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La “politica classica”, pertanto, intesa come il dispiegarsi quotidiano del vivere collettivo, ha poco a
che fare con quella concezione moderna in cui emerge con forza la sua dimensione di verticalità.
Proprio perché dimensione fondante del vivere collettivo, in cui gli individui contribuiscono al
benessere della città, la politica aristotelica è caratterizzata da relazioni orizzontali, proprie del vivere
in comunità.
Non che nella tradizione greca non siano state proposte altre definizioni di politica.
Ma, alla fine, quella che emerge come un pilastro della cultura occidentale, fino ad influenzare il
pensiero politico dei secoli successivi, è proprio la concezione aristotelica, grazie anche alla sua
ricezione e rimodulazione da parte della dottrina Cristiana.
La politica aristotelica, nella sua versione medievale, è dominata dal principio di verità fondato sulla
volontà divina, principio che tiene assieme politica, religione, morale e diritto, e mantiene la sua
finalità di attività primariamente finalizzata al bene comune.
Ciò non significa che nei secoli precedenti a Machiavelli non fosse presente il problema del potere e
delle relazioni verticali tra individui, ceti, gruppi sociali e interessi.
Ma queste tematiche, che al giorno d’oggi sono considerate politiche per eccellenza, venivano definite
in altri modi (regnum, dominium, gubernaculum, principatus).
Nell’epoca classica e in quella medievale da una parte abbiamo la “politica” intesa in senso
aristotelico, quale attività intrinsecamente umana, basata su relazioni orizzontali tra individui che si
determinano sulla base della conoscenza del logos; dall’altra parte il governo della collettività,
caratterizzano da relazioni verticali.
La politica aristotelica, quindi, ha poco a che fare con la lotta per il potere, con il governo della società,
con l’esercizio del potere su una società.
Con Machiavelli la politica comincia ad assumere un significato più vicino a quello contemporaneo e
inizia quel percorso di autonomizzazione della politica non solo dalla morale e dalla religione, ma
anche dalla società e dall’economia.
Con il processo di costruzione dello Stato moderno, la politica inizia ad essere considerata come
un’attività autonoma da altre sfere del comportamento umano, anche se fortemente legata al potere
statuale.
La sintesi migliore di questo percorso è rappresentata dalla definizione di Max Weber, il quale ha
definito in modo netto e chiaro la natura della politica come intrinsecamente legata al conflitto nello
Stato e tra gli Stati.
Max Weber (1964-1920) è stato uno dei più grandi scienziati sociali della storia.
La sua gamma di interessi di ricerca si è basata su conoscenze interdisciplinari, dalla storia
all’economia politica, dalla filosofia alla scienza dell’amministrazione.
È autore di studi fondamentali sull’influenza della religione nello sviluppo del capitalismo, sulla
razionalizzazione e la secolarizzazione delle società moderne, sulla legittimazione del potere
politico, sui processi di costruzione dello Stato moderno.
È stato uno dei fautori di una posizione metodologica antipositivista, per la quale il fine ultimo
dello scienziato sociale è la comprensione delle motivazioni profonde che spingono l’azione
sociale e politica.
Dunque, il percorso inaugurato da Machiavelli giunge con Max Weber alla sua conclusione.
Tuttavia, Max Weber non segna la fine ma, per certi versi, l’inizio vero della storia contemporanea
della politica e della sua analisi.
Con la netta focalizzazione sul potere, la politica trova finalmente un ambito proprio e può essere
studiata in modo autonomo.
La centralità del potere nella definizione di “politica” non risolve comunque un problema intrinseco
della lunga riflessione sul concetto: il fatto cioè che sfugga a qualsiasi tentativo definitorio la
possibilità di individuare un elemento costitutivo del comportamento politico.
A differenza del comportamento morale o di quello economico, per i quali esiste una condivisione
rispetto ai criteri caratterizzanti (rispettivamente il “bene” e l’“utile”), il comportamento politico non è
riducibile ad uno specifico e netto criterio costitutivo.
La stessa enfasi sul potere non individua un elemento assolutamente distintivo dell’azione politica,
poiché esistono diverse forme di potere a seconda dei contesti in cui esso viene esercitato (es. il potere
sociale o quello economico).
Insomma, il potere è importante, ma deve essere inteso come una dimensione costitutiva che va
contestualizzata nelle sedi e nei processi opportuni, mediante i quali la specificità del potere “politico”
si mostra con evidenza.
In questa prospettiva, Giovanni Sartori ha enfatizzato la dimensione verticale della politica,
definendola proprio sulla base di una specifica sede in cui essa si manifesta.
La definizione di Sartori, in cui tale dimensione verticale emerge con chiarezza [le decisioni sono
collettivizzate (prese da “alcuni” per “tutti”), sono sovrane (e quindi non hanno altre decisioni
gerarchicamente superiori), sono sanzionabili (perché i decisori sono i detentori del monopolio della
forza) e sono senza uscita (in quanto disegnano i confini delle azioni possibili per i destinatari delle
decisioni stesse)], riecheggia quella di David Easton, per il quale la politica è “allocazione imperativa
di valori”, laddove per “valori” si intendono beni sia materiali che simbolici.
Le definizioni di Sartori e Easton, enfatizzando la dimensione imperativa e verticale della politica,
rischiano di sottostimare una dimensione essenziale della stessa: il fatto, cioè, che l’ambito della
politica si caratterizzi per una strutturale incertezza su quello che può/deve essere fatto per garantire
l’ordine sociale.
Che la politica giri intorno al potere è plausibile e che i politici perseguano il mantenimento del
proprio potere è anch’esso plausibile, ma al tempo stesso questa ricerca/lotta per il potere deve dare
risposte ai problemi collettivi, rassicurando i cittadini rispetto al proprio futuro.
Parafrasando Hugh Heclo, pertanto, la politica non è solo un’attività nella quale incessantemente si
lotta per il potere e in cui si producono decisioni collettivizzate, ma è anche un’attività con la quale si
cerca di affrontare la complessità e la contraddittorietà del vivere sociale al fine di trovare risposte
affidabili per la collettività.
La politica, quindi, ha almeno due dimensioni portanti: quella del potere e quella della soluzione di
problemi collettivi.
In questo modo, si recupera il tema aristotelico del bene comune, anche se esso oggi viene
concettualizzato non come un dato normativo ma come un elemento da perseguire pragmaticamente
nell’azione politica.
Una volta preso atto della doppia natura della politica, assumono particolare rilevanza le domande con
le quali Harold Lasswell [(1902-1978) è stato uno dei grandi maestri della scienza politica
americana)] ha suggerito di affrontare lo studio della politica: “chi ottiene cosa, dove e come”.
Chi fa la politica?
La risposta più semplice a questa domanda sarebbe: i politici.
In realtà la politica è attività molto più complessa e, tenuto conto della sua centralità nel vivere
associato, essa può essere “fatta” da una miriade di potenziali attori, individuali e collettivi.
Dalle élite socioeconomiche ai gruppi di interesse, dai funzionari amministrativi ai singoli cittadini.
Che cosa si ottiene con la politica?
Il risultato aggregato dell’azione politica dovrebbe essere il perseguimento di un determinato ordine
sociale che è influenzato, ovviamente, dallo specifico contesto socioeconomico e dal tipo di regime
politico.
Ma il risultato aggregato dell’azione politica contiene al proprio interno gli obiettivi singoli dei diversi
attori.
In un regime democratico, ad esempio, l’obiettivo dei partiti è sia quello di ottenere un risultato
elettorale soddisfacente, sia quello di vedere attuate le proprie proposte di politica pubblica, cioè di
soluzione dei problemi collettivi.
L’obiettivo dei cittadini è certamente quello di vedersi dare risposte ai propri problemi, ma anche
quello di vedere il proprio partito vincitore delle elezioni.
L’obiettivo dei gruppi di interesse è quello di vedersi tutelati dalle decisioni politiche, mentre
l’obiettivo di alcuni attori istituzionali è proprio quello di tutelare l’interesse collettivo dal rischio di
eccessiva influenza dai gruppi di interesse.
Ottenere qualcosa in politica deve sempre fare i conti con il fatto che il conflitto tra interessi e idee
divergenti è strutturale.
Come si perseguono i propri fini in politica?
Le modalità mediante le quali gli attori cercano di perseguire i propri obiettivi in politica sono assai
diversificate.
Nei regimi autoritari il “come” è basato sulla prevaricazione e sulla minaccia della violenza fisica nei
confronti di chi non accetta di sottostare alle regole poste dal regime stesso.
Nei regimi democratici, dove la violenza è di solito bandita (ovvero usata solo nei casi di estrema
necessità), il come della politica è caratterizzato da negoziazioni, compromessi, scambi, procedure, a
volte pacifiche proteste di massa, fermo restando che il modo più generale di “ottenere”, per i cittadini
come per i partiti, è quello di vincere le elezioni.
Dove si perseguono i propri fini in politica?
Il dove della politica dipende dalle caratteristiche del contesto in cui opera l’attore che agisce
politicamente.
In linea generale, l’ambito di un’azione politica non può che essere una collettività in cui vi sia un
organismo deputato a prendere decisioni collettivizzate.
Gli ambiti possono essere variegati, ma comunque riconducibili a collettività in cui vi sia il monopolio
dell’esercizio della forza.
La scienza politica è la disciplina che studia i fenomeni politici al fine di comprenderne la natura e
spiegarli mediante l’adozione delle metodologie proprie delle scienze empiriche.
La scienza politica, pertanto, vuole comprendere i meccanismi di funzionamento dei fenomeni e delle
azioni politiche al fine di individuarne la regolarità e di spiegarne gli effetti, sia quelli intenzionali, sia
quelli non intenzionali.
Pertanto, la scienza politica è una scienza empiricamente orientata.
Deve dare dimostrazione, attraverso le diverse tecniche del metodo scientifico, che le sue affermazioni
sono sufficientemente suffragate dall’evidenza dei fatti.
Il fatto che la politica sia sempre esistita non significa che vi sia sempre stata una scienza politica.
Per avere una scienza politica si è dovuto attendere che i cambiamenti storici avvenuti in epoca
moderna e contemporanea “liberassero” la politica dai suoi stretti legami di dipendenza dall’etica,
dalla religione e, infine, dal diritto.
Ed è stato necessario che si acquisisse la consapevolezza che l’oggetto “politica” trattato dalla filosofia
politica è qualcosa di diverso dall’oggetto politica trattato in modo scientifico.
La scienza politica ha bisogno di una definizione di “politica” come attività autonoma dalle altre
attività autonome e, al tempo stesso, di uno specifico contesto storico.
In questo senso non si può non ricordare che la scienza politica ha origini diverse in Europa rispetto
agli Stati Uniti e che ha avuto anche diversi percorsi.
In fondo, anche se se gli studiosi della scuola elitista europea (Mosca, Pareto, Michels) sono
considerati i padri della scienza politica contemporanea, lo sviluppo e la prima definita
istituzionalizzazione della scienza politica sono vicende soprattutto nordamericane.
Gaetano Mosca (1858-1941), considerato, insieme a Vilfredo Pareto, il padre della teoria delle
élites, diede notorietà alla disciplina con gli Elementi di scienza politica (1985).
Per lo studioso siciliano, giurista di formazione, la scienza politica andava considerata come analisi
e osservazione di una realtà politica vista principalmente come lotta e gestione del potere.
In tal modo, la scienza politica si emancipava dal diritto costituzionale e dalla filosofia politica,
stringendo stretti rapporti con la storia.
La sua “dottrina” si articolava in almeno tre distinte teorie: quella della classe politica, che
riguarda lo studio delle forze politiche ed elabora la regola universale circa la distinzione tra
governanti e governati; quella della formula politica, che ha per oggetto i principi e le ideologie
(formule); quella del quadro istituzionale che attiene ai rapporti tra le forze e le formule e, quindi,
all’esercizio e ai limiti posti dal potere.
La scienza politica è una disciplina che, per le sue caratteristiche, può svilupparsi solo in contesto
democratico.
“Ogni regime tende a produrre una politica consonante a se stesso; di conseguenza, ogni regime tende
a produrre una scienza della politica consonante a se stesso”. (Lowi)
La differenza dell’evoluzione politica dei due mondi si palesa con evidenza nei primi autori
empiricamente orientati allo studio della politica.
Se, infatti, in Europa abbiamo gli elitisti, negli Stati Uniti viene pubblicato nel 1908 il libro di Bentley
The Process of Government, in cui la politica è vista, realisticamente, come una lotta tra gruppi di
interesse che, interagendo, influenzano fortemente le decisioni politiche.
Un lavoro ed una prospettiva impensabili nell’Europa di inizio Novecento, dove tutti i paesi erano, a
esclusione della Francia, monarchie costituzionali.
La differenza tra i due mondi persistono durante il periodo tra le due guerre, quando negli Stati Uniti si
sviluppa un’attenzione ad una scienza politica empiricamente orientata: Charles Merriam costituisce
un gruppo di ricerca (c.d. Scuola di Chicago) in cui lo studio tradizionale della politica (basato sul
diritto e sulla storia) viene allargato ai contributi della sociologia, della psicologia e dell’antropologia.
Merriam verrà anche chiamato a lavorare per l’Ufficio del presidente degli Stati Uniti incaricato di
progettare la pianificazione del New Deal.
Inoltre, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, molti scienziati politici americani vengono
chiamati a collaborare con i servizi informativi e di propaganda.
Insomma, negli Stati Uniti la scienza politica trova terreno fertile per una veloce istituzionalizzazione,
tanto da essere pronta già alla fine del conflitto alla consacrazione della rivoluzione comportamentista.
Con queste basi, la scienza politica italiana è pronta a godere della forte espansione quantitativa nel
sistema universitario che si manifesta nel corso degli anni Settanta.
All’esplosione dei numeri degli iscritti segue un consistente aumento dei posti di professori di ruolo,
che consentì un primo significativo reclutamento di scienziati politici nelle università.
È, infatti, durante gli anni Settanta che la disciplina si irrobustisce, soprattutto in alcuni sede
universitarie (Bologna, Catania, Firenze, Torino).
Finalmente la scienza politica italiana esiste.
filosofia deve giustificare, ovvero trovare il miglior modo per l’ordine politico), c) deve essere
avalutativa (mentre per definizione il filosofo politico non può esserlo), è anche vero che il cordone
ombelicale tra filosofia e scienza politica persiste.
Scienza politica ed economia.
Tra scienza politica ed economia è stato più semplice individuare i confini e i rispettivi ambiti
disciplinari, almeno fino ad un certo punto.
Innanzitutto, quando si parla di “economia”, bisogna intendersi sul significato attribuito al termine.
Oggi l’economia si divide in microeconomia (che studia il comportamento individuale di chi consuma
e chi produce e le loro interazioni) e la macroeconomia (che studia il comportamento economico di un
sistema e gli interventi – le politiche – mediante i quali è possibile condizionare i comportamenti
microeconomici proprio per cambiare le performance di sistema).
In questo modo, parrebbe non esserci alcun problema nel distinguere la “scienza politica” dalla
“scienza economica”.
Ma, all’atto pratico, si deve rilevare che in fondo vi è un continuo sovrapporsi dell’oggetto della
politica e dell’oggetto dell’economia.
Soprattutto quando si ragiona a livello sistemico e quindi gli interventi – delle politiche economiche –
da porre in essere per migliorare le performance di sistema (es. diminuire la disoccupazione, rendere
equilibrato il sistema pensionistico), gli oggetti dell’analisi politologia ed economica si sovrappongono
quasi perfettamente e, anche se sulla base di approcci teorici diversi, scienziati politici ed economisti
tendono a sconfinare nel terreno disciplinare degli altri.
Inoltre, uno dei principali filoni teorici della scienza politica, la Rational Choice, è basato sull’assunto
di base dell’azione microeconomica, e cioè che “il complesso del comportamento umano può essere
considerato composto da individui che partecipano al fine di massimizzare la propria utilità sulla base
di un insieme di preferenze stabili”.
Questa prospettiva teorica ha reso molto simile l’analisi politologica a quella economica, soprattutto in
quei settori di indagine in cui ci si occupa di analizzare i processi mediante i quali si operano le scelte
collettive.
Al tempo stesso, si deve rilevare come vi siano altri terreni di incontro tra scienza politica ed analisi
economica.
Ad esempio, a partire dagli anni Ottanta, tanto le teorie esplicative degli scienziati politici quanto i
modelli degli economisti tornano a mettere al centro il ruolo delle istituzioni.
Oppure, il recente comune interesse rispetto alla “tragedia dei beni comuni”, cioè al problema della
gestione delle risorse naturali.
Infine, non si può non accennare agli intrecci tra scienza politica ed economia nel compenetrarsi, sia a
livello di analisi interna – Political economy – sia a livello di politica internazionale – International
Political Economy – per spiegare i fenomeni politici e sociali mettendo in relazione le influenze
reciproche tra elementi propri della politica ed elementi propri del sistema economico.
I confini tra “scienza politica” e “scienza economica” parrebbero abbastanza chiari e netti.
Certo, diversi sono gli obiettivi delle due discipline: da una parte spiegare come si struttura l’ordine
politico di un determinato sistema, dall’altra parte come un sistema riesce a raggiungere e mantenere
un determinato equilibrio economico.
Le variabili prese in considerazione sono decisamente differenti, ma la forza della realtà invita
continuamente a sconfinamenti disciplinari e a collaborazioni.
Scienza politica e scienza giuridica.
I confina tra “scienza politica” e “scienza giuridica” sono anch’essi quasi auto evidenti.
In realtà, anche in questo caso, le cose non sono così semplici, e la rivalità tra le due discipline
persiste, soprattutto nei paesi dell’Europa continentale.
Questa rivalità ha origini storiche sedimentate.
La scienza giuridica – in particolare il diritto costituzionale e pubblico – ha rappresentato il linguaggio
costitutivo del passaggio dallo Stato assoluto allo Stato costituzionale.
Mediante il diritto si sono regolati e depoliticizzati i rapporti tra governanti e governati.
Il diritto si è imposto a lungo come il linguaggio dello Stato e per certi versi anche della politica, anzi,
con la giuridicizzazione dello Stato si è giuridicizzata la politica, ovvero si è cercato di convogliare la
lotta per il potere politico all’interno di un sistema di norme.
Con la giuridicizzazione del potere, la fonte del potere politico è esterna ad esso, ed esso stesso nel suo
esercizio deve conformarsi al principio di legalità e legittimità (il potere può essere ottenuto ed
esercitato solo nel rispetto delle regole poste dal sistema di norme vigenti).
Ovviamente, però, occuparsi della legalità e soprattutto della legittimità dei comportamenti politici,
seppur rispetto all’insieme di norme vigenti, consente ai cultori del diritto di entrare anche nel merito
del comportamento politico e quindi di sconfinare nel territorio della scienza politica.
D’altra parte, anche gli scienziati politici sconfinano spesso, soprattutto quando si occupano di riforme
costituzionali, in un territorio che i giuristi considerano di loro assoluta proprietà.
È tuttavia evidente che questi margini di sovrapposizione non possono far dimenticare le intrinseche
differenze disciplinari: la scienza politica studia la concretezza dei fenomeni politici al fine di capirli e
spiegarli, mentre la scienza giuridica analizza i comportamenti politici per valutarne la coerenza, in
termini di legalità e legittimità, con l’ordinamento giuridico esistente.
Scienza politica e sociologia.
I confini tra “sociologia” e “scienza politica” sono assai più labili di quelli con le discipline fin qui
analizzate.
Ciò è dovuto al fatto che la sociologia è una delle sorelle maggiori della scienza politica, e
quest’ultima ha trattato dalla sociologia un insieme assolutamente rilevante di concetti fondamentali.
Senza contare che molti grandi sociologi sono da considerare anche dei classici fondamentali per
chiunque voglia fare scienza politica.
Inoltre, entrambe le discipline sono non solo empiricamente orientate, ma condividono in gran parte le
stesse metodologie di ricerca.
Ovviamente, una si occupa della società e l’altra della politica e, quindi, le loro differenze stanno
soprattutto nel modo di organizzare il rapporto tra cause ed effetti.
Per il sociologo, ad esempio, ogni fenomeno studiato è riconducibile alle caratteristiche del sistema o
della struttura sociale.
Da parte loro gli scienziati politici ritengono la struttura sociale come il prodotto del comportamento
degli attori e delle istituzioni politiche.
Si tratta di una differenza sostanziale e che consente alle due discipline di mantenere confini reciproci
abbastanza netti e di avere, al tempo stesso, una sovrapposizione condivisa e reciprocamente
legittimata.
Gli studi compresi in quest’area di sostanziale sovrapposizione sono spesso ricondotti alla sociologia
politica, ovvero quella disciplina in cui scienza politica e sociologia si ibridano, al fine di studiare le
basi sociali e istituzionali dei fenomeni tipici del comportamento politici (es. comportamento
elettorale), nonché le basi sociali del conflitto e del consenso presenti in una realtà politica.
La svolta comportamentista, che risulterà egemonica fino alla metà degli anni Sessanta, è
assolutamente importante perché rappresenta il vero spartiacque verso la costruzione di una disciplina
empiricamente orientata.
È infatti grazie al comportamentismo che la scienza politica acquisisce alcuni elementi costitutivi della
sua autonomia e identità: la ricerca di regolarità; la necessità di verificare empiricamente le
generalizzazioni; l’esigenza di adottare tecniche sofisticate di analisi e dare forma anche quantitativa
all’oggetto analizzato; la sistematizzazione (ovvero l’esigenza di dare una robusta base teorica alla
ricerca empirica).
L’epoca comportamentista produce anche un tentativo di teoria generale per l’analisi politica, quella di
David Easton che, cercando di costruire uno schema generale di analisi politica di stampo
comportamentista, propone il primo approccio teorico in cui lo Stato non è il centro motore della
politica.
Esso viene sostituito dal concetto di “sistema politico”, ossia l’insieme di interazioni interdipendenti
tra attori politici e attività funzionali della società, mediante le quali vengono prodotte e attuate
decisioni politiche e, quindi, allocati valori in una società.
Si tratta di un tentativo ambizioso che, però, non riesce a raggiungere l’obiettivo prefissato di una
condivisa teoria generale per l’analisi della politica.
Progressivamente il comportamentismo, e l’analisi sistemica di Easton, vengono criticati e
abbandonati, anche se alcuni loro elementi persistono nella scienza politica contemporanea.
Il declino del progetto eastoniano ha prodotto una significativa frammentazione, dal punto di vista
teorico, nella scienza politica.
Infatti, attraverso un vero e proprio processo a ondate, la scienza politica ha visto l’emergere e il
coesistere di diversi paradigmi teorici.
Negli anni Settanta si impone con vigore la Rational Choice, e all’interno di questo approccio
incentrato sulla razionalità individuale, i lavori della teoria della scelta pubblica diventano i punti di
riferimento più importanti per gli scienziati politici d’oltreoceano.
L’attenzione per il ruolo delle “istituzioni” torna progressivamente in auge negli anni Novanta.
Contestualmente, emerge un consistente filone di ricerca che enfatizza il ruolo delle idee
nell’influenzare i processi politici.
È questa la fase in cui si sviluppa a partire dagli Stati Uniti un’impressionante letteratura sulla
governance, ovverosia sul problema del modo in cui i processi decisionali vengono governati in
contesti affollati di attori che perseguono i propri interessi su diversi livelli istituzionali.
Il processo di globalizzazione ha ulteriormente influenzato l’evoluzione di questi studi: una parte della
scienza politica si muove oggi in una dimensione terza tra le due classiche aree della politica
comparata (ovvero la comparazione degli Stati) e le relazioni internazionali (la politica tra gli Stati):
la dimensione che vede nella governance multilivello il contesto dove opera l’insieme degli attori
rilevanti – gli enti locali, regionali, lo Stato, gli organismi sovranazionali.
Insomma, dal punto di vista teorico la scienza politica è venuta sedimentando un notevole pluralismo
teorico, oltre che metodologico, che se da una parte ne mostra la vivacità, dall’altra parte mostra il
rischio di difficile o lenta cumulabilità delle conoscenza.
Alla frammentazione teorica ha corrisposto, pertanto, anche una frammentazione tematica.
Questa duplice frammentazione può far pensare al rischio di diaspora che, in realtà, non è nell’ordine
delle cose.
Ciò che tiene insieme la scienza politica è il comune interesse a capire e spiegare la politica in modo
empiricamente orientato e la comune condivisione della comparazione come metodo ineludibile per
fare buona scienza politica quale che sia l’oggetto di analisi e la teoria che guida questa analisi.
A seconda dell’approccio teorico prescelto, lo scienziato politico si orienterà verso un certo tipo di
fenomeni e di misurazioni, ignorando altri possibili aspetti della realtà, perché ritiene i primi costitutivi
del fenomeno politico.
Gli approcci teorici sono intimamente legati ai metodi e alle tecniche della ricerca scientifica ed il loro
successo determina la storia della scienza politica.
Quali sono gli approcci oggi riconosciuti nella scienza politica?
Sicuramente va ancora considerato il “vecchio” approccio strutturalista.
Il termine designa tutte le visioni che guardano a fattori strutturali, per lo più socioeconomici, per
spiegare eventi e comportamenti politici.
La teoria marxista della lotta di classe e della rivoluzione proletaria come conseguenza inevitabile
dell’evolvere dei rapporti di produzione è certamente una teoria strutturalista.
Strutturaliste sono anche le teorie che vedono lo sviluppo politico ed economico di un paese come
determinato dalla sua posizione geopolitica.
Nell’approccio strutturalista ricorre spesso la parola “sistema”: non ci stupirà quindi che il più
compiuto tentativo di stabilire delle relazioni generali tra sfere dell’agire sociale, derivante dallo
struttural-funzionalismo di Talcott Parsons, sia l’approccio sistemico (Systems Theory).
Dalle critiche allo struttural-funzionalismo hanno trovato origine o rinnovata attenzione approcci
teorici che hanno poi preso piede in momenti successivi.
L’approccio pluralista di stampo comportamentista, ad esempio, ha ripreso vigore proprio in reazione
a quello sistemico-strutturalista, enfatizzando soprattutto la rilevanza delle azioni e delle interazioni tra
gli attori nell’influenzare gli esiti del processo politico.
A questo orientamento teorico corrispondeva un nuovo orientamento epistemologico: al centro
dell’analisi pluralista vi è la convinzione che il potere politico non si annidi necessariamente nelle
strutture economiche e sociali, ma sia determinato dall’interazione di gruppi di persone che si
mobilitano a favore di questa o di quella issue.
Per studiare il potere occorre quindi osservare il suo esercizio in corso d’opera, analizzando attraverso
l’osservazione partecipata chi fa e decide cosa.
Questo approccio si basava sulla convinzione che l’esercizio del potere potesse osservarsi meglio ad
un livello d’analisi inferiore – quello della comunità locale – e che i risultati di questi studi potessero
essere poi generalizzati.
Caposcuola di questo approccio era Robert Dahl che, che nel suo famoso studio del potere a New
Haven (1961), voleva capire chi governasse la città.
Dallo studio di Dahl emergeva come il potere fosse disperso e come centrale fosse invece la figura
politica (in questo caso il sindaco) cui spettava di decidere a quale pressione societaria dare maggiore
ascolto.
Non tutti gli esponenti del pluralismo erano tuttavia così fiduciosi nella capacità del sistema politico di
rispondere alle esigenze della società.
Piuttosto scettico era, ad esempio Theodore J. Lowi che sottolineava come la mobilitazione fosse
spesso solo una facciata per permettere che le vere decisioni venissero invece prese tra pochi individui.
Nei decenni successivi alla rivoluzione comportamentista, il ruolo delle istituzioni ha avuto un
nuovo rilancio, sia pure con modalità diverse che, nel loro complesso, hanno determinato lo sviluppo
del cosiddetto approccio neoistituzionalista.
A partire dagli anni Settanta, un gruppo sempre più numeroso di scienziati della politica ricominciava a
studiare le istituzioni statali.
Dall’interesse per lo “Stato”, l’agenda istituzionalista si è estesa successivamente a tutte le istituzioni,
pubbliche e private, strutturali e cognitive, fisiche e mentali.
Questo approccio si è venuto differenziando in tre filoni.
In comune, tali filoni hanno l’attenzione alle istituzioni ed alle capacità di influire sui comportamenti
degli attori e sulle decisioni politiche.
Dove differiscono è sui meccanismi di tale influenza.
Il neoistituzionalismo storico colloca i processi politici all’interno di percorsi dai quali essi sono
dipendenti sia in relazione alla loro persistenza sia in relazione al loro cambiamento.
Il neoistituzionalismo sociologico-organizzativo sottolinea come il comportamento politico sia
fortemente influenzato dalle modalità mediante le quali le “istituzioni” (intese in senso lato, come
schemi di comportamento persistente di tipo culturale e sociale) formano le preferenze degli individui
e quindi ne influenzano il comportamento.
Il neoistituzionalismo razionale – utilizzando l’analisi razionale propria degli approcci economici –
sviluppa l’esigenza di collocare i comportamenti individuali in contesti istituzionalmente vincolati.
Una famiglia di approcci teorici che periodicamente si riaffaccia, rinnovandosi ed acquisendo
sempre nuovi tratti, è quella culturista.
Alla sua base sta la convinzione che la cultura e i valori siano determinanti fondamentali del
comportamento politico.
Il difetto principale di questi approcci è che non poggiano su alcun tentativo di dimostrare la loro
effettiva consistenza e di spiegarne l’origine.
La “cultura” di questo o quel popolo diventa pertanto una conveniente variabile residuale in cui
scaricare tutta la varianza non spiegata dai fenomeni politici e sociali sotto osservazione.
Il tema dell’applicabilità del sapere prodotto dalla scienza politica è diventato molto dibattuto, prima in
America e successivamente anche in Europa.
Ancora oggi esso è un tema fondamentale che ha a che vedere con questioni complesse.
Nonostante sia l’estensione che l’applicabilità della scienza politica non siano ancora certe, è
comunque possibile dare una risposta minimale alla domanda a che cosa serve la scienza politica?.
In primo luogo, serve ad offrire ai cittadini e ai decisori una visione dei fenomeni politici, delle loro
cause e dei loro potenziali effetti, deideologizzata ed empiricamente fondata.
In secondo luogo, la scienza politica è una disciplina che educa alla democrazia perché, “svelando”
come davvero funziona la politica, ne fa emergere, in modo empirico, i vizi e i problemi.
La scienza politica, in definitiva, aiuta la democrazia a correggere i propri errori e a migliorarsi, per
quanto possibile.
Le procedure di raccolta delle osservazioni, di elaborazione dei concetti e di collegamento fra questi in
proposizioni verificabili – cioè, ciò che consideriamo “ricerca scientifica” – sono storicamente e
culturalmente determinate.
La ricerca politica e sociale non è solo apprendimento autocosciente, ma è anche apprendimento
metodologicamente autocritico.
Non ci basta conoscere in maniera rigorosa, vogliamo anche “sapere come sappiamo”.
Quando ci proponiamo di conoscere in maniera scientifica, compiano due “atti di fede” – meglio detto,
partiamo da due premesse di base che non possiamo provare – magari senza neanche saperlo.
La prima è una premessa di tipo ontologico (aggettivo che si riferisce al discorso sull’esistenza, o
essenza), e consiste nello “scommettere” che la realtà politica e sociale “là fuori” è caratterizzata da
una certa regolarità.
La seconda premessa è di tipo epistemologico (aggettivo che si riferisce al discorso sulla veridicità, o
verità), e consiste nello scommettere che, grazie a disciplinate osservazioni e a rigorosi metodi di
inferenza, possiamo effettivamente conoscere quella realtà.
Insieme, queste due premesse ci consentono di applicare metodi di osservazione, concettualizzazione e
misurazione della realtà che possono portare a conoscenze valide, comunicabili e potenzialmente
replicabili.
Il lavoro degli scienziati politici consiste nel ricercare regolarità all’interno di una realtà che appare
casuale e caotica e che, se così davvero fosse, non potrebbe essere conosciuta sistematicamente.
Su un versante opposto si posizionavano invece studiosi che, come Dilthey, erano ben coscienti del
fatto che scienze naturali e scienze umane e sociali erano divise dalla diversa relazione che esiste tra
oggetto e soggetto.
Per Dilthey, così come per Weber, era possibile conoscere la realtà politica e sociale in modo
scientifico, ma ciò a cui occorre rinunciare è la pretesa – illusione – di aver così stabilito una
connessione fra noi e la realtà “là fuori”.
Il passaggio dall’induttivismo – partire dalle osservazioni empiriche per “scoprire” regolarità nella
loro manifestazione – al deduttivismo – partire da una qualche forma di “pre-teoria” che postula
l’esistenza di regolarità per verificare se le osservazioni empiriche si confanno ad esse – ormai
dominante nelle scienze sociali (e naturali) è quasi completato.
Per Karl Popper, compito della scienza è di sottoporre le teorie scientifiche a falsificazioni, al tentativo
cioè di individuarne le debolezze ed eliminarle in un continuo raffinamento e rafforzamento delle
stesse: di qui il termine di “falsificazionismo” con cui si denota la posizione filosofica di Popper.
Non appena un teoria scientifica è falsificata, va abbandonata e sostituita con un’altra che fornisca una
maggiore aderenza dei concetti-termini ai dati.
Popper chiaramente crede ancora nel progresso della scienza.
Affinché la scienza progredisca, il procedimento scientifico deve essere trasparente, replicabile e
pubblico.
Per Thomas Kuhn, invece, la scienza non procede gradualmente per affinamenti incrementali, ma
attraverso “rivoluzioni”.
La scientificità delle teorie non consiste nella loro progressiva sempre migliore aderenza al dato reale,
ma nell’attenersi agli statuti epistemologici in quel momento prevalenti.
Il concetto stesso di “scientificità” è socialmente determinato: la garanzia di una qualche forma di
“oggettività scientifica” risiede nel consenso della comunità scientifica che condivide quell’insieme di
teorie, leggi e procedure che formano un paradigma.
Imre Lakatos tenta una sintesi ed un riavvicinamento tra le posizioni di Popper e di Kuhn, affermando
che se non basta falsificare una teoria per scartarla completamente, il passaggio da una teoria all’altra
non è nemmeno dettato da mode improvvise.
