritti civili, politici, sociali
ha aumentato le opportunità di partecipazione ai movimenti sociali, ma anche altri fattori come il
decentramento territoriale dei poteri che dà ai singoli movimenti maggiori possibilità di accesso nel
sistema decisionale. Così il decentramento dei poteri dello Stato alle regioni, da queste alle città, e dalle
città ai quartieri viene considerata un’apertura del sistema politico alle spinte provenienti dal basso. Un
altro fattore che contribuisce alla crescita dei movimenti sociali è l’accentuarsi della separazione dei
poteri esecutivo, legislativo e in particolare la maggiore autonomia del potere giudiziario, che consente
più punti di accesso ai movimenti, si pensi alle controversie tra istituzioni e movimenti decise dalla
magistratura. Le strategie prevalenti degli Stati verso i movimenti sono state esclusive vale a dire di
repressione dei conflitti o inclusive cioè orientate ad accogliere le nuove domande. In quei paesi dal
passato assolutista e dalla ritardata introduzione del suffragio universale hanno prevalso strategie
esclusive di divisione del movimento operaio (come in Francia e Germania ad es.) a differenza di altri
paesi che non hanno avuto tali esperienze come Gran Bretagna e paesi scandinavi che hanno adottato
strategie inclusive ed il movimento operaio è stato unito e moderato. I paesi con strategie esclusive
sarebbero inoltre più chiusi verso le nuove domande così ad es. in Italia la durezza della repressione
della contestazione studentesca degli anni ’60 contribuì a radicalizzare la protesta che sfociò nel
terrorismo, i regimi più inclusivi sono invece aperti a nuove domande. I movimenti sociali interagiscono
con vari attori della società civile venendo in contatto con alleati cioè attori politici che li sostengono e
altri attori con i quali entrano in conflitto. I movimenti possono sfruttare momenti di instabilità
elettorale o divisioni nelle elite per mobilitarsi sfruttando l’occasione propizia o se hanno alleati
all’interno delle istituzioni o del governo possono moderare le loro richieste, mentre il ricompattarsi
delle elite al potere tende a radicalizzare i movimenti.
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8 Pluralismo e neocorporativismo.

8.1 Elementi per una definizione.


La struttura di rappresentanza degli interessi è stata definita pluralista, prevede associazioni multiple,
volontarie, concorrenti e non gerarchiche, non sono né create dallo Stato né da esso controllate. La loro
attività comprende contatti con i partiti, il lobbying parlamentare, le campagne per mobilitare l’opinione
pubblica e a volte azioni di protesta. A partire dagli anni ’70 si inizia ad analizzare un modello di
rappresentanza degli interessi tipico ad es. dei paesi scandinavi detto di tipo neo corporativo che si
differenzia dal corporativismo autoritario degli anni tra le due guerre e che designa un sistema di
rappresentanza degli interessi costituito da singole unità, l’adesione è obbligatoria e con un
coordinamento gerarchico, esse sono riconosciute, sovvenzionate e controllate dallo Stato, i contatti con
il governo sono frequenti ed efficaci (v sch. p. 119). Un sistema pluralista ha una struttura frammentata
e con poche risorse e ha difficoltà a sviluppare programmi di lungo periodo, il sistema neo corporativo
ha poche e forti associazioni di grandi dimensioni e con molte risorse, capaci di sviluppare programmi di
lungo periodo. Mentre il sistema pluralista esercita pressione attraverso le lobby, il sistema neo
corporativo si avvale della concertazione tra interessi organizzati e istituzioni pubbliche per elaborare
assieme le decisioni.

8.2 Cause e conseguenze.


Da studi che hanno comparato nei diversi paesi indici di neocorporativismo e pluralismo emerge che
livelli più alti di neocorporativismo sono presenti in Austria, paesi scandinavi, bassi livelli e quindi alti
livelli di pluralismo in Italia, GB, SU. Le condizioni che favoriscono lo sviluppo di modelli neo corporativi
sono le piccole dimensioni dei paesi, economie molto integrate sul piano internazionale e quindi più
vulnerabili, forti partiti socialisti e forti organizzazioni degli interessi che hanno determinato un
crescente ricorso alla contrattazione centralizzata. Viceversa la frammentazione delle organizzazioni di
rappresentanza degli interessi ha ostacolato lo sviluppo dei modelli neo corporativi. Diverse ragioni nei
modelli pluralisti tengono divisi i sindacati ad es. ideologiche in Italia e Francia, etniche in Spagna, per
categorie occupazionali in GB. Il modello pluralista è stato criticato per l’eccesso di domanda che genera,
mentre il modello neo corporativo per la discriminazione verso i deboli, per la prevalenza delle categorie
economicamente più forti come quelle produttive, sulle altre categorie come consumatori, disoccupati,
studenti, ecc. Inoltre le burocrazie rappresentative prevalgono rispetto alla base come le gerarchie
rispetto alle strutture locali. I vantaggi del neocorporativismo sono la riduzione del conflitto sociale ed il
controllo dell’inflazione consentendo di realizzare scambi politici di moderazione salariale nel breve
periodo in cambio di politiche sociali e di protezione del lavoro nel lungo periodo, ottenendo così
obiettivi economici apparentemente contrastanti come pieno impiego, stabilità dei prezzi, competitività
internazionale.

CAPITOLO 5 TRA MILITANZA E BUROCRATIZZAZIONE: CHE COSA SONO I PARTITI


POLITICI

1 I partiti: una definizione.

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Per Weber i partiti sono associazioni fondate su una adesione libera che attribuiscono ai propri capi una
posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale e ai propri militanti vantaggi personali o possibilità
di perseguire propri fini. Il partito è quindi un’associazione orientata ad influenzare il potere. Mentre i
ceti attengono all’ordinamento sociale e le classi all’ordinamento economico, i partiti per Weber sono
legati alla sfera della potenza sociale. Weber intende la potenza come la possibilità di imporre il proprio
volere ad altri soggetti anche contro la loro resistenza. In particolare nelle democrazie occidentali i
partiti mirano all’occupazione delle cariche elettive, da cui la definizione di Antony Downs secondo cui i
partiti sono compagini di persone che mirano ad ottenere il controllo del governo a seguito di regolari
elezioni.

2 Le funzioni dei partiti.


1) Innanzitutto i partiti sono mediatori tra lo Stato ed i cittadini (istituzioni pubbliche e società civile).
Essi aggregano e rappresentano più interessi individuali a differenza dei gruppi di pressione che
rappresentano solo specifici interessi. 2) I partiti strutturano il voto incanalando le differenziazioni
politiche in pochi principali canali con i quali gli elettori si identificano. 3) I partiti svolgono una funzione
di socializzazione politica integrando i cittadini nella comunità e a volte inducendoli a sacrificare i propri
interessi per quelli della comunità. 4) I partiti consentono la funzione democratica di controllo dei
governati sui governanti, la presentazione dei candidati alle cariche pubbliche nelle liste dei partiti
consente agli elettori di conoscere la loro proposta politica e li responsabilizza verso gli elettori stessi. 5)
I partiti sono i principali protagonisti della formazione delle politiche pubbliche, elaborano i programmi,
li presentano agli elettori e con essi competono alle elezioni con gli altri partiti.

3 Alle origini dei partiti.


Alle origini delle democrazie parlamentari i partiti erano comitati elettorali organizzati da notabili che si
mobilitavano per proteggere singoli interessi. Fino al 19° secolo essi si costituivano attorno a notabili
come signori fondiari, avvocati, parroci, insegnanti, cioè a notabili che si occupavano di politica in modo
collaterale ma avevano un’altra attività principale e godevano di una certa considerazione sociale che
consentiva di attribuire loro uffici. L’elezione consentiva ai signori locali di controllare le risorse
provenienti dall’esecutivo per distribuirle in modo clientelare alla propria ristretta cerchia di elettori. I
partiti di notabili si attivano nella fase della campagna elettorale come dei comitati costituiti da una
dozzina di persone appartenenti ad una elite che è in grado con il proprio status sociale di attrarre altre
persone che si allineano sulla posizione politica di questi notabili. Il partito di notabili si basava su una
rappresentanza individuale cioè si limitava a rappresentare interessi di gruppi di elettori promuovendo
l’elezione di rappresentanti disposti a sostenere tali interessi, questo partito è tipico di una società con
un basso grado di partecipazione e resta inattivo nei periodi tra un’elezione e l’altra.

