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Riassunto by MPfattner
conoscere non solo gli aspetti culturali ma anche quelli politici, economici, ecc e di
conseguenza comunque un antropologo non potrà mai essere esperto in più di due o tre sono
culturali. È dunque con Malinowski che nasce l’etnografia.
La ricerca viene correlata da fonti che possono essere:
1. Scritte, come gli archivi, i diari, le lettere e anche la letteratura tanto che negli anni
Novanta si è venuta a costituire una vera e propria antropologia della letteratura che
comprende non solo quella colta ma anche quella popolare;
2. Orali, come il racconto delle storie di vita o simili;
3. Iconiche, come foto e video e usate soprattutto nei tempi più moderni dati gli sviluppi
dei mezzi tecnologici che, secondo gli studiosi, rendono meglio le caratteristiche di un
popolo rispetto agli scritti;
4. Materiali, ovvero i manufatti ecc.
Ovviamente, ogni ricerca è fata di diversi aspetti e i principali sono i sistemi di parentela e
dunque la vita familiare e matrimoniale, i sistemi economici e dunque le attività produttive, la
stratificazione sociale con accento sulla politica e sul potere esercitato, comunicazione verbale
e non, religione e magia quindi riti e altro, etnoscienza cioè sapere naturalistico e cosmologico
tipico dei sistemi indigeni e infine espressione estetica cioè artigianato, repertori musicali,
narrazioni orali.
Comunque, lo studio dell’antropologia può portare alla ricerca e all’insegnamento ma anche
all’importantissimo ruolo di mediatore interculturale dato che la società moderna è
caratterizzata da costanti flussi migratori e, di conseguenza, di pregiudizi, difficoltà di
comunicazione e di integrazione che devono essere risolte. Un altro campo accessibile è
quello della cooperazione internazionale che spesso necessita di persone esperte sulle
diversità e che sappiano far integrare le diversità socio-culturali. Infine, spazio per loro c’è
anche nella conservazione e nella valorizzazione del patrimonio culturale etnografico, dunque
nei musei e nel campo dei Beni culturali.
Dunque l’antropologia si occupa della diversità, spesso concepita come razziale, culturale o
etnica e dunque causa di correnti violente e razziste ancora esistenti oggi. Bisogna però
distinguere questi concetti.
Con il termine razza fino al Cinquecento si era intesa la discendenza o la parentela ma dal
diciannovesimo secolo questo ha assunto il significato di gruppo umano caratterizzato da
specificità somatiche, intellettuali e comportamentali fondate biologicamente e trasmesse per
via ereditaria.
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Riassunto by MPfattner
Già la seconda metà dell’Ottocento è caratterizzata da opere fondamentalmente razziste, tra
queste il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1856) del conte francese de Gobineau
secondo il quale le differenze tra le culture hanno derivazione biologica, le razze sono
gerarchicamente ordinate e la prima è quella bianca, la mescolanza di razze causa orrore. De
Gobineau riflette sulla superiorità della razza bianca a partire dai caratteri estetici per arrivare
a sostenere di aver creato una civiltà e una morale superiore che potrebbe appunto essere
danneggiata dall’incontro con altre razze che ne impoverirebbero il patrimonio genetico già
degradato secondo questi dato che la razza bianca si è sporcata proprio a causa della sua
tradizione prima colonialista e poi imperialista; si parla con Gobineau di pessimismo
reazionario, accompagnato da un’altra visione razzista seppur distante da quella prima
nominata che, ispirato al positivismo ottocentesco, sarà influenzato dall’evoluzionismo di
Darwin e Spencer.
L’evoluzionismo darwiniano abbatte le dispute tra teorie monogenetiche e poligenetiche, per
le prime l’umanità aveva un’origine comune e le differenze erano date dall’evoluzione, per le
seconde le differenze sono causate dalle diverse origine. Sostenendo le prime,
l’evoluzionismo spiega le differenze come date dall’adattamento all’ambiente in cui si vive e
per questo va a rafforzare la teoria della classificazione gerarchica delle razze dato che se
l’origine è comune, la supremazia è data da un miglior adattamento all’ambiente e alle leggi
della sopravvivenza. C’è da dire che il razzismo sviluppatosi tra Ottocento e Novecento
conserva comunque elementi sia della corrente reazionaria che di quella progressista, cioè da
una parte segue l’idea per la quale le differenze tra esseri umani sono di natura biologica,
dall’altra si pensa di poter conoscere totalmente questi attraverso la scienza; fondamento del
razzismo progressista è proprio l’idea di poter influire sull’evoluzione delle razze umane
attraverso la scienza. C’è da dire che l’antisemitismo novecentesco ha le sue radici proprio
sulla definizione ottocentesca di razza e di classificazione gerarchica, dunque di
ineguaglianza. L’idea reazionaria che invece caratterizza ancora l’antisemitismo è
l’eugenetica di Galton, la cui teoria prevedeva l’aiuto all’evoluzione naturale grazie
all’abbattimento degli individui con caratteri sfavorevoli a favore di quelli con caratteri
migliori.
Sempre nella metà dell’Ottocento nasce il concetto scientifico di cultura, intesa come prodotto
intellettuale e non solo. Nello stesso periodo nasce l’antropologia culturale vera e propria ed è
senza dubbio influenzata dalla diffusione del razzismo ma considererà l’intelletto umano
come di unica derivazione e studierà le differenze tra i gruppi dettate dalla cultura;
l’evoluzione culturale per gli antropologi contemporanei non è altro che il prolungamento
dell’evoluzione biologica dunque non rinunciano all’idea di gerarchizzare le culture. E data
l’origine unica dell’intelletto e la diversità di culture, quest’ultima viene spiegata come un
processo di evoluzione culturale, unico ma che si svolge a velocità diverse per i vari gruppi.
In questo senso, molti popoli sarebbero comunque primitivi rispetto ad altri. Gli sviluppi
novecenteschi dell’antropologia e l’affermazione della ricerca sul campo portano
all’affermazione di un concetto pluralista e relativista di cultura che porta al crollo di molte
certezze del positivismo ottocentesco e ad una potentissima critica dell’etnocentrismo.
Sparisce anche la gerarchizzazione delle culture, sostituita da una varietà di culture diverse
ma di pari dignità. Si parla dunque di relativismo culturale quando si arriva a stabilire che non
si possono formulare giudizi su una cultura al di fuori del suo contesto culturale; a sfavore
della critica all’etnocentrismo sarà inoltre il concetto esposto da Sumner agli inizi del
Novecento per il quale ogni gruppo penserà sempre che i suoi costumi siano migliori degli
altri, esaltandoli a discapito degli altri disprezzando questi ultimi. Anche Herskovits e Lévi-
Strauss si affiancheranno a questo pensiero, rinascendo l’universalità dell’atteggiamento
etnocentrico ma comunque dicendo che questo può essere controllato dal progresso culturale.
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Riassunto by MPfattner
La diffusione del relativismo culturale e delle critiche all’etnocentrismo si svilupperanno
soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale dopo la dimostrazione di quanto il nazismo
avesse estremizzato il concetto di razza e dunque il razzismo assumerà una connotazione
totalmente negativa.
Con etnia invece si intendono le differenze tra gruppi umani ed è una parola con un’accezione
alquanto discriminatoria; deriva dal greco etano, parola che indica un gruppo di individui
distinto da proprie caratteristiche, appunto che è diverso, è un termine trovato anche nella
Bibbia, dove ethne indicava i non cristiani e i non ebrei, più avanti ethici ha assunto il
significato di pagani e con l’affermazione del cristianesimo finirà per indicare tutti i non
occidentali. A partire dall’Ottocento c’è una progressiva affermazione del termine con un
significato di gruppo con gli stessi caratteri culturali quali lingua, religione, ecc. Etnico ed
etnia sono parole ormai utilizzate in ambiti sbagliati o quantomeno discriminatori, come per
indicare i conflitti o le minoranze; soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti conflitti etnici si
parla di uno scontro tra appartenenze primordiali chiare e distinte e, ovviamente, si può fare
l’esempio delle guerre della ex Jugoslavia, ma non si è mai pensato che le etnia possano
essere la conseguenza e non la causa dei conflitti proprio per l’accezione discriminatoria del
termine datagli soprattutto dalla reificazione del termine (conversione mentale di un concetto
astratto in qualcosa di concreto), Dei la spiega come la divisione in colori sulle cartine
politiche, ad ogni colore corrisponde uno stato, un’entità, come a dire che l’appartenenza ad
un gruppo etnico, ma anche culturale, sia proprio degli individui che appartengono ad un
gruppo.
