SCIENZA POLITICA: studio e ricerca sui diversi aspetti della realtà politica attraverso il metodo delle scienze
empiriche e sulla base di un’ampia varietà di tradizioni di ricerca e approcci. Il settore si compone di varie
aree di ricerca: la metodologia e le tecniche della ricerca politica; le amministrazioni e le politiche
pubbliche; i processi politici europei, la politica sovranazionale e internazionale; i processi politici in
prospettiva comparata; il linguaggio e la comunicazione politica; la teoria politica empirica.
Oggetto di studio: il concetto di politica, che è molto più antico della disciplina
Sviluppo di un soggetto collettivo : la comunità degli scienziati della politica che pratica e diffonde la
disciplina
Sorge fin da sempre la necessità di coordinare il comportamento degli individui, la necessità di decidere su
questioni essenziali per la sopravvivenza o lo sviluppo della comunità; ogni comunità deve curare la politica,
decidere come governarsi, deve dare dei ruoli per prendere decisioni.
Studio empirico della realtà politica: come si fa politica, cosa succede nella realtà, guarda al
comportamento effettivo degli attori politici.
Si sono dovuti attendere gli scritti di Macchiavelli, nel XVI sec, per privare la definizione di “politica” di
quell’afflato normativo, prescrittivo e religioso che aveva caratterizzato il discorso della politica.
La politica aristotelica è caratterizzata da relazioni orizzontali, proprie del vivere in comunità. E’ dominata
dal principio di verità fondato sulla volontà divina, principio che tiene assieme politica, religione, morale e
diritto.Nell’epoca classicae in quella medievale da una parte abbiamo la politica intesa in senso aristotelico,
dall’altra parte il governo della collettività, caratterizzato da relazioni verticali che devono confrontarsi
costantemente con coerenza rispetto all’ordine naturale (o divino) delle cose. A partire dall’epoca romana
la verticalità del fenomeno politico viene ricondotta unicamente all’attività di governare una collettività.
Machiavelli viene considerato il primo pensatore capace di definire la politica in modo realista e autonoma
dalla dimensione morale e religiosa.
2) La politica perde la sua teologia finalizzata al bene comune, si libera dal “dover essere” per essere
ricondotta alla potenza del Principe e dello Stato.
Con Machiavelli la politica inizia quel percorso di autonomizzazione non solo dalla morale e dalla religione
ma anche dalla società e dall’economia. Con il processo di costruzione dello Stato moderno la politica inizia
a essere considerata come un’attività autonoma da altre sfere del comportamento umano anche se legata
al potere statuale.
La politica secondo Max Weber: “Aspirazione a partecipare o a esercitare una certa influenza sulla
distribuzione del potere, sia tra gli Stati sia, all’interno di uno Stato, tra i gruppi di uomini che esso
comprendere entro i suoi confini. Chi fa politica aspira al potere.” – Weber segna l’inizio della storia
contemporanea della politica e della sua analisi. Con la netta focalizzazione sul potere (il suo esercizio, la
sua capacità di determinare comportamenti collettivi, la sua distribuzione, le sue tecniche e dinamiche
relazionali) la politica trova finalmente un ambito proprio e può essere studiata in modo autonomo.
David Easton: allocazione imperativa di valori, laddove per valori di intendono beni sia materiali sia
simbolici. La politica ha una dimensione processuale, essa si svolge “in” o “intorno a” sedi specifiche, che
sono quelle in cui si prendono le decisioni collettivizzate. La politica deve allocare imperativamente valori
cercando di ridurre il tasso di incertezza rispetto agli effetti delle proprie azioni. Questa ricerca/lotta per il
potere deve dare risposte ai problemi collettivi, rassicurando i cittadini rispetto al loro futuro.
Giovanni Sartori: la sfera delle decisioni collettivizzate (rapporti di potere fra stati), sovrane,
coercitivamente sanzionabili – potere pubblico di costringere) e senza uscita (la cittadinanza definisce chi fa
parte dello stato, i diritti e i doveri). Le decisioni politiche investono materie diversissime: possono essere di
politica economica, di politica del diritto, di politica sociale, di politica religiosa, di politica dell’istruzione. Se
tutte queste decisioni sono politiche è per il fatto che sono decisioni collettivizzate sovrane prese dal
personale collocato in sedi politiche.
La politica, però, non è solo potere. Per mantenere l’ordine sociale essa deve anche:
Hugh Heclo: la politica è un’attività con la quale si cerca di affrontare la complessità e la contraddittorietà
del vivere sociale al fine di trovare risposte affidabili per la collettività e un ordine sociale legittimato.
La politica ha quindi una doppia natura, lotta per il potere e policy making.
Essa può essere studiata partendo dalle domande di Lasswell (1936): “chi ottiene cosa, dove e come”.
Rispondere a queste domande significa:
- Capire come la lotta per il potere si strutturi in una determinata collettività e come essa cerchi di
fare risposte ai problemi collettivi;
- Affrontare in modo empirico.
Chi fa politica? Può essere fatta da una miriade di potenziali attori individuali e collettivi – dalle élite
socioeconomiche ai gruppi di interesse, dai partiti ai movimenti, dai funzionari amministrativi ai singoli
cittadini.
Che cosa si ottiene con la politica? Il perseguimento di un determinato ordine sociale che è influenzato
dallo specifico contesto socioeconomico e dal tipo di regime politico, ma il risultato aggregato dell’azione
politica contiene al proprio interno gli obiettivi singoli dei diversi attori.
Come si perseguono i propri fini in politica? Il “come” della politica è fatto di confronti tra interessi e idee
divergenti che possono trovare diversi tipi di risoluzione.
Dove si perseguono i propri fini in politica? L’ambito di un’azione politica non può che essere una
collettività in cui vi sia un organismo deputato a prendere decisioni collettivizzate. Chi agisce politicamente
lo fa per ottenere risultati e questi risultati si ottengono se vengono recepiti da una decisione collettivizzata.
“La scienza politica è la disciplina che studia i fenomeni politici al fine di comprenderne la natura e spiegarli
mediante l’adozione delle metodologie proprie delle scienze empiriche.”E’ una scienza empiricamente
orientata. Deve dare dimostrazione che le sue affermazioni sono suffragate dall’evidenza dei fatti.
Le origini
La scienza politica ha origini diverse in Europa rispetto agli Stati Uniti. Anche se gli studiosi della scuola
elitista europea (Mosca, Pareto, Michels) sono considerati i padri della scienza contemporanea. Essa può
svilupparsi solo in un contesto democratico. Alla crisi del processo di democratizzazione in Europa ha
corrisposto il congelamento, per certi versi regressivo, dell’evoluzione della scienza politica. Mentre negli
Stati Uniti, proprio nel ventennio tra le due guerre, in corrispondenza con un passaggio significativo
dell’evoluzione del sistema politico americano (il New Deal), la scienza politica comincia a irrobustire le sue
radici. Il processo di espansione in Europa è favorito da una profonda e diretta influenza degli Stati Uniti.
Ostacoli per lo sviluppo della scienza politica in Italia: la forza dell’idealismo filosofico, il materialismo
marxista-leninista, la tradizione giuridica, la ideologizzazione della vita politica postbellica, la cultura anti
empirica delle élite politiche del paese, le resistenze accademiche rispetto a una nuova disciplina che
potrebbe modificare gli equilibri corporativi.
Nomina nel 1963 a professore ordinario di Giovanni Sartori (il padre della scienza politica italiana
ottiene in quell’anno la cattedra di Sociologia, per poi passare a quella di Scienza Politica)
Pubblicazione dei primi lavori empirici
L’apertura e il ruolo nei primi network internazionali della ricerca
Altri finanziamenti americani, nuovi centri di formazione e di ricerca
La decisione ministeriale di consentire alle Facoltà di Scienze politiche l’inserimento del corso di
Scienza politica nel primo biennio
Quattro sono le discipline che, preesistendo alla scienza politica, hanno rappresentato i punti di riferimento
e di sfida per la nuova disciplina: la filosofia politica, l’economia politica, il diritto pubblico e costituzionale e
la sociologia.
Sia la filosofia sia la scienza politica focalizzano l’attenzione su una domanda costitutiva del comportamento
umano: com’è possibile l’ordine politico? La filosofia politica assume una prospettiva normativa, mentre la
scienza politica aspira a spiegare il perché un ordine sociale prevale in un dato momento. Per i filosofici
politici la realtà della politica viene confrontata e giudicata con un coerente sistema teorico mediante il
quale viene valutato se ciò che è nella realtà si conforma al principio del dover essere; per gli scienziati
politici invece la realtà è la fonte dei dati necessari a capire e spiegareperché e come un determinato
fenomeno politico si è manifestato in uno specifico modo.
La scienza politica:
L’economia si divide in microeconomia (che studia il comportamento individuale di chi consuma e chi
produce e le loro interazioni) e la macroeconomia (che studia il comportamento economico di un sistema e
gli interventimediante i quali è possibile condizionare i comportamenti microeconomici proprio per
cambiare le performance di sistema).
Evoluzione e specializzazione della scienza politica: essa si origina da una comune matrice teorica che è
quella del comportamentismo. Si tratta di un movimento epistemologico che spinge a focalizzare
l’attenzione degli studiosi sul reale comportamento politico degli individui, senza prestare attenzione al
potere e al ruolo delle istituzioni. L’epoca comportamentista produce anche un tentativo di teoria generale
per l’analisi della politica, quella proprio di Easton, che propone il primo approccio teorico in cui lo Stato
non è il centro motore della politica. Il declino del progetto eastoniano ha prodotto una significativa
frammentazione; la scienza politica ha visto l’emergere e il coesistere di diversi paradigmi teorici.
Pluralismo teorico - la scienza politica si caratterizza per una pluralità di approcci teorici, cioè di modi con
cui possiamo vedere le cose e interpretare i fenomeni (politici).
Pluralismo metodologico
L’approccio strutturalista designa tutte le visioni che guardano a fattori strutturali, per lo più
socioeconomici, per spiegare eventi e comportamenti politici;
L’approccio pluralista (che deriva dal comportamentismo) enfatizza la rilevanza delle azioni e delle
interazioni tra gli attori nell’influenzare gli esiti del processo politico;
L’approccio neo-istituzionalista che focalizza l’attenzione sul ruolo che le istituzioni, variamente
intese, giocano nel determinare i processi politici. L’approccio neo-istituzionalista si divide al suo
interno tra le filiere rational choice, storica e sociologica (istituzioni come convenzioni che
vincolano il nostro operato);
L’approccio culturalista che assume la cultura, i valori e le idee siano fondamentali determinati del
comportamento politico.
1)offrire ai cittadini e ai decisori una visione dei fenomeni politici, delle loro cause e dei loro potenziali
effetti, de-ideologizzata ed empiricamente fondata.
2)educare alla democrazia “svelando” come davvero funziona la politica, facendone emergere vizi e
problemi. Aiuta la democrazia a correggere i propri errori e a migliorarsi.
Obiettivi– sono oggetto di dibattito irresolubile poiché fondato su scelte epistemologiche tanto ineludibili
quanto immodificabili; la scienza politica:
Che cos’è la ricerca politica e sociale - non è solo apprendimento autocosciente, ma è anche
apprendimento metodologicamente autocritico. Quando ci proponiamo di conoscere in maniera scientifica,
compiamo due “atti di fede”; la prima è una premessa di tipo ontologico, e consiste nello scommettere che
la realtà politica e sociale è caratterizzata da una certa regolarità, la seconda è di tipo epistemologico e
consiste nello scommettere che possiamo effettivamente conoscere quella realtà. Queste due premesse
consentono di applicare metodi di osservazione, concettualizzazione e misurazione della realtà che possono
portare a conoscenze valide. La realtà politica è mutevole e caratterizzata da casualità, aleatorietà e
irripetibilità. Il concetto di “scientificità” è storicamente e culturalmente determinato.
Scientificità della ricerca politica - la ricerca politica è scientifica nella misura in cui raccoglie delle
osservazioni, elabora dei concetti e costruisce delle proposizioni che seguono procedure condividibili e
replicabili.Ogni ricerca politica poggia su premesse:
Il dibattito sulla scienza - la scientificità delle scienze sociali è stata oggetto di lungo dibattito sulla filosofia
della scienza:
1. PerWittgenstein e il circolo di Vienna sono scientifiche solo le proposizioni fattuali che creano un
collegamento fra oggetto e soggetto, fra realtà e studioso; “teoria dell’unitarietà”: la conoscenza
dei fatti sociali non era diversa dalla conoscenza dei fatti naturali. In entrambi i casi si trattava di
stabilire una connessione fra la realtà (l’oggetto) e l’agente sociale o lo studioso (il soggetto). La
realtà sociale infatti non si presenta immediatamente al soggetto, ma è mediata dai concetti, dai
termini e dalle teorie con i quali il soggetto rappresenta a sé la realtà.
2. Bentley e Truman affermano che i fatti sociali sarebbero conoscibili e riducibili a leggi come i fatti
naturali. Entrambi avevano impostato lo studio del “processo di governo” come uno studio
empirico volto a cogliere i comportamenti e le attività invece che gli stati mentali ed emotivi ad essi
collegati. Gli oggetti della scienza politica erano dati “duri” – comportamenti e attività – e non
“molli” – stati mentali ed emotivi. Bentley ambiva a elevare lo status epistemologico di queste
scienze a quello delle scienze naturali caratterizzate da verificabilità e replicabilità.
3. Dilthey (riprendendo Weber) ritiene invece che la realtà politica può essere conosciuta e spiegata
solo tenendo conto degli stati emotivi e cognitivi degli attori sociali.
Le scienze naturali avrebbero a che fare con “dati duri”, quelle sociali con “dati mobili”.
Il progresso della conoscenza - nel tempo all’induttivismo ingenuo (conoscenza come accumulazione di
osservazioni) si sostituisce sempre più il deduttivismo secondo cui la conoscenza procede sempre da
congetture (pre-teorie) che vengono poi sottoposte a verifica empirica:
- Popper: la falsificazione delle teorie come processo per far avanzare la scienza; compito della
scienza è di sottoporre le teorie scientifiche a falsificazioni, al tentativo cioè di individuarne le
debolezze ed eliminarle in un continuo raffinamento e rafforzamento delle stesse.
- Kuhn: la scienza progredisce per “rivoluzioni scientifiche”, quando a un paradigma scientifico
dominante se ne sostituisce un altro. La scientificità delle teorie consiste nell’attenersi agli statuti
epistemologici in quel momento prevalenti. Il concetto stesso di “scientificità” è socialmente
determinato: la garanzia di qualche forma di “oggettività scientifica” risiede nel consenso della
comunità scientifica che condivide quell’insieme di teorie, leggi e procedure che formano un
paradigma.
- Lakatos: la scienza progredisce correggendo e migliorando incrementalmente le teorie esistenti
tramite l’aggiunta di ipotesi ad hoc. Ogni teoria è collegata a un “programma di ricerca” costituito
da un nucleo centrale di ipotesi di base che è possibile preservare da falsificazioni affrettate grazie
all’aggiunta di ipotesi ancillari che le rendano più capaci di spiegare la realtà.
Obiettivi della scienza politica - la scienza politica può avere diversi obiettivi:
Orientamento positivista
una semplice raccomandazione basata su una previsione oppure, in senso normativo, un precetto a
cui è opportuno o giusto attenersi.
Orientamento costruttivista – scienza che ritiene che la realtà sociale non esista di per sé “la fuori”, ma
venga costruita attraverso le mappe concettuali e valoriali degli attori sociali. Per comprendere l’azione
sociale e politica, gli studiosi devono ricostruire queste mappe concettuali e valoriali.
Gli strumenti della ricerca - I concetti sono lo strumento principale dello scienziato sociale: per questo
motivo è imperativo che i concetti siano definiti con precisione e che a essi siano associati termini univoci
Concetti e definizioni - Il concetto è una relazione triadica fra un significato, un oggetto e un termine
(Sartori). Il rapporto fra termine e significato deve essere univoco (assenza di ambiguità) e il rapporto fra
significato e oggetto deve essere preciso (assenza di vaghezza).Per Marradi la realtà può essere suddivisa in
molti modi diversi a seconda delle esperienze vissute della popolazione che usa il linguaggio e delle
esigenze del ricercatore.
Va definito il fenomeno che si intende descrivere, spiegare o interpretare: la variabile dipendente. Sartori
distingue concetti teorici (che non rimandano ad alcun referente osservabile) da concetti empirici (che
rimandano a referenti osservabili). La definizione di un concetto deve contenere tutte e solamente quelle
proprietà o caratteristiche del concetto che servono a distinguerlo univocamente da altri concetti affini.
Variabili
I concetti devono potersi trasformare in variabili: insiemi di caratteristiche che possono essere
presenti in quantità maggiori o inferiori, al limite essere presenti o assenti (e quindi variare);
I concetti possono essere empirici o teorici a seconda che derivino dall’esperienza sensoriale o da
aspettative teoriche.
L’analisi concettuale porta ad identificare l’intensione (connotazione) del concetto: l’insieme delle
caratteristiche che unicamente definiscono quel concetto-termine;
L’insieme degli oggetti unicamente denotati da un concetto è l’estensione (denotazione);
Fra intensione ed estensione esiste un rapporto inverso: quanto maggiore il numero delle
caratteristiche che identificano un concetto, tanto minore il numero degli oggetti da esso denotati e
viceversa.
Sartori è un comparativista, e cioè concepisce la ricerca scientifica soprattutto come ricerca comparata. Ci
incoraggia a usare concetti che ci permettono di comparare più casi e quindi a trarre inferenze valide e
significative dalle nostre indagini.
L’intensione del concetto permette di stabilire con precisione l’estensione, cioè quali casi empirici vengono
denotati dal concetto e possono essere strumento della nostra indagine. I concetti sono le variabili della
nostra ricerca. Per utilizzarli come tali, dobbiamo tradurre le caratteristiche che compongono la loro
intensione in altrettanti indicatori osservabili, e ciò consiste l’operazionalizzazione del concetto. Ciascuna di
queste caratteristiche deve a sua volta essere misurata da un indicatore, in modo da rendere possibile la
determinazione della presenza o assenza della caratteristica del referente empirico. Se i concetti sono le
variabili dello scienziato della politica, allora devono poter variare e cioè assumere valori differenti.
La scala di astrazione
I concetti si situano su una scala di astrazione che li collegano a concetti affini, la cui intensione ed
estensione sono però diverse;
Ogni caratteristica dell’intensione deve poter essere “misurata” e dare luogo a un indicatore, la cui
“sommatoria” genera un indice riassuntivo (operazionalizzazione).
Classificazione e tipologie
Le associazioni dipenderanno in parte da nozioni o teorie già note; il fatto che nessuna ipotesi viene
formulata nel vuoto ma viene sempre comunque ispirata da teorie o pre-teorie già esistenti potrebbe
indurre gli studiosi a ignorare caratteristiche molto interessanti proprio perché nessuna teoria finora aveva
suggerito che potesse sussistere tale associazione. Qualora vengano identificate delle associazioni
sistematiche fra caratteristiche, la classificazione dà luogo a una tipologia. Il termine “tipo” indica una
sottospecie del genere che mostra caratteri tipici rispetto ai caratteri generali. Le classificazioni e le
tipologie devono risultare collettivamente esaustive, e cioè tutti gli esemplari devono poter essere
posizionati in una casella. I tipi devono essere mutuamente esclusivi.
Proposizioni generalizzate
L’ambizione degli scienziati sociali neopositivisti è di arrivare a proposizioni generalizzate, talvolta chiamate
anche “quasi-leggi”. Se solo il numero delle variabili indipendenti rilevanti potesse essere controllato anche
lo scienziato sociale potrebbe arrivare a conclusioni nomotetiche. La scienze sociali sono caratterizzate dal
fatto che a essere oggetto di osservazione e analisi sono esseri umani che hanno capacità di imparare e
reagire; le scienze sociali quindi possono al massimo aspirare a generare preposizioni generalizzate limitate
nel tempo e nello spazio a eventi validità statistica.
Data una stessa situazione problematica, scienziati sociali diversi si porranno domande diverse a seconda
della tradizione disciplinare a cui appartengono. Il primo passo è giustificare il quesito (puzzle) della ricerca.
A sua volta la ricerca può avere la finalità di esplorare un fenomeno fino a quel momento ignorato o
sottovalutato oppure può avere lo scopo di affinare una teoria esistente che mostra una sua inaspettata
debolezza. Ciò che conta è stabilire una connessione fra la domanda, la teoria che viene mobilitata al fine di
rispondere alla domanda e il caso o il casi empirici da studiare al fine di accertarsi che la teoria risponda alla
domanda di ricerca sollevata.
Elaborazione e controllo delle ipotesi - Lo scienziato sociale cerca in ogni passaggio di monitorare il proprio
ragionamento e di evitare accuratamente gli errori più comuni che sono:
1. La sovra generalizzazione del risultato – concludere che quello che vale per i casi che conosciamo
valga per tutti i casi possibili
2. Le osservazioni sbagliate (poco precise, erronee, insufficienti) – si vede quel che si vuole vedere
3. I ragionamenti viziati–rigettare le ipotesi che non derivano dalla nostra teoria preferita
Strategia della ricerca - Al fine di arrivare a proposizioni generalizzate, si possono seguire strategie di
ricerca diverse:
- Most similar cases design (MSCD): analizza casi simili in tutto tranne che una o poche variabili per
identificare le cause sufficienti a spiegare il diverso comportamento dei casi;
- Most dissimlar cases sesign (MDCD): analizza casi dissimili in tutto tranne che in una variabile che
sarà la causa sufficiente a spiegare il simile comportamento dei casi.
Ipotesi
- I concetti-variabili devono poi essere collegati fra loro in proposizioni verificabili: si arriva per
questa via alla generazione di ipotesi di ricerca ed eventualmente a proposizioni generalizzate;
- Le ipotesi vengono spesso suggerite dall’osservazione di collegamenti sistematici fra variabili.
Il numero di variabili indipendenti rilevanti e il numero di casi di cui si dispone determinano il tipo di
strategia di analisi da utilizzare. Se analizziamo due o più casi in base a una caratteristica, avremo una
classificazione, se analizziamo due o più casi in base a due caratteristiche potremo generare una tipologia.
Se analizziamo un caso in base a una o più variabili indipendenti avremo una descrizione o uno studio di
caso. Se analizziamo due casi in base a uno o più variabili avremo una descrizione binaria. Se il numero delle
variabili indipendenti rimane inferiore al numero dei casi di studio potremo scegliere e utilizzare il metodo
comparato (qualitativo) oppure il metodo statistico (quantitativo). Quanto più crescono le variabili e i casi
tanto più dovremo utilizzare il metodo statistico perché non potremo più gestire qualitativamente i dati.
Il metodo comparato (Arend Lijphart 1971): si basa su una selezione giudiziosa dei casi; è possibile
selezionare i casi in moda da “controllare” alcune variabili indipendenti, cioè non farla variare. I risultati di
questa strategia d’analisi sono significativi ma non possiamo attribuire un valore alla loro validità.
Il metodo statistico (quantitativo): analisi di più dati; i risultati del metodo sono meno significativi ma
sicuramente più affidabili.
La scienza politica contemporanea si orienta con preferenza verso i metodo quantitativi.
Metodi di ricerca scientifica - Spesso il numero di variabili e casi suggeriscono la strategia e i metodi più
opportuni:
- quando il numero delle variabili è elevato, occorre necessariamente utilizzare metodologie statistico-
quantitative;
- un numero limitato di casi si presta bene alle metodologie qualitative. Quando il numero di casi
(osservazioni) è basso, è possibile talvolta aumentarlo riducendo il livello d’analisi;
- è possibile anche generare, confermare o refutare proposizioni generalizzate anche attraverso un singolo
studio di caso.
Tra i metodi qualitativi si distingue il “metodo comparativo”, cioè l’analisi di casi il più simili fra di loro
(tranne che nella variabile dipendente) al fine di isolare la variabile che causa il diverso comportamento
(questa operazione si chiama “controllo delle variabili”)
Obiettivi della ricerca - Gli obiettivi più comuni della ricerca politologica sono:
- Analisi del contesto, che comporta “l’immersione” del ricercatore nel fenomeno da spiegare e può
avvenire attraverso l’osservazione pure o partecipante oppure anche attraverso la raccolta di molti
dati primari e secondari;
- Analisi dei messaggi, cioè l’analisi dei documenti, dei testi o dei discorsi nei quali spesso consiste
l’azione politica;
- Analisi delle risposte, cioè i sondaggi di opinione, i comportamenti di voto e le interviste non
strutturate
Regime politico: insieme di strutture, regole e procedure con i relativi valori e principi di riferimento – la
nozione è collegata a quella di sistema politico; il primo costituisce una componente cruciale del secondo –
assieme alla comunità politica e all’autorità. Un regime specifico che ha contraddistinto “l’ambiente politico
moderno” è lo Stato. Regime è sinonimo di ordinamento, cioè di un insieme di norme volte a organizzare in
modo stabile e regolare qualche aspetto ritenuto rilevante della nostra esistenza. Nelle relazioni
internazionali si è soliti definire il “regime internazionale” come un insieme di regole, norme e procedure
condivise che è il risultato di elevati livelli di cooperazione.