Ogni teoria per Lakatos è collegata ad un “programma di ricerca” costituito da un nucleo centrale di
ipotesi di base che è possibile, anzi doveroso, preservare da falsificazioni affrettate, grazie all’aggiunta
di ipotesi che le rendano più capaci di spiegare la realtà, finché una teoria ed un programma alternativo
di ricerca non vengano sviluppati.
È evidente come nelle scienze sociali contemporanee ci si è allontanati dal concetto di “oggettività”
ottocentesco in virtù di idee fondamentali quali la centralità del momento teorico e la provvisorietà e
reversibilità delle teorie scientifiche.
È la teoria che, nel bene e nel male, condiziona l’intero processo di indagine, consentendo di porre o
non porre dei problemi e prefigurandone soluzioni inadeguate o adeguate.
L’elemento fondante della razionalità scientifica e del suo controllo consiste nella pubblicità,
ripetibilità e controllabilità di ogni proposizione, di ogni indagine, esperimento, enunciazione e legge.
L’indagine scientifica è quell’articolato e non lineare processo che da una situazione indeterminata
(qualcosa che “non torna”, per così dire) conduce alla posizione di un problema, che è tale solo in
quanto, con l’intervento di un abbozzo di teoria, o congettura, risulta affrontabile e risolubile.
Vi sono molti obiettivi possibili che uno scienziato sociale può voler perseguire nello svolgere
un’indagine scientifica.
In primo luogo, uno scienziato politico può voler descrivere accuratamente un fenomeno politico.
A questo fine, lo scienziato politico deve raccogliere una grande quantità di dati su aspetti che la sua
esperienza gli suggerisce possono essere rilevanti.
In studi descrittivi, la quantità e il tipo dei dati raccolti può essere davvero vastissima e lo scienziato
politico rischia di essere considerato un “cantastorie” (story-teller).
In secondo luogo, uno scienziato politico potrebbe voler spiegare un fenomeno.
È importante precisare che spesso la relazione che gli scienziati sociali riescono a stabilire è di mera
correlazione piuttosto che di vera e propria causazione.
In terzo luogo, un obiettivo che lo scienziato politico può porsi è prevedere un evento o risultato.
Molto interessati alle previsioni sono ovviamente i politici candidati alle elezioni, che vorrebbero
sapere quali comportamenti tenere al fine di massimizzare la probabilità di essere eletti.
Ma anche i legislatori e i policy-maker desiderano prevedere i risultati attesi di una loro decisione.
In quarto luogo, coloro che consigliano i decisori sono esperti che utilizzano i modelli “scientifici”
costruiti per prevedere, ma anche per prescrivere comportamenti.
Il termine “prescrizione” può indicare una semplice raccomandazione basata su una previsione,
oppure, in senso normativo, un precetto a cui è opportuno o giusto attenersi.
La scienza politica del dopoguerra si è astenuta da entrambe queste attività e ha evitato sia di mettere
le proprie conoscenze “a servizio del Principe” sia di intavolare ragionamenti normativi, lasciati ai
filosofi politici.
Infine, occorre ricordare che dal dibattito sulle scienze sociali emerge anche una posizione
epistemologica costruttivista della scienza, che ritiene che la realtà sociale non esiste di per sé “là
fuori”, ma venga “costruita” attraverso le mappe concettuali e valoriali degli attori sociali.
Di conseguenza, gli scienziati sociali devono innanzitutto comprendere le mappe cognitive e le ragioni
profonde che orientano e muovono gli attori sociali e dare così significato ai loro comportamenti e agli
avvenimenti politici e sociali.
In base a questa posizione, pertanto, obiettivo della scienza politica è innanzitutto interpretare gli
avvenimenti e i comportamenti sociali.
Giovanni Sartori (1924-) è considerato il padre della scienza politica italiana contemporanea e uno
dei più importanti scienziati politici a livello internazionale.
Filosofo di formazione, è stato il primo professore di Scienza politica in Italia e il fondatore della
“Rivista italiana di Scienza Politica”.
La posizione di Marradi è più sfumata rispetto a quella di Sartori: per Marradi la realtà può essere
suddivisa in molti modi diversi a seconda delle esperienze vissute della popolazione che usa il
linguaggio e delle esigenze del ricercatore.
Famoso è il suo esempio della neve che, nel linguaggio delle popolazioni dell’estremo Nord è indicata
con numerosi termini diversi che indicano altrettanti tipi di neve corrispondenti alle loro molteplici
esperienze.
Per questo motivo le traduzioni da una lingua a un’altra sono così difficili, perché ogni termine
rimanda a un’esperienza che può essere anche molto diversa.
Un esempio meno naturalistico è dato dalle difficoltà che i traduttori del Forum mondiale delle donne
ebbero nel 1999 nel tradurre in alcune lingue il concetto di “donna” senza necessariamente associarlo a
quello di madre, moglie o figlia.
Proprio per questo motivo diventa importante definire con cura ogni concetto che viene usato nella
ricerca scientifica.
Innanzitutto va definito il fenomeno che si intende descrivere, spiegare o interpretare: la variabile
dipendente.
Sartori distingue concetti teorici (che non rimandano ad alcun referente osservabile) da concetti
empirici (che rimandano a referenti osservabili).
“Partito politico” è un concetto empirico, “democrazia” è un concetto teorico.
Indipendentemente dalla loro natura, però, sia i concetti teorici che quelli empirici devono poter essere
definiti con precisione.
La definizione di un concetto deve contenere tutte e solamente quelle proprietà o caratteristiche del
concetto che servono a distinguerlo univocamente da altri concetti affini.
Spesso un concetto e i suoi affini sono accomunati da un certo numero di caratteristiche, ma
differiscono in base ad almeno una di queste.
I concetti stanno in relazione ad altri concetti che si situano a livelli superiori o inferiori nella scala di
astrazione avendo in comune con essi un certo numero di caratteristiche necessarie ma non altre
caratteristiche accessorie.
Aggiungendo caratteristiche al concetto più ampio di partenza si arriva ad un concetto più ristretto.
Chiamando intensione (o connotazione) l’insieme delle caratteristiche che definiscono un concetto-
termine ed estensione (o denotazione) l’insieme dei referenti empirici indicati dal concetto-termine, è
possibile stabilire che tra intensione ed estensione esiste un rapporto inverso: quanto più è limitata
l’intensione (cioè il numero di caratteristiche che definiscono necessariamente un concetto), tanto più
ampia è l’estensione (cioè il numero dei referenti empirici che sono denotati dal concetto) e viceversa.
L’intensione del concetto ci permette quindi di stabilirne con precisione l’estensione, cioè quali casi
empirici vengono denotati dal concetto e possono essere strumento della nostra indagine.
I concetti sono le variabili della nostra ricerca.
Per utilizzarli come tali, dobbiamo tradurre le caratteristiche che compongono la loro intensione in
altrettanti indicatori osservabili e in ciò consiste l’operazionalizzazione del concetto.
Ad esempio, affinché si possa decidere se una determinata associazione è un partito politico dovrò
determinare se è formalmente libera, se il suo scopo è nominare candidati e se questi aspirino a
conquistare il potere politico.
Ciascuna di queste caratteristiche deve a sua volta essere misurata da un indicatore, in modo da
rendere possibile la determinazione della presenza o assenza della caratteristica.
Inoltre, deve essere possibile combinare gli indicatori in indici sintetici, attraverso formule
matematiche o logiche, al fine di arrivare ad una misurazione univoca del referente del concetto.
I concetti sono costrutti sociali e pertanto hanno una loro storia.
Inoltre, i termini che indicano i concetti delle scienze sociali, al contrario dei termini che indicano i
concetti delle scienze naturali o fisiche, sono pericolosamente simili (talvolta identici) ai termini del
linguaggio comune.
Questa circostanza genera due pericolosissime tendenze.
In primo luogo, la tendenza a far perdere precisione al ragionamento socioscientifico, perché anche gli
scienziati della politica possono passare dall’utilizzo di termini precisamente concettualizzati
all’utilizzo di termini del linguaggio comune.
In secondo luogo, la tendenza a credere che chiunque “parli di politica” – letteralmente, il politologo –
sia per ciò stesso uno scienziato della politica.
La vicinanza e somiglianza del linguaggio socioscientifico a quello comune causa due ulteriori
problemi al quale lo scienziato della politica deve prestare attenzione.
Il primo è che, magari per perseguire un’errata concezione del “bello scrivere”, lo scienziato della
politica può essere indotto a utilizzare termini diversi per denotare gli stessi referenti empirici, facendo
così perdere di precisione al testo e di conseguenza al ragionamento.
I sinonimi sono pericolosi perché possono nascondere sottili differenze che possono inficiare una
ricerca scientifica.
Peggio ancora sono gli omonimi (termini identici per denotare referenti empirici diversi), perché
generano immediatamente confusione.
Il secondo problema è che, per utilizzare termini del linguaggio comune in maniera scientifica
(laddove coniare un termine nuovo sarebbe troppo complesso o artificiale), occorre prima depurarli
dalle varie concrezioni linguistiche che vi si sono attaccate nel corso del tempo in seguito all’uso
comune.
Talvolta nemmeno questo lavoro di ricostruzione del termine riesce a depurare il concetto una volta per
tutte delle caratteristiche accessorie che lo rendono meno preciso.
Come iniziare a formulare un’ipotesi di ricerca quando il fenomeno è del tutto nuovo?
Si entra nella cosiddetta “modalità di scoperta” e si fa come gli entomologi che raccolgono una gran
quantità di esemplari (osservazioni) e li catalogano a seconda delle caratteristiche più evidenti.
Supponiamo che degli entomologi vogliano studiare un tipo di insetto nuovo, mai osservato prima.
Essi ne raccoglieranno molti esemplari e li classificheranno, ad esempio, a seconda della dimensione,
del colore, delle caratteristiche delle zampe, e terranno accurata nota di dove gli hanno catturati.
È questa la fase della classificazione, che può andare dalla classificazione più semplice (in base ad una
sola caratteristica) alle classificazioni più complesse (in base a numerose caratteristiche).
Una volta terminata la fase della raccolta degli esemplari, gli entomologi inizieranno a mettere in
correlazione due o più caratteristiche.
Potrebbero così scoprire che gli insetti più grandi si trovano in zone umide e quelli più piccoli in zone
aride, oppure che la colorazione dell’insetto cambia a seconda della provenienza geografica.
Si potrà così iniziare ad ipotizzare delle correlazioni tra le varie caratteristiche dell’insetto.
Certo, le associazioni dipenderanno in parte da nozioni o teorie già note.
Il fatto che qualsiasi ipotesi venga ispirata da teorie o pre-teorie già esistenti, potrebbe indurre questi
studiosi ad ignorare caratteristiche – e associazioni tra caratteristiche – potenzialmente molto
interessanti, proprio perché nessuna teoria finora aveva suggerito che potesse sussistere tale
associazione.
Se, però, essi si mantengono fedeli alla “modalità della scoperta” allora saranno disposti a formulare
ipotesi mai avanzate prima.
Riprendendo l’esempio dell’insetto, si potrebbe stabilire che la colorazione dell’insetto individua classi
differenzi (si ha, quindi, una classificazione): verde, marrone e rosso.
Qualora, però, vengano identificate delle associazioni sistematiche tra le caratteristiche, la
classificazione dà luogo ad una tipologia.
Il termine “tipo”, infatti, indica una sottospecie del genere che mostra caratteri appunto “tipici”, cioè
facilmente riconoscibili, rispetto ai caratteri “generali”.
Gli studiosi potrebbero scoprire che gli insetti che vivono in zone paludose sono verdi (tipo I), quelli
che vivono in zone temperate sono marroni (tipo II) e quelli che vivono in zone aride sono rossi (tipo
III).
Ecco allora che il colore dell’insetto viene messo in correlazione con l’habitat in cui si trova a vivere e
si costruisce una tipologia.
È facile intuire come la costruzione di una tipologia possa essere, e spesso è, il primo passo verso la
formulazione di ipotesi che, se confermate da successive osservazioni, potrebbero essere elevate a
teorie (in attesa di essere confutate).
Le classificazioni e le tipologie, affinché siano utili al fine di sviluppare ipotesi di ricerca e quindi
generare nuove teorie / confutarne di esistenti, devono risultare collettivamente esaustive, e cioè tutti
gli esemplari devono poter essere posizionati in una casella.
Le caselle delle tipologie non devono essere necessariamente tutte piene; anzi, quanto più gli esemplari
tenderanno a raggrupparsi in tipi distinti, tanto più sarà facile formulare delle correlazioni tra
caratteristiche.
In entrambi i casi, però, nessun esemplare deve poter essere messo indistintamente in una o in un’altra
casella: i tipi devono essere mutuamente esclusivi.
Tutto di solito nasce da una curiosità, dalla sensazione che qualcosa “non torna”.
Da una “situazione che non torna” ci avviamo presto a considerare questi fenomeni come “problemi”
degni di essere studiati scientificamente.
Un problema è un fatto ritenuto socialmente significativo e teoricamente rilevante proprio perché
cozza con prenozioni e pregiudizi, a loro volta radicati in un corpus di conoscenza acquisito.
Data una stessa situazione problematica, scienziati sociali diversi si porranno domande diverse a
seconda della tradizione disciplinare a cui appartengono.
In altre parole, da una situazione problematica possono essere formulati numerosi problemi degni di
spiegazione scientifica.
Solo un problema che abbia una qualche significatività sociale o rilevanza teorica vale la pena di
essere posto e indagato.
Il primo passo per ogni studioso, quindi, è giustificare il quesito della propria ricerca.
A sua volta la ricerca può avere la finalità di esplorare un fenomeno fino a quel momento ignorato
oppure può avere lo scopo di affinare una teoria esistente che, nel caso del fenomeno in questione,
mostra una inaspettata debolezza.
Per partire davvero con la ricerca, occorre definire i propri concetti, cioè stabilire una correlazione
precisa e univoca tra fenomeno, significato e termine.
Ora, ciò che conta è stabilire una stretta connessione tra la domanda, la teoria che viene mobilitata al
fine di rispondere alla domanda e il caso o i casi empirici da studiare al fine di accertarsi che
effettivamente la teoria risponda alla domanda di ricerca
sollevata.
Questa relazione tra domanda (D), teoria (T) e casi empirici (C)
può essere rappresentata come un triangolo.
Delimitati dai lati del triangolo sono i metodi di indagine (M).
Normalmente, si parte dalla domanda.
Ma si può anche partire da una teoria che si vuole testare:
occorrerà allora porsi una domanda e scegliere e dei fenomeni
politici sociali o politici che rappresentano un “problema” alla
luce della teoria prescelta.
Può infine capitare che si voglia studiare uno o più casi empirici (es. dei sistemi politici o dei partiti
politici particolari): occorrerà in questo caso porsi una domanda e selezionare almeno una teoria per la
quale i casi prescelti siano effettivamente rilevanti ai fini di rispondere alla domanda di ricerca.
Insomma, da qualunque parte si voglia iniziare, domanda, teoria e casi dovranno “tenersi” tra loro.
Lo spazio della ricerca così delimitato richiederà poi l’utilizzo di metodi specifici.
Può darsi che si goda di un certo margine di scelta, altre volte i metodi di indagine da utilizzare
saranno praticamente prederminati.
Ciò che non può in nessun caso succedere è che domanda, teoria, casi e metodi vengano selezionati
indipendentemente gli uni dagli altri: il triangolo deve chiudersi e “tenere”.
Anche nella vita di tutti i giorni ci facciamo guidare da ragionamenti che hanno molte caratteristiche in
comune con il ciclo della ricerca scientifica.
La maggiore differenza tra le decisioni di tutti i giorni e le strategie di ricerca sta nel fatto che lo
scienziato sociale cerca in ogni passaggio di monitorare il proprio ragionamento e di evitare
accuratamente gli errori più comuni.
“Il metodo scientifico è un potenziamento del buon senso” (Isernia).
Gli errori più comuni sono:
1. La sovrageneralizzazione del risultato (concludere che quello che vale per i casi che conosciamo
valga per tutti i casi possibili);
2. Le osservazioni sbagliate, che spesso ci inducono a “vedere quello che vogliamo vedere”;
3. I ragionamenti viziati (rigettare le ipotesi che non derivano dalla nostra teoria preferita o ignorare le
conclusioni che non confermano la stessa oppure ancora trovare ordine e regolarità anche dove non ve
ne siano affatto).
Inoltre, la ricerca scientifica è risultato dello sforzo di un’intera comunità che, per poter permettere la
verifica delle ipotesi e il controllo dei risultati, deve rendere pubblici ipotesi, dati e procedure.
Vi sono numerose strategie di ricerca, spesso determinate dal numero di casi a disposizione, dalla
domanda e dalla predisposizione del ricercatore.
Anche il contesto sociale, politico e culturale nel quale il ricercatore si muove può avere influenza
sulle domande che il ricercatore si pone e sulle strategie di ricerca che mette in atto per rispondervi.
Quando si indaga un fenomeno nuovo, si vorrà innanzitutto interpretarlo, cioè comprenderne le ragioni
profonde, o descriverlo e magari metterne in evidenza le caratteristiche per proporre un termine atto a
designarlo.
Quando, invece, si ha a che fare con un fenomeno già osservato, ma di cui si percepiscono
caratteristiche nuove, si vorrà esplorarne le possibili determinanti, prevedere le sue successive
manifestazioni o indicare azioni che a esso rispondano.
Muovendo invece i primi passi nella formulazione di un’ipotesi o nella verifica di una teoria, è
necessario decidere quanti casi studiare e come: dovremo cioè porci il problema se comparare o meno
e, nel caso, quanti casi comparare.
Occorre accennare ai tipi di analisi che si intendono condurre ed alle strategie che occorre adottare.
Dobbiamo innanzitutto distinguere tra analisi che mirano a spiegare un singolo fenomeno e analisi che
mirano a spiegare una classe di eventi o fenomeni.
Dobbiamo poi decidere se porci in un’ottica prospettiva o retrospettiva, se cioè ci poniamo idealmente
all’inizio della catena di eventi e ci chiediamo quali avrebbero potuto essere i risultati finali, oppure se
partiamo dall’evento finale che intendiamo spiegare e cerchiamo di identificare la sequenza che ha
portato a quello specifico risultato.
Dobbiamo infine impadronirci della terminologia e saper distinguere tra variabili “dipendenti”,
“indipendenti”, “intervenienti” e “di contesto”.
Si chiama variabile dipendente il fenomeno o l’evento che intendiamo spiegare (y).
Sono variabili indipendenti (x1, x2, x3 … xn) quelle condizioni o circostanza che, separatamente o
congiuntamente, determinano il verificarsi dell’evento o fenomeno che vogliamo spiegare.
Queste variabili saranno effettivamente indipendenti se il verificarsi dell’una è indipendente dal
verificarsi dell’altra (assenza di multicollinearità).
Saranno variabili intervenienti quelle variabili che alterano l’intensità, o addirittura il segno, delle
altre variabili indipendenti.
Saranno variabili di contesto quelle variabili che definiscono le circostanza in cui l’analisi
comparata ha luogo.
Un esempio ci aiuterà.
Parlando di “rivoluzioni”, molte teoria hanno messo in luce il ruolo delle condizioni di privazione
assoluta delle popolazioni (es. esosità del regime fiscale, assenza di libertà).
Si è cioè per molto tempo ritenuto che condizioni particolarmente insopportabili di vita dovessero di
per se stesse spingere la popolazione alla rivoluzione.
Visto che ciò non bastava a spiegare le rivoluzioni, è stata allora avanzata l’ipotesi che non fossero
tanto condizioni di privazione assoluta a spingere le popolazioni alla rivoluzione, ma condizioni di
privazione relativa.
Si è cioè notato come le rivoluzioni scoppiassero più facilmente in seguito ad un peggioramento
significativo e improvviso delle condizioni di vita o anche, paradossalmente, in seguito ad un
miglioramento delle stesse piuttosto che in seguito ad un loro graduale peggioramento.
Questa osservazione ha generato a sua volta due ipotesi ulteriori.
La prima suggerisce che non sono i cambiamenti graduali – verso il basso o verso l’alto – a suscitare
una mobilitazione rivoluzionaria, quanto improvvisi e significativi cambiamenti.
La seconda suggerisce che è il contrasto tra una situazione disperata ma considerata inevitabile a
motivare le masse all’azione dà quindi conto, in particolare, del paradosso di rivoluzioni che scoppiano
dopo un miglioramento nelle condizioni di vit.
Nemmeno questo però bastava a discriminare fra rivoluzioni che scoppiavano ma che non avevano
successo – cioè che non portavano ad un mutamento del regime, e quindi denotate come semplici
ribellioni o rivolte – e rivoluzioni che invece non avevano successo.
Tutte le variabili indipendenti identificate precedentemente venivano come condizioni necessarie – in
assenza delle quali il fenomeno non può accadere – ma non sufficienti.
Variabile interveniente fondamentale era invece la presenza di una leadership che potesse spingere e
coordinare le masse alla rivoluzione.
4. Dalle strategie di ricerca alle tecniche
È ovvio che quanto più crescono le variabili e i casi tanto più verosimilmente dovremo utilizzare il
metodo statistico perché non potremo più gestire qualitativamente i dati.
Non sarà di fatto possibile sperare di prendere in considerazione tutte le variabili indipendenti
potenzialmente rilevanti, quindi l’ultima riga è una riga dell’impossibilità.
Non così per il numero dei casi: in moltissimi studi elettorali possiamo essere ragionevolmente certi di
contare tutti i voti o di esaminare tutte le amministrazioni comunali.
Il metodo comparato riceve il suo nome in un famoso articolo di Arend Lijphart.
Esso si basa su una selezione giudiziosa dei casi: per limitare il numero potenzialmente elevatissimo di
variabili indipendenti è possibile selezionare i casi in modo da “controllare” alcune variabili
indipendenti.
Per spiegare, ad esempio, la forza elettorale del Partito comunista in Italia nel secondo dopoguerra si
potrebbe in teoria comparare l’Italia con tutti i sistemi politici occidentali in cui c’era in quell’epoca
un partito comunista.
Poiché però le differenze geografiche, sociali, culturali e storiche fra i casi possibili sarebbero
probabilmente molte e significative e i casi insufficienti ad un’analisi quantitativa, sarà allora più
opportuno scegliere di comparare l’Italia con un paese con il quale l’Italia condivide molte
caratteristiche, ad esempio la Francia.
In questo modo, molte variabili indipendenti potenzialmente rilevanti – es. posizione geostrategica,
caratteristiche culturali, situazione sociale e persino qualche dato storico – non varieranno nei due casi
e quindi potremo sperare di isolare quelle pochissime variabili indipendenti (es. il rapporto tra Partito
comunista e Partito socialista) che possono spiegare il diverso radicamento dei due partiti comunisti.
Potremmo così spiegare questa situazione:
Y = f (X1, X2, X3, X4, X5)
Arend Lijphart (1936-), olandese cresciuto accademicamente negli Stati Uniti, deve la sua fama alla
lunghissima serie di lavori sui modelli democratici.
La discussione sul metodo comparativo non può prescindere dal suo articolo del 1971 Comparative
Politics and the Comparative Method.
Se invece avessimo optato per il metodo statistico (quantitativo), avremmo dovuto studiare un
numero ben più alto di casi.
Così facendo avremmo dovuto necessariamente includere nel nostro campione sistemi politici molto
diversi tra loro e avremmo dovuto raccogliere dati su molte variabili.
Con ogni probabilità alcuni di questi dati sarebbero stati mancanti o di dubbia precisione, ma fare
affidamento su molte osservazioni avrebbe corretto e compensato la scarsa qualità dei singoli dati.
Insomma, i risultati del metodo statistico forse sono meno significativi, ma certamente più affidabili.
La differenza sta in questo: mentre il metodo comparativo genera risultati significativi, perché le nostre
conoscenze dei casi sono approfondite, il metodo statistico genera risultati affidabili, perché i dati su
cui poggiano sono molti e le procedure con cui vengono elaborati sono rigorose.
Nel primo caso, i casi di studio vengono scelti in maniera tale da controllare la maggior parte delle
variabili indipendenti, mentre nel secondo si cerca di massimizzare il numero di dati e osservazioni
disponibili.
È possibile affermare che la scienza politica contemporanea si orienta con preferenza verso i metodi
quantitativi.
Succede talvolta che studi molto importanti, che segnano la storia della scienza politica, si incentrino
in realtà su un unico caso.
Questi studi sono effettivamente “scientifici” solo se rispondono ad alcuni criteri.
Innanzitutto, se la teoria che intendono verificare o refutare è ben specificata.
In altre parole, si suppone che la teoria che il caso testa sia stata elaborata sulla base di un accurato
studio comparativo di tipo tradizionale.
Si tratterà, allora, di un caso critico: un caso in cui tutte le variabili indipendenti, intervenienti e di
contesto si comportano esattamente come dice la teoria.
Un’altra fattispecie di studio va per certi versi nella direzione opposta: invece di poggiare su una
teoria già bella e formata, lo studio di caso serve a ipotizzare una certa relazione tra variabili, relazione
che dovrà poi essere verificata successivamente tramite uno studio più convenzionale.
Si parla in questo caso di caso clinico.
Anche gli studi più convenzionali, che contengono osservazioni su molteplici casi, possono rispondere
ad esigenze diverse.
È possibile voler studiare come mai casi apparentemente simili mostrino invece comportamenti della
variabile dipendente divergenti dalle aspettative: si tratta in questo caso di un disegno di ricerca dei
casi più simili volto appunto a identificare comportamenti devianti inaspettati.
Al contrario, è possibile voler mostrare la presenza di un trend molto potente che attraversa sistemi
politici anche molto diversi tra loro: si opterà allora per un disegno di ricerca che coinvolga casi che,
nelle variabili indipendenti, siano il più possibile dissimili tra loro, in modo da far risaltare ancora di
più la potenza della variabile trasversale che li influenza tutti.
Un modo semplicistico ma efficace di pensare a queste diverse strategie di ricerca è immaginare che vi
siano ricercatori che amano trovare nei fenomeni politici elementi comuni (i lumpers) e ricercatori che
amano trovare differenze (gli splitters).
Quando il disegno della ricerca coinvolge lo stesso caso in momenti differenti della sua evoluzione
o storia avremo uno studio diacronico.
Gli esempi più famosi di studi diacronici appartengono per lo più ad all’ambito dello sviluppo
economico e politico.
Ad esempio, Alexander Gerschenkron ha elaborato una teoria dello sviluppo economico in base alla
quale i primi paesi a industrializzarsi hanno potuto fare affidamento su una industrializzazione
graduale finanziata con i proventi dell’agricoltura (Regno Unito, Stati Uniti); i paesi della seconda
ondata di industrializzazione, subendo già la competizione dei primi paesi industriali, hanno dovuto
mobilitare risorse più ingenti e finanziare l’industria nascente tramite prestiti bancari (Belgio, Francia,
Germania); infine i paesi di terza industrializzazione hanno dovuto superare condizioni ancora più
competitive e si sono potuti industrializzare solo grazie all’intervento dello Stato stesso (Italia, Russia,
Cina).
opinione (survey), che ha avuto una vera e propria esplosione negli ultimi decenni grazie
all’introduzione di vari mezzi di comunicazione.
1. I regimi politici
Per regime politico si intende il particolare complesso di istituzioni politiche o, meglio, l’insieme di
regole e procedure con i relativi valori o principi di riferimento.
Tal nozione costituisce uno strumento analitico generale valido a indicare un qualunque assetto
strutturale che dà forma e organizza la lotta per il potere.
Inoltre, la nozione è strettamente collegata a quella di sistema politico.
In particolare, il primo costituisce una componente cruciale del secondo – assieme alla comunità
politica e alle autorità.
In senso lato, regime è sinonimo di “ordinamento”, cioè di un insieme di norme volte a organizzare in
modo stabile e regolare qualche aspetti ritenuto rilevante della nostra esistenza.
In prima approssimazione, per regime politico intendiamo la struttura dei rapporti che legano assieme
le autorità e la comunità politica.
L’insieme di questi tre elementi (autorità, regime e comunità) costituisce per David Easton un “sistema
politico”.
Gli elementi che contraddistinguono il regime politico sono: il territorio; l’organizzazione o “strutture
di governo”; la classe politica (inclusione, selezione, compiti); il tipo di legittimazione su cui si fonda
il sistema politico.
1.2. Il territorio
I regimi territoriali sono entità territoriali l’appartenenza alle quali è definita da confini
geograficamente identificabili.
Del resto, sfogliando dei testi di diritto pubblico, è facile imbattersi nell’elenco degli elementi
costitutivi dello Stato: la sovranità, il popolo e, appunto, il territorio.
Il carattere della territorialità sembra talmente connaturato all’esistenza stessa dello Stato moderno che
oggi la deterritorializzazione, vale a dire la perdita di rilevanza dei confini verso l’esterno
(globalizzazione, europeizzazione) e/o verso l’interno (regionalizzazione, federalizzazione) viene
considerata uno dei sintomi più evidenti della crisi dello Stato occidentale.
Di seguito, ai regimi politici individuati da Finer, ne aggiungeremo uno:
1. le città-Stato (le polis), si tratta di città autonome e sovrane che controllano un territorio in genere
non molto ampio; talvolta sono organizzate in una lega di città autonome; possono essere governate
secondo modalità chiuse o gerarchiche (es. Sparta) o in forme più aperte e, per lo più, democratico-
repubblicane (es. Atene, Repubblica di Roma, comuni medievali); talvolta sviluppano sensibilmente i
loro possedimenti finendo per assumere le caratteristiche di altri tipi di regimi politici (signorie); la
formazione dello Stato moderno in Europa portò alla progressiva esautorazione di queste realtà locali;
2. gli Stati in senso stretto, che potremmo definire secondo l’uso storiografico europeo “moderni”;
Finer li distingue in Stati territoriali, nei quali esiste il controllo amministrativo (e militare) di un certo
territorio ben più ampio di quello delle città-Stato, ma che non è necessariamente accompagnato dalla
diffusione tra gli abitanti della coscienza di costituire una “comunità”, e in Stati nazionali, dove invece
è centrale la consapevolezza di far parte di una stessa comunità politica; un tale sentimento è rafforzato
dall’omogeneizzazione culturale dei sudditi sulla base di criteri linguistici, religiosi, storici;
3. gli imperi, sono caratterizzati dall’estensione territoriale su larga scala; i loro confini sono flessibili
e aperti; hanno una composizione plurale sotto il profilo culturale, etnico, linguistico, religioso, il che
spesso comporta delle asimmetrie nelle forme di cittadinanza e dei diritti; possono presentare forme di
decentramento, di autonomia territoriale e istituzionale;
4. le federazioni, costituiscono delle modalità di coesistenza e di associazione tra entità politiche
autonome e sovrane sulla base di rapporti contrattuali piuttosto che di una sottomissione imposta
dall’alto come negli imperi e negli Stati territoriali; le forme di unione tra Stati possono assumere
gradazioni diverse, dalle alleanze interstatuali alle confederazioni fino ad arrivare ai sistemi federali,
dove, pur nel rispetto dell’autonomia degli Stati membri, il processo di integrazione si è spinto molto
oltre nella costruzione di organi deputati alla produzione di decisioni vincolanti.
In questo quadro, l’Unione Europea non è più una semplice confederazione di Stati ma non è ancora
uno Stato federale o, come è stato detto, forse è semplicemente un “impero postimperiale”.
Samuel Finer (1915-1993), scienziato della politica inglese dalla profonda sensibilità storica, ha dato
un contributo notevole all’istituzionalizzazione della scienza politica britannica.
Tra le sue opere merita un’attenzione particolare The History of Government from the Earliest Time,
monumentale e originale analisi comparata delle “strutture di governo” che hanno caratterizzato la
storia dell’umanità, dal 3500 a.C. ai primi del Novecento.
3. distribuzione territoriale delle competenza decisionali, cioè la ripartizione dell’autorità sovrana tra
il livello statale, sub statale e sovrastatale (“forma di Stato”).
I primi due tipi di regole attengono alla cosiddetta “divisione orizzontale” dei poteri, cioè alla
ripartizione delle funzioni tra organi o istituzioni che in un dato sistema politico detengono la
sovranità, ovvero il potere autonomo e stabile di prendere decisioni vincolanti e di farle applicare.
Il terzo insieme di regole fa riferimento , invece alla “divisione verticale” dei poteri che dà alle
architetture istituzionali una configurazione più o meno centralizzate o decentralizzate rispetto alle
istanze che emanano i territori.
1.4. La legittimità
La legittimità è un elemento necessario affinché le forme di dominio si stabilizzino e durino nel tempo.
Un dato ordinamento è riconosciuto come vincolante, non solo per paura o per convenienza, ma perché
le sue decisioni sono credute giuste e quindi vengono accettate.
Monopolio della forza e legittimità danno ai regimi politici la massima capacità obbligante poiché
nessun individuo o gruppo che ricade entro la loro giurisdizione (territorio) si può sottrarre alle
decisioni prodotte dalle autorità.
Come precisa Ferrero, la legittimità serve a “umanizzare e addolcire” le relazioni tra gli individui e chi
detiene il potere politico. Solo così il rapporto altrimenti terribile tra chi domina e chi viene dominato
cessa di essere una mera imposizione.
Per Mosca la legittimità corrisponde a un reale bisogno degli uomini di obbedire ai comandi non per
mera forza ma sulla base di qualche principio morale.
Del resto, se le autorità (i governanti) poggiano le loro pretese di dominio su principi morali, riescono
a conservare in maniera più efficace l’egemonia sui subordinati.
Weber ricerca il fondamento della legittimità non tanto su un qualche tipo di evento oggettivo o forza
esterna, ma sull’“atteggiamento del soggetto legittimante rispetto al potere da legittimare”.
Le motivazioni interiori che rendono il potere accettabile per Weber sono rispettivamente: le credenze
nelle doti straordinarie del leader (legittimità carismatica); nella sacralità della tradizione e nella
deferenza verso gli interpreti autorizzati (legittimità tradizionale); nella correttezza delle procedure
formali e delle norme che regolano in modo impersonale l’accesso ai ruoli di autorità, e consenso della
maggioranza (la legittimità popolare di Finer) o nella capacità di risposta ai bisogni dei cittadini (la
legittimità eudemonistica di Gehlen).
In tutti questi casi possiamo parlare di potere legittimo o autorità.
2. La prospettiva sistemica
2.1. Le origini
In scienza politica la prospettiva sistemica diviene celebre agli inizi degli anni Cinquanta grazie a
David Easton che in quel periodo dà alla stampe il volume intitolato, appunto, The Political System.