4. Il partito ideologico di massa.


La struttura dei partiti si modifica con la nascita dei partiti di massa caratterizzati da un apparato
burocratico che si avvale di funzionari a pagamento. L’estensione dei diritti politici ai non notabili cioè a
coloro che non dispongono di risorse attraverso cui finanziare la propria attività politica porta alla
professionalizzazione della politica. Con il partito burocratico di massa si afferma la figura del politico di
professione, per Weber chi vive di politica ed è sprovvisto di rendite e patrimoni ha maggior interesse
alla causa della politica e all’idealismo politico in quanto non è interessato alla conservazione economica
della società come possono esserlo i notabili. I partiti di massa sono organizzati per sezioni e non per
comitati, la sezione a differenza del ristretto comitato di notabili è aperta a tutti e mira ad aumentare il
numero degli iscritti a prescindere dalla loro capacità di influenza sociale, inoltre le cariche non sono
onorifiche ma corrispondono ad una reale divisione del lavoro. Una struttura tipica dei partiti comunisti
è la cellula che coinvolge gli operai delle grandi fabbriche in progetti politici più ampi, la cellula è un

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organismo permanente che non concentra le proprie attività come il partito di sezione in riunioni
periodiche, ma è una comunità attiva ogni giorno nelle fabbriche dove gli operai lavorano. Il partito nelle
moderne democrazie svolge una funzione di integrazione sociale e di costruzione dell’identità per i
propri aderenti. I partiti socialisti esercitano un’influenza nei vari aspetti della vita quotidiana attraverso
un reticolo di associazioni vicine al partito che organizzano la vita dell’iscritto e non solo il suo
orientamento elettorale offrendo solidarietà, mutuo appoggio e un’identità riconosciuta dai compagni e
dal resto della società. Alla base del processo di identificazione vi è l’ideologia che salda la convinzione di
condividere fini comuni e rafforza il potere dei leader che conoscono la dottrina e sono in grado di
applicarla

5. Fratture sociali e partiti politici.


I partiti politici presenti in ciascun paese, secondo Rokkan, riflettono fratture sociali che si sono
storicamente presentate: due conflitti si sono presentati nel processo di costruzione dello stato
nazionale: un conflitto tra stato centralizzante contro la resistenza delle popolazioni sottomesse delle
periferie e province e un conflitto dello Stato contro i privilegi storici della Chiesa e due conflitti sono
stati prodotti dalla rivoluzione industriale: un conflitto tra interessi agrari e imprenditori industriali ed un
conflitto tra capitalisti (proprietari agricoli e datori di lavoro) e lavoratori (braccianti e operai).

5.1 La frattura centro periferia.


Il centro è l’area di territorio privilegiata da dove i detentori di risorse economiche, politiche, culturali
emanano decisioni, mentre la periferia è la parte di territorio distante dai luoghi dove si prendono le
decisioni politiche ed è economicamente dipendente dal centro e culturalmente differente dal centro.
Le molte tensioni tra centro e periferia di rado sfociano in una politicizzazione del conflitto, tuttavia
fattori culturali come una lingua propria e diversa contribuiscono a creare una identità territoriale
alimentata da partiti regionalisti che mirano ad esaltare le diversità culturali e di storia rivendicando
forme di autogoverno.

5.2 La frattura Stato Chiesa.


La costruzione dello Stato nazione provocò un aspro conflitto tra Stato e Chiesa, entrambi intendevano
affermare le proprie prerogative nei campi del controllo della morale e delle norme sociali e quindi
poter controllare ad esempio la celebrazione del matrimonio, la concessione del divorzio, e soprattutto
l’istruzione che il potere temporale avocava per sé ma con l’affermarsi dell’istruzione obbligatoria essa
passò sotto il controllo dello Stato provocando proteste. Nacquero così partiti come in Italia il partito
popolare e poi la democrazia cristiana che espressero le richieste di buona parte dei cattolici.

5.3 La frattura città campagna.


La rivoluzione industriale approfondì il contrasto tra aree rurali ed urbane dando luogo a schieramenti
politici contrapposti all’interno dei parlamenti tra partiti conservatori agrari e partiti liberali radicali, un
tema particolarmente aspro di contrasto era costituito dalle barriere doganali per proteggere i prezzi
della produzione agricola nazionale.

5.4 La frattura capitale lavoro.


La rivoluzione industriale non portò solo ad uno scontro tra campagne e città ma anche un conflitto
interno all’industria tra imprenditori e classe operaia. In tutte le democrazie europee i lavoratori
tentarono di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro fondando partiti che chiedevano maggiori
tutele allo Stato. Sul tema dell’intervento dello Stato per ridurre le disuguaglianze sociali si è sviluppata

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la contrapposizione tra partiti di destra e di sinistra, con la destra favorevole ad un minor intervento
dello Stato e minore tassazione e la sinistra favorevole ad un maggior intervento dello Stato nei servizi
sociali. Le classi dirigenti che reagirono alle rivendicazioni dei partiti operai con la repressione come in
Italia, Austria, Francia, Spagna provocarono la radicalizzazione della contrapposizione politica in quanto
le riforme anche graduali apparivano poco realizzabili, mentre dove le elite furono più aperte come in
Gran Bretagna e paesi scandinavi si ebbe la formazione di partiti laburisti moderati.

5.5 Le famiglie di partiti.


Von Beyme ha introdotto il concetto di famiglie spirituali di partiti: 1) partiti liberali e radicali: dal 19°
secolo difesero gli interessi della borghesia contro i proprietari terrieri, i diritti civili come la proprietà
privata e i radicali rivendicarono l’estensione dei diritti politici assumendo posizioni anticlericali, ancora
oggi mirano a limitare l’intervento dello Stato in economia e nella società, 2) partiti conservatori:
emersero per difendere gli interessi dei proprietari terrieri e del clero in opposizione ai liberali, contrari
all’estensione dei diritti civili e politici erano fedeli ai diritti tradizionali sostenendo l’ordine e la
stratificazione sociale, i partiti conservatori attuali sono per la deregolamentazione e la limitazione
dell’intervento dello stato come i liberali, rimanendo ostili all’estensione dei diritti civili e politici 3)
partiti socialisti e socialdemocratici: nacquero nel 19° secolo all’esterno dei parlamenti in stretto
contatto con i sindacati per sostenere la classe operaia e le rivendicazioni dei diritti politici e sociali,
intendevano trasformare il sistema capitalista all’interno delle procedure democratiche, alcuni partiti
socialisti nel 2° dopoguerra assunsero la denominazione di socialdemocratici rinunciando alla
socializzazione dell’economia e sostenendo le tesi keynesiane 4) partiti democristiani: formatisi nel 19°
secolo in opposizione alle democrazie liberali per sostenere in particolare le tesi della chiesa cattolica,
assunsero posizioni conservatrici, pur favorevoli ad alcuni diritti sociali rimasero contrari a diritti civili
come il controllo delle nascite e in tema di diritto di famiglia, 5) partiti comunisti: fondati dopo la
rivoluzione russa per scissione dal partito socialista, vicini alle posizioni sovietiche e contrari
all’intervento nella prima guerra mondiale, convinti della necessità di una rivoluzione sociale molti
partiti comunisti hanno poi compiuto un processo di revisione accettando le regole della democrazia e
l’economia capitalista. 6) partiti agrari: nati per difendere gli interessi delle campagne nel periodo della
rivoluzione industriale, hanno avuto vita breve confluendo poi in altri partiti, avevano assunto una
connotazione conservatrice tranne che nei paesi scandinavi dove si erano avvicinati alle posizioni della
sinistra. 7) partiti etnoregionalisti: nati in difesa delle minoranze etno linguistiche furono in
contrapposizione con i liberali assertori della centralità dello Stato nazione, 8) partiti della destra
radicale: insieme di partiti anti democratici e anti liberali in passato costituiti dai partiti fascisti, oggi ci si
riferisce ai partiti xenofobi e populisti, hanno tra i loro temi principali la legge, l’ordine e il controllo
dell’immigrazione, 9) partiti ecologisti: nati negli anni ’80 sostengono la necessità di uno sviluppo
sostenibile e compatibile con la difesa dell’ambiente dall’inquinamento, sono allineati a sinistra perché
condividono con i socialisti una sfiducia nel mercato e nell’investimento privato e la fiducia nella
redistribuzione egualitaria.