AUTORITA’: le “posizioni cui competono le responsabilità di governo”, cioè i ruoli coinvolti nella produzione
delle decisioni vincolanti e che sono costituite dalla classe politica nelle sue molteplici articolazioni
(governativa, rappresentativa, partitica);
COMUNITA’ POLITICA: “gruppo di individui che si identifichino reciprocamente sul piano politico, ossia, si
considerano come un’entità soggetta alle stesse regole fondamentali per effettuare delle allocazioni
autoritative”. Due accezioni: comunità di cittadinanza (che rimanda al complesso di diritti civili, politici,
economici e sociali) e comunità di sentimento (fa riferimento alla comunità di appartenenza e
all’identificazione di uomini e donne in una comune storia e tradizione);
REGIME POLITICO: “modo in cui il potere è distribuito tra i vari ruoli e posizioni all’interno del sistema
politico”. Norme e regole volte a definire l’accesso alle cariche pubbliche e valori condivisi.
Dimensioni del regime politico - Gli elementi che contraddistinguono il regime politico (Finer) sono: il
territorio; l’organizzazione; la classe politica; il tipo di legittimazione su cui si fonda il regime politico.
IL CONTROLLO DELLA COERCIZIONE: un regime politico costituisce una forma di potere (politico)
stabilizzato, cioè un sistema strutturato di relazioni volto a produrre decisioni e comandi al fine di
modificare il comportamento altrui nella direzione desiderata. Tale possibilità implica il ricorso alla forza
fisica. Per Dahl l’azione politica rimanda sempre al “potere, norma, autorità”, mentre per Almond e Powell
(che riprendono Weber), la politica ha a che fare con l’esercizio della coercizione fisica legittima. Forza
militare ed eserciti rappresentano un requisito necessario per la sopravvivenza del regime, della comunità e
delle autorità politiche. Il format militare:
IL TERRITORIO: i regimi politici sono entità territoriali l’appartenenza alle quali è definita da confini
geograficamente identificabili. Il format territoriale (Finer):
1) Lecittà-Stato (le polis): città autonome e sovrane che controllano un territorio molto ampio;
possono essere governate secondo modalità chiuse o gerarchiche (come nelle città mesopotamiche
o a Sparta) o in forme più aperte e democratico-repubblicane (come Atene, la Repubblica di Roma,
i comuni medievali);
2) GliStati in senso stretto: Finer li distingue in Stati territoriali, o generici, nei quali esiste il controllo
amministrativo (e militare) di un certo territorio, e in Stati nazionali, dove è centrale la
consapevolezza di far parte di una stessa comunità politica;
I primi due tipi di regole attengono alla “divisione orizzontatale” dei poteri, cioè alla ripartizione delle
funzioni tra organi o istituzioni che in un dato sistema politico detengono la sovranità, ovvero il potere
autonomo e stabile di prendere decisioni vincolanti e di farle applicare. Il terzo insieme di regole fa
riferimento alla “divisioni verticale” dei poteri che dà alle architetture istituzionali una configurazione più o
meno centralizzata o decentralizzata rispetto alle istanze che emanano dai territori.
LA LEGITTIMITA’: ogni regime implica due elementi (Weber); il primo, un insieme di apparati più o meno
presenti a seconda del grado di strutturazione delle relazioni di dominio; il secondo, la legittimità necessaria
affinché le forme di dominio si stabilizzano e durino nel tempo. Monopolio della forza e legittimità danno ai
regimi politici la massima capacità obbligante poiché nessun individuo o gruppo che ricade entro la loro
giurisdizione si può sottrarre alle decisioni delle autorità. “La legittimità serve a umanizzare e addolcire le
relazioni tra gli individui e chi detiene il potere politico”. Tipi di legittimità:
1) Carismatica: credenze nelle doti straordinarie e nei poteri sovraumani del leader
2) Tradizionale: nella sacralità della tradizione e nella deferenza verso gli interpreti autorizzati
3) Razionale-legale: nella correttezza delle procedure formali e delle norme che regolano in modo
impersonale l’accesso ai ruoli di autorità, e nelle democrazie attraverso elezioni
4) Popolare: consenso della maggioranza
5) Eudemonistica: capacità di risposta ai bisogni dei cittadini come nel welfare state
Inizi anni Quaranta: ci si rese conto che fosse più utile guardare alle società come un insieme di reti e
relazioni e di interdipendenze tra elementi, così che un cambiamento in un qualunque punto (o parte) si
sarebbe inevitabilmente ripercosso su tutto il resto (il sistema). Il concetto di sistema politico finiva per
porre l’attenzione sulle relazioni tra elementi politici. In scienza politica la prospettiva sistemica sarebbe
diventata celebre agli inizi degli anni Cinquanta grazie a David Easton che pubblicò The Political System. Per
capire lo sviluppo dell’approccio sistemico vanno ricordati altri due importanti contributi: quello di Karl W.
Deutsch e quello di Gabriel A. Almonde e G. Bingham Powell.
Per Easton “l’idea di un sistema politico si rivela un punto di partenza appropriato e anzi inevitabile ” di una
scienza politica empirica.
Input Output
Black Box
DOMANDE (Within-input) DECISIONI
SOSTEGNI AZIONI
Feed-back (retroazione)
Esistenza di un regolare scambio o relazione tra il sistema – concettualizzato come una scatola nera o black
box – e il suo ambiente di riferimento. Easton spiega che l’ambiente di un sistema ha natura plurale, può
essere biologico, geografico, sociale o internazionale (cioè fatto da altri sistemi politici). Da tutti questi
ambienti il sistema politico riceve pressioni, input ai quali deve cercare di cercare di rispondere se vuole
adattarsi e sopravvivere. Il che avviene attraverso la produzione di output (o decisioni) vincolanti. Gli input
che arrivano dall’ambiente sono di due tipi.
Domande – che sono delle rivendicazioni o richieste di assegnazioni imperative di beni e valori. In
ogni sistema esistono varie unità di input che assolvono tale funzione di trasmissione delle
domande come le burocrazie, i partiti politici, i sindacati, i gruppi di interesse, l’opinione pubblica, i
mass media, i rapporti personali.
Sostegni– per poter processare e rispondere alle rivendicazioni che ricevono, “energia” che
consenta al sistema di funzionare. Tale sostegno può essere specifico, quando la conformità alle
decisioni è il frutto dei benefici e delle convenienze che più o meno direttamente ci si spetta di
ricavare dalla politiche pubbliche, oppure diffuso, come forma di accumulazione originaria di
credito e quindi di legittimità.
Within-input: famiglia di domande che provengono dall’interno dello stesso sistema e che arrivano
direttamente dai leader, partiti e istituzioni.
Non tutte le domande riescono ad accedere al sistema, essendo la loro trasmissione regolata da alcuni
meccanismi di filtraggio, selezione e composizione noti come gatekeepers (portieri). Tali meccanismi
manipolano le domande, bloccano quelle pericolose o innovative, ne riducono il volume quando cresce
oltre la capacità di risposta del sistema e controllano il rischio di sovraccarico che caratterizza i sistemi
politici, specie se democratici.
Conversione e funzioni di processo - La dinamica di un sistema politico implica una relazione tra domande:
conversione- risposte con il relativo feed back, cioè l’effetto per cui le risposte inevitabilmente finiscono per
incidere sulle condizioni che hanno alimentato le domande. Il problema è di cosa accade all’interno della
black box, vale a dire nella fare di conversione delle domande in risposte e rispetto alla quale il modello di
Easton dice poco.Lasswell propone di articolare il processo politico in sette stadi o funzioni: informazioni,
iniziativa, prescrizione, invocazione, applicazione, valutazione, terminazione.
Mentre per Almond e Powell il processo di conversione viene spacchettato in 4 funzioni che a loro volta
delimitano fasi o sub processi del sistema politico.
Articolazione degli interessi. Il processo politico è messo in moto quando gruppi o individui
formulano una “domanda” politica che ha a che fare con i loro interessi, bisogni, preoccupazioni e
la indirizzano al sistema politico. L’analisi richiede 2 aspetti: le caratteristiche delle strutture
politiche coinvolte, a partire dalla distinzione tra “strutture a-specifiche” (partiti, burocrazie,
militari) e “strutture specializzate” quali i gruppo di interesse; i diversi canali di accesso al sistema
politico (legali e illegali);
Aggregazione degli interessi. Implica la formulazione di programmi e di politiche generali attraverso
le quali gli interessi vengono presi in considerazione e richiede la mobilitazione di risorse politiche e
la costruzione di coalizione a sostegno dell’aggregazione. Tre stili di aggregazione che
corrispondono al altrettanti tipi di partito: la negoziazione, basata su compromessi e flessibilità
(partiti pragmatici); il riferimento a valori assoluti che comporta l’affermazione di principi rigidi
(partiti ideologici); la tradizione dove prevale la rappresentanza di interessi settoriali o territoriali
(partiti particolaristici);
Formulazione delle politiche pubbliche o “produzione delle norme”. Le domande vengono
convertite in decisioni dotare di autorità e ciò implica la mobilitazione del consenso e il lavoro di
costruzione di coalizioni attorno a temi o policy. Almond e Powell classificano 4 categorie di output
o politiche pubbliche: estrattivi (appropriazione di risorse di qualche tipo proveniente dall’ambiente
esterno, tassazione, forma di servizi obbligatori); regolativi (controllo-sanzione dei comportamenti
di individui nella società); distributivi (allocazione a individui di denaro, beni materiali, servizi,
cariche pubbliche, onori, status e opportunità); simbolici (rafforzano la legittimità del sistema
politico e le identificazione dei cittadini, comprendono discorsi politici, rituali e cerimonie, feste
civili ecc.);
Esecuzione e amministrazione delle politiche . Una volta formulate le politiche devono essere
attuate attraverso 2 canali; quello burocratico, il che implica l’applicazione e messa in opera delle
decisioni da parte delle burocrazie pubbliche, e quello giudiziario, che ha a che fare con la funzione
di amministrazione della giustizia e di regolazione dei conflitti a opera della magistratura.
Alle funzioni relative al processo politico, Almond e Powell ne aggiungono altre 3 a carattere sistemico:
LO STATO - Lo Stato, che siamo soliti accompagnare con la qualificazione di moderno, come lo conosciamo
in Europa, costituisce solo una delle possibili forme di governo politico. Finer afferma che “contrariamente
a quanto molti ritengono, l’Europa non ha inventato lo Stato, ma lo ha reinventato dopo un lungo periodo
in cui al crollo (dell’Impero ottomano) era seguita una condizione di quasi anarchia e di feudalesimo. Il
risultato della reinvenzione era per molti aspetti diverso da qualunque altra forma-Stato apparsa in
precedenza. Questa forma-Stato è diventata adesso l’unità fondamentale di tutto il mondo”. Esso inoltre si
è “globalizzato”, propagandosi nel resto del mondo.
Grandi fasi dello sviluppo dello Stato in Europa Macro processi di sviluppo dello Stato nazionale
occidentale (Poggi) europeo (Bartolini)
Prima macro fase (tra il XIII-XV secolo)
1.Consolidamento territoriale 1.Formazione dello Stato territoriale
[2.Razionalizzazione del dominio]
Seconda macro fase (dal XVI a metà XIX secolo)
2.bis. Razionalizzazione del dominio 2.Sviluppo capitalistico
3.Formazione della nazione
[4.Prime democratizzazioni]
Terza macro fase (seconda metà del XIX secolo alla seconda metà del XX secolo)
3.Espansione dello Stato [3.bis. Nazionalismo]
4.bis. Democratizzazioni
5.Stato sociale
Quarta macro fase (anni ’70 del XX e inizio XXI secolo)
4.Crisi dello stato 6.Europeizzazione e globalizzazione
La formazione dello Stato territoriale - I tratti necessari senza i quali non si ha un regime-Stato sono:
Tutti questi caratteri sarebbero stati acquisiti in paesi come la Spagna, l’Inghilterra e la Francia già nel corso
delle prime fasi del processo storico di costruzione dello Stato, che Poggi definisce il consolidamento
territoriale. La formazione dello stato produsse una spinta alla secolarizzazione della società, alla
sostituzione della legittimazione trascendente e spirituale dei regimi politici con una legittimazione
immanente e spirituale. Nel corso del tempo lo stesso Stato sarebbe stato oggetto di sacralizzazione
diventando totalitario.
Secondo Bartolini l’idea di “integrazione” tra diversi tipi di rapporti sociali e economici ha differenziato lo
stato moderno europeo da qualunque altro tipo di regime politico. La formazione dello Stato territoriale
avrebbe prodotto esiti molto diversi a seconda dell’incidenza di tre fattori di mutamento: le variazioni - a.
nella statualità (forza e capacità di governo), b. nei modelli di mobilitazione della popolazione (fattori di
classe o territoriali), e c. nella struttura delle opportunità (diritti politici acquisiti o persi).
- La burocratizzazione;
- La creazione di eserciti permanenti;
- La legittimazione;
- L’omogeneizzazione culturale dei sudditi;
- La prima è quella di Tilly, che prende in esame i processi di democratizzazione in Europa. Per Tilly la
realizzazione della democrazia consiste nell’istaurarsi di una relazione tra autorità e cittadini che
comporta “uno spostamento complessivo verso una consultazione più ampia, uguale, protetta e
vincolante”. I risultati di tale macroprocesso dipendono, oltre che dal grado di contestazione o
competizione, dalla capacità dello Stato di mettere in pratica le decisioni politiche che assume o
dalla capacità di governo. Tipi di regimi di Tilly (2007)
- PerDahl, le democrazie di massa sono contraddistinte dalla capacità di “rispondere” alle preferenze
espresse dai cittadini considerati politicamente uguali. Questa capacità è il frutto di due
subprocessi; il primo è la liberalizzazione o libertà di contestazione, che richiede il riconoscimento
di quell’insieme di libertà personali, diritti civili che rientrano nella nozione di “cittadinanza
civile”.Nella misura in cui questi diritti vengono estesi a porzioni sempre più ampie della
popolazione, subentra il secondo processo di inclusione o partecipazione, vale a dire l’estensione
della proporzione di popolazione che è legalmente titolare dei diritti politici, la “cittadinanza
politica”.
Crisi dello stato: la sopravvivenza dello Stato deriverebbe tanto dalla sua legittimità che dalla sua efficacia;
sia dalla base di giustificazione morale e dai principi che consentono di accettare le sue decisioni, che dalla
qualità delle sue performance nel risolvere i problemi collettivi e nel fornire beni pubblici agli individui e
gruppi che vivono entro i suoi confini. Due tipi di crisi:
- Crisi per eccesso di Stato- la forma più parossistica di eccesso dello Stato, ha riguardato la
politicizzazione integrale della società civile a opera dei “sistemi totalitari”. La crisi dei totalitarismi
di destra e sinistra ha gettato le premesse per delle successive ondate di democratizzazione. Lo
stato democratico ha prodotto significative reazioni in tutte le democrazie occidentali nell’ultimo
trentennio-a partire dalla cosiddetta rivolta fiscale. È in questo periodo che si comincia a parlare di
ristrutturazione dello Stato. Da un diverso punto di vista, la questione dell’eccesso di potere di
Stato è stata affrontata esplorando il tema dell’ingovernabilità dei sistemi politici-amministrativi.
L’ingovernabilità è stata vista come l’esito del pluralismo e della facilità di accesso dei gruppi sociali
opportunistici alle sedi delle decisioni imperative. Lo sviluppo della globalizzazione economica e
finanziaria, la crescente complessità dei problemi collettivi e lo sviluppo disuguale e squilibrato a
livello mondiale sono questioni che difficilmente lo stato è in grado di affrontare da solo. Una prima
conseguenza di questo nuovo scenario mondiale è stata la “riduzione della responsabilità politica”
degli Stati il che si verifica in tre direzioni distinte:
1. Tecnocrazia, la devoluzione di poteri e responsabilità ad apparati e istituzioni non elettive, le
“istituzioni non maggiorate” che decidono sulla base di criteri tecnici e non politici (Banche centrali,
istituzioni monetarie e finanziarie internazionali, burocrazie professionali);
2. Multi-level governance, le informazioni statali diventano dei nodi in una rete più ampia nella quale
si sviluppano interdipendenze istituzionali tra entità sovrastatali e substatali;
3. Ri-mercificazione, per cui sempre maggiori servizi e funzioni vengono sottratti al controllo pubblico-
statale e devoluti al mercato attraverso privatizzazioni, liberalizzazioni e aziendalizzazione;
- Crisi per carenza di Stato - “la ragione principale per cui i sudditi possono considerarsi sciolti
dall’obbligo di obbedienza al sovrano è la sua inettitudine al comando e di conseguenza l’incapacità
di assolvere al dovere che è quello di proteggerli dai danni che ognuno può procurare all’altro e da
quelli che possono provenire dagli altri”. Tre deficit:
1. Perdita del monopolio della forza legittima ; ciò che distingue i regimi politici non è tanto la forma di
governo ma il grado di governo, non la forma ma la forza. Si pensi alla classificazione dei regimi
statali sulla base del rischio della loro dissoluzione: Stati dissolti, falliti, in via di fallimento e deboli; i
paesi con più elevato rischio sono caratterizzati da pressione demografica, massicci flussi di
rifugiati, vendette tribali o private; squilibri economici e povertà, corruzione e delegittimazione
dello Stato; deterioramento dei servizi pubblici essenziali, violazione dei diritti umani e ricorso alla
violenza, perdita di controllo della forza da parte degli apparati di sicurezza, interferenze di attori
sovranazionali.
2. De-territorializzazione e perdita di rilevanza dei confini ; lo stato del XXI sec è alle prese con il
processo di deterritorializzazione, di perdita di confini, il che equivale a dire perdita di sovranità e
perdita di controllo degli altri ambiti funzionali, primo fra tutti l’economia, che sfugge alla direzione
degli organismi decisionali sei singoli Stati (“economicizzazione” della politica)
3. Incongruenza tra Stato e nazione; i regimi del XXI secolo mostrano svariate incongruenze tra polis e
demos, tra Stato e nazione. Tali contraddizioni sono il riflesso della sovrappopolazione di fenomeni
distinti legati ai processi di globalizzazione. Il primo, riguarda l’avvento di Stati-multinazionali o
delle cosiddette nazioni-stato, e il secondo è relativo alle ricadute dei massicci flussi migratori che
attraversano il globo. Linz individua 4 modi di ricombinare demos e nazione, cioè di conciliare
costruzione dello Stati e della nazione:
Tipo I:regimi mononazionali. Ricordano l’idealtipo dello stato moderno; si ripropone il
conflitto tra centro e periferie come una forza determinante della strutturazione della
politica moderna
Tipo II:remigi etnici. Linz parla di “democrazia rivolta solo ai membri del gruppo nazionale o
etnico dominante”. Si accetta la differenziazione tra demos e nazione, il che getta le
premesse per una cittadinanza asimmetrica, poiché alle minoranze residenti nel territorio si
riconoscono i diritti civili e sociali, ma non quelli politici.
Tipo III:regimi assimilatori. Sforzo per integrare le minoranze nella cultura nazionale, perciò
non si ammette alcuno status speciale o alcun diritto culturale; le minoranze hanno come
obiettivo il raggiungimento della piena integrazione (Stati Uniti, Francia)
Tipo IV: regimi multinazionali. Soluzione inclusiva delle minoranze; comporta l’accettazione
di una società pluralistica nella quale la diversità non è considerata diversamente. Ci soni
molti modi in cui riconoscere diritti collettivi e individuali, il bilinguismo nelle scuole e negli
uffici pubblici, i diritti delle comunità religiose
Il significato della democrazia nella storia - Il significato della nozione di “democrazia” non è sempre stato
lo stesso: secondo Aristotele, la democrazia era quel sistema di governo che garantiva l’accesso a un
numero di soggetti più vasto possibile, ma costituiva una forma corrotta, perché orientata al
soddisfacimento del bene dei soli governanti e non della collettività. La forma benefico del governo di molti
era dunque la politeia, un concetto alla base di un’idea di democrazia come governo del popolo orientato
anche a servire il popolo. David Held illustra i pilastri sui quali si è appoggiata tale mutazione storica:
Democrazia classica: dal tradizionale esempio della democrazia ateniese al dibattito sulle diverse versioni di
repubblicanesimo – principio di legittimità per cui i “cittadini” devono godere di uguali diritti politici che
consentono loro di governare ed essere nel contempo governati;
Democrazia liberale: trova una sostanziale ambivalenza tra una versione protettiva e una che Held definisce
democrazia di sviluppo. La democrazia protettiva promuove il culto della libertà individuale nato nelle
prime costituzionali europee, mentre la variante di sviluppo insiste sulla concreta difesa dei diritti degli
individui. Lo stato rimane “minimo”, come da tradizione liberale, ma capace di garantire effettiva tutela dei
diritti e politiche orientate alla rimozione degli ostacoli per la libertà individuale.
- Strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche , in base al quale singoli individui
ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare
(Shumpeter) – concezione elitista della democrazia, enfatizza due elementi: il collegamento tra
inclinazione democratica e presupposti della competizione elettorale e la delega a una classe
politica chiamata a esercitare un potere di fatto non bilanciabile in alcun modo dall’azione delle
“gente comune”.
- Regime politico caratterizzati dalla continua capacità di risposta del governo alle preferenze dei suoi
cittadini, considerati politicamente uguali (Dahl) – coglie la dinamica di trasformazione della
democrazia contemporanea, focalizzando le garanzie della permanenza e dell’effettività di quella
libertà di scelta che distacca il cittadino di una comunità democratica rispetto al suddito di un
qualsiasi regime illiberale.
Il passaggio dalla concezione teorica di democrazia ad una definizione empirica comporta la scelta di alcuni
elementi minimi e necessari. Dahl sintetizza il dibattito con la sua definizione di “regime politico”: il regime
democratico è un regime che presenta:
Varianti ed effetti della prima democratizzazione - Barrington Moore fornì una ricostruzione dei fattori che
capaci di spiegare i processi di democratizzazione:
- L’equilibrio sta Stati dell’antico regime che bilancia e rende moderna la monarchia
- L’indebolimento dell’aristocrazia a vantaggio della borghesia
- L’avvento della tecnologia mercantilistica come metodo per lo sviluppo di un’economia industriale
- La mancanza di una convergenza conservatrice tra aristocrazia terriera e borghesia commerciale
- Presenza di rivoluzionari
Rokkan mise a fuoco la sequenza di circostanze storiche che hanno caratterizzato la ricorrenza del processo
di democratizzazione – 4 soglie:
I fattori che si rivelano determinanti per il superamento delle soglie storiche disegnate da Rokkan sono:
L’ancoraggio democratico e il problema della stabilità - Alla fase della legittimazione segue una più
complessa serie di meccanismi che Morlino ha denominato ancoraggio democratico, e che si connota con
l’emergere di una serie di strutture istituzionali e sociali in grado di stabilizzare il processo di acquisizione
dei valori democratici. Le ancore nel processo consolidamento sono:
1) Lo sviluppo di una serie di partiti e soggetti politici all’interno di un sistema robusto da non lasciare
spazio a nuovi cambiamenti rivoluzionari;
2) L’assestamento di un sistema pluralistico costruito su rapporti stabili tra i partiti stessi e gli interessi
organizzati;
3) Lo sviluppo di un sistematico ma limitato numero di rapporti clientelari che unisca i cittadini ad
alcuni degli assetti politici partitici in cambio di limitate erogazioni di risorse pubbliche;
4) Lo sviluppo di una serie di accordi triangolari (imprenditori, sindacati, Stato) che consentano la
stabilizzazione del regime trovando soluzione in ampi e cruciali settori del policy making attraverso
le pratiche neocorporative.
La terza ondata ha avuto una matrice diversa rispetto alle precedenti, essendo il risultato di 5 forme di
mutamento economico, sociale e culturale:
Con il procedere di una storia della democrazia l’analisi comparativa dei regimi poliarchici è diventata
precisa e raffinata. Vi sono però dei problemi di investigazione, riportati su 3 livelli diversi:
- Questioni cognitive, tese cioè a chiarire l’estensione empirica di un fenomeno come la democrazia
contemporanea;
- Questioni interpretative, finalizzate a stabilire precisi nessi casuali alla base delle diverse
affermazioni si tali fenomeno;
- Questioni normative, orientate cioè a prescrivere una specifica modalità del fenomeno, giudicata
come preferibile.
Arend Lijphart mette a fuoco il modello consociativo di democrazia, al fine di spiegare la tendenza di alcuni
sistemi dell’Europa continentale a creare le condizioni di un governo “allargato” con maggioranze
sovradimensionate, coalizioni ideologicamente complesse e svariati meccanismi di “contrappeso
costituzionale” rispetto al governo “allargate” con maggioranze sovradimensionate , coalizioni
ideologicamente complesse e svariati meccanismi di “contrappeso costituzionale” rispetto al governo
maggioritario , espressione del vincitore elettorale. La prima tipologia di Lijphart si basava su 2 dimensioni
di analisi: la configurazione della società e i rapporti tra le élite. La tipica democrazia consociativa
rappresenta l’incrocio tra una cultura politica eterogenea ed élite orientate al compromesso, capaci dunque
di generare un equilibrio nel caso delle democrazie centrifughe, connotate da cultura eterogenea ed élite
conflittuali.
Democrazie maggioritaria e democrazie consensuale [1984] - Nel volume “Le democrazie contemporanee”
(1984), Lijphart lanciava una proposta basata su due modelli polari denominati modello maggioritario e
modello consensuale di democrazia.