Così, il concetto di sistema politico finisce per porre l’attenzione sulla relazioni tra elementi politici,
ovunque queste siano presenti e si sviluppino, anche al di fuori dello Stato e dei rapporti formali.
David Easton (1917-2014), nato e formatosi in Canada, si è poi trasferito negli Stati Uniti, dove ha
svolto la sua attività di ricerca e di insegnamento.
Il suo nome è legato indissolubilmente alla vicenda della rivoluzione comportamentista e all’analisi
sistemica della politica.
Per quanto oggi sia difficile parlare di “approccio” o “prospettiva” sistemica, non dobbiamo
dimenticare che le sue radici concettuali ed epistemologiche hanno lasciato tracce evidenti nel
linguaggio della scienza politica internazionale.
Va ricordato che negli anni Settanta lo studioso italiano Paolo Farneti elaborò una visione originale del
sistema politico, centrata sulla sua funzione d’ordine e di mediazione dei conflitti che prendono corpo
nella società civile.
Per Easton “l’idea di un sistema politico si rivela un punto di partenza appropriato e anzi inevitabile”
di una scienza politica empirica.
Molto difficilmente la politica si può separare di netto dagli altri aspetti della vita sociale (parentela,
religione, economia, rapporti informali ecc.).
In questo modo la sfera del politico non si risolveva più nella poderosa costruzione giuridica
rappresentata dalla Stato: “al massimo il concetto di Stato è di solito niente di più che un esempio di un
particolare tipo di fenomeno politico”.
Prendiamo come punto di partenza una versione semplificata del sistema politico di Easton.
Un primo aspetto da sottolineare è l’esistenza di un regolare scambio o relazione tra il sistema –
concettualizzato come un scatola nera o black box – e il suo ambiente di riferimento.
Lo studioso spiega che l’ambiente di un sistema ha natura plurale, può essere biologico, geografico,
sociale ed internazionale.
Da tutti questi ambienti il sistema politico riceve pressioni, shock e in senso più neutro input, ai quali
deve cercare di rispondere se vuole adattarsi e sopravvivere.
Il che avviene attraverso la produzione output (o decisioni) vincolanti.
La dinamica di un sistema politico implica una relazione tra domande conversione risposte
con il relativo feed-back, cioè l’effetto ritorno per cui le risposte inevitabilmente finiscono per incidere
sulle condizioni che hanno alimentato le domande, ad esempio tacitandole, spostando l’interesse dei
cittadini e delle stesse unità di input (es. i partiti, raggiunto un certo obiettivo, si possono dedicare ad
altro), favorendone una radicalizzazione quando non sono prese in considerazione o lo sono solo in
maniera apparente.
Si pone ora il problema di cosa accade dentro la black box, vale a dire nella fase di conversione delle
domande in risposte.
Soffermiamoci sul lavoro di Almond e Powell, nel quale il processo di conversione viene spacchettato
in quattro funzioni che a loro volta determinano altrettante fasi o subprocessi del sistema politico.
3. Lo Stato
3.1. Tra idealtipi e realtà multiformi
Lo Stato – che siamo soliti accompagnare con la definizione di moderno – come lo conosciamo in
Europa costituisce solo una delle possibile forme di regime politico.
Si deve a Machiavelli, già nell’incipit de Il Principe (1513), il merito di aver fissato e volgarizzato il
significato moderno della parola “Stato”.
Come sottolinea Poggi, per quanto sia possibile e legittimo applicare il termine “Stato” alle “polity che
erano esistite in contesti premoderni”, è corretto assumere che il termine “Stato” sia “più
appropriatamente usato per designare le polity caratteristiche dell’ambiente politico moderno, il quale
venne alla luce in Europa occidentale alla fine del Medioevo, approssimativamente tra il XIII e il XV
secolo”.
In questo senso, le due espressioni di “Stato” e “Stato moderno” finiscono per essere equivalenti.
Da parte sua, Finer afferma che “contrariamente a quanti molti ritengono, l’Europa non ha inventato
lo Stato. L’Europa lo ha reinventato dopo un lungo periodo in cui al crollo (dell’Impero romano) era
seguita una condizione di quasi anarchia e successivamente di feudalesimo. Tuttavia, il risultato della
reinvenzione era per molti aspetti diverso da qualunque altra forma-Stato apparsa in precedenza.
Questa forma-Stato è diventata adesso l’unità fondamentale di tutto il mondo”.
A partire dalla culla (europea e occidentale), questo oggetto si sarebbe “globalizzato”, propagandosi nel
resto del mondo.
La questione terminologica, però, non può essere disgiunta da un problema metodologico che risalta
con forza quando si prova a definire lo Stato e il suo processo di sviluppo.
Lo sforzo di ricavare delle generalizzazioni valide da una ricostruzione storica che abbraccia svariati
secoli e che riguarda tutto il globo, a partire dalla culla originaria europea, pone notevoli problemi di
concettualizzazione e comparazione.
Ad esempio, è indubbio che la “territorialità” costituisca un carattere determinante dello Stato
europeo, il che implica il controllori un territorio possibilmente contiguo – a parte le colonie.
Questa, in effetti, è una “invenzione” europea.
Tuttavia, non è l’unico tipo di Stato possibile (es. theatre state, Stato spettacolo).
Le nostre generalizzazioni attorno al concetto di “Stato” sono sempre parziali e, pertanto, vanno prese
con estrema cautela.
Inoltre, non solo esistono una molteplicità di traiettorie di sviluppo e di percorsi distinti, ma sono
sempre possibili delle eccezioni, dei ritardi nello sviluppo, come delle regressioni (la costruzione dello
Stato può fallire).
D’altra parte, le nostre società sono quasi inconcepibili se non si tiene conto del fatto che si sono
strutturate come “Stati” o, meglio, “Stati-nazione” o “Stati-nazionali”.
È questa la tesi dello Stato come container, come contenitore del complesso delle relazioni sociali,
economiche e culturali che si svolgono in un dato territorio.
Per di più, molti autori hanno visto nello Stato una potente e macroscopica forza di civilizzazione della
società e di strutturazione della stessa mentalità degli individui.
Tutti questi caratteri (idealtipici) sarebbero stati acquisiti in paesi coma la Spagna, l’Inghilterra e la
Francia già nel corso delle prime fasi del processo storico di costruzione dello Stato (State-building),
che Poggi definisce di consolidamento territoriale.
Tale espressione, però, comporta anche qualcosa in più oltre all’acquisizione dei tratti originari.
Da un lato, implica la neutralizzazione e sottomissione al sovrano dei “contropoteri” costituiti dalla
Chiesa, dai nobili e dal sistema cetuale, dalle città autonome e dalle magistrature indipendenti.
Dall’altro, la “nascita di strutture posizionali di dominio (o apparati di dominio) che si formano
attorno alla posizione centrale di un signore”.
Questo macroprocesso non è stato lineare e, in gran parte, non è stato neanche un processo
intenzionale, ma piuttosto il sottoprodotto della lotta per la sopravvivenza tra élite che ha dato luogo al
“circuito estrattivo-coercitivo” (tassazione-guerra) con la conseguente formazione di apparati
amministrativi fiscali, militari e civili al servizio dei sovrani.
Tale costruzione, comunque, non è solo un’impresa militare e amministrativa ma ha anche una
dimensione culturale e simbolica manifestata nel “distacco dell’ordinamento politico dalla sua
caratterizzazione religioso-spirituale”.
La formazione dello Stato produsse una formidabile spinta alla secolarizzazione della società, alla
sostituzione della legittimazione trascendente e spirituale dei regimi politici con una legittimazione
immanente e funzionale.
La formazione degli apparati amministrativi specializzati non si esaurisce in questa prima e lunga fase,
ma caratterizza anche la seconda fase di sviluppo dello Stato, che Poggi chiama di razionalizzazione
del dominio.
Questa costituisce un macroprocesso che ha avuto inizio grosso modo nello stesso periodo in cui si
sono fissati gli aspetti militari dello Stato moderno, per inoltrarsi molto oltre, fino al XIX e ai primi
anni del XX secolo.
È proprio nel corso di questa fase che si definiscono pienamente l’insieme di elementi accessori che
vanno dalla razionalità tecnica della burocrazia, alla giuridicizzazione o sottoposizione al diritto
dell’azione statale.
Militari, burocrati e magistrati sono in questo processo i principali alleati del sovrano, ma allo stesso
tempo possono tramutarsi in avversari nella lotta per il potere e il privilegio.
Sul versante esterno del rapporto con la società, lo Stato moderno creò le condizioni che avrebbero
consentito la formazione e lo sviluppo di istituzioni economiche competitive ed efficaci in grado di
alimentare la ricchezza della comunità.
Ciò richiese la garanzia della legge e dell’ordine pubblico, il rispetto dei diritti di proprietà e dei
contratti, la costruzione di infrastrutture (opere pubbliche) e di servizi pubblici.
In breve, la costruzione del mercato.
Secondo Bartolini, è proprio questa particolare idea di “integrazione” tra diversi tipi di rapporti sociali
e, in particolare, economici che differenzia lo Stato moderno europeo da qualunque altro tipo di regime
politico che lo ha preceduto.
Non si deve pensare, però, che ci troviamo di fronte ad un susseguirsi meccanico di stadi idealtipici: le
vicende che hanno caratterizzato lo sviluppo dello Stato moderno sono il frutto dei percorsi storici
complicati, prodotti da conflitti tra periferie e centri, tra classi e gruppi sociali, e che sovente hanno
visto la partecipazione della gente comune.
La storia politica dell’Europa che ha fatto seguito all’età delle rivoluzioni liberali (XVII-XVIII secolo)
può essere riassunta nel progressivo ampliamento delle chance di partecipazione alla vita politica di
gruppi sociali e classi prima escluse.
Quella che è stata chiamata la “seconda venuta della democrazia” dopo l’esperienza originaria greca
presuppone dei processi di lunga durata che hanno reso gli individui politicamente attivi,
trasformandoli da sudditi in cittadini.
In realtà, il processo che avrebbe condotto alle prime democratizzazioni, si sovrappone e si intreccia,
specialmente in Francia e nell’Europa continentale, con il processo di costruzione della nazione.
Soffermiamoci su due ricostruzioni teoriche riguardanti le “prime democratizzazioni”.
La prima è quella di Charles Tilly, che prende in esame i processi di democratizzazione in Europa,
così come quelli di de democratizzazione, lungo l’arco temporale che va dal 1650 al 2000.
Per Tilly la realizzazione della democrazia consiste nell’instaurarsi di una relazione (orizzontale e
aperta) tra autorità e cittadini che comporta “uno spostamento complessivo verso una consultazione [o
competizione] più ampia, uguale, protetta e vincolante”.
Le forme e i risultati di tale macroprocesso dipendono anche dalla “capacità dello Stato di mettere in
pratica le decisioni politiche che assume” o, più semplicemente, dalla “capacità di governo”.
Ne consegue che se è vero che gli Stati forti sono di ostacolo alla democratizzazione nel breve periodo,
nel lungo ne favoriscono l’instaurazione e la stabilità; per converso, gli Stati deboli possono ricevere
dei contraccolpi disgreganti dalla democratizzazione.
Inoltre, nel lungo periodo, gli Stati con elevata capacità di governo e che hanno sviluppato istituzioni
inclusive e responsabili (democrazia rappresentativa) avrebbero mostrato un maggiore sviluppo
economico e sociale.
Per Robert Dahl, le democrazie di massa sono contraddistinte dalla capacità di “rispondere” alle
preferenze espresse dai cittadini considerati politicamente uguali.
Storicamente, questa capacità è il frutto di due subprocessi.
Il primo è la liberalizzazione o libertà di contestazione, che si riferisce al grado in cui in un regime
vengono affettivamente garantiti il diritto di opposizione, la pubblica critica e la competizione aperta
per il governo tra le forze politiche diverse e rilevanti.
Ciò richiede il riconoscimento di quell’insieme di libertà personali, diritti civili che rientrano nella
nozione di “cittadinanza civile”.
Nella misura in cui questi diritti vengono estesi a porzioni sempre più ampie della popolazione,
subentra il secondo processo di inclusione o partecipazione, vale a dire l’estensione della porzione di
popolazione che è legalmente titolare dei diritti politici, la “cittadinanza politica”.
Ciò che distingue i regimi politici non è tanto la forma di governo ma il loro grado di governo.
Non la forma, ma la forza.
Si pensi alla classificazione dei regimi statali sulla base del rischio della loro dissoluzione: Stati dissolti
(collapsed states), falliti (failed states), in via di fallimento (failing states) e deboli (weak states).
Secondo l’indice degli Stati falliti stilato da Found for Peace nel 2013, che riguarda la valutazione di
178 paesi, lungo una scala che varia da 120 (massima allerta e rischio di collasso) a 0 (massima
sostenibilità dello Stato), i paesi con più elevato rischio sono caratterizzati da: pressione demografica;
massicci flussi di rifugiati; vendette tribali o private; squilibri economici e povertà; corruzione e
delegittimazione dello Stato; deterioramento dei servizi pubblici essenziali; violazioni dei diritti umani
e ricorso arbitrario alla violenza; perdita di controllo della forza da parte degli apparati di sicurezza;
interferenza di attori sovranazionali.
I casi estremi della graduatoria, con un punteggio medio di 112, sono la Somalia, il Congo e il Sudan.
Paesi quali l’Iraq e l’Afghanistan, negli anni scorsi in situazioni altrettanto critiche, presentano un lieve
miglioramento.
Per contro, i paesi con gli Stati più sostenibili sono la Finlandia e la Svezia, con punteggi intorno a 19.
L’Italia compare al 147° posto su 178 paesi.
Tale ranking, o altri simili, non risolvono però la questione della concettualizzazione.
Potremmo dire che mentre il fallimento si può definire funzionalmente “come l’incapacità dello Stato
di esercitare il suo ruolo principale, ossia monopolizzare l’uso legittimo della forza all’interno del suo
territorio”, il collasso (o dissoluzione) va considerato istituzionalmente e indica il “tracollo
dell’organizzazione statale e la sua sostituzione da parte di enti privati o subnazionali”.
Quest’ultimo è il caso di quei paesi controllati dai cosiddetti “signori della guerra” quali la Somalia, il
Sudan o l’Afghanistan – si pensi anche al Ghana, Ciad, Sierra Leone, Libano, Haiti – dove milizie e
gruppi privati finiscono per sostituirsi al controllo esclusivo e legittimo da parte di funzionari e
apparati riconosciuto come legittimi da tutte le parti in campo.
In tutti questi casi l’organizzazione statale sperimenta un vuoto di autorità e lo Stato si riduce a una
“mera espressione geografica, un buco nero nel quale un sistema politico è caduto”.
La questione del fallimento può riguardare anche le performance dello Stato su specifiche porzioni di
territorio come nel caso della Colombia o del Venezuela dove si è parlato di “regimi autoritari locali”,
cioè di porzioni territorio dove il rispetto dei diritti umani e la presenza dello Stato è inesistente.
Una situazione di questo tipo, però, si potrebbe verificare anche nelle società occidentali, quando lo
Stato perde il controllo del territorio a favore di gruppi criminali: si pensi ad ampie zone del Meridione
o ai quartieri di grandi città come Scampia o Secondigliano a Napoli o lo Zen a Palermo.
Linz individua quattro modi di ricombinare demos e nazione, cioè di conciliare costruzione dello Stato
e della nazione.
La prima definizione, inserita nel noto lavoro di Schumpeter, solitamente associato alla fondazione
di una concezione elitistica della democrazia, enfatizza due elementi: il forte collegamento tra
inclinazione democratica e presupposti della competizione elettorale, e l’inevitabile delega a una classe
politica chiamata, tra una elezione e l’altra, a esercitare un potere di fatto non bilanciabile in alcun
modo dall’azione della “gente comune”.
La seconda definizione, frutto dell’operazionalizzazione di Dahl, coglie la dinamica di
trasformazione della democrazia contemporanea, focalizzando le garanzie della permanenza e
dell’effettività di quella libertà di scelta che formalmente distacca il cittadino di una comunità
democratica rispetto al suddito di un qualsiasi regime illiberale.
Joseph A. Schumpeter (1883-1950). L’economista austriaco, trapiantato negli Stati Uniti negli anni
Trenta, è autore di scritti fondamentali su sviluppo e ciclo economico, ma la sua notorietà è assai più
ampia rispetto alla disciplina madre; gli scienziati sociali impegnati nello studio della democrazia
liberale lo considerano un riferimento obbligato.
Per gli studiosi empirici della democrazia, l’elemento forse più rilevante è la critica schumpeteriana
all’enfasi partecipatoria della democrazia del popolo, a favore di una forte concezione elitistica
incentrata sulla competizione aperta tra leader.
Si è soliti far risalire a Schumpeter il modello della democrazia procedurale.
Per sviluppare un’analisi autenticamente comparata non si può prescindere dall’esplicitazione di tutti
quegli elementi operativi che giudichiamo necessari per catalogare come democratico un dato regime.
Naturalmente, può essere riscontrata una miriade di definizioni empiriche della democrazia.
Ci limitiamo a sintetizzare il dibattito con la definizione empirica di “regime democratico” ricostruita
proprio da Dahl:
Il regime democratico è un regime che presenta a) un suffragio universale maschile e femminile
effettivamente esercitato tramite b) elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette; c) più di un partito
e d) diverse e alternate fonti di informazione.
Il lavoro di Dahl è ancora un riferimento irrinunciabile, per classificare i diversi risultati dei processi di
formazione delle protodemocrazie (poliarchie) del primo Novecento.
Negli stessi anni, un altro capostipite della moderna politica comparata, il norvegese Stein Rokkan,
mise a fuoco la sequenza di circostanze storiche che hanno caratterizzato la ricorrenza del processo di
democratizzazione: Rokkan definì tale sequenza attraverso il superamento di quattro soglie:
Possiamo riconoscere nelle vicende italiane tra il 1918 e l’avvento del fascismo esempi lampanti dei
fenomeni indicati da Linz nel suo lavoro fondamentale sulla caduta dei regimi democratici.
In primo luogo, il venir meno di una “coalizione dominante”: fenomeno evidente nell’Italia postbellica
con la riduzione dell’area dei liberali (peraltro molto divisi al loro interno) e con la frattura tra lo stesso
establishment “ministeriale” e i due partiti di massa che avevano ottenuto grande successo nelle
elezioni del 1919: i popolari di Sturzo e i socialisti (a loro volta divisi tra riformisti e massimalisti).
In secondo luogo, è presente una radicalizzazione del conflitto che in Italia si esplicitò con le lotte del
“biennio rosso” e con una polarizzazione sociale senza precedenti, che dette origini a manifestazioni di
inaudita violenza.
Infine, bisogna ricordare la ricollocazione degli attori socioistiutuzionali cruciali per il destino della
democrazia.
È fuori dubbio che il comportamento accondiscendente della monarchia e lo stesso atteggiamento della
chiesa costituirono due perni per l’avvento non illegale di un ordine fascista che non aveva certo,
all’inizio della transizione italiana degli anni Venti, un seguito popolare molto forte.
industriale, che ha interessato praticamente tutto l’emisfero nordoccidentale, sia pure con tempi
differenti, diversi casi di crisi e periodi di riflusso.
Seconda ondata: collocata nel periodo compreso tra il 1943 e il 1962, questa ondata si sarebbe
collegata essenzialmente a fattori di ordine politico e militare, e quindi alla trasformazione di una
serie di paesi (principalmente paesi europei, ma anche latinoamericani ed ex colonie) con la fine di
una serie di esperienza dittatoriali ed autoritarie.
Terza ondata: iniziò nel 1974, durante la fase delicata di riorganizzazione su scala globale delle
democrazie, impegnate allora a superare la crisi fiscale attraverso la globalizzazione economica e il
consolidamento di varie organizzazioni sovranazionali.
A seguito di questa ondata, molti regimi del terzo e quarto mondo, legati proprio ai processi di
globalizzazione, avrebbero aperto una nuova prospettiva democratica, portando appunto il numero
delle democrazie a un livello mai raggiunto prima.
In questa ondata ha giocato un ruolo fondamentale il crollo dei regimi comunisti legati all’ex Unione
Sovietica, molti dei quali hanno attraversato un rapido processo di nuova democratizzazione.
Secondo Huntington, la terza ondata di transizione alla democrazia avrebbe avuto una matrice
completamente diversa dalle precedenti, essendo il risultato di cinque forme di mutamento economico,
sociale e culturale (occorse singolarmente oppure in combinazione tra loro):
1. la crisi di legittimazione dei regimi autoritari, anche in virtù di fallimentari politiche pubbliche;
2. una crescita economica globale senza precedenti;
3. il nuovo ruolo della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II;
4. il cambiamento della politica estera di alcuni attori, a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche da
parte dell’allora Comunità europea;
5. il ruolo dei media nel processo di condivisione globale da parte dell’opinione pubblica.
In quegli anni si discuteva la tesi certamente riduttiva ma di estremo fascino che faceva riferimento al
concetto di fine della storia con cui Francis Fukuyama aveva descritto la superiorità del modello della
democrazia di mercato.
Huntington non negava l’impatto che la fine delle ideologie “concorrenti” aveva comportato, ma
denunciava, al cospetto delle tesi sulla superiorità del modello democratico occidentale, un nuovo forte
motivo di tensione legato alla dimensione culturale.
Su questo terreno, ovvero sulla distanza tra culture più o meno compatibili con il modello democratico,
lo scienziato politico americano immaginava l’avvento di un nuovo scenario mondiale, caratterizzato
da uno scontro di civiltà.
Egli teorizzava l’incompatibilità democratica e perfino la maggiore inclinazione alla violenza di alcune
civiltà alternative a quella occidentale, in primis quella islamica.
regime più interessante da studiare in questa fase storica, viste le contraddizioni di un sistema che ha
mescolato elementi di totalitarismo comunista con la penetrazione del libero mercato.
Ampie critiche sono state sollevate nei confronti della logica di misurazione di Freedom House, i cui
dati sono tuttavia utili in una presentazione semplificata.
3. Le democrazie contemporanee
3.1. Le tipologie democratiche
La scienza politica non si è limitata a spiegare i processi di democratizzazione, ma si è interrogata sui
modi per perfezionare la democrazia e renderla più stabile e più vicina alle aspettative della gente.
Un problema ricorrente è stato quello di capire se l’intervento all’interno di un dato paese, attraverso
riforme strutturali di diverso ordine, potesse cambiare la funzionalità se non addirittura il rendimento di
una democrazia.
Ad esempio, si è a lungo discusso sui benefici dell’introduzione di un sistema elettorale proporzionale
o di un maggiore potere nelle mani del leader dell’esecutivo, o del ricorso a forme di “devoluzione”
subnazionale con la rinuncia di parte della sovranità del governo centrale.
Con il procedere di una già significativa storia della democrazia, sia pure relativamente breve e
limitata sotto il profilo geografico, l’analisi comparativa dei regimi poliarchici è diventata più precisa.
Le domande che si sono posti gli studiosi che hanno osservato le democrazie consolidate in una chiava
comparata sono innumerevoli.
Possiamo classificare tali problemi su tre diversi livelli di investigazione: questioni cognitive, tese cioè
a chiarire l’estensione empirica di un fenomeno come la democrazia contemporanea; interpretative,
finalizzate a stabilire precisi nessi causali alla base delle diverse affermazioni di un tale fenomeno;
normative, orientate cioè a prescrivere una specifica modalità del fenomeno, giudicata come
preferibile.
Interrogativo cognitivo: una volta raggiunto un soddisfacente accordo sulla definizione delle
garanzie democratiche, in quali e in quanti modi si possono applicare tali principi e, in ultima analisi,
quanto sono dissimili tra loro i modelli democratici, guardando al funzionamento delle istituzioni e
alle concrete realizzazioni dei principi teorici di inclusività dei cittadini, partecipazione ai processi
decisionali e responsabilizzazione dei detentori del potere nei confronti di tutti i soggetti associati alla
cosa pubblica?
Interrogativo interpretativo: posta la nostra capacità di distinguere tra diversi tipi di regime
democratico, quali sono i fattori che spiegano il consolidamento di un determinato modello o
perlomeno la tendenza di un dato regime ad avvicinare in modo più marcato i connotati di un tipo
ideale rispetto a un altro?
Interrogativo normativo: esiste un modello di democrazia che risulta più desiderabile e, sulla base
di evidenze inconfutabili, più capace di esprimere elevate performance rispetto alle finalità essenziali
della democrazia stessa?
Le varianti democratiche studiate nel corso del primo Novecento enfatizzavano essenzialmente le
differenze tra i sistemi di governo e nei canali di legittimazione dell’esecutivo.
Successivamente, l’attenzione si è spostata su un tema di grande successo come l’emergere di possibili
forme di democrazia diretta rispetto alle comuni forme di democrazia rappresentativa.
In realtà, la natura rappresentativa della democrazia non è mai stata messa in dubbio, rimanendo gli
strumenti della democrazia diretta (in particolare il referendum) essenzialmente degli elementi
complementari nell’architettura dei regimi poliarchici contemporanei.
Soltanto alcune visioni radicalmente antagonistiche alla democrazia occidentale, come il socialismo e,
soprattutto, il comunismo hanno promosso la nozione di “democrazia diretta”, ma non hanno poi
prodotto esempi concreti di regime capaci di rispettare i criteri e le aspettative della democrazie.
Tale discussione è stata tuttavia fondamentale per mostrare il bisogno continuo di “democrazia dal
basso”.
A seguito dello sviluppo della rivoluzione comportamentistica e della rinascita dell’approccio empirico
allo studio della politica, fu possibile, a partire dagli anni Sessanta, sviluppare più profonde riflessioni
sulla diversa natura dei vari regimi democratici.
Gabriel Almond, tra i fondatori della moderna politica comparata, aveva ragionato sulla differenza tra i
sistemi democratici sulle due rive dell’Atlantico, utilizzando il livello di omogeneità della cultura
politica come principale fattore esplicativo.
Ma lo studioso che da allora ha
incessantemente approfondito
questo aspetto è senza dubbio
l’olandese Arend Lijphart,
mettendo a fuoco il modello
consociativo di democrazia, al
fine di spiegare la tendenza di
alcuni sistemi dell’Europa
continentale creare le condizioni
di un governo “allargato” con
maggioranze
sovradimensionate, coalizioni
ideologicamente complesse e
svariati meccanismi di “contrappeso costituzionale” rispetto al governo maggioritario, espressione del
vincitore elettorale.
La prima tipologia di Lijphart si basava su due dimensioni di analisi: la configurazione della società
(culturalmente omogenea oppure eterogenea) e i rapporti tra le élite (consensuali oppure
prevalentemente conflittuali).
La tipica democrazia consociativa, di cui l’Olanda costituiva un esempio empirico paradigmatico,
rappresenta l’incrocio tra una cultura politica tendenzialmente eterogenea ed élite orientate al
compromesso, capaci dunque di generare un equilibrio impossibile nel caso di democrazie
centrifughe, connotate da cultura eterogenea ed élite conflittuali.
Oltre a fornire un’affascinante mappa delle democrazie contemporanee, Lijphart rilanciava con forza la
tesi del migliore rendimento complessivo di un modello “più gentile” di democrazia come quello
consensuale, capace appunto di offrire politiche più confacenti sotto il profilo del rispetto dei diritti e
dell’inclusività, senza peraltro perdere terreno a vantaggio delle democrazie maggioritarie sul piano
delle politiche economiche.
La netta propensione dell’autore per il tipo consensuale è stata fortemente criticata, ma gran parte della
riflessione sulla variabilità democratica nell’ultimo ventennio si è appoggiata su questa fondamentale
ricerca.
I regimi autoritari sono sistemi con pluralismo politico limitato e non responsabile, senza un’elaborata
ideologia-guida, ma con mentalità caratteristiche, senza mobilitazione politica estesa o intensa, se non
occasionalmente, e con un leader o un piccolo gruppo dirigente che esercita il potere entro limiti
formalmente mal definiti ma abbastanza prevedibili nella realtà.
La definizione può essere applicata, ad esempio, alla Spagna di Franco (1939-1975).
Certamente si è trattato di una dittatura, che tuttavia non condivideva fino in fondo la condizione
ideologia di un totalitarismo come quello messo in piedi da un alleato come la Germania hitleriana.
Questa natura non ideologia era legata alla persistenza di un limitatissimo pluralismo composto da
attori preesistenti al regime (i militari, da cui Franco proveniva, gli ambienti della monarchia, i
potentati economici che finanziarono la falange franchista).
Il leader del nuovo regime fu senza dubbio cruciale, con il suo carisma, nella fase di instaurazione
seguita alla sanguinaria guerra civile, ma è indubbio che egli fu affiancato da un limitato gruppo di
detentori del potere centrale.
A differenza dei regimi totalitari, i leader dei regimi autoritari non rispondono ad una organizzazione
ferrea che funge da vestale ideologica e giustifica l’uso estremo del potere e della violenza, ma
piuttosto a una serie di mentalità caratteristiche, ad esempio il mito della patria o quello della famiglia,
e anche quel quieto vivere in cui si rifugiò proprio la Spagna franchista dopo la guerra civile,
sopravvivendo da paese neutrale al conflitto bellico.
Il regime totalitario è un sistema caratterizzato da monismo politico, ruolo indiscusso del partito unico,
ideologia codificata, articolata e finalizzata alla realizzazione di un programma di politicizzazione della
società, continue azioni di concreta mobilitazione sociale con persecuzione sistematica di ogni attore
non rispondente al programma, uso indiscriminato della violenza repressiva e limiti non prevedibili
rispetto all’uso del potere gestito dal partito e dal gruppo dirigente in nome del leader stesso.
Tale definizione può essere applicata alla Germania nazista e all’Unione Sovietica del periodo
staliniano.
Esistono delle differenze tra le due versioni: il totalitarismo nazista si appoggiava ad un’ideologia
tipicamente nazionalista, mentre quello staliniano muoveva, teoricamente, dai principi di un’ideologia
internazionalistica.
La soppressione del pluralismo si muove nel nazismo in una retorica di accentuazione del leaderismo,
mentre la retorica comunista enfatizza la missione egalitaria dell’ideologia dominante.
I rapporti nelle élite dominanti pure alcune differenze, come l’elogio dell’organizzazione paramilitare
nel nazismo, e quello della burocrazia di partito nel caso dell’Unione Sovietica.
Il razzismo nazista è un elemento ideologico cruciale, che condurrà a politiche aberranti, mentre la
violenza di massa nell’Urss staliniana si giustificava essenzialmente con operazioni di “controllo
sociale”.
Infine, il rapporto con la religione è significativamente diverso, propugnando il nazismo una sorta di
“religione civile” intrisa di elementi esoterici, mentre il regime comunista era essenzialmente ateo.
Ma che dire di un regime come quello fascista?
Il problema è delicato perché, da un lato, il fascismo si autodefiniva totalitario e rappresentò per molti
versi il modello sperimentale per la costruzione del nazismo.
Tuttavia, guardando a elementi come la persistenza di un limitato pluralismo (si pensi alla persistenza
del ruolo di attori sociali come proprietà agraria, gerarchie militari e in qualche misura anche la Chiesa
romana), alla centralità relativa del partito unico e alla prevalenza di messaggi patriottici rispetto a
quelli ideologici, il fascismo sembra più assomigliare ad un autoritarismo che non a un totalitarismo.
Merita ricordare la presenza di varie forme di autoritarismo di mobilitazione: accanto a quello
fascista troviamo dei regimi che utilizzarono tale strumento per rimanere agganciati ad un ideale
rivoluzionario e continuare a costruire consenso.
Rientrano in questa galassia di regimi le democrazie popolari che si richiamavano più o meno
direttamente all’Unione Sovietica (e specialmente quelle che dal totalitarismo prendevano la maniacale
cura per il culto della leaders, ad es. la Romania di Ceausescu), i regimi nazionalisti africano costruiti
sull’ideologia della negritudine e anche il regime di rivoluzione religiosa che caratterizzò gli anni del
potere di Khomeini in Iran.
Tra i regimi civili-militari sono emerse varie forme: ad esempio gli autoritarismi nei quali le forti
componenti militari hanno contribuito solo in parte a formare la cerchia del leader (come i regimi
parafascisti instauratisi in Spagna e Portogallo negli anni Venti e Trenta); oppure gli autoritarismi
“populistici”, basati sul carisma di un establishment rivoluzionario più che sulla portata ideologia (es. il
castrismo a Cuba); quelli che hanno lentamente costruito un partito-Stato la cui leadership era
sostanzialmente sovrapposta all’esercito.
Dovremmo citare al riguardo il caso di Saddam Hussein: politico “promosso” in un secondo tempo
come capo militare, capace di costruire un unico corpo di fedelissimi che univano il partito, l’esercito e
in qualche misura anche la cerchia della propria parentela.
Il confine con un tipo di confine che è stato definito “neosultanistico” qui è molto vicino, come è
abbastanza facile confondere il regime esercito-partito con un sottotipo dei regimi militari puri, ovvero
quello del militare “governante”.
Tuttavia, in quest’ultimo caso la componente militare risulta al centro dell’azione di rovesciamento
dell’ordine preesistente con varie forme – es. il golpe o alzamiento – come nella tradizione
latinoamericana.
Statisticamente, tuttavia, gli studiosi hanno rilevato che i militari protagonisti dell’interruzione
democratica sono stati generalmente più propensi a rimanere in una dimensione non centralissima nella
fase matura del regime, fenomeno che porta alla costituzione di oligarchie militari presenti come
guardiani se non come mediatori nei ruoli di potere.
Si può dunque concludere che, paradossalmente, mentre alcuni regimi civili-militari o anche civili di
mobilitazione tendono a militarizzare la figura del leader o dei loro uomini forti (si pensi a Mussolini, o
ad un caso più recente come Saddam Hussein), per dare continuità alla propria azione i regimi militari
puri, nel tentativo di depoliticizzare la società, cercano di ridimensionare la visibilità dei propri leader,
finendo per proiettarne un’immagine quotidiana e talvolta non militare.
Maurice Duverger (1917-) ha dato un contributo fondamentale allo studio scientifico dei partiti.
Impegnato da sempre nel dibattito sulle riforme costituzionali, ha avuto una breve esperienza politica
come europarlamentare, eletto (nel 1989) non nel proprio paese ma in Italia (come indipendente nelle
liste del Partito comunista).
