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CAPITOLO I – LO STUDIO DEL DIRITTO COSTITUZIONALE

Che cos’è il diritto?


Il termine ‘diritto’ può essere utilizzato con due significati diversi:
 in senso SOGGETTIVO indica una pretesa
 in senso OGGETTIVO indica un insieme di norme giuridiche, un ordinamento giuridico.
Naturalmente tra i due significati vi è una forte interdipendenza.
“Ubi societas, ibi ius” è un’espressione latina che significa “dove c’è una società, lì vi è diritto”.
Sin dall’antichità non esisteva società che non avvertiva l’esigenza di imporsi delle regole al suo
interno. Già dall’epoca dell’antica Roma questo principio indicava la necessità di regole per vivere.
Oggi, la nostra società ha subito profonde e repentine trasformazioni, un enorme ampliamento dei
contatti e delle relazioni tra le persone, avverte ancora più la necessità di affidarsi a regole condivise
che consentano a tutti gli uomini di poter vivere in base ad alcuni principi fondamentali quali la
libertà personale, il rispetto reciproco, l’uguaglianza.
Il nostro ordinamento riconosce e garantisce le formazioni sociali, ossia gli altri ordinamenti che si
formano nella società, ma solo il diritto statuale può prevedere, come sanzione alla propria
violazione, la coercizione fisica.
La percezione comune è questa:
 da un lato sta il diritto vero e proprio fatto di vere norme giuridiche, il cui rispetto è garantito
dalla ‘forza pubblica’ e alle quali corrispondono sanzioni;
 dall’altro stanno le cosiddette esperienze pre- o paragiuridiche costituite da norme e sanzioni
‘sociali’.
Il nostro concetto di diritto imperniato sullo Stato: è un concetto destinato ad essere superato.
I segni della decadenza sono evidenti, di fronte all’integrazione europea da un lato, e, dall’altro, di
fronte ad un processo di globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni
Quindi il diritto è assai di più dell’insieme delle regole poste dallo Stato, perché è anche l’insieme
delle interpretazioni che di esse hanno dato i giudici chiamati ad applicarle nei casi specifici (c.d.
giurisprudenza) e gli studiosi che si sono sforzati di ricreare attorno ad essi un sistema coerente (c.d.
dottrina).
Esiste una grande divisione tracciata tra due famiglie di ‘diritti’, ossia tra due sottoinsiemi di
norme: il diritto pubblico e il diritto privato. Mentre nel diritto pubblico si tratta, oltre che
dell’organizzazione dei pubblici poteri, dei rapporti tra l’autorità pubblica e i privati (rapporti
dominati dalla prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato), nel diritto privato si tratta dei
rapporti tra soggetti privati, in posizione di parità. L’oggetto specifico del diritto costituzionale può
essere diviso in quattro argomenti:
a) le fonti del diritto pubblico, ossia i meccanismi con cui si producono le norme giuridiche
nell’ordinamento italiano;
b) l’organizzazione costituzionale dello Stato, ossia i rapporti tra gli organi costituzionali (c.d.
forma di governo) e quella tra l’apparato dello Stato e il popolo (c.d. forma di stato);
c) le libertà e i diritti costituzionali;
d) la giustizia costituzionale.

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CAPITOLO II – LO STATO: NOZIONI INTRODUTTIVE
Il potere politico
Il potere sociale è la capacità di influenzare il comportamento di altri individui. Ciò che è rilevante
per distinguere un tipo di potere sociale dall’altro è il mezzo con il quale questo si è affermato. In
quest’ottica si distinguono tre poteri principali:
1) il potere economico, che si avvale del possesso di un certo bene necessario o percepito come
tale al fine di indurre coloro che non lo posseggono a seguire una determinata condotta.
L’esempio più immediato è offerto dal proprietario che, grazie alla disponibilità esclusiva di un bene
produttivo (la terra o la fabbrica), ottiene che il non proprietario lavori per lui alle condizioni da lui
stesso poste;
2) il potere ideologico, che si avvale del possesso di certe forme di sapere, conoscenze, dottrine
filosofiche o religiose per esercitare un’azione di influenza sulla popolazione. Tradizionalmente
detenuto da sacerdoti, scienziati e ad oggi da coloro che operano nei mezzi di comunicazione;
3) il potere politico, che si avvale, seppure in ultima istanza, dell’uso della forza, della coercizione
fisica per imporre la propria volontà.
Nelle società antiche non esistevano nette demarcazioni tra le tre specie di potere sociale, che
spesso si cumulavano in capo ai medesimi soggetti.
Solo con l’era moderna si realizza un processo di affermazione dell’autonomia del potere
politico, così da impedire che soggetti privati utilizzino la forza per prevaricare sugli altri: per
assicurare la pacifica coesistenza tra individui e tra gruppi di una determinata società.
Lo Stato, che incarna la figura tipica di potere politico, per far rispettare le sue leggi può ricorrere ai
suoi apparati repressivi: il potere politico è quella specie di potere sociale che permette a chi lo
detiene di imporre la propria volontà ricorrendo alla forza legittima.