Lijphart rilanciava con forza la tesi del migliore rendimento di un modello “più gentile” di democrazia come
quello consensuale, capace di offrire politiche più confacenti sotto il profilo del rispetto dei diritti e
dell’inclusività, senza perdere terreno a vantaggio delle democrazie maggioritarie sul piano delle politiche
economiche. Lijphart conferma l’esistenza dei vincoli socioculturali (livello di frammentazione e di cultura
civica dominante) e istituzionali (tipo di sistema elettorale) preesiste rispetto alla scelta di molte delle
soluzioni, rendendo difficile costruire un modello nuovo di democrazia in un dato contesto.
La visione economica e razionale della democrazia - I difensori di una visione individualista e razionale
della politica tengono a utilizzare semplificazioni e formalizzazioni che hanno il compito di illustrare i
dilemmi a cui può condurre l’applicazione teorica della nozione democratica. Dai tempi dell’illuminista
Condorcet è noto il paradosso per cui un gruppo composto da 3 decisori razionali non mostra
necessariamente un set di preferenze ordinate in quanto collettività. A questo paradosso si collega il
teorema della (im)possibilità di Arrow, costrutto fondamentale nella teoria economica della democrazia,
che mostra come i dilemmi messi in evidenza da molti autori siano elementi di un problema molto più
complesso, quello dell’impossibilità di pensare un sistema decisionale democratico infallibile. Il teorema di
Arrow dimostra che in ogni processo decisionale può essere necessario sacrificare una delle condizioni
teoriche della democrazia. Tali condizioni sono la non dittatorialità, l’ammissibilità universale di ogni tipo di
preferenza, l’ottimalità paretiana e l’indipendenza di alternative rilevanti.
La garanzia di un’aggregazione certa delle preferenze individuali, e quindi la formazione di una vera
maggioranza, può avvenire rendendo un individuo più importante degli altri nel processo, oppure limitando
le preferenze degli attori in gioco, oppure rinunciando agli esiti stabili in un dato processo decisionale.
I regimi antagonisti e l’area grigia della quasi democrazia - I modelli del passato
“I regimi autoritari sono sistemi con pluralismo politico limitato e non responsabile, senza un’elaborata
ideologia-guida, ma con mentalità caratteristiche, senza mobilitazione politica estesa o intesa, se non
occasionalmente, e con un leader o un piccolo gruppo dirigente che esercita il potere entro limiti
formalmente mal definiti ma abbastanza prevedibili nella realtà” (come la Spagna di Franco). A differenza
dei regimi totalitari, il leader dei regimi autoritari non rispondono a un’organizzazione ferrea che funge da
vestale ideologica e giustifica l’uso estremo del potere e della violenza ma piuttosto una serie di mentalità
caratteristiche: ad esempio il mito della patria o quello della famiglia.
“Il regime totalitario è un sistema caratterizzato da monismo politico, ruolo indiscusso del partito unico,
ideologia codificata, articolata e finalizzata alla realizzazione di un programma di politicizzazione della
società, continue azioni di concreta mobilitazione sociale con persecuzione sistematica di ogni attore non
rispondente al programma, uso indiscriminato della violenza repressiva e limiti non prevedibili rispetto
all’uso del potere gestito dal partito e dal gruppo dirigente in nome del leader stesso .” (La Germania nazista
e l’Unione Sovietica del periodo staliniano)
Da un lato il fascismo si autodefiniva totalitario e rappresentò per molti versi il modello sperimentale per la
costruzione del nazismo. Gli elementi della definizione di Linz non si sovrappongono al profilo storico del
regime fascista, se si eccettua la dimensione della mobilitazione di massa. Alla centralità del partito unico e
alla prevalenza di messaggi patriottici rispetto a quelli ideologici, il fascismo sembra più assomigliare a un
autoritarismo che non a un totalitarismo.
Presenza di varie forme di autoritarismo di mobilitazione: accanto a quello fascista troviamo dei regimi che
utilizzarono tale strumento per rimanere agganciati a un ideale rivoluzionario e continuare a costruire
consenso. Qui rientrano le democrazie popolari che si richiamavano più o meno direttamente all’Unione
Sovietica, i regimi nazionalisti africani costruiti sull’ideologia della negritudine e anche il regime di
rivoluzione religiosa che caratterizzò gli anni del potere di Khomeini in Iran.
Configurazioni tipiche delle fasi di transizione della democrazia occorse nel XX secolo: dalla pseudo-
democrazia, regime pluralista ancora sotto il controllo della coalizione di attori protagonisti dell’esperienza
autoritaria, a forme transitorie in senso stretto come la democrazia protetta (la liberalizzazione non è
ancora sostenuta da un processo elettorale adeguato) e la democrazia elettorale, dove avviene il contrario,
ovvero una competizione già aperta ma in assenza di riforme relative ai diritti civili.
Il modello che ha preso piede è quello di regime ibrido, proprio per l’incertezza sulla sua dinamica di medio
periodo. Esso testimonia la debolezza della tesi estinzionista del genere “autoritario”, e riaprendo questioni
sul futuro della democrazia.
Indicatori della Rule of law: sicurezza sociale, autonomia del potere giurisdizionale, capacità amministrativa
e reazione a crimine e corruzione
Indicatori della Accountabily: elettorale (osservabile attraverso le classiche misure della frequenza e della
libertà che connota la fase del voto) e interistituzioanale (ha a che fare con le garanzie attribuite alle
opposizioni e a istituzioni di controllo come Corte costituzionale, Corte dei conti)
Indicatori della dimensione procedurale: partecipazione politica (“partecipazione identitaria”, finalizzata al
sentirsi parte ma anche “partecipazione strumentale”, finalizzata al poter effettivamente contare) e
competizione politica.
Sul piano del contenuto, la qualità democratica viene definita attraverso l’operazionalizzazione empirica dei
concetti di libertà e uguaglianza.
Partiti come strutture di intermediazione e collegamento tra centro e periferia, tra società e Stato, tra
governanti e governati. Gli obiettivi dei partiti politici moderni perseguono la ricerca dei voti, delle cariche
pubbliche e la realizzazione di specifici programmi di politiche.
Che cosa sono i partiti e che cosa fanno - Essi sono considerati indispensabili alla nascita e al
funzionamento della democrazia ma al contempo sono considerati tra le istituzioni più screditate del nostro
tempo, almeno agli occhi dei cittadini. Le nostre democrazie rappresentative sarebbero inimmaginabili
senza i partiti; ma il loro ruolo è profondamente mutato. Essi non esperiscono più le tradizionali funzioni di
mobilitazione e integrazione sociale, di socializzazione politica e di rappresentanza. Sarebbero quasi
esclusivamente impegnati a reclutare il personale politico, a garantire il funzionamento delle istituzioni, a
controllare le risorse pubbliche e a cercare di influenzare le politiche pubbliche. I partiti politici nel XX
secolo sarebbero stati i principali protagonisti della morte della democrazia.
Già negli anni 50 Duverger (1951) aveva evidenziato che nel tempo si erano succedute diverse definizioni,
da quelle centrate sull’ideologia, sulla base sociale e sulla struttura. I partiti politici non potevano essere
ricondotti esclusivamente al fatto ideologico, rappresentativo di interessi e organizzativo. Una ulteriore
componente è la qualità dei rapporti (competitivi e/o cooperativi) che ogni partito intrattiene con gli altri. A
partire dal secondo dopo-guerra si sono sviluppate le definizioni del partito-squadra, o team di leader che
concorrono per il voto popolare. Ciò che contraddistingue le democrazie è l’esistenza di una pluralità di
partiti liberi di competere, con mezzi pacifici e legali, per il controllo del potere politico. Democrazia e
competizione sono associate normativamente.
Prospettiva competitiva [Giovanni Sartori] - definizione minima: “un partito è un qualsiasi gruppo politico
indentificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le
elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche”. È minima poiché punta l’attenzione sulle
caratteristiche necessarie di un partito.
Tali obiettivi sono primari poiché dal loro conseguimento dipende la capacità dei partiti di soddisfare le
domande dei rappresentanti. L’enfasi su l’uno o l’altro di questi obiettivi serve a differenziare i tipi di partito
a condizionare gli aspetti organizzativi, ideologici e strategici.
Definizione estesa: “I partiti sono associazioni di donne e uomini, più o meno organizzate ma comunque in
grado di durare, che competono per i voti popolari al fine di fare accedere i loro leader e aderenti alle
cariche pubbliche e, quindi, cercare di influenzare le scelte collettive.
I partiti svolgono molteplici attività, alcune principali (es. ricercare i voti) altre secondarie o strumentali (es.
reperire fondi, organizzare le campagne elettorali, mobilitare i simpatizzanti per delle manifestazioni).
Prendiamo in esame solo il primo tipo di funzioni, dividendole in funzioni input e output.
- Reclutamento dei leader e del personale politico. Come conseguenza del processo di
democratizzazione e di elettoralizzazione i partiti hanno finito per controllare il reclutamento del
persone per le cariche pubbliche. Il monopolio di tale funzione è massimo rispetto alla selezione dei
titolari di cariche elettive e delle cariche di governo, ma si presenza anche esteso con riferimento
alle cariche amministrative. I partiti sono un modo per sottrarre il controllo delle posizioni di potere
alle vecchie élite. Alla cooptazione e all’eredità quali meccanismi di reclutamento della classe
politica si sostituiscono la competizione elettorale e la fedeltà al partito.
- Organizzazione e conduzione del governo. Costituisce un aspetto cruciale del funzionamento dei
sistemi politici perché i partiti svolgono una funzione costituente e fondante dello stesso regime
democratico. Il che richiede la capacità di “canalizzare e socializzare il conflitto sul controllo del
regime”. Si delineano cioè due livelli del gioco politico: a) quello delle politiche e delle decisioni
dove la competizione è aperta a tutte le posizioni in campo; b) quello del regime e delle istituzioni
che richiede una limitazione della competizione.
Inoltre i partiti assolvono a importanti compiti procedurali o istituzionali che risolvono complessi
problemi di coordinamento e di operatività impliciti nel funzionamento delle singole istituzioni e
nei rapporti tra istituzioni – a partire dalla fondamentale connessione tra esecutivo e legislativo. I
partiti coordinamento anche gli organi costituzionali e le istituzioni di vertice del sistema politico.
- Influenza delle politiche pubbliche. Funzione che ha a che fare con la capacità di problem solving, i
partiti cioè cercano di trovare soluzioni ai problemi collettivi e di controllare il policy making, cioè la
formulazione e anche l’implementazione delle politiche pubbliche.
“Partiti egemoni”: ammettono al presenza di partiti satelliti minori. Nel caso del partito egemone comunista
la principale funzione è quelle espressiva. Quest’ultima può rinvenirsi anche nei totalitarismi di destra.
Tipologia dei partiti – I partiti possono essere analizzati ricorrendo a una serie di elementi sia esterni, quali
rapporti con la società e lo Stato, con i gruppi di interesse e i movimenti, che interni, quali ideologia,
struttura, leadership, strategie. Dalla combinazione di questo quadro di elementi ricaviamo un certo
“modello di partito” o tipo di partito. Tre idealtipi:
Partiti di élite: sono partiti borghesi, presenti nella fase del parlamentarismo classico [Manin 1997],
rappresentano limitati gruppi di elettori socialmente omogenei. L’unità organizzativa è il comitato
elettorale. Tali partiti si attivano in occasione delle elezioni. I partiti si élite si limitano a svolgere una
funzione di “rappresentanza individuale”. La loro unità organizzativa elementare è formata dal “comitato
elettorale” costituito da gruppi ristretti di perone scelte per cooptazione.
Partiti di massa: si formano in seguito all’allargamento del suffragio, affermandosi come i protagonisti della
fase della «democrazia dei partiti» [Manin 1997]. Svolgono una funzione di «integrazione sociale»,
favoriscono la partecipazione degli iscritti che costituiscono la loro fonte principale di finanziamento. Sono
radicati nel territorio e al contempo burocratizzati. Il partito di massa cerca per prima cosa di dare
un’educazione politica alla classe operaia, di suscitare una élite capace di assumere il governo e
l’amministrazione del paese: gli iscritti perciò sono la materia stessa del partito, la sostanza della sua
azione. Sotto il profilo strutturale questo partito è radicato nel territorio e al contempo un’organizzazione
burocratizzata.
Partiti elettorali: hanno strutture organizzative leggere e intermittenti. Possono favorire la partecipazione
dei simpatizzanti e utilizzarla spesso per ragioni competitive tra i leader. Il partito elettorale diventa la
soluzione organizzativa per gestire la spoliticizzazione dei cittadini che contraddistingue le democrazie
avanzate.
- Partito pigliatutti: è un partito interclassista, teso ad acchiappare quanti più elettori possibili e di
ogni ceto sociale [Kirchheimer 1966].
- Partito personale: il partito si identifica con il leader, la cui immagine politica è enfatizzata dai
media [Calise 2000]. Per sottolineare il carattere proprietario che per questo tipo di leader ha il
partito si è anche parlato di «partito imprenditoriale» [Harmel e Svåsand 1993].
- Cartel party: più che competere apertamente i partiti ricorrono a collusioni e forme di protezione
che assicurano l’autoconservazione e la prevedibilità della competizione. Le loro risorse derivano
principalmente dalle istituzioni statali [Katz e Mair 1995].
“Da dove vengono i partiti?” – Teoria dei cleavages – vede nei partiti i rappresentanti naturali di persone
che hanno interessi comuni. Con il formarsi di gruppi intorno a queste fratture, i partiti emergono e si
evolvono per rappresentare questi interessi.
1) Non è sempre chiaro cosa si intende con “frattura” o cleavage. Cleavage: fratture che dividono i
membri di una comunità in gruppi. Si tratta di divisioni politiche fondamentali, di “conflitti
particolarmente forti e prolungati, radicati nella struttura sociale”.
2) Proprio perché fonti di conflitti, le fratture sono anche fattori di aggregazione e di identificazione
dei membri di una collettività e in questo modo finiscono per assolvere a una funzione di
mobilitazione di individui e gruppi sociali sulla base dello schema “amico-nemico”. Esse appaiono
collegate alla costruzione di identità collettive, attorno alle quali nascono movimenti e partiti
politici, che si riconducono a una serie di “famiglie ideologiche o politiche”
Troviamo 4 tipi fondamentali di fratture interpretati come prodotti delle due maggiori rivoluzioni del XIX
sec: la rivoluzione nazionale e industriale. Alla rivoluzione nazionale sono collegate la frattura centro-
periferia e la frattura Stato-Chiesa, alla rivoluzione economica la frattura industriale (o urbano) -rurale e la
frattura lavoro-capitale. Lo schema di Rokkan suggerisce la possibilità della comparsa di sistemi partitici di 5
o 6 partiti: un partito conservatore, agrario, liberale, confessionale, socialista.
Mentre per il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale – tesi del congelamento dei sistemi di
partito europei. Le fratture mutano in uno dei seguenti modi o loro combinazione:
- Perdita di rilevanza delle fratture tradizionali: declino elettorale dei partiti storici
- Riattivazione di fratture latenti: comparsa dei partiti entoregionalisti e di partiti fondamentalisti
- Attivazione di nuove linee di divisione: formazione dei partiti ecologisti o dei partiti populisti o
magari antieuropeisti
La prospettiva “strumentale” (Clark, Golder e Golder 2009) - Essa enfatizza il fatto che il rapporto tra
strutture sociali e partiti non annulla le capacità strategiche dei partiti e dei loro leader. Ciò significa che i
partiti si formano grazie all’azione di élite e “imprenditori politici” che danno forma ed enfatizzano le linee
di conflitto presenti in una società. Per tale prospettiva i partiti sono “squadre di persone interessate a
ottenere cariche pubbliche”.
I partiti come istituzioni pubbliche e i sistemi elettorali - I moderni partiti politici sono i “figli della
rivoluzione industriale” e delle trasformazioni che ne conseguono e la loro formazione è impensabile senza
il verificarsi di rilevanti cambiamenti istituzionali, quali la realizzazione di un governo responsabile nei
confronti del parlamento, il progressivo allargamento del diritto di voto almeno fino al suffragio universale
maschile e poi femminile, il passaggio da sistemi elettorali maggioritari a sistemi proporzionali. Un
passaggio cruciale alla comparsa dei moderni partiti politici è l’estensione del diritto di voto e dalla riforma
del sistema elettorale.
“Un sistema elettorale è una serie di leggi e di regole di partito che disciplinano la competizione elettorale
tra e all’interno dei partiti.” Questa definizione in primo luogo enfatizza la dimensione strategica della
competizione politica: i sistemi elettorali fissano le “regole del gioco” che definiscono i vincoli e le
opportunità per i giocatori (elettori, partiti, candidati, leader) in campo; in secondo luogo, tali regole non
sono solo quelle della legislazione, ma possono anche derivare da regolamenti e statuti dei partiti. I sistemi
elettorali inoltre hanno rilevanza per le conseguenze che producono sui partiti.
- Sistemi maggioritari: la regola fondamentale è che il partito più forte nel singolo collegio vince il
seggio in palio. I sistemi maggioritari si possono distinguere sulla base della regola che utilizzano
per definire la maggioranza che vince il seggo: 1) sistemi a turno unico o pluraty dove per vincere è
richiesta la maggioranza relativa. 2) sistemi majorty dove per vincere è richiesta la maggioranza
assoluta. Il più diffuso è quello a doppio turno. Un altro esempio è il “sistema del voto alternativo”
vigente in Australia, nel quale si chiede di esprimere un voto ordinale, ovvero graduare per
preferenza tutti i candidati presenti nel collegio, se nessuno ottiene la maggioranza assoluta di
prime preferenze, il candidato meno votato viene eliminato e si procede a distribuire tra i candidati
i suoi voti sulla base delle seconde preferenze indicate nelle schede.
- Sistemi proporzionali: i seggi in palio nelle circoscrizioni (plurinominali) sono suddivisi tra i partiti in
proporzione alle quote di voti ottenute. Tali sistemi possono variare molto a seconda del livello di
dis-proporzionalità. La distorsione della proporzionalità dipende dalla formula elettorale,
dall’ampiezza della circoscrizione, dalle soglie legali, dall’ampiezza dell’assemblea da eleggere.
Esistono quindi i sistemi elettorali proiettivi che favoriscono la rappresentatività, e sistemi elettorali
selettivi che agevolano la governabilità nel senso che questi ultimi creano le condizioni politiche
della stabilità dei governi.
- Sistemi elettorali misti:le regole elettorali sono ibride per cui una parte dei seggi è attribuita con
regole maggioritarie, l’altra con lo scrutinio proporzionale.
1) Sistemi misti indipendenti: i due tipi di regole coesistono in autonomia e non interferiscono o il
loro utilizzo avviene a livelli elettorali distinti
2) Sistemi misti dipendenti: l’operatività del proporzionale dipende dalla distribuzione dei seggi
nel maggioritario
Sistemi elettorali e sistemi partitici - Leggi/ipotesi di Duverger (che postulano delle relazioni casuali fra tipo
di scrutinio e numero dei partiti):
1) Il sistema maggioritario a turno univo (plurality) tende al dualismo dei partiti (bipartitismo);
2) Il sistema a doppio turno (majority) o a rappresentanza proporzionale tende al multipartitismo.
Tra gli studiosi italiani, Fisichella ha poi chiarito che gli effetti dei sistemi elettorali vanno apprezzati in
ambiti distinti: a) nella manipolazione delle scelte dell’elettore; b) nella sotto e sovrarappresentazione dei
partiti; c) nell’influenza sul numero dei partiti.
Duverger inoltre è convinto che il punto di partenza dell’analisi sulla formazione dei partiti è dato dalla
struttura economico-sociale e dai conflitti che vi hanno luogo, tuttavia, il fatto che le diverse fratture
riusciranno a dar vita a partiti elettorali, attivi nella competizione, e ancor più a partiti parlamentari che
ottengono dei seggi, dipenderà dal tipo di regole elettorali. Quanto più un sistema elettorale è
proporzionale tanto più facile sarà per i partiti superare la “soglia della rappresentanza”, con contro tanto
più un sistema è maggioritario, o meglio dis-proporzionale, tanto più i partiti piccoli verranno penalizzati e i
grandi favoriti dalla competizione. Ne conseguirà un effetto riduttivo sul numero dei partiti che accedono al
parlamento che riflette la semplice traduzione dei voti in seggi collegio per collegio.
I sistemi partitici
Alcuni studiosi hanno proposto di allargare l’ambito di riferimento del concetto di “sistema partitico”
riferendo a diversi livelli territoriali (nazionale, regionale, locale o sovranazionale) o istituzionali (elettorale,
parlamentare o di governo).I sistemi partitici sono modelli di interazioni stabili tra “parti” e si possono
analizzare sulla base di tre criteri [Sartori 1976]:
- Sulla base del criterio numerico, Duverger distingue tra monopartitismi e bi- e multipartitismi
(Secondo Duverger, il primo, individua un “genere” relativo ai “regimi non democratici”, quindi un
tipo di regime politico più che un sistema partitico. Per lui però il tipo più importante è quello
bipartitico, poiché “sembra presentare un carattere naturale” dato da un dualismo di tendenze).
- Alcuni autori hanno affrontato la questione del “conteggio” dei partiti presenti in un sistema,
considerando tutti i partiti che superavano una certa soglia (come il 3% o il 5%)
- Sartori introduce due regole di conteggio per discriminare i partiti che “contano” e quelli che vanno
tralasciati perché irrilevanti:
1) Potenziale di coalizione – se il partito è indispensabile per formare maggioranze di governo
2) Potenziale di ricatto (o intimidazione) – se la presenza del partito condiziona la direzione della
competizione e la produzione delle politiche pubbliche
Lo sviluppo storico delle assemblee rappresentative - I sistemi politici hanno sempre enfatizzato, accanto
alle figure dei leader o condottieri, l’influenza di istituzioni collegiali, più o meno “elitarie”, che in qualche
misura raffigurano la comunità alla base del sistema stesso. La differenza principale tra le assemblee
parlamentari premoderne e quelle contemporanee sta dunque nella collocazione delle prime in un
contesto di legittimazione dualistico, dove il parlamento non esprime una sovranità popolare ma piuttosto
una funzione di bilanciamento rispetto alla legittimità del sovrano.
Nelson Polsby studiò il percorso evolutivo del Congresso Usa (1968), alla ricerca dei fattori che potessero
spiegare l’avvento di un luogo di potere politico, adattando all’uopo il concetto di istituzionalizzazione.
“Un processo di istituzionalizzazione avviene quando una serie di valori e comportamenti di un determinato
organismo si consolidano e si mostrano universalmente accettati, cristallizzandone le azione e il ruolo.
L’organismo in questione diventa così un’” istituzione” perdendo i caratteri di provvisorietà e mutevolezza,
e acquisendo una forma stabile e generalmente riconosciuta.”
Un’assemblea rappresentativa è istituzionalizzata quando mostra chiaramente i propri confini non solo ai
suoi membri ma anche agli altri attori del sistema politico, delimitando i ruoli e favorendo le interazioni tra
più istituzioni. Per giungere a una sufficiente istituzionalizzazione è necessaria una certa complessità
organizzativa, che permette lo sviluppo di più funzioni codificabili, e l’avvio di un processo meritocratico e
professionalizzante che rende minimo se non nullo l’effetto di tradizionali criteri particolaristici presenti
nella storia di queste istituzioni.
I comparisti hanno riposto la loro attenzione sui tratti comuni presentati dalle istituzioni assembleari delle
attuali democrazie:
- Natura assembleare: i membri delle democratiche istituzioni rappresentative hanno pari dignità,
lavorano assieme e condividono le stesse prerogative sotto forma di funzioni, benefici e
responsabilità
- Natura rappresentativa: è garantita dal legame con la dimensione comunitaria della politica che
non può prescindere dalla garanzia e dall’effettivo svolgimento di libere elezioni
- Pluralismo interno: nell’istituzione rappresentativa la voci sono plurali e garantiscono uno specchio
fedele delle visioni presenti nella comunità dei rappresentati
- Permanenza dell’istituzione rappresentativa: esigenza di continuità storica ma anche di
autoconvocazione – i parlamentari hanno la garanzia di autonomia nell’organizzare il lavoro
- Potere legislativo: tutte queste istituzioni si propongono come organi legislativi – producono norme
Si tratta quindi di organi legislativi elettivi, formati da una pluralità di rappresentanti dei soggetti (partiti)
che si occupano di selezionare il ceto politico e che vengono organizzati in modo assembleare. Le
assemblee devono essere elettive, ma una parte del parlamento o anche una componente parziale di una
camera può presentare modalità di composizione del ceto parlamentare diverse.
Idee e pratiche della rappresentanza - Pitkin focalizzava l’idea di “rappresentanza” nei classici del pensiero
politico, per giungere a definire varianti teoriche: quella “simbolica”, quella “descrittiva”, quella
“formalistica” e infine quella “sostantiva”. Egli argomentava anche che non può esistere una perfetta
correlazione tra l’applicazione di uno di questi significati e una specifica variante di rappresentanza politica.
Rappresentanza formalistica: Pitkin ricorda come lo sviluppo di una narrativa formalistica della
rappresentanza avesse condotto ai 2 concetti fondamentali
Entrambi i concetti sono centrali nella nostra accezione di “rappresentanza democratica”, perché evocano i
due aspetti della teoria delle delega: il conferimento dell’autorità è fondamentale per riconoscere al
delegato (o agente) un ruolo formale di un unico soggetto chiamato a sviluppare il mandato
rappresentativo. La responsabilità è necessaria per richiamare detta azione ai principi e ai valori alla base
del mandato, che in democrazie è per definizione mandato volontario e revocabile.