Ma c’è di più. I partiti politici, specie nel contesto dei moderni regimi democratico-rappresentativi, non
potevano essere ricondotti esclusivamente a questi ambiti.
Un ulteriore componente andava esplicitata: la qualità dei rapporti (competiti e/o cooperativi) che ogni
partito intrattiene con gli altri.
Così, a partire dal secondo dopoguerra, si sono sviluppate le definizioni di partito-squadra o team di
leader che concorrono per il voto popolare.
Ma anche di affrontare con tempestività gli shock esterni, le emergenze (disastri naturali, crisi
economiche, problemi umanitari, crisi internazionali) che investono il sistema politico e che richiedono
spesso di deviare dagli impegni elettorali.
Non solo per queste ragioni, va ricordato che il “governo dei partiti” è sempre più limitato, sia da
costrizioni interne al sistema politico (natura delle coalizioni, complessità politica, ruolo della
burocrazia, reazioni dei gruppi di interesse) che esterne (influenza di decisioni sovranazionali,
europeizzazione, relazioni internazionali, globalizzazione).
Tali vincoli si possono spingere al punto di ridurre gli spazi di competizione anche a livello delle
politiche, finendo per svuotare la qualità stessa della rappresentanza dando vita a democrazie
semisovrane
I partiti possono essere analizzati ricorrendo ad una serie di elementi, sia esterni, quali rapporti con la
società e lo Stato, con i gruppi di interesse e con i movimenti, che interni, quali ideologia, struttura,
leadership, strategie.
Dalla combinazione di questo quadro ricaviamo un certo “modello di partito” o tipo di partito.
Il partito di massa, infatti, “cerca per prima cosa di dare un’educazione politica alla classe operaia (e
ai ceti popolari): gli iscritti sono la materia stessa del partito, la sostanza della sua azione. Dal punto
di vista finanziario, il partito si basa essenzialmente sulle quote versate dai suoi membri: primo dovere
della sezione è assicurare la regolare esazione”.
La sezione è un’unità aperta a tutti e alla quale ci si può iscrivere liberamente; ciò che conta è adesso il
numero degli aderenti ancor prima del loro profilo sociale.
Entrare in una sezione e prendere parte alle sue attività comporta lo sviluppo di regole formali
(tesseramento, statuti, regolamenti interni) e di un’attività ordinaria su base quotidiana.
I problemi organizzativi centrali delle sezioni erano la socializzazione o educazione politica degli
aderenti e la mobilitazione di risorse attraverso l’autofinanziamento.
I partiti socialisti furono i primi a ricorrere a simili soluzioni organizzative che ben presto, però,
sarebbero state imitate da tutti i partiti democratici a base popolare.
Tale processo di diffusione ha fatto parlare di un “contagio da sinistra”.
In realtà, non tutti i partiti di massa avrebbero dato vita a unità organizzative territoriali (sezioni): i
partiti comunisti sarebbero stati caratterizzati dalle cosiddette cellule – un gruppo più piccolo della
sezione, a base professionale (si strutturano nei posti di lavoro e nelle fabbriche più che nel territorio)
– mentre i partiti fascisti avrebbero dato vita alla milizia – vero e proprio organismo militare stabile e
molto attivo, che nelle sue attività non escludeva il ricorso alla violenza.
L’organizzazione del partito comportava la capacità di alimentare e mantenere legami solidaristici con i
militanti, iscritti, simpatizzanti, e allo stesso tempo rapporti di convenienza attraverso i quali
remunerare i carrieristi e capi che non solo vivono per ma, soprattutto, di politica.
Poiché i partiti sono anche – soprattutto in democrazia – delle agenzie di rappresentanza, riflettono le
divisioni fondamentali e i conflitti (cleavages) che attraversano stabilmente la società.
Tale tema costituisce il cuore del contributo di Lipset e Rokkan sulla nascita dei partiti e dei sistemi di
partito in Europa occidentale.
Stein Rokkan (1921-1979), tra i fondatori della scienza politica europea e precursore degli studi di
politica comparata condotti su ampi dati-base, ha indagato i processi di costruzione degli Stati
nazionali, il rapporto centro-periferia e l’individuazione delle fratture storiche alla base dei sistemi di
partito europei.
Dopo aver costituito un tema fondamentale per la sociologia (e la scienza) politica), la questione del
rapporto tra fratture sociali e partiti è ancora attuale nel dibattito scientifico.
In un recente manuale di politica comparata, gli autori alla domanda “da dove vengono i partiti?”
rispondono ricorrendo a due prospettive analitiche che chiamano rispettivamente “primordiale” e
“strumentale”.
La prospettiva primordiale rimanda alla teoria dei cleavages e “vede nei partiti i rappresentanti
naturali di persone che hanno interessi comuni. Questa prospettiva dà per scontata l’esistenza di
divisioni naturali all’interno della società. Con il formarsi di gruppo intorno a queste fratture, i partiti
emergono e si evolvono per rappresentare questi interessi”.
Tale prospettiva pone due ordini di problemi.
1. Nella letteratura sociologica e politologica internazionale non è sempre chiaro cosa si intende con
“frattura” o cleavage.
Da qui la proliferazione di definizioni e tipologie eterogenee e non sempre conciliabili.
Qui prendiamo le mosse dalla definizione dei cleavages come fratture che dividono i membri di una
comunità in gruppi.
Alla rivoluzione nazionale (Rivoluzione francese e le sue conseguenze) sono collegate la frattura
centro-periferia e la frattura Stato-Chiesa, alla rivoluzione economica (a partire dalla metà
dell’Ottocento) la frattura industriale o urbano-rurale e la frattura capitale-sociale.
Fin qui lo schema di Rokkan suggerisce la possibilità della comparsa di sistemi partitici di cinque o sei
partiti posizionati sul continuum destra-sinistra: un partito conservatore, un partito agrario, un partito
liberale, un partito confessionale, un partito socialista.
Il formato del sistema si complica dopo la “rivoluzione internazionale del 1917” in quei casi dove si
registra l’aggiunta di partiti antisistema di origine comunista o fascista.
Per quanto riguarda il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, secondo la nota “tesi del
congelamento” dei sistemi di partito europeo, nella politica del dopoguerra c’era poco di nuovo rispetto
al passato.
In realtà, alcune fratture, come quella Stato-Chiesa e, soprattutto, quella tra operai e datori di lavoro,
hanno lasciato tracce profonde sulle altre e hanno acquistato una maggiore importanza politica dando
l’impronta alla competizione politica – si pensi alla rilevanza della distinzione sinistra-destra.
Oggi le cose sono molto diverse, e la questione del rapporto tra teoria dei cleavages e cambiamento
politico si pone con forza.
In generale, le fratture mutano in uno dei seguenti modi o loro combinazione:
1. perdita di rilevanza delle fratture tradizionali: declino elettorale dei partiti storici (classisti e
religiosi);
2. riattivazione di fratture latenti: comparsa dei partiti etnoregionalisti e di partiti fondamentalisti;
3. attivazione di nuove linee di divisione: formazione dei partiti ecologisti o dei partiti populisti o
magari antieuropei.
In tempi più recenti si sono delineate nuove linee di divisione e di conflitto politico, dalla divisione tra
politica ed antipolitica, alla riattivazione di vecchie fratture come quella religiosa, basti pensare ai
nuovi conflitti tra Stato e Chiesa su temi ad alta valenza simbolica (aborto, eutanasia, ricerca sulle
staminali, unioni omosessuali).
Inoltre, si è registrata una riattivazione dei conflitti centro-periferia spesso collegata all’integrazione
europea e alla divisione tra “europeisti” e “antieuropeisti” e, soprattutto, al revival della frattura
territoriale con la formazione un po’ in tutta Europa di partiti di volta in volta definiti “etnici”,
“nazionalisti”, “regionalisti”.
Di recente, Clark, Golder e Golder hanno introdotto una seconda prospettiva per lo studio dei
partiti, quella strumentale (o top-down), per la quale i partiti sono “squadre di persone interessate ad
ottenere cariche pubbliche”.
Non si tratta tanto di enfatizzare una visione realista o cinica della politica, quanto del fatto che
“stando a questo approccio dall’alto”, la comparsa dei partiti diventa il frutto dell’azione di élite
politiche e di imprenditori politici che interpretano e manipolano le domande degli elettori, ne attivano
gli interessi creando dal nulla le linee di divisione.
Ciò non vuol dire che i leader di partiti creino dal nulla le divisioni sociali, ma che date certe linee di
conflitto presenti in una società, si impegnano in complesse strategie volte a definire la loro rilevanza e
ampiezza (oggi sempre più grazie ai media), il grado di coinvolgimento e di mobilitazione dei
sostenitori e del pubblico, la costruzione di alleanze e coalizioni, e così via.
“Per capire la natura del conflitto tra partiti è necessario considerare la funzione delle fratture
utilizzate dai partiti nella loro battaglia per la supremazia. Poiché lo sviluppo delle fratture è un
eccellente strumento di potere, il partito che è in grado di imporre la sua definizione delle questioni,
probabilmente conquisterà il governo”.
Se è indubbio che i moderni partiti politici sono i “figli della rivoluzione industriale” e della
trasformazioni che ne conseguono, è pur vero che la loro formazione è impensabile senza il verificarsi
di rilevanti cambiamenti istituzionali, quali la realizzazione di un governo responsabile nei confronti
del parlamento, il progressivo allargamento del diritto di voto fino al suffragio universale maschile e
poi femminile, il passaggio da sistemi elettorali maggioritari a sistemi proporzionali.
Il risultato di questi cambiamenti sarà “una corsa all’organizzazione per il reclutamento del sostegno e
pei il consolidamento delle identità politiche”, cioè la, comparsa dei moderni partiti politici.
Un passaggio cruciale in questi processi è dato dall’estensione del diritto di voto e dalla riforma del
sistema elettorale.
Non a caso, la tendenza dominante in Europa – se si esclude la Gran Bretagna – è stata la
proporzionalizzazione delle leggi elettorali.
Un sistema elettorale è una serie di leggi e di regole di partito che disciplinano la competizione
elettorale tra e all’interno dei partiti [Cox].
Questa definizione pone l’accento su due aspetti:
in primo luogo, enfatizza la dimensione strategica della competizione politica: i sistemi elettorali
fissano la “regole del gioco” che definiscono i vincoli e le opportunità per i giocatori (elettori, partiti,
candidati, leader) in campo;
in secondo luogo, tali regole non sono solo quelle poste dalla legislazione, ma possono anche
derivare da regolamenti e statuti dei partiti (es. un partito che nel proprio statuto stabilisce che la
selezione dei candidati per le elezioni avvenga tramite elezioni primarie).
Ciò che la citazione di Cox non dice espressamente è che, da un punto di vista tecnico, regole e
meccanismi elettorali riguardano la traduzione o conversione dei voti in seggi.
Tuttavia, possiamo avere anche una definizione più ampia, come traspare dalla distinzione classica di
Douglas W. Rae tra election law, ovvero legislazione sulle elezioni (elettorato attivo e passivo,
procedimento elettorale, campagna elettorale, finanziamento ai partiti: sistema elettorale in senso lato)
ed electoral law, ovvero legge elettorale (formula elettorale, ampiezza della circoscrizione, soglie di
sbarramento, premio in seggi, tipo di scheda: sistema elettorale in senso stretto).
Al di là degli aspetti classificatori, per la scienza politica i sistemi elettorali hanno rilevanza per le
conseguenze che producono sui sistemi di partito e, quindi, sui partiti.
Partendo dalla nozione si “sistema elettorale” in senso tecnico, la distinzione classica e più semplice è
quella che distingue tra sistemi elettorali “maggioritari”, “proporzionali” e “misti”.
Nei sistemi maggioritari vale la regola elementare che il partito più forte nel singolo collegio vince
il seggio in palio.
In realtà, i sistemi maggioritari si possono distinguere sulla base della regola che utilizzano per definire
la maggioranza che vince il seggio.
Se questa è data dal numero di voti più alto senza altri requisiti, possiamo parlare di “maggioranza
relativa” o “maggioranza semplice”, o di plurality.
Il candidato che ottiene anche un solo voto in più degli altri viene eletto immediatamente: ne consegue
che il sistema plurality è un sistema a turno unico in collegi uninominali.
Il problema con questo tipo di scrutinio è che può arrivare al traguardo e vincere il seggio un candidato
poco “rappresentativo”, il che dipende dal livello di astensionismo che si verifica nel collegio e dal
numero di candidati concorrenti, fattori questi che abbassano il numero dei voti necessari per vincere.
Per contro, anche per correggere la distorsione rappresentativa del plurality, il sistema detto majority
stabilisce che per ottenere il seggio in palio occorre conseguire la maggioranza assoluta (il 50% + 1).
Con questa regola non si avranno candidati poco rappresentativi, poiché almeno la metà più uno degli
elettori iscritti nel collegio avrà votato per il vincente (fatti salvi gli astenuti).
Cosa succede se nessuno dei candidati raggiunge la soglia richiesta della maggioranza assoluta?
Le soluzioni escogitate sono due.
La prima, quella più semplice, chiama gli elettori a votare nuovamente (dopo una o due settimane), e
questa volta per vincere il seggio basta la maggioranza relativa.
Per tale ragione si parla di “sistema a doppio turno”.
Al secondo turno per chi può votare l’elettore?
In passato, il sistema a doppio turno considerava il passaggio di tutti i candidati del primo turno che
non intendevano ritirarsi e anche l’entrata di nuovi candidati.
Oggi, l’orientamento è che al secondo turno l’elettore deve trovare un numero ridotto di candidati, in
genere i primi due (allora si parla di ballottaggio), o i primi tre o quattro.
Si può anche decidere di fissare una soglia percentuale di voti per passare l secondo turno: ad esempio,
nelle elezioni legislative francesi, tale soglia è oggi fissata al 12,5% degli aventi diritto al voto.
Va da sé che più il filtro per accedere al secondo turno è selettivo, più lo scrutinio a doppio turno
produce effetti dis-rappresentativi.
Il secondo meccanismo è il “sistema del voto alternativo” vigente in Australia.
Questa volta invece di chiedere all’elettore di ritornare a votare dopo qualche settimana, gli si chiede di
esprimere un voto ordinale, ovvero di graduare (ordinare) per preferenza tutti i candidati presenti nel
collegio; se nessuno ottiene la maggioranza assoluta di prime preferenze, il candidato meno votato (con
le prime preferenze) viene eliminato e si procede a distribuire tra i candidati “sopravvissuti” i suoi voti
sulla base delle seconde preferenze indicate nelle schede; se anche in questo caso nessuno ottiene la
maggioranza assoluta si procede a oltranza finché un candidato non riesca a conseguire il seggio.
L’altra grande famiglia è quella dei sistemi proporzionali.
In questi sistemi i seggi in palio nelle circoscrizioni (plurinominali) sono suddivisi tra i partiti in
proporzione alle quote di voti ottenute.
Invero, va precisato che i sistemi proporzionali variano molto tra loro e si possono distinguere in base
al grado di dis-proporzionalità introdotto dai diversi meccanismi che li caratterizzano.
Basti pensare che si può arrivare alla situazione di un sistema elettorale nominalmente proporzionale
che di fatto produce effetti maggioritari e talvolta ancora più dis-rappresentativi dei sistemi che portano
questo nome (il caso del sistema italiano introdotto nel 2005 e noto come Porcellum).
La distorsione della proporzionalità oltre che dalla formula elettorale, dipende anche da altri elementi:
ampiezza della circoscrizione, soglie legali, premi in seggi, ampiezza dell’assemblea da eleggere.
Per quanto riguarda, invece, le formule elettorali proporzionali da adottare per l’allocazione dei seggi,
nel corso del tempo e per far fronte a situazioni diverse, ne sono state escogitate molte che per lo più
prendono il nome da chi le ha elaborate.
La formula Hare utilizzata in Olanda e Israele o la formula d’Hondt utilizzata in Spagna e in Italia
(nella Prima e nella Seconda Repubblica) sono entrambe regole che assegnano i seggi in proporzione
ai voti, ma la prima è maggiormente proporzionale, mentre la seconda penalizza i partiti più piccoli.
Si ricava che esistono sistemi elettorali proiettivi, che favoriscono la rappresentatività (quanto più si
approssimano alla proporzionale pura), e sistemi elettorali selettivi, che agevolano la governabilità (i
maggioritari in entrambe le varianti, plurality e majority, e i proporzionali corretti da meccanismi dis-
proporzionali), nel senso che questi ultimi, riducendo il numero dei partiti, creano le condizioni
politiche della stabilità.
Negli ultimi decenni sono stati ingegnati dei sistemi elettorali misti che vorrebbero in qualche
modo contemperare le esigenze della rappresentanza e quelle della governabilità/stabilità e a tal fine
fanno sì che gli elettori scelgano i propri rappresentanti con regole elettorali ibride: una parte dei seggi
sono attribuiti con regole maggioritarie, l’altra con lo scrutinio proporzionale.
Al riguardo, vale la pena ricordare la distinzione tra sistemi misti indipendenti e dipendenti.
Nel primo caso – si parla anche di “sistemi paralleli” – i due tipi di regole (maggioritarie e
proporzionali) coesistono in autonomia e non interferiscono, o il loro utilizzo avviene a livelli elettorali
distinti – in Russia, ad esempio, 225 deputati sono eletti con lo scrutinio maggioritario a turno unico a
livello di collegio, mentre altri 225 sono eletti con il sistema proporzionale in un collegio unico
nazionale.
Nel secondo caso, invece, l’operatività proporzionale dipende dalla distribuzione dei seggi prodotta dal
comparto maggioritario – è il caso del sistema in vigore in Italia dal 1993 al 2005 noto come
Mattarellum.
L’individuazione dei seggi elettorali è rilevante per le conseguenze che questi hanno sui sistemi di
partito e quindi anche sulla stabilità e funzionalità dei regimi democratici.
Il primo ad aver trattato il tema in maniera scientifica è stato Duverger, dalla cui analisi si fanno
discendere le cosiddette “leggi di Duverger”, o meglio una legge e un’ipotesi, che postulano delle
relazioni causali tra tipo di scrutinio e numero di partiti:
1. legge di Duverger, il sistema maggioritario a turno unico (plurality) tende al dualismo dei
partiti (bipartitismo);
2. ipotesi, il sistema a doppio turno (majority) o a rappresentanza proporzionale tende al
multipartitismo.
La valutazione della legge e dell’ipotesi di Duverger richiede un passaggio ulteriore.
Lo studioso francese è convinto che il punto di partenza dell’analisi sulla formazione dei partiti è dato
dalla struttura economico-sociale e dai conflitti che vi hanno luogo (come per la teoria dei cleavages);
tuttavia, il fatto che le diverse fratture riusciranno a dar vita a partiti elettorali, attivi nella
competizione, e ancor di più a partiti parlamentari che ottengono dei seggi, dipenderà dal tipo di
regole elettorali.
Quanto più un sistema elettorale è proporzionale, tanto più facile sarà per i partiti superare la “soglia di
rappresentanza”, per contro tanto più un sistema è maggioritario, o meglio dis-proporzionale, tanto più
i partiti piccoli verranno penalizzati e i grandi favoriti dalla competizione.
Si tratta di ciò che Duverger chiama effetti meccanici o “effetti diretti” del sistema elettorale.
Proprio per evitare o attutire tali effetti, gli elettori sono indotti a ricorrere al voto strategico, cioè a
scegliere non il partito al quale si sentono più affini (e per il quale esprimerebbero un voto sincero) e
che, se piccolo, correrebbe il rischio di non aver successo, ma il partito più prossimo alle loro
preferenze originarie che ha più realistiche possibilità di vittoria – un’alternativa al voto strategico
potrebbe essere l’astensionismo strategico: se il mio partito non ha possibilità di vincere tanto vale non
recarsi alle urne.
D’altra parte, al comportamento strategico ricorrono anche i leader di partito che per evitare la sconfitta
optano per costruire alleanze elettorali o apparentamenti con altri partiti (ingresso strategico), o
possono negoziare delle desistenze, cioè accordi con altre liste in campo per non presentare candidati
forti o per non sostenere attivamente il proprio candidato in un collegio, in cambio dello stesso favore
in un altro collegio. Tutti questi casi
rientrano in ciò che Duverger chiama
effetti psicologici o “effetti indiretti”
dei sistemi elettorali.
Sartori ha sostenuto
convincentemente che le leggi di
Duverger vanno precisate ricordando
che la loro efficacia è tanto più forte
in relazione al grado di strutturazione
del sistema partitico.
Il che dipende sia dall’esistenza di
partiti minimamente organizzati e
stabili su scala nazionale che dal
consolidamento di fedeltà prevedibili degli elettori.
Più queste condizioni si allentano, più i sistemi elettorali perdono di efficacia nei tre ambiti sviluppati
da Fisichella (a) manipolazione delle scelte dell’elettore, b) sotto e sovrappresentazione dei partiti, c)
influenza sul numero dei partiti), in particolare nel terzo.
Dal ragionamento di Sartori si ricava che i sistemi elettorali forti, maggioritari o altamente dis-
proporzionali, hanno un effetto riduttivo del numero dei partiti, ma solo se il sistema partitico è
strutturato su base nazionale (democrazie maggioritarie dell’Europa occidentale).
Se il sistema partitico è organizzato solo a livello locale, gli effetti riduttivi si avranno solo a livello di
collegio, da qui l’anomalia di un sistema plurality che alimenta la frammentazione partitica (es. India).
Se, per contro, il sistema partitico è fortemente strutturato e il sistema elettorale debole (proporzionale)
si possono avere ancora esiti bloccanti o controbilancianti che derivano dalla logica di funzionamento
del sistema partitico (es. Irlanda, Malta)
ambito mantiene il termine “circoscrizione” ed è plurinominale, mentre nei sistemi maggioritari, dove si parla
spesso di “collegio”, tali ambiti possono essere plurinominali quanto uninominali (anche se quest’ultimo è oggi
più frequente). L’ampiezza o magnitudine di una circoscrizione elettorale indica il numero di seggi assegnati ad
un determinato ambito territoriale. Più ampia è la magnitudine più il sistema è proporzionale e viceversa. In
altri termini, quanto più il numero dei seggi è elevato, tanto più si abbassa il costo elettorale di un seggio, per
cui anche i partiti più piccoli possono sperare di conquistarne uno.
Soglie elettorali o “di rappresentanza”: sono dei correttivi del carattere proporzionale di un dato sistema
che stabiliscono un numero minimo di voti necessari a un partito per ottenere dei seggi (soglia legale). Il caso
più noto è quello del sistema elettorale tedesco che stabilisce una soglia del 5% affinché un partito possa essere
…
rappresentato. In realtà, la legge elettorale stabilisce anche una seconda soglia di esclusione meno nota, nel
senso che un partito può essere rappresentato al Bundestag pur non raggiungendo il 5%, purché ottenga la
vittoria in almeno tre collegi uninominali. Possono anche esistere sistemi elettorali con soglie multiple come
quello italiano introdotto nel 2005, dove la soglia di esclusione varia se il partito si presenta coalizzato (2%) o
non coalizzato (4%), mentre è del 10% per la coalizione.
Premio di maggioranza: il premio in seggi è un espediente usato per consentire a un partito o coalizione che
ottiene la maggioranza relativa di ottenere una maggioranza assoluta o ancora più ampia. Giovanni Sartori
considera i sistemi con premio di maggioranza come sistemi a sé e, in effetti, molto difficilmente per gli esiti
che producono possono essere considerai dei sistemi proporzionali corretti. La logica operativa del sistema
proporzionale con premio di maggioranza dipende da due profili: l’entità del premio e l’esistenza di eventuali
condizioni, in genere il raggiungimento di una soglia minima per farlo scattare. L’Italia ha avuto una lunga
tradizione di sistemi proporzionali con premio di maggioranza, dalla legge Acerbo in piena era fascista, alla
legge truffa del 1953, fino al cosiddetto Porcellum del 2005.
Tipi di scheda: la funzione della scheda elettorale è quella di strutturare la scelta dell’elettore. Nello
specifico, esistono due tipi di schede: quelle dette categoriali o nominali, che impongono all’elettore di
scegliere in maniera netta il partito e/o il candidato, e quelle ordinali, dove l’elettore ha a disposizione una
scelta più articolata che gli consente di esprimere più preferenze. Nel primo caso l’elettore oltre a votare per un
partito può scegliere o meno un candidato, il che avviene grazie al cosiddetto voto di preferenza, se ha questa
possibilità si parla di lista aperta; altrimenti si parla di lista bloccata o chiusa, in questo caso i candidati eletti
sono stabiliti in base all’ordine che ricoprono nella lista. Questo è attualmente il caso dell’Italia, con l’entrata in
vigore della legge elettorale del 2005.
Non c’è tipologia dei sistemi di partito che non faccia riferimento a questi criteri.
Tuttavia, il criterio numerico costituisce senza dubbio uno degli aspetti più evidenti che permette di
cogliere un aspetto cruciale del funzionamento di ogni sistema politico, vale a dire la concentrazione o
frammentazione del potere al suo interno.
La distinzione classica è quella tra sistemi mono, bi e multipartitici.
Secondo Duverger, il primo tipo, il monopartitismo, individua un “genere” relativo ai “regimi non
democratici”, quindi un tipo di regime politico più che un sistema partitico.
Per Duverger il tipo più importante, poiché “sembra presentare un carattere naturale” dato da un
dualismo di tendenze, è il sistema bipartitico.
L’approccio duvergeriano, comunque, fu presto sottoposto a diverse critiche.
Innanzitutto non tutti i regimi democratici avevano un solo partito.
C’è, infatti, una certa differenza tra sistemi a “partito egemonico” che, comunque, ammettono
l’esistenza di piccoli partiti satelliti, e un regime a “partito unico”, dominato dal partito totalitario.
Inoltre, nel panorama democratico, i bipartitismi sono più unici che rari: è il caso di ricordare che in
Gran Bretagna – per lungo tempo la culla della democrazia maggioritaria e del bipartitismo – nelle
elezioni politiche del 2010 ben dieci partiti hanno ottenuto seggi in parlamento, e la buona
affermazione del terzo partito (i liberaldemocratici) ha generato per la prima volta dalla Seconda guerra
mondiale un governo di coalizione.
Infine, la categoria del “pluripartitismo” contiene molte varianti che ne fanno un insieme assai
eterogeneo.
D’altra parte, non era neanche vero che il bipartitismo fosse l’unico sistema partitico funzionante, basti
pensare all’esperienza dei multipartitismi delle piccole democrazie europee (Olanda, Svizzera, Belgio).
Soprattutto, la classificazione di Duverger non chiariva come contare i partiti.
La questione del conteggio, in realtà, porta con sé il secondo aspetto relativo alla forza dei partiti.
Al fine di dar conto della taglia parlamentare ed elettorale delle forze politiche un primo criterio
piuttosto pragmatico è quello di conteggiare solo i partiti che riescono a superare una certa percentuale
di seggi (o di voti) – ad esempio, il 3 o 5%.
È evidente che si tratta di un’opzione arbitraria e, d’altra parte, la rilevanza dimensionale non coincide
sempre con la rilevanza politica – il Partito liberale italiano, ad esempio, con il 2% dei voti ha
esercitato una notevole influenza sui governi democristiani della Prima Repubblica.
La classificazione che ha costituito il paradigma per l’analisi dei sistemi di partito nella seconda metà
del XX secolo è quella di Sartori.
Lo studioso fiorentino ha suggerito, innanzitutto, di risolvere la questione del conteggio dei partiti e dei
reciproci rapporti di forza (che non dipendono solo dalle dimensioni ma anche dal ruolo strategico),
fissando delle regole di conteggio volte a discriminare tra i partiti “che contano” e quelli che vanno
tralasciati perché irrilevanti.
Tali regole sono due:
1. un partito, per quanto piccolo, deve essere contato se ha potenziale di coalizione, cioè se è
indispensabile per formare maggioranze di governo;
2. un partito che non abbia affinità coalizionali deve, comunque, essere contato se ha potenziale di
ricatto, cioè se la sua presenza condiziona la direzione della competizione e la produzione delle
politiche pubbliche.
Una volta che i partiti sono stati contabilizzati adeguatamente, il loro numero (corretto), costituisce il
formato del sistema partitico.
Ma, per capire come funziona un sistema partitico, è necessario sapere qualcosa anche sulla natura
delle interazioni che vi si svolgono (il terzo criterio).
Al riguardo, il profilo discriminante è individuato da Sartori nel ruolo dell’ideologia, che nel caso dei
sistemi partiti democratici viene concettualizzata come distanza ideologica tra i partiti o polarizzazione,
mentre nel caso dei regimi autoritari va considerata in termini di intensità dell’inquadramento
ideologico e di repressione.
Da questo ulteriore aspetto deriva per i sistemi competitivi la meccanica, cioè la logica di
funzionamento del sistema.
Dalla combinazione tra formato e meccanica si ricavano tre configurazioni sistemiche.
La prima configurazione, quella unipolare, è tipica delle situazioni monopartitiche non
democratiche, senza competizione e ricambio dei gruppi al potere, che tuttavia può presentarsi anche
nelle democrazie qualora la dinamica competitiva è limitata non già da elementi coercitivi ma dai
comportamenti degli elettori che, per svariate ragioni, orientano il loro sostegno sempre verso un solo
partito producendo un sistema a partito predominante.
La seconda configurazione, quella bipolare, che assorbe i casi bipartitici e i multipartitismi
moderati, mostra una direzione della competizione centripeta e con elevata probabilità di produrre
alternanza tra governo e opposizione – in questo quadro i sistemi a partito predominante si possono
interpretare quali bipartitismi in cui il dislivello di forza tra i due partiti rilevanti è tale da non
consentire l’alternanza.
La terza configurazione, quella multipolare, che coincide con i multipartitismi estremi dove la
competizione tende ad essere centrifuga, presenta forze estremizzate e opposizioni bilaterali, mentre
l’alternanza al governo lascia il monopolio del governo ai partiti di centro, tra i quali può esservi un
partito dominante, capace di controllare anche per lunghi periodi la maggioranza relativa dei seggi,
rimanendo l’attore centrale (o pivot) delle coalizioni di governo, come la Dc in Italia fino al 1994.
L’unica forma di avvicendamento possibile al governo in questo caso è costituita dal cosiddetto
“ricambio periferico”, in cui il partito dominante resta al governo mentre cambiano i partner minori di
coalizione.
La tipologia di Sartori può essere utilizzata anche per dar conto del mutamento dei sistemi di partito.
Da questo punto di vista, il cambiamento implicherebbe un’alterazione del formato e/o della
meccanica del sistema partitico, ovvero del numero di partiti rilevanti e del grado di polarizzazione.
In sostanza, si tradurrebbe nello slittamento da un tipo all’altro dei casi previsti.
Per Sartori lo spostamento più interessante è quello che da sistemi multipartitici polarizzati conduce a
sistemi multipartitici moderati.
Insomma, il passaggio da sistemi multipolari a sistemi bipolari.
Del resto, le trasformazioni che hanno caratterizzato le democrazie occidentali negli ultimi decenni
sembrano testimoniare proprio la diffusione di questo tipo di transizione, al punto che la categoria dei
“sistemi multipartitici estremi e polarizzati” sembra essersi svuotata, mentre quella dei “sistemi
moderati” appare oltremodo ricca.
Ma non è tutto. In effetti, anche la classe dei sistemi a partito predominante nell’ultimo ventennio si è
praticamente svuotata.
Così come la categoria dei “sistemi bipartitici” sembra sempre più contraddistinta da anomalie.
L’unica classe che sembra sopravvivere nella tipologia è quella del “multipartitismo moderato”.
a queste istituzioni, facendone la culla e il simbolo di una democrazia che abbiamo chiamato
rappresentativa.
Tuttavia, usiamo termini molto diversi per indicare l’attuale configurazione di queste istituzioni:
parlamenti, congressi, corti, consigli, diete, assemblee, solo per ricordare i termini più diffusi.
La nozione di parlamento, dunque, non può essere esaustiva rispetto alla categoria generale delle
“assemblee rappresentative democratiche”, poiché si attaglia soprattutto all’esperienza democratica
europea, dove ha prevalso il sistema di fusione dei poteri.
Laddove si è imposto, sull’esempio degli Stati Uniti, il modello della separazione dei poteri, il termine
che indica la tipica istituzione legislativa nazionale è invece quello di Congresso.
Le assemblee pluralistiche hanno vissuto percorsi complessi e diversificati, che non hanno riguardato
solo i loro poteri formali e la loro collocazione in un sistema di regole, ma anche la loro credibilità.
Un processo di istituzionalizzazione avviene quando una serie di valori e comportamenti di un
determinato organismo si consolidano e si mostrano universalmente accettati, cristallizzandone le
azioni e il ruolo. L’organismo in questione diventa così un’ “istituzione” perdendo i caratteri di
provvisorietà e mutevolezza, e acquisendo una forma stabile e generalmente riconosciuta.
Sulla base di questa definizione, possiamo dire che un’assemblea rappresentativa è istituzionalizzata
quando mostra chiaramente i propri confini non solo ai suoi membri, ma anche agli altri attori del
sistema politico, delimitando i ruoli e favorendo le interazioni tra più istituzioni.
Tenendo presente la diversa evoluzione storica, i comparatisti hanno riposto la propria attenzione sui
tratti comuni presentati dalle istituzioni assembleare delle attuali democrazie.
Generalmente tali caratteri distintivi sono presentati nel seguente modo.
Natura assembleare: a differenza del passato, i membri delle democratiche istituzioni
rappresentative hanno pari dignità, lavorano assieme e condividono le stesse prerogative sotto forma di
funzioni, benefici e responsabilità.
Natura rappresentativa: tale caratteristica è garantita dal legame con la dimensione comunitaria
della politica che non può prescindere dalla garanzia e dall’effettivo svolgimento di libere elezioni.
Pluralismo interno: questa caratteristica risponde alla semplice idea che nell’istituzione
rappresentativa le voci siano plurali e garantiscano uno specchio sufficientemente fedele delle visioni
presenti nella comunità dei rappresentati.
Permanenza dell’istituzione rappresentativa: questa nozione connota non solo l’esigenza della sua
continuità storica ma anche la sua capacità di autoconvocazione. Benché le regole costituzionali
possano prevedere delle sessioni obbligatorie, i parlamentari hanno la garanzia di una totale autonomia
nell’organizzare il proprio lavoro.