La legittimazione
Il potere politico, non si basa solo sulla forza, ma anche su un principio di giustificazione, che si
chiama legittimazione. L’uso della forza è una risorsa estrema e ciò che realmente conta è l’astratta
possibilità del suo impiego.
Il filosofo tedesco Max Weber ha ripartito, in rapporto alle diverse ragioni dell’obbedienza, il
potere legittimo in tre tipologie:
1. il potere tradizionale: basato sulla credenza del fondamento sacro delle tradizioni e sulla
legittimità automatica degli organi che le attuano;
2. il potere carismatico: detenuto da chi in forza del suo valore esemplare o eroico ha creato un
ordinamento;
3. potere legale-razionale: poggia sulla credenza nel diritto di comando di coloro che ottengono
la titolarità del potere sulla base di procedure legali ed esercitano il potere medesimo con
l’osservanza dei limiti stabiliti dal diritto. Quest’ultima tipologia è figlia delle rivoluzioni
liberali del XVIII secolo e trova le sue fondamenta in documenti come la Costituzione
americana o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: è in questo periodo storico
che si afferma il principio secondo cui il potere politico non agisce libero da vincoli giuridici,
ma è esso stesso sottoposto al diritto, perché le regole garantiscono la libertà dei cittadini
contro i pericoli dell’abuso da parte di chi detiene il potere.
Nella nostra cultura il potere politico deve porsi il problema della legittimità: ad esso è riservato il
monopolio della forza, perché serve ad evitare le prevaricazioni dei soggetti più forti a danno
dell’autonomia degli altri soggetti.
La soluzione al problema di una possibile distruzione delle libertà da parte del potere politico, è
stato il costituzionalismo  consiste nella sottoposizione del potere politico a limiti giuridici: Stato
di diritto è il nome che viene dato ai sistemi politici in cui questi mezzi vengono effettivamente
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impiegati.
La democratizzazione delle strutture dello Stato, l’avvento del consenso popolare del XX secolo ha
fatto si che la legittimazione giuridica non fosse più sufficiente  il potere politico deve essere
legittimato innanzitutto sulla base del consenso popolare. Da qui sono derivati nuovi problemi e
nuovi compiti per il diritto costituzionale:
 da una parte ha dovuto predisporre i mezzi giuridici e istituzionali affinché il potere politico
derivasse effettivamente dal popolo, ne rispecchiasse le esigenze e le aspirazioni;
 dall’altra ha dovuto escogitare nuove tecniche istituzionali attraverso cui scongiurare il
pericolo che il consenso popolare legittimasse una nuova forma di assolutismo: la tirannia
della maggioranza.
Ne è derivata anche la spinta alla costruzione di organi sovranazionali, di cui la più importante è
l’Unione europea, cui vengono demandate certe funzioni che in origine appartenevano agli Stati,
soprattutto per quanto riguarda la regolamentazione dell’economia. A questo, si affianca una spinta
in direzione inversa, cioè quella al trasferimento di importanti compiti dello Stato a livelli
territoriali inferiori (Regioni e Comuni).

Lo Stato  può essere definito come una particolare forma storica di organizzazione del potere
politico, che esercita il monopolio della forza legittima in un determinato e stabilito territorio e
si avvale di un apparato amministrativo.
Lo Stato moderno che nasce in Europa tra XV e XVII secolo si differenzia dai modelli precedenti
per due principali caratteristiche:
a) la concentrazione del potere legittimo in un determinato territorio in capo ad un’unica
autorità;
b) l’esistenza di un’organizzazione amministrativa gestita da burocrazia professionale.
Il vocabolo Stato è relativamente recente: i Romani utilizzavano altre espressioni come civitas o res
publica, mentre la parola status indicava la condizione di un soggetto, il suo modo d’essere: la
fortuna del significato moderno di Stato si deve soprattutto al prestigio dell’opera di
Machiavelli, Il Principe (1513).