La reificazione dei termini etnia e cultura rischia però di rimarcare le differenze e dunque di
tornare al concetto negativo di razza e dunque far rivivere in un certo senso il razzismo in
forme odierne. Si parla del razzismo differenzialista (anche detto fondamentalismo culturale);
questo non parla di pulizia etnica, razze o differenze naturali ma di culture o etnie e dunque si
accetta il principio del relativismo culturale per il quale tutte le culture del mondo hanno la
stessa dignità ed importanza e dunque non devono e non possono giudicate in base a criteri
esterni; è questa tolleranza ad aver portato però a quel sentimento chiamato xenofobia. Perché
se la propria identità è basata sull’identità culturale di un determinato luogo è logico che si
vuole preservare quest’ultima. Proprio Lévi-Strauss disse che è bene favorire il dialogo e lo
scambio tra le varie culture compresenti ma bisogna preservare il senso della diversità e
dunque evitare una contaminazione troppo grande.
Ciò che tocca molto il discorso antropologico è la possibilità quasi necessaria di sciogliere la
tensione tra universalismo etnocentrico (poco sensibile alle differenze) e relativismo
essenzialista (teso ad assolutizzare le diversità culturali); è un tema affrontato già in filosofia,
da Platone a Kant in particolare si è tentato di definire la ragione umana come qualcosa di
puro e che dunque prescindesse i costumi, che fosse una riflessione interna del pensiero su se
stesso, l’esempio più attinente è il Cogito ergo sum di Cartesio. In un libro del 1990 di
Remotti intitolato Noi, primitivi l’autore ripropone i ragionamenti filosofici a partire dalla
diversità culturale, prendendo in considerazione proprio delle affermazioni di Kant sugli
indigeni di Tahiti. Dicendo che questi occupassero l’isola solo per essere felici nel loro
godimento, sostiene che sarebbe meglio occuparla con pecore e buoi. Ciò sta a indicare che
proprio la loro lontananza dal resto del mondo fa sì che siano irrilevanti per la ricerca della
ragione poiché non fanno parte della storia finalizzata alla civiltà umana. Riprendendo
l’espressione ‘’giro lungo’’ Remotti afferma che comunque spesso nella storia della filosofia
c’è stato anche un senso di apertura nei confronti della diversità per aprirsi a ciò che non si
conosce. Michel de Montaigne ha affrontato in ambito filosofico un altro argomento
importante, che toccava i dibattiti cinquecenteschi europei sulla scoperta degli indios di
America. In particolare affronta il tema della diversità in un saggio intitolato Essais e in un
altro intitolato Sui cannibali tratta degli indios del Brasile e dei rituali di cannibalismo che
questi tenevano sui nemici uccisi; in questo segno di barbarie e disumanità, de Montaigne
trova invece una sorta di pratica culturale organica, un atto di morale e di pietà, ovviamente
ben contrapposto alle torture che gli europei infliggevano a corpi vivi. Arriva ad occuparsi
dell’etnocentrismo e a dire che è considerata barbarie tutto ciò che comunque non è nei propri
usi. Ciò che dunque non fa parte della consuetudine.
L’antropologia, il cui scopo è definire l’umanità, le sue forme, ecc, dunque è basata sul giro
lungo, sulla strategia conoscitiva. Pur essendo le sue radici affondate nel positivismo, nel
clima di cambiamento dei primi anni del Novecento, quando questa comincia a esordire
veramente e propriamente, occupa un posto di primo piano insieme alle avanguardie artistiche
e letterarie, allo sconvolgimento fisico con la relatività e la meccanica quantistica, le teorie
freudiane ecc trattando comunque del tema del primitivo dentro di noi.
In questo clima di sviluppano critiche verso il positivismo, soprattutto contrari alla visione
empirista per la quale la conoscenza si fonda sulle percezioni sensibili assimilate
dall’intelletto; si apre invece la strada ad una filosofia che abbandona l’idea di una razionalità
induttiva fatta dunque di fatti e teorie tra loro intrecciati. Per fare degli esempi, Wittgenstein
sostiene il rapporto tra linguaggio e mondo come poggiato sulle forme pratiche della vita,
Popper vede la scienza come una costruzione su palafitte, non verificabile in modo assoluto,
Kuhn afferma che il sapere scientifico derivi da una discontinuità di rivoluzioni (assunti
indimostrabili che formano sistemi di riferimento non messi in discussione) e non da scoperte
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Riassunto by MPfattner
progressive; Feyerabend sostiene che il progresso scientifico sia basato non su un carattere
logico-matematico ma pratico, su condizioni storico-antropologiche. Vediamo quindi una
sorta di inversione del rapporto tra razionalità scientifica e diversità antropologica; la prima
durante lo sviluppo del positivismo era il punto di partenza per spiegare le varie culture, nel
Novecento questa viene invece fatta poggiare su basi storico-culturale. Siamo nel momento in
cui anche parte della filosofia smette di cercare la stretta corrispondenza con la realtà e si
concentra su una visione più pratica e antropologica della razionalità stessa. Dunque
l’antropologia viene intesa come descrizione empirica di contesti nei quali maturano forme
particolari e irriducibili di razionalità (relativismo epistemologico). Ciò significa che non ci si
deve accostare alla diversità delle culture e delle epoche toriche con la convinzione di
possedere i criteri universali di razionalità. Ma se la tendenza dell’antropologia è descrivere le
culture dall’interno, proprio questa tendenza scatena tra il 1960 e il 1970 un dibattito tra
relativismo e razionalità. Cioè bisogna capire se vanno mantenuti alcuni criteri minimo ma
comunque universali di razionalità, come il noi, il voi, l’io e il tu oppure i principi di identità e
di non contraddizione; i relativisti rispondono dicendo che la comprensione avviene a partire
da basi pratiche; sostenitore di questa teoria è Winch, sostenitore della teoria per la quale
nessun antropologo può giudicare falsa o irrazionale il modo di vivere, le credenze o i riti di
altre culture, poiché no afferma che la realtà non è ciò che dà senso al linguaggio ma ciò che
ciò che è reale o irreale si mostra nel senso che il linguaggio ha; ciò significa che nessuno può
dichiarare illogica o irrazionale pratiche che in una determinata comunità sono invece dettata
da un ragionamento razionale e condiviso.
Il relativismo epistemologico (anche detto cognitivo) non è un vero e proprio movimento,
anzi il termine è sempre stato usato in modo polemico dai sostenitori della razionalità, con un
certo senso critico; nessun suo sostenitore si è infatti mai dichiarato relativista. Ciò non
accade quando si parla di relativismo etico; con questo termine ci si riferisce in particolare a
ciò che la scuola americana di antropologia culturale di Boas ha fatto del relativismo, ovvero
uno strumento di lotta contro razzismo, pregiudizi e oppressione culturale a favore di
tolleranza ed uguaglianza. Riguarda dunque la formulazione di giudizi morali e sistemi di
valori. Uno dei massimi esponenti è stato Herskovitsche però presenta il relativismo come una
dottrina positiva basata su criteri scientifici. Questi faceva parte della AAA (American
Anthropological Association) e a nome di questa associazione, elaborò un documento
(Statement on Human Rights) da sottoporre alla Commissione dell’ONU e di cui tener conto
della redazione della Dichiarazione dei diritti umani (sono gli anni immediatamente successivi
alla Seconda guerra mondiale) dato che trattava di temi come il rispetto delle differenze
culturali e il nesso tra diritti e culture. In particolare il documento afferma che ogni individuo
realizza la propria personalità in base alla sua identità culturale e che dunque è libero solo
quando vive nel modo in cui la sua società definisce la libertà. Dunque una dichiarazione dei
diritti intesa come universale deve garantire la legittimità di agire e vivere secondo la propria
cultura. Il documento non fu accolto dalla Commissione dato che l’antropologia vede le
differenze come da rispettare mentre le Nazioni Unite come ostacoli da superare; il discorso
umanitario e quello antropologico saranno sempre in tensione tra loro, basti pensare al caso di
Lévi-Strauss che scrive per incarico dato dall’Unesco una critica all’ideologia razzista; questo
saggio, intitolato Razza e storia, afferma che non si può risolvere il razzismo dicendo che si è
tutti uguali ma che l’egualità e l’unità del genere umano devono essere conciliati con la loro
diversità dato che l’umanità si realizza attraverso le differenza culturali. L’autore in un’altra
opera intitolata Tristi tropici, forse la più conosciuta, denuncerà il problema
dell’omologazione culturale e della scomparsa delle culture tradizionali a causa
dell’avanzamento della cultura occidentale, affermazione che lo porterà a criticare anche
l’Unesco.