Potere legislativo: benché assai diverse nel loro reale impatto nei processi concreti di produzione di
norme, tutte queste istituzioni si propongono come organi legislativi, e associano a tale facoltà una
serie di importanti funzioni.
Secondo queste coordinate, arriviamo ad una definizione operazionale: si tratta di organi legislativi
elettivi, formati da una pluralità di rappresentanti dei soggetti (partiti) che si occupano di selezionare il
ceto politico e che vengono organizzati in modo assembleare.
Hanna Pitkin (1931-) è una studiosa di origine tedesca cresciuta negli Stati Uniti e a lungo attiva
all’Università della California. Pitkin è nota soprattutto per il suo contributo sulla rappresentanza
politica. In particolare, il suo The Concept of Representation ha avuto il merito di far ripartire il
dibattito sulle implicazioni dell’applicazione empirica della rappresentanza e le problematiche che tali
pratiche creano nel funzionamento delle istituzioni contemporanee.
Pitkin focalizzava dapprima l’idea di “rappresentanza” nei classici del pensiero politico, per giungere a
definire quattro varianti teoriche: quella “simbolica”, quella “descrittiva”, quella “formalistica” e infine
quella “sostantiva”.
Pitkin argomentava che non può esistere una perfetta correlazione tra l’applicazione di uno di questi
significati e una specifica variante di rappresentanza politica.
Nel caso delle nostre democrazie, ad esempio, si può dire che la rappresentanza simbolica e la
rappresentanza descrittiva siano meno rilevanti, ma certamente non sono del tutto assenti:
l’evocazione di certe figure istituzionali (es. il capo dello Stato) che raffigurano ad esempio l’unità
nazionale, è una forma frequente di rappresentanza simbolica, mentre sono ancora presenti in molte
democrazie delle istituzioni di rango costituzionale, sia pure non sempre cruciali (in Italia, ad es., il
Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) costruite per proiettare nel sistema politico un qualche
specchio della struttura sociale del paese, ripercorrendo elementi di quella rappresentanza sociale o
corporativa che fu invece tipica nelle assemblee di alcuni regimi non democratici, inclusi il fascismo e
l’Unione Sovietica.
Merita invece soffermarsi sulle altre due nozioni di rappresentanza.
Relativamente alla nozione di rappresentanza formalistica, Pitkin rileva i due concetti fondamentali
a) dell’autorizzazione conferita dalla comunità ai governanti e b) della responsabilità che muove questi
ultimi nel tentativo di condurre al meglio il compito che viene loro affidato.
Entrambi i concetti sono centrali nella nostra accezione di “rappresentanza democratica”, perché
evocano i due aspetti sostanziali della teoria della delega: il conferimento dell’autorità è fondamentale
per riconoscere al delegato (o agente) un ruolo formale di unico soggetto chiamato a sviluppare in
termine di azioni il mandato rappresentativo.
La responsabilità (accountability) è necessaria per richiamare detta azione ai principi e ai valori alla
base del mandato, che in democrazia è per definizione volontario e revocabile.
[La rappresentanza sostantiva fa riferimento all’azione concreta del rappresentante. Il rappresentante
è tale se agisce nell’interesse del rappresentato, anche se tale “agire nell’interesse” dovesse
discostarsi da una interpretazione formale del mandato ricevuto. Questa accezione sembra più vicina
ad una visione del rappresentante come fiduciario].
rappresenti un elemento di criticità, anche laddove i partiti contano molto: a seconda della faccia
organizzativa del partito che prendiamo in considerazione (i politici eletti, i dirigenti centrali e la base)
il risultato della proiezione delle idee e del programma del partito nel comportamento di chi lo
rappresenta è molto diverso.
Inoltre, la capacità del partito “centrale” di controllare l’operato dei parlamentari ha avuto un ulteriore
ridimensionamento con la diminuzione della forza organizzativa dei partiti, anche a causa di una serie
di elementi di antipolitica e di sfiducia, che rende più difficile il predominio di un attore come quello
partitico.
In virtù di ciò, si sono sviluppati vari circuiti alternativi rispetto alla classica modalità della
rappresentanza politica.
La letteratura ha modellato dei circuiti chiaramente alternativi ad un predominio totale dei partiti nelle
arene rappresentative: il primo di essi è determinato da un accentuato assetto neocorporativo, tipico di
alcune democrazie – ad esempio quelle nordiche – la cui articolazione di interessi consente di produrre
molte rilevanti decisioni attorno ad un tavolo governativo al quale ha accesso una gerarchia ordinata e
chiusa di attori sociali (es. i rappresentanti di industria e del sindacato generale), lasciando al
parlamento partitico un compito notarile di “validazione” degli accordi.
Il neocorporativismo finisce per incidere inevitabilmente sul funzionamento delle istituzioni
rappresentative, che si trovano ad agire “ a valle” e non più “a monte” delle decisioni.
Anche il modello pluralista di rappresentanza degli interessi, quello basato su una società
estremamente aperta e frammentata in tanti gruppi sociali tra loro in competizione (es. Stati Uniti), può
tuttavia condurre al declino del ruolo dei partiti.
I singoli rappresentanti eletti possono essere portati ad “assomigliare” o addirittura “inseguire” il
proprio universo sociale di riferimento, tralasciando la mediazione partitica, prendendo strade diverse a
seconda della competenze e delle sensibilità individuali.
Il tema si è manifestato anche in Italia durante la recente transizione, durante la quale sono stati notati
fenomeni interessanti, e al tempo stesso preoccupanti, come l’aumento di comportamenti di voto di
dissenso all’interno dei gruppi parlamentari e soprattutto gli episodi di abbandono del gruppo partitico
originario.
Il ricorso all’argomentazione del tipico dettato costituzionale liberale del divieto di mandato
imperativo da parte del singolo eletto può essere un mezzo per superare l’immagine di un parlamento
addomesticato dagli apparati partitici, ma anche una scusa per mettere in campo una serie di
comportamenti opportunistici.
Anche il sistema spagnolo offre una sostanziale limitazione al proporzionalismo, senza aggiungere un
secondo livello di voto ma semplicemente moltiplicando le circoscrizioni (che in Spagna
corrispondono alle province).
In pratica, i partiti piccoli (a meno che non abbiamo grandi performance in specifici territori, come
accade ad alcune formazioni regionaliste), vengono esclusi dall’elevata soglia implicita, alla quale si
aggiunge una soglia circoscrizionale del 3%.
Anche in Italia, dopo la lunga stagione proporzionale della Prima Repubblica sono stati introdotti dei
correttivi, per garantire maggiore stabilità al governo, battendo tuttavia strade molto diverse.
Il sistema usato tra il 1994 e il 2001 era in senso stretto “misto” perché combinava l’uso dei collegi
uninominali (per il 75%) con liste circoscrizionali che garantivano un qualche bilanciamento
proporzionale.
Il sistema in vigore dopo il 2006 è invece un sistema proporzionale che garantisce – con la logica del
“premio di maggioranza” – un minimo del 55% dei seggi alla coalizione maggioritaria a livello
nazionale. Tecnicamente, si tratta di una vistosa correzione maggioritaria, che però può essere
“spalmata” in modo assai diverso, a seconda della natura della coalizione stessa.
Passiamo ai sistemi maggioritari.
Se il sistema britannico si risolve semplicemente con la vittoria del candidato più votato in ogni
collegio, il modello francese richiede una maggioranza assoluta di collegio.
In mancanza di vincitore, si va al ballottaggio, al quale sono ammessi i candidati con almeno il 12,5%
dei voti, aprendo nel quel caso i giochi all’eventuale convergenza dei voti degli esclusi o anche
possibili “desistenze” di candidati pure ammessi al ballottaggio che tuttavia preferiscono rinunciare ad
un piazzamento non remunerativo per sostenere il male minore tra i due competitori più popolari.
In qualche modo a metà tra questi due ultimi modelli, il voto alternativo adottato in Australia offre un
meccanismo diverso per il raggiungimento di una maggioranza assoluta in un contesto uninominale,
attraverso l’obbligo per gli elettori di ordinare le proprie preferenze sui vari candidati, che consente, in
caso di mancato raggiungimento della maggioranza assoluta da parte di nessun candidato, la
redistribuzione di ulteriori preferenze subordinate.
Riepilogando:
Olanda – Proporzionale puro
Israele – Proporzionale puro
Germania – Tendenzialmente proporzionale
Spagna – Proporzionale molto corretto
Italia (2006-2013) – Forte correzione maggioritaria
Italia (1994-2001) – Maggioritario con ampia correzione proporzionale
Francia – Maggioritario (ma con maggioranza “assoluta”)
Australia – Maggioritario (ma con maggioranza “assoluta”)
Regno Unito – Plurality
Converrà chiarire sin da subito che un “buon sistema elettorale” è sempre definito sulla base di quella
che è la propria visione della democrazia, per cui non abbiamo la possibilità di migliorare i nostri
parlamenti e quindi la democrazia affidandoci semplicemente all’ingegneria elettorale.
Tuttavia, una sana analisi dei dati ci aiuta a capire quali sono i sistemi elettorali “sbagliati”, perché non
risolvono determinati problemi endemici e anzi ne creano altri.
Non si può non menzionare il caso della riforma del 2005 che ha reintrodotto in Italia il sistema
proporzionale (questa volta utilizzato nella variante a lista bloccata), spazzando via i relativi effetti
benefici creati nel decennio precedente dall’uso (parziale) dei collegi uninominali, ma senza rispondere
all’esigenza di governabilità.
Infatti, nel 2006, le elezioni hanno visto un esito molto incerto al Senato (con la maggioranza della
frammentatissima coalizione di centro-sinistra consistente in appena due soli senatori) e nel 2013
l’incredibile “pareggio” tra Pd, Pdl e Movimento 5 stelle ha determinato una situazione gestibile
soltanto attraverso la creazione di grandi coalizioni o convergenze occasionali diverse rispetto agli
schieramenti originari.
È allora più corretto partire da una situazione opposta: l’unicameralismo è una situazione istituzionale
perseguibile nel caso di sistemi politici semplici, relativamente piccoli e connotati da omogeneità
politico-culturale.
Al contrario, in molti parlamenti il presidente, per prassi, tende a non esprimere il proprio voto per
preservare il suo ruolo di garante all’interno dell’assemblea.
Ma è anche vero che i poteri di calendarizzazione dei lavori, stralcio di pratiche o proposte non
consone e accelerazione di alcuni processi utilizzando leve come la convocazione di “sessioni
straordinarie”, costituiscono facoltà molto importanti concentrate nelle mani degli speakers o, al
massimo, di ristretti uffici di presidenza delle camere.
Questi poteri possono essere in qualche misura “annacquati” dalle prerogative di ulteriori articolazioni
interne in cui una grande camera si divide per organizzare i propri lavori con ritmi di lavoro e
competenze più idonee: sono le commissioni parlamentari, le quali tuttavia costituiscono un insieme
eterogeneo di meccanismi strutturali.
Le più importanti sono le commissioni permanenti, soggetti molto autorevoli (soprattutto sul piano dei
processi legislativi e nel controllo sul governo) che possono sviluppare competenze e conoscenze
specifiche: se assistite da una qualche autonomia decisionale e da adeguate risorse conoscitive, tali
articolazioni possono diventare le vere protagoniste della centralità politica di un dato organo
legislativo.
Lo stereotipo dell’articolazione legislativa interna forte è rappresentato dalle commissioni permanenti
nei due bracci del Congresso Usa, che concentrano tutti gli elementi appena menzionati: poteri di
iniziativa, poteri di istruttoria e anche di emendamento sui testi in discussione; poteri di controllo e di
interrogazione nei confronti del governo; poteri di consultazione e audizione anche in materie come
nomine pubbliche e rapporti internazionali, staff molto professionalizzati e competenti nel settore
scientifico coperto dalle mansioni della commissione.
Infine, è tipico delle commissioni del Congresso il grande prestigio delle loro cariche apicali, che
diventano un’“ambizione” politica non secondaria al cospetto di cariche come membro del governo,
capo del partito parlamentare o membro dell’ufficio di presidenza.
Le commissioni parlamentari italiane, benché complessivamente meno efficaci di quelle americane, a
causa di un impatto istituzione inferiore, sono collocate idealmente in alto in una classifica di
“decentramento delle facoltà parlamentari”, anche per il potere – unico nel suo genere – di sostituzione
integrale rispetto all’aula nell’adozione di alcune misure legislative (sia pure non quelle più rilevanti).
In terzo luogo, naturalmente, è cruciale anche l’articolazione interna all’assemblea relativa allo
sviluppo di gruppi partitici.
I gruppi possono rappresentare lo strumento principale per il controllo delle organizzazioni partitiche
esterne sui propri eletti, ma anche un modo per opporre all’apparato di partito un secondo
establishment avvantaggiato alla sua centralità istituzionale.
Infine, un elemento fondamentale da analizzare è quello relativo alla posizione che il governo
riveste nelle stese articolazioni parlamentari: lo spazio dedicato al governo è infatti un indicatore
evidente del tipo di rapporto che si intende favorire all’interno di un’aula parlamentare.
Nella Camera dei comuni britannica, la posizione “schierata” nei primi banchi di una delle due ali in
cui si divide l’aula indica l’ideale fusione tra i membri di un governo molto presente e la maggioranza
parlamentare.
Nei parlamenti tendenzialmente consensuali, sia nei paesi (come l’Italia) nei quali l’estrazione dei
ministri è tendenzialmente parlamentare che (a maggior ragione) in quelli dove il personale di governo
viene reclutato fuori dal parlamento, i banchi del governo sono ubicati in una posizione esterna al
tipico emiciclo (generalmente al centro, sotto gli scranni dell’ufficio di presidenza).
Ma la posizione del governo può essere misurata anche con indicatori non relativi alla sua presenza
“fisica”: una serie di precise facoltà possono infatti consentire all’esecutivo di “dominare” l’agenda
parlamentare, imponendo i propri temi e le proprie iniziative.
Tra queste, la possibilità di incidere sull’agenda parlamentare, imponendo una corsia privilegiata alle
proprie iniziative, quella di comunicare in modo urgente particolari decisioni attraverso messaggi o
discorsi in aula dei propri componenti, e quella di intervenire in tutte le sedi legislative (commissioni o
aula) anticipando rispetto alla discussione il proprio orientamento.
Gli eletti nelle assemblee fanno tante cose, a cominciare da un continuo lavoro di proiezione delle
visioni presenti nella società.
La condizione necessaria per mettere in atto tale funzione è un sufficiente pluralismo interno.
Su questo piano, torna ovviamente utile il confronto tra la visione consensuale e quella maggioritaria
della politica democratica: il parlamento tipico della democrazia consensuale, scelto con un accentuato
principio di proporzionalità, risulta naturalmente orientato a rappresentare le molte voci di una società
frammentata.
I parlamenti bipartitici delle democrazie maggioritarie, al contrario, rappresentano essenzialmente le
due parti (ovvero i due partiti) che incarnano le visioni politiche preponderanti, lasciando tuttavia ai
singoli rappresentanti il compito di difendere, attraverso l’iniziativa legislativa “personale” il proprio
collegio e quindi il “territorio” in esso compreso.
Tuttavia, molti sono i fattori in gioco nello svolgimento della funzione rappresentativa: alcuni aspetti
della rappresentanza specchio sono stati riproposti recentemente, causando una profonda
trasformazione nella capacità rappresentativa dei nostri parlamenti.
L’elemento forse più evidente di questa evoluzione è stato negli ultimi decenni l’aumento esponenziale
della presenza femminile nelle assemblee, che tuttavia non corrisponde necessariamente ad un effettivo
superamento del gender gap in politica, sia perché il ruolo rappresentativo delle donne elette non
necessariamente anticipa un cambiamento delle politiche di pari opportunità, sia perché, più
banalmente, il risultato complessivo in termini di rappresentanza femminile è in realtà la sintesi di una
distribuzione ancora largamente sbilanciata.
Ad esempio, il caso italiano, presentava fino al 2013 un tasso di presenza parlamentare femminile
inferiore al 20%.
Altri elementi della trasformazione di lungo periodo dei profili delle élite parlamentari ci dicono delle
loro mutate capacità rappresentative.
I nostri rappresentanti tendono a “inseguire” i cambiamenti sociali sul piano delle loro competenze
tecniche e della loro preparazione culturale: le esperienze ingegneristiche e tecnico-scientifiche stanno
bilanciando la prevalenza della cultura umanistica e soprattutto la grande presenza di giuristi.
La capacità rappresentativa delle assemblee sta inoltre rispondendo alle sfide poste alle antiche
funzioni educativa e informativa.
Molti parlamenti e congressi democratici (ma anche i singoli eletti) hanno sviluppato una propria
mansione di “collettore”, attraverso il web e i social network, delle istanze provenienti dalle periferie
anche più lontane della società.
Possiamo identificare tre dimensioni sulle quali misurare l’effettivo impatto decisionale delle
istituzioni rappresentative: a) reputazione individuale del rappresentante, b) estensione dei poteri
legislativi in senso stretto, e c) capacità di interdizione dei rappresentanti sul flusso e sulla qualità della
produzione legislativa.
La reputazione dei singoli rappresentanti eletti costituisce una prerogativa fondamentale per fare di
un singolo individuo un attore credibile nei processi decisionali.
Sotto questo aspetto, non si può certo dire che i parlamentari, pur formalmente uguali dentro l’aula,
debbano sempre avere un peso decisionale simile: chi riveste un ruolo di difensore del territorio o di
esperto in uno specifico settore decisionale – ad esempio, la politica agricola – dovrà verosimilmente
faticare per vede emergere il proprio progetto di legge o i propri emendamenti.
Al contrario, i leader del gruppo parlamentare e i vertici di commissione e di aula possono contare sulle
proprie prerogative politiche, nonché sul proprio potere di influire sull’agenda dei lavori, al fine di
regolare ampi “pacchetti” di proposte e dare al flusso del processo decisionale un preciso ordine.
Quanto alla dimensione delle facoltà legislative in senso stretto, gioca una parte fondamentale la
quantità di poteri rimasti in mano ai parlamentari di fronte alle facoltà di agenda, iniziativa e riserva
legislativa delegati al governo.
Sul piano della capacità di interdizione durante i flussi decisionali, un fattore fondamentale è costituito
dalle regole che consentono ai legislativi di rallentare se non bloccare l’azione del governo: tali regole
disegnano il livello di concentrazione del controllo sul processo legislativo.
Non è facile tuttavia stabilire una misura di tale livello, dato l’intrecciarsi di dettami costituzionali,
leggi ordinarie e soprattutto le importantissime regole interne alle assemblee che spesso fanno la
differenza. Contano naturalmente anche le prassi che si instaurano tra gli attori.
In Italia, il compito di sbrogliare la matassa di un’agenda controversa, cade spesso su un’altra
articolazione tendenzialmente consensuale: la conferenza dei capigruppo, che rappresenta tutti i partiti
parlamentari e che coadiuva il presidente di assemblea nella determinazione del calendario o nella
scelta di una specifica procedura.
Un intreccio complesso di regole e pratiche spiega anche il ruolo del parlamento nei processi di
correzione della finanza pubblica – l’antica funzione baghettiona di bilancio.
Recentemente, un fortunato filone di studi ha approfondito proprio il tema della disciplina di bilancio,
ovvero la ricerca di una procedura adatta per favorire un comportamento esemplare di tutte le
istituzioni coinvolte nel processo, e in questo contesto la riduzione dell’opportunismo dei parlamentari,
unitamente alla ricerca di una performance efficace ed efficiente (tempi chiari, decisioni chiare,
previsioni giuste) nel rispetto dei vincoli di tipo costituzionale, che solitamente danno al governo la
riserva di iniziativa ma alle assemblee il voto e in molti casi significativi poteri di emendamento su
bilanci e norme annuali di assestamento (leggi finanziarie, leggi di stabilità, ecc.).
Il rapporto tra organo legislativo ed esecutivo costituisce un tema classico di confronto per gli studiosi
della politica comparata.
Tutte le interpretazioni sul ruolo dell’articolazione maggioranza-opposizione, mettono in evidenza
l’importanza di una misurazione della forza “istituzionale”. Ma anche la natura unitaria o meno del
sostegno politico di maggioranza.
L’intreccio di queste variabili genera una grande varietà di configurazioni con le quali un legislativo
può contrastare e controllare le attività di governo.
Tuttavia, a questo tipo di controllo meramente “politico”, orientato soprattutto a garantire le minoranze
e le forze non rappresentate nell’esecutivo, si aggiunge una più ampia e fattiva attività tecnica di
screening dei singoli parlamentari, esercitata sia ex ante sulla fase ascendente dei processi che ex post
sui riflessi e sui risultati delle amministrazioni.
La storia parlamentare italiana recente può fungere come esempio.
Nella Prima Repubblica si parlava costantemente della centralità parlamentare discesa dalla
Costituzione e dai regolamenti parlamentari repubblicani, che esaltavano proprio le ampie facoltà di
controllo politico del legislativo, con il conseguente indebolimento della capacità di formulazione delle
politiche del governo.
A lungo si è parlato del bisogno di razionalizzazione del rapporto parlamento-governo, finalità
inseguita con l’adozione di alcune leggi, di alcuni importanti cambiamenti nei regolamenti
parlamentari e anche di alcuni tentativi di emendamento della stessa Costituzione.
Tuttavia, i due decenni successivi alla “rivoluzione” del 1994 mostrano chiaramente che i vincoli dati
dalla frammentazione nella maggioranza (non necessariamente tra i partiti ma anche nei partiti), quelli
di natura costituzionale e procedurale (es. la capacità dei parlamentari di tenere in scacco i governi
emendando e bloccando le sue più rilevanti iniziative) e la strenua difesa del proprio ruolo da parte
degli eletti nelle due camere, finiscono per determinare esiti non molto diversi da quelli a cui il sistema
politico italiano era tradizionalmente abituato in termini di rapporto tra governo e parlamento.
Evidentemente, la razionalizzazione del rapporto legislativo-esecutivo è un processo lungo che implica
trasformazioni dell’intero impianto democratico di un sistema, non facilmente ottenibili con delle
operazioni di lifting delle regole parlamentari.
Venendo alla dimensione della quotidiana sorveglianza sulle attività di governo, è palese
l’osservazione del nesso tra forza di questa attività e i meccanismi rappresentativi di base: il collegio
uninominale favorisce una naturale propensione al rapporto con la comunità locale.
Analogamente, si può dire che la lista bloccata sia un formidabile mezzo per centralizzare la scelta
degli eletti rendendoli funzionali (se non subordinati) alle strategie complessive dei loro selezionatori.
Tuttavia, in entrambi i casi, la densità e la complessità delle organizzazioni che fungono da
selezionatore (ovvero i partiti) nonché il livello di autonomia tradizionalmente riservato ai membri
dell’assemblea rappresentativa possono fare la differenza.
In sintesi, gli strumenti di controllo da parte dei legislatori rispetto a governo e amministrazione
possono essere classificati nel seguente modo:
1. question time direttamente rivolto ai responsabili della conduzione di governo;
2. azioni di sindacato ispettivo (interrogazioni, interpellanze);
3. audizioni nell’ambito delle facoltà informative e legislative;
4. inchieste.
Il question time e le azioni volte specificatamente ai responsabili dell’azione di governo sono uno
strumento tipico dei sistemi maggioritari, dove l’esecutivo, “fuso” con la sua maggioranza
parlamentare, viene incalzato dall’opposizione.
Le altre attività di potere “ispettivo” possono invece contenere gli obiettivi più diversi: semplice
“voglia di rappresentare”, oppure più o meno sottili tentativi di orvietane l’agenda del governo, ricerca
di convergenza con gli altri partiti parlamentari, o semplicemente (si tratta del caso più frequente)
volontà di apparire nelle cronache al fine di portare avanti l’obiettivo individuale per eccellenza: la
rielezione.
Le audizioni costituiscono uno strumento utile per varie finalità, ma orientato essenzialmente a
conoscere il punto di vista e le informazioni provenienti dalla società civile così come da altri poteri
dello Stato.
Le inchieste, infine, si rifanno alle facoltà aggiuntive degli organi legislativi ed alla loro autonomia
rispetto agli altri poteri dello Stato.
Se unito ad un’adeguata struttura informativa, tale strumento fa di alcune commissioni dei potenti
“giudici aggiunti”: è il caso di alcune celebri commissioni di inchiesta del Congresso Usa –
temutissime dallo stesso entourage presidenziale – ma anche istituzioni come la Commissione
parlamentare di inchiesta sulla Mafia in Italia.
Il primo elemento da mettere a fuoco è quello della crescita funzionale e “reputazionale” delle
assemblee territoriali.
Negli ultimi anni, sia il livello complessivo di “potere legislativo” delle assemblee subnazionali che la
loro capacità di controllo sull’operato del governo centrale è aumentato in modo consistente, tanto da
spingere gli autori a parlare di un’“era di regionalizzazione”.
Tale crescita risente di diversi fenomeni. In parte, si tratta di processi di pressione dal basso che hanno
determinato l’erosione dello Stato centrale e la dinamica federalizzazione in molte realtà (soprattutto
europee).
Negli ultimi decenni si sono imposti anche percorsi più complessi di collaborazione interistituzionale
che attribuiscono alle assemblee regionali compiti di monitoraggio su specifici processi decisionali o
addirittura la competenza su interi settori di politiche pubbliche che vengono così sottratte al
legislatore centrale, per effetto di un poderoso percorso di decentramento o per la sopraggiunta
imposizione di un modello di sussidiarietà.
È il caso del sistema politico italiano, che dopo la riforma costituzionale del 2001 ha sicuramente
potenziato e comunque reso più evidente l’esistenza di potestà legislative esclusive oppure concorrenti
da parte degli enti regionali.
Tuttavia, gli osservatori sono concordi nell’affermare che il processo di istituzionalizzazione dei
parlamenti regionali è legato a un complesso di elementi strutturali che va ben al di là della pur
importante “emancipazione” sul piano legislativo.
Possiamo individuare le cause di tale processo in tre dimensioni fondamentali.
1. La percezione pubblica della rappresentanza subnazionale.
Alcuni fattori recentemente studiati dall’analisi comparata dei parlamenti locali, come l’aumento del
livello di professionalizzazione (e quindi l’introduzione di cospicui salari per gli eletti, il
potenziamento delle risorse organizzative e la sempre più incisiva copertura mediatica) ci mostrano
che il destino della rappresentanza politica subnazionale sembra essere più luminoso rispetto ai
tradizionali parlamenti.
2. Lo sviluppo dei parlamenti subnazionali come vere e proprie arene politiche.
In qualche misura si può considerare lo sviluppo di questa dimensione come una conseguenza della
precedente.
Infatti, una diversa visibilità dei rappresentanti locali e territoriali dovrebbe automaticamente favorire
l’aumento del prestigio rivestito da tale ruolo anche per gli stessi politici.
Non ci sono dubbi che nell’ultimo scorcio storico il “posto” da membro elettivo di assemblea regionale
(o statale, se ci troviamo in un contesto federale) diventa sempre più ambito, perché garantisce non
solo una buona remunerazione finanziaria ma anche politica.
3. L’evoluzione del ruolo rappresentativo.
Molto spesso, i parlamenti regionali diventano anche portatori di un’idea diversa di “rappresentanza”.
Ridotti nella dimensione ma più vicini alla popolazione, questi snodi istituzionali si propongono di
rappresentare in modo diverso gli strati della popolazione meno presenti nell’establishment, le
minoranze e i “nuovi arrivati” all’interno di una comunità nazionale.
Sono infatti queste le istituzioni che per prime si fanno si fanno carico di forzare i sistemi normativi
tradizionali, sperimentando pratiche diverse, oppure introducendo sistemi di quota di genere o di
minoranze etniche, o anche abbassando la soglia di età per l’elettorato passivo.
Tutte queste soluzioni hanno il compito di esplorare modalità sperimentali di qualità democratica che
successivamente potranno essere “esportate” anche nei parlamenti nazionali.
1. Il Governo
1.1. La reinvenzione del governo
Si è soliti affermare che il governo è una componente essenziale della politica perché non è mai esistita
un’esperienza di comunità nella quale non sia emersa un’entità capace di esprimere quelle funzioni di
coordinamento e di guida che associamo a questo concetto.
In realtà, tale affermazione è suscettibile di qualche critica, poiché assume sia sempre possibile
identificare il soggetto capace di svolgere la “funzione di governo”.
L’esistenza di ordinamenti giuridici semplificati come quelli che vigevano in passato (ma non del tutto
scomparsi) – es. micro comunità dotate di autonomia, realtà tribali – rende difficile questa
identificazione: lo spazio semantico corrispondente al concetto di “governo” può risultare molto
ristretto oppure estremamente vasto, portandoci ad identificare degli attori assai diversi tra loro.
Un esempio del primo caso è il monarca degli Stati assoluti premoderni: la loro piena legittimità ne
faceva sicuramente i detentori unici della sovranità, ma è evidente che le funzioni di governo venivano
esercitate assieme ad una serie di altri soggetti, dapprima la nobiltà e poi quella classe di funzionari
che fu alla base della nascita delle moderne burocrazie.
Come esempio di accezione “larga” del significato di “governo” possiamo invece portare il caso delle
città-Stato dell’antica Grecia o i comuni medioevali: in omaggio alla dimensione comunitaria e
“orizzontale” di questi ordinamenti, il governo corrispondeva all’assemblea dei cittadini che, in quanto
tali, potevano partecipare alle decisioni critiche.
Tuttavia anche all’interno di queste realtà sarebbe presto emerso un qualche gruppo intermedio di
gestori e di garanti delle decisioni stesse.
Dunque, l’idea di un governo autorevole, riconducibile nelle sue funzioni e capace di influenzare in
modo decisivo i processi politici grazie ad una forte legittimazione che lo eleva a istituzione centrale
del sistema politico nasce relativamente di recente, a seguito delle fasi rivoluzionarie.
In questo senso, si può dire che il governo è stato reinventato dalla politica, il parallelo al processo di
reinvenzione dello Stato moderno.
È più corretto affermare che, più del governo come istituzione, è il problema del governo a porsi prima
o poi in qualsiasi forma politica, proprio perché ogni fenomeno definibile come “politica” evidenzia la
necessità di alcuni soggetti di conquistare una sfera effettiva di autorità ed esercitare le funzioni che ne
discendono.
Questa necessità fa del governo il fine stesso dell’agire politico.
Seguendo questa strada ci imbattiamo tuttavia in un’accezione ancora molto ampia del concetto.
Il termine “governo”, infatti, abbraccia tutte le funzioni nella sfera della politica e finisce per assumere
le vesti di una miriade di soggetti istituzionali.
Del resto, la parola inglese government include tutti gli attori che esplicano le funzioni tipiche in cui si
ripartisce il potere: il legislativo, l’esecutivo, il giurisdizionale.
Stringendo lo spazio semantico, è possibile adottare una sostanziale equazione tra il concetto di
“governo” e quello di organo esecutivo: in pratica, le istituzioni responsabili dell’indirizzo politico,
che assumono tuttavia anche la guida dei principali comparti dell’amministrazione pubblica
Il governo è l’invenzione comunemente ritenuta più importante nella fenomenologia politica.
Tuttavia, rimane un oggetto imperfetto e vago.
Proprio per questo, l’analisi empirica riparte doverosamente da una definizione restrittiva.
Richard Rose (1933-), americano trapiantato in Europa, si è dedicato allo studio del governo.
Ha lavorato anche sui sistemi politici comparati e sul terreno degli studi elettorali.
Ripercorriamo questa dinamica osservando l’evoluzione della struttura di governo nel caso italiano.
Il gabinetto ministeriale della monarchia costituzionale piemontese, che nel 1861 divenne in governo
del neonato Stato unitario, era composto da una manciata di ministri che garantivano la continuità delle
funzioni tradizionali, in primis la difesa dell’ordine interno e le capacità militari.
L’istituzione del ministero del Tesoro e dei primi sottosegretari di Stato, durante il governo Crispi
(1888), costituisce un primo allargamento del governo verso figure specializzate che ricevevano
deleghe innovative ed importanti.
Ma è durante l’età giolittiana che il numero e la natura dei comparti amministrativi, e le conseguenti
deleghe politiche alle figure incaricate della direzione di tali comparti, assumono le dimensioni di un
gabinetto ministeriale numeroso.
Paradossalmente, anche durante il fascismo nacquero nuove figure e nuove funzioni di governo.
Sono i decenni dello Stato produttore, che anche in Italia scopre funzioni importanti come l’intervento
nell’economia e la necessità di capillari servizi sociali.
Non a caso, è in questo periodo che il governo italiano comincia a pianificare il proprio intervento
nell’economia acquistando imprese e costituendo quell’amministrazione parallela fatta di strutture
pubbliche che sostituivano l’impresa e l’industria in alcuni settori cruciali.
Nel contempo, si realizzava un nucleo ancora basilare ma rilevante di politiche destinate alla
cittadinanza: le assicurazioni sociali, sul lavoro e la previdenza sociale, corrispondevano ad una
espansione della macchina di governo: alla nascita di ministri e sottosegretari dedicati a queste
deleghe, faceva seguito un adattamento dell’’intero sistema burocratico, dagli uffici centrali a quelli
territoriali, che si dovevano occupare di una moltitudine di servizi.
Lo Stato sociale, nato all’indomani della completa democratizzazione e della conquista della sfera del
governo da parte dei grandi partiti di massa, corrisponde invece ad uno sforzo più ingente e ad un
impegno sistematico in tanti settori della politica pubblica che favoriscono politiche di redistribuzione
e di crescita complessiva della società.
La salute e la scuola pubblica sono naturalmente le prime voci di questo nuovo corso, che in Italia si
verifica soltanto negli anni della ricostruzione, successivi alla guerra e alla caduta del fascismo.
Ma ci sono anche nuovi tipi di assicurazione sociale e nuovi impegni dello Stato in economia,
testimoniati dalla nascita di ministeri specifici per le politiche di bilancio e programmazione
economica (1947) e per le partecipazioni statali (1956).
Questa fase di espansione quantitativa e qualitativa si completa in realtà nei decenni successivi, con la
nascita di due ministeri oggi rilevanti come quello per l’ambiente (1986) e quello per la ricerca
scientifica e tecnologica (1989).
Sono gli anni di un big government che peraltro è già stato messo in allarme da una crisi di natura
globale, quella seguita allo shock petrolifero degli anni Settanta che ha imposto una inversione di
tendenza quasi paradossale: si deve spendere meno ma continuando a spendere aumentando gli ambiti
di spesa nei quali le risorse pubbliche finiscono.