Rappresentanza partitica: in Europa i partiti sono divenuti il fulcro del sistema politico proprio perché sono
stati in grado di sviluppare un controllo più ampio sui circuiti della rappresentanza sociale, rendendo gli
attori collettivi presenti nella società – gruppi di interesse e movimenti sociali. La penetrazione partitica
nelle assemblee rappresentativa ha costituito un passaggio fondamentale nel percorso di maturazione della
democrazia. I partiti contano molto e a seconda delle faccia organizzativa del partito che prendiamo in
considerazione il risultato della proiezione delle idee e del programma del partito nel comportamento di chi
lo rappresenta è molto diverso. La capacità dei “partito centrale” di controllare l’operato dei parlamentari
ha avuto un ulteriore ridimensionamento con la diminuzione della forza organizzativa dei partiti anche a
causa di una serie di elementi di antipolitica e di sfiducia, che rende più difficile il predominio di un attore
come quello partitico. In virtù di ciò si sono sviluppati vari circuiti alternativi rispetto alla classica modalità
della rappresentanza politica.
La vita reale dei parlamenti è fatta di tanti momenti nei quali la forza dei partiti, la coesione tra i loro
rappresentanti e la disciplina che connota il loro comportamento variano continuamente. La forza dei
partiti ha a che vedere con la presenza organizzativa nella società, la coesione partitica si vede nell’effettiva
capacità di fare “squadra” garantendo al proprio elettorato risposte adeguate e certe, mentre la disciplina
di misura nei comportamenti reattivi ai “comandi” dell’organizzazione esterna.
La letteratura ha modellato dei circuiti alternativi a un predominio totale dei partiti nelle arene
rappresentative: il primo di essi è determinato da un assetto neocorporativo la cui articolazione di interessi
consente di produrre molte rilevanti decisioni attorno a un tavolo governativo al quale ha accesso una
gerarchia ordinata e “chiusa” di attori sociali lasciando al parlamento partitico un compito di “validazione”
degli accordi. Il neocorporativismo ha implicazioni immediate sugli stili e sui contenuti delle politiche
pubbliche ma finisce per incidere sul funzionamento delle istituzioni rappresentative. Anche il modello
pluralista di rappresentanza degli interessi può condurre al declino dei ruolo dei partiti. I singoli
rappresentanti eletto possono essere portati ad “assomigliare” o “inseguire” il proprio universo sociale di
riferimento, tralasciando la mediazione partitica, prendendo strade diverse a seconda delle competenze e
delle sensibilità individuali.
Lo studio di Miller e Stokes dedicato all’influenza del sistema di interessi presenti nel collegio di ogni eletto,
apriva un filone sul comportamento legislativo dei congressman, mentre quello di Wahlke sul
comportamento legislativo descriveva il Congresso come un “sistema di ruoli” all’interno del quale i più
diversi profili di politico mostrano ambizioni, strategie e stili rappresentativi incompatibili tra loro. Mayew
invece studiò l’importanza della connessione elettorale, ovvero la centralità delle ambizioni personali degli
eletti che determina la prioritaria strategia di lavorare per la rielezione, e la ricostruzione del rapporto tra
rappresentanti e elettori, condizione necessaria per coltivare il consenso.
Parlamenti e sistemi elettorali - I sistemi elettorali costituiscono una variabile fondamentale per capire il
funzionamento dei moderni parlamenti.
Sistema proporzionale puro: una camera eletta con metodo di lista e voto di preferenza, i cui seggi sono
ripartiti tra i partiti in misura del risultato riportato a livello nazionale (caso del Knesset israeliano). La bassa
soglia di ammissione al riparto, e la lista bloccata che implica la selezione preventiva del partito dei
candidati nella posizione vertice della lista, non incidono sul livello del proporzionalismo. Un
proporzionalismo più temperato può essere garantito attraverso varie forme di correzione del sistema
elettorale.
Sistemi maggioritari (modelli diversi di composizione). Se il sistema britannico si risolve con la vittoria del
candidato più votato in ogni collegio, il modello francese richiede una maggioranza assoluta di collegio. In
mancanza di vincitore si va al ballottaggio, al quale sono ammessi i candidati con almeno il 12,5% dei voti.
In qualche modo a metà tra questi due modelli, il voto alternativo adottato in Australia, a sua volta
imparentato con l’altro antico sistema del voto singolo trasferibile, offre un meccanismo diverso per il
raggiungimento di una maggioranza assoluta in un contesto uninominale, attraverso l’obbligo per gli
elettori di ordinare le proprie preferenze sui vari candidati, che consente la redistribuzione di preferenze
subordinate.
I sistemi elettorali provocano effetti diretti o indiretti. I primi sono effetti evidenti nella diversa
trasformazione dei voti in seggi, mentre i secondi riguardano le reazioni nel mutamento della domanda e
dell’offerta elettorale.
Differenza tra effetti “macro” (ovvero sul funzionamento dei meccanismi del sistema politico) e effetti micro
(ovvero nel rapporto tra chi ha votato e l’eletto e gli eletti espressi da una determinata circoscrizione). La
scelta di un singolo elettore di un collegio di non esprimere preferenza per il proprio candidato al fine di
sostenere il “migliore dei mali” tra gli altri candidati è un effetto indiretto a livello locale.
Tre tipi di effetti del sistema elettorale connessi alla capacità rappresentativa di rappresentanti e
assemblee:
1) Effetti meccanici (o diretti) sul livello macro della rappresentatività degli eletti;
2) Effetti meccanici sul livello micro dell’autonomia individuale e della responsabilità degli eletti;
3) Effetti indiretti sulla strategia di azione rappresentativa di eletti e dei loro selettori.
La letteratura sulla rappresentanza di genere nei moderni parlamenti è unanime sulla generalizzazione per
cui i sistemi proporzionali generano maggiori opportunità per un bilanciamento più rapido della
rappresentanza femminile. Questo è un esempio del primo tipo di effetti, ovvero una conseguenza
meccanica del sistema scelto da valutare a livello aggregato.
Problema del bicameralismo: storicamente, l’articolazione in due (o anche più) camere rappresentava la
necessità di distinguere gli “Stati”, i ceti sociali ammessi alla rappresentanza, i quali però non potevano
essere confusi tra loro mantenendo prerogative e gradi di influenza distinti.
I bicameralismi servono per esempio a bilanciare la rappresentanza tra le tante “comunità” presenti in un
sistema politico, oppure rendere possibile un accomodamento, una più meditata azione condotta sulla base
di sensibilità e competenze più ampie rispetto a quelle garantite da un’unica camera. I bicameralismi
predominano per quanto riguarda le democrazie stabili e grandi.
L’unicameralismo è una situazione istituzionale perseguibile nel caso di sistemi politici semplici,
relativamente piccoli e connotati da omogeneità politico-culturale.
I bicameralismi più influenti sono connotati da poteri equivalenti nelle due camere e diversa capacità
rappresentativa. Le seconde camere deboli possono distinguersi tra forme di palese incongruenza
rappresentativa, come le camere di rappresentanza nobiliare o di nomina, o parti di un sistema di divisione
funzionale dei compiti legislativi nel quale, pur rivestendo ruoli inferiori esse possono “specializzarsi” grazie
ad alcune facoltà residuali, adatte ad un corpo politicamente legittimato che rappresenta le varie
componenti di una nazione complessa.
La quarta categoria, quella delle seconde camere con poteri uguali ma con una forte congruenza nelle
modalità rappresentative al cospetto delle prime, determina quello che è stato chiamato bicameralismo
ridondante, dove le seconde camere finiscono per indebolire il sistema senza aggiungere una capacità
rappresentativa alternativa o complementare.
Articolazioni strutturali interne alle assemblee legislative - Gli organi legislativi mostrano una grande
varietà di soluzioni strutturali a molte dimensioni.
In primo luogo, esse possono essere più o meno “vaste”. Si è soliti fare una correlazione tra la
grandezza della comunità da rappresentare e l’ampiezza delle camere.
In secondo luogo, non va sottovalutata la struttura di coordinamento e conduzione istituzionale
delle assemblee. Le pari dignità degli eletti non consente una distinzione sul ruolo politico, dando al
presidente un voto più “pesante” come si fa spesso negli organi esecutivi. Al contrario in molti
parlamenti il presidente tende a non esprimere il proprio voto per preservare il suo ruolo di garante
all’interno dell’assemblea. Ma i poteri di calendarizzazione dei lavori costituiscono facoltà molto
importanti concentrate nelle mani degli speakers o di ristretti uffici di presidenza delle camere.
Questi poteri possono essere in qualche misura “annacquati” dalle prerogative di articolazioni
interne in cui una grande camera si divide per organizzare i propri lavori con ritmi di lavoro e
competenze più idonee. Sono le commissioni parlamentari, le quali costituiscono un insieme di
meccanismi strutturali. Le più importanti sono le commissioni permanenti, soggetti molto
autorevoli che possono sviluppare competenze e conoscenze reciproche tra i policy maker che ne
fanno parte.
In terzo luogo è cruciale l’articolazione interna dell’assemblea relativa allo sviluppo di gruppi
partitici, o comunque associazioni di eletti uniti da una qualche affinità politica come i caucuses
tipici del Congresso Usa. I gruppi possono rappresentare lo strumento principale per il controllo
delle organizzazioni partitiche esterne sui propri eletti, ma anche un modo per opporre all’apparato
di partito un secondo establishment avvantaggiato della sua centralità istituzionale. Un sistema di
controllo partitico esterno attraverso i gruppi parlamentari si legherebbe maggiormente a un
paradigma di governo di partito forte.
Infine, un elemento fondamentale da analizzare è quello relativo alla posizione che il governo
riveste nelle stesse articolazioni parlamentari. La posizione del governo può essere misurata anche
con indicatori non relativi alla sua presenza fisica, o alla natura parlamentare o meno dei suoi
componenti. Una serie di facoltà possono consentire all’esecutivo di “dominare” l’agenda
parlamentare, imponendo i propri tempi e le proprie iniziative. Tra queste la possibilità di incidere
sull’agenda parlamentare imponendo una corsia privilegiata alle proprie iniziative, quella di
comunicare decisioni attraverso messaggi o discorsi in aula dei propri componenti, e quella di
intervenire in tutte le sedi legislative anticipando rispetto alla discussione il proprio orientamento.
Teoria interpretativa basata sui poteri di veto: assume che il parlamento strutturato con bicameralismo
forte, commissioni influenti, articolazioni partitiche autonome e dipendenti dalle organizzazioni esterne e
ruolo politico della presidenza delle camere debba essere concepito come un sistema che produce molti
contrappesi rispetto al peso rappresentato dal governo centrale e dalla sua iniziativa.
Come cambiano le funzioni parlamentari - Walter Bagehot, per primo ha evidenziato la funzionalità dei
parlamenti moderni. Egli offriva un’esemplificazione di come le assemblee fossero capaci di allargare e
riqualificare lo spettro delle proprie facoltà, divenendo la fondamentale cerniera istituzionale di quel
regime che cominciava ad assomigliare a una democrazie rappresentativa. In questa visione, accanto alla
funzione elettiva (indicazione del personale del governo), trovano posto la funzione espressiva (capacità di
dare voce ai principali punti di vista presenti nel paese), quella informativa (capacità di raggiungere tutti i
cittadini con una corretta rappresentazione di diritti e doveri), quella educativa (capacità di contribuire alla
crescita collettiva della nazione), quella finanziaria (capacità di fissare e rendere trasparente gli impegni di
spesa e il reperimento delle risorse pubbliche) e infine la funzione legislativa. Questa classificazione è
importante per comprendere l’affermazione storica delle assemblee legislative, ma appare oggi per molti
aspetti superata.
La stessa argomentazione si applica alla funzione pedagogica, che i parlamenti devono condividere con un
sistema mutato di interazioni sociali e con i media. I lavori di politica comparato che hanno classificato
paramenti e congressi incrociando le loro funzioni formali con l’effettiva capacità di influenza semplificano
le dimensioni funzionali in tre aggregati:
1) Come agente del corpo elettorale e in definitiva del popolo sovrano, i parlamenti e i congressi
devono rappresentare le istanze e trasferirle nel sistema decisionale
2) Come “principale” rispetto ai meccanismi decisivi del sistema politico, essi devono sostenere
precise richieste ai titolari delle tante amministrazioni e monitorarne i comportamenti (funzione di
controllo sul governo)
3) Funzione legislativa che comprende un’ulteriore mandato individuato da Bagehot come funzione di
bilancio, vista la natura normativa di gran parte degli odierni strumenti di finanza pubblica.
Vecchie e nuove capacità rappresentative - I partiti bipartitici e “avversali” delle democrazie maggioritarie
rappresentano le due parti che incarnano le visioni politiche preponderanti, lasciando ai singoli
rappresentanti il compito di difendere il proprio collegio e quindi il proprio territorio in esso compreso.
Molti sono i fattori in gioco nello svolgimento della funzione rappresentativa; l’elemento più evidente è
l’aumento esponenziale della presenza femminile nelle assemblee, che corrisponde necessariamente a un
effettivo superamento del gender gap in politica, sia perché il ruolo rappresentativo delle donne elette non
è foriero di un cambiamento delle politiche di pari opportunità, sia perché il risultato complessivo in termini
di rappresentazione femminile è in realtà la sintesi di una distribuzione sbilanciata.
I nostri rappresentanti tendono a “inseguire” i cambiamenti sociali sul piano delle loro competenze
tecniche e della loro preparazione culturale: le esperienze ingegneristiche e tecnico-scientifiche stanno
bilanciando la prevalenza della cultura umanistica e la grande presenza di giuristi che ha connotato i periodi
passati (gli avvocati in politica della fase liberale, parzialmente sostituiti dai giuristi accademici nella fase di
pertiti di massa).
I parlamenti, leggi e processi decisionali - I parlamenti e i congressi dei sistemi presidenziali sono organi
chiamati a produrre leggi e a tenere ordinato l’insieme delle fonti normative in un determinato sistema. Il
ruolo delle assemblee pluralistiche come attore del policy making va oltre le sue competenze e i suoi
“numeri” legislativi.
3 dimensioni sulle quali misurare l’effettivo impatto decisionale delle istituzioni rappresentative:
- La reputazione dei singoli rappresentanti eletti costituisce una prerogativa per fare di un singolo
individuo un attore credibile nei processi decisionali. Ad esempio chi riveste un ruolo di difensore
del territorio o di esperto in uno specifico settore decisionale, dovrà faticare per vedere emergere il
proprio progetto di legge o i propri emendamenti. Al contrario i leader del gruppo parlamentare e i
vertici di commissione possono contare sulle proprie prerogative politiche, al fine di regolare ampi
“pacchetti” di proposte e dare al flusso del processo decisionale un preciso ordine.
- Quanto alla dimensione delle facoltà legislative la quantità di poteri rimasti in mano ai parlamentari
di fronte alle facoltà di agenda, iniziativa e riserva legislativa delegati al governo.
- Sul piano della capacità di interdizione durante i flussi decisionali, un fattore fondamentale è
costituito dalle regole che consentono ai legislativi di rallentare se non bloccare l’azione di governo:
tali regole disegnano nel loro assieme il livello di concentrazione del controllo sul processo
legislativo – controllo che definisce il grado di accentramento parlamentare del processo politico.
- Disciplina di bilancio: ricerca di una procedura adatta per favorire un comportamento esemplare di
tutte le istituzioni coinvolte nel processo, e in questo contesto la riduzione dell’opportunismo dei
parlamenti, unitamente alla ricerca di una performance efficace ed efficiente nel rispetto dei vincoli
costituzionali, che danno al governo la riserva di iniziativa ma alle assemblee il voto e in molti casi
poteri di emendamento su bilanci e norme annuali si assestamento.
Il controllo sul governo - Il rapporto tra organo legislativo ed esecutivo costituisce un tema classico di
confronto per gli studiosi della politica comparata. Vi è una varietà di configurazioni con le quali un
legislativo può contrastare e controllare le attività di governo. A questo tipo di controllo “politico”,
orientato soprattutto a garantire le minoranze e le forze non rappresentate nell’esecutivo, si aggiunge una
più ampia e fattiva attività tecnica di screening dei singoli parlamentari, esercitata sia ex ante sulla fate
ascendente dei processi che ex psot sui riflessi e sui risultati delle amministrazioni.
L’uso degli strumenti di controllo da parte dei legislatori rispetto a governo e amministrazione configura
molti obiettivi e strategie. Strumenti classificati in:
Il question time e le azioni volte ai responsabili dell’azione di governo sono uno strumento tipico dei sistemi
maggioritari, dove l’esecutivo viene incalzato dall’opposizione. Le altre attività di “ispettivo” possono
contenere gli obiettivi più diversi: voglia di rappresentare, tentativi di orientare l’agenda del governo,
ricerca di convergenza con gli altri partiti, volontà di apparire nelle cronache e nelle statistiche al fine di
portare avanti l’obiettivo individuale per eccellenza: la rielezione.
Le audizioni costituiscono uno strumento anch’esso utile per varie finalità che intende avvalersi di queste
prerogative per conoscere il punto di vista e le informazioni provenienti della società civile così come da
altri poteri dello Stato. Le inchieste si rifanno alle facoltà aggiuntive degli organi legislativi, e alla loro
autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato.
Il ruolo delle assemblee territoriali nel sistema politico – Il primo elemento da mettere a fuoco della crescita
funzionale e “reputazionale” delle assemblee territoriali. In 42 democrazie contemporanee, sia il livello
complessivo di “potere legislativo” delle assemblee subnazionali che la loro capacità di controllo
sull’operato del governo centrale è aumentato in modo consistente. Tale crescita risente di fenomeni
diversi: in parte si tratta di processi di pressione dal basso che hanno determinato l’erosione dello Stato
centrale e la dinamica di federalizzazione in molte realtà. Negli ultimi decenni si sono imposti anche
percorsi di collaborazione interistituzioanaleche attribuiscono alle assemblee regionali compiti di
monitoraggio su processi decisionali o sulla competenza di interi settori di politiche pubbliche che vengono
sottratti al legislatore centrale.
Il governo - la reinvenzione
Il governo è una componente essenziale della politica perché non è mai esistita un’esperienza di comunità
nella quale non sia emersa un’entità capace di esprimere quelle funzioni di coordinamento e di guida che
associamo a questo concetto.
Il governo è stato reinventato dalla politica, in parallelo al processo di reinvenzione dello Stato. All’inizio del
XX sec, gli elementi fondamentali dell’azione di governo – il controllo sull’ordine interno e la difesa delle
minacce esterne – si riflettevano in comportamenti reattivi, esercitati in caso di necessità. Più che del
governo come istituzione, è il problema del governo a porsi prima o poi in qualsiasi forma politica, proprio
perché ogni fenomeno definibile come “politico” evidenzia la necessità di alcuni soggetti di conquistare una
sfera effettiva di autorità ed esercitare le funzioni che ne discendono. Il termine governo abbraccia tutte le
funzioni presenti nella sfera dei sistemi politici e finisce per assumere vesti di molti soggetti istituzionali.
“Governament” include tutti gli attori che esplicano le funzioni tipiche in cui si ripartisce il potere: il
legislativo, l’esecutivo, il giurisdizionale.
Studio del governo contemporaneo – circoscritto alle democrazie consolidate, è inteso come “organo
responsabile delle funzioni tipiche del potere esecutivo”. Tale scelta indica le strutture e i soggetti
istituzionali che esercitano le facoltà fondamentali – regolative, decisionali, amministrative e di controllo –
nella direzione di un sistema politico. Queste facoltà segnano la funzione esecutiva, fondamentale nella
tripartizione dei poteri dello Stato moderno, e quella amministrativa, ovvero il perseguimento degli
obiettivi pubblici che assicura l’effettiva adozione delle decisioni prese in sede politica e quindi il generarsi
delle attese conseguenze di tali decisioni.
Samuel Finer ha lasciato una monumentale storia dei sistemi di governo sei sumeri fino alle nostre
democrazie; l’invenzione del governo – macchina centrale di ogni sistema politico – è il principale
contributo alla modernità. Questo fenomeno si sarebbe esplicitato attraverso un intreccio tra 4 elementi al
centro della sfera politica: il palazzo (la struttura che ospita il potere monarchico o monocratico), il forum o
piazza (la dimensione assembleare), la chiesa, ovvero l’organizzazione delle religione che ha sempre ha
avuto a che vedere con le funzioni di governo, e infine la corte, riferimento della nobiltà (ceti a cui viene
riconosciuta un’influenza maggiore rispetto al resto della società).
Il processo di istituzionalizzazione di determinate strutture al centro della vita politica è distinguibile in ogni
realtà politica e ha sempre trasformato tali istituzioni nel cuore del sistema.
La dottrina giuridica ha criticato gli assunti della teoria illuministica della separazione dei poteri, mostrando
come i latori del potere esecutivo si facciano carico di una pluralità di funzioni. La distinzione tra “politica”
e “amministrazione” è necessaria per preservare l’autonomia della sfera politica rispetto a quella giuridica,
che negli ordinamenti democratici giustifica il controllo di legittimità sugli atti emanati da qualsiasi autorità.
Lo sviluppo del governo democratico - L’esecutivo di una democrazia è un’istituzione, ovvero un sistema di
regole formali e informali all’interno della quale agiscono particolari attori politici, come i leader legittimati
dalla vittoria elettorale e il personale politico selezionato da partiti e altri soggetti istituzionali rilevanti, i
quali esercitano le funzione di comando, ovverosia influenzano i processi decisionali vitali per la democrazia
stessa. “
Le regole formali e quelle informali scandiscono l’intera vita di un esecutivo. Prima delle formalizzazione
delle norme la loro era una struttura semplice: il monarca ne costituiva la componente necessaria e i suoi
ministri erano subordinati dall’esistenza di un detentore unico della sovranità. Le cose cambiarono verso un
governo costituzionale; in tale fase si affermò il principio della responsabilità collettiva in una squadra di
governo composta da esponenti di élite accomunati dalla stesso livello di legittimazione. Questo portò
all’introduzione della nozione di monarchia parlamentare che favorisce la simbiosi tra governo e
parlamento superando il dualismo della fase rivoluzionaria tra parlamento elettivo e governo di nomina
regia. Il mutamento della forma di Stato, con l’avvento di ideali repubblicani e quindi con il rifiuto di una
soluzione come la monarchia costituzionale, costituisce il mutamento più evidente. Le figure istituzionali
createsi durante questa fase sono ancora oggi presenti; con l’avvento dei gabinetti ministeriali nascono il
primo ministro, il ministro delegato ad alcuni settori cruciali di politica pubblica, i ministri senza portafoglio
con deleghe circoscritte e senza la responsabilità di direzione di un dicastero, ovvero un centro di spesa
amministrativo, e finanche i sottosegretari, a loro volta delegati su specifici progetti.
Richard Rose – riassume la dinamica degli esecutivi in tre fasi storiche dello Stato minimo, Stato produttore
e Stato sociale.
Evoluzione della struttura di governo nel caso italiano: il gabinetto ministeriale della monarchia
costituzionale piemontese era composto da molti ministri che garantivano la continuità delle funzioni, in
primis la difesa dell’ordine interno e le capacità militari. L’istituzione del ministero del Tesoro e dei primi
sottosegretari di Stato costituisce un primo allargamento del governo verso figure specializzate che
ricevevano deleghe innovative e importanti. Sono i decenni dello Stato produttore, che in Italia scopre
funzioni importanti come l’intervento nell’economia e la necessità di servizi sociali. È in questo periodo che
il governo italiano comincia a pianificare il proprio intervento nell’economia acquistando imprese e
costituendo quell’amministrazione parallela fatta di strutture pubbliche che sostituivano l’impresa e
l’industria in alcuni settori cruciali. Nel contempo, si realizzava un nucleo basilare ma rilevante di politiche
destinate alla cittadinanza: le assicurazioni sociali, sul lavoro e la previdenza sociale.
Lo stato sociale corrisponde ad uno sforzo più ingente e a un impegno in tanti settori della spesa pubblica
che favoriscono politiche di redistribuzione e di crescita della società. La salute e la scuola pubblica sono le
prime voci di questo nuovo corso (dagli anni successivi alla guerra e alla caduta del fascismo). Nuovi tipi di
assicurazione e nuovi impegni dello stato in economia sono testimoniati dalla nascita di ministeri specifici
per le politiche di bilancio e programmazione economica e per partecipazioni statali. Questa fase di
espansione quantitativa e qualitativa del governo si completa nel decessi successivi, con la nascita del
ministero per l’ambiente e per la ricerca scientifica e tecnologica.
Cheibub ha proposto una classificazione, distinguendo tra i sistemi presidenziali (nei quali il governo
risponde al presidente e non al legislativo), sistemi parlamentari (dove il governo risponde al presidente e
non al legislativo, e il presidente non è eletto in modo indipendente o non ha poteri sul governo) e sistemi
misti. Questa ha un problema di esaustività e appiattisce le differenze all’interno della categoria residuale
dei sistemi misti – si tratta di sistemi semipresidenziali, dove un presidente demo-eletto mostra qualche
potere su un esecutivo che pure rimane responsabile di fronte al parlamento.