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Riassunto by MPfattner
Dunque, se Herskovits afferma la libertà in base alla società significa che ci sono tante morali
quante sono le società e in esse sono imprigionati gli individui; anche in Strauss si trovano
figure di prigionia e chiusura, si pensi all’immagine del viaggiatore sul treno che scorge gli
altri passeggeri in modo distorto. Si parla della visione essenzialista che presenta le culture
come entità stabili e definite che determinano gli individui ed è questa criticata dalla sensibile
visione antropologica moderna. Un altro tasto importante è ancora quello dell’universalità e
del relativismo che si scontra con problemi moderni, come lo sfruttamento dei bambini o le
discriminazioni, questi sono casi in cui non si può parlare di relativismo dei diritti ma
l’etnocentrismo afferma che non si possono capire determinate pratiche, come la mutilazione
delle donne, al di fuori della cultura in cui vengono praticate. Soffermandosi sul caso dei
diritti dei bambini, questi sono stati concepiti in base alla visione occidentale dell’infanzia
sviluppatasi nel XX secolo, quella per la quale i bambini sono esseri indifesi che devono
essere protetti dalla durezza della vita sociale e devono essere felici e divertirsi, ma è
ovviamente diverso in società diverse da quella occidentale, basti pensare ai bambini
lavoratori o ai bambini soldato. È inoltre ignorato il fatto che la distinzione tra bambini ed
adulti, ovvero compiuti i 18 anni, sia basta comunque sulla tradizione occidentale dato che in
altri Paesi, come l’Africa per esempio, è ben diversa la separazione tra infanzia ed età adulta.
Si pensi agli studi dell’antropologo Rosen sulle guerre in Sierra Leone; le organizzazioni
internazionali hanno stabilito la non punibilità dei bambini soldato, identificati come vittime,
dunque aiutati attraverso recuperi; qui manca la piena comprensione della parola diritto. Un
altro caso può essere la critica dell’antropologa Pasquinelli alle organizzazioni che si battono
contro le mutilazioni genitali femminili vedendo l’atto come tortura e atto barbaro, senza
pensare alla possibilità che le madri delle bambine possano in realtà sottoporle ad un dolore
simile per risparmiare loro la possibilità di un’esclusione dalla vita sociale del posto. La sua
critica continua a queste associazioni che secondo lei cercano di costruire più una loro
immagine come civilizzatrice che tesa all’aiuto umanitario. Dunque il significato della parola
civiltà è sempre più confuso, lo vediamo con l’analisi di Talal Asad e del caso degli inglesi
che in India proibivano i riti di flagellazione per la loro violenza punendoli però con
l’impiccagione; come se si volesse dare uno standard di civiltà senza sapere cosa rende in
realtà umani. È ovvio che nonostante queste critiche, l’antropologia è vicina all’importanza
dell’impegno per i diritti umani rimanendo fedele alla visione per la quale i diritti umani
appartengono a tutti gli individui con le loro differenze caratterizzanti.
Abbiamo poi il funzionalismo, una nuova forma di antropologia sociale nata in Inghilterra per
la quale la società è un sistema complesso in cui ogni parte ha una funzione nei confronti del
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Riassunto by MPfattner
tutto. È da Malinowski che si delineano le caratteristiche del funzionalismo, cercando di far
incastrare tra di loro tutte le parti di una cultura senza chiedersi nulla sulla sua origine ma
spiegando a cosa essa serva. Malinowski si trasferisce negli Stati Uniti nel 1936 ed è lì che
sviluppa queste idee mostrando l’utilità della cultura come direttamente rispondente ad alcuni
bisogni, la religione per esempio al bisogno di rassicurazione. In Gran Bretagna ci sarà invece
Radcliffe-Brown che considererà la società come un insieme in cui ogni singolo deve
contribuire alla preservazione di essa; per Brown ‘’funzione’’ ha significato solo in relazione
e alla continuità della struttura sociale, vale a dire che la cultura ha una funzione nascosta ed è
quella di garantire la coesione sociale laddove le istituzioni politiche non vi riuscissero o se
proprio non ci fossero. Tra gli anni 30 e 60, quando la teoria di Brown si trova combinata con
in metodo di Malinowsky, un grandissimo esponente del funzionalismo è stato Evans-
Pitchard, studioso degli Azande (agricoltori) e dei Nuer (pastori seminomadi). Per quanto
riguarda il primo popolo, analizza il tema della stregoneria: secondo gli Azande ogni disgrazia
proveniva dall’utilizzo, volontario o non, della stregoneria da parte di qualche individuo che
veniva individuato attraverso pratiche divinatorie riconosciute tanto che chi veniva
individuato come colpevole accettava di buon grado di compiere azioni riparatrici. Non
trovandovi nulla di irrazionale, Evans definisce ciò come un modo per spiegare il male in
relazione alla società e ai rapporti tra le persone. Per quanto riguarda i Nuer invece analizza il
loro sistema di suddivisione in famiglia, in lignaggi, cioè il raggruppamento in base al
riconoscimento di un antenato comune, senza forme di potere centrale ma comunque i gruppi
vivono in equilibrio tra loro. Fino alla prima metà del Novecento il funzionalismo si afferma
ma comunque il suo punto debole emerge presto, cioè la difficoltà nel tener conto dei processi
storici e dei mutamenti culturali, anzi proprio Brown dirà che il funzionalismo dipinge la
società come volta a difendersi dai cambiamenti e dalla storia. Evans invece sosterrà la
necessità di affiancare una dimensione storica a quella antropologica affermando infine che
l’antropologia sociale è come una specie di storiografia.
Già nel 1950 circa si afferma lo strutturalismo, legato principalmente al nome di Lévi-Strauss,
francese rifugiatosi negli Stati Uniti durante l’occupazione tedesca della Francia e tornato in
patria nel 1948, solo l’anno successivo pubblica Le strutture elementari della parentela,
rivoluzionando la visione di un tema antropologico fondamentale, e affrontando anche quello
dei racconti mitologici. Ciò di cui si occupa Strauss non è la loro classificazione o individuare
la loro funzione sociale, ma cerca il principio che le genera. Proponendo di trattare la cultura
come il linguaggio, cioè come un meccanismo generativo inconscio in ogni essere umano (si
potrebbe dire presente a priori nella mente umana), la definisce proprio come quel linguaggio
che opera attraverso gli oggetti del mondo naturale, i rapporti di parentela, il corpo, cioè
attraverso ciò che riguarda la concreta esperienza umana. È ciò che Strauss chiama strutture
intendendole come categorie dello spirito umano, che non hanno una descrizione diretta ma
possono essere delineati attraverso l’analisi della materia empirica cui dà forma; si parla
anche di strutture elementari, che regolano appunto la parentela e i matrimoni delineando
quali siano possibili e impossibili. Alla base di tutto ciò, c’è la contrapposizione tra natura e
cultura; Strauss applica questo principio ai miti studiati durante gli anni 30 in Amazzonia, da
lui visti come costruzioni logiche, basati su oggetti concreti del mondo naturale e sociale, cioè
utilizza gli elementi più immediati dell’esperienza come animali, piante, per usarli come
simboli che acquistano significato solo quando sono in contrapposizione tra di loro. Emerge
l’apprezzamento di Strauss per i miti, da lui considerati molto complessi per il loro tendere a
creare omologie tra i mondi naturale e sociale.
Si è fino ad ora parlato dell’antropologia come largamente influenzata, nel suo primo periodo,
dal positivismo; è il periodo nel quale le scienze sociali cercano di assomigliare a quelle
naturali, cioè cercano leggi che possano valere per spiegare fenomeni umani e sociali. La
separazione tra scienze sociali e naturali era stata già nettamente effettuata da Dilthey; questi
teorizzò le scienze naturali come quelle che hanno bisogno di una spiegazione, quelle dello
spirito dio una comprensione. L’illusorietà di poter ridurre l’oggetto interno a ogni essere
umano a quello esterno e dunque al mondo, oggetto delle scienze naturali, sarà sostenuta
anche da sociologi come Weber e Simmel, quest’ultimo soprattutto affermava che la
comprensione dovesse essere empatia; il dibattito tra i sostenitori del metodo naturalista e di
quello comprendente si protrae per tutto il Novecento, con l’osservazione che il naturalismo
può ammettere l’empatia durante la raccolta dati che poi vengono comunque oggettivati
mentre i sostenitori delle scienze dello spirito hanno cercato di andare oltre la questione
dell’empatia, fondamentale per le pratiche sociali, nelle quali non ci si può limitare a
osservare e descrivere dall’esterno ma bisogna passare attraverso ciò che si descrive ed
interpretarle dall’interno, attraverso un linguaggio attribuito alle pratiche sociali. Questo
problema è presente anche nell’antropologia, poiché lo studioso deve imparare un linguaggio
che non conosce, tradurlo nel suo e poi renderlo comprensibile agli altri. Su come studioso e
studiato entrano in relazione, ci sono due interpretazioni date da:
Sociologia fenomenologica, il principio della sospensione degli assunti di senso
comune da parte del ricercatore, ovvero descrivere le pratiche, gli usi, ecc senza dare
nulla per scontato;
Sociologia ermeneutica, al momento dell’interpretazione lo studioso mette in gioco i
suoi pregiudizi dei quali non deve prima liberarsi.