5.6 Fratture e ‘congelamento’.


Rokkan e Lipset osservano come i partiti originatisi dalle fratture sociali degli anni ’20 sono rimasti da
allora gli stessi se si esclude il partito ecologista, inoltre anche la loro forza è rimasta sostanzialmente
invariata al punto da far parlare di stabilità elettorale o congelamento, come dimostrato anche dalle
analisi sullo spostamento dei voti tra destra e sinistra, la cd volatilità, sia tra i due blocchi che interna a
ciascuno dei due. Le ragioni del congelamento sono molteplici: l’incapsulamento dei conflitti sociali ha
avuto nel lungo periodo un effetto positivo che ha ridotto le possibili esplosioni violente riconducendo i
conflitti all’interno di regole del gioco condivise.

6 Una legge ferrea delle oligarchie?

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All’inizio del 20° secolo Michels descrive alcune degenerazioni dei partiti di massa analizzando in
particolare il partito socialista. Tali partiti al momento della loro comparsa dichiarano di voler cambiare
le cose, ma poi ciò non accade, questo avviene per una legge ferrea che porta alla trasformazione dei
partiti da strutture democratiche aperte verso la base in oligarchie dove comanda un ristretto numero di
dirigenti: Michels afferma che l’organizzazione del partito è la madre del potere degli eletti sugli elettori.
Guidare un’organizzazione complessa richiede competenze specifiche che vengono inevitabilmente
concentrate in una oligarchia, se in origine i diritti alle cariche elettive e al voto sono accessibili a tutti, la
specializzazione tecnica comporta il delegare poteri ai capi che all’inizio sono organi esecutivi della
massa ma poi divengono indipendenti da essa. L’oligarchia nasce da un bisogno di efficienza
dell’organizzazione che diviene sempre più burocratizzata ed ha necessità di competenze specialistiche.
Inoltre chi occupa cariche di rilievo tende ad imborghesirsi allontanandosi dai lavoratori, gli eletti si
trasformano in funzionari di partito retribuiti e sollevati ad un rango sociale più elevato. Il parlamentare
comincia ad interpretare il suo ruolo in funzione dei vantaggi personali che ne possono derivare, ne
segue spesso una mutazione dei fini del partito che divengono sempre più moderati ed orientati alla
sopravvivenza del partito più che a modificare l’ambiente circostante. La legge ferrea delle oligarchie è
stata criticata da diversi punti di vista. Per Panebianco i dirigenti se è vero che possono controllare i
militanti, questi ultimi dispongono però di risorse specifiche, inoltre le ideologie politiche alla base
rappresentate dai partiti non sono manipolabili. Tuttavia ricerche hanno dimostrato che il potere dei
rappresentanti è cresciuto rispetto ai rappresentati, inoltre vi è stata nelle democrazie occidentali una
diminuzione del numero degli iscritti e le decisioni rilevanti per la vita del partito vengono prese in
maniera poco trasparente dalla dirigenza del partito.

7 Il partito pigliatutto e l’elettorato volatile.


Seguendo l’evoluzione dei partiti nel 2° dopoguerra, Kircheimer ha elaborato il concetto di partito
pigliatutto che si caratterizza: per la riduzione del contenuto ideologico, il rafforzamento della dirigenza,
la preponderanza del ruolo del partito piuttosto che quella del singolo membro di partito, il rivolgersi
agli elettori in generale piuttosto che ad una specifica classe sociale, apertura a più gruppi di interesse.
Questo tipo di partito concentra tutte le sue energie nella competizione elettorale e questa priorità gli fa
perdere di vista il rapporto con la classe sociale di riferimento cercando il sostegno anche di altre classi e
gruppi di interesse in quanto il principale obiettivo è prendere voti. Il partito pigliatutto si afferma in
seguito a trasformazioni sociali e culturali quando il benessere economico attenua il conflitto di classe e i
sentimenti di appartenenza di classe inducendo i partiti a cercare il più vasto consenso elettorale. Il
comportamento elettorale è stato analizzato negli anni ’40 da due principali scuole americane: la scuola
di Columbia nata attorno agli studi di ricerca di Paul Lazarsfeld che ha sottolineato il ruolo del gruppo
socioeconomico di appartenenza nel voto cioè l’influenza di norme e valori dominanti nei diversi gruppi
sociali, per Lazarsfeld lo status socio economico, la famiglia, la religione, il luogo di residenza sono i
principali fattori della decisione di voto, la scuola di Michigan ha invece sottolineato il ruolo della
psicologia individuale nel determinare le scelte di voto in base a tematiche e programmi politici proposti
dai partiti che influenzerebbero l’elettore, oltre ai valori di identificazione con il partito assimilati dai
propri genitori. La ricerca attuale mostra uno sfaldamento dell’elettorato di appartenenza e aumenta
invece sia l’elettorato di opinione che vota anche cambiando partito da un’elezione all’altra sulla base di
tematiche specifiche che l’elettorato di scambio che scambia il proprio voto con favori. Secondo una
recente ricerca sulle democrazie avanzate la percentuale di coloro che si identificano con i partiti è in
declino, inoltre è in declino l’influenza della classe sociale sul voto. I più recenti approcci razionali alla
politica tendono ad attribuire all’elettore una capacità di valutazione delle performance dei politici, per
cui egli premierà i governi che avranno assicurato un certo benessere e punirà i governi che riterrà
responsabili di peggioramenti delle condizioni di vita. Aumenta quindi la volatilità elettorale, la
percentuale cioè di elettori che cambia partito specie dagli anni ’90 dopo il crollo del socialismo reale e
dopo l’ondata di scandali che ha investito molte democrazie occidentali (ad es. l’Italia nel ’92), è inoltre
in aumento l’astensionismo elettorale.

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8 Partiti mediali?

8.1 Il partito professionale-elettorale.


Il partito professionale-elettorale per Panebianco ha le stesse caratteristiche del partito pigliatutto con
in più invece che la burocrazia di partito esperti specializzati nel rapporto con gli elettori. Il progresso
socioeconomico e tecnologico modifica il rapporto tra partiti ed elettori: si riduce il ruolo degli attivisti,
le richieste degli elettori non sono più recepite dalle sezioni ma dai sondaggi, la propaganda viene
diffusa dai mass media come la televisione che collega i partiti agli elettori (vedi schema pag. 153).
Questo tipo di partito è debole da un punto di vista organizzativo, è influenzato dalle domande
provenienti dall’esterno e non è in grado di proporre un’identità né programmi di lungo periodo, punta
a strategie di marketing affinando le tecniche di comunicazione televisiva avvalendosi di consulenti che
preparano i candidati curando l’immagine del partito e del candidato nelle campagne elettorali.

8.2 Il cartel party.


Secondo alcuni studiosi vi è stato un declino dei partiti nella società compensato da un rafforzamento
dei partiti nelle istituzioni cresciuto in parallelo al finanziamento pubblico. A questo proposito il concetto
di cartel party sottolinea la crescente collusione tra i partiti che attraverso alleanze (cartelli appunto) si
accordano per ottenere risorse pubbliche. I militanti riducono l’impegno nei partiti sia in termini di
lavoro che di contributi impegnandosi in altre organizzazioni meno burocratizzate come il volontariato,
così i partiti devono cercare altrove risorse finanziarie per cui il finanziamento pubblico ai partiti pur
variando da paese a paese costituisce oggi una delle maggiori risorse.

9. Sistemi di partito e competizione.

9.1 Il numero dei partiti.


Per Duverger i sistemi di partito si distinguono in: 1)sistema monopartitico che caratterizza i regimi
autoritari detti infatti a partito unico, 2)sistema bipartitico caratterizzati dalla presenza di due soli partiti
(SU, GB, Colombia, Costa Rica e Malta), considerati particolarmente efficienti e dove l’elettorato elegge
direttamente il governo, le responsabilità per il buongoverno o malgoverno sono facilmente attribuibili,
non si perde tempo in negoziati per cercare coalizioni, l’aspettativa dell’alternanza rende moderati
governo e opposizione 3)sistemi multipartitici con la presenza di più partiti (da 3 a 5 in paesi come
Germania, Irlanda, Norvegia, Paesi bassi, Austria, Francia, ecc. e oltre 5 in paesi come Belgio, Italia,
Finlandia, Svizzera, ecc.), le coalizioni sono eterogenee e instabili ed è più difficile per l’elettore attribuire
meriti e demeriti. La legge elettorale maggioritaria a turno unico favorisce il bipartitismo, mentre il
sistema proporzionale favorisce il multipartitismo, è da osservare comunque che può essere
semplicistico associare l’ingovernabilità al multipartitismo e la stabilità al bipartitismo ma subentrano
altri fattori come ad es. la dimensione dei partiti.