La nascita dello stato moderno


La spinta per la concentrazione del potere in capo ad un’unica autorità e quindi alla creazione
dello Stato moderno nasce come reazione alla dispersione del potere tipica del sistema feudale.
La base del sistema feudale era costituita dal rapporto vassallo/signore: il signore concedeva al vassallo un
feudo instaurando con lui un rapporto di obblighi e diritti reciproci e come corrispettivo del feudo, il vassallo
aveva obblighi di aiuto nei confronti del signore, sia in termini finanziari che militari; al contempo il feudo
diventava la fonte di autosufficienza economica del vassallo e il quadro di riferimento spaziale del suo potere
di comando.
I rapporti di potere erano di carattere privato e personale e c’era coincidenza tra proprietà privatistica
del feudo e potere di comando sugli individui che a quel feudo erano collegati. Questo tipo di rapporti si
riproduceva a vari livelli: il cavaliere che sfruttava il feudo e ne esercitava il potere lo faceva come vassallo
di un signore che a sua volta era vassallo di un signore più elevato: di grado in grado si giungeva sino ad un
‘sopra-signore’ che si fregiava di un titolo di origine romana, come rex, princeps, dux e che reclamava un
insieme di poteri di dominio più vasti e riferiti ad un territorio piuttosto che a singoli fondi posseduti a titolo
privato.
I legami tra signori e vassalli si fecero sempre più tenui e, inoltre, la comunità non era né unitaria né
composta da individui, ma da aggregazioni sociali, comunità minori tra loro diversamente combinate (la
famiglia-clan, le corporazioni dei mestieri, le associazioni politiche e religiose).
Ne derivava un diritto debole e confuso, poiché uno stesso soggetto, a causa dell’appartenenza a diverse
comunità, era sottoponibile a diversi diritti, spesso anche in contrasto tra loro. Pur esistendo i parlamenti

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medievali, essi erano depositari di norme non precise, sancite dalla tradizione e dalla consuetudine. La
dispersione del potere ed il grande scisma religioso che sconvolse la cristianità dal 1378 e il 1417 furono i
principali propellenti delle guerre civili e di religione che sconvolsero l’Europa tra il sedicesimo e il
diciassettesimo secolo e del susseguirsi di guerre, saccheggi e miserie che caratterizzavano la vita dei popoli.

La sovranità
Lo Stato moderno è un apparato centralizzato stabile che ha il monopolio della forza legittima
in un dato territorio: il concetto giuridico che inquadra questa nuova caratteristica è quello di
sovranità.
La sovranità ha due aspetti principali: uno interno e uno esterno.
- La sovranità interna consiste nel supremo potere di comando in un territorio spazialmente
definito, tanto intenso da non riconoscerne altri al di sopra di esso;
- la sovranità esterna, invece, consiste nell’indipendenza dello Stato da qualsiasi altro Stato.
Come si può osservare i due aspetti sono interdipendenti. Il principale teorico di questo processo è
stato il filosofo Thomas Hobbes, che ha contrapposto alla raffigurazione di un’iniziale ‘stato di
natura’, caratterizzato da individui pronti a distruggersi reciprocamente, un insieme di atti
contrattuali con cui i singoli individui trasferiscono tutta la loro forza ad una ‘persona comune’, che
è lo Stato: quest’ultimo ha il monopolio dell’uso della forza che gli è stata trasferita da
individui isolati e terrorizzati, spinti dalla necessità di uscire dallo stato di natura.
Chi esercita effettivamente il potere sovrano? Il campo è stato conteso da tre teorie:
- teoria della sovranità della persona giuridica dello Stato: sono soprattutto i giuristi tedeschi e
italiani, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento a configurare lo Stato come persona
giuridica, cioè come vero e proprio soggetto di diritto, titolare della sovranità. Questa tesi da una
parte serviva a dare legittimazione oggettiva allo Stato, e quindi era utile al rafforzamento di
ancora deboli identità nazionali; d’altra parte poteva risolvere il conflitto tra il principio
monarchico e il principio popolare. Secondo l’interpretazione prevalente dello Statuto
Albertino, sovrano non era né il re né il popolo, bensì lo Stato medesimo personificato;
- teoria della sovranità della nazione: la sovranità nazionale è stata una delle invenzioni più
importanti del costituzionalismo francese dopo la rivoluzione del 1789. Con l’ordine politico
nato dalla rivoluzione francese cessa l’identificazione, propria dell’Ancien Regime, dello Stato
con la persona del Re, al cui posto viene collocata l’entità collettiva ‘Nazione’, a cui si
appartiene perché accomunati da valori, ideali, legami di sangue e tradizioni comuni. La
sovranità nazionale sorge con due precise funzioni:
• da un lato, era diretta contro la sovranità del Re;
• d’altro lato, la Nazione era una collettività omogenea che metteva fine all’antica divisione
del Paese in ordini e ceti sociali. Al loro posto subentravano i singoli cittadini eguali,
unificati politicamente nell’entità collettiva chiamata Nazione;
- teoria della sovranità popolare: entrambe le teorie richiamate hanno tentato di contrastare
l’affermazione di un altro principio, quello della sovranità popolare. La sua formulazione più
nota si deve a Rousseau, il quale faceva coincidere la sovranità con la ‘volontà generale’, che a
sua volta era identificata con la volontà del popolo sovrano, ossia dell’insieme dei cittadini
considerati come un ente collettivo.
Tuttavia c’è almeno un elemento che accomuna le diverse teorie sulla sovranità: il rifiuto di
qualsiasi ‘legge fondamentale’ capace di vincolare il sovrano, Re o popolo che fosse. Se l’agire
dello Stato poteva essere circoscritto e disciplinato attraverso leggi, si trattava comunque di
autolimiti che il sovrano poneva a sé stesso e che quindi poteva rimuovere a suo piacimento.