La demologia studia la cultura dei ceti popolari all’interno delle società occidentali moderne e
dall’interno, cogliendo i dislivelli di cultura. C’è da dire che il folklore rappresenta uno
scandalo per la sua rappresentazione del mondo arretrato dei contadini o comunque quello
popolare e incolto da una parte, mentre dall’altra (dal punto di vista etico) sono ritenuti pure
ed autentici per non essere stati corrotti dalla modernità. Gli studi sulla cultura popolare si
sono sviluppati sulle basi romantica e positivista. Nel romanticismo ci si concentra
principalmente sulla letteratura orale e spesso sulle fiabe, basti pensare a quelle dei fratelli
Grimm, e soprattutto si parla di spirito del popolo (espressione di Herder), l’anima della
nazione composta anche dagli usi, dai costumi e dagli elementi della tradizione orale dei
contadini, dei quali viene caratterizzato anche il carattere nazionale, cioè la particolarità
linguistica; c’è una visione universale della cultura popolare nonostante le sue varietà e si
parla di un’apertura cosmopolita che sarà impedita nell’Ottocento dai conflitti napoleonici. Il
positivismo invece vuole documentare tutti gli aspetti della cultura di un popolo, non solo
fiabe e canti, anche credenze magiche, riti e cerimonie, oggettistica e così via. Non c’è
neanche l’affermazione di una piena differenza con l’antropologia, dato che entrambe le
discipline sono interessate a documentare l’evoluzione culturale dell’umanità di cui i
fenomeni folkloristici sembrano essere residui o sopravvivenza, il metodo folkloristico è
infatti quello di ricondurre a presunti fatti storici del passato alcune credenze o cerimonie, per
esempio il gioco della conta per l’esclusione tra i bambini potrebbe rimandare a rituali con
sacrifici umani.
Comunque, presto diventa un’autonoma disciplina di studio e il termine folklore (coniato da
William Thoms nel 1846) riscuote anche successo. Dopo la Prima guerra mondiale c’è un
completo distacco tra studi antropologici e folkloristici, soprattutto per i metodi:
l’antropologia basata sul fieldwork, dunque sull’osservazione partecipante, e
sull’elaborazione teorica dell’esperienza, il folklore basato su tratti culturali specifici e sulla
loro origine trattati in modo filologico. Inoltre l’antropologia si è sviluppata come ricerca pure
e ha prodotto una letteratura, il folklore invece ha trovato importanza nei musei e ha sempre
avuti una forma di utilizzo più pubblica, tanto che è stato usato anche come forma di
strumentalizzazione politica, il nazismo per esempio ha saputo usarlo come elemento di
costruzione per il mito della razza. Ha svolto anche funzione nella costruzione di alcune
culture nazionali, questo perché i folkloristi non sono mai rimasti esterni all’oggetto studiato,
anzi, selezionavano e modificavano ciò che raccoglievano tra il popolo; basti pensare ai
fratelli Grimm che, da semplici fiabe raccolte tra le campagne, modificandole hanno creato
una parte importantissima della cultura tedesca.
In Italia dagli anni ’10 al secondo dopoguerra gli studi antropologici si arrestano; dopo la
Grande Guerra, il fascismo impedirà lo sviluppo degli studi folkloristici: fondamentalmente li
supportava ma cercando di controllare le organizzazioni e gli intellettuali finì per soffocarli.
Anche l’idealismo storicistico di Benedetto Croce mette in difficoltà la disciplina dato che le
scienze umanistiche non erano viste di buon occhio dal movimento.
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Riassunto by MPfattner
Nel secondo dopoguerra l’Italia si apre alla cultura internazionale e fondamentale fu lo scritto
Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Questi elaborò la teoria marxista nell’ambito dei
rapporti tra struttura economica e forze sociali e culturali e parte di questo testo è dedicata
proprio al folklore, visto come definito dai rapporti sociali e non dalle tradizioni. Tagliando i
rapporti con le concezioni romantiche e positiviste del folklore, lo elabora come fenomeno
centrale dei rapporti tra le classi e conseguenza dell’esercizio dei ceti dominanti del potere.
Molti studiosi cercheranno di riprendere e sviluppare le sue indicazioni sul concetto e tra
questi Ernesto De Martino; importante sarà anche il ruolo di Gianni Bosio, che raccoglie
documenti della cultura popolare tra i contadini e gli operai del Nord e accentua il distacco
rispetto al vecchio ruolo degli intellettuali, concepisce un tipo di intellettuale che deve
imparare dai ceti popolari per essere mezzo di espressione della loro coscienza di classe.
Importante è stato anche Alberto Cirese con Cultura egemonica e culture subalterne del 1971,
nel quale ha parlato di demologia sostenendo che gli impianti positivistico e romantico non
dovessero essere completamente eliminati ma riletti in una prospettiva di egemonia-
subalternità e dunque integrati nella scienza della cultura popolare.
Tra gli anni ’50 e ’70 si ha un nuovo sconvolgimento; c’è una nuova valorizzazione del
folklore (folk revival) nonostante la scomparsa della classe contadina a causa
dell’industrializzazione che sconvolge le classi che comunque raggiungono un tenore di vita
superiore e il consumo di massa diventa quello dominante. Solo che, se inizialmente la
generazione dell’urbanizzazione si era disfatta di tutto quello che riguardava il mondo
contadino e dunque l’arretratezza, presto se ne sente la mancanza e vengono recuperati oggetti
come le brocche di rame, le forme povere dello spettacolo, ecc e si arriva addirittura a quello
che è stato chiamato mercato del rustico. Già tra gli anni ’80 e ’90 la situazione cambia a
causa dell’Unesco, associazione volta alla salvaguardia dei patrimoni e in particolare di una
serie di beni culturali stabiliti da una Convenzione del 1972 che cura in particolare i
monumenti che attirano turisti, anche archivi o giacimenti di documenti importanti e
patrimoni immateriali o intangibili, con i quali si indicano le tradizioni orali, le arti dello
spettacolo, pratiche sociali come riti e feste e l’artigianato tradizionali, proprio quello che era
prima chiamato folklore.
Con l’entrata in scena dell’Unesco, molti antropologi hanno cambiato il loro modo di
proporsi, molti si presentano come tecnici del patrimonio etnografico, altri come analizzatori
dei processi di patrimonializzazione, alcuni studiano il patrimonio dall’interno, altri
criticamente dall’esterno. È aperto il dibattito sul concetto di tradizione, intesa come un
processo di costruzione del passato in relazione alle esigenze del presente, una forma di
filiazione inversa come dice Lenclud, nel senso che sono le dinamiche del presente a decidere
quali aspetti del passato sono importanti. Altro dibattito aperto è quello dell’esistenza di una
cultura popolare in tempi moderni; questa può essere cercata al di fuori della sfera di
influenza della cultura di massa (nel senso di documentare nuove forme di folklore nella
comunicazione orale, nelle relazioni dirette tra le persone, ecc) o cercare il popolare nelle
modalità stesse del consumo della cultura di massa, ciò come vengono consumati i prodotti
dell’industria di massa e il significato a loro attribuito.
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Riassunto by MPfattner
PARTE SECONDA
Al centro del dibattito antropologico c’è anche il tema della cultura di massa, cioè di come il
consumismo ha influenzato la cultura e la società. Dunque si interroga anche su quelli che
sono i rapporti tra produzione e consumo che, prima del capitalismo, spesso si trovavano a
coincidere, basti pensare alle famiglie contadine che producevano tutto da sé, anche se
l’autosufficienza non poteva mai essere definita come totale. Con l’industrializzazione ciò
smette di accadere, i beni vengono prodotti dall’industria e venduti ai consumatori. Theodor
Adorno, tedesco di origini ebree, definirà l’industrializzazione della cultura riprendendo la
citazione marxiana di oppio dei popoli. Costretto a emigrare negli Stai Uniti, qui trova una
situazione nella quale l’intera popolazione è immersa nell’industrializzazione della cultura,
con il cinema, la radio, il jazz e così via, parla dunque di un’infiltrazione del sistema
capitalistico nella cultura tanto profonda da svuotarla di ogni contenuto; la cultura di massa
diventa un insieme di prodotti banali, futili. In Dialettica dell’illuminismo, scritto con
Horkheimer e pubblicato nel 1947, parla del corso della civiltà occidentale (l’illuminismo) e
dei suoi individui che, mentre la razionalità tenta di liberare dal dominio della natura (la
dialettica), dipendono dall’industria culturale. Ciò che i due intellettuali discutono in modo
particolare è l’illusorietà della varietà dei beni, che sono diversi ma in fondo sempre proposti
a partire dallo stesso modello che riflette il sistema economico e sociale che lo genera essendo
mezzi conservatori e dietro l’intento di creare divertimento per la società di massa, la plasma
a suo piacimento. In sintesi, l’individuo si disperde nelle masse che l’industria culturale
disciplina proprio come i regimi totalitari. Adorno fa l’esempio del jazz, definita come musica
elementare, senza stile compositivo se non la ripetizione di suoni. Anche Bauman analizzerà
la società, definita liquida, poiché vede le pratiche del consumo come quelle che mutano il
rapporto dell’individuo con il suo corpo e le relazioni sociali. Sia Bauman che Adorno però
non terranno conto di quale significato il consumo assuma per i consumatori, cioè non
pensano che il jazz potrebbe piacere o che un determinato prodotto potrebbe essere percepito
in maniera positiva dagli individui.