9.2 Come contare i partiti.


Sartori ha proposto due correttivi alla teoria di Duverger che riguardano il modo come contare i partiti
per cui un partito conta se ha 1) potenziale di coalizione se cioè è necessario per determinare la
maggioranza d governo, 2) potenziale di ricatto se il partito è abbastanza grande per influenzare le
tattiche della competizione tra partiti.

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9.3 Numero di partiti e polarizzazione ideologica
Per Sartori più che dal numero dei partiti il sistema partitico è influenzato dalla polarizzazione ideologica
cioè la collocazione degli elettori lungo l’asse destra-sinistra. Sartori distingue tre tipi di sistemi
monopartitici: partito singolo (un solo partito legale), partito egemonico (quando anche altri partiti sono
legali ma satelliti di un unico partito principale con cui non possono competere per il potere), partito
predominante (quando gli altri partiti possono competere e andrebbero al governo in caso di vittoria
elettorale, ma nei fatti non riescono a vincere mai). Il sistema bipartitico si ha quando 1) due partiti sono
effettivamente in grado di competere ed almeno uno ottiene la maggioranza e può governare da solo, 2)
è realizzabile l’alternanza. Il sistema multipartitico prevede 1)il multi partitismo o pluralismo moderato
che si ha quando ci sono meno di 5 partiti che contano, la struttura di governo è bipolare ed è costituita
da governi di coalizione, 2)il pluralismo polarizzato con più di 5 partiti, compresi partiti antisistema che
cambierebbero cioè non il governo ma la forma di governo non condividendo i valori dell’ordine politico
in cui operano, presenza di due opposizioni che non potrebbero allearsi tra loro, il centro è occupato,
cioè il sistema è basato sul centro, ci sono due poli a destra e sinistra per cui il sistema è
ideologicamente polarizzato, i partiti di destra e di sinistra si allontanano dal centro e restano sulle loro
posizioni in quanto temono di perdere elettorato alle ali estreme se si spostassero al centro senza
guadagnare elettorato moderato, emergono opposizioni irresponsabili perché sono consapevoli che non
verranno chiamate al governo, anche il partito di centro avrà scarsa responsabilità non potendo essere
escluso dal governo, un altro sistema multipartitico Sartori lo ha poi definito come multipartitismo
segmentato con più di 5 partiti e bassa polarizzazione ideologica.

9.4 Pluralismo polarizzato e caso italiano.


Per Sartori il pluralismo polarizzato ha riguardato almeno fino agli anni ‘70 l’Italia con pci e msi partiti
antisistema posizionati alle ali estreme, i partiti più di 5, la dc con altri partiti occupava saldamente il
centro, ma altri autori come Pizzorno hanno criticato questa tesi sostenendo che il pci non poteva
essere considerato antisistema perché non si poneva in alternativa al regime democratico e si
dimostrava fedele alla costituzione, inoltre molte leggi passavano con il voto favorevole
dell’opposizione. Discorso simile si poteva fare per l’msi. Inoltre a partire dagli anni ’90 con la nascita di
an e dei ds si è avuto un avvicinamento di questi partiti verso il centro.

9.5 Quale competizione oggi: bipolarismo o dispersione?


Ultimamente in molti paesi europei si è assistito ad un aumento della frammentazione dei partiti, in
Italia l’introduzione del sistema maggioritario nel ’94 non ha portato ad una riduzione del numero dei
partiti a causa del permanere di una quota proporzionale, per il formarsi di coalizioni puramente
elettorali, per effetto degli scandali politici. Inoltre ovunque in Europa i partiti antisistema sono in
declino, si è parlato infatti di una moderazione ideologica, ma nonostante la riduzione dell’asprezza del
conflitto ideologico sembra essersi ridotta la capacità di governo dei partiti.

CAPITOLO 6: TRA MAGGIORANZA E CONSENSO: CHE COSA È LA RAPPRESENTANZA.

1. Rappresentanza: alcune definizioni.


Le democrazie moderne sono democrazie rappresentative. Il sistema rappresentativo ha forti elementi
di oligarchia nel senso che solo una piccola elite prende le decisioni, esse sono quindi delegate ai
professionisti della politica a differenza delle città greche dove un piccolo numero di cittadini si riuniva e
decideva delle cose che li riguardavano. La rappresentanza può assumere tre significati: 1) la r. come

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mandato o delega, nella concezione giuridica, sta ad indicare un preciso mandato che affida al
mandante un compito in base alla delega conferitagli dagli elettori che poi possono ritirarla. Nello stato
moderno il mandato imperativo è stato superato in nome della r. indipendente, cioè mentre nell’antico
regime il rappresentante era delegato dai vari corpi sociali, la r. moderna è in nome della popolazione
nella sua globalità, cioè rappresenta il corpo elettorale. Ne consegue che i rappresentanti non seguono
più istruzioni scritte ma interpretano la loro funzione seguendo gli interessi generali della nazione. La
costituzione francese del 1791 attribuisce ai rappresentanti il potere di rappresentare l’intera nazione e
di decidere a suo nome senza vincolo di mandato, concetto ripreso dalla costituzione italiana all’art. 67,
2) una concezione sociologica della r. la assimila alla rappresentatività cioè alla somiglianza, alla base di
questa concezione vi è il fatto che ciascuno si sente rappresentato da chi proviene da una stessa
estrazione sociale, per cui i diversi gruppi sarebbero rappresentati o sotto rappresentati a seconda che la
distribuzione sociale della classe politica rispecchi o meno la composizione della società. La teoria del
parlamento specchio della società è stata ritenuta insufficiente al fine di realizzare la democrazia in
quanto seppure fosse realizzata non è detto che recepirebbe le richieste provenienti dalla società, 3) la
r. come responsabilità indica una concezione politica secondo cui i rappresentanti devono essere
responsabili verso i rappresentati per cui i governi rispondono verso i rappresentati del loro operato e si
devono comportare con efficienza e competenza. La r. politica investe i rappresentanti dell’autorità di
governare in nome e nell’interesse dei cittadini verso i quali si assumono una responsabilità politica.

2. L’evoluzione storica del parlamento.


Il Parlamento è la principale istituzione della r.. Prototipi del parlamento erano presenti anche prima che
si affermasse la democrazia: il potere decentrato tipico dell’organizzazione feudale si bilanciava con la
presenza di autorità più accentrate che furono realizzate prima con corti ristrette del sovrano costituite
dai grandi feudatari, poi si costituirono istituzioni dove erano rappresentati territori da attori sociali
rilevanti, tra il 12° ed il 16° secolo questi organi assunsero funzioni di controllo dell’operato del sovrano
e entrarono a farvi parte anche rappresentanti delle città per esercitare un controllo sull’impiego da
parte del sovrano dei tributi da essi versati. Le monarchie assolute tra il 16° d il 17° secolo ridussero il
ruolo dei parlamenti se si eccettua il parlamento inglese che uscì rafforzato dopo la rivoluzione del 1688
e che fu di esempio per le monarchie costituzionali nate dopo l’assolutismo. I regimi parlamentari nel
19° secolo sostituirono le monarchie costituzionali e si fondarono sulla responsabilità del governo
dinanzi al parlamento. Nei parlamenti moderni la funzione di r. dei cittadini sulla base di un preciso
mandato perde di rilevanza e si afferma la funzione del parlamento di governare sui cittadini portando
ad una maggiore autonomia dei rappresentanti dai rappresentati. I parlamenti moderni hanno la
funzione principale di controllo dell’operato dei governi e sono quindi assemblee rappresentative che
hanno un potere di intervento sulle scelte politiche al fine di garantire la rispondenza con la volontà
popolare. Il parlamento moderno è dunque un’assemblea rappresentativa dalla struttura ampia,
collegiale ed egualitaria, è permanente cioè si riunisce stabilmente e si può anche auto convocare, il suo
mandato è limitato nel tempo ed è pluralista nel senso che nell’assemblea sono presenti le minoranze.