Anche questa è una fase – per qualcuno un vero e proprio smantellamento del welfare – che ha
significato molto per la struttura dei governi.
2. I sistemi di governo
2.1. Una tipologia semplificata
Guardando al tipo di legittimazione del vertice dell’esecutivo, relativamente alle varie forme di
governo, si distingue in presidenzialismo, nel quale il capo del governo viene scelto dal popolo
attraverso un’elezione diretta, e parlamentarismo, nel quale viene selezionato dall’assemblea dei
rappresentanti del popolo.
Gli scienziati politici, però, si orientano a proporre una modellistica di sistemi di governo invece che di
forme o di idealtipi, esplorando la complessità attraverso una serie di classificazioni e tipologie.
Di recente, Cheibub ha proposto una classificazione che distingue tra “sistemi presidenziali” (nei quali
il governo risponde al presidente e non al legislativo), “sistemi parlamentari” (dove il governo è
responsabile di fronte al legislativo, e il presidente non è eletto in modo indipendente, o comunque non
ha poteri sul governo) e “sistemi misti”.
Questi ultimi sono i cosiddetti semipresidenzialismi, dove un presidente demo-eletto mostra qualche
potere su un esecutivo che pure rimane responsabile di fronte al parlamento.
È possibile costruire una tipologia attraverso due dimensioni continue:
il tipo di legittimazione del capo del governo, che può essere popolare o indiretta (ovvero mediata
dal parlamento);
la durata dell’ufficio del capo di governo, che può essere costituzionalmente determinata oppure
vincolata al persistere di un rapporto fiduciario da parte dell’organo legittimante.
Gran parte delle democrazie contemporanee si dispongono nell’area individuata dall’ovale di forma
allungata, riproducendo la già citata triade di modelli (presidenziale, parlamentare, semipresidenziale).
Ad un estremo dell’area ovale troviamo il presidenzialismo (es. Stati Uniti) che prevede una forte
legittimazione popolare derivata dall’azione popolare.
Al suo opposto, nel parlamentarismo classico (es. Regno Unito) la nomina del capo dell’esecutivo
è di competenza del parlamento (o, meglio della camera elettiva del parlamento) che può in qualsiasi
momento ritirare tale delega con un voto di sfiducia che interrompe l’azione dell’esecutivo.
La variabilità più evidente si conferma attorno al terzo tipo interno all’area più densa, quello del
semipresidenzialismo, identificato di solito nella sua forma originaria con il sistema della V
Repubblica francese, che consta di un governo rispondente al legislativo, coerentemente con il
parlamentarismo di stampo europeo, e un capo di Stato elettivo, che condivide i poteri esecutivi con il
primo ministro. Anzi, egli di fatto tende ad azzerare la figura del primo ministro, specialmente quando
quest’ultimo è dello stesso colore politico del presidente stesso.
Il modello rappresenta oggi una categoria in espansione.
Fuori dall’area ad alta densità di casi empirici trovano posto altri due modelli, certamente meno
rilevanti ma effettivamente corrispondenti ad altrettante esperienze.
Il direttorio è da circa due secoli il sistema con cui si governa la confederazione svizzera: dopo
ogni turno elettorale, il governo si forma con un’ampia partecipazione dei partiti che si riconoscono in
una coalizione di soggetti uniti dall’interesse nazionale.
Il legislativo sostiene l’operazione attribuendo la presidenza del governo, a turno, ai leader dei vari
partiti, con una turnazione rigidamente annuale.
Al contrario, il premierato elettivo è una forma di governo nella quale la legittimazione personale
e popolare del leader (eletto direttamente) non corrisponde ad un mandato “garantito” ma deve essere
confermato nel tempo dalla fiducia parlamentare
Tale sistema è effettivamente esistito soltanto nell’esperienza israeliana tra il 1996 e il 2003, ma un
ampio dibattito su pro e contro del premierato si è recentemente sviluppato in molte realtà – in
particolare in Italia – nelle quali si erano palesati evidenti problemi di incertezza e di ingovernabilità
del sistema di governo parlamentare.
2.2. Formazione, fiducia e crisi. Vincoli costituzionali e procedurali sul sistema di governo
In tutti i parlamentarismi il governo è legittimato per via indiretta attraverso le camere, ma il suo
processo di formazione può essere regolato assai diversamente.
In alcune democrazie del modello maggioritario la procedura appare semplificata, in quanto il
connotato semplificato del sistema partitico consente la proiezione immediata verso la nomina a primo
ministro del vincitore delle elezioni (il leader del partito di maggioranza).
In questo caso, il termine che possiamo usare per descrivere l’azione del capo di governo è quello di
coordinamento, mentre i processi decisionali seguono la regola dell’unanimità, o comunque vincolano
il titolare del governo a cercarsi di volta in volta adesioni significative da parte degli altri membri
dell’esecutivo.
Il primo dei due modelli, esemplificato storicamente dal caso britannico, è stato definito nella storia
come governo del primo ministro oppure premiership.
All’estremo opposto troveremo un governo collegiale, come quelli che hanno caratterizzato alcuni
parlamentarismi europei, tra i quali il Belgio, l’Olanda e l’Italia della Prima Repubblica.
Approcci recenti, capaci di combinare una dettagliata analisi empirica di lungo periodo, hanno
elaborato ampie riflessioni sulla variabilità tra i sistemi di governo democratici, al fine di controllare
l’effettivo comportamento delle diverse soluzioni istituzionali.
In particolare, l’utilizzo della teoria della delega, nell’analisi dei processi di formazione e interruzione
dei governi conferma l’evidente distanza di due modelli che possono essere empiricamente associati al
modello parlamentare (nella versione primo-ministeriale) e presidenziale (nella versione pura degli
Stati Uniti).
Il modello della delega perfetta comporta una catena di deleghe dove l’unitarietà e quindi la coesione
di ogni agente rispondono al proprio principale sulla base di una chiara attribuzione di deleghe.
Questo idealtipo è dunque caratterizzato da primi ministri con una forte delega parlamentare, ministri
con ampio spazio di manovra (ma strettamente limitato ai settori di competenza) sottoposto allo
screening del premier stesso che con il suo staff potrà “giudicare” i suoi ministri, e infine un rapporto
ugualmente biunivoco e trasparente tra i ministri – ora divenuti principali – e i rispettivi agenti, ovvero
le agenzia dipartimentali che dovranno fattivamente realizzare gli interventi.
Il modello della delega duale è invece connotato da rapporti ugualmente biunivoci e trasparenti, che
tuttavia sviluppano due strade parallele, poiché l’elettorato presidenziale e quello del Congresso sono
tecnicamente diversi, pur se attivati contestualmente, durante l’election day (martedì di novembre).
Il presidente ha ampi poteri di delega, ma è anch’esso sottoposto allo screening del congresso.
Gli scienziati politici sanno che non esiste un governo di partito perfetto.
Ma sanno anche che è difficile pensare a un governo democratico avulso dalla dimensione partitica.
Il loro lavoro è stato pertanto orientato innanzitutto a esplorare questo rapporto tanto importante
quanto complicato, per poi giungere a delle generalizzazioni, per quanto deboli ma capaci di
controllare ipotesi su un universo di casi comparabili.
Il politologo americano Richard S. Katz ha messo a punto un’elaborazione empirica del concetto di
party government.
Il governo di partito si realizza quando a) le decisioni vengono prese da un personale di partito eletto
nelle cariche più rilevanti dell’esecutivo; b) le politiche pubbliche sono decise all’interno dei partiti,
che agiscono con sufficiente coesione nella difesa di tali piattaforme; c) i detentori delle cariche sono
reclutati e agiscono come rappresentanti del proprio partito nella loro esperienza di governo.
William H. Riker (1920-1993) è stato un caposcuola della cosiddetta Rational Choice, la corrente
che, a partire dagli anni Sessanta, ha applicato modelli formali e razionali di teoria dei giochi allo
studio della politica. Come molti sostenitori di tale corrente, aveva un background da economista.
Tuttavia, si era presto dimostrato molto attento alle logiche della trasformazione politico-istituzionale.
[v. fig. 7.4 (pag. 222)]
Le risposte fornite al classico interrogativo su “chi forma una coalizione” danno un’idea
dell’evoluzione attraversata da questo interesse nate approccio.
I primi contributi formalizzati negli anni Settanta introducevano il semplice assunto della coalizione
minima vincente, ovvero quella coalizione che diventa perdente con la sottrazione di un solo
giocatore, una coalizione dunque “risicata” che tuttavia garantirà ai partner la più conveniente
allocazione delle spoglie in palio.
Questa argomentazione razionale dovrebbe essere sufficiente per premettere la formazione di un
governo composto dai due partiti che raggiungono la più risicata delle maggioranza possibili in
parlamento (A+E).
Una versione leggermente diversa dello stesso assunto si basa sul conteggio del numero dei giocatori.
La coalizione minima vincente sarà la coalizione con il minor numero di partiti, a prescindere
dall’esistenza di soluzioni con maggioranze ancora più risicate.
La coalizione più probabile sarà, quindi, quella C+E, assumendo che il partito di maggioranza relativa
– il primo in una logica formalizzata nelle procedure istituzionali a giocare, ricevendo l’incarico di
formare un governo – cercherà il suo partner in un’area politica meno lontana rispetto al partito A.
Proseguendo con l’argomentazione relativa all’importanza della contiguità politica degli attori,
l’ulteriore contributo teorico della maggioranza minima connessa impone un esito diverso.
In questo caso i partiti E e C dovranno favorire l’inclusione del piccolo partito D nella coalizione, cosa
che costerà loro qualche ministero ma garantirà coerenza politica alla maggioranza che ora occupa
appunto uno spazio continuo grazie all’impegno di tre forze politicamente contigue.
Ulteriori spunti hanno aggiunto realismo e sostanza alle ricerche sulla formazione dei governi di
coalizione. Gli studi basati sulla teoria delle coalizioni a distanza minima introducono il tema della
riduzione della distanza ideologia tra i partner, che comporta la conoscenza dell’effettiva affinità nelle
posizioni programmatiche.
Una coalizione A+B+C che investe tre partiti collocati sul versante del centro-destra sembra a prima
vista la soluzione più nitida in questa prospettiva.
Tuttavia, se il partito estremo viene considerato antisistema, o comunque non così vicino agli altri
partiti collocati su quel versante politico, e quindi con un potenziale di coalizione troppo basso,
potrebbe scattare un seconda soluzione centrista (C+D+E) comprendente i due partiti maggiori dello
scenario politico.
Tuttavia, possono formarsi coalizioni oversized, cioè coalizioni fatte di un numero di partiti più alto
rispetto a quello atteso, in modo d condividere gli onori ma anche gli oneri di un difficile governo.
Proprio dall’argomentazione del calcolo costi-benefici di una data coalizione si sono mossi i contributi
sull’approfondimento delle reali capacità coalizionali degli attori in lizza.
La seconda generazione di coalition theories si è infatti concentrata sull’esistenza di compensazioni
per la partecipazione ad un’esperienza di coalizione.
Ecco spiegata l’importanza del bargaining set (spazio di contrattazione) che genera risultati assai
diversi a seconda della possibilità di accordi interpartitici sulle questioni centrali sull’agenda.
I risultati più noti delle ricerche di questo filone, sintetizzabili genericamente come teoria delle
coalizioni a maggioranza contrattata, giungono a modelli più verosimili.
Laver e Shepsle [1996] formalizzano un modello dove le preferenze dei vari attori partitici in almeno
due settori di politica pubblica generano spazio per compromessi accettabili (i cosiddetti win sets) la
cui sovrapposizione sarà capace di spiegare la propensione a determinate coalizioni piuttosto che ad
altre. Tendenzialmente, sono i partiti che controllato l’elettore mediano ad avere un win sets più
compatibile con gli altri e quindi la possibilità di costruire una futura coalizione.
Tuttavia, aumentando le variabili interventi e la complessità nelle preferenze degli attori, è possibile
che nessuna soluzione si riveli accettabile per gli attori chiamati al governo.
Questa situazione è alla base della spiegazione di un fenomeno diametralmente opposto alla ricerca
della maggioranza, ovvero il governo di minoranza, monocolore o anche di microcoalizione, ovvero
un esecutivo da affidare a un partito o cartello comunque significativo considerato non estremistico o
antisistema, tenuto in vita da un appoggio esterno o anche dall’astensione di alcuni attori partitici che
non lo boicottano ma preferiscono non entrarvi.
In un’ottica di emergenza, si tratta di una soluzione residuale e transitoria, o comunque connotata da
un qualche limite alla delega attribuita al governo.
In questo senso, i governi di minoranza sono classificabili vicino a quelli integralmente tecnici
comparsi occasionalmente in situazioni di crisi, ovvero dei governi delegati a poche azioni in un
settore molto definito.
Come si allocano le spoglie ministeriali tra i partiti della coalizione?
Da una generalizzazione intuitiva ma incapace di spiegare tutte le implicazioni del fenomeno – la
legge della proporzionalità rispetto al peso elettorale dei partiti – siamo passati a teorizzazioni più
raffinate, basate sul potenziale di coalizione e poi sulla natura policy seeking di alcuni partiti.
Meno intuitivo è isolare le differenze che persistono nella configurazione dei governi democratici.
Con qualche semplificazione, possiamo ridurre a quattro le principali dimensioni nelle quali è possibile
riscontrare una variazione consistente: i “poteri formali e informali”, l’“organizzazione interna” al
gabinetto, i “meccanismi di selezione del personale”, e da ultimo la “durata dei governi” stessi.
Relativamente ai poteri formali, oltre alle fondamentali facoltà costituzionali che discendono dal
sistema di governo, diventano fondamentali le facoltà attribuite dalle prassi o dalle regole di
funzionamento interne ai parlamenti.
A prescindere dal sistema di governo, un esecutivo è tanto più “forte” quando può contare su
un’architettura di norme scritte che esaltano la sua autonomia e tutelano la sua iniziativa legislativa.
Tuttavia, anche un governo molto “forte” sul piano del suo rapporto con il parlamento, può denotare
un certa gracilità interna dovuta ad una scarsa capacità organizzativa.
Qui subentra la seconda variabile, quella della dimensione strutturale interna dell’esecutivo.
Storicamente, i governi nascono come insiemi più o meno formalizzati di delegati (del monarca).
Nello sviluppo storico delle democrazie, in alcuni casi sono stati premiati i destinatari della prima
delega (diretta o indiretta), ovvero i capi di governo, mentre in altri paesi sono stati i ministri, in
quanto capi delle varie amministrazioni, a massimizzare le risorse organizzative.
Possiamo sintetizzare attraverso il confronto tra Regno Unito e Italia: mentre il primo ministro inglese
è storicamente il primo a dotarsi di una serie di risorse umane, unità di consulenti e anche di immobili
da “prestare” alle proprie agenzie, il presidente del Consiglio in Italia non ha mai avuto una sede
propria fino al 1925 (quando si insedia con Mussolini al Viminale, che tuttavia ospitava già anche il
ministero degli Interni). La sede esclusiva (Palazzo Chigi) sarà raggiunta solo nel 1961.
Inoltre, la legge che garantisce risorse autonome al presidente del Consiglio italiano arriva solo nel
1988, quarant’anni dopo il suo “annuncio” nell’art. 96 della Costituzione.
Quanto alla selezione del personale ministeriale, poste le caratteristiche convergenti dell’élite di
governo – si tratta molto spesso di politici “navigati”, grazie ad una lunga militanza partitica e alle
precedenti esperienze politico-istituzionali, ancora oggi prevalentemente maschi con un’origine sociale
e culturale sicuramente privilegiata rispetto alla media della popolazione – l’elemento di differenza che
salta tradizionalmente agli occhi è quello relativo alla provenienza parlamentare: nelle democrazie
Westmister, a cominciare da quella britannica, i ministri non solo provengono dal parlamento, ma sono
tenuti a mantenere il proprio seggio durante il mandato di governo.
Al contrario, nei presidenzialismi e anche in alcuni parlamentarismi vicini al modello consensuale (es.
Olanda) i ministri non possono ricoprire la carica di parlamentare e quindi, nell’eventualità che dei
parlamentari vengano nominati ministri, essi devono lasciare il proprio seggio.
Infine, la capacità di persistenza (o, al contrario, la caducità) rappresenta la dimensione più studiata
nell’analisi del funzionamento di quei sistemi di governo – parlamentari o semipresidenziali –
connotati da una durata “incerta” degli esecutivi.
Il tema della governabilità deve essere inquadrato in un contesto più articolato: innanzitutto, accanto
alle regole elettorali e al numero degli attori partitici, altre variabili come la disciplina dei legislatori di
maggioranza e la coesione interna ai partiti di governo incidono sulla stabilità dell’esecutivo.
In ogni caso, la durata formale dei governi non è perfettamente correlata con il dinamismo delle loro
azioni o con il successo dei rispettivi leader.
È utile a questo proposito ricordare le cifre relative alla (in)stabilità di governo in Italia nella Prima
Repubblica: 47 governi formatisi tra il 1948 e il 1993, con una durata media di soli 320 giorni.
Non vi sono dubbi sul fatto che si è trattato di un esempio di governo collegiale debole, con un primo
ministro perennemente esposto al rischio della crisi, e quasi mai capace di imporre una propria agenda,
o di cambiare a proprio piacimento la squadra dei ministri.
Tuttavia, se guardiamo a quell’esperienza dal punto di vista della stabilità della classe politica,
scopriremo la robustezza dell’élite che guidò il paese in quella fase storica.
Un’élite perfettamente impersonata da Giulio Andreotti che in quella lunga stagione fu 28 volte
ministro e 7 volte presidente del Consiglio.
4.2. Evoluzioni recenti: “core executive”, presidenzializzazione e tecnocrazia
È necessario passare in rassegna la recente trasformazione nei rapporti di delega all’interno dei governi
democratici.
Un primo elemento sul quale riflettere è quello dello sviluppo di un nucleo duro del governo,
osservato nella lunga storia del governo britannico ma che avrebbe caratterizzato anche molte altre
democrazie consolidate.
La nozione di core executive è particolarmente utile perché permette di distinguere gli attori che
effettivamente esercitano i poteri di indirizzo politico rispetto ai meri esecutori, al di là della comune
appartenenza a un corpo collettivo di ministri o membri di governo.
Questa immagine è importante anche in un contesto come quello dell’Unione Europea nel quale alcuni
attori istituzionali nazionali sono più importanti degli altri per il fatto di partecipare a particolari
processi decisionali sovranazionali.
Questo genera un distacco netto tra le competenze e le opportunità di partecipazione ai processi
decisionali di alcuni ministri al cospetto di altri
Il secondo elemento da tenere in considerazione è quello dell’accentuazione della forza dei leader.
Questa osservazione, motivata da una moltitudine di fattori, tra i quali la crisi dei partiti, la “campagna
elettorale permanente” e il potere dei media che valorizza il carisma dei singoli al cospetto delle élite
nel loro complesso, è applicabile in realtà a tutti i sistemi e sarebbe rubricabile con il termine
leaderalizzazione.
Il processo interessa in modo particolare i sistemi parlamentari, nei quali il ruolo del capo del governo
appare sfumato e talvolta non decisivo.
Accurati studi empirici hanno mostrato come in tutti questi regimi una serie di risorse organizzative e
informative si sono accentrate al cuore degli esecutivi e, sempre più spesso, alle dirette dipendenze del
capo di governo.
La conquista della leadership, e quindi le caratteristiche personali del candidato migliore per questa
finalità, sono divenuti gli elementi dominanti nei processi elettorali, attirando sempre di più
l’attenzione degli elettori alla ricerca della “persona giusta” più che del partito o degli stessi
programmi.
Il terzo elemento di mutamento nella struttura di governo è il rapporto sempre più intrecciato tra
figure politiche e figure di tipo tecnico.
In parte questo fenomeno riguarda la crescita dei policy advisors (consulenti esperti) e di altre forme di
staff reclutate direttamente dai politici per avere un supporto di competenze diverse rispetto a quelle
fornite dalla burocrazia.
In questa veste troviamo reclutate sempre più spesso delle figure senza un vero e proprio retroterra
politico, e non sono infrequenti anche i casi di commissioni di studio bipartisan dove un governo
recluta tra i propri consulenti anche esperti considerati vicini ai partiti di opposizione.
Alcune competenze dei tradizionali dicasteri (soprattutto nel settore economico e nelle politiche
regolative) vengono oggi assorbite dal ruolo molto più “tecnico” delle cosiddette autorità indipendenti,
strutture di nomina governativa o parlamentare che tuttavia godono di un’estrema autonomia politica e
che sono chiamate a compiti molto specifici di attuazione e interpretazione delle politiche (es. stabilire
le sanzioni per i comportamenti non rispettosi dei principi della libera concorrenza).
In altri casi sono cambiati i criteri di selezione e di reclutamento di alcuni dei membri stessi
dell’esecutivo.
La presenza di tecnici nel governo si è moltiplicata negli ultimi decenni nell’intero universo
democratico e soprattutto nei parlamentarismi europei, mostrando soprattutto in alcuni ruoli – gestione
di politiche economiche ad alto contenuto tecnico come salute, ricerca, ambiente, infrastrutture – un
“utilizzo” copioso di personalità estranee alla politica che hanno interpretato il proprio ruolo come
quello di un puro policy expert, senza essere troppo interessati alla dimensione complessiva del ruolo
di governo.
L’idealtipo burocratico di Max Weber è un punto di riferimento essenziale per l’analisi del
comportamento amministrativo e per il ruolo che le amministrazioni pubbliche svolgono nel processo
politico. Esso rappresenta il metro di paragone per ogni analisi dell’eventuale cambiamento della
pubblica amministrazione.
Il concetto di “pubblica amministrazione” è più ampio di quello di “burocrazia”.
Se infatti è vero che la gran parte delle organizzazioni pubbliche hanno caratteristiche di tipo
burocratico, è anche vero che in queste stesse amministrazioni possono coesistere elementi
organizzativi di tipo non burocratico.
Basti pensare a quelle nomine politiche dei dirigenti pubblici che avvengono non in base a una logica
meritocratica ma sulla base del criterio di fedeltà e di lealtà del nominato rispetto ai detentori del
potere politico.
Inoltre, possono anche esistere amministrazioni pubbliche senza Stato (es. organizzazioni
internazionali: Unesco, Onu, ecc.).
È necessario, pertanto, focalizzare l’attenzione sulla definizione di “amministrazione pubblica”.
La pubblica amministrazione può essere definita in termini funzionali o in termini strutturali.
Seguendo Peters, dal punto di vista funzionale, l’“amministrazione” può essere intesa come un insieme
di attività mediante le quali si attuano norme, ovvero la traduzione di regole generali, formulate per
l’interesse collettivo, in decisioni specifiche.
Dal punto di vista strutturale, le pubblica amministrazioni sono l’insieme degli apparati organizzativi
la cui primaria finalità è quella di svolgere le funzioni richieste dalle decisioni politiche formalizzate.
B. Guy Peters (1944-) è uno dei principali contemporanei di analisi delle politiche pubbliche e di
comportamento amministrativo. Nella sua vasta attività di ricerca brillano gli studi comparati sulle
caratteristiche strutturali e culturali delle pubbliche amministrazioni e sul rapporto tra politici e
burocrati.
Il criterio del processo rimanda alle modalità sistemiche mediante le quali le pubbliche
amministrazioni operano e all’articolazione della divisione del lavoro tra le strutture amministrative.
Ad esempio, nell’organizzazione dei processi amministrativi tipica degli Stati accentrati, i ministeri
svolgono al tempo stesso l’attività di progettazione, attuazione e controllo delle loro attività (es.
ministero dell’Interno).
Vi è poi il caso di strutture organizzative in cui vi è una separazione tra l’apparato che ha il compito di
progettare e controllare gli interventi e l’apparato pubblico che ha il compito di attuare le politiche.
È la pratica, originata negli Stati Uniti, ma sempre più diffusa nel resto del mondo, di assegnare ad
agenzie (sotto la supervisione e il controllo delle assemblee legislative o dei ministeri) l’attuazione
delle politiche da perseguire in determinati settori di politica pubblica.
Un’altra modalità di articolare i processi amministrativi è rappresentata dalla creazione di autorità
indipendenti che hanno al finalità di regolare o indirizzare un settori di politica pubblica al fine di
preservare e tutelare l’interesse collettivo (es. autorità antitrust, banche centrali, autorità che regolano
specifici settori economici).
Il criterio relativo ai destinatari o all’oggetto trattato fa riferimento al fatto che l’articolazione
istituzionale delle amministrazioni può andare a configurarsi su uno specifico gruppo di interesse o
settore dalla società.
Si tratta di un tipo di organizzazione che può essere confusa con l’organizzazione per specifici settori
di politica pubblica (sanità, ambiente, ecc.) ma che in realtà si caratterizza per il fatto di concentrarsi su
uno specifico gruppo di riferimento (es. dipartimenti per gli affari indiani o per gli aborigeni in paesi
come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia).
Questo criterio può essere decisivo nell’influenzare le attività dell’amministrazione, laddove la
funzione primaria (es. politiche di sviluppo economico) viene organizzata per sottounità organizzative
(assistenza alla piccola impresa, artigianato, grandi imprese, ecc.) che possono produrre un
meccanismo di rapporto privilegiato e favorevole rispetto ai destinatari dell’azione amministrativa.
Il criterio organizzativo dell’obiettivo da raggiungere è particolarmente problematico poiché, se è
vero che ogni struttura amministrativa viene creata con un fine specifico, è anche vero che, nel corso
della sua evoluzione, l’obiettivo organizzativo originario può modificarsi anche in modo significativo.
Infatti, ogni organizzazione pubblica viene istituita per un fine che è simbolicamente rappresentato
nella denominazione (es. ministero dell’Istruzione, Cassa del Mezzogiorno, ecc.).
Quindi, ogni struttura amministrativa nasce con una mission ben definita.
Nel corso del tempo, però, le finalità organizzative iniziali possono mutare, sia a causa di richieste da
parte della politica o del sistema sociale, sia per dinamiche interne all’amministrazione stessa.
[Le dimensioni organizzative fondamentali sono: il livello di formalizzazione, le modalità di
distribuzione dell’autorità, il tasso di specializzazione, il livello di centralizzazione, il livello e il tipo
di professionalizzazione].
3.3. Il personale
Le pubbliche amministrazioni non sono fatte solo di procedure e organizzazioni, ma anche di persone.
La rilevanza del personale pubblico è massima non solo dal punto di vista amministrativo, ma anche –
poiché i dipendenti delle pubbliche amministrazioni costituiscono, in tutti i paesi avanzati, una
componente significativa degli occupati e della cittadinanza – dal punto di vista più generale del
sistema politico (soprattutto in termini elettorali).
Le modalità con cui il personale pubblico viene reclutato, selezionato, promosso e incentivato
costituiscono un elemento chiave per indirizzare le capacità e l’azione amministrativa.
L’organizzazione del personale pubblico del modello burocratico tradizionale è caratterizzata da: una
selezione in entrata basata sul titolo di studio; generalismo; scarsa mobilità verso il privato; forme
accentrate di reclutamento; inamovibilità del posto; elevato spirito di corpo; progressione in carriera
basata sull’anzianità; rapporto di lavoro fondato per lo più sulla legge con poco spazio per la
contrattazione.
Nel corso degli ultimi decenni, sono stati introdotti principi di organizzazione del personale pubblico
che hanno fortemente ridotto le rigidità del modello storicamente sedimentato.
Principi come la specializzazione professionale, l’elevata mobilità tra impiego pubblico e impiego
privato, le forme decentrate di reclutamento, la contrattazione collettiva, i meccanismi meritocratici di
merito, la retribuzione parzialmente legata alla performance individuale, sono stati variamente
introdotti nei paesi occidentali.
L’esito di questi processi di riforma ha drasticamente cambiato il quadro dell’organizzazione del
personale delle pubbliche amministrazioni.
Ad esempio, il ridimensionamento dei dipendenti pubblici (anche mediante il licenziamento) non è più
un tabù come nel passato.
3.4. Le procedure
Anche le procedure con le quali le pubbliche amministrazioni operano hanno subito notevoli
trasformazioni nel corso dell’ultimo secolo.
Il modello burocratico tradizionale è caratterizzato da una logica procedurale basata semplicemente sul
rispetto delle leggi e delle norme.
Lo scopo dell’amministrazione, in questo contesto, è quello di applicare o attuare la legge.
Ovviamente vi sono differenze sostanziali tra i paesi dell’Europa continentale e quelli del mondo
anglosassone.
In particolare, negli Stati Uniti, le procedure amministrative non sono mai state, come nel caso dei
paesi europei, unidirezionali (semplici regole di azione della burocrazia) ma si sono caratterizzate per
un forte coinvolgimento dei gruppi di interesse e un ruolo spesso decisivo dei giudici.
Questa differenza tra le modalità procedurali, dovuta alla tradizione storica delle singole
amministrazioni nazionali, è venuta, nel corso degli ultimi due decenni, a ridursi.
Anche in questo caso, il modello burocratico di azione amministrativa è stato progressivamente
contaminato, se non proprio trasformato, dall’introduzione di nuovi strumenti e di nuovi principi
procedurali, mutuandoli dal mondo delle organizzazioni private.
La pianificazione degli obiettivi, la valutazione del personale e delle performance istituzionali, la
trasparenza e il diritto di accesso dei cittadini, l’utilizzo massiccio dell’e-government hanno
radicalmente innovato le modalità di azione delle amministrazioni.
Il fatto che le nuove procedure implichino maggiori possibilità di interazione tra attori esterni (sia
quelli organizzati, sia i singoli cittadini) e pubbliche amministrazioni, e che queste siano obbligate a
rendere costantemente trasparenti le loro azioni, conduce ad aumento consistente della complessità dei
processi decisionali: essi non sono più lineari, in quanto caratterizzati da un’azione unidirezionale delle
pubbliche amministrazioni, ma sono basati su continue interazioni tra più attori.
La cultura organizzativa (d.i.) riguarda l’insieme dei valori e delle pratiche condivise all’interno
dell’organizzazione pubblica.
I valori concernono sia il proprio ruolo come amministrazione sia gli obiettivi da raggiungere (e
possono basarsi non solo su elementi normativi o legislativi, ma anche su tradizione, miti, ideologie);
le pratiche riguardano le modalità condivise mediante le quali l’organizzazione pubblica agisce (e
possono essere fondate sull’eredità storica e su una forte componente affettiva piuttosto che su una
prescrizione legislativa).
La cultura organizzativa delle amministrazioni viene spesso considerata come irriducibile a
generalizzazioni classificatorie. In realtà, in letteratura disponiamo di alcuni sforzi classificatori delle
culture organizzative e delle pubbliche amministrazioni.
Pierre [1995] distingue due tipi di culture organizzative: la “cultura del Rechstaat” e la “cultura per
l’interesse pubblico”.
Si tratta di una classificazione semplice, basata sulla sedimentazione storica dei processi di costruzione
dello Stato e sull’evoluzione dei sistemi politici.
Ovviamente, questi due tipi di cultura organizzativa individuano due “famiglie” di sistemi politici (e,
quindi, di sistemi amministrativi) occidentali: quella dei paesi dell’Europa continentale e quella dei
paesi anglosassoni.
La cultura organizzativa del Rechstaat è caratterizzata da un profondo senso di gerarchia, da una
forte concezione elitistico-legalistica dell’azione amministrativa, da un’attitudine all’adempimento che
considera il rispetto delle procedure un criterio legittimante la propria azione, e da una formazione
prevalentemente giuridica dei funzionari.
Questo tipo di cultura amministrativa che accomuna gran parte dei paesi dell’Europa continentale, ha
mostrato un’insolita resistenza nel mantenimento di alcune caratteristiche genetiche, anche dopo le
consistenti ondate di riforma amministrativa orientate all’attuazione di tecniche manageriali perseguite
dai governi negli ultimi tre decenni;
La cultura organizzativa dell’interesse pubblico origina dall’esperienza storica dei paesi
anglosassoni, in cui i rapporti tra potere politico e cittadini si sono articolati in modo meno
asimmetrico rispetto a quelli in uno nei paesi dell’Europa continentale.
Si tratta di un’esperienza storica in cui la parola “Stato” viene sostituita dalla parola “governo” che è
considerato un male necessario e, quindi, deve essere fortemente delimitato nei suoi poteri rispetto alle
libertà individuali dei cittadini.
L’azione amministrativa viene percepita come punto di equilibrio e di mediazione tra i diversi interessi
in gioco e l’obiettivo della stessa è costituito primariamente dal raggiungimento dei risultati.
I valori fondanti sono pertanto l’equità, l’indipendenza e la propensione a risolvere i problemi.
È una cultura organizzativa che socializza i dipendenti pubblici a ritenersi dei cittadini uguali agli altri
e che richiede una formazione o generalista oppure specialistica ma non necessariamente giuridica.
Questa dicotomizzazione è ovviamente semplificatrice.
Esistono, infatti, delle differenze significative tra paesi dell’Europa continentale (dove può essere
individuata una coppia di sottofamiglie culturali, gravitanti attorno al modello tedesco e a quello
francese). Così come è opportuno osservare che i paesi del Nord Europa costituiscono degli esempi di
ibridi in cui le due tradizioni culturali prevalenti si sono mescolate.
4. Politica e amministrazione
4.1. Due dimensioni analitiche
Il rapporto tra politica e amministrazione rappresenta una delle questioni più dibattute dell’analisi
politologica del comportamento amministrativo.
Il tema deve essere affrontato individuando due tipi di relazioni:
a) il rapporto tra politici e burocrati, quindi tra decisori e dirigenti amministrativi;
b) il ruolo delle amministrazioni nei processi politici.
Le relazioni di clientela sono quelle che per l’amministrazione si verificano quando un gruppo di
interesse diventa il rappresentante esclusivo di un determinato settore di politica pubblica.
Si tratta di un effetto che può scaturire dalla capacità di pressione di un gruppo di interesse rispetto agli
altri in un determinato settore e che può portare alla “cattura” dell’amministrazione di riferimento.
In questo caso, la relazione assicura il totale monopolio del gruppo di interesse in termini di
rappresentanza e un rapporto di dipendenza totale da parte dell’amministrazione.
Si tratta di una situazione meno rara di quanto si possa pensare e che rappresenta un rischio costante
delle relazioni tra amministrazioni e gruppi di interesse.