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Nuove tendenze della sovranità
Il costituzionalismo del novecento ha visto la generalizzata affermazione del principio di
sovranità popolare: la vigente Costituzione italiana afferma che ‘la sovranità appartiene al popolo
che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione’ (art 1, comma 2).
D’altra parte, però, la sovranità del popolo ha perso il carattere assolutistico del secolo
precedente, a causa di tre circostanze, che hanno messo in crisi la tradizionale teoria della
sovranità popolare.
1. La prima è che la sovranità popolare non si esercita direttamente ma viene inserita in un
sistema rappresentativo basato sul suffragio universale. L’esercizio del potere politico da parte
delle istituzioni rappresentative deve svolgersi sulla base del consenso popolare, che diventa
la condizione preminente di legittimazione dello Stato.
2. La seconda circostanza è la diffusione di Costituzioni rigide che hanno un’efficacia
superiore alla legge e possono essere modificate solo attraverso procedure molto complesse:
inoltre, la preminenza della Costituzione viene garantita dall’opera della Corte costituzionale;
dunque, i titolari della sovranità incontrano, nell’esercizio dei loro poteri, limiti giuridici
difficilmente superabili.
La Costituzione italiana afferma nell’art. 1 comma 2 che ‘la sovranità appartiene al popolo che la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione’: si è quindi riconosciuto che la vigente
Costituzione accoglie il principio della sovranità popolare.
Ma insieme alla sovranità popolare, è prevista anche la preminenza della Costituzione, garantita
dalla Corte Costituzionale chiamata ad imporne l’osservanza: la nostra Costituzione nasce
come garanzia reciproca di esistenza contro la possibilità che sorgesse un nuovo potere assoluto e
dispotico, anche se legittimato dal voto popolare. Essa prevede i mezzi di cui il popolo può servirsi
per l’esercizio della sovranità, ma i poteri in cui si scompone la sovranità non sono tutti affidati al
popolo, che può azionare solamente quelli attribuitigli per Costituzione, mentre gli altri sono
esercitati dalle altre articolazioni dell’organizzazione statale, sempre nel rispetto della Carta
fondamentale.
In conclusione ‘sovranità popolare’ nel diritto costituzionale italiano significa che il popolo può
porre in essere esclusivamente gli atti di esercizio della sovranità a lui riservati dalla
Costituzione, ossia:
a) quelli che esprimono una volontà unitaria del popolo influente e talora determinante degli
indirizzi politici dello Stato;
b) quegli atti attraverso cui il popolo si esprime attraverso atti singoli e particolari, imputabili a
ciascun cittadino che persegue un interesse politico nell’esercizio di alcuni diritti costituzionali.
3. La terza tendenza che concorre nella limitazione della sovranità statale è l’affermazione
delle organizzazioni internazionali. In un primo momento la sovranità “esterna” non
riconosceva alcun limite, se non quelli scaturiti dagli accordi fra gli Stati stessi ma, dopo il
tragico epilogo di questo sistema con lo scoppio della I e della II guerra mondiale, si è
sviluppato un processo per mezzo del quale si limitava la sovranità statale con lo scopo di
garantire la pace e tutelare i diritti umani. Il 26 giugno del 1945 nasce l’ONU (Organizzazione
delle Nazioni Unite) garante della sicurezza internazionale e il 10 dicembre 1948 viene
approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Dall’ONU non discendono limiti
giuridici, quest’associazione è ‘fondata sul principio della sovrana eguaglianza degli stati
membri’ e pertanto vieta l’ingerenza sulle questioni interne.
La limitazione della sovranità statale diventa molto più evidente con la fondazione in Europa
di organizzazioni sovranazionali quali: Comunità economica europea (1957), Comunità europea del
carbone e dell’acciaio (1951) e la Comunità europea per l’energia atomica (1957) tutte e tre riunite (dopo il
trattato di Maastricht del 1992) nella Comunità Europea poi Unione Europea.