3 I parlamenti: strutture e tipologie.


Una prima distinzione è tra parlamenti monocamerali, dotati appunto di una sola camera e bicamerali
dove la seconda camera può avere funzioni più limitate rispetto alla prima (come la camera dei lord
britannica) o può avere poteri simmetrici (come in Italia), nei sistemi federali la seconda camera può
avere competenze specifiche territoriali ed essere eletta dagli stessi cittadini o dai governi federati,
spesso come ad esempio in Italia la seconda camera può rallentare il processo decisionale. Le
commissioni spesso aumentano l’efficienza delle camere, operano per gruppi di lavoro e rispecchiano la
composizione dei partiti nel parlamento, in Italia hanno poteri considerevoli ad esempio possono
approvare le leggi. Gli eletti si riuniscono in base all’appartenenza partitica in gruppi parlamentari che
sono i principali soggetti collettivi della vita parlamentare anche se varia molto la possibilità per i partiti
di controllare il comportamento di voto dei singoli parlamentari. Il numero dei partiti influenza la
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capacità decisionale del governo, se aumenta la frammentazione dei partiti c’è pluralismo e più
autonomia del parlamento dal governo ma anche più ostacoli alla rapidità delle decisioni. Si distingue
quindi un parlamento avversariale che tende ad essere monocamerale, con scarso potere delle
commissioni e sistema bipartitico con scarsa autonomia del parlamento e parlamento policentrico che è
bicamerale, con commissioni forti, molti partiti e maggiore autonomia del parlamento dal governo.

4 Le forme di governo.
La teoria della divisione dei poteri assegna al parlamento la funzione legislativa e al governo l’esecutiva,
in realtà il governo condivide la funzione legislativa con il parlamento. La divisione dei poteri tra
parlamento e governo varia nelle diverse forme di governo. Nei governi parlamentari il potere esecutivo
è diviso tra capo dello stato e capo del governo, il parlamento elegge il capo dello stato che nomina il
governo, ma questo deve ricevere la fiducia del parlamento. Nei sistemi bipartitici il capo dello stato
assegna il compito di formare il governo al segretario del partito che vince le elezioni, nei sistemi multi
partitici il capo dello stato deve avviare spesso consultazioni tra i leader di partito per poter assegnare il
compito di formare il governo per questo i governi sono più instabili, le crisi di governo più lunghe e i
governi durano in carica di meno. La funzione legislativa assegnata al parlamento negli ultimi anni si è
indebolita a vantaggio del rafforzamento dell’esecutivo con l’emanazione di regolamenti, e il ricorso ai
decreti legge e alla legislazione delegata. Ai parlamenti restano importanti funzioni di controllo del
governo con le presentazioni di mozioni, interpellanze, interrogazioni, l’esame della legge di bilancio, il
voto di fiducia e di sfiducia. Nel sistema presidenziale il presidente è capo dello stato e del governo,
eletto dai cittadini ha una posizione di superiorità sui ministri che nomina e revoca, il presidente non
può sciogliere le camere e queste non possono sfiduciare il presidente se non per attentato alla
costituzione. Il parlamento può ritardare l’iter dei disegni di legge di iniziativa presidenziale se non li
condivide ed il presidente può porre il veto ai progetti di legge di iniziativa parlamentare per la cui
approvazione occorrerà una maggioranza qualificata di due terzi. Nelle forme di governo
semipresidenziali il presidente eletto dai cittadini non è titolare esclusivo del potere esecutivo che
condivide con il primo ministro a sua volta nominato dal presidente. Il presidente può sciogliere le
camere, ma il parlamento non può sostituire il presidente, ma può metterlo in stato d’accusa. Per Linz
nei sistemi parlamentari il parlamento è l’unica istituzione legittimata in quanto il governo viene
legittimato dalla fiducia del parlamento che deve mantenere per tutta la legislatura, nei sistemi
presidenziali il presidente ha poteri notevoli: il potere esecutivo ed è capo dello Stato, viene eletto dal
popolo e non dipende dal voto di fiducia del parlamento. Il presidente ed il parlamento eletti godono
entrambi di una propria legittimità, il sistema è quindi di doppia legittimità democratica, è inoltre un
sistema rigido in quanto presidente e parlamento permangono in carica per un periodo di tempo
prestabilito ed indipendente. Vantaggi del sistema presidenziale sono ritenuti la maggiore stabilità e
responsabilità verso gli elettori e la riconoscibilità di meriti e demeriti del governo. Circa la stabilità il
governo non può essere rovesciato prima della fine del mandato e non deve cercare sostegno in
parlamento. Tuttavia la doppia legittimità può creare problemi di governabilità se il presidente non ha la
maggioranza in parlamento. Circa la responsabilità in realtà i candidati presidenti sono spesso meno
conosciuti dagli elettori e la clausola di non rieleggibilità li rende irresponsabili verso gli elettori in
quanto non potrà da loro essere punito per i suoi insuccessi né premiato per i suoi successi. In
conclusione il presidenzialismo comporta sia accentramento del potere ma anche separazione del
potere in quanto è legittimato anche il parlamento e paradossalmente questo può limitare i poteri del
presidente, recenti ricerche hanno dimostrato che i sistemi parlamentari offrono maggiori garanzie per
la democrazia.

5. Modelli di rappresentanza tra maggioranza e consenso.


Si ritiene che il sistema proporzionale sia il più adatto a rappresentare, il sistema maggioritario più
adatto a governare, si sono quindi sviluppati due modelli di democrazia che hanno privilegiato l’una o
l’altra funzione: un modello maggioritario dove i rappresentanti raggiungono le decisioni in base ad un
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principio di maggioranza ed uno consensuale critico verso il modello maggioritario perché non attento
alle esigenze delle minoranze, sottolinea l’importanza del compromesso per la risoluzione pacifica dei
conflitti. Per Lijphart il modello maggioritario che caratterizza il sistema inglese detto per questo anche
modello Westminster consiste in otto principali elementi: accentramento del potere in governi
monopartitici con maggioranze risicate e un’ampia minoranza, predominio dell’esecutivo che adotta le
principali decisioni, quasi tutto il potere è detenuto da una sola camera, sistema bipartitico, un’unica
linea di conflitto lungo l’asse destra-sinistra, sistema elettorale maggioritario, sistema di governo
unitario e centralizzato, sovranità parlamentare e costituzione non scritta. Per Lijphart il modello
consensuale si caratterizza per la ricerca del più ampio accordo nelle scelte politiche e la maggior tutela
delle minoranze, prevede: il potere esecutivo condiviso in governi di grandi coalizioni, la separazione dei
poteri con l’indebolimento dell’esecutivo rispetto all’assemblea, bicameralismo a tutela delle
minoranze, sistema multipartitico, diverse linee di conflitto basate su fattori religiosi, di classe, ecc.,
rappresentanza proporzionale, ampio decentramento, costituzione scritta modificabile solo da
maggioranze qualificate e con possibilità di veto per le minoranze. Il modello maggioritario appare
adatto a paesi con società omogenee e partiti poco distanti tra loro, il modello consensuale favorisce la
ripartizione del potere tra maggioranza e minoranza e si afferma in società plurali con molte divisioni
ideologiche, religiose, culturali, ecc., in particolare il caso italiano descritto come una democrazia
consociativa vede la divisione principale sul piano ideologico tra cultura cattolica e socialista.

6. Il governo di partito.
La relazione tra partiti e politiche del governo è cruciale nella democrazia rappresentativa in quanto se i
partiti promettessero certe politiche agli elettori ma poi formassero governi che realizzassero altro
vanificherebbero il diritto di voto degli elettori. Perché vi sia governo di partito (party government) per
Robert Katz è necessario 1)che tutte le decisioni di governo siano prese da persone scelte nel corso delle
elezioni, 2)che le politiche siano decise dal partito o dalla coalizione di governo: tra partiti e governi ci
possono essere vari gradi di autonomia, in particolare i governi acquisiscono autonomia dai partiti nelle
situazioni di emergenza o su problematiche tecniche, in generale ricerche condotte nelle principali
democrazie occidentali mostrano una certa coerenza tra programmi elettorali dei partiti e programmi di
governo, 3)che le cariche principali di governo siano affidate a personalità selezionate all’interno dei
partiti, su questo ricerche evidenziano un rafforzamento dei politici nelle istituzioni rispetto ai politici
con cariche nei partiti e spesso la leadership dei partiti proviene dalle istituzioni piuttosto che dalla base
del partito. I partiti hanno un ruolo importante nella selezione dei governanti, tuttavia anche se partiti
coesi sono in grado di esercitare un certo controllo sui propri rappresentanti, a volte essi sono solo
formalmente nominati dai partiti ma espressione di gruppi di interesse.