Le relazioni di parentela sono relazioni che sussistono quando un gruppo di interesse ottiene dei
benefici diretti e costanti dalle amministrazioni grazie alla stretta vicinanza con un partito di governo.
In questi casi, il gruppo di interesse ottiene un accesso diretto all’amministrazione di riferimento che,
vista la sponsorizzazione politica del gruppo stesso, non può che conformarsi alle sue richieste.
Questo tipo di relazioni, che vede svolgere un ruolo relativamente passivo all’amministrazione
pubblica, è più raro rispetto alla relazione clientelare, perché ha bisogno di determinate condizioni per
potersi sviluppare.
Particolarmente favorevoli sono le situazioni in cui vi sia una forte ideologizzazione della
competizione politica oppure una significativa persistenza temporale al governo del medesimo partito
o della medesima coalizione.
Le relazioni illegittime sono quelle che si verificano quando sono presenti gruppi di interesse che
non si vedono riconosciuta sufficiente rappresentanza oppure che sono esclusi per motivi politico-
ideologici da relazioni significative con le amministrazioni.
È un tipo di relazione particolare, nella quale le amministrazioni possono avere sia un ruolo passivo
(accettando l’input politico che induce ad escludere certi gruppi), oppure un ruolo attivo (decidendo
autonomamente se e quali gruppi considerare interlocutori non legittimi).
Si tratta di una relazione che è rara nei sistemi democratici, anche se può manifestarsi in quei settori di
politica pubblica caratterizzati da relazioni clientelari o di parentela.
democratiche: i governi sono obbligati a garantire performance efficienti ed efficaci delle loro
politiche, in contesti in cui le domande sociali sono spesso contraddittorie e conflittuali.
I governi si trovano pertanto di fronte alla necessità di controllare l’operato delle burocrazie, alle quali
vengono spesso delegate competenze decisionali.
Delega politica e accountability burocratica sono due facce della stessa medaglia.
Gli elettori chiedono sempre più conto ai loro eletti della loro capacità di risolvere problemi collettivi e
questa pressione democratica necessariamente viene scaricata sulle amministrazioni.
Storicamente, il tema dell’accountability burocratica si è imposto prima negli Stati Uniti ed è emerso
successivamente nei paesi europei.
Pertanto, la questione dell’accountability non è solo un dato intrinseco dei processi decisionali, dovuto
al fatto che per definizione le burocrazie sono chiamate ad attuare le decisioni politiche, ma è anche il
prodotto di strategie di delega che i decisori pongono in essere, scaricando sulle burocrazie
responsabilità decisionali.
Si tratta di una dinamica di delega che i decisori politici perseguono in modo sistematico per motivi
diversi che possono essere così riassunti:
per lasciare margini di manovra all’esecutivo assumendo che le sue maggiori competenze tecniche
siano garanzia di migliori performance;
per evitare la diretta responsabilizzazione rispetto a scelte impopolari;
perché si preferisce applicarsi ad attività più vantaggiose dal punto di vista elettorale;
per il timore di non venire percepiti credibili rispetto agli obiettivi da raggiungere.
Le deleghe che i decisori politici possono assegnare alle burocrazie comportano due rischi.
Nel primo caso, quello dell’azzardo morale, il rischio è quello che gli apparati amministrativi
utilizzino la discrezionalità concessa per perseguire fini propri, incoerenti o incongruenti con quelli
previsti; si tratta di un’eventualità che è costantemente presente nei processi decisionali, laddove le
burocrazie coinvolte non condividano gli obiettivi statuiti o siano chiamate a porre in essere procedure
distanti dalle proprie routine.
Nel secondo caso, quello della selezione avversa, il rischio è quello di sbagliare nella scelta della
burocrazia oppure del meccanismo burocratico a cui si affidano determinati compiti.
Possiamo individuare tre diverse definizioni di “opinione pubblica” che ne colgono lo sviluppo storico.
La prima concezione, detta classica (o liberale) affonda le radici nell’illuminismo francese e
attraversa tutto il XIX secolo arrivando fino a noi.
Costituisce una interpretazione normativa e filosofica che ha assunto valutazioni contrastanti a seconda
dei proponenti.
Così, ad esempio, i pensatori liberali e i riformatori democratici vedevano la formazione e la diffusione
delle grandi correnti di opinione come espressione degli interessi e delle idee della borghesia
illuminata, come segno di progresso e modernità e soprattutto come un formidabile meccanismo di
controllo pubblico del governo e dei suoi eccessi.
D’altra parte, i conservatori fin dall’inizio vedevano nell’opinione pubblica una manifestazione della
crisi morale e intellettuale delle élite politiche e sociali, il prevalere del giudizio di maggioranza
disinformate, inclini alle suggestioni e quindi pericolose.
Ad ogni modo, tale interpretazione fa emergere due elementi importanti sotto il profilo istituzionale.
1. L’idea che l’opinione presuppone un terreno di coltura facilmente riconducibile ai cambiamenti
politici ed economici che sconvolsero l’Europa del XVIII secolo e che portarono alla formazione della
cosiddetta sfera pubblica.
Questa costituisce uno spazio intermedio che si colloca tra lo Stato (inteso come la “sfera del potere
pubblico”) e la società civile (che in senso stretto copre l’ambito della vita privata sia essa economica
che familiare) e che risulta affollato da nuove e svariate istituzioni.
Tra queste, i caffè in Inghilterra, i salotti a Parigi e le società conviviali tedesche.
A queste, possiamo aggiungere le società letterarie, accademie, club, circoli, tute strutture che non solo
avevano finalità formative e ricreative, ma sempre di più di critica da parte di pubblici (i cittadini), in
pubblico (trasparente), sul pubblico (il governo).
In tutto ciò, un posto di particolare rilievo ha assunto lo sviluppo della stampa e delle tipografie, con la
moltiplicazione di libri e giornali. Tutte attività che presto a avrebbero dato vita a vere e proprie nuove
professioni con al centro la figura degli intellettuali di professione (letterati, filosofi, giornalisti).
2. L’autorità dell’argomento finiva per soppiantare l’autorità del rango sociale.
La sfera pubblica, e quindi l’opinione che ne scaturiva, era la sede della critica razionale, del discorso
ragionato, della conversazione attiva e della contrapposizione discorsiva degli argomenti.
La seconda concezione, definita collettiva (o sociologica), si diffuse con la fine del XIX secolo e i
primi decenni del successivo e fu strettamente collegata all’influsso della psicologia delle folle di
Gustave Le Bon.
L’attenzione si sposta sul soggetto, il pubblico, che diventa un fenomeno sociale come le folle, il
panico, le masse, riconducibile al genere del “comportamento collettivo”.
L’opinione pubblica diventa un fenomeno di aggregato, sostanzialmente collettivo, “un prodotto
cooperativo di comunicazione e influenza reciproca”.
Ciò che differenzia il pubblico dalle altre espressioni della condotta collettiva erano i tratti strutturali
quali la transitorietà del gruppo, la sua debole organizzazione e contingenza, nel senso che si attivava
in risposta a specifici problemi di rilevanza collettiva.
Tuttavia, a differenza dei fenomeni di panico e delle mode, non si trattava di una semplice
manifestazione di irrazionalismo.
La formazione di un’opinione pubblica comportava una certa capacità di pensare e ragionare con gli
altri, di convincere e farsi convincere.
Il terzo tipo, che possiamo chiamare individuale (o psicologica), si risolve nella mera aggregazione
delle opinioni di individui all’interno di una collettività.
Le opinione diventano osservabili attraverso gli strumenti (sondaggio) e i metodi (campionamento)
della scienza demoscopica.
Dal punto di vista della teoria politica il passaggio a questa terza concezione è radicale.
Alla funzione storica, di controllo sul governo e sulle autorità, dell’opinione pubblica si affianca quella
di monitoraggio permanente dell’elettorato o di suoi segmenti ai fini di legittimazione.
Resta il rischio che l’opinione pubblica oltre ed essere ascoltata possa venire manipolata a fini politici.
Più che un soggetto della politica orizzontale, del controllo del potere, si ridurrebbe a un oggetto
dell’intervento della politica verticale.
Sartori avvertiva che “l’opinione pubblica è tale non perché ubicata nel pubblico, ma perché fatta dal
pubblico”. Però, non solo il pubblico di norma non è attento e interessato, ma soprattutto nell’era dei
mass media può benissimo darsi che “l’opinione nel pubblico non sia per niente un’opinione del
pubblico”.
La teoria dei gruppi di riferimento sposta l’attenzione sulle identificazioni come fattori costitutivi
dell’opinione pubblica.
Gli uomini e le donne anche nelle società individualizzate del XXI secolo sono pur sempre degli “io-
in-gruppo che si integrano nei gruppi e, con i gruppi, istituiscono i loro punti di riferimento”.
Più esattamente, questo modello implica l’esistenza e l’attività di specifici gruppi di riferimento:
famiglia, gruppo di lavoro, partiti, gruppi religiosi, di classe, etnici, ecc.
Oggi probabilmente i partiti, come i sindacati, sono più deboli nel produrre identificazioni durature,
mentre ritorna ad essere rilevante il ruolo dei gruppi primari, dei gruppi di lavoro o professionali e
soprattutto dei mass media.
2. La partecipazione politica
Anche del concetto di partecipazione politica esistono svariate definizioni.
Un punto di partenza è definire il concetto come il “coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico
a vari livelli di attività, dal disinteresse totale alla titolarità della carica politica” (Rush).
Tale definizione è utile perché enfatizza tanto il coinvolgimento dal basso quanto l’esercizio
professionale dei ruoli politici.
Da questo punto di vista, la partecipazione non è solo un affare occasionale di “privati cittadini” e
quindi manifestazione della politica orizzontale, ma anche, se non soprattutto, espressione della
politica verticale.
Resta il fatto che la partecipazione politica sembra rispondere alla regola per cui nelle società
modernizzate, molti partecipano poco e pochi partecipano molto.
Il prendere parte alla vita politica si distribuisce lungo una “scala della partecipazione” i cui gradini
implicano, via via che si sale, una intensità crescente di impegno (in termini di risorse, tempo, energie,
capacità) e una maggiore influenza sulle decisioni, alle quali corrisponde un restringimento del numero
dei partecipanti.
La definizione di Rush è così estesa da finire per confondere e sovrapporre la partecipazione con ogni
tipo di azione politica.
Preferiamo, quindi, riformulare la definizione di “partecipazione politica”.
La partecipazione politica è l’insieme di tutte quelle occasioni in cui, nell’ambito di un certo contesto
(Stato, collettività o associazione) dal quale si fa parte (dove), donne e uomini, singolarmente o in
gruppo (chi), fanno uso di un certo repertorio di azioni, convenzionale o non convenzionale (come),
per cercare di influenzare la selezione e le decisioni di chi ricopre cariche pubbliche rappresentative e
soprattutto di governo (che cosa), al fine di modificare o conservare il sistema di interessi e di valori
dominante (perché).
Per quanto sia facile riconoscere le forme della partecipazione politica, resta che “è un vero e proprio
miracolo che la partecipazione politica avvenga”.
Da un punto di vista razionale, sembra che i benefici che gli uomini e le donne ricavano dall’azione
diretta siano di gran lunga inferiori ai costi sopportati in termini di energia personale, tempo, risorse
impegnate e talvolta, nei regimi autoritari, anche del rischi che la partecipazione porta con sé.
Alcuni studiosi americani hanno sostenuto che nelle democrazie avanzate sarebbe opportuno invertire
il quesito e chiedersi piuttosto “perché la gente non partecipa?”.
La loro risposta era che le persone non si impegnano principalmente per tre ragioni: a) non possono, a
causa di fattori strutturali che impediscono o ostacolano la partecipazione; b) non vogliono, in
conseguenza degli orientamenti psicologici o soggettivi che spingono o meno un individuo alla
partecipazione; c) infine, nessuno glielo chiede, a causa dei fattori organizzativi e associativi che
supportano la partecipazione.
Non possono
Questa prima risposta ha a che fare con gli ostacoli derivanti dalle disuguaglianza sociali degli
individui e dei gruppi.
Guardiamo, ad esempio, a variabili quali la distribuzione della ricchezza o il grado di sviluppo
economico, al livello di istruzione e all’esposizione degli altri elementi della modernizzazione sociale
(mobilità, informazione, tecnologie); si pensi anche ai mass media ed alle opportunità di
comunicazione che offrono.
È facile riscontrare come in presenza di condizioni socioeconomiche deprivate si possa assistere a
processi di spoliticizzazione e di alienazione degli individui e dei gruppi.
In questo modo perifericità socioeconomica e perifericità politica si sovrappongono e si rafforzano
reciprocamente alimentando una vera e propria “trappola dell’esclusione”.
Altri fattori ostativi alla partecipazione politica hanno, invece, carattere istituzionale.
Anche nelle democrazie mature si pongono problemi di inclusione, cioè di riconoscimento della
cittadinanza politica.
Se è vero che la questione del suffragio universale maschile e femminile in buona parte dei paesi
occidentali è stata risolta a cavallo delle due guerre, è pur vero che in alcuni casi il diritto di voto alle
donne avrebbe ancora dovuto aspettare (Francia, 1945; Italia, 1946; Svizzera, 1971).
Altra questione politicamente rilevante è quella del diritto di voto per gli immigrati residenti o nati nei
paesi ospiti.
Infine, si possono menzionare altri meccanismi istituzionali che condizionano la partecipazione
elettorale:
1. il voto obbligatorio (in Italia fino al 1993);
2. i sistemi elettorali proporzionali;
3. la registrazione automatica degli elettori nelle liste elettorali al compimento della maggiore età (non
prevista negli Stati Uniti);
4. la previsione di particolari giornate per il voto;
5. l’esistenza di elezioni simultanee (c.d. election day)
6. la scheda elettorale, semplicità di espressione del voto e libertà offerta all’elettore (liste aperte
piuttosto che liste bloccate o chiuse);
7. norme sul finanziamento delle attività dei partiti e di movimenti politici aperte anche a formazioni
minori e nuove.
Non vogliono
La seconda risposta alla domanda di partenza rimanda alle motivazioni, cioè al coinvolgimento
psicologico associato con il grado di interesse, di informazione e di efficacia politica dei partecipanti.
Atteggiamenti e orientamenti soggettivi sono il riflesso delle caratteristiche della situazione, dei
processi di socializzazione che si verificano durante l’infanzia e dell’esposizione ai mass media,
nonché delle esperienze compiute in età adulta rispetto alla politica e al governo.
Nessuno glielo chiede
Nonostante tutto, il motivo per cui la gente partecipa e vota resta un mistero.
L’interrogativo rimanda al “paradosso dell’azione collettiva” (Olson), per cui per l’individuo comune
sarebbe più razionale non partecipare e attendere di incassare i benefici dell’impegno degli altri. Con la
conseguenza che se tutti si comportassero in questo modo la partecipazione diverrebbe impossibile.
Una possibile risposta al paradosso è che, quando si impegnano, le donne e gli uomini finiscono per
considerare gli sforzi sostenuti non come costi ma piuttosto come parte dei benefici.
La partecipazione è il riflesso del coinvolgimento in networks di reclutamento, attraverso i quali
vengono sollecitate, mediate, attivate le richieste di partecipazione. Ciò ha due implicazioni:
la prima è che in queste reti si produce e si capitalizza una speciale risorsa costituita dalle
“competenze civiche”, cioè l’insieme di capacità organizzative e comunicative che sono essenziali per
prendere parte attivamente;
la seconda, è relativa alle sedi dove queste competenze possono essere acquisite, in genere il ricco
tessuto delle istituzioni sociali secondarie e prepolitiche (scuole, associazioni, chiese ecc.).
Questi elementi sono alla base del cosiddetto modello del volontariato civico.
Per cui, alla base della partecipazione, troviamo la vecchia concezione di Tocqueville delle
associazioni e delle istituzioni della società civile come scuola di democrazia.
A questo elenco di associazioni integrative vanno aggiunti – specie nel passato – i partiti.
La partecipazione sarebbe, così, il prodotto di attività quali l’educazione e la socializzazione,
l’organizzazione e la mobilitazione, il coinvolgimento in azioni dimostrative o in campagne (elettorali
o di sensibilizzazione).
Tutte cose che per molto tempo hanno offerto i partiti di massa, grazie alla loro capacità di distribuire
incentivi.
3. La comunicazione politica
Come in ogni altro ambito delle relazioni umane, anche in politica vale il principio per cui “non si può
non comunicare”.
Più che una scelta, la comunicazione è una necessità alla quale è difficile sottrarsi.
Del resto, anche la non comunicazione veicola significati.
Per non parlare della potenza simbolica che in politica riveste la comunicazione non verbale – basti
pensare all’importanza dei gesti come un pugno alzato, un braccio teso, un saluto romano.
La comunicazione politica riguarda gli scambi e le interazioni che hanno a che fare con l’interesse
generale, anche se talvolta si tratta di temi rispetto ai quali c’è un accordo di fondo, talaltra sono
controversi e allora diventano fonte di mobilitazione di schieramenti pro e contro.
D’altra parte, dal punto di vista delle élite, governare una società comporta un costante ricorso alla
comunicazione per informare i cittadini, per consentire la trasmissione e l’applicazione delle decisioni
vincolanti, così come la trasparenza delle istituzioni.
Fin qui la comunicazione sembra riconducibile alla dimensione orizzontale della politica.
In realtà, nello scambio di comunicazione con gli altri, definiamo e ridefiniamo la nostra relazione in
termini di potere.
Le interazioni e le comunicazioni politiche comportano sempre un agire strategico orientato al
successo (politico).
La comunicazione politica si pone l’obiettivo di persuadere i cittadini per conseguire fini di parte.
Pertanto, non può che riflettere l’ambivalenza caratteristica della politica: ora strumento di
integrazione e di trasparenza che aumenta la qualità della democrazia, ora arma nella lotta per il potere
e, in questo caso, tanto più soggetta a manipolazioni e distorsioni quanto più ci allontaniamo dai
contesti democratici.
La comunicazione politica si risolve nell’insieme di scambi o interazioni che si realizzano nel triangolo
costituito dagli attori politici, i mass media e il pubblico dei cittadini.
In astratto, tale modello di relazioni a più voci postula una situazione di parità ideale fra soggetti, che
sarebbero quindi dei “primi inter pares”.
In realtà, le ricerche sul campo hanno mostrato che il peso dei tre attori è di fatto sbilanciato, risultando
assai più forte quello dei mass media.
Tale evoluzione, prodotta dagli anni Sessanta con l’avvento della televisione, è ancor più evidente oggi
nel contesto delle trasformazioni tecnologiche che ha subito il sistema delle comunicazioni di massa e
della rivoluzione scaturita dall’avvento delle telefonia mobile e soprattutto da internet.
La politica trova sempre più espressione all’interno dell’arena dei mass media.
Questo modello, più realistico, e forse più preoccupante, è stato chiamato “modello mediatico della
comunicazione politica”.
Per capire la logica di funzionamento della mediatizzazione della politica è importante apprezzare la
centralità dei mass media e dei loro professionisti (primi fra tutti i giornalisti) alla luce di due
parametri: a) quello sistemico, che mira a cogliere il grado di subordinazione/autonomia dei media e
dei loro operatori dalla politica e b) quello massmediale, relativo all’orientamento professionale dei
mezzi di comunicazione di massa.
Il primo parametro, sistemico, è costruito sulla base di quattro dimensioni:
1. la struttura proprietaria del sistema dei media; il grado di controllo statale dei mass media (nomina
dei vertici dei vertici dei giornali, finanziamenti, linee editoriali), massimo nei sistemi autoritari ma
sensibile anche in alcune democrazie, come l’Italia;
2. il grado di partisanship dei mass media è tanto maggiore quanto i giornali e le televisioni sono di
proprietà delle forze politiche e dei loro leader;
3. il grado di integrazione delle élite politico-mediali: tra i due gruppi c’è separatezza – ed è bene che
ci sia – o c’è simbiosi (es. giornalisti che diventano politici e politici che fanno i giornalisti)?
4. Il grado in cui la professione di giornalista è percepita come indipendente da pressioni e viene
riconosciuta la sua funzione sociale che in democrazia si risolve principalmente nell’advocacy,
promozione e difesa dei diritti, e nel watchdog, controllo dei potenti.
Ad un polo vi è l’orientamento pragmatico, “in questo caso, i newsmedia sono portati a dare
copertura informativa a quegli aspetti ed elementi della vita politica che essi ritengono corrispondere
innanzitutto alla domanda del loro pubblico”.
Al polo opposto troviamo l’orientamento sacerdotale tipico di un giornalismo sensibile alle esigenze
del sistema politico, “pronto a officiare il rito dell’informazione al servizio di parte, sia pure delle più
alte cariche di governo, mettendo in secondo piano le regole e le pratiche della logica mediale”.
Gli Stati Uniti rientrano nel primo caso, mentre paesi quali l’Italia, la Svezia e la Francia nel secondo.
Nel primo caso prevale il modello “avversariale”, fatto da un giornalismo eroico, cane da guardia
contro i potenti, negli altri casi si oscilla tra il modello del “collateralismo”, del giornalismo schierato
politicamente, e il modello “competitivo” nel quale il rapporto tra i due termini è di sfida.
Vi è una tendenza di lungo periodo all’americanizzazione della politica.
Tali sviluppi riguarderebbero una serie di caratteristiche strutturali e processuali della comunicazione
politica.
In primo luogo, la crescente importanza del marketing politico, volto a valorizzare le potenzialità
del candidato rispetto a un certo numero di elettori, e della sue evoluzione nelle campagne
comunicative negative, in cui si cerca di demolire la credibilità degli avversari e si ricorre a messaggi
che sollecitano reazioni emotive del pubblico, come la paura o l’identificazione con posizioni estreme.
In secondo luogo, l’evidente tendenza alla personalizzazione della politica, che può assumere due
forme distinte:
1. la leaderalizzazione dei vertici dei partiti; la centralità data nelle campagne elettorali all’immagine
dei candidati e dei leader, amplificate dai media;
2. la presidenzializzazione dei sistemi di governo con l’acquisita rilevanza (sia per le competenze
formali attribuite che per la legittimità sociale acquisita) dei vertici degli esecutivi, tanto più se eletti
direttamente dagli elettori.
Altri concetti da distinguere sono quelli di lobby e lobbying, con i quali ci si riferisce all’insieme di
attività o processi attraverso i quali i rappresentanti dei gruppi di interesse comunicano ai decision-
makers informazioni circa i desideri delle loro organizzazioni.
Almond e Powell classificano i gruppi di interesse nei seguenti tipi.
1. i gruppi anomici, strutture per lo più spontanee e non formalizzate che danno voce alla protesta,
talvolta anche violenta, nei confronti di ciò che le autorità e i governi fanno o non fanno;
2. i gruppi di interesse non associativi, si basano su legami tradizionali (razza, genere, discendenza,
religione, lingua, territorio) o su “interessi comunemente percepiti” di tipo moderno (es. i gruppi di
consumatori); mancano di un’organizzazione specializzata anche se la loro attività mostra una
maggiore continuità nel tempo;
3. i gruppi di interesse istituzionali, costituiti da istituzioni globali (la Chiesa, l’esercito, la
magistratura) o da sottogruppi intraistituzionali (dirigenti degli enti locali, pubblici ministeri,
dipendenti pubblici di una particolare regione), svolgono attività di pressione specializzate che
comunque non esauriscono le attività delle istituzioni;
4. i gruppi di interesse associativi, caratteristici delle democrazie pluraliste: sono strutture altamente
formalizzate e differenziate volte a rappresentare e tutelare gli interessi specifici di un gruppo
particolare (sindacati, associazioni di categoria, imprese, lobby).
Una proposta sistematica di classificazione dei gruppi di interesse si deve a Salisbury, ripresa da
Mattina, che sulla base delle finalità istituzionali o “contenuto di interesse” distingue tra:
1. i gruppi sezionali o economici (sindacati, associazioni di categoria o professionali, singole imprese);
2. i gruppi promozionali o volti a una causa pubblica (Greenpeace, Medici Senza Frontiere);
3. i gruppi istituzionali (dirigenti pubblici, magistrati, forestali).
I rapporti tra interessi e istituzioni sono stati compendiati in alcune modalità specifiche che prevedono
una graduazione di controllo/autonomia degli interessi nei loro rapporti con le istituzioni e i partiti
(Morlino, Mattina):
1. il dominio partitico (o “occupazione”), ad esempio la Dc e la Coldiretti in Italia nel secondo
dopoguerra;
2. la simbiosi tra partiti e gruppi ideologicamente affini, ad esempio le relazioni tra sindacati e partiti
di sinistra in Europa;
3. la collaborazione (o “neutralità partitica”) volta alla tutela di interessi per lo più di natura
economica;
4. lo scambio tra consenso (ai partiti e ai candidati) e decisioni favorevoli (ai gruppi);
5. infine, con la subordinazione (o “egemonizzazione”) il gruppo di interesse sponsorizza la
formazione del partito politico, fornisce legittimazione, risorse organizzative e finanziarie talvolta
anche leadership, favorendone la sovrapposizione tra personale e strategie.
Il tema è al centro di due contributi (Neveu, Kriesi) dai quali ricaviamo quattro tendenze evolutive.
L’istituzionalizzazione, che si registra quando il movimento cessa di essere un mezzo di
mobilitazione in vista di un fine condiviso per trasformarsi in un gruppo di pressione o, addirittura, in
un partito politico.
La commercializzazione, quando il movimento si trasforma in una specie di imprese sociale che
eroga servizi commerciali (es. cooperative sociali).
L’involuzione, quando l’azione mobilitante diretta a sostenere la sfida collettiva lascia il posto alle
attività espressive ed il movimento diventa uno spazio di socialità che fornisce servizi e attività ludiche
agli aderenti e simpatizzanti.
La radicalizzazione, quando il movimento si avvita su se stesso, esaspera i tratti conflittuali e
antisistemici. La sfida viene rivitalizzata e così anche la mobilitazione antagonista, talvolta fino ad
assumere forme violente.
Questi tre elementi (attori, intenzionalità, dinamicità) sono stati variamente utilizzati nelle proposte di
definizione avanzate in letteratura.
Per ordinare questa varietà è utile dividere le definizioni in due tipi, a) quelle “ristrette”, che
focalizzano l’attenzione sul ruolo del governo o comunque su quello dell’autorità pubblica, e b) quelle
“ampie”, che mirano a includere maggiore variabilità di attori e venti.
Definizioni “ristrette” di politica pubblica
Ogni cosa che i governi scelgono di fare o non fare.
Deliberata coercizione, cioè un insieme di statuizioni finalizzate a fissare i propositi, i mezzi, i
soggetti e gli oggetti della coercizione.
Il prodotto dell’attività di un’autorità dotata di potere politico e legittimità a governare.
Le definizioni ristrette riconducono la politica pubblica ad una prospettiva tradizionale, intendendola
come un fenomeno molto simile alla decisione politica, all’atto di volizione degli attori pubblici o,
comunque, ad attività processuale degli stessi.
Si tratta di una prospettiva assolutamente legittima e utile che, però, non consente di cogliere alcuni
aspetti decisivi dei processi decisionali (quali altri attori partecipano, quali interazioni sussistono tra gli
attori, quali le poste in gioco).
Definizioni “ampie” di politica pubblica
Un corso di azione intenzionale di una persona, un gruppo o governo all’interno di un dato
ambiente che presenta opportunità e vincoli che la policy si ripromette di utilizzare e superare nello
sforzo di raggiungere un fine o realizzare un obiettivo o un’intenzione.
Un particolare oggetto o gamma di oggetti che sono intesi concernere un desiderato corso di eventi,
una selezionata linea di azione, una dichiarazione di intenti e una implementazione degli intenti.
L’insieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti, che siano in qualche modo correlate alla
soluzione di un problema collettivo – e cioè, un bisogno, un’opportunità o una domanda insoddisfatta
– che sia generalmente considerato di interesse pubblico.
Le definizioni ampie di politica pubblica consentono di includere una pluralità di dimensioni e di
elementi rilevanti per un processo decisionale.
Si tratta di definizioni che non solo assumono una dinamica processuale delle decisioni di policy, ma
anche la presenza di una pluralità di attori che agiscono con il fine di risolvere problemi collettivi, o
percepiti come tali.
Le definizioni ampie di politica pubblica consentono una visione più realista dei processi decisionali
perché cercano di comprendere come si intersecano nella quotidianità della loro dinamica la ricerca del
potere con l’attività di decifrazione della realtà al fine di dare certezze alla collettività.
Traendo origine dalla proposta di Lasswell di ordinare funzionalmente le attività che si manifestano nel
corso dei processi di policy, gli studiosi delle politiche pubbliche sono andati via via disegnando e
perfezionando una modellistica finalizzata a ordinare, scomponendola, la complessità di tali processi.
Queste proposte suddividono le dinamiche processuali delle policies in alcune fasi: la costruzione
dell’agenda (che comprende l’emergere del problema, la sua definizione e il duo inserimento
nell’agenda); la formulazione del programma di policy (la fase in cui, dopo aver considerato le
alternative possibili, la decisione viene presa); l’implementazione del programma statuito; la
valutazione; infine, l’eventuale estinzione della politica stessa.
FORMULAZIONE FORMULAZIONE
IMPLEMENTAZIONE VALUTAZIONE
DELL’AGENDA E DECISIONE
Costruzione dell’agenda, formulazione, implementazione e valutazione sono intese non solo come fasi
ma come attività intrinsecamente costitutive dei processi decisionali.
Ciò significa che esse coesistono, continuativamente, nella realtà quotidiana dei processi decisionali,
costituendo più che delle fasi collocate linearmente nel tempo delle vere e proprie arene politiche al
tempo stesso autonome e interdipendenti con le altre.
Per arena politica si intende uno schema istituzionalizzato di comportamenti in cui determinati attori
perseguono un determinato obiettivo (mettere in agenda un problema, prendere una decisione, attuare
le decisioni, valutare gli effetti delle decisioni).
3. La formazione dell’agenda
3.1. La funzione strategica dell’agenda setting
Ogni processo decisionale si sviluppa in relazione a un problema, ritenuto avere una rilevanza per la
collettività, da risolvere.
La fase di formazione dell’agenda ha un ruolo centrale nell’analisi delle politiche pubbliche.
Infatti, è proprio nella costruzione dell’agenda che si struttura quella selezione delle alternative che è
lo strumento supremo per l’esercizio del potere; ed è sempre nel processo di individuazione dei
problemi collettivi che si manifesta la “seconda faccia del potere”, che consiste nella capacità di alcuni
attori elitari di far convergere l’attenzione pubblica su alcune questioni piuttosto che su altre.
La strategicità dell’agenda setting, pertanto, risiede proprio nel fatto che la posta in gioco delle
dinamiche che si manifestano in questa fase è costituita proprio dal decidere ciò su cui si deve
decidere.
Questa operazione non è affatto neutra, ed è lecito ipotizzare che di fronte a questa necessità di
interpretazione/spiegazione causale si confrontino almeno due posizioni diverse.
Vi sarà, ad esempio, chi evidenzierà come l’alta disoccupazione sia il prodotto di una regolazione
impropria del mercato del lavoro oppure di un eccessivo costo dello stesso; vi sarà chi, invece,
evidenzierà come la causa primaria sia dovuta a una scarsa produttività o a scarsi investimenti.
Questo dibattito vedrà prevalere una definizione rispetto a un’altra.
E il problema, così definito, potrebbe trovare sufficiente sostegno per entrare nelle agende istituzionale
e governativa.
Ciò che conta in questa fase è, pertanto, il fatto che la definizione di un problema collettivo implica
che a esso venga imputata una specifica teoria causale che individua una gamma di possibili soluzioni,
escludendone altre.
Ed è proprio questa la natura intrinsecamente “politica” della definizione del problema: nel momento
stesso in cui si definisce qualcosa come un problema sul quale si deve decidere, si prestruttura l’ambito
delle soluzioni perseguibili.
Di questo carattere intrinseco della definizione prevalente sono perfettamente consapevoli gli attori in
gioco che, pertanto, agiranno in modo conseguente.
Giova osservare come una volta emersa una specifica definizione del problema, essa non deve essere
considerata definitiva.
Infatti, i “perdenti” cercheranno durante tutto il processo decisionale di far riemergere la propria
definizione del problema, quindi le proprie soluzioni.
In questo senso, la definizione del problema non è solo l’inizio della fase di agenda, ma caratterizza
tutto il decorso dei processi decisionali.
4. La formulazione
4.1. La struttura della formulazione
La fase/arena della formulazione comprende una serie di attività in cui l’esito atteso è, appunto, la
decisione.
Per formulazione si intende quella fase del processo di policy in cui si cerca di approvare una
soluzione praticabile al problema di policy definito nell’agenda decisionale.
La fase di formulazione è molto più strutturata di quella di agenda, anche perché essa si svolge quasi
totalmente all’interno delle istituzioni politiche e amministrative, pur se in stretta interazione con il
sistema esterno.
Essa si focalizza sull’individuazione delle soluzione perseguibili data la definizione del problema che,
al momento, risulta prevalente.
È la fase nella quale si disegna il contenuto della decisione e si costruisce il consenso politico per
formalizzarla.
Tradizionalmente, la fase di formulazione è suddivisa in due sotto-fasi: a) l’elaborazione tecnica e b)
la decisione politica vera e propria.
L’elaborazione tecnica avviene all’interno degli apparati amministrativi (ministeri, assessorati), mentre
la costruzione del consenso politico avviene all’interno delle istituzioni politiche in senso stretto (il
consiglio dei ministri, le assemblee legislative).
Fermo restando che essa si svolge prevalentemente nelle sedi istituzionali preposte, la fase di
formulazione sembra essere l’arena in cui, più che in altre, si organizzano strutture relazionali
specifiche e tendenzialmente persistenti nel tempo.
Queste caratteristiche, portano necessariamente all’enfasi sui policy network come strutture relazionali
predominanti nei processi di formulazione.
Generalmente, con il concetto di policy network si intende “un reticolo di attori, pubblici e privati,
dotati di risorse quantitativamente e qualitativamente diverse, e operanti all’interno di uno spazio
definito dal problema di policy”.
I principali tipi di network sono: il triangolo di ferro, l’issue network, la policy community, l’advocacy
coalition.