A portare avanti la teoria critica nell’analisi dei prodotti cultuali di massa ci penserà la
semiotica (o semiologia), sviluppatasi nella seconda metà del Novecento come mezzo di
analisi degli aspetti della cultura, soprattutto quella di massa come fumetti, cinema, ecc.,
attraverso dei segni e ad individuare i contenuti espliciti e latenti, i significati denotativi e
connotativi. In particolare, questo sarò fatto da Barthese Eco che riprenderanno entrambi il
mito. Barthes tratterà del tema in un’opera del 1957 intitolata Mythologies, una raccolta di
brevi scritti dedicati ad aspetti della cultura di massa della Francia degli anni ’50; si può fare
l’esempio del giro ciclistico del Tour de France. L’evento viene reso dai mass media come
qualcosa di epico, i concorrenti presentati come eroi e c’è sempre il rischio del sacrilegio
(riferito al doping), dunque Barthes cerca di rendere esplicito tutto ciò che nelle pubblicità
dell’evento rimane implicito, ovvero la leggerezza e la banalità delle categorie su cui poggia
la moralità della società capitalistica. In Apocalittici e integrati, una raccolta di saggi sui
prodotti dell’industria culturale italiana come fumetti, cinema, canzoni, ecc. del 1964, Eco si
sofferma in particolare sul fumetto di Superman e sulla funzione mitica ad esso attribuita, si
tratta di un personaggio mitico che non cambia mai e che vive storie simili e che più o meno
hanno lo stesso inizio e la stessa fine anche se, ovviamente, tutto ciò non deriva dalle
intenzioni degli autore e tantomeno è percepito dai lettori che vedono in esso solo una storia
coinvolgente. Entrambi usano concetti come inconscio e nevrosi per spiegare come
l’oggettività della cultura di massa possa influenzare la soggettività degli individui.
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Riassunto by MPfattner
Altri indirizzi affronteranno il tema del consumo culturale come sistema di pratiche e non
come insieme di messaggi da decifrare come Eco; se fino ad ora il consumo era stato visto
come una forza omologante teso a cancellare ogni differenza e dunque anche le differenze tra
le classi sociali riducendole a una netta divisione tra chi ha i mezzi e che ne usufruisce, si
delinea l’idea che il consumo in realtà uniforma ma distingue. Nel 1899 il sociologo
americano Veblen pubblica un libro intitolato La teoria della classe agiata nel quale analizza il
consumo vistoso, cioè quello delle classi sociali più elevate che in età preindustriale
disdegnava ogni sorta di attività direttamente produttiva ma con il capitalismo la storia cambia
perché si fanno anche meno rigide le distinzioni tra le classi sociali ma più forte il desiderio di
scalata sociale per arrivare alla possibilità di avere beni migliori. Dunque il consumo per
Veblen non è edonismo, utilitarismo o simili ma è ciò che definisce le relazioni sociali ma che
porta anche all’emulazione, pur non essendo questa uniformante anche dei gusti umani che
non vengono strumentalizzati o influenzati. Questo punto sarà ripreso da Bordieu nella sua
opera del 1979 La distinzione. Qui introduce il discorso di habitus, ciò che correla
l’oggettività dei consumi con la soggettività dei gusti. È ciò che gli individui percepiscono
come naturale, ciò che deriva dalla loro cultura, dalle loro origini, dall’istruzione e dallo status
ecc. e ha come conseguenza i modi di fare, camminare, parlare, agire e così via. Parlando di
capitale economico e culturale (nei quali gli oggetti rappresentanti sono chiamati
sociogrammi), Bordieu ipotizza quattro ceti:
1. Ceti con capitale economico e culturale alto;
2. Ceti con capitale economico alto e capitale culturale basso (es. imprenditori);
3. Ceti con capitale economico e culturale basso (es. contadini e operai);
4. Ceti con capitale economico basso e capitale culturale alto (es. insegnanti).
È questo che definisce il consumo culturale e gli individui che attuano strategie di distinzione
per sottolineare la separazione tra gruppi alti e bassi la cui ascesa potrebbe essere pericolosa.
Quindi soggetto dell’antropologia diventa il consumo di massa. Importante è stata la figura di
Mary Douglas; questa ha esaminato il rapporto tra sistemi simbolici o pratiche caratteristiche
di alcuni sociali interpretandoli come elementi di ordine per il mondo e la società. Ha per
esempio condotti studi sul corpo e su come questo venga controllato, per questo spesso ci
sono delle norme per presentarsi ed interagire in pubblico; con l’età moderna la cosiddetta
regola della purezza è svanita quasi totalmente ma l’uso del corpo e il modo di vestire sono
spesso stati ‘sfruttati’ da individui per costituire gruppi specifici. Tornando al problema del
consumo di massa, è trattato ne Il mondo delle cose dove critica le teorie degli economisti (sia
moderni che neomarxisti) secondo i quali questa sarebbe data o dall’utilitarismo o da
sentimenti come l’invidia. La Douglas interpreta il consumo come indicatore di categoria
sociale e culturale. Altro studioso del campo sarà Daniel Miller con Teoria dello shopping;
questi aveva guardato e ascoltato la gente intenta nel fare la spesa per poi concludere che
questo è un atto d’amore, poiché si pensa a cosa piace a chi deve mangiare, a come preparare i
pasti, alle necessità della famiglia, ecc. e quindi l’individualismo utilitarista sembra essere
inesistente. Le teorie di Miller e Douglas possono essere così riassunte:
1. I beni di consumo sono importanti per il legame che hanno con le società
contemporanee;
2. I comportamenti di consumo costituiscono i legami sociali;
3. I consumatori comprano merci che poi acquistano un significato e dei valori;
4. I consumatori pensano a come utilizzare il bene acquistato;
5. Si colgono le pratiche etnologiche, della quotidianità attraverso il rapporto tra i
consumatori e il loro punto di vista.
Ciò sarà ripreso dal filone noto come Cultural studies, nato negli anni ’60 con la riproposta di
alcune teorie marxiste sui rapporti tra struttura politica e sovrastruttura culturale contro alcuni
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Riassunto by MPfattner
filosofia marxisti che insistevano sulla capacità dei dominanti di imporsi sulla società grazie a
istituzioni quali famiglia, scuola, stampa, ecc. Si è arrivati a considerare come fossero i testi
della cultura di massa a costruire il lettore, cioè come la manipolazione dei media potesse
portare i lettori reali a identificarsi in un lettore preferito ma interno al testo; Stuart Hall prese
le distanze riguardo questo punto sostenendo che non necessariamente il lettore reale vedrà
ciò che dovrebbe vedere un lettore preferito. Questo perché fruizione e produzione sono due
concetti che vengono tenuti separati; questa differenza articola come egomonia-subalternità,
cioè i gruppi subalterni accedono alla cultura attraverso le condizioni dettate dalle classi
dominanti, ma non per forza ne saranno determinati. Il ruolo di egemonico o subalterno è
definito dal modo di produzione e da qualsiasi altra differenza, come quella di genere o etnica.
Anche Michel De Certeau indagherà questo rapporto in termini di azione di tattica e strategia,
termini contrapposti come nel linguaggio militare, il primo riguardante corsi d’azione
frammentari che si adattino alle momentanee esigenze e il secondo a un corso d’azione
programmato e che raggiunga gli obiettivi prefissati. De Certeau pensa al consumo come a
una serie di mosse tattiche che possano rendere utilizzabili i beni sul piano strategico. È così
che cambia il modo di concepire la ricerca empirica, in quanto non si analizzarono più i
messaggi per capirne il significato ma bisogna studiare i modi di fruizione della cultura di
massa in particolare frangenti sociali e con questo obiettivo nel 1964 Hoggart fondò presso
l’Università di Birmingham il CCCS, Centre for Contemporary Cultural Studies. Questo
dedica attenzione al campo della televisione, per conoscere il pubblico, e delle subculture,
ovvero quegli stili che accomunano varie persone dipendenti dall’industria culturale,
comunque reinterpretata.
Sono fasi che coincidono con la prospettiva biomedica, ciò un paziente avverte un disturbo
(illness), viene diagnosticato da uno specialista (disease) con delle conseguenze come cure,
ricovero, ecc. (sickness). Non sono comunque sempre tutte presenti. L’antropologia inoltre si
occupa di studiare le sindromi culturalmente condizionate, cioè malattie riconosciute e
sviluppata in una sola area socio-culturale che si sviluppa con segni e manifestazioni precise.
In Italia abbiamo il caso del tarantismo pugliese trattato in La terra del rimorso da De
Martino. Il tarantismo è un disturbo psichico che si ritiene causato dal morso della tarantola e
che viene curato con un rituale esorcistico, durante il quale il malato, solitamente una donna,
balla per giorni a ritmo di musica fino a quando il ragno non abbandona il corpo della vittima.
Le persone guarite diventano poi devote a San Paolo. Il tarantismo è per De Martino un
mezzo medico per risolvere le crisi esistenziali dei poveri del Mezzogiorno con una terapia
che porta a risolverle e a dare una sorta di speranza per una vita migliore, ha dunque
un’efficacia simbolica.