7. Competizione e coalizioni.
Le coalizioni di governo si formano quando nessun partito ottiene la maggioranza assoluta dei seggi, la
scienza politica soprattutto americana ha analizzato la coalizione minima vincente, cioè l’aspettativa
basata sulla teoria dei giochi che porta ad allearsi il numero minimo di partecipanti necessari senza
accrescere inutilmente il numero di coloro che si ‘divideranno’ i vantaggi. In realtà studi empirici hanno
dimostrato che spesso le coalizioni sono sovradimensionate specie nelle democrazie dove la
frammentazione partitica è maggiore, mentre il principio della coalizione minima vincente tende a
funzionare nelle situazioni a bassa frammentazione partitica. I partiti che entrano a far parte delle
coalizioni possono impegnarsi a perseguire diversi obiettivi 1) vote seeking, cioè ricerca di voti, 2) office
seeking cioè ricerca di cariche pubbliche, 3) policy seeking cioè tentare di realizzare determinate
politiche. Il far parte di coalizioni non garantisce la possibilità di realizzare determinate politiche ed a
volte i partiti preferiscono uscire dalle coalizioni se temono che certe politiche possano far perdere
elettorato o preferiscono appoggiare il governo dall’esterno.

25
8. Governo e congiuntura economica.
Studi hanno rilevato l’esistenza di vincoli socio economici che pongono limiti all’azione dei governi, per
cui le politiche pubbliche sono influenzate più dal grado di sviluppo economico che dal colore dei
governi. Di recente le politiche economiche dei governi nazionali hanno trovato limiti nella
globalizzazione. La competizione sul mercato mondiale induce i paesi ad aumentare la capacità di
attrazione degli investimenti riducendo la spesa sociale per detassare i profitti, deregolamentando il
mercato del lavoro aumentando la flessibilità del lavoro, le scelte dei governi nazionali sono vincolate da
istituzioni come l’UE che decide su questioni di politica economica e sociale. Nonostante la crescente
interdipendenza economica altre ricerche indicano che persistono notevoli differenze che dipendono
dall’ideologia dei partiti di governo: i governi di sinistra cercano di aumentare la produttività del lavoro e
del capitale con interventi nel settore pubblico, i governi conservatori puntano ad aumentare gli
investimenti privati. Nonostante una convergenza nei programmi socioeconomici dei partiti, l’ideologia
del partito al governo influenza ancora oggi le sue strategie specie in tema di politiche redistributive e di
intervento dello Stato in economia.

9. Partitocrazia e caso italiano: un excursus.


Circa l’uso che i partiti fanno dei posti occupati nelle istituzioni di governo, per il caso italiano si è parlato
di un particolare tipo di governo di partito: la partitocrazia cioè un controllo ampio sulle risorse e sui
processi decisionali al punto da poter parlare di un vero dominio dei partiti stessi. Il sistema partitocatico
italiano controllava i gruppi di pressione che contavano solo se avevano rapporti clientelari con i partiti,
controllava i tecnici e la società civile, distribuiva posti di lavoro e facilitava carriere sia nel settore
pubblico che privato, l’occupazione partitica della società se all’inizio poteva avere lo scopo di
coordinare la politica economica, divenne poi un modo per far confluire rendite ai partiti. La corruzione
politica ha accelerato l’indebolimento dei partiti rispetto agli amministratori di risorse pubbliche che
hanno acquisito potere politico e risorse personali. Il ruolo del partito è diventato quello di assegnare
politici corrotti ai posti chiave della pubblica amministrazione, il denaro serviva ai partiti per ottenere i
voti e poi distribuire cariche nella p.a. trasformando la politica in business. I partiti con l’aumentare della
corruzione si sono disinteressati delle scelte politiche e interessati sempre più dell’arricchimento
personale. La produzione legislativa si è limitata a ‘leggine’ trascurando i grandi temi della politica
economica, estera ed istituzionale. Almeno fino al ‘92 i vertici di governo erano subordinati ai vertici di
partito ed i segretari di partito contavano più dei primi ministri sia nella scelta dei ministri che nella
formazione dei governi in generale i quali scaturivano da summits e negoziati extraparlamentari tra i
segretari di partito.

CAPITOLO 7: TRA LOCALE E GLOBALE: CHE COSA È UN SISTEMA DI GOVERNO


MULTILIVELLO.

1. Le politiche pubbliche: dal governo alla governance.

1.1 Politiche pubbliche: definizioni.


Le politiche pubbliche sono programmi d’azione attuati da autorità pubbliche, cioè un insieme di prassi e
direttive provenienti da attori pubblici in relazione ad un problema collettivo.

1.2 Tipi di politiche.


Le politiche pubbliche si distinguono in base al tipo di distribuzione costi benefici che comportano, la
distinzione principale è tra politiche redistributive che tolgono risorse ad alcuni gruppi per darle ad altri
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e quindi configurano un conflitto tra gruppi di interesse organizzati che rappresentano classi sociali
contrapposte dove i gruppi che danno denaro sono contrapposti ai gruppi che domandano servizi e
politiche regolative che introducono vincoli ai comportamenti di tutti i gruppi sociali determinando
conflitti trasversali ai diversi gruppi in quanto si pongono obiettivi di tutela generali e possono colpire
interessi diversi sia di imprenditori che di singoli cittadini. Le politiche si possono poi distinguere in base
alla concentrazione di costi e benefici: se i benefici sono diffusi ed i costi concentrati (es costruzione di
un inceneritore di rifiuti) ci sarà una forte opposizione, se i costi sono diffusi ed i benefici concentrati (es
aiuti per l’industria automobilistica) l’opposizione sarà scarsa e ci sarà un forte sostegno dei gruppi
organizzati.

1.3 Gli attori delle politiche pubbliche.


Gli attori delle politiche pubbliche sono sia attori pubblici come parlamenti, governi, burocrazie
pubbliche, magistratura che privati come gruppi di pressione, movimenti, partiti, esperti con
competenze tecniche. Le politiche pubbliche configurano un processo divisibile per tappe:
identificazione del problema con l’inserimento di un certo tema nell’agenda politica, formulazione di
una soluzione da parte dei tecnici, adozione di una decisione da parte degli attori pubblici, attuazione
della decisione ad opera delle burocrazie pubbliche o di attori privati, infine la valutazione dei risultati
per verificare il raggiungimento dell’obiettivo.

1.4 Le reti.
Tra questi attori si stabiliscono varie interazioni: negli SU si parla di triangolo di ferro per indicare il
legame tra rappresentanti degli interessi che aiutano i burocrati con informazioni e consulenze private,
burocrazie pubbliche che favoriscono i collegi elettorali dei parlamentari membri delle commissioni, e
parlamentari che offrono ai gruppi di interesse contributi pubblici in cambio di voti. Nel processo
decisionale intervengono oltre che gli attori pubblici istituzionali, attori privati come giornalisti, giudici,
movimenti sociali in una configurazione variabile in base al tema specifico, si è parlato a questo
proposito di reticoli. La configurazione di attori pubblici e privati rappresenta una comunità (policy
communities) di soggetti che condividono idee e soluzioni per specifici problemi.

2 Il processo decisionale.

2.1 Quanta e quale razionalità?


L’amministrazione pubblica persegue i suoi fini scegliendo razionalmente le diverse alternative per
raggiungerli, l’approccio razionale proposto per primo da Weber ha comunque sollevato critiche: per
Herbert Simon la razionalità è limitata da una serie di fattori come il costo per acquisire tutte le
informazioni necessarie, per cui il decisore deve accontentarsi di una soluzione soddisfacente evitando
di analizzare tutte le possibili soluzioni. Lindbolm ha proposto le comparazioni limitate: se il modello
razionale presuppone che i mezzi sono scelti sulla base di fini predefiniti, egli propone un processo
decisionale attraverso un adeguamento successivo per adattare i mezzi ai fini. Poiché nella p.a.
cooperano ed interagiscono interessi ed attori diversi non è pensabile un modello di un attore unico cui
attribuire una serie di obiettivi, la teoria del garbage can afferma appunto che tali obiettivi sono a volte
incompatibili e le organizzazioni li perseguono a volte in modo contraddittorio. Il modello
neoistituzionale ha rivalutato la presenza di una certa coerenza nel comportamento all’interno delle
diverse organizzazioni dove gli individui agirebbero rispettando regole routinarie da cui deriverebbe anzi
una tendenza alla conservazione dell’esistente che non si concilia con il mutamento.