La prima concerne il tipo di legittimazione del capo del governo, che può essere popolare o
indiretta (ovvero mediata dal parlamento)
La seconda attiene alla durata dell’ufficio del capo di governo, che può essere determinata oppure
vincolata al persistere di un rapporto fiduciario da parte dell’organo legittimante
Gran parte delle democrazie contemporanee riproducono la triade di modelli (presidenziale, parlamentare,
semipresidenziale). Il presidenzialismo – come negli Stati Uniti – prevede una forte legittimazione popolare
derivata dall’elezione popolare e una durata del mandato scadenzata dalla Costituzione. Nel
parlamentarismo classico (il governo britannico) la nomina del capo dell’esecutivo è di competenza del
parlamento che può in qualsiasi momento ritirare tale delega con un voto di sfiducia che interrompe
l’azione dell’esecutivo.
- Ildirettorio (sistema con cui si governa la confederazione svizzera): dopo ogni turno elettorale il
governo si forma con un’ampia partecipazione dei partiti che si riconoscono in una coalizione di
soggetti uniti dall’interesse nazionale. Il legislativo sostiene l’operazione attribuendo la presidenza
del governo ai leader dei vari partiti.
- Il premierato elettivo – è una forma di governo nella quale la legittimazione personale e popolare
del leader non corrisponde a un mandato “garantito”, me deve essere confermato nel tempo dalla
fiducia parlamentare (sistema esistito nell’esperienza israeliana tra il 1996 e il 2003).
- La variabilità più evidente si conferma oggi attorno al terzo tipo; il semipresidenzialismo (nel
sistema della V Repubblica francese) – che consta in governo rispondente al legislativo, e un capo di
Stato elettivo, che condivide i poteri esecutivi con il primo ministro.
I sistemi di governo sono complessi perché tanti sono i fattori che incidono sul loro funzionamento: oltre
alle regole relative al mandato del leader e alla sua legittimazione vi sono le regole costituzionali relative al
processo di formazione e crisi di governo, la natura dei portafogli ministeriali e il ruolo dei partiti
nell’interno processo della vita di un governo.
Formazione, fiducia e crisi. Vincoli costituzionali e procedurali sul sistema di governo - Diverse regole per
il funzionamento dell’intero sistema di governo, che incidono sulle due dimensioni che affiancano quella
dell’elettività dell’esecutivo: le dimensioni dell’operatività e del rendiconto, ovvero della responsabilità
assunta dai governanti. In tutti i parlamentarismi il governo è legittimato per via indiretta attraverso le
camere, ma il suo processo di formazione può essere regolato assai diversamente. In alcune democrazie del
modello maggioritario la procedura appare semplificata, in quanto la maggiore decisività delle elezioni e il
connotato semplificato del sistema partitico consentono la proiezione verso la nomina a primo ministro del
vincitore delle elezioni. Altrove è più complesso: dopo le elezioni può iniziare una fase di confronto che
coinvolge i gruppi parlamentari, le delegazioni dei partiti interessati, talvolta la mediazione del capo dello
Stato e a volte anche altri soggetti istituzionali o rappresentanti delle parti sociali che il formateur (colui che
ha ricevuto un mandato per formare un nuovo governo) può convocare per avere un’idea dei problemi in
agenda e del livello di consenso raggiungibile dalle varie soluzioni proposte.
L’esistenza di una specifica procedura per celebrare la fiducia parlamentare è un ulteriore elemento che
sposta nell’arena parlamentare e nella fase postelettorale alcune importanti decisioni su chi e come si
governerà. Laddove questa procedura non esiste (fiducia tacita o parlamentarismo negativo) sono i risultati
elettorali e quindi le decisioni prese dai competitori partitici prima della competizione elettorale a trovare
un’automatica applicazione: il programma elettorale del partito vincente diventa programma di governo.
Le procedure del parlamentarismo positivo possono creare problemi di sostenibilità all’esecutivo, specie in
presenza di altre condizioni di complessità, come un sistema partitico frammentato. Esistono anche varianti
costituzionali del parlamentarismo positivo che lo proteggono del rischio di eccessiva instabilità. È il caso
dell’istituto della sfiducia costruttiva vigente in Germania e in Spagna – è possibile mandare a casa un primo
ministro solo nel momento in cui si attribuisce fiducia a un altro, e ciò favorisce la continuità dell’azione
dell’esecutivo.
In Europa lo spazio di variazione nel rapporto tra capo di governo e ministri spazia tra una significativa
applicazione del principio monocratico grazie alla quale il capo del governo ha pieni poteri di scelta sulla
squadra ministeriale, e ne dirige il lavoro obbligando i singoli ministri a determinare azioni, fino alla piena
applicazione del principio monocratico grazie alla quale il capo del governo ha pieni poteri di scelta sulla
squadra ministeriale, e ne dirige il lavoro obbligando i singoli ministri a determinare azioni, fino alla piena
applicazione del principio collegiale, nella quale l’attore che propone e nomina i ministri, governa assieme
ad essi. L’azione del capo di governo è di coordinamento, mentre i processi decisionali seguono la regola
dell’unanimità e vincolano il titolare del governo a cercarsi adesioni da parte degli altri membri
dell’esecutivo. Il primo dei due modelli, quando il sistema bipartitico e quindi il sostegno parlamentare da
parte del solo partiti vincitori garantivano la fusione tra esecutivo e maggioranza parlamentare, è stato
definito come governo del primo ministro. All’estremo opposto si trova il governo collegiale (Belgio,
Olanda, Italia della Prima Repubblica).
Il massimo livello di controllo presidenziale si ha quando si realizzano le 2 condizioni della coerenza tra le
maggioranze parlamentare e presidenziale e dell’unità nel partito o del cartello presidenziale. La riforma del
2002 che ha abbreviato il mandato del presidente da 7 a 5 anni, allineando il suo termine con quello
dell’Assemblea nazionale, ha in realtà ridotto i rischi di coabitazione.
L’utilizzo della teoria delle delega nell’analisi dei processi di formazione e interruzione dei governi conferma
la distanza di 2 modelli che possono essere associati al modello parlamentare (nella versione primo-
ministeriale) e presidenziale (nella versione pura degli Stati Uniti). Il primo modello comporta una catena di
deleghe dove l’unitarietà e quindi la coesione di ogni agente rispondono al proprio principale sulla base di
un’attribuzione di deleghe. L’applicazione rigida del modello minimizza i rischi di deviazione del rapporto di
delega. Questo idealtipo sarà caratterizzato da primi ministri con una forte delega parlamentare, ministri
con ampio spazio di manovra sottoposto allo screening del premier che con il suo staff potrà “giudicare” i
suoi ministri, e infine un rapporto biunivoco e trasparente tra i ministri e i rispettivi agenti, ovvero le
agenzie dipartimentali che dovranno fattivamente realizzare gli interventi. Il modello della delega duale è
connotato da rapporti ugualmente biunivoci e trasparenti poiché l’elettorato presidenziale e quello del
Congresso sono tecnicamente diversi. Il presidente ha ampi poteri di delega.
Governi, partiti e teoria delle coalizioni – la dimensione partita del governo. La democrazia moderna
esprime sempre un governo di partito, nel senso che la corrispondenza tra leader partitici in competizione e
futuri governanti, così come tra manifesti elettorali e future agende di governo è diretta e spesso
simmetrica.
Quando si tiene che tale legame è scarso, può capitare che si sollevi da parte degli intellettuali il bisogno di
un governo di partito capace di rendere responsabile e ordinato il passaggio tra la sfera della mera
rappresentazione delle idee e quella sintesi che dovrebbe condurre a un indirizzo politico saggio. Quando
invece i partiti sono presenti nella società, magari mostrando scarse capacità e sensibilità, anche per le
caratteristiche scadenti della loro dirigenza, è facile riscontrare un discorso pubblico apertamente
antipartitico.
a) Le decisioni vengono prese da un personale di partito eletto nelle cariche più rilevanti
dell’esecutivo;
b) Le politiche pubbliche sono decise all’interno dei partiti, che agiscono con coesione nella difesa di
tali piattaforme;
c) I detentori delle cariche sono reclutati e agiscono come rappresentanti del proprio partito nella loro
esperienza di governo.
Questa definizione consente un’accurata misurazione empirica, nei vari casi e nel tempo, del livello di
partiticizzazione del governo (partyness of governament).
Il governo di partito all’italiana era assai debole sul piano della formulazione e dell’applicazione di una serie
di politiche pubbliche. Si può sostenere che l’eccessiva partitocrazia della Prima Repubblica non ha
corrisposto a un governo di partito forte, ma piuttosto a una situazione di stallo in cui dei partiti “grassi” e
organizzati non portavano a compimento le funzioni di governo.
McDonald e Budge hanno mostrato che l’inerzia del governo e la natura declaratoria dei manifesti partitici
producono un basso livello di impatto dei partiti nell’azione di governo. L’analisi qualitativa comparata che
può aiutare a capire quali sono i fattori specifici di un dato sistema o di altro tipo che spiegano un forte
impatto dei partiti nell’azione di governo. Proprio questi ultimi contributi hanno tentato di superare
l’originaria definizione party governament per individuare la griglia di sottodimensioni nelle quali questo
complesso rapporto prende le forme più disparate. Tali dimensioni sarebbero quella del policy making (si
confermano i limiti di impatto partitico), quella delle nomine (mostra la sovrapposizione tra classe di
governo e leadership partitica è un’evenienza che occorre solo nelle democrazie con le caratteristiche
tipiche del sistema Westminister oppure nel caso Americano dove la leadership partitica è “conquistata”
nelle convenzioni dal capo di governo) e quella del patronage.
Le teorie delle coalizioni - Chi forma una coalizione? Come vengono distribuiti i portafogli ministeriali?
Quali fattori spiegano l’equilibrio della coalizione o la fine di un’esperienza di coalizione?
a) I modelli classici dove i giocatori sono considerati office seeking (orientati a massimizzare la posta
delle spoglie di catturare)
b) I modelli incentrati sulla natura policy seeking dei partiti, ovvero sul loro orientamento a ottenere
“politiche”
c) I modelli razionali che mantengono centrale il ruolo giocato da alcune istituzioni
I primi contributi formalizzati negli anni 60 introducevano l’assunto della colazione minima vincente, ovvero
quella coalizione che diventa perdente con la sottrazione di un solo giocatore. Questa argomentazione
razionale dovrebbe essere sufficiente per permettere la formazione di un governo composto dai 2 partiti
che raggiungono la più risicata delle maggioranze possibili in parlamento. La coalizione minima vincente
sarà la coalizione con il minor numero di partiti, a prescindere dall’esistenza di soluzioni con maggioranze
ancor più risicate. Proseguendo con l’argomentazione relativa all’importanza della contiguità politica degli
attori, per consuetudine presentati in un continuum da destra a sinistra, l’ulteriore contributo teorico della
maggiorana minima connessa che compone un esito diverso. Gli studi basati sulla teoria delle coalizioni a
distanza minima introducono il tema della riduzione della distanza ideologica tra i partner, che comporta la
conoscenza dell’effettività affinità nelle posizioni programmatiche, e che contesta di una probabile
coalizione basata su un numero il più ridotto possibile di giocatori.
Laver e Shepsle formalizzano un modello dove le preferenze dei vari attori partitici in almeno 2 settori di
politica pubblica generano spazio per compromessi accettabili la cui sovrapposizione sarà capace di
spiegare la propensione a determinare coalizioni piuttosto che ad altre. Sono i partiti che controllano
l’elettore mediano ad avere un win sets più compatibile con gli altri, e quindi la possibilità nelle preferenze
degli attori, è possibile che nessuna soluzione si riveli accettabile per gli attori chiamati al governo. Il
fenomeno opposto è il governo di minoranza, ovvero un esecutivo da affidare a un partito o cartello
significativo considerato antisistema, tenuto in vita da un appoggio esterno. I governi di minoranza sono
classificabili vicino a quelli integralmente tecnici comparsi occasionalmente in situazioni di crisi.
Kaare Strom ha dimostrato un secondo tipo di governo minoritario che va considerata a tutti gli effetti
come una soluzione ordinaria, dettata dai costi di coalizione giudicati troppo elevati da parte di alcuni
giocatori. In alcuni paesi come le democrazie nordiche, la soluzione minoritaria è stata la norma più che
l’eccezione nel corso del secondo dopoguerra, producendo governi stabili e capaci di sfornare politiche
pubbliche con lo stesso ritmo degli esecutivi “maggioritari”.
Come si allocano le spoglie ministeriali tra i partiti della coalizione? Gli studiosi di terza generazione delle
coalition teories si sono posti il problema di combinare alcuni assunti tipici delle teorie tradizionali con lo
studio empirico dei fenomeni connessi alle istituzioni di governo.
La configurazione attuale dei governi democratici -In cosa variano i governi democratici contemporanei? 4
principali dimensioni nelle quali è possibile riscontrare una variazione consistente: i poteri formali e
informali, l’organizzazione interna al gabinetto, i meccanismi di selezione del personale, e la durata dei
governi stessi.
Relativamente ai poteri formali, oltre alle fondamentali facoltà costituzionali che discendono dal
sistema di governo, diventano le facoltà attribuite dalle prassi o dalle regole di funzionamento
interne dei parlamenti. A prescindere dal sistema di governo, un esecutivo è tanto più “forte”
quando può contare su un’architettura di norme scritte e non scritte che esaltano la sua autonomia
e tutelano la sua iniziativa legislativa.
Subentra la seconda variabile, quella della dimensione strutturale interna dello stesso esecutivo. I
governi nascono come insiemi più o mano formalizzati di delegati. Nello sviluppo storico delle
democrazie, in alcuni casi sono stati premiati i latori della prima delega (diretta o indiretta) ovvero i
capi di governo, mentre in altri paesi sono stati i ministri a massimizzare le risorse organizzative.
Quanto alla selezione del presidente ministeriale, si tratta spesso di politici “navigati” grazie a una
militanza partitica e alle precedenti esperienze politico-istituzionali. L’elemento di differenza è
quello relativo alla provenienza parlamentare: nel modello della “fusione” tra legislatori di
maggioranza e “squadra di governo” – le tipiche democrazie Westminister e a cominciare da quella
britannica – i ministri non solo provengono dal parlamento ma sono tenuti a mantenere il proprio
seggio durante il mandato di governo. Nei presidenzialismi (in Olanda) i ministri non possono
ricoprire la carica di parlamentare e quindi essi debbono lasciare il proprio seggio di rappresentante
popolare.
La capacità di persistenza (la caducità) rappresenta la dimensione forse più studiata nell’analisi del
funzionamento di questi sistemi di governo connotati di una durata “incerta” degli esecutivi.
- Sviluppo di un nucleo del governo. La nozione di core executive permette di distinguere gli attori
che esercitano i poteri di indirizzo politico rispetto ai meri esecutori, al di là della comune
appartenenza a un corpo elettivo di ministri o membri di governo.
- Accentuazione della forza dei leader. È applicabile in tutti i sistemi e sarebbe rubricabile con il
termine leaderizzazione. La conquista della leadership sono divenuti gli elementi dominanti nei
processi elettorali, attirando sempre di più l’attenzione di elettori alla ricerca della “persona giusta”
più che del partito o degli stessi programmi.
- Mutamento della struttura di governo messo in luce dalla letteratura recente è il rapporto tra figure
politiche e figure di tipo tecnico. In parte questi fenomeno riguarda la crescita dei policy advisors e
di altre forme di staff reclutate dai politici per avere un supporto di competenze diverse rispetto a
quelle fornite dalla burocrazia. La presenza di tecnici nel governo si è moltiplicata negli ultimi
decenni nell’intero universo democratico e nei parlamentarismi europei, mostrando in alcuni ruoli
(quelli strettamente legati alla gestione delle politiche economiche e ad alto contenuto tecnico
come ad esempio la salute, la ricerca, l’ambiente, le infrastrutture) un utilizzo copioso di personalità
estranee alla politica, scienziati, esperti internazionali, portatori di interesse, che hanno
interpretato il proprio ruolo.
Elementi di variazione sul piano della natura istituzionale dei governi in alcune democrazie contemporanee;
i modelli non parlamentari sviluppano una verticalizzazione che può essere gerarchica e incentrata sul
piano monocratico o “duale” come quello del semipresidenzialismo francese. Il modello del Direttorio
svizzero consolida un principio opposto dal momento che ai sette membri dei Consiglio federale viene si
conferita una delega, ma essi ruotano attorno a tali “dicasteri” senza avere alcuna autonomia circa
l’istruzione delle varie pratiche che conducono alle decisioni. Ma le differenze più vistose emergono
all’interno delle democrazie parlamentari; vi sono casi di dispersione del potere, come quello belga, quello
italiano e quello olandese. Sotto il profilo procedurale è proprio il caso italiano, con la complessa procedura
del doppio voto di fiducia e con la tradizionale ricerca dell’unanimità in Consiglio dei ministri a costruire il
caso più difficile sotto il profilo della dispersione. Al contrario il meccanismo della sfiducia costruttiva ha
rafforzato il ruolo del primo ministro e quindi ha reso più stabile l’intero processo di governo in Spagna e
Germania. Si devono considerare però altre 2 dimensioni che diventano fondamentali:
1. La prima è costituita dall’impatto del sistema partitico sul funzionamento dei governi – si indica il
livello policentrico dell’equilibrio istituzionale raggiunto nel sistema di partiti presenti nelle
istituzioni rappresentative, al fine di dare al governo flussi decisionali stabili.
2. I governi a maggioranza minima e quelli monopartitici garantiscono un funzionamento avversariale
nel confronto tra governo e parlamento.
Queste due dimensioni sono correlate nel quale tutte le caratteristiche del funzionamento del governo e
del sistema partitico vengono racchiuse in una macrodimensione esecutivi/partiti. Per definire un governo
“forte” è necessario osservare una terza dimensione, quella della capacità di controllo amministrativo degli
esecutivi. La presenza di uno staff capace di monitorare l’applicazione delle politiche stesse, l’effettiva
disponibilità di risorse conoscitive tali da rendere efficace un controllo sulle procedure e rispondere in
modo convincente alle “interrogazioni” dei legislatori, la reputazione dei direttori della varie branche
amministrative e delle agenzie che fanno capo al governo centrale.
Lo sviluppo delle istituzioni di governo territoriale - Il contenimento del potere degli Stati nazionali a
favore di un crescente numero di organizzazioni sovranazionali e lo sviluppo di un sistema di governance
multilivello hanno determinato una serie di cambiamenti, esaltando anche il rilievo delle istituzioni
subnazionali. Oggi la dimensione del governo locale o subnazionale è percepita come un rilevante assetto
nel processo di governo nelle realtà statali più circoscritte, e a prescindere dalla presenza di una
Costituzione orientata in sensi federale o verso un decentramento politico e amministrativo. I risultati di
questo processo è stato definito come erosione dei poteri dello Stati centrale a favore di una serie di livello
territoriali e funzionali di governo. Le riforme avvenute a partire dal 1975 sono dominate dall’allargamento
dell’autorità.
Il punto più rilevante dello sviluppo del governo territoriale è quello relativo all’impatto esercitato dalla
sfera locale sul sistema di governo complessivo. Ad esempio i patti territoriali o di stabilità interna legano la
continuità degli interventi a sostegno del territorio finanziati dai governi centrali alle caratteristiche o ai
meriti delle amministrazioni locali.
Le istituzioni del governo locale e metropolitano sono oggi i protagonisti di un sistema crescente di
condizionamenti e di interventi pubblici che si esplica nella formazione di soggetti misti, come le agenzie
territoriali e le aziende partecipate, che hanno il compito di spendere risorse pubbliche per garantire servizi
e implementare politiche pubbliche locali.
Nel 1997 Bassanini fu il promotore di una legislazione riformatrice finalizzata a una consistente
semplificazione e modernizzazione della pubblica amministrazione. Egli attribuì alle resistenze della
burocrazia italiana le principali responsabilità dei difetti e dei fallimenti di alcune delle iniziative riformatrici.
Il suo successore Brunetta lanciò una nuova riforma della pubblica amministrazione al grido di “lotta ai
fannulloni”. Da sempre i decisori politici hanno percepito l’amministrazione come un problema, così come
da sempre hanno dovuto fare i conti con la sua indispensabilità. Il ruolo delle burocrazie è essenziale per il
perseguimento di uno dei fini ultimi della politica: il mantenimento dell’ordine sociale.
Max Weber sostiene che la politica è la gestione quotidiana del potere, laddove si intenda la regolazione
del traffico, i servizi pubblici, il funzionamento delle scuole, come espressione operativa dell’uso del potere
politico, allora le burocrazie risultano essere attori “politici” fondamentali per la comprensione di cosa è e
di come funziona la politica.
Doppio significato di burocrazia:
Questo tipo di organizzazione è per Weber non solo l’espressione della prevalenza del potere legale ma è
anche una forma di organizzazione efficiente delle funzioni statuali. Per Weber l’organizzazione burocratica
è da considerarsi quella tecnicamente più razionale.
L’idealtipo burocratico di Max Weber è un punto di riferimento per l’analisi del comportamento
amministrativo e per il ruolo che le amministrazioni pubbliche svolgono nel processo politico. Il concetto di
“pubblica amministrazione” è più ampio di quello di “burocrazia”. Se infatti è vero che la gran parte delle
organizzazioni pubbliche hanno caratteristiche di tipo burocratico è anche vero che in queste stesse
amministrazioni possono coesistere elementi organizzativi di tipo non burocratico. Inoltre si deve osservare
che possono anche esistere amministrazioni pubbliche senza Stato (Unesco, Onu, ecc).
La pubblica amministrazione può essere definita in termini funzionali o in termini strutturali. Seguendo
Peters (1978), dal punto di vista funzionale, l’amministrazione può essere intesa come un insieme di attività
mediante le quali si attuano norme, ovvero come la traduzione di regole generali, formulate per l’interesse
collettivo, in decisioni specifiche. Dal punto di vista strutturale, le pubbliche amministrazioni sono l’insieme
degli apparati organizzativi la cui primaria finalità è quella di svolgere le funzioni richieste dalle decisioni
politiche formalizzate.
La struttura e l’organizzazione - per struttura si intende l’insieme dei principi costitutivi mediante i quali i
sistemi amministrativi nazionali vengono configurati. Per l’organizzazione facciamo riferimento alle
caratteristiche mediante le quali le amministrazioni impostano le proprie attività. Luther Guclick
sottolineava l’esistenza di 4 principi mediante i quali articolare gli assetti strutturali delle pubbliche
amministrazioni:
- Il criterio territoriale – distingue tra quei sistemi amministrativi nazionali che sono centralizzati e
sistemi amministrativi che operando in sistemi politici decentrati hanno una segmentazione di
apparati amministrativi che insistono nella stessa area di politica pubblica; è un criterio la cui
evidenza empirica dipende dalle caratteristiche della forma di Stato (Stato unitario/Stato regionale
o federale).
- Il criterio del processo– rimanda alle modalità sistemiche mediante le quali le pubbliche
amministrazioni operano e all’articolazione della divisione del lavoro tra le strutture
amministrative. Vi è poi il caso di strutture organizzative in cui vi è una separazione tra l’apparato
che ha il compito di progettare e controllare gli interventi e l’apparato pubblico che ha il compito di
attuare le politiche (ad esempio l’assegnazione ad agenzie l’attuazione delle politiche da perseguire
in determinare settori di politica pubblica; un’altra modalità di autorità indipendenti che hanno la
finalità di regolare o indirizzare un settore di politica pubblica al fine di preservare e tutelare
l’interesse collettivo).
- Il criterio relativo ai destinatari o all’oggetto trattato - fa riferimento al fatto che l’articolazione
istituzionale delle amministrazioni può andare a configurarsi in modo tale da focalizzare la propria
attenzione su uno specifico gruppo di interesse o settore della società. Tipo di organizzazione che si
caratterizza per il fatto di concentrarsi su uno specifico gruppo di riferimento.
Il personale– l’organizzazione del personale del modello burocratico tradizionale è caratterizzato da: una
selezione in entrata basata sul titolo di studio, generalismo, scarsa modalità verso il privato, forma
accentrate di reclutamento, inamovibilità del posto, elevato spirito di corpo, progressione in carriera basata
sull’anzianità, selettiva rappresentatività della società, rapporto di lavoro fondato per lo più sulla legge con
poco spazio per la contrattazione. Principi come la specializzazione professionale, l’elevata mobilità tra
impiego pubblico e impiego privato, le forme decentrate di reclutamento, la contrattazione collettiva, i
meccanismi meritocratici di merito, la retribuzione legata alla performance individuale sono stati introdotti
nei paesi occidentali. L’esito di questi processi di riforma ha drasticamente ambiato il quadro
dell’organizzazione del personale delle pubbliche amministrazioni.
La cultura amministrativa – rimanda all’insieme di valori e di credenze condivise che informano l’azione
delle pubbliche amministrazioni. È meglio distinguere tra dimensione esterne e interna della cultura
amministrativa. Per tener conto di queste due dimensioni il concetto di “cultura amministrativa” deve
essere suddiviso in:
Politica e amministrazione -Il dibattito sul rapporto tra politica e amministrazione si è storicamente
focalizzato sul problema del rapporto tra decisori politici e dirigenti amministrativi rispetto al fondamento
basilare del processo decisionale e cioè chi deve decidere. Questo rapporto è stato definito dicotomico, in
quanto si è postulata una separazione tra politica e amministrazione. Da una parte i decisori politici, che
detengono il potere sulla base del criterio di legittimazione vigente in un determinato sistema politico,
dall’altra parte l’amministrazione, che deve attuare la decisioni sulla base della legittimazione dovuta alla
propria competenza tecnica. La teorizzazione della dicotomia tra politica e amministrazione è citata da
Woodrow Wilson ed è riscontrabile anche in Weber, per il quale la neutralità dell’azione burocratica è un
elemento indispensabile.