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Riassunto by MPfattner
Tale concetto era già stato espresso da Lévi-Strauss in relazione a un incantesimo usato tra i
Cuna di Panama durante i parti difficili; quando un parto non riesce è perché Muu, la potenza
che regola la formazione dei feti, si è impadronita dell’anima delle donna e lo sciamano devo
compiere un viaggio fino alla dimore di Muu per recuperare l’anima e rendere possibile la
nascita del bambino. Strauss interpreta il viaggio dello sciamano come la vagina e l’utero
della donna, come se l’incantesimo fosse una manipolazione psicologia dell’organo malato
dunque sovrappone al male la struttura ordinata degli organi ma comunque arriva ad un esito
positivo. È un meccanismo simile a quello della psicoanalisi che attraverso il linguaggio,
rende noti e risolve conflitti interiore che non si potrebbero altrimenti manifestare. Dunque la
pratica sciamanica è a metà tra medicina e psicanalisi. Nella seconda metà del Novecento il
tema dell’efficacia simbolica sta al centro della riflessione medico-antropologica così che le
due scienze riescano ad avvicinarsi dato che anche a livello medico vengono usate pratiche
quasi considerate rituali, come l’effetto placebo, cioè il fatto che alcune teorie farmacologiche
producono guarigioni anche in caso di somministrazione di sostanze inerti.
Nel campo della ricerca, quando si viene a contatto con malattie, condizioni di fame e miseria
di culture non Occidentali si fa fatica a rimanere neutrali, soprattutto perché si notano le
differenze con l’agiatezza in cui vivono gli occidentali, dunque le istanze della denuncia e
dell’aiuto si sovrappongono con quelle dell’osservazione ed della ricerca oggettiva e
distaccata. Il corpo assume un ruolo diverso in questa prospettiva, si parla infatti di concetto
di incorporazione (Thomas Csordas): il corpo non è un oggetto da studiare in relazione alla
cultura ma è il soggetto della cultura, si supera la dicotomia tra mente e corpo. Due
antropologhe americane, la Lock e la Hughes, hanno coniato l’espressione mindful body, cioè
corpo pensante per esprimere questo concetto e hanno sostituto ai corpi naturale e sociale, tre
dimensioni del corpo:
1. Corpo sociale, quello modellato dalla mente per relazionarsi;
2. Corpo politico, plasmato dalle relazioni di potere;
3. Corpo personale, vittima del controllo politico e dunque esercitante strumenti di
autodifesa.
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Riassunto by MPfattner
Tema molto importante in antropologia è la memoria. Ci sono varie accezioni di memoria,
una prima distinzione va fatta tra memoria a breve termine (capacità di richiamare capacità
assunte in pochissimi secondi), memoria sensoriale (capacità immediata di reagire agli stimoli
esterni), che tra l’altro sono comprese in un unico termine ovvero memoria di lavoro, e
memoria a lungo termine (la capacità di ritenere informazioni per in tempo superiora ai pochi
secondi). La memoria a lungo termine è distinta in:
Procedurale, capacità o competenze che operano in modo implicito e difficilmente
vengono dimenticate;
Semantica, sapere generale sul mondo esprimibile verbalmente;
Episodica, eventi o episodi dei quali il soggetto ha avuto esperienza, anche chiamata
memoria personale.
In età contemporanea gli Stati nazione hanno cercato di costruire una memoria ufficiale, un
concetto che si è affermato con gli studi di George Mosse sulla nazionalizzazione della masse
e di Hobsbawn sull’invenzione della tradizione. Il modello della memoria culturale legato
all’identità nazionale è nato con le rivoluzioni moderne (americana e francese), capaci di
coinvolgere su ogni piano la totalità dei cittadini, anche nella condivisione dell’oblio, di
quegli aspetti del passato da dimenticare e superare. C’è dunque l’esaltazione della memoria
pubblica istituzionale e il tralascio delle memorie private fino alla seconda metà del XX
secolo, dato l’indebolimento degli Stati nazione con la Seconda guerra mondiale e con la
critica dei movimenti degli anni ’60 contro la memoria culturale fondata sul nazionalismo; la
memoria culturale non è più controllata o concentrata e l’etica individualista del periodo
portano a una personalizzazione delle pratiche di memoria (album di fotografie, souvenir,
ecc.). Con lo sviluppo delle tecnologie, della rete e dei mezzi di registrazione diventa inoltre
sempre più facile conservare la memoria.
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Riassunto by MPfattner
Si può rischiare di arrivare a un eccesso di memoria, quindi. Ovviamente questo riguarda
anche la produzione storica e antropologica, per le quali il problema è anche lavorare con un
numero di fonti tanto elevato da non poter essere controllato a fondo; sono comunque
coinvolte nella produzione di memoria e tra l’altro, la studiano. Gli storici studiano la
memoria consapevole dei processi culturali che la formano e devono esserne portatori
oggettivi; c’è appunto il problema della soggettività del testimone del fatto storico, dalla quale
non bisogna farsi influenzare per garantire il punto di vista generale del fatto narrato. Gli
antropologi invece trovano più difficile trascendere la soggettività del testimone, perché è la
prospettiva biografica che in questo caso fonda quella storica, ma c’è il rischio che le
esperienze di vita soppiantino i racconti storici. Problema comune a storici e antropologi è
inoltre quello dell’identità, legata alla memoria; l’identità di un gruppo sociale è proprio
radicata nella sua memoria collettiva. L’identità è come una sorta di proprietà che è stata
strumentalizzata per meschini scopi politici e in questa corruzione non devono cadere gli
studiosi, pur essendone coinvolti come specialisti.
In antropologia un tema affrontato a lungo è quello del dono, esaminato su due prospettive:
quella utilitarista che motiva lo scambio come ricerca del maggior utile per sé o per il proprio
gruppo sociale e quella per la quale gli scambi sono regolati attraverso modelli con validità
universale. Il lavoro più importante riguardo l’argomento è il Saggio sul dono di Mauss; qui
analizza le forme di scambio di bene, chiamate prestazioni sociali, nelle quali riscontra dei
tratti comuni: sono forme di scambio non legate a una logica di mercato che influenzano i
rapporti sociali tra le parti dello scambio, non vi sono accordi di tipo contrattuale e sono basati
sul procedimento dare, ricevere, ricambiare in base al rapporto tra le due parti, l’obiettivo è
dare di più e non ottenere di più. Il saggio si sofferma su tre casi etnografici:
1. Quello del kula tipico delle Tobriand; è uno scambio di oggetti preziosi ognuno con
una storia importante su chi lo ha posseduto precedentemente lo scambio ed implica lo
spirito di dono, cioè l’impegno a ricambiare con qualcosa di ancora più prezioso;
2. Quello del potlach degli indiani dei Sudamerica; sono cerimonie rituali nel corso delle
quali le famiglie più ricche distribuiscono e distruggono oggetti preziosi; è la logica
del capitalismo rovesciata: acquista più prestigio chi più sperpera e non chi più
accumula. Alcuni filosofia come Georges Bataille interpreterà questo gesto come il
vero desiderio degli umani, ovvero il dispendio;
3. Quello dei taonga, fondamentale per il suo scopo di porre lo scambio di doni al centro
della costruzione di relazioni sociali e per la sua risposta alla domanda del perché si
ricambiasse sempre.
I taonga sono oggetti cerimoniali tipici dei Maori della Nuova Zelanda che, se regalati,
implicano un contro dono poiché lo hau, lo spirito della cosa donata, vuole tornare da dove è
partito e l’unico modo è quello di incarnarsi nel contro dono, altrimenti il dono originario
dovrà essere distrutto. Da ciò deriva che regalare qualcosa significa regalare un pezzo di se
stessi.
Mauss dunque concepiva il dono come qualcosa al di fuori dal mercato, ciò che la modernità e
il mercato hanno soffocato o, meglio, ciò che era lo hau, l’essenza della persona che porgeva
il dono, è stato sostituito dalla logica monetaria e neanche i rapporti tra le persone hanno più
importanza. La morale si è completamente separata dall’economia.