2.2 Top-down o bottom-up.

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La teoria del flusso decisionale top down della p.a. secondo cioè una struttura gerarchica dall’alto verso
il basso viene criticata se si considera la discrezionalità dei livelli più bassi dell’amministrazione e gli
effetti del decentramento politico che assegnano la gestione delle politiche a diversi livelli di governo
non tra loro gerarchici, inoltre l’approccio top down non funziona perché nella realtà intervengono vari
processi di adattamento: i conflitti emergono in un momento successivo alla fase di decisione, alcune
decisioni vengono prese in momenti successivi quando tutti i fattori sono disponibili, perché decisioni
chiave vengono lasciate agli esperti o perché talune decisioni dovranno comportare mediazioni con
gruppi potenti. Queste osservazioni hanno messo in discussione il principio gerarchico ed è stato
sviluppato un approccio bottom up che analizza la realizzazione di politiche pubbliche a partire dal basso
della gerarchia piuttosto che dal vertice. Oggi la p.a. si presenta come una serie di apparati semi
autonomi e più snelli, a partire dagli anni ’80 sono state create unità autonome come le agenzie che si
differenziano dalla tradizionale struttura gerarchica dei ministeri.

3. Il potere della burocrazia.


Per Weber lo Stato moderno si fonda sul potere razionale legale dei suoi funzionari, il potere è
impersonale e basato sull’applicazione neutrale di regole astratte, gli ordini sono legittimi se rispettano
l’ordinamento giuridico, i funzionari hanno competenze specifiche disciplinate mediante leggi e
regolamenti amministrativi. La burocrazia deve rispettare il criterio di uguaglianza dei cittadini dinanzi
alla legge ed i funzionari devono essere reclutati in base alle loro competenze, tuttavia la burocrazia non
ha una legittimazione rappresentativa e quindi non essendo responsabile dinanzi all’elettorato deve
dipendere dal potere politico. Ai politici spetta il compito di definire l’indirizzo generale delle politiche
pubbliche e ai burocrati di rendere operativo l’indirizzo politico rimanendo neutrali rispetto agli interessi
(neutralità che la p.a. nella pratica di rado adotta). Il potere della burocrazia è rafforzato dal fatto di
essere autosufficiente nella propria sfera di competenze e che i funzionari durano in carica per più
tempo dei politici garantendo la continuità delle istituzioni. Inoltre si è aumentata la capacità di
intervento della p.a. alla quale sono state rinviate scelte di politiche pubbliche. Riforme della p.a. si sono
rese di recente necessarie per vari motivi come la domanda di decentramento e la crisi fiscale dello
stato, in Italia si è puntato alla deregolamentazione ed alla privatizzazione con la vendita di beni dello
Stato e la riduzione dei servizi pubblici. Per contenere il deficit si è puntato ad una gestione manageriale
della p.a. sul modello delle organizzazioni private, l’amministratore deve agire orientato al risultato
divenendo così un burocrate manager, e deve essere responsabilizzato per dare risultati ai cittadini
realizzando la cd democrazia dei risultati. E’ stata garantita la trasparenza della p.a. di fronte ai cittadini
riconoscendo loro il diritto ad essere informati dell’attività della p.a. e la più ampia possibilità di accesso
ai documenti amministrativi per chiunque vi abbia interesse, si è diffusa la figura scandinava del
difensore civico per mediare tra cittadini e p.a.. Si è quindi aggiunta alla figura del burocrate manager
quella del burocrate mediatore e oggi si può parlare di democrazie post parlamentari dove le politiche
sono elaborate attraverso la negoziazione tra agenzie amministrative e gruppi di pressione.

4. Il potere dei giudici.


Nel corso dell’evoluzione dello stato moderno si è creata la figura del giudice super partes rispetto alle
due parti contendenti e quindi da esse accettata per la sua funzione giudicante neutrale. Con
Montesquieu la tripartizione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario ha rafforzato l’autonomia della
magistratura affermando l’indipendenza del giudice dal sovrano e quindi dal potere politico vincolando i
giudici al solo rispetto della legge. Tuttavia anche nelle democrazie contemporanee ci sono forme di
controllo politico sulla magistratura che intervengono nelle modalità di reclutamento e di avanzamento
di carriera dei giudici. Nonostante tale controllo esercitato dall’esecutivo e dal legislativo dagli anni ’80 si
parla di crescita del potere giudiziario intesa come maggiore partecipazione dei giudici all’elaborazione
delle leggi, estensione delle fattispecie di comportamenti giudicabili dall’autorità giudiziaria, crescita
della domanda di giustizia, intervento giudiziario sui comportamenti degli amministratori pubblici. La cd
giudizializzazione della politica, cioè il maggior ruolo assunto dalla magistratura, è riscontrabile
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dall’incremento delle funzioni svolte dalla corte costituzionale in Europa come già avviene già negli SU,
inoltre si è avuta una crescita delle leggi prodotte e degli organi capaci di legiferare, per cui il giudice non
si limita più ad interpretare la legge ma concorre a creare il diritto. L’aumento della domanda di giustizia
è collegato all’indebolimento delle altre istituzioni specie per la crisi di fiducia nei partiti e nelle
istituzioni rappresentative che spinge i cittadini a ricorrere più di frequente alla giustizia. Il caso italiano
mette inoltre in evidenza una legittimazione popolare dell’attività della magistratura considerata
custode delle pubbliche virtù dopo le indagini giudiziarie sulla corruzione politica. Le indagini sulla
politica sono state rese possibili dall’elevata indipendenza della magistratura dal potere politico, la
costituzione affida al csm una funzione di autogoverno della magistratura e la sua composizione (2/3
magistrati delle supreme corti, 1/3 esperti di diritto) è tale da assicurare l’effettiva autonomia lasciando
al ministro della giustizia solo compiti ispettivi.

5. Politiche e territorio.

5.1 Il governo locale.


Dal trattato di Westfalia che poneva fine alla guerra dei 30 anni nasce il modello di stato che esercita il
potere sovrano sul territorio. In realtà ogni Stato devolve poteri ad organi sub nazionali. La tradizione
del governo locale risale alle città stato greche e più di recente alla città stato germanica dell’11° secolo
dove si formò la borghesia a cui il sovrano delegava poteri, in seguito lo Stato assolutista abrogò i poteri
decentrati e solo nel 19° secolo si formarono comunità che si auto governavano. L’Italia segue questa
tradizione, dapprima il controllo del centro sulla periferia veniva esercitato dai prefetti ed i sindaci erano
nominati dal re mentre consiglieri provinciali e comunali erano eletti sia pure a suffragio limitato, finché
alla fine del secolo anche la carica di sindaco divenne elettiva ed ai prefetti furono sottratte competenze.
La tensione tra governo nazionale e locale deriva proprio dalla legittimazione democratica delle cariche
locali per questo si parla di decentramento politico. Il grado di decentramento si misura da diversi
indicatori come la quantità di popolazione, la grandezza del territorio e altre variabili come la capacità di
spesa, la presenza del difensore civico, il diritto di referendum e di petizione, ecc. Dall’analisi di questi
indicatori si possono distinguere gli Stati in Stati decentrati con una pluralità di centri indipendenti uno
dall’altro anche se con la presenza di forme di coordinamento e Stati unitari in cui il potere legislativo ed
esecutivo a livello centrale comandano gli organi periferici.
5.2 Federalismo e regioni.
Il f. nasce dall’idea che il buon governo è possibile in piccole unità territoriali che poi per ragioni militari
si alleano, Montesquieu influenzò il modello di f. americano mentre Proudhon lo riteneva utile per
impedire le guerre, Altiero Spinelli ampliando il concetto al f. europeo, riteneva che la pace era possibile
se gli stati nazione cedevano parte della loro sovranità ad un governo federale sovranazionale. Per Riker
con il f. le attività di governo sono divise tra governi regionali ed un governo centrale per cui due livelli di
governo comandano sullo stesso territorio, ogni livello ha responsabilità e garanzia di autonomia in
almeno un’area specifica. Al f. si perviene attraverso un processo di federalizzazione, quando aree
territoriali adottano politiche e decisioni comuni per motivi di natura economica ad esempio espansione
di mercati o politica ad esempio patti tra i diversi stati o socioculturale ad esempio per proteggere
minoranze etniche. I vantaggi possono essere diversi ad es f. fiscale cioè la possibilità di servizi più
economici se gestiti in modo decentrato, f. competitivo cioè il decentramento provoca effetti benefici
legati alla concorrenza tra gli stati, inoltre si hanno effetti benefici in quanto si attenuano i conflitti etnici.
Tuttavia studi dimostrato che gli stati federali come ad esempio gli SU non avrebbero caratteristiche di
superiorità rispetto agli stati unitari sia in termini di democrazia che di sviluppo economico. L’evoluzione
recente mostra una tendenza degli stati federali ad accentrare e degli stati unitari a rafforzare i poteri
degli enti territoriali come nel caso italiano, francese e spagnolo. Inoltre occorre valutare per ogni paese
il reale funzionamento delle istituzioni in quanto stati tradizionalmente definiti accentrati possono poi

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avere forme di opposizione dei governi locali alle politiche del governo centrale molto più forti rispetto a
paesi ritenuti non accentratori.