Il tema del concreto operare delle relazioni tra politici e burocrati è diventato un oggetto di ricerca e ha
prodotto diverse proposte teoriche e interpretative che sono state riassunte da Peters [1987], il quale ha
individuato 5 modelli idealtipici di relazioni tra politici e burocrati nei processi decisionali:
Ilmodello formale – identifica le posizioni tradizionali sul rapporto tra politica e amministrazione.
Esso costituisce un punto di riferimento normativo, sia per la costruzione del ruolo delle burocrazie
sia per il dibattito politico.
Ilmodello del village life – assume che vi sia una forte omogeneità sociale, culturale e politica tra
politici di vertice e alti funzionari, tanto da farne un’unica comunità coesa. Questo modello
relazionale è caratterizzato da integrazione orizzontale.
Ilmodello funzionale – designa relazioni anch’esse integrate ma in senso verticale su linee di policy.
Le relazioni integrano tra loro politici e burocrati ai diversi livelli decisionali e istituzionali,
costituendo il nucleo portante di relazioni più ampie con i rappresentanti degli interessi sociali ed
economici di riferimento del settore di politica pubblica
Ilmodello antagonista – assume che i politici e i burocrati competano tra loro per ottenere posizioni
di potere e di controllo su un determinato ambito di politica pubblica.
Ilmodello dello Stato amministrativo – assume che i processi decisionali vengano dominati dalla
burocrazia. Tale supremazia può essere giustificata da vari punti di vista: vi è chi sottolinea come la
competenza tecnica superiore della burocrazia costituisca un punto di veto per i politici; per i
teorici della Public Choice le burocrazie hanno notevoli possibilità di interagire con l’ambiente
esterno e di manipolare i processi decisionali; inoltre la scienza politica ha mostrato come la
supremazia burocratica possa affermarsi nelle situazioni di instabilità politica e di vuoto di potere.
Politici e burocrati intrecciano modalità di relazioni diversificate a seconda della fase del processo
decisionali e del contesto. La definizione di politica democratica individua la difficoltà a distinguere i diversi
ruoli svolti dai politici e dai burocrati.
Le più recenti ricerche empiriche mostrano che la tendenza generale delle relazioni tra politici e burocrati
sembra fondarsi su una negoziazione continua. Essi infatti si conoscono reciprocamente e possono costruire
Nella prospettiva offerta da Page, invece, sia i burocrati sia i politici non sono liberi di agire ma sono
vincolati dal contesto politico-istituzionale in cui operano; i politici sono vincolati dalle preferenze
dell’opinione pubblica e dal contesto politico-economico in cui si trovano ad operare, i burocrati sono
vincolati dalla propria cultura organizzativa e dall’esigenza di evitare contestazioni successive.
In questo senso deve essere apprezzato il realismo analitico della prospettiva della politica burocratica che
suggerisce non solo di contestualizzare le relazioni ma anche di non enfatizzare ne una logica di separazione
me una logica di conflitto, quanto piuttosto una logica di integrazione dinamica. Si tratta di un’integrazione
che può assumere, a seconda del contesto, caratteri competitivi o cooperativi, nella quale ciascuno dei due
attori mette in gioco le risorse a propria disposizione al fine di ottenere dei vantaggi. I politici possiedono la
legittimità, il controllo delle risorse finanziarie, il potere di decidere; i burocrati possono contare sulla
competenza tecnica, la stabilità, la forza dell’ideologia burocratica e la possibilità di mobilitare i gruppi di
interesse di riferimento della propria sfera d’azione.
Il tipo di relazione più interessante è quella tra amministrazione e i gruppi portatori di interessi, economici
e sociali. I gruppi di interesse svolgono la loro attività di pressione a tutti i livelli dei processi decisionali. Le
amministrazioni hanno una convenienza a interagire con i gruppi di interesse. Esse ottengono risorse
importanti per la loro azione: informazioni, relazioni, autonomia, potere. Le amministrazioni hanno il
bisogno di strutturare relazioni con l’ambiente esterno, alla ricerca di quelle interdipendente che
consentano loro di sopravvivere, scambiando risorse. Perters [1977] ha individuato 4 tipi di relazioni che le
amministrazioni possono istaurare con i gruppi di interesse:
Relazioni legittime – relazioni consentite all’interno di un sistema politico. Richiede che vi sia il
coinvolgimento diretto, nella fase di attuazione di una politica, dei principali portatori di interesse
all’interno della stessa.
Relazioni di clientela – si verificano quando un gruppo di interesse diventa il rappresentante
esclusivo di un determinato settore di politica pubblica. La relazione assicura il totale monopolio del
gruppo di interesse in termini di rappresentanza e un rapporto di dipendenza totale da parte
dell’amministrazione.
Relazioni di parentela – sussistono quando un gruppo di interesse ottiene dei benefici diretti e
costanti dalle amministrazioni grazie alla stretta vicinanza con un partito al governo. Il gruppo di
interesse ottiene un accesso diretto all’amministrazione di riferimento che non può che
conformarsi alle sue richieste.
Relazioni illegittime – si verificano quando sono presenti gruppi di interesse che non si vedono
riconosciuta la rappresentanza oppure che sono esclusi per motivi politico-ideologici da relazioni
significative con le amministrazioni.
Accountability: esigenza che le amministrazioni rendano conto del loro operato in modo trasparente e
continuativo ai responsabili politici e quindi alla collettività. I governi sono obbligati a garantire
performance efficienti ed efficaci delle loro politiche e si trovano di fronte alla necessità di controllare
l’operato delle burocrazie, alle quali vengono delegate spesso competenze decisionali.
La questione dell’accountability non è solo un dato intrinseco dei processi decisionali, ma è anche il
prodotto di strategie di delega che i decisori pongono in essere, scaricando sulle burocrazie responsabilità
decisionali. Spesso, infatti, i decisori politici possono approvare leggi nelle quali la definizione degli obiettivi
o dei mezzi per raggiungerli sono ambigui, oppure in cui vengono stabilite solo linee di indirizzo generale,
lasciando alla fase di attuazione il compito di dettagliarne i contenuti. Si tratta di una dinamica di delega
che i decisori politici perseguono in modo sistematico per motivi diversi:
- Per lasciare margini di manovra all’esecutivo assumendo che le sue maggiori competenze tecniche
siano garanzia di migliore performance
- Per evitare la diretta responsabilizzazione rispetto alle scelte impopolari
- Perché si preferisce applicarsi ad attività più vantaggiose dal punto di vista elettorale
- Per il timore di non venire percepiti credibili rispetto agli obiettivi da raggiungere
Azzardo morale – rischio che gli apparati amministrativi utilizzino la discrezionalità concessa per
perseguire fini propri incoerenti o incongruenti con quelli previsti
Selezione avversa – rischio di sbagliare nella scelta della burocrazia ovvero del meccanismo
burocratico a cui si affidano determinati compiti
Controllo politico della burocrazia e “accountability” burocratica - I meccanismi di controllo politico delle
burocrazie possono essere esercitati sia a livello legislativo sia a livello strutturale. Strumenti procedurali:
Lo strumento strutturale più importante riguarda la possibilità legislativa di decidere a quale o quali
amministrativi affidare l’attuazione di determinare scelte. A livello di esecutivo lo strumento principale di
controllo della burocrazia è la politicizzazione delle cariche dirigenziali.
Burocrazie e amministrazioni nel XXI secolo: le sfide della globalizzazione - Il ruolo delle amministrazioni
pubbliche e quello delle burocrazie è stato sottoposto a continue pressioni al cambiamento del corso di
tutto il Novecento.
Sta prendendo sempre più corpo l’ipotesi di un’evoluzione neoweberiana dello Stato e delle burocrazie e di
una riscoperta della burocrazia. Questa prospettiva assume che vi sia una persistenza di caratteristiche
tradizionali nello Stato e quindi negli apparati burocratici; in particolare si osserva che:
Lo Stato si riafferma come principale facilatore per la ricerca di soluzioni ai problemi della
globalizzazione e delle trasformazioni tecnologiche, demografiche e ambientali.
Si sta riaffermando il diritto amministrativo, seppur aggiornato e modernizzato al fine di preservare
i diritti dei cittadini
Persiste l’idea che la pubblica amministrazione debba avere uno status particolare rispetto ad altre
organizzazioni
Il passaggio dall’azione orientata alla conformità all’azione orientata alla risoluzione dei problemi
dei cittadini
Il supporto al funzionamento della democrazia rappresentativa con strumenti di compartecipazione
e consultazioni
L’introduzione di meccanismi di controllo ex post senza abbandonare quelli ex ante
Il rafforzamento delle competenze burocratiche
Emerge con evidenza come nell’era della globalizzazione e dell’internazionalizzazione le burocrazie non
scompariranno ma anzi saranno un pilastro dei processi decisionali a tutti i livelli.
Politica orizzontale e opinione pubblica -Le elezioni registrano le opinioni degli elettori e rendono possibile
un governo in sintonia con la pubblica opinione. “Nelle democrazie l’opinione pubblica è il primo motore”.
L’opinione pubblica è l’insieme delle rappresentazioni o immagini che gli individui e i gruppi si formano, più
o meno autonomamente, e che ne orientano il comportamento.
Le rappresentazioni o immagini delle quali parliamo devono avere a che fare con la politica, così come le
scelte e le azioni devono in qualche modo essere collegate a questa. “Un’opinione viene detta pubblica non
solo perché è del pubblico, ma perché investe oggetti o materie che sono di natura pubblica: l’interesse
generale, il bene comune e la res pubblica”. Tre diverse definizioni di opinione pubblica che ne colgono lo
sviluppo storico:
1) Classica (o liberale) – i pensatori liberali e i riformatori democratici vedevano la formazione e la
diffusione delle grandi correnti di opinione come espressione degli interessi e delle idee della
borghesia illuminata, come segno di progresso e modernità e come un meccanismo di controllo
pubblico - cioè trasparente e a opera del pubblico dei cittadini – del governo e dei suoi eccessi. Tale
interpretazione fa emergere 2 elementi sotto il profilo istituzionale: - l’idea che l’opinione
presuppone un terreno di coltura riconducibile ai cambiamenti politici ed economici che
sconvolsero l’Europa del XVIII sec. e che portarono alla formazione della sfera pubblica. Per
Habermas [1962] questa costituisce uno spazio intermedio che si colloca tra lo Stato (inteso come
sfera del potere pubblico) e la società civile (ricopre l’ambito della vita privata economica e
familiare) che risulta affollato da nuove istituzioni. – l’autorità dell’argomento finiva per
soppiantare l’autorità del rango sociale; la sfera pubblica era la sede della critica razionale, del
discorso ragionato, della conversazione attiva e della contrapposizione discorsiva degli argomenti.
2) Collettiva (o sociologica) – l’attenzione si sposta sul soggetto, il pubblico, che diventa un fenomeno
sociale come le folle, il panico, le masse, riconducibile al genere del “comportamento collettivo”.
L’opinione pubblica diventa un fenomeno di aggregato, un prodotto cooperativo di comunicazione
e influenza reciproca. Il pubblico fungeva anche da meccanismo per l’adattamento e il
cambiamento sociale tanto più quando influenzava il reclutamento della classe politico e le sue
scelte.
3) Individuale (o psicologica) – si risolve nell’aggregazione delle opinioni di individui osservabili
attraverso gli strumenti (sondaggio) e i metodi (campionamento).
Segmentazione del pubblico: Lippmann [1922] distingue tra il pubblico di attori e di spettatori o tra pubblico
attivo e passivo. Gli attori sono coloro che “identificano i problemi, propongono soluzioni, e tentano di
conquistare gli altri al loro punto di vista”; gli spettatori “costituiscono un’audience per gli attori”,
limitandosi a seguire le azioni dei primi con più o meno interesse e coinvolgimento.
1) Lateoria della cascata (Karl W. Deutsch 1963), vede la formazione dell’opinione pubblica come
l’esito di una serie di passaggi che mettono in comunicazione dei serbatori o livelli diversi. Nelle
democrazie tali livelli di raccolta delle opinioni sono 5: quello delle élite economiche e sociali, delle
élite politiche e di governo, dei mezzi di comunicazione di massa, dei leader di opinione e del
pubblico di massa. Il fattore che qualifica il modello è il continuo rimescolamento di idee, opinioni e
influenze che avviene all’interno di ogni serbatoio.
2) Lateoria del ribollimento, punta l’attenzione su un’opinione pubblica che emerge dal basso. Si può
parlare di “correnti di opinioni” dotate di un notevole potere di pressione sulla classe politica e le
istituzioni e hanno una notevole forza nella formazione dell’agenda dei temi da affrontare da parte
delle autorità.
3) Lateoria dei gruppi di riferimento, sposta l’attenzione sulle identificazioni come fattori costitutivi
dell’opinione pubblica. Questo modello implica l’esistenza e l’attività di specifici gruppi di
riferimento: famiglia, gruppo di pari, gruppo di lavoro, partiti, gruppi religioso, di classe, etnici, ecc.
Oggi i partiti sono più deboli nel produrre identificazioni dei gruppi di lavoro o professionali e
soprattutto dei mass media, considerati come sistemi sociali complessi.
La partecipazione politica - “Coinvolgimento dell’individuo nel sistema politico a vari livello di attività, dal
disinteresse totale alla titolarità della carica politica”. Tale definizione enfatizza il coinvolgimento dal basso
quanto l’esercizio di ruoli politici (dal leader sindacale o partito al capo del governo). Prendere parte alla
vita politica si distribuisce lungo una “scala della partecipazione” i cui gradini implicano una intensità
crescente di impegno e una maggiore influenza sulle decisioni.
La partecipazione politica è l’insieme di tutte quelle occasioni in cui, nell’ambito di un certo contesto (Stato,
collettività o associazione) del quale si fa parte (dove), donne e uomini, singolarmente o in gruppo (chi),
fanno uso di un certo repertorio di azioni, convenzionale o non (come), per cercare in influenzare la selezioni
e le decisioni di chi ricopre cariche pubbliche rappresentative e di governo (che cosa), al fin di modificare o
conservare il sistema di interessi e di valori dominante (perché).
Alcuni studiosi americani hanno sostenuto che nelle democrazie avanzate sarebbe opportuno chiedersi
“perché la gente non partecipa?”. La loro risposta era che le persone non si impegnano per 3 ragioni:
a) Non possono (livello macro), a causa di fattori strutturali che impediscono od ostacolano la
partecipazione;
b) Non vogliono (livello micro), in conseguenza degli orientamenti psicologici o soggettivi che
spingono o meno un individuo alla partecipazione;
c) Nessuno glielo chiede (livello meso), a causa di fattori organizzativi o associativi che supportano la
partecipazione
NON POSSONO – questa risposta ha a che fare con la capacità dei cittadini e la qualità di risorse – tempo,
denaro, competenze, informazioni – disponibili. Le condizioni strutturali dipendono dalla disponibilità delle
capacità/risorse (distribuzione della ricchezza, grado si sviluppo economico, livello di istruzione, mobilità,
informazione, tecnologie, ecc.).
Teoria dello status socioeconomico: chi ricopre uno status socioeconomico più alto o centrale è
maggiormente interessato alla politica e partecipa di più.
- Il voto obbligatorio
- I sistemi elettorali proporzionali
- La registrazione automatica degli elettori nelle liste elettorali al compimento della maggiore età
- La previsione di elezioni simultanee
- La scheda elettorale, semplicità di espressione del voto e libertà offerta all’elettore
- Norme sul finanziamento delle attività dei partiti e di movimenti politici aperte anche alle
formazioni minori e nuove
NON VOGLIONO –questa risposta rimanda alle motivazioni, cioè al coinvolgimento psicologico associato
con il grado di interesse, di informazione e di efficacia politica dei partecipanti. I comportamenti sono
immersi in strutture di atteggiamenti e senza comprendere questi ultimi non è facile dare senso ai primi.
Atteggiamenti e orientamenti soggettivi sono il riflesso delle caratteristiche della situazione, dei processi di
socializzazione che si verificano durante l’infanzia e dell’esposizione dei mass media, nonché delle
esperienze compiute in età adulta rispetto alla politica e al governo.
1) In queste reti si produce e si capitalizza una speciale risorsa costituita dalle “competenze civiche”,
cioè l’insieme delle capacità organizzative e comunicative che sono essenziali per prendere parte
attivamente
2) È relativa alle sedi dove queste competenze possono esser acquisite, nelle istituzioni sociali
secondarie e prepolitiche (scuole, associazioni, chiese, partiti politici).
Modello dell’identificazione partitica: Pizzorno [1993] avvertiva che si partecipa solo se si è tra uguali, ma il
sentimento di uguaglianza è una costruzione delle attività, che alla fine producono riconoscimento, identità
condivise e lealtà stabili.
Se si resta isolati da associazioni e reti organizzative si riducono gli incentivi a far parte e prendere parte; la
gente non partecipa.
Lasswell [1948] circoscrive l’ambito della comunicazione politica ad alcuni elementi: chi dice cosa (la fonte o
emittente del messaggio), attraverso quale canale o medium (più esattamente i canali o mezzi fisici
attraverso i quali il messaggio è trasmesso), nei confronti di chi (i destinatari del messaggio) e il fedd-back,
ovvero la reazione di chi ha ricevuto il messaggio. Lo schema è stato reso più completo aggiungendo il ruolo
attivo degli agenti della comunicazione (giornalisti, addetti alla stampa). Lo schema formale diventa:
“La comunicazione politica riguarda gli scambi e le interazioni che hanno a che fare con l’interesse generale,
anche se talvolta si tratta di temi rispetto ai quali c’è un accordo di fondo, talaltra sono controversi e allora
diventano fonte di mobilitazione di schieramenti pro e contro.”
Governare una società comporta un costante ricorso alla comunicazione per informare i cittadini, per
consentire la trasmissione e l’applicazione delle decisioni vincolanti. La comunicazione politica si pone
l’obiettivo di persuadere i cittadini per conseguire fini di parte (propaganda). Comunicazione come
strumento di integrazione e di trasparenza che aumenta la qualità della democrazia e come arma nella lotta
per il potere. Essa si risolve nell’insieme di scambi o interazioni che si realizzano nel triangolo costituito
dagli attori politici, i mass media e il pubblico di cittadini. Il “peso dei tre attori” nelle concrete situazioni dei
diversi contesti politici è di fatto sbilanciato, risultando assai più forte quello dei mass media. Questo
modello più realistico è chiamato “modello mediatico della comunicazione politica”. Per capire la logica di
funzionamento della mediatizzazione della politica è apprezzare la centralità dei mass media e dei loro
professionisti alla luce di 2 parametri:
a) Quellosistemico, che mira a cogliere il grado di subordinazione-autonomia dei media e dei loro
operatori della politica
b) Quellomassmediale, relativo all’orientamento professionale dei mezzi di comunicazione di massa
Il primo parametro, elaborato da Blumer e Gurevitch [1975], è costruito sulla base di 4 dimensioni:
1) La struttura proprietaria del sistema dei media; i due autori enfatizzano il grado di controllo statale
dei mass media
2) Il grado di leadership dei mass media è tanto maggiore quando i giornali sono di proprietà delle
forze politiche e dei loro leader o dei governi
3) Il grado di integrazione delle élite politico-mediali: tra i 2 gruppi c’è separatezza dei processi di
formazione, carriera e reclutamento, o c’è simbiosi
4) Il grado in cui la professione di giornalista è percepita come indipendente da pressioni e viene
riconosciuta la sua funzione sociale
Il secondo parametro, elaborato da Blumer, Katz e Gurevitch [1974], vede 2 poli di orientamento:
1) Pragmatico – i mass media sono portati a dare copertura informativa a quegli aspetti della vita
politica che ritengono corrispondere alla domanda del loro pubblico (Stati Uniti).
2) Sacerdotale – tipico di un giornalismo sensibile alle esigenze del sistema politico, pronto a officiare
il rito dell’informazione al servizio di parte, sia pure delle più alte cariche di governo, mettendo in
secondo piano le regole della logica mediale (Italia, Svezia, Francia).
Farrel e Webb [2000] hanno parlato dell’esistenza di 3 “mondi” della comunicazione politica che
caratterizzano le democrazie occidentali. La prima fase è quella “premoderna”, che coincide con l’egemonia
dei partiti di massa, alla quale hanno fatto seguito quella della “rivoluzione televisiva” e quella della
“rivoluzione della telecomunicazione”.
Pippa Norris [2000] ha parlato di “campagne” premoderne, moderne e postmoderne, mentre Blumer e
Kavanagh [1999] rivendicano l’esistenza di 3 età della comunicazione politica. La prima è contraddistinta dal
dominio delle partiti di massa e dall’influenza indiretta del sistema dei media, le due più recenti sono
caratterizzate dalla mediatizzazione della politica. Tali sviluppo riguardano una serie di caratteristiche
strutturali e processuali della politica:
- Importanza del marketing politico, volto a valorizzare le potenzialità del candidato rispetto a un
certo mercato di elettori, e della sua evoluzione nelle campagne comunicative negative, in cui si
cerca di demolire la credibilità degli avversari e si ricorre a messaggi che sollecitano reazione
emotive del pubblico
- Tendenza alla personalizzazione della politica, che può assumere 2 forme distinte:
1.la leaderizzazione dei vertici dei partiti; la centralità data nelle campagne elettorali all’immagine dei
candidati e dei leader amplificate dai media
2. la presidenzializzazione dei sistemi di governo con l’acquisita rilevanza dei vertici degli esecutivi
Sempre più siparla di una “quarta età” della comunicazione politica caratterizzata dalla disintermediazione
o dalla “mediatizzazione estesa”.
I gruppi di interesse– sono organizzazioni formali di “carattere permanete dotate di personale a temo
pieno, che si specializzano nell’opera di individuazione, promozione, e difesa degli interessi, influenzando e
contestando le politiche pubbliche [Schmitter].I tratti che li caratterizzano sono sia organizzativi (la
struttura) che attinenti alle modalità di azione (le funzioni). Distinzione tra:
“Gruppo di interesse” – si qualifica quale “attore del sistema sociale” volto alla tutela di specifici
interessi economici
“Gruppo di tensione” – rimanda alle strategie adottate per il perseguimento dei fini istituzionali,
appunto la possibilità di influenzare le autorità politiche
Sono tutti gruppi di interesse nella misura in cui aggregano individui che condividono gli stessi moventi o
preferenze, si pongono obiettivi di tutela di certi interessi o di promozione di specifici valori o diritti agendo
prevalentemente sul terreno della società civile. Quando per le loro strategie li mettono in relazione con il
sistema politico e li portano a cercare di influenzarne le decisioni agiscono quali gruppi di pressione.
Per Almond e Powell [1978] i gruppi di interesse sono coinvolti principalmente nelle attività di
“articolazione degli interessi”, cioè nella trasmissione, selezione e organizzazione delle domande che
emanano dalla società civile. I gruppi di interesse “cercano di influenzare in loro favore le politiche
pubbliche senza assumere responsabilità di governo” e a tal fine ricorrono a strategie dirette che investono
le istituzioni e indirette attraverso i mass media e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Lobby e lobbyng: insieme di attività o processi attraverso i quali i rappresentanti dei gruppi di interesse
comunicano ai decisionmakeers informazioni alle loro organizzazioni. La qualità e l’efficacia della loro
attività o pressione essa dipende da varie risorse, che Almond e Powell intendono sia in termini si stabilità
di tempo sia di livello di formalizzazione. La tipologia prevede questi tipi:
1) I gruppi anomici – strutture spontanee e non formalizzate che danno voce alla protesta
2) I gruppi di interesse non associativi – si basano su legami tradizionali (razza, genere, religione) o su
“interessi comunemente percepiti”
- Gruppi di interesse economici, imprese, sindacati, associazioni sono dei “partecipanti al mercato”,
che riflettono l’organizzazione di classe e la divisione sociale del lavoro; il loro principale obiettivo è
influenzare le politiche pubbliche che incidono sulla posizione relativa che i loro membri hanno sul
sistema economico
- Gruppi fruitori delle politiche pubbliche nascono come conseguenza dell’intervento statale
Inoltre Salisbury [1975] distingue tra gruppi sezionali o economici (sindacati, associazioni di categoria o
professionali, imprese), gruppi promozionali volti a una causa pubblica e gruppi istituzionali (i dirigenti
pubblici, i magistrati).
Rapporto tra interessi e politica – analisi delle funzioni dei gruppi di interesse considerati come agenzie di
mobilitazione di individui, risorse e obiettivi in vista dell’azione collettiva, di rappresentanza delle domande
e di influenza o accesso alle istituzioni pubbliche. Tali aspetti funzionali erano già stati ricondotti da Morlino
[1991] alla nozione di gate-keeping che implica:
Rapporto tra interessi e istituzioni – tali rapporti prevedono una graduazione di controllo-autonomia degli
interessi nei loro rapporti con le istituzioni e i partiti:
Diversa tipologia d’azione dei gruppi di interesse è proposta da Erne [2006] sulla base di 2 criteri:
I movimenti sociali – sono forme di azione collettiva “oppositive” rispetto ai tradizionali canali della politica
istituzionale (partiti, parlamenti) e del mercato (gruppi di interesse).