Se lo scopo di Malinowski era demolire i pregiudizi sul modello economico dei selvaggi,
inteso come una sorta di comunismo primitivo senza ricchezza né valore, e cercare di
mostrarne invece la razionalità, nel saggio di Mauss trova un supporto decisivo. Comunque,
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Riassunto by MPfattner
piuttosto che parlare di dono, Malinowski e i suoi allievi parleranno di reciprocità, lo scambio
che regola i rapporti sociali. Tra gli anni ’30 e ’40, quando il clima funzionalista dilagava, la
reciprocità veniva concepita come una logica per organizzare gli scambi e tenere in equilibrio
il sistema economico delle civiltà primitive; è però un concetto volto all’utile, lontano dunque
dalla visione di Mauss. Verso le metà del Novecento, Karl Polanyi, in La grande
trasformazione e Traffici e mercati degli antichi imperi (rispettivamente, 1944 e 1957),
sostenne l’intreccio tra economia e relazioni sociali e avanza una tesi sostantivista (per la
quale l’economia dipende anche dalla cultura e dalla storia di un popolo) contrapposta a
quella formalista dell’economia classica per la quale esistevano dei modelli economici fissi
applicabili a qualsiasi contesto. Le tre forme di integrazione dell’economico nel sociale per
Polanyi sono la reciprocità, la redistribuzione e il mercato. La teorizzazione più celebre sulla
reciprocità è di Lévi-Strauss che dà a Mauss il merito di aver intuito tale principio ma critica il
suo saggio per non essere arrivato fino in fondo alla definizione dei rapporti di scambio a
causa di una credenza popolare, lo hau. Inoltre ha sbagliato nello scomporre il processo in
dare, ricevere e ricambiare mentre per Strauss lo scambio preesiste a queste condizioni.
Inoltre per Mauss gli scambi erano etici, per Strauss affatto. Importante nel clima strutturalista
è anche la visione di Marshall Sahlins che critica Mauss per aver interpretato un concetto
economico come religioso ma gli concede il merito di aver colto li principi di alienazione
delle merci marxiste. A partire dagli anni ’80 del Novecento il dibattito sul dono ha
cominciato a interessare anche il settore economico-politico; a condurre questa
interpretazione è stato un gruppo di intellettuali riuniti in un circolo chiamato MAUSS:
Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali. I tre esponenti furono Latouche, Caillé e
Godbout. Quest’ultimo ne Lo spirito del dono riparte dalle considerazioni di Mauss sulla
modernità, concepita come un processo di differenziazione delle categorie (separazione
dell’economico dal religioso, l’interesse dalla morale, ecc.) Godbout invece sostiene che la
modernità non abbia completamente eliminato la pratica del dono dalla società. Nella
modernità concepita da questo autore, la razionalità dello Stato e il mercato sono meccanismi
fondamentali per portare avanti il capitalismo ma già lo Stato in sé è un meccanismo anti
dono, poiché la dialettica obbligo e verità è sostituita dal principio della corrispondenza del
valore, rescindendo i legami personali. Ma Godbout nota come i rapporti esistano all’interno
della logica dello Stato e dell’economia di mercato in base a ciò che è chiamato spirito del
dono, non completamente scomparso dalla società capitalista. È il dono che protegge e coltiva
i legami sociali. Continua Godbout dicendo che la socialità soppianterebbe alcuni legami,
come quello del clientelismo, ma che il prezzo sarebbe troppo alto e distruggerebbe le reti
comunitarie e ciò può essere evitato se, nel movimento nella sfera economica e giuridica, le
persone si astraggano dai rapporti senza scioglierli.
Si è proceduto analizzando le varie forme di dono che sono ancora presenti nella società
moderna e che spesso si incrociano con il contesto morale:
Doni cerimoniali, intesi come quelli di nozze, per i compleanni, Natale, ecc. finalizzati
al mantenimento di legami già esistenti; ciò nonostante non sono estranei ai principi di
calcolo, valore ed equivalenza che sono cruciali nella scelta del dono che però fa
circolare quella che prima era una merce in una sfera di valore diversa;
Doni in famiglia, di solito non sottoposti al principio del calcolo poiché in una
famiglia i membri cercano di darsi di più, di aiutarsi l’un l’altro;
Volontariato, che ha un ruolo rilevante ed aiuta lo Stato in settori dei quali non
riuscirebbe ad occuparsi appropriatamente. Esistono grazie alle donazioni dei
partecipanti e grazie all’intreccio e alla disposizione del mercato e dei servizi pubblici;
Economia etica e commercio equo e solidale;
Donazioni di sangue, organi, cellule staminali e tessuti a fini medici, in molti Paesi
accettata solo come pratica volontaria data la sacralità del corpo.
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Riassunto by MPfattner
Comunque questi interagiscono il mercato e lo Stato, i regali cerimoniali o in famiglia per
esempio vengono acquistati dal mercato e le donazioni di sangue vengono controllate da
organismi medici statali. Ma le pratiche di dono comunque si intrufolano costantemente nelle
relazioni gestite dallo Stato e dal mercato in quanto spesso, anche in semplice rapporto di
diritti e doveri sul capo lavorativo, si instaura un rapporto umano.
Arjun Appadurai, in un libro del 1996 intitolato Modernità in polvere, discute cinque forze
attraverso le quali agisce la globalizzazione. Sono:
Ethnoscapes, il panorama dei gruppi in movimento, dai flussi migratori al turismo;
Technoscapes, riguardo la tecnologia e la sua diffusione;
Financescapes, i movimenti del capitale globale;
Mediascapes, la produzione elettronica ed informatica;
Ideoscapes, la circolazione di idee, valori, ecc.
Gli individui si muovono tra queste forze e in questo contesto costruendo mondi immaginati
nei quali sono comunque forti le costruzioni politiche, ideologiche, economiche.
Dunque le teorie dell’omologazione non si interessano all’influenza del globale sul locale; si
tratta di un’influenza che l’antropologia deve affrontare empiricamente volta per volta
conducendo, come suo solito, ricerche su unità di luogo cioè su gruppi di persone con legami
e accumunate da un linguaggio, dei valori, ecc. comunque, si sa che pur circolando in maniera
globale, le risorse acquistano significati in base al contesto locale che possono essere capiti
solo attraverso il metodo della comparazione. Prendiamo le serie tv come Beautiful. Si tratta
di una storia standardizzata, con contenuti narrativi elementari e personaggi con un tenore di
vita alto che incarnano le ideologie occidentali dominanti. Ovviamente chi vive nel Nord
America o nell’Europa industrializzata coglierà un significato diverso rispetto chi vive nelle
baraccopoli. Allo stesso modo il calcio, pur essendo accumunato da regole dettata da una
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Riassunto by MPfattner
Federazione Internazionale e da un pubblico, assume significati diversi, per esempio il Brasile
di lotta al razzismo, in Camerun di lotta contro la violenza, ecc.
Il tempo e lo spazio sono sempre state categorie essenziali nella ricerca antropologica, che ha
sempre fondato il suo lavoro sullo spostamento verso un altrove, verso un altro luogo.
L’antropologo può descrivere l’ambiente in modo soggettivo (riportando le sue impressioni) o
oggettivo (il clima, la geologia, flora e fauna) e spesso distinguendo elementi naturali
(indipendenti dall’uomo, come corsi d’acqua, condizioni climatiche, vegetazione) e antropici
(centri abitati, fabbriche) ecc. Spesso a prevalere sono i secondi dato che l’ambiente pure non
esiste più, come non esiste un determinismo ambientale per il quale l’ambiente determina il
comportamento dell’uomo, infatti accade sempre il contrario. Ovviamente, lo spazio nella
ricerca antropologica fornisce solo la cornice a ciò che poi sono i temi principali (famiglia,
politica, economia, religione, ecc.).
Spesso le descrizioni iniziali degli antropologi però non coincidono con il punto di vista dei
nativi del posto e bisogna effettuare un trattamento culturale dello spazio, cioè considerare la
loro visione per descriverlo fino in fondo e capire come in base a questo vengano tracciati
confini, percorsi, ecc. l’antropologia interpreta il confine come un territorio su cui vive un
gruppo umano con determinati diritti. James Clifford in I frutti puri impazziscono del 1978 ha
narrato di un processo nel quale degli indiani del Wampaonag rivendicavano il possesso delle
loro terre passate sotto la proprietà privata; essendo una tribù scomparsa, la controparte
riteneva la richiesta pretenziosa. Dunque è difficile regolare i rapporti tra il territorio e i
gruppi umani. Un altro esempio è quello condotto da Ernesto de Martino in un saggio del
1951 sugli Aranda dell’Australia; l’antenato fondatore aveva delimitato un territorio
attraverso dei totem per poi uscire da questo e arrampicarsi su un palo, il kauwa-auwa, fino a
sparire. La tribù nomade prese l’abitudine a erigere un palo ovunque facessero tappa fino a
quando uno dei gruppi si lasciò morire per aver rotto il palo. Il mito significa che non si
possono padroneggiare il territorio in cui si vive.
Sul tema dello spazio sono intervenute Setha Low e Denise Lawrence-Zuniga con The
Antropology of Space and Place del 2003. Queste hanno sostenuto lo spazio come parte
essenziale dei criteri n base ai quali si comprendono le culture e le società. Anche Heidegger
penserà al concetto di spazio come la dimensione primaria del mondo, dato che ci abita,
lavora, costruisce, ecc. Il luogo ha assunto un ruolo importante nelle scienze sociali esaminato
in relazione alle pratiche sociali e quotidiane; è stato anche introdotto il concetto di non-luogo
da Marc Augé, distinguendoli dai luoghi (che implicano identità, relazioni, ecc.). Ai non-
luoghi nessuno può appartenere, sono posti come le stazioni, i metrò, nei quali si è solo
individui. Guardandoli da una prospettiva esterna, questi rimarranno sempre tali ma se
determinati individui entrano in familiarità con essi caricandolo di significati, vedendolo
magari come luogo di incontri, diventa un luogo nella prospettiva interna. Michel De Certeau
ne L’invenzione del quotidiano del 1984 in cui è importante la figura del pedone che cammina
per strada in mezzo ad altre persone ma non le saluta; indica l’alienazione della vita urbana.