6. Le politiche di sviluppo locale.


Dopo la metà degli anni ‘60 l’interesse per la politica locale si è accentuato investendo le politiche
pubbliche, i conflitti politici tra centro e periferia, la distribuzione del potere nelle città. La classe politica
nazionale si forma nelle esperienze a livello locale ed i cittadini si interessano della politica a partire dalle
interazioni con il governo a loro più vicino. La partecipazione politica a livello locale accresce il
sentimento di appartenenza, il principio di sussidiarietà sostiene che il governo locale è il più adeguato a
garantire servizi ai cittadini. La crisi fiscale dello stato ha ridotto i trasferimenti dal centro alla periferia
ma non ha ridotto il ruolo delle politiche locali, infatti le grandi città hanno cominciato a competere per
attrarre investimenti industriali privati sul proprio territorio fornendo infrastrutture, incentivi fiscali,
finanziamenti, formazione professionale. Lo sviluppo economico locale è stato sostenuto anche da
politiche dell’ u.e. che hanno messo in competizione tra loro le regioni per attrarre investimenti. Le
politiche di sviluppo locale creano anche conflitti con chi vorrebbe indirizzare le risorse a favore di
politiche di incremento dei servizi sociali e per i più disagiati.

7 Politica, politiche e globalizzazione.


Il concetto di g. indica la ridotta capacità degli stati nazionali di intervenire nei processi d sviluppo
economico e il tentativo di affrontare problemi di dimensioni globali con la costruzione di istituzioni
sopranazionali.

7.7.1. Globalizzazione, globalizzazioni.


La g. indica quindi l’interdipendenza tra le relazioni sociali che sono presenti in luoghi distinti in modo
che gli eventi siano influenzati vicendevolmente, un processo che negli anni recenti si è intensificato. Lo
sviluppo tecnologico con internet, le televisioni satellitari, ha favorito un’interazione culturale e
l’esportazione di valori occidentali creando una società civile globale e un’opinione pubblica mondiale.
L’interdipendenza economica ha portato alla creazione di corporations multinazionali, alla
delocalizzazione produttiva per ricercare occasioni di investimento a costi più bassi,
all’internazionalizzazione dei mercati finanziari. Il mercato del lavoro globale ha indebolito la classe
operaia del nord del mondo ma effetti negativi si sono avuti anche nel sud del mondo dove gli stati
hanno adottato politiche neoliberiste con tagli alle politiche sociali per favorire le multinazionali. La g.
riduce l’influenza dei governi nazionali ed in generale della politica rispetto all’economia con la crescita
di autorità politiche internazionali.

7.2 Istituzioni sopranazionali.


Con istituzioni sopranazionali come l’U.E. e le N.U. si è aggiunto un nuovo livello di governo al livello
nazionale che modifica le teorie classiche delle relazioni internazionali. Per l’approccio realista ciascuno
Stato agirebbe in modo indipendente dagli altri e senza gerarchie allo scopo di difendere la propria
sicurezza ed acquisire nuovo potere attraverso politiche di armamenti ciò ha prodotto lunghi periodi di
pace dovuti ad un equilibrio (detto del ‘terrore’) degli stessi armamenti che si è venuto a creare. A
partire dal secondo dopoguerra si è avuta una crescita delle Org. Gov. Int. (OGI) come l’UE, le NU, con
scopi militari come la Nato, con scopi economici come il FMI, la banca mondiale, l’org. Mondiale del
commercio. Le org. int. hanno diffuso regole internazionali a volte superando il principio della sovranità
nazionale ad esempio consentendo l’ingerenza in caso di gravi violazioni dei diritti umani.

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7.3 Attori politici transnazionali.
Oltre alle OGI si sono sviluppate anche org. non governative transnazionali (ONG) indipendenti dai
governi che agiscono in più paesi che si rifanno anche a problematiche sociali come i diritti umani,
l’ecologia (ad es. Greenpeace, Amnesty international, ecc.). Soprattutto le org. int. attive sui problemi
economici sono state criticate per il loro approccio liberista che privilegia le politiche di riequilibrio dei
bilanci statali con conseguenti tagli alle spese sociali, per l’impatto ambientale di alcuni progetti
finanziati dagli org. int. In altri casi si sono costruite alleanze tra org. Di movimenti sociali ed istituzioni
governative internazionali per discutere su temi come i diritti umani, l’uguaglianza tra i sessi, l’ambiente
e lo sviluppo.

8. Europa ed europeizzazione.
Il processo di europeizzazione consiste nella costruzione delle istituzioni europee che determina
conseguenze nelle politiche interne ai vari stati e sottolinea la crescente interazione tra relazioni
internazionali e politica interna. Nel ’52 la C.E.C.A. riunì 6 paesi (B, F, I, G, Luss, P.B.) per coordinare le
attività economiche, nel ’57 si formò poi la C.E.E. per facilitare gli scambi commerciali, nel ’73 si unirono
Irlanda, Danimarca, GB e dopo Grecia, Spagna e Portogallo. Oggi l’UE fondata nel ’92 si compone di 15(?
vedere su internet) Stati (si sono aggiunti Austria, Finlandia e Svezia) e si fonda su tre pilastri 1) politiche
comuni in agricoltura, trasporti, politiche monetarie, 2) politica estera e sicurezza, 3) giustizia e affari
interni. Organo esecutivo è la commissione europea composta da due commissari per ciascun paese
maggiore e uno per gli altri, il parlamento europeo è l’unica istituzione rappresentativa, eletto dai
cittadini europei dal ’79 ha poteri di controllo su bilancio e commissione e condivide la funzione
legislativa con gli altri organi, il consiglio europeo è composto da capi di stato e dal presidente della
commissione è affiancato dal consiglio dei ministri costituito da un ministro per ogni stato membro
competente per singola materia e partecipa alla funzione legislativa, alla corte di giustizia spetta la
risoluzione dei conflitti di attribuzione delle competenze tra unione e singoli stati e tra i vari organi
dell’ue, la b.c.e. istituita nel ’97 ha assunto funzioni ricoperte in passato dalle singole banche centrali. Il
trattato di Maastricht del ’92 ha ampliato le competenze comunitarie pur affermando il principio di
sussidiarietà, vale a dire l’ue interviene solo su materie nelle quali i singoli stati non possono agire in
modo soddisfacente. Dopo le politiche di integrazione negativa volte a liberalizzare i movimenti di merci
e cittadini e dopo le politiche economiche di rigore per riequilibrare i conti pubblici, iniziano ad attuarsi
politiche di integrazione positiva a favore delle aree depresse e per garantire una maggiore coesione
sociale. Per alcuni studiosi l’evoluzione dell’ue è verso un organismo inter governativo basato su accordi
tra gli stati membri per ottenere vantaggi di natura economica, altri hanno sottolineato il ruolo
sopranazionale delle istituzioni al di sopra degli interessi dei singoli stati portando avanti interessi
europei. Alcuni ritengono che l’evoluzione non porterà al declino degli stati nazione ma ad un’Europa a
geometria variabile cioè con diversi sottoinsiemi di stati membri che agiscono autonomamente per
risolvere problemi comuni e produrre beni pubblici. L’ue sconta attualmente un deficit di democrazia
per diversi motivi. L’organo più democratico è il parlamento eletto dai cittadini, ma alle elezioni vi è un
basso tasso di partecipazione in molti stati, ha competenze limitate anche se di recente ha acquisito il
diritto di votare la fiducia alla commissione, inoltre il consiglio è composto da capi di stato dei singoli
paesi eletti dai cittadini, ma non su specifici mandati che riguardano politiche europee. Il problema del
deficit democratico dell’ue è anche collegato alla costruzione d una cittadinanza europea cioè al
riconoscimento dei diritti civili, politici, sociali dei cittadini europei. Il trattato di Maastricht ha sancito il
diritto di circolare e soggiornare liberamente nell’ue ed il diritto di voto alle elezioni comunali ed
europee per i cittadini di uno stato membro residenti in un altro stato membro, poi nel 2000 la carta dei
diritti di Nizza ha sancito la difesa del diritto di dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e
giustizia per realizzare un’integrazione attraverso i diritti dopo l’integrazione economica, una strada
ancora agli inizi che deve innanzitutto prevedere la costruzione di un’identità collettiva europea.

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