Il triangolo di ferro rappresenta una struttura relazionale caratterizzata dalla presenza di rapporti
istituzionalizzati, anche se informali che, all’interno di uno specifico settore di politica pubblica,
legano in modo stringente gli apparati burocratici di riferimento, le commissioni parlamentari e i
gruppi di interesse più importanti del settore.
Si tratta di un sistema relazionale antipluralista, che focalizza l’attenzione sulla possibilità che questi
attori abbiano la massima convenienza a gestire la formulazione delle politiche in arene isolate
dall’influenza dell’opinione pubblica e degli altri attori politico-amministrativi.
L’issue network si presenta come l’opposto del triangolo di ferro.
Infatti, esso è caratterizzato dalla presenza di un numero potenzialmente elevato e comunque
imprevedibile di attori, da un’elevata instabilità, dall’improbabilità che una decisione venga presa.
Si tratta di reti relazionali che si formano sulla base di una spinta emotiva laddove l’unica cosa in
comune tra gli attori partecipanti è la condivisione del fatto che esiste un problema comune.
La difficoltà a definire una comune strategia e l’assenza di una condivisione di interessi e di
prospettive future, rende questo tipo di network decisamente poco efficace nel medio-lungo periodo.
Se una soluzione non viene trovata in tempi stretti, l’issue network tende a dissolversi così come si era
formato.
La policy community si caratterizza per rappresentare una vera e propria comunità.
I membri di questo tipo di struttura relazionale condividono non solo un comune interesse per un
settore di politica pubblica, ma anche il riconoscimento reciproco.
La policy community è composta da un numero stabile e non elevato di attori (sindacalisti, membri di
organizzazioni di rappresentanza, parlamentari, burocrati, esperti di settore) che tendono a negoziare
tutte le questioni relative a un determinato settore di policy con uno stile consensuale.
Questo tipo di network tende a conquistarsi un ruolo egemonico all’interno di un settore di politica
pubblica che ne fa il locus per la costruzione tecnica e sostantiva delle decisioni.
Si tratta di una struttura relazionale che è presente spesso nei processi decisionali anche perché essa,
con la sua stabilità nel tempo, può rappresentare una risorsa di riferimento e delle legittimazione delle
decisioni per i decisori.
La capacità di questi network di sopravvivere nel tempo è piuttosto elevata, grazie alla loro capacità di
adattarsi alle modificazioni ambientali.
Il cambiamento dell’arena può essere causato solo da un significativo shock esterno (elezioni
spartiacque, drastica mutazione dei convincimenti dell’opinione pubblica) che provochi la
delegittimazione della community.
Il concetto di advocacy coalition delinea il processo decisionale come un’arena in cui si
contrappongono almeno due network – coalizioni, appunto – che competono per imporre le proprie
soluzioni.
Questo tipo di struttura relazionale delinea un processo formulativo nel quale il network dominante
(grazie a una serie di condizioni esterne, in primis il tipo di coalizione al governo) impone le proprie
decisioni in un contesto in cui, però, viene continuamente sfidato da almeno un altro network.
I modelli di decisione
L’analisi della decisione politica, cioè del processo di scelta tra più alternative è attività complessa che
necessita di una consistente razionalizzazione teorica.
In questo senso, sono disponibili quattro modelli di riferimento: il modello razionale, il modello
cognitivo (o della razionalità limitata), il modello incrementale e il modello del “bidone della
spazzatura” (garbage can). [v. tab. p. 308]
Il modello razionale assume che il decisore sia unitario e che abbia nelle proprie possibilità uno
stato di certezza cognitiva che consente di massimizzare l’utilità della decisione, avendo modo di
vagliare tutte le possibili alternative, simulando in modo realistico i possibili effetti.
Si tratta di un modello decisionale decisamente difficilmente utilizzabile nell’analisi dei processi
decisionali.
Neanche gli assunti di incertezza cognitiva (cioè che il decisore non possa disporre di tutte le
informazioni necessarie per decidere) e di sequenzialità nella definizione delle soluzioni (basata
sull’influenza delle routine, delle mappe cognitive preesistenti e delle soluzioni già in atto) proposti
dal modello cognitivo, riescono a risolvere il problema fondamentale dei modelli razionali: l’assunto
di unitarietà del decisore.
Si tratta di un problema teorico di non poco conto, laddove nei processi decisionali la differenza delle
preferenze degli attori, spesso configgenti tra loro, e le divergenze logiche di azione appaiono di
strutturale evidenza.
Proprio per risolvere questo strutturale problema dei processi decisionali sono stati proposti gli altri
due modelli decisionali.
Il modello incrementale si basa su un assunto tanto realistico quanto troppo spesso trascurato: il
fatto che i processi decisionali siano caratterizzati dall’interdipendenza di una pluralità di attori
partigiani (cioè portatori di specifici interessi).
La natura partigiana degli attori è fonte intrinseca di un potenziale di conflitto che in qualche modo
gli attori stessi devono risolvere mediante la negoziazione e la contrattazione.
Ovviamente, la possibile asimmetria delle risorse a disposizione rende la negoziazione più o meno
complessa o vantaggiosa per un attore rispetto a un altro.
Ciò non toglie che, in questo modello, la decisione origini necessariamente da un accordo tra logiche
di azione, interessi, valori diversificati tra loro (es. negoziazioni tra i partner di una coalizione di
governo; negoziazione tra governi a livello di Unione Europea).
Il modello incrementale coglie la natura fortemente politica dei processi decisionali e il suo intrinseco
pluralismo partigiano.
La decisione politica, in questa logica, non può che essere il prodotto del compromesso o della
contrattazione tra una pluralità di attori e, pertanto, non può che basarsi su un accordo partigiano.
Il modello del bidone della spazzatura offre una prospettiva radicalmente diversa dai tre
precedenti.
Esso, infatti, si basa sull’assunto di una sostanziale irrazionalità dei processi decisionali stessi.
Essi, secondo il garbage can model, sono caratterizzati da attori con preferenze mutevoli e niente
affatto date, da una significativa aleatorietà della partecipazione degli attori all’arena decisionale,
dalla rottura della logica “definisco il problema e trovo la soluzione”: le soluzioni preesistono ai
problemi e, anzi, aiutano a definirli.
Si tratta di un modello decisionale che assume la sostanziale “casualità” dei processi decisionali e del
contenuto della decisione politica.
In realtà, si tratta di un modello che enfatizza come l’azione e le preferenze degli attori decisionali
siano intrinsecamente fluttuanti e incerte se non ancorate a valori e pratiche istituzionalizzate.
Il contesto politico-istituzionale
Il processo formulativo che porta alla formalizzazione di una decisione politica non si svolge in un
vacuum, ma si dipana all’interno di uno specifico contesto politico-istituzionale che, pur non
determinando gli esiti, di certo ne influenza la dinamica.
Caratteristiche come la forma di Stato (unitario o federale), la forma di governo (parlamentare o
presidenziale), la struttura e la dinamica del sistema dei partiti (bipolare o multipolare), i cleavages
persistenti (socioeconomici, religiosi, linguistici), componendosi variamente a seconda delle tradizioni
storiche nazionali, costituiscono il contesto all’interno del quale la dinamica decisionale si sviluppa.
Due concetti possono catturare l’influenza aggregata dei fattori politico-istituzionali: quello di veto-
player e quello di policy style.
La teoria dei veto players individua le capacità di un attore di bloccare qualsiasi cambiamento
perseguito in un processo decisionale.
Ciò significa che, nella dinamica decisionale, quanto più numeroso sarà il novero degli attori capaci
di azioni efficaci di veto, tanto più probabile sarà che il processo si concluda o con un nulla di fatto o
con un incrementalismo minimo.
Il concetto di policy style cerca di cogliere l’influenza del contesto politico-istituzionale
costruendo una tipologia basata sull’attitudine dei governi ad avere una propensione ad anticipare i
problemi o a reagire a essi.
La posta in gioco
Le caratteristiche della posta in gioco influenzano fortemente la dinamica della formulazione della
decisione: è utile immaginare la dinamica decisionale come un’arena nella quale gli attori si muovono
perseguendo dei vantaggi.
Le caratteristiche dell’arena decisionale strutturano le caratteristiche della posta in gioco (il possibile
contenuto della decisione) e quindi il comportamento degli attori.
Gli attori decisionali sono ben consapevoli dei vincoli e degli incentivi che ogni situazione decisionale
offre per il perseguimento dei propri interessi (questo significa che, nel caso i propri interessi non siano
sufficientemente soddisfatti, possono cercare di cambiare la natura stessa dell’arena decisionale).
L’analisi della posta in gioco può essere sviluppata attraverso tre approcci teorici: l’approccio
tipologico, la teoria dei giochi e l’analisi razionale-istituzionale.
L’approccio tipologico risale ai contributi di Lowi, il quale assume che le caratteristiche della
policy in gioco determinino quali attori siano i protagonisti del processo decisionale, quali siano le
loro relazioni e, ovviamente, quale sia il contenuto della decisione.
La proposta tipologica di Lowi si basa sulla dicotomizzazione del criterio fondante la sua definizione
di “politica pubblica”, la coercizione.
Il prodotto di questo esercizio classificatorio è la quadripartizione delle politiche in “distributive”,
“redistributive”, “regolative” e “costituenti”. [v. fig. p. 312]
1. Le politiche distributive sono quelle in cui gli attori partecipanti ottengono tutti un qualche
vantaggio e, quindi, gli esiti decisionali sono, appunto, distributivi.
Se la posta in gioco è distributiva, molti attori partecipano al processo decisionale, ciascuno ottiene
un qualche vantaggio, in una interazione basata su un elevato consenso, anche perché i costi
possono essere occultati ovvero posticipati nel tempo (le elevate percentuali di debito pubblico sono
l’indicatore più eclatante di un modo di fare le politiche costantemente distributivo).
2. Le politiche redistributive spostano benefici e spettanze da un macrogruppo sociale a un altro
(es. politiche di welfare, politiche fiscali basate sulla progressività delle imposte sul reddito).
Esse vedono la partecipazione di attori fortemente rappresentativi delle classi sociali e un ruolo
attivo da parte dei governi; la loro natura implica che la decisione possa essere raggiunta solo se vi è
una condivisione da parte degli attori partecipanti.
3. Le politiche regolative mirano a modificare il comportamento degli individui o di specifici attori
collettivi o gruppi di interesse mediante obblighi e sanzioni (es. politiche monopolistiche, parte
delle politiche ambientali).
Si tratta di politiche altamente conflittuali, perché spesso i “regolati” non accettano di esserlo.
4. Le politiche costituenti sono quelle che stabiliscono le regole del gioco di un determinato settore
di politica pubblica (es. riforme organizzative degli apparati pubblici, riforme istituzionali).
Esse vedono come destinatari delle decisioni gli stessi decisori ed è per questo che raramente sono
efficaci.
Il secondo approccio è quello della teoria dei giochi.
Rileva sottolineare come i diversi possibili schemi di gioco decisionale si basino sulla percezione
degli attori, cioè a seconda che essi reputino che il gioco sia a somma positiva o a somma zero.
Nel primo caso gli attori tenderanno a collaborare (avendo la certezza di ottenere dei vantaggi), nel
secondo caso a confliggere (poiché per ottenere dei vantaggi dovranno arrecare degli svantaggi ad
altri attori).
Il terzo approccio è quello offerto dall’analisi razional-istituzionale.
In questo approccio le caratteristiche della posta in gioco (e quindi delle possibili logiche di azione
degli attori) sono strutturate da un complesso insieme di fattori (le decisioni prese precedentemente,
le caratteristiche del bene in gioco, le regole istituzionali, le caratteristiche culturali, sociali ed
economiche della comunità di riferimento).
Si tratta di un approccio molto articolato che, sostanzialmente, assume come la situazione decisionale
sia fortemente prestrutturata e, pertanto, vincoli gli attori decisionali in modo fortemente costrittivo
ad accettare la logica della posta in gioco.
Si decide come cercare di raggiungere degli obiettivi politici mediante l’individuazione di strategie di
politica pubblica.
Le strategie di politica pubblica sono costituite da un insieme di principi generali di azione di politica
pubblica accompagnati da specifici strumenti.
Uno strumento di policy è un metodo o un meccanismo mediante il quale viene indirizzata l’azione
collettiva al fine di raggiungere un effetto desiderato.
Hood ha individuato quattro tipi generali di strumenti:
a) la nodality (la capacità dei governi di svolgere un ruolo pivotale nei processi informativi);
b) l’authority (il potere legale e la legittimazione dei governi);
c) la treasury (le risorse finanziarie a disposizione dei governi);
d) l’organization (la capacità di azione diretta, almeno attraverso gli eserciti, la polizia e le
burocrazie).
La classificazione di Doern e Phidd, usando come principio classificatorio il livello di
legittimazione della coercizione, individua cinque tipi generali di strumenti:
a) l’autoregolazione;
b) l’esortazione;
c) la spesa pubblica;
d) la regolazione (includendovi anche la tassazione);
e) la proprietà pubblica.
La classificazione di Schneider e Ingram, incentrata sulle caratteristiche motivazionali del
comportamento individuale, presenta anch’essa cinque tipi di strumentazione:
a) gli strumenti autoritativi (presenza/assenza di disposizioni normative che indirizzino l’azione);
b) gli incentivi (presenza/assenza di stimoli premiali esterni all’azione);
c) gli strumenti che incidono sulle capacità di azione degli attori (presenza/assenza di risorse –
informazioni, educazione, organizzazione – necessarie all’azione);
d) gli strumenti esortativi (che cercano di incidere sui valori e le percezioni degli attori);
e) gli strumenti che cercano di incentivare l’apprendimento.
Infine, merita ricordare la distinzione analitica tra “strumenti sostantivi” e “strumenti procedurali”
proposta da Howlett.
1. Gli strumenti sostantivi sono quelli mediante i quali i governi determinano direttamente il tipo, la
quantità, la qualità e la distribuzione di determinati bene e servizi nella società.
2. Gli strumenti procedurali influenzano gli esiti delle politiche attraverso la manipolazione delle
caratteristiche dei processi di politica pubblica (es. contrattualizzazione delle politiche, creazione di
gruppi di interesse, regolazione dei meccanismi di accesso agli atti delle pubbliche amministrazioni,
riorganizzazioni amministrative, ecc.).
La dimensione procedurale di ogni tipo di strumento di politica pubblica è particolarmente rilevante
quando lo Stato limita il proprio intervento diretto (sostantivo) e costruisce strategie di policy in cui
governa a distanza le politiche utilizzando, appunto, strumenti procedurali.
La scelta degli strumenti e delle strategie da parte dei decisori è un’operazione complessa, spesso
dovuta a fattori contingenti, e fortemente influenzata dallo status quo e da pressioni esterne.
Questa dinamica ha condotto all’esistenza di strategie di politica pubblica caratterizzate
dall’assemblaggio di strumenti appartenenti a diverse tradizioni amministrative, a differenti teorie
causali.
È il trionfo dei policy mix, di decisioni politiche che sostanziano strategie di politica pubblica fondate
su un pluralismo incoerente nella scelta degli strumenti.
5. L’implementazione
Spesso si ritiene che la decisione in sé quasi automaticamente produca degli effetti, ma in realtà non è
assolutamente così.
In realtà, qualsiasi decisione politica non produce alcun impatto sulla realtà se prima non viene trattata
attraverso una serie di azioni senza le quali la decisione non ha alcun effetto pratico.
Insomma, nonostante l’avvenuta presa delle decisioni, il processo decisionale non produce effetti sulla
realtà, se non attraverso l’avvio di un “nuovo” processo in cui esiste il concreto rischio che gli obiettivi
prefissati non vengano raggiunti o vengano distorti.
Questo processo decisionale viene definito “attuazione” o anche “implementazione” (dal latino impleo,
riempire).
L’implementazione è, pertanto, l’insieme delle “azioni dirette al raggiungimento di obiettivi posti da
precedenti decisioni di policy”.
In realtà, la fase di implementazione è una evoluzione, senza sostanziale soluzione di continuità, delle
fasi precedenti, ed essa ne presenta tutte le problematicità. In particolare:
1. coloro i quali hanno perso nelle fasi precedenti cercheranno di ribaltare la situazione con azioni
finalizzate ad annacquare le soluzioni statuite (cercando di catturare le strutture amministrative
preposte o di ottenere deroghe dal legislatore ovvero dalle autorità preposte all’implementazione);
2. la dinamica dell’implementazione difficilmente può essere di tipo autoritativo; pertanto, essa si
sviluppa sulla base di logiche negoziali tra gli attori partecipanti che strutturano anche
l’implementazione come un processo di mutuo aggiustamento partigiano; l’esito può essere, spesso,
quello di una ridefinizione dei fini della decisione politica;
3. spesso il contenuto delle decisioni è multiobiettivo, senza una chiara gerarchia tra le finalità da
raggiungere.
Inoltre, la fase di implementazione è fortemente influenzata da una serie di fattori, come le
caratteristiche economiche e socioculturali del territorio, le capacità tecniche delle burocrazie di
riferimento, le caratteristiche del sistema politico, le relazioni storiche tra amministrazioni pubbliche e
gruppi di interesse.
legittimazione tecnica o politica (es. Istat, Banca d’Italia, commissione d’inchiesta parlamentare);
attori attivamente protagonisti del processo decisionale (i partiti politici, i gruppi di interesse).
È evidente che i primi due tipi appaiono in prima battuta più autorevoli e, quindi, più oggettivi degli
attori del terzo tipo.
La fine della Seconda guerra mondiale rappresenta l’“ora zero” non solo per la Germania sconfitta ma
per tutto il continente europeo dilaniato dai suoi nazionalismi ed egoismi economici.
L’idea stessa di nazione, dopo la guerra, pareva un concetto inutilizzabile per mobilitare quelle energie
positive che avrebbero potuto portare alla ricostruzione e alla rinascita.
La scelleratezza del progetto nazionalista – l’idea cioè di far coincidere anche con la forza Stato e
nazione imponendo un’identità culturale là dove essa urtava con altre identità locali ben radicate –
emergeva con forza in molti paesi europei.
L’artificiosità di suddivisioni territoriali imposte dalle potenze coloniali nei territori lontani conquistati
nel precedente periodo di colonizzazione iniziava a mostrare sintomi di disfacimento.
La volontà di autodeterminazione delle popolazioni colonizzate faceva nascere movimenti
indipendentisti proprio nel momento in cui anche nel continente europeo l’illusione di imporre unità e
solidarietà nazionali con la manipolazione culturale e con la forza mostrava tutti i suoi limiti.
Nel momento di maggiore debolezza e discredito del mito nazionalista si affaccia con prepotenza
l’idea, che il “governo del mondo” potesse essere garantito da agenzie funzionali, ciascuna incaricata
di gestire un funzione particolare, la cui giurisdizione attraversasse i confini nazionali.
Queste agenzie avrebbero dato origine a un working peace system, un sistema di pace che avrebbe
“funzionato” e avrebbe così creato una comunità di sicurezza.
I processi di integrazione regionale nascono così nel secondo dopoguerra, come tentativi di realizzare
su scala limitata e contigua quella gestione in comune di attività che, se perseguite su basi nazionali,
avrebbero probabilmente portato di nuovo gli Stati a farsi la guerra (v. Ceca / Cee).
La svolta “funzionalista” nelle relazioni internazionali non durò molto, e le leadership politiche del
dopoguerra si misero presto al lavoro per ricostruire economie e identità nazionali.
Già dall’attuazione del Piano Marshall si vide che la ricostruzione postbellica si sarebbe sviluppata
lungo tracciati nazionali e non avrebbe sortito quella stretta collaborazione fra paesi auspicata dagli
Stati Uniti.
protezione delle lingue minoritarie (1992) sottoscritte dagli Stati nazionali soprattutto nell’ambito del
Consiglio d’Europa e gli accordi promossi dalle Nazioni Unite in ambito ambientale (1992).
Questi accordi, che pure limitano o regolano la sovranità degli Stati anche in modi nuovi e
significativi, rimangono però nell’alveo degli accordi fra gli Stati.
A questi occorre affiancare gli accordi che vanno proliferando fra attori provati che decidono di
autoregolare una serie di aspetti economici e professionali collegati alle loro attività.
Anche le organizzazioni non governative e non-profit si danno da fare per promuovere standard di
comportamento internazionali o per promuovere protocolli internazionali.
Sono queste tutte manifestazioni della presa di coscienza che i problemi dei giorni nostri non possono
più essere affrontati e risolti a livello nazionale ma necessitano di forme di cooperazione e regolamenti
internazionali.
Non si può non menzionare altri due fenomeni che confermano la volontà di prendere in seria
considerazione le esternalità causate dall’azione dei governi o attori economici nazionali sui cittadini
di altri Stati.
Da un lato, abbiamo l’adesione a codici di comportamento socialmente responsabili da parte di
imprese multinazionali.
Anche le imprese multinazionali, che grazie al fatto di operare in più contesti normativi possono
eludere le regole più ferree di questo o quel paese, capiscono in alcuni casi che la loro immagine
sociale e quindi anche la loro profittabilità possono risentire di questa elusione di responsabilità e
pertanto abbracciano volontariamente codici comportamentali più responsabili.
Un esempio famoso è quello della Nike che dopo le proteste ha rinunciato a utilizzare forza lavoro
minorile (in paesi in cui non vi è regolamentazione a riguardo) per abbracciare standard lavorativi
socialmente più accettabili.
Ciononostante la strategia di produrre le proprie scarpe unicamente in paesi a basso costo del lavoro
dove i seppur minimi standard di sicurezza e ambientali possono essere aggirati rimane una pratica
molto diffusa.
Dall’altro lato abbiamo imprese private che hanno acquisito uno straordinario potere regolativo
sugli Stati sovrani.
Le tre grandi aziende di rating finanziario – Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, formalmente imprese
di diritto privato a scopo di lucro – svolgono il ruolo di “poliziotti” dei mercati finanziari sorvegliando
sulla solidità degli istituti di credito e sulla solvibilità dei debiti nazionali “sovrani”.
A farne le spese sono stati – in occasione della crisi economica iniziata nel 2007 – i risparmiatori di
mezzo mondo: di qui la decisione di creare l’Esma (European Securities Market Authority) perché
vigili a sua volta sulle agenzie di rating.
Esse non rappresentano solo la “voce del mercato” a cui anche i titoli sui debiti sovrani devono
sottostare, ma dalle loro valutazioni dipendono direttamente le azioni che altri organismi pubblici
possono o non possono intraprendere.
Questi sviluppi hanno indotto gli studiosi a dibattere se la sovranità degli Stati nazionali non fosse
ormai venuta meno, abbracciando la tesi dello svuotamento degli Stati sovrani.
Tuttavia, guerre anche molto più sanguinose continuarono a scoppiare nel continente europeo fino alla
metà del secolo scorso.
Ciò che venne acquisito una volta per tutte dopo la Seconda guerra mondiale fu proprio la coscienza
che la guerra non poteva essere considerata “la continuazione della politica con altri mezzi”, perché la
pretesa degli Stati di esercitare un controllo pieno e totale sul proprio territorio, sui possedimenti
coloniali e sulle popolazioni che in essi risiedevano era illusorio.
Nessuno Stato europeo era completamente omogeneo da un punto di vista delle etnie, delle tradizioni
culturali e della lingua, e ancor meno lo erano i possedimenti coloniali.
Ciò che invece succedeva e, purtroppo, succede ancora è che alcune etnie vengano discriminate, alcune
culture marginalizzate, alcune lingue ignorate – e si tratta di etnie, culture e lingue autoctone.
Le società moderne devono vedersela sempre più con gruppi minoritari che richiedono che le loro
identità vengano riconosciute e le loro differenze culturali vengano accolte e accettate.
Questa situazione è spesso resa con l’espressione “sfida del multiculturalismo”.
La crisi dello stato westfaliano, però, non è collegata solo alla “rinascita” delle minoranze
subnazionali, ma anche alla realizzazione che gli Stati nazionali europei non sono più padroni dei
propri destini. La sovranità degli Stati viene sfidata non solo dal basso – cioè dalla mobilitazione
subnazionale – ma anche dall’alto – dal processo di integrazione europea, a sua volta forse una
risposta alla sfida della globalizzazione.
Si decise pertanto dapprima, nel 1979, di legare tra loro le valute in bande di oscillazione reciproche
limitate (il famoso “serpente monetario”) e poi, nel 1999, si arrivò a legare fra loro le monete di alcuni
paesi membri in cambi fissi al fine di adottare, dal 2002, una moneta comune, l’euro.
La creazione della moneta comune ha reso palese come mai prima la reciproca interdipendenza degli
Stati appartenenti all’area dell’euro.
I soggetti che chiedono azioni di governo, spesso richiedono anche di essere coinvolti nella risoluzione
dei problemi che sollevano.
E, infatti, molte nuove azioni di governo non possono essere condotte senza il loro concorso.
Gli incrementi di produttività che una sfida come la globalizzazione richiede non possono essere
ottenuti se non grazie a uno sforzo condiviso e corale dei rappresentanti di lavoratori e imprenditori,
insegnanti e formatori, addetti ai servizi e amministratori.
La difesa della moneta comune non può avvenire senza il coordinamento tra Stati appartenenti alla
stessa area economica e monetaria.
La regolazione dei flussi migratori, l’accoglienza dei rifugiati, il contrasto al degrado ambientale, il
contenimento delle epidemie non possono essere messi in atto senza il supporto di organizzazioni
internazionali pubbliche e private.
La complessità e numerosità dei problemi affrontati dallo Stato contemporaneo sono tali che non è più
possibile pensare che esso se ne faccia carico in via esclusiva.
Il passaggio dal government alla governance riflette un cambiamento epocale nel modo di governare
avvenuto nel XX secolo all’interno degli stessi Stati nazionali.
Questo cambiamento è stato determinato da molti fattori, fra i quali il desiderio da parte dei cittadini
(la cosiddetta “società civile”) di un maggior coinvolgimento nelle decisioni.
In parte per arginare il crescente numero di domande poste al sistema politico (overload), in parte per
venire incontro alla domanda di maggior coinvolgimento e partecipazione, lo Stato ha
progressivamente rinunciato a comandare e prescrivere e si è sempre maggiormente predisposto a
orientare e regolare.
Anche questo regola il passaggio dal government alla governance: essersi resi conto che le decisioni
di policy non si attuano solo perché sono contenute in disposizioni legislative, ma perché una serie di
soggetti orientano il loro operato affinché si raggiungano risultati condivisi.
La politica di sviluppo regionale e di coesione forniscono un chiarissimo esempio.
Affinché un territorio si sviluppo occorre che lo Stato e l’Unione Europea mettano a disposizione dei
fondi; che vengano individuati gli obiettivi di sviluppo e identificato gli indicatori di successo o di
insuccesso; che gli operatori locali siano coinvolti e convinti della bontà delle strategie di sviluppo
(meglio ancora se individuate da loro); che i cittadini non si oppongano ai progetti di sviluppo.
Ma è davvero avvenuta la transizione dal government alla governance?
Quando assistiamo ad alcuni episodi di opposizione anche violenta a decisioni prese dallo Stato (es.
No Tav in Val di Susa), ci viene il dubbio che i cittadini non vengano ancora preventivamente coinvolti,
informati, ascoltati ed eventualmente convinti della bontà del progetto, ma che questo venga loro
imposto dall’alto.
Con il termine co-governance o interactive governance vengono indicati quei crescenti tentativi,
condotti soprattutto nei paesi del Nord Europa, di permettere ai cittadini di dettare l’agenda delle cose
da fare a livello locale se non anche a coinvolgerli personalmente nella loro realizzazione.
Il coinvolgimento dei cittadini nella definizione e risoluzione dei problemi configurerebbe un nuovo
tipo di democrazia più interattiva e partecipata e più rispondente sia alle esigenze delle
amministrazioni nazionali (desiderose di scaricarsi di un certo numero di ingombranti responsabilità)
sia dei cittadini (ansiosi di diventare protagonisti delle decisioni che incidono sulla loro vita).
Essendosi assicurati il diritto alla rappresentanza (right to vote), i cittadini delle società avanzate
reclamano il diritto alle radici (right to roots).
Fra le identità che si vanno riscoprendo in quegli anni sono pertanto anche le identità territoriali che lo
Stato presumeva di aver assorbito nell’identità nazionale.
Forse perché in quegli stessi anni iniziavano a scricchiolare le certezze dello stato del benessere
keynesiano, molti cittadini cercavano nelle economie e identità regionali le radici che sentivano di aver
perso nella società di massa.
In molti Stati, fino ad allora considerati esemplari dal punto di vista della coincidenza tra Stato e
nazione, si andavano riscoprendo lingue regionali.
A sostenere questa riscoperta delle identità regionali è anche la rinascita delle economie regionali.
Grazie a innovazioni tecnologiche che permettono di organizzare la produzione su scala più ridotta, si
affermano distretti produttivi costituiti da molte piccole imprese specializzate in produzioni flessibili.
Insomma, si scopre che il successo economico e commerciale non passa necessariamente per la grande
produzione di massa, ma attraverso la messa in rete di molte piccole aziende appartenenti alla stessa
filiera produttiva.
4. Le relazioni intergovernative
4.1. Alla ricerca del livello ottimale di governo
La scienza politica ha registrato fin dagli anni Sessanta e Settanta una tendenza diffusa alla creazione
di un terzo livello di governo – il livello “meso” – fra quello statale e quello comunale.
Su queste regioni amministrative si sono progressivamente innestate regioni politiche dotate di più o
meno ampi poteri decisionali.
Si viene a formare quindi una classe dirigente (amministrativa e politica) regionale che
progressivamente riempie di contenuto il contenitore regionale.
Ovviamente ciò accade tanto più rapidamente e con maggiore successo nelle regioni dotate di antiche
identità subnazionali, ma accade anche in regioni più decenti che però riescono a dotarsi di un’identità
più o meno “immaginata”.
Del resto, anche le comunità nazionali sono “comunità immaginate”.
Queste regioni trovano poi nel processo di integrazione europea e nel ruolo riservato dalla politica di
coesione ulteriori motivi per affermarsi.
Per molta scienza politica, lo Stato è ancora il punto di riferimento della mobilitazione politica e
dell’azione di governo: ciò che starebbe succedendo è il moltiplicarsi di problemi la cui soluzione
richiede interventi su scale territoriali differenti.
L’azione di governo, quindi, implicherebbe la creazione di ambiti di intervento sempre più
differenziati.
Che su un territorio nazionale insistano governi locali o funzionali di diversa “pezzatura” – si pensi,
nel caso dell’Italia, ai comuni, alle province e alle regioni ma anche alle Asl, ai distretti scolastici ecc.
– non è cosa nuova e non significherebbe che lo Stato centrale sia diventato meno rilevante.
Si tratterebbe, piuttosto di creare strutture per la gestione ottimale dei servizi che, per la loro stessa
natura, vengono prodotti e utilizzati su scale diverse.
Queste strutture di governo sono normalmente tarate su due parametri principali.
Il primo è l’efficienza produttiva: così come ha senso che gli asili e le scuole elementari siano gestiti
a livello comunale a seconda della distribuzione delle famiglie sul territorio comunale, così pure ha
senso che le università siano pianificate a livello nazionale a seconda della distribuzione delle
competenze e delle infrastrutture sul territorio nazionale.
Il secondo è la convenienza di utilizzo: guardie mediche e presidi ambulatoriali devono essere
distribuiti abbastanza capillarmente sul territorio, affinché siano facilmente raggiungibili da tutti i
cittadini, mentre gli ospedali specializzati possono essere concentrati in alcuni luoghi di più ampio e
facile accesso.
La ricerca dell’equilibrio tra offerta e domanda di servizi, ma ancor di più tra offerta di efficienza
governativa e domanda di legittimità democratica in tempi di accresciuta complessità e
interdipendenza, ha alimentato un grande interesse per la teoria del federalismo.
Il problema che il federalismo sembra essere in grado di risolvere sarebbe quello di trovare un
equilibrio fra un livello di governo sufficientemente ampio da garantire l’esecuzione delle funzioni
necessarie alla convivenza pacifica dei cittadini e la fornitura di servizi loro necessari e
sufficientemente ristretto da assicurare una certa omogeneità di preferenze politiche e quindi di
legittimità del governo.
In questa visione, il livello nazionale si farebbe carico delle funzioni essenziali alla difesa della
sovranità a autonomia della comunità nazionale (difesa, giustizia, commercio estero, moneta, fiscalità
centrale) mentre i livelli statali si farebbero carico delle politiche che determinano la vita dei cittadini e
che pertanto devono rispondere il più possibile alle loro preferenze (educazione, sanità, sviluppo,
polizia, sport ecc.).
Il federalismo prometterebbe, insomma, di risolvere sia i problemi di grandi Stati nazionali che, per
questioni di mera scala territoriale non possono essere governati da un solo centro – ad esempio, molti
grandi paesi (Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, India, Russia) sono federazioni – sia i
problemi di Stati più piccoli che, per la loro composizione culturale e sociale e la loro traiettoria
storica, risultano dall’unione di più Stati originariamente indipendenti (Germania, Svizzera, ex
Jugoslavia).
Eppure, proprio perché il federalismo comporta la congiunta sovranità dello Stato federale e degli Stati
federati, gli Stati membri dell’Unione Europea rifiutano ancora l’idea di dover accettare una sovranità
federale in aggiunta e potenzialmente in conflitto con la loro sovranità nazionale individuale.
A dimostrazione della non maturità dei tempi per una soluzione federale per l’Unione Europea si cita
normalmente l’assenza di un senso di appartenenza e un’identità comuni tra le popolazioni europee,
dimenticandosi che anche le comunità nazionali sono state a loro volta immaginate e create.
Vi sono vari tipi di federalismo, e nessuno di essi è immobile e definito una volta per tutte.
Vi è un federalismo duale, nel quale le competenze sono assegnate “una volta per tutte” a questo o
quel livello di governo, e un federalismo concorrente, nel quale le competenze sono per lo più
condivise fra più livelli di governo.
Si distingue inoltre un federalismo cooperativo, in cui i livelli di governo inferiori (statali) devono
necessariamente dare il proprio consenso affinché si prendano decisioni anche a livello federale (es.
Germania), e un federalismo competitivo, in cui il governo federale ha proprie strutture per intervenire
in aree decisionali di propria esclusiva competenza e in cui i vari governi statali sono in competizione
gli uni con gli altri per accaparrarsi le risorse federali e per convincere i cittadini a spostarsi nel loro
Stato (es. Stati Uniti).
MANCA CAP 12