Questi devono creare i loro percorsi ed è importante che lo facciano, perché altrimenti i luoghi
sarebbero immobilizzati sempre in uno stesso sistema. Sono comunque tre le ispirazioni
principali per approcciarsi ad un’antropologia contemporanea dei territori:
1. Etnografia del luogo entro le tradizioni culturali;
2. Il luogo e le dimensioni della memoria e della vita quotidiana;
3. Trasformazioni politiche, economiche e tecnologiche del mondo contemporaneo.
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Riassunto by MPfattner
Nello studio degli spazi è ancora importante distinguere le grandi metropoli, piccoli villaggi e
campagna dato che non è nelle prime (immagini di sviluppo e del futuro) che gli studi
antropologici si concentrano maggiormente. Le città sono il prodotto della rivoluzione
industriale, del capitalismo mentre alle campagne rimane legata la tradizione. Nel 1887
Ferdinand Tonnies con Comunità e società distingue questi due concetti, ponendo il primo
inteso come qualcosa di reale e sentito, fondato sui sentimenti e sui valori, e il secondo come
fondato sulla razionalità economica. Se le campagne e i piccoli villaggi possono essere
considerati ancora comunità, le città diventano basate sul modello societario. George Simmel,
in uno scritto del 1903, descrive l’esperienza urbana coma la forma più pura della vita
moderna in cui ogni individui si distacca dalla vita; questa visione ebbe molta importanza
sugli studi della Scuola di Chicago, il cui lavoro si basa principalmente su:
1. Il legame tra i fenomeni sociali e gli spazi concreti della città; studiosi quali Park,
Burgess e McKenzie spiegarono tale legame come approccio ecologico, cioè come
uno spazio nel territorio rubano che gli individui o i gruppi si ritagliano. Pur essendo
stata criticata, questa teoria ha sottolineato l’importanza dei legami sociali in relazione
allo spazio;
2. L’approccio etnografico tipico di molti studiosi della Scuola, come Anderson sui
hobo, Thomas sugli immigrati polacchi, Wirth nei ghetti; questi utilizzavano, oltre
all’osservazione, interviste, documenti come lettere e diari, ecc.;
3. La ricerca di migliori politiche urbane, cioè gli studiosi della Scuola si interessavano
di mostrare gli aspetti più marginali delle città in un certo senso creando un
collegamento tra folk e urban society, teorizzato da Redfield, che aveva studiato nelle
metropoli dei Città del Messico.
I suoi studi verranno criticati da Lewis ce sottolineerà come non ci siano valori e come anche
lì il sistema sociale era freddo e impersonale, senza la costruzione di relazioni. Lewis
criticherà anche la definizione di città di Wirth come stanziamento di individui eterogenei, ma
secondo Lewis la città può essere presentata come un grande meccanismo nel quale non
necessariamente ci si allontana anche dai rapporti primari.
Comunque da ipotesi discussa, lavorare nelle grandi città è diventata cosa normale. Ciò non
significa che studiare una città porti a considerare tali studi come parte dell’antropologia
urbana; è un campo in cui gli antropologi non sono i principali esperti e infatti alcuni dei
lavori più interessanti provengono da sociologi, economisti, ecc. Questo perché il metodo
etnografico spesso si rivela insufficiente in un ambiente così grande. Antropologi come
Mitchell, Turner, Colson e Epstein hanno condotto degli studi sulle città centro-africane in
rapida espansione negli anni ’50 compiendo un passo decisivo per l’antropologia urbana
riscontrando come nel contesto urbano non sia possibile costruire relazioni sociali come nei
villaggi di provenienza dove parentela e tribù circoscrivevano i rapporti. Anche il network ha
cambiato il modo di comunicare e stringere rapporti.
L’antropologia culturale si è sempre tenuta lontano dal trattare i temi della violenza e della
guerra; forse perché l’epoca d’oro della materia è di fatto coincisa con la fase culminante del
colonialismo e il loro principale oggetto di studio, i popoli extraoccidentali, ne sono stati
direttamente colpiti. Si pensi allo studio di Evans-Pitchard sui Nuer, in quel momento in lotta
con il governo anglo-egiziano tanto da organizzare una rivolta anche nel villaggio in cui
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alloggiava lo studioso che fa comunque un piccolissimo accenno del fatto. Si delineano due
correnti contrapposte sul tema:
La violenza fa parte della natura umana e la società, per funzionare, deve essere tenuta
sotto controllo; Norbert Elias ha parlato di un processo di civilizzazione volto a
eliminare aggressività e violenza, parla di un processo storico ma comunque naturale;
La civiltà è fondata su un atto originario di violenza che rappresenta il significato
nascosto del potere; si pensi a Frazer e al Ramo d’oro in cui si racconta della messa a
morte di un re divino in un determinato giorno dell’anno.
Nel 1972 René Girard in La violenza e il sacro ha affermato che la messa a morte di un capro
espiatoria da parte di un’intera comunità è il modo in cui la comunità evita la diffusione di
una certa violenza esistenziale.
È negli anni ’60 con I dannati della terra di Franz Fanon che il silenzio sul tema comincia a
incrinarsi ma è solo nell’ultimo decennio del Novecento che diventa un tema fondamentale. In
particolare diventa fondamentale coniugare lo studio antropologico con l’impegno etico-
politico, soprattutto nel momento in cui gli studiosi si trovano a lavorare in fieldwork under
fire, cioè in luoghi esposti a violenze, alle nuove guerre, quei conflitti combattuti tra forze
governative e ribelli all’interno di uno stesso Stato. È la guerra che nel Novecento ha
cambiato la natura: se la Prima guerra mondiale era stata combattuta dai soldati, la Seconda
vedrà come vittime principali i civili. Dopo un simile sconvolgimento, lavorare in campi
presso aree come Africa, Asia o America Latina significava affrontare faccia a faccia le
atrocità e i tormenti subiti dagli abitanti e questo fu fondamentale per la denuncia contro le
violenze di massa della modernità e l’indifferenza ad esse.
Bisogna comunque mantenere un equilibrio tra l’essere troppo vicini e troppo distanti al tema;
la figura dell’antropologo coincide con quella di colui che documenta le storie narrate da chi
le ha vissute ma la questione della testimonianza è complessa. Spesso capita che ad essere
intervistate non sono le vittime ma i perpetratori della violenza e diventa difficile sul piano
etico per l’intervistatore; ma la voce delle vittime deve essere sottoposta a una critica per
garantirne la verità; questo perché si richiamano aspetti che hanno toccato personalmente le
vittime e fanno riferimento al cuore e molto spesso alla memoria traumatica, spesso difficile
da interpretare per il rifiuto inconscio di richiamarla e dunque di esprimerla attraverso segni o
versi. Spesso si ricorre anche a forme pubbliche di elaborazione del lutto, come giornate della
commemorazione, monumenti, musei, ecc. per farlo spesso incrociare con il perseguimento
della giustizia cioè il lavoro delle istituzioni per accertare la verità e punire i colpevoli.
Le nuove guerre hanno assunto le sembianze di conflitti etnici; è stato solo recentemente
sottolineato che l’odio tra i vari gruppi non è dato dall’appartenenza al gruppo ma da
determinate forze politiche che hanno aizzato le differenze fino a farle sfociare nel genocidio.
Un tema così forte è affrontato ancora oggi, in particolare si pensa a come il Novecento,
secolo della nascita delle democrazie, è rappresentato dalle guerre mondiali, dai regimi
totalitari, dalla Shoah e dalla violenza dei carnefici contro altri esseri umani. Stanley Milgram
ha dimostrato che chiunque è in grado di compiere torture attraverso un esperimento
psicologico in cui un’autorità scientifica utilizza l’elettroshock per rafforzare
l’apprendimento. La vittima delle scosse (in realtà un attore) simula dolore e sofferenza ma la
compassione umana non riesce a sottrarsi all’autorità. Dunque, in clima di Shoah, chiunque
avrebbe potuto agire da carnefice. Si ribatte il concetto di banalità del male di Hannah Arendt
coniato in relazione a Adolf Eichmann, criminale di guerra nazista processato e difeso da se
stesso con l’affermazione di non aver mai fatto male a nessuno e non aver mai agito
direttamente, ma solo organizzando il lavoro. È una sorta di continuità tra normalità e
genocidio espresso da Nancy Schepere-Hughes con l’espressione continuum genocida per il
quale persone possono ridurre altre persone allo stato di mostri, diversi, ecc. È dunque
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sottilissimo il passo che separa crimini di pace e di guerra che deve essere costantemente
controllato.
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