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Gli Stati membri hanno trasferito in capo a queste organizzazioni poteri rilevanti come la
competenza a produrre norme giuridiche, vincolanti ed efficaci per gli Stati e talvolta prevalenti sul
diritto interno, nonché il potere di prendere in certi campi decisioni prima di competenza statale,
che propriamente ne definivano il nucleo della sovranità (potere normativo, governo della moneta).
Va comunque precisato che le organizzazioni sovranazionali non possono sostituirsi
integralmente allo Stato: solo riconoscendo un ruolo ai Parlamenti nazionali è possibile assicurare
una legittimazione democratica all’Unione Europea. Quanto alla Corte costituzionale italiana, essa
ha posto come limite all’azione delle istituzioni comunitarie il rispetto di ‘controlimiti’
rappresentati dai ‘principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale’.
Le Comunità europee sono sorte con l’obiettivo di assicurare ai Paesi europei una pace
duratura dopo gli sconvolgimenti delle due guerre mondiali scoppiate nel novecento.
Tale obiettivo andava raggiunto integrando le economie dei Paesi fondatori e perciò le libertà
previste dal Trattato di Roma erano finalizzate all’instaurazione di un mercato comune: la libertà di
circolazione delle persone, dei beni, dei capitali e dei servizi.
Successivamente cominciò ad affermarsi la questione dei diritti dei cittadini europei, da far valere
nei confronti del nuovo potere pubblico europeo: il riconoscimento dei diritti fondamentali
nell’ordinamento europeo è avvenuto per effetto della giurisprudenza della Corte di giustizia e
quest’evoluzione è stata codificata dall’art. 6 del Trattato dell’Unione, firmato a Maastricht.
Quindi, poi, si è sviluppato un ampio dibattito sull’opportunità di tradurre i diritti di origine
giurisprudenziale in diritti proclamati in un documento di natura costituzionale: il primo risultato di
questo dibattito è stata la proclamazione, in occasione del Consiglio europeo riunito a Nizza nel
2000, del Carta dei diritti dell’Unione Europea e alla fine il Trattato di Lisbona le ha conferito piena
efficacia giuridica.
Il territorio
La sovranità è esercitata dallo Stato innanzitutto su un determinato territorio: secondo la concezione
tradizionale, la sovranità implica che lo Stato eserciti il supremo potere di comando in un
determinato ambito spaziale, in modo indipendente da qualsiasi altro Stato. Una precisa
delimitazione territoriale è quindi condizione essenziale per l’esercizio della sovranità e per
assicurare agli Stati l’indipendenza reciproca.
Per convenzione il territorio statale è costituito da: terraferma, acque interne comprese entro i
confini, piattaforma continentale, spazio atmosferico sovrastante, da navi e aeromobili battenti
bandiera dello Stato quando si trovano in spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato, dalle
sedi delle rappresentanze statali all’estero.
- terraferma: porzione territoriale delimitata dai confini, che possono essere naturali o artificiali.
Di regola i confini sono delimitati da Trattati internazionali;
- mare territoriale: fascia di mare costiero interamente sottoposto alla sovranità dello Stato.
Tradizionalmente si estendeva 3 miglia oltre la costa (gittata dei cannoni), mentre ad oggi si estende fino
a 12 miglia dalla costa, come decretato dopo la convenzione internazionale di Montego Bay (Giamaica):
questa regola non è accettata da tutti gli Stati, alcuni dei quali rivendicano una maggiore estensione;
- piattaforma continentale: è costituita dal c.d. zoccolo continentale, cioè da quella parte del
fondo marino di profondità costante che circonda le terre emerse prima che la costa sprofondi
negli abissi marini. Per convenzione gli Stati rivendicano ogni risorsa estraibile dallo zoccolo
continentale, a patto che sia assicurata la libertà delle acque.
La dottrina giuridica ha sempre ribadito come il