“I movimenti sono delle a)reti di relazione informali, b)basate su credenze condivise e solidarietà, c)che
danno luogo a una mobilitazione di tipo conflittuale, d)attraverso il ricorso a varie forme di protesta”
[Tarrow 1996]
Per Charles Tilly [1978] i movimenti sono il prodotto delle asimmetrie nella distribuzione del potere
(politico ed economico) e delle lotte tra gruppi per il riequilibrio che ne conseguono. Melucci [1977]
precisa che “quelli che si ribellano per primi non sono i gruppi oppressi e disgregati, ma coloro che
sperimentano una contraddizione tra una identità collettiva esistente e i nuovi rapporti sociali
imposti dal mutamento”. I movimenti sono il prodotto del mutamento sociale e politico e del
disagio prodotto dal contrasto tra i vincoli oggettivi e le aspettative soggettivi. Alberoni [1981]
afferma che i movimenti nascono dalla delusione, più esattamente “i membri delle classi minacciate
di declassamento e quelli delle classi in ascesa in comune la delusione nei riguardi di un ordine in
cui avevano creduto per cui sono trascinati a esplorare strade alternative”. Pasquino [2009]
distingue tra i soggetti che danno inizio a un movimento e coloro che si avvantaggiano dei risultati
conseguiti dell’azione conflittuale.
L’attivazione e l’efficacia dei movimenti sociali dipende anche da una serie di aspetti complementari
– veri e propri meccanismi di facilitazione dell’azione collettiva.
Storicamente i movimenti tradizionali hanno avuto radici nazionali, e oggi tendono ad avere carattere
transnazionale, di movimenti globali. I movimenti evolvono verso nuove forme che rendono il confine con i
gruppi promozionali più sfumato:
La politica in azione - La politica è un’attività o una sfera di azioni finalizzate a risolvere problemi ritenuti di
rilevanti collettiva. Ma la “politica”, intesa in questo senso, è fatta di una serie continuativa di azioni e
inazioni, di discussioni, di progettazioni, svolte a diversi livelli e in diversi contesti all’interno del medesimo
sistema politico.
Per affrontare la politica in azione è opportuno ricorrere al concetto di politica pubblica, quindi a un modo
di affrontare i processi decisionali per il quale “chi ha il potere” è solo uno degli elementi del processo
mediante il quale si decide cosa fare e si attua la decisione presa. Pertanto è necessario adottare una
prospettiva analitica più articolata dei processi decisionali, capace di focalizzare l’attenzione non solo sul chi
vuole cosa, ma anche su:
I processi decisionali come politiche pubbliche - L’analisi delle politiche pubbliche concettualizza la politica
in azione come politica pubblica.Vi è una condivisione tra gli studiosi sul fatto che:
- le politiche sono caratterizzate da un’intenzionalità perseguita dagli attori coinvolti, che sono i veri
protagonisti delle politiche
- le politiche sono un fenomeno dinamico e processuale, che si sviluppa nel tempo
Questi tre elementi (attori, intenzionalità e dinamicità) sono stati utilizzati nelle proposte di definizione. Per
ordinare questa varietà è utile dividere la gamma delle definizioni in 2 tipi: a)quelle “ristrette”, che
focalizzano l’attenzione sul ruolo del governo o su un’autorità pubblica e b) quelle “ampie”, che mirano a
includere una maggiore variabilità di attori ed eventi.
Definizioni “ristrette” di politica pubblica – la intendono come un fenomeno simile alla decisione politica
discreta, all’atto di volizione degli attori politici o ad attività processuale degli stessi
Definizioni “ampie” di politica pubblica – consentono di includere una pluralità di dimensioni e di elementi
rilevanti per un processo decisionale
Traendo origine dalla proposta di Lasswell di ordinare funzionalmente le attività che si manifestano nel caso
dei processi di policy, gli studiosi delle politiche pubbliche hanno perfezionato una modellistica finalizzata a
ordinare la complessità di tali processi. Queste proposte suddividono le dinamiche processuali delle policies
in alcune fasi: la costruzione dell’agenda, la formulazione del programma di policy, l’implementazione del
programma statuito, la valutazione e l’eventuale estinzione della politica stessa.
La formazione dell’agenda - A partire dai lavori fondamentali di Schattschneider [1960] e Bachrach e Baratz
[1962], la fase di formazione dell’agenda, cioè alla lista dei problemi ritenuti in un determinato contesto
politico, ha assunto un ruolo centrale nell’analisi delle politiche pubbliche (è lo strumento principale per
l’esercizio del potere). La strategicità dell’agenda-setting è costituita proprio del decidere ciò su cui si deve
decidere.
La struttura dell’agenda setting - L’agenda di policy è un insieme di problemi, teorie causali, simboli e valori
che entrano nell’attenzione dell’opinione pubblica e degli attori del sistema politico. E’ opportuno
distinguere tra:
agenda sistemica: è l’insieme delle questioni che una comunità politica ritiene meritevoli, seppur
con diversa variabile intensità, di una qualche attenzione
agenda istituzionale: è l’insieme dei problemi che vengono tenuti in esplicita considerazione dagli
attori decisionali
agenda decisionale: è l’insieme dei problemi sui quali gli attori preposti alle decisioni agiscono
attivamente al fine di prendere una decisioni
Il movimento dell’agenda sistemica all’agenda decisionale, passando per quella istituzionale, è influenzato
dalle caratteristiche del sistema politico-istituzionale, dalla cultura politica di un determinato paese, della
contingenza storica, e dalle capacità degli attori di perseguire i propri obiettivi pro o contro l’emergere di
una questione rispetto a un’altra. Le due dimensioni strutturali della fase di agenda sono quella politico-
istituzionale e quella della cultura politica. La struttura del sistema partitico e la forma di Stato possono
costituire delle soglie più o meno esigenti all’azione degli attori che perseguono il passaggio di una
questione dall’arena sistemica a quella istituzionale.
La definizione dei problemi –un dato per essere definito un problema deve essere interpretato. Cioè deve
essere inserito all’interno di una teoria causale. Per dire che questo dato è un problema di rilevanza
collettiva è necessario non solo mostrare gli effetti negativi che esso causa alla collettività ma anche
“spiegare” perché il fenomeno si è sviluppato in un dato modo, fino a raggiungere quella specifica
percentuale. Questa operazione non è affatto neutra, ed è lecito ipotizzare che di fronte a questa necessità
di interpretazione/spiegazione causale si confrontino almeno due posizioni diverse. La definizione di un
problema collettivo implica che a esso venga imputata una specifica teoria causale che individua una
gamma di possibili soluzioni, escludendone altre; nel momento in cui si definisce qualcosa come un
problema sul quale si deve decidere, si prestruttura l’ambito delle soluzioni perseguibili. Gli attori
interagiscono in continuazione intorno al mantenimento/cambiamento della definizione del problema su
cui si sta decidendo ovvero le cui soluzioni, decise, si stanno attuando.
L’iscrizione del problema nell’ agenda decisionale –è necessario che un problema venga sufficientemente
condiviso per riuscire a entrare nell’agenda decisionale.
Analisi di agenda – Cobb, Ross e Ross [1976] hanno formulato una tipologia dell’agenda setting che
individua 3 modelli di formazione dell’agenda:
- nel primo tipo (outside initiative model) un attore collettivo, agisce al fine di inserire una questione
nell’agenda politica, auspicando che i decisori la inseriscano nell’agenda istituzionale;
- nel secondo tipo (mobilization model) sono gli attori politico-amministrativi che agiscono per
inserirla nell’agenda politica mirando a suscitare l’interesse popolare al fine di costruire il supporto
necessario alla decisione;
- il terzo tipo (inside access model) assume che le questioni entrino in agenda per vie interne al
circuito politico-amministrativo, sulla base delle interazioni del sistema partitico, delle richieste
degli apparati amministrativi e dei gruppi di interesse privilegiati, dalle scadenze istituzionalizzate
prefissate.
Sul cambiamento del contenuto delle agende decisionali hanno focalizzato la propria attenzione altri
schemi interpretativi.
Kingdon [1984] dice che una nuova questione, o una nuova soluzione, riescono a entrare nell’agenda
istituzionale, ed eventualmente in quella decisionale, solo se si crea una finestra di politica pubblica,
ovverosia un’opportunità che consente l’incontro tra problemi, soluzioni ed esigenze politiche. In questa
prospettiva, che ipotizza l’esistenza di 3 flussi (dei problemi, delle soluzioni e della politica istituzionale),
una questione entra nell’agenda politica un determinato problema viene percepito come rilevante da un
attore politico istituzionalizzato.
Baumgartner e Jones [1993] osservano come la dinamica di agenda sia caratterizzata da periodi di stabilità,
in cui tende a persistere la medesima definizione del problema e quindi delle relate soluzioni, e momenti di
cambiamento.
Per entrambe queste prospettive risulta rilevante la presenza di imprenditori di policy, cioè di attori
individuali capaci di orientare il dibattito sui problemi e sulle soluzioni.
La formulazione - La fase/arena della formulazione comprende una serie di attività in cui l’esito atteso è la
decisione. La formulazione è quella fase del processo di policy in cui si cerca di approvare una soluzione
praticabile al problema di policy definito nell’agenda decisionale. Essa si focalizza sull’individuazione della
soluzioni perseguibili data dalla definizione del problema che risulta prevalente. E’ la fase nella quale si
disegna il contenuto della decisione e si costruisce il consenso politico per formalizzarla.
Policy networks – strutture relazionali predominanti nei processi di formulazione; si intende “un reticolo di
attori, pubblici e privati, dotati di uno spazio definito dal problema di policy”. I principali tipi sono:
- policy community: si caratterizza per rappresentare una vera e propria comunità. I membri
condividono non solo un comune interesse per un settore di politica pubblica ma anche il
riconoscimento reciproco. Essa è composta da un numero stabile e non elevato di attori
(sindacalisti, membri di organizzazioni di rappresentanza, parlamentari, burocrati, esperti di
settore), che tendono a negoziare tutte le questioni relative a un determinato settore di policy con
uno stile consensuale.
- advocacy coalition: costituisce una rappresentazione che delinea il processo decisionale come
un’arena in cui si contrappongono almeno 2 network, coalizioni appunto, che competono per
imporre le proprie soluzioni. Sono composte da insieme di “attori appartenenti a una varietà di
istituzioni pubbliche e private a tutti i livelli di governo che condividono un determinato insieme di
credenze fondamentali e che cercano di manipolare le regole, le risorse finanziarie pubbliche, e il
personale delle istituzioni governative al fine di raggiungere i loro obiettivi nel corso del tempo”. La
loro caratteristica è la condivisione di uno specifico insieme di valori da perseguire, e di strumenti e
strategie da utilizzare. Essa impone le proprie decisioni in un contesto in cui viene sfidato da
almeno un altro network.
La dinamica della decisone - Per cogliere le caratteristiche del “come” si arriva a prendere una decisione
politica si devono tenere insieme 3 elementi essenziali:
La scelta del modello più adatto a cogliere la dinamica che porta alla decisione politica spetta all’analista.
dei processi stessi, alcuni modelli decisionali piuttosto che altri. Due concetti possono catturare
l’influenza aggregata dei fattori politico-istituzionali:
- la teoria dei veto players – individua le capacità di un attore di bloccare qualsiasi cambiamento
perseguito in un processo decisionale; quanto più numeroso sarà il novero degli attori capaci di
azioni efficaci di veto, tanto più probabile che il processo si concluderà o con un nulla di fatto o con
un’incrementalismo minimo.
- il concetto di policy style – cerca di cogliere l’influenza del contesto politico-istituzionale costruendo
una tipologia basata sull’attitudine dei governi ad avere una propensione ed anticipare i problemi o
a reagire a essi e sulle caratteristiche delle loro relazioni con gli altri attori di policy.
3) la posta in gioco – le caratteristiche della posta in gioco influenzano la dinamica della formulazione
della decisione. Le caratteristiche dell’arena decisionale strutturano le caratteristiche della posta in
gioco e il comportamento degli attori. Quindi le caratteristiche delle istituzioni decisionali
individuano i vantaggi e gli svantaggi che gli attori partecipanti possono ottenere. L’analisi della
posta in gioco può essere sviluppata attraverso 3 approcci teorici:
- L’approccio tipologico – assume le caratteristiche della policy in gioco determinino quali attori siano
i protagonisti del processo decisionale, quali siano le loro relazioni e quale sia il contenuto della
decisione. Si basa sulla dicotomizzazione del criterio fondante di “politica pubblica”, la coercizione.
Il prodotto di questo esercizio è la quadripartizione delle politiche in:
distributive: in cui gli attori ottengono un qualche vantaggio e gli esiti decisionali sono
distributivi – benefici e servizi sono erogati a diversi gruppi sociali; i servizi pubblici sono
erogati a costi superiori alle entrate dei servizi stessi; le imprese ottengono dei sussidi a
fondo perduto.
redistributive: spostano i benefici da un macro gruppo sociale ad un altro. Esse vedono la
partecipazione di attori rappresentativi delle classi sociali e un ruolo attivo da parte dei
governi
regolative: mirano a modificare il comportamento degli individui o di attori collettivi o
gruppi di interesse mediante obblighi e sanzioni.
costituenti: stabiliscono le regole del gioco di un determinato settore di politica pubblica.
Esse vedono come destinatari delle decisioni gli stessi decisori e sono raramente efficaci.
Tale proposta è poco applicabile laddove la quotidianità dei processi decisionali mostra come le decisioni
siano caratterizzate spesso da un mix di componenti. Un tentativo di risolvere il problema è stato avanzato
da Wilson [1973] con una proposta basata sulla dicotomizzazione dei costi e dei benefici per come sono
percepiti dai destinatari delle decisioni stesse: se i benefici o costi sono concentrati, i destinatari della
decisione sono incentivati a organizzarsi e ad agire; le poste in gioco che allocano in modo diffuso i costi e
benefici sono quelle in cui il destinatario non è incentivato all’azione, pertanto nel caso di benefici
concentrati e costi diffusi, emerge la rilevanza di decisori capaci di tutelare l’interesse pubblico.
- teoria dei giochi – i diversi possibili schemi di gioco decisionale si basano sulla percezione degli
attori, cioè a seconda che essi reputino che il gioco sia a somma positiva o a somma zero. Nel primo
caso gli attori tenderanno a collaborare, nel secondo a confliggere.
- analisi razional-istituzionale – le caratteristiche della posta in gioca sono strutturate da un
complesso insieme di fattori; tale approccio assume come situazione decisionale vincoli gli attori
decisionali in modo costrittivo ad accettare la logica della posta in gioco.
Il contenuto della decisione - Si decide come cercare di raggiungere degli obiettivi politici mediante
l’individuazione di strategie di politica pubblica. Esse sono costituite da un insieme di principi generali di
azione di politica pubblica accompagnati da specifici strumenti. I principi strategici riconducono a specifiche
visioni ideali del come le politiche pubbliche dovrebbero essere perseguite e realizzate e molto spesso
hanno un contenuto normativo o ideologico.
La scelta di una specifica strategia di policy implica la scelta di una specifica teoria causa-effetto rispetto al
problema che si intende risolvere. Le strategie di policy sono costrutti teorici mediante i quali alcuni valori
di fondo dei decisori vengono perseguiti attraverso la scelta di una specifica definizione del problema, di
una specifica modulazione delle azioni da perseguire e della scelta di specifici strumenti di politica pubblica.
Uno strumento di policy è un metodo o un meccanismo mediante il quale viene indirizzata l’azione
collettiva al fine di raggiungere un effetto desiderato. Esso è uno dei componenti delle strategie di politica
pubblica.
Quando i decisori devono scegliere come intervenire, devono scegliere come farlo, cioè con quali mezzi.
Classificazione degli strumenti di Hood [1983] – 4 tipi generali di strumenti:
Classificazione degli strumenti di Doern e Phidd [1992] – usando come principio il livello di legittimazione
della coercizione, individua 5 tipi generali di strumenti:
- l’autoregolazione;
- l’esortazione;
- la spesa pubblica;
- la regolazione;
- la proprietà pubblica
Classificazione degli strumenti di Schneider e Ingram [1990] – incentrata sulle caratteristiche motivazionali
del comportamento individuale, presenta 5 tipi generali:
- strumenti autoritativi
- incentivi
- strumenti che incidono sulle capacità all’azione degli attori
- strumenti esortativi o simbolici
- strumenti che cercano di incentivare l’apprendimento
Alcuni studiosi ritengono che gli strumenti di politica pubblica siano “neutri” e quindi semplici mezzi per
raggiungere degli obiettivi che i decisori possono utilizzare a prescindere dalle proprie idee politiche e dai
propri valori di fondo. Altri invece ritengono che ogni strumento di politica pubblica sia portatore di
specifici significati, simboli, valori e che gli strumenti non siano semplici mezzi ma anche veicoli di una
determinata concezione delle cose.
La scelta degli strumenti e delle strategie da parte dei decisori è un’operazione complessa, influenzata dallo
status quo e da pressioni esterne oppure a mode del momento.
Policy mix: decisioni politiche che sostanziano strategie di politica pubblica fondate su un pluralismo
incoerente nella scelta degli strumenti; da un lato questa caratteristica mostra la complessità del decidere e
dall’altro rivela una tendenza a perdere di vista che strategie e strumenti di politica pubblica dovrebbero
avere come fine quello di aggiungere degli obiettivi in modo efficiente e impattando in modo efficace sui
destinatari, cioè sui cittadini.
L’implementazione - Cosa succede quando una decisione politica viene formalizzata, cioè quando un
disegno di politica pubblica, avendo trovato il consenso politico necessario, viene approvato e assume una
veste giuridica?
Qualsiasi decisione politica non produce alcun impatto sulla realtà se prima non viene trattata attraverso
una serie di azioni senza le quali la decisioni non ha alcun effetto pratico. Il processo decisionale non
produce effetti sulla realtà, se non attraverso l’avvio di un “nuovo” processo in cui esiste il concreto rischio
che gli obiettivi prefissati non vengano raggiunti. Questo processo è l’implementazione. Essa è l’insieme
delle “azioni dirette al raggiungimento di obiettivi posti a precedenti decisioni di policy”.
Pressman e Wildavsky [1973]e Bardach [1977] cercavano di capire l’implementation deficit, cioè la difficoltà
mostrata da alcuni programmi di politica pubblica nel raggiungere gli effetti desiderati nella realtà
statunitense. Da questi lavori è originato un dibattito rispetto alla questione del policy design, cioè di come
disegnare un programma di politica pubblica in modo da evitare le distorsioni dei fini. il dibattito si è
articolato tra fautori di un approccio top-down e fautori di un approccio bottom-up. I primi erano
sostenitori della tesi che per evitare le distorsioni si debba prestare attenzione al contenuto della decisione
politica. I secondi invitavano a focalizzare l’attenzione sui gruppi dei destinatari delle politiche e sulle
burocrazie in carico dell’attuazione e sul loro contesto di riferimento, le loro percezioni e le loro interazioni.
La fase di implementazione è una evoluzione delle fasi precedenti ed essa ne presenta tutte le
problematicità:
1) Coloro i quali hanno perso nelle fasi precedenti cercheranno di ribaltare la situazione con azioni
finalizzate ad annacquare le soluzioni statuite
2) La dinamica dell’implementazione difficilmente può essere di tipo autoritativo; pertanto si sviluppa
come un processo di mutuo aggiustamento partigiano
3) Spesso il contenuto delle decisioni è multi obiettivo, senza una chiara gerarchia tra le finalità da
raggiungere
La fase di implementazione è influenzata da caratteristiche del territorio in cui essa insiste, dalle capacità
tecniche e dalle burocrazie di riferimento, del sistema politico e dalle relazioni storiche tra amministrazioni
pubbliche e gruppi di interesse. Il processo di implementazione è destinato a produrre effetti molto
diversificati a seconda dei contesti di riferimento.
Valutare, apprendere, continuare a sbagliare - La valutazione si sviluppa durante tutta la dinamica dello
stesso, perché gli attori valutano continuativamente quello che stanno facendo per capire se la loro azione
è efficace sia in termini di policy sia in termini politici.
Il prodotto della fase di formulazione, la decisione politica vera e propria, può essere sottoposta a una
valutazione e di tipo giurisdizionale: in ogni sistema politico in cui vigano i principi dello stato di diritto, le
decisioni politiche sono scrutinabili dalle corti di giustizia che ne valutano la coerenza rispetto al principio di
legalità e di legittimità.
- La valutazione degli effetti di un politica pubblica è un’attività soggettiva che viene resa oggettiva
dall’uso delle tecniche e di metodologia adeguate. La valutazione delle politiche è un’attività
intrinsecamente politica che viene utilizzata dagli attori politici come strumento di confronto e di
conflitto politico piuttosto come uno strumento mediante il quale monitorare degli effetti delle
decisioni e aggiustare ciò che sembra non andare
- I valutatori delle politiche possono essere di 3 tipi: attori indipendenti dal sistema politico che ha
prodotto le decisioni; attori interni al sistema a forte legittimazione tecnica o politica; attori
attivamente protagonisti del processo decisionale
La valutazione è un’attività costitutiva dei processi decisionali e soggetta alle regole e ai fattori di influenza
degli stessi.
Processi decisionali tra “governament” e “governance” - Le politiche pubbliche non sarebbero più
governate in modo monolitico dallo Stato e dalle istituzioni politico-amministrative, ma sarebbero
coordinate mediante un intreccio relazionale tra più attori. il concetto utilizzato per cogliere questo
cambiamento è quello di governance. Molti studiosi hanno cercato di dimostrare che in realtà la presenza
di governi e delle istituzioni politico-amministrative è rilevante, anche se le modalità dell’azione pubblica si
sono trasformate. I governi mantengono un ruolo pivotale nei processi decisionali ma utilizzano meno gli
strumenti del comando e del controllo a vantaggio di strumenti di regolazione leggera che consentono loro
di governare a distanza le politiche pubbliche. Per quanto concerne i processi decisionali, il concetto di
governance è utile per disegnare il contesto istituzionalizzato nel quale essi si dipanano. Se per governance
si intende l’insieme dei processi e degli assetti istituzionalizzati mediante i quali le decisioni sono formulate
e implementate, allora questo concetto appare come una specificazione contemporanea della prospettiva
con la quale si studiano i processi decisionali, secondo la prospettiva larga di cui si è detto sopra. Le
politiche sono l’insieme delle azioni e delle interazioni di attori che cercano al tempo stesso di risolvere
problemi collettivi e di perseguire il potere allora il concetto di governance è utile per collocare questi
processi all’interno degli assetti istituzionalizzati e dei processi politico-amministrativi in cui le politiche
vengono processate. Pertanto l’analisi degli assetti e delle dinamiche di governance è un altro modo per
studiare i processi decisionali, enfatizzando alcune dimensioni come: i principi di coordinamento prevalenti
in un determinato assetto di governance, gli strumenti di policy prevalenti in un determinato assetto di
governance, i diversi livelli istituzionali in cui la governance si struttura.
La crisi dello stato-nazione - La vicenda dello Stato moderno descrive il processo di creazione e
consolidamento di un numero limitato di Stati-nazione a partire da un numero ben più ampio di entità
territoriali che tentavano di imporre il loro controllo su un determinato territorio. Lo Stato territoriale si è
imposto come forma dominate di regime grazie all’uso della forza. Il ricorso alla guerra come metodo di
consolidamento dello Stato e strumento xi regolazione dei conflitti con gli altri Stati territoriali è
fondamentale. “Gli stati fanno la guerra, la guerra fra gli Stati”. Nel corso del tempo e si è cercato di creare
negli abitanti degli Stati territoriali un’identità nazionale, cioè un senso di appartenenza a una “comunità
immaginata”. La lotta fra nazioni ha raggiunto il suo apice nella prima metà del Novecento producendo
lungo la strada 2 guerre mondiali. La democrazie è concepita come democrazia nazionale. Al termine di
questo processo di formazione di Stati e di costruzione do nazioni, i confini dello Stato costituivano la sfera
di tutela dei diritti fondamentali, di garanzia dei diritti politici, di protezione dei diritti economici e di
promozione dei diritti sociali. Ciò che rendeva lo Stato-nazione un costrutto solido e vincente era il fatto che
la relativa chiusura dei confini statali era funzionale a garantire l’acquisizione e l’esercizio dei diritti a essa
connessi.
Gli Stati nazionali europei hanno raggiunto il massimo di consolidamento territoriale, economico, sociale e
politico proprio quando l’intensità delle forze che li avevano determinati veniva messa in discussione da
fenomeni inter-, trans- e sovranazionali.
Processi di integrazione regionale -L’idea stessa la nazione, dopo la guerra, pareva un concetto
inutilizzabile per mobilitare quelle energie positive che avrebbero potuto portare alla ricostruzione e alla
rinascita. L’idea di far coincidere anche con la forza Stato e nazione imponendo un’identità culturale
emergeva con forza in molti paesi europei. L’artificiosità di suddivisioni territoriali imposte dalle potenze
coloniali nei territori lontani conquistati nel precedente periodo di colonizzazione iniziava a mostrare
sintomi di disfacimento.
Nel momento di maggiore debolezza e discredito del mito nazionalista si affaccia con prepotenza l’idea che
il governo del mondo potesse essere garantito da agenzie funzionali, ciascuna incaricata di gestire una
funzione particolare, la cui giurisdizione attraversasse i confini nazionali. Queste agenzie avrebbero dato
origine a un working peace system, un sistema di pace che avrebbe “funzionato” e avrebbero così creato
una comunità di sicurezza. I processi di integrazione regionale nascono così nel secondo dopoguerra: come
tentativi di realizzare su scala limitata e contigua quella gestione in comune di attività che avrebbero
probabilmente portato di nuovo gli Stati a farsi la guerra.
Diffusione di regimi e organizzazioni internazionali - Il secondo dopoguerra vede anche la diffusione di una
serie di accordi che vanno a costituire o rafforzare organizzazioni internazionali e a creare regimi
internazionali.
Un regime è un insieme di principi, norme, regole e procedure volte a raggiungere e implementare scelte
collettive. Le organizzazioni internazionali sono entità formali create da tre o più Stati firmatari di un
accordo istitutivo che possiede una struttura permanente (un segretario) che gestisce le attività
dell’organizzazione stessa.
Questi sviluppi hanno indotto gli studiosi di relazioni internazionali a dibattere se la sovranità degli Stati
nazionali non fosse ormai venuta già meno. Da un lato Ohmae e Kratochwill abbracciano la tesi dello
svuotamento degli Stati sovrani a favore della creazione di un nuovo ordine globale; dall’altro, Strange e
Slaughter, mentre osservano l’indebolimento del controllo dello Stato sul proprio territorio, notano anche
l’emergere di forme alternative di potere economico e politico attraverso le quali attori statali, substatali e
non governativi mantengono il controllo sul contesto nel quale operano.
Nel dopoguerra emergono “regimi” internazionali volti a raggiungere decisioni collettive; di conseguenza di
moltiplicano le organizzazioni internazionali e le ONG transnazionali.
Ci si rende conto che le decisioni di uno stato o di un gruppo di consumatori possono avere
ripercussioni (esternalità) negative importanti anche sui cittadini di altri stati e altri consumatori
- Le imprese multinazionali aderiscono sempre più frequentemente a codici di comportamento
socialmente responsabile (dagli shareholders agli stakeholders);
- Sono emerse agenzie di rating private capaci di acquisire potere regolativo sugli stati sovrani.
Lo stato westfaliano è un idealtipo; esso incarna lo Stato sovrano, cioè completamente in controllo del
proprio territorio e totalmente autonomo nelle relazioni con gli altri Stati. Ma le società moderne devono
vedersela sempre di più con gruppi minoritari che richiedono che le loro identità vengano riconosciute e
che le loro differenze culturali vengano accolte e accettate. Questa situazione è spesso resa con
- L’integrazione europea è il più avanzato dei processi di integrazione economica regionale (altri sono
in Nord e Sud America, Africa dell’Est e dell’Ovest, Asia sud-orientale):
Ha creato un grande mercato continentale e ha permesso agli stati membri di gestire insieme molte
politiche;
L’interdipendenza economica si riflette nell’Unione Monetaria, nella moneta unica e nel
coordinamento dei bilanci.
- Globalizzazione e integrazione regionale sono la causa di importanti ristrutturazioni produttive e
tensioni nel welfare state degli stati membri.
Se in molte zone del mondo la globalizzazione dell’economia viene sperimentata come dipendenza, in
Europa l’interdipendenza è stata voluta e ricercata dai governi degli Stati membri. La Comunità, poi
l’Unione Europea è senz’altro il progetto più ambizioso che mira a riconoscere e rafforzare
l’interdipendenza fra Stati-nazione fino a trasformali in Stati-membri. Si ha interdipendenza quando
decisioni prese da uno Stato hanno ripercussioni anche sulle condizioni di vita dei cittadini di un altro Stato,
e viceversa; quando cioè queste ripercussioni non possono essere facilmente ignorate, perché impongono
costi significativi, e soprattutto quando sono reciproche.
Si ha interdipendenza quando le decisioni prese da uno Stato hanno ripercussioni anche sulle condizioni di
vita dei cittadini di un altro Stato, e viceversa; quando cioè queste ripercussioni non possono essere
facilmente ignorate, perché impongono costi significativi, e soprattutto quando sono reciproche.
Haas e Schmitter chiamano spillover, la libera circolazione di beni, servizi, capitali e lavoratori avrebbe
comportato anche l’adeguamento progressivo dei modi di produzione e dei sistemi di welfare. Una cosa era
permettere che i prodotti liberamente commerciati in uno Stato membro circolassero anche negli altri Stati,
un’altra era pretendere che tutti i prodotti che circolavano negli Stati membri fossero stati prodotti secondo
regole comuni.
Credibilità e responsabilità sono le parole chiave del nuovo mondo globalizzato, in cui tutti dipendono da
tutti, ma soprattutto di aree ancor più fortemente integrate in cui l’interdipendenza fra sistemi economici e
politici è altissima, come l’Unione europea.
Il vantaggio dell’interdipendenza è che le comunità nazionali sono anche comunità di solidarietà.
L’attività principali di queste associazioni è di attirare l’attenzione su questioni che potrebbero sfuggire ai
decisori e all’attenzione pubblica e proporre controinformazione. In alcuni casi si tratta di veri e propri
movimenti di protesta, in altri casi di mobilitazioni trasgressive, promosse da subculture radicali di modeste
dimensioni.
Un diverso modo di governare si impone anche all’interno degli stati-nazione: si verifica pertanto una
generale transizione dal government alla governance
- Per government si intende il tradizionale governo del tipo “comanda e controlla”;
- Per governance si intende un modo di governare che coinvolge livelli diversi di governo (multilevel
governance) e soprattutto società civile e i cittadini (co-governance)
Il passaggio dal government alla governance nel XX secolo all’interno degli stessi Stati nazionali. In parte per
arginare il crescente numero di domande poste al sistema politico, in parte per venire incontro alla
domanda di maggior coinvolgimento e partecipazione, lo Stato ha progressivamente rinunciato a
- La non-coincidenza fra ampiezza dei problemi, da un lato, e dimensione dei governi formalmente
incaricati di risolverli, dall’altro, induce una nuova ondata di riflessione sulla «dimensione ottimale
di governo».
- La teoria vuole che il livello di governo debba coincidere con l’estensione del bene pubblico che
deve essere prodotto per bilanciare:
economie di scala nella produzione – efficienza produttiva;
economie di convenienza nell’utilizzo.
- Mentre l’efficienza nella produzione dei servizi consiglia di elevare la scala, la convenienza del loro
utilizzo spesso consiglia di ridurla. Queste due esigenze devono essere bilanciate. Ne consegue che
non esiste una dimensione ottimale per la produzione e l’utilizzo di ogni servizio e che non vi sia
una “scala di governo ottimale”. La scienza economica ha prodotto una teoria dello Stato che si
basa proprio sulla teoria della scala ottimale di governo e che giustificherebbe l’esistenza stessa
dello Stato, entrambe fondate su una concezione deterministica di “bene pubblico”. La teoria dei
beni pubblici e delle risorse comuni mostra come la natura dei beni è determinata anche
dall’azione di governo e come la soluzione ottimale per la gestione di tali beni comuni sia quella
pubblica ma possa anche essere una soluzione di tipo sociale che può emergere anche
spontaneamente.
- Lo stato nazione e le sue articolazioni subnazionali sono messi in discussione come livelli ottimali di
governo.
- La soluzione viene sempre più individuata in soluzioni flessibili che coinvolgano in geometrie
variabili livelli di governo diversi ma che non diano luogo a gerarchie di governi cristallizzate. La
situazione attuale come governance di multilivello. La soluzione pratica che si sarebbe trovata in
Europa è di assemblare in maniera diversa e flessibile vari livelli di governo e i rappresentanti di
aggregazioni diverse della società civile a seconda del problema da risolvere o della policy da
regolare, con configurazioni anche assai diverse.
- Le relazioni inter-governative e il federalismo conoscono pertanto una nuova stagione di
approfondimento e riflessione sia sui loro vantaggi sia sui loro svantaggi (ad esempio, «trappole
della decisione congiunta»). La ricerca dell’equilibrio tra offerta e domande di servizi ha alimentato
un grande interesse per la teoria del federalismo. Il federalismo permette di conciliare “autonomia”
e “comunità”. Per il federalismo il livello nazionale si dovrebbe far carico delle funzioni essenziali
alla difesa della sovranità e autonomia della comunità nazionale, mentre i livelli statali si farebbero
carico delle politiche che determinano la vita dei cittadini e che pertanto devono rispondere il più
possibile alle loro preferenze. L’” unità nella diversità”, come valore aggiunto al federalismo,
permetterebbe di gestire in maniera congiunta tutta una serie di funzioni ormai “comunitarizzate”
senza obbligare tutti gli Stati membri a gestire congiuntamente altre aree di competenza di policy
che gli Stati intendono regolare autonomamente per meglio rispondere alle preferenze nazionali.
Molti tipi di federalismo – nessuno di essi è immobile e definito una volta per tutte
1) Federalismo duale, nel quale le competenze sono assegnate “una volta per tutte” a questo o quel
livello di governo, e un federalismo concernente, nel quale le competenze sono per lo più condivise
fra più livelli di governo;
2) Federalismo cooperativo, in cui i livelli di governo inferiori (statali) devono dare il consenso affinché
si prendano decisioni anche a livello federale e in cui il livello federale non può che agire attraverso
strutture statali per attuare anche le decisioni di propria competenza, e un federalismo
competitivo, in cui il governo federale ha proprie strutture per intervenire in aree decisionali di
propria competenza e in cui i vari governi statali sono in competizione per accaparrarsi le risorse
federali e per convincere i cittadini a spostarsi nel loro Stato.
Sovraccarico democratico
fine degli anni Sessanta, proprio mentre il periodo di crescita mondiale stava per finire e la crisi
petrolifera causava deindustrializzazione in molti paesi avanzati. Poi si procedette a costruire lo
stato sociale (sanità e pensioni) proprio mentre l’economia entrava in crisi. I margini di produttività
erosi dall’aumento dei salari e dell’energia vennero recuperati attraverso la svalutazione della
moneta e attraverso l’inflazione; si crearono così le basi del debito pubblico sempre crescente fino
ai giorni nostri.
- Una delle conquiste più fulgide degli stati nazionali europei del dopoguerra si è trasformata in una
fonte di scontento e protesta a causa delle tasse e della burocrazia necessarie per garantire i servizi
sociali.
- Ciò ha portato alcuni studiosi (Scuola di Chicago) a suggerire di sostituire il processo democratico
con algoritmi che identifichino i desideri dell’elettore mediano e tarino su di lui l’offerta di servizi
(Public Choice). La democrazia lasciata all’interazione politica fra elettori e rappresentanti, fra
gruppi di interesse e decisori produce risultati subottimali. La Plublic Choice presume di desumere
da pochi assunti economici quali decisioni debbano essere prese. Anche l’azione pubblica deve
ispirarsi a criteri di mercato e cercare di ottenere profitti nello svolgimento delle proprie poche ed
essenziali funzioni.
Democrazia, o il suo contrario? - Nessuno ignora che la politica spesso produce decisioni subottimali,
situazioni di rendita ingiustificata e inefficienza collettiva, ma che il mercato lasciato a se stesso porti a
risultati migliori è da dimostrare. L’efficienza allocativa non può essere l’unico criterio normativo in base al
quale valutare la bontà delle decisioni di policy, per molti motivi.
1) l’efficienza è una relazione fra mezzi e fini: l’identificazione di questi ultimi non può essere prodotta
da un calcolo di efficienza ma solo da un’autentica scelta politica. Obiettivi che appaiono ad alcuni
come prioritari possono essere per altri secondari e negoziabili: di qui la necessità di una
deliberazione collettiva;
2) l’efficienza non è l’unico criterio in base al quale valutare una decisone, ma anche partecipazione,
condivisione, pluralismo;
3) i calcoli costi-benefici considerano solo ciò che “ha un prezzo”: molti costi o benefici non vengono
mai inclusi in questi calcoli perché “senza prezzo”, perché presenti in quantità illimitate oppure
perché troppo preziosi per averne uno.
Perché la disaffezione verso la politica e la disillusione nei confronti della stessa democrazia? Per eccessivo
ottimismo nella capacità della politica di ottenere livelli sempre più elevati di benessere materiale, perché
la democrazia è una costruzione troppo fragile, costantemente soggetta a tentativi di sovvertimento e
tendente a degenerare nel suo contrario, e perché metterebbe in discussione la pretesa stessa della
democrazia invece come una finzione che nasconde una realtà di privilegio e disuguaglianza.
Apatia e disincanto– I primi sintomi nei confronti della politica si manifestarono negli anni Settanta quando
lo studio dei partiti politici iniziò a registrare un distacco sempre più marcato degli elettori tradizionali dalle
organizzazioni partitiche.
Antipolitica e neopopulismo - La democrazia è uno dei modi in cui le comunità governano se stesse ed è
quindi soggetta a trasformazioni legate agli inevitabili cambiamenti nell’organizzazione della convivenza
sociale. Crisi periodiche delle regole e delle istituzioni che reggono queste comunità sono normali. I
momenti di crisi rischiano di alienare i cittadini dalla stessa dialettica democratica e di portare a “intervalli”
più o meno lunghi di dittatura. La crisi della democrazia si è manifestata come apatia, disinteresse e rifiuto
della politica. La comprovata incapacità dei governi di risolvere i problemi sociali del momento induce
sfiducia nei confronti dei cittadini. Se a questa scadente performance istituzionale si accompagna anche
uno sfrangiamento del sistema partitico e una crescente instabilità dei governi, la sensazione generalizzata
è che l’instabilità politica sia la causa delle scadenti prestazioni.
In queste circostanze possono verificarsi spostamenti massicci di voti: si può dare lo svuotamento di interi
elettorali e il lodo collocamento verso posizioni più estreme; può aumentare di molto la percentuale degli
indecisi o delle schede bianche, dei non votanti o delle schede nulle. Un fenomeno che si accompagna
spesso alla crisi della democrazia è il populismo. Esso è legato a un concetto di “rappresentanza”. Leader
populisti presumono di saper interpretare i bisogni e i desideri del popolo per “empatia” senza servirsi di
un’organizzazione di partito che interpelli gli elettori stessi. Il leader populista non ha un programma
preciso ma dice quello che la gente vuole sentire giocando un doppio ruolo: da un lato pretende di essere
“uno del popolo”, dall’altro propone soluzioni semplici per questioni complesse. Non si tratta affatto di
rappresentanza, ma di riproduzione tal quale di richieste senza quell’elaborazione e quella distanza che
offrire rappresentanza politica necessariamente implica. Il populismo contemporaneo comporta l’utilizzo di
mezzi di comunicazione come la tv e i social media.
Il populismo è la pretesa di leader politici di stabilire un collegamento diretto con le masse. Esso
promette tutto a tutti
L’antipolitica non è sentimento nuovo, ma si ripresenta in seguito a tutte le crisi che paiono non
avere soluzione; è la perdita di fiducia nella capacità della politica di risolvere i problemi sociali, è la
disillusione generalizzata nei confronti dei meccanismi e dei riti della politica ed è polemica contro lo
Stato che ha fallito il suo compito di generare duraturo benessere e progresso alle classi sociali
subordinate, e infine è anche rivendicazione di nuovi spazi e partecipazione sociale che non si
limitino al circuito elettorale-partitico e che non vengano confinati negli ambiti delle istituzioni
rappresentative e di governo e delle organizzazioni di mobilitazione tradizionali.
Entrambi sono semplificazioni e perversioni del processo democratico e possono portare all’autoritarismo,
alla mobilitazione diretta delle masse.
tentativo da parte di candidati di ritagliarsi un seguito politico in base alle sue capacità personali di servire
la propria constituency. Queste trasformazioni affermano un tipo di partito incentrato sulla persona del
leader: il partito personale. La politica diventa una professione.
Manin [1997] chiama questo nuovo tipo di democrazia “democrazia del pubblico” – il governo
rappresentativo rimane ciò che è stato dall’inizio, cioè un governo di élite distinte dalla massa dei cittadini
dalla loro posizione sociale, stile di vita e istruzione.
Rosanvallon [2008]: la sovranità dei cittadini non è solo positiva ma anche negativa. I cittadini devono non
fidarsi dei propri governanti perché solo così possono preservare la democrazia. Fanno parte integrante
della concezione di “democrazia” non solo quei meccanismi grazie ai quali i cittadini arrivano alle decisioni
con le quali essi si autogovernano, ma anche quei meccanismi, costituzionali ed extra costituzionali,
attraverso i quali essi controllano i processi politici che si svolgono in loro nome.
Tre categorie generali di meccanismi: poteri di supervisione o sorveglianza, forme di prevenzione e verifica
dei giudizi e in essi si sostanzia ciò che Rosanvallon chiama controdemocrazia. Secondo lui spetta ai cittadini
esprimere questa “sfiducia” contribuendo a formare l’opinione pubblica, intraprendendo attività di
denuncia, scendendo in piazza e manifestando, esercitando pressione. Sovranità positiva e negativa si
trovano in un rapporto di perenne tensione fra loro e vi è anche il rischio che le attività di controllo,
vigilanza e denuncia arrivino a paralizzare l’azione governativa. Ma ben più reale è il rischio che i governanti
approfittino della loro posizione speciale per tradire la fiducia loro accordata. Rosanvallon insiste su 3 punti:
Democrazia-spettacolo [Manin 1997]: il rapporto fra rappresentati e rappresentanti si limita ormai spesso
alle apparizioni di questi sui mezzi di comunicazione di massa, alle quali i cittadini non possono che
assistere da spettatori
Contro-democrazia [Rosanvallon 2008]: la sostanziale sfiducia degli elettori nei loro governanti induce a
mettere in atto una serie di meccanismi di sorveglianza, denuncia e sanzione nei confronti di governanti che
altrimenti hanno troppa libertà di azione.
Il capitale sociale – Se la partecipazione elettorale è calata e la disaffezione alla politica è aumentata, sono
però emerse altre forme di partecipazione. La partecipazione politica non si misura solo in termini di
partecipazione ai riti canonici della politica ma anche come partecipazione alla mobilitazione in favore o
contro questioni pratiche nella vita di tutti i giorni.
L’importanza di queste forme di partecipazione è tornata alla ribalta in seguito alla rinnovata attenzione
rivolta al capitale sociale. La tesi di Putnam è che la partecipazione politica è conseguenza della presenza di
rapporti di reciprocità e fiducia interpersonale diffusi (indicati come civiness, cioè civinismo) che si
sviluppano in realtà facendo altre attività spesso non direttamente collegate alla politica.
Essere disposti a utilizzare il proprio tempo per attività che non portano necessariamente benefici
immediati e personali segnala un senso di collegamento sociale con gli altri membri della comunità Da
queste attività e da questi atteggiamenti derivano una serie di ricadute positive:
Il capitale sociale è alla base sia della democrazia sia dello sviluppo economico.
Precondizione per una società civile attenta e partecipe è la presenza di capitale sociale e di forme
anche non politiche di civicness [Putnam et al. 1993]
La civicness è data dalle presenza di forme di reciprocità e di partecipazione
- appartenenza ad associazioni del tempo libero
- attenta lettura dei giornali,
- partecipazione a referendum consultativi non politici
Alti livelli di civicness hanno ricadute positive per la democrazia, rendendo i cittadini competenti ed
esigenti nei confronti del potere politico
Alla diffusione di movimenti NIMBY (movimenti che si oppongono alla realizzazione di opere
pubbliche in un determinato territorio per motivi per lo più ambientali) la politica locale sta
rispondendo con pratiche di democrazia diretta. E’ molto raro che queste mobilitazioni abbiano
successo; si registrano però sempre più numerosi esempi di consultazioni cittadine prima che le
decisioni vengano prese.
Un’evoluzione della democrazia partecipativa è la democrazia deliberativa, volta a coinvolgere nelle
decisioni anche i gruppi sociali che per vari motivi non sono propensi a partecipare:
- Forum deliberativi, giurie cittadine, mini-publics
- Reclutamento tramite campionamento
“Democrazia” significa registrare le preferenze di tutti i cittadini perché tutti possono contribuire buoni
argomenti al dibattito e perché tutti hanno uguale valore morale.
La democrazia deliberativa è uno dei modi più innovativi per riconnettere i cittadini alla politica e
combattere apatia e disincanto.
- Delegate (mero delegato, controllo troppo stretto dei rappresentanti – informazioni precise
all’agente);
- Trustee (fiduciario, rapporto allenato o inesistente con i rappresentanti).
Il rapporto tra i due continua nel tempo ed è circolare: il rappresentativo attiva e sorveglia il proprio
rappresentante facendo sentire la propria voce ed esercitando il proprio giudizio anche durante il
mantenimento di rappresentanza.
Governo rappresentativo: governo parlamentare che basa la propria legittimità sul fatto di riflettere le
indicazioni dell’elettorato.
Democrazia rappresentativa: modello di democrazia che si differenzia da altri modelli di democrazia per il
fatto di basare la sua legittimità sul rapporto di rappresentanza che si esprime nel momento elettorale
Hanna Pitkin – trattato sulla rappresentanza del 1967: “Rappresentare significa agire nell’interesse dei
rappresentati in modo da rispondere a loro. Il rappresentante deve agire in maniera indipendente; le sue
azioni devono comportare discrezionalità e giudizio; deve essere il rappresentante ad agire. Anche il
rappresentato deve essere capace di azione e di giudizio indipendenti, non deve essere solo accudito. E
questo conflitto normalmente non deve esistere. Il rappresentante deve agire in modo che tale conflitto
non sussista ed è necessaria una spiegazione. Il rappresentante non può trovarsi in contrasto con i
destinatati dei propri rappresentati, se non per tutelare i loro stessi, e comunque è tenuto a spiegare
perché i loro desideri non sono compatibili con i loro interessi.”
Mansbridge ha teorizzato modalità diverse di assicurarsi che l’elettore sia effettivamente rappresentato
dall’eletto:
I. Rappresentanza promissoria – l’agente promette di agire al meglio delle proprie capacità per
promuovere gli interessi del principale, e questo potrà verificare se così è stato solo al termine del
rapporto di rappresentanza.
II. Rappresentanza anticipatoria – l’agente cercherà di agire in modo da conquistare di nuovo il favore
degli elettori. Basta che un rappresentante accontenti gli elettori perché venga riconfermato.
III. Rappresentanza giroscopica – il rappresentante trae da se stesso le idee e le visioni del mondo che
finirà con il rappresentare. All’elettore rimane ad osservare i convincimenti del candidato e votarlo
nel caso in cui queste idee e visioni siano anche le sue
IV. Rappresentanza surrogata – rappresentanza offerta dal rappresentante di un altro distretto e che
quindi non si ha la possibilità di votare ma che in qualche modo porta avanti le idee e visioni del
mondo dell’elettore
L’accountability - L’ultima difesa democratica è garantire l’accountability dei governanti («mandare a casa»
chi non ha governato bene);
Diversi tipi di accountability – tutte intese come forme di responsabilità o di rendicontabilità di chi detiene
cariche di governo e non solo.
Con riguardo ai rapporti tra elettori ed eletti (leader, governanti e rappresentanti), investe nella
accountability verticale, ma questo tipo di controllo risulta indebolito per la molteplicità dei livelli di
governo, scarsa partecipazione, complessità tecnica delle materie sulle quali decider, ecc. Da qui l’esigenza
di corroborare i meccanismi di controllo delle autorità attraverso quella che viene chiamata accountability
orizzontale, nel senso che sono altre istituzioni a limitare e vagliare i comportamenti di chi ricopre cariche
pubbliche e di governo (magistrature, corti costituzionali, capo dello Stato, ecc.). Nelle società avanzate un
ruolo centrale è riservato ai mass media e all’opinione pubbliche, ma anche alle associazioni e agli stessi
gruppi di interesse (accountability sociale).
Accountability: relazione fra un attore e un pubblico, in base al quale l’attore ha l’obbligo di spiegare e
giustificare la propria condotta, il pubblico può fare delle domande e dare un giudizio, e l’attore può dover
subire delle conseguenze.
L’accountability è in realtà rapporto più complesso che richiede un rendiconto da parte dei governanti
(agenti) di fronte a un forum pubblico (principale) e può prevedere delle sanzioni [Bovens 2007];
Problemi:
- Esistenza di principali multipli, con preferenze diverse
- Esistenza di agenti multipli, tra cui è difficile suddividere le responsabilità
Tolleranza, giustizia, non-dominio - Mancano per l’applicazione all’UE del criterio della legittimità
democratica alcune condizioni; l’UE manca di un governi responsabile di fronte a un parlamento che lo
esprime, e questo non viene quindi eletto al fine di formare un governo. Come è spezzata la catena della
delega, è spezzata la catena dell’accountability: non è infatti possibile attribuire a nessun agente le decisioni
politiche prese a livello comunitario.
1) tolleranza – l’UE e le decisioni che da essa emanano non dovrebbero essere giudicate in base a
quanto da vicino riflettono le preferenze di questi o quei cittadini, me se consentono a tutti i
cittadini europei di ritrovarsi in esse;
2) giustizia – la libertà e l’uguaglianza dei cittadini che sono alla base della democrazia possono essere
interpretati anche come diritto a richiedere giustificazioni sia per le decisioni prese che per quelle
non prese;
3) non dominio – democrazia è partecipare alle decisioni che determinano il proprio destino, quindi è
assenza di imperio e di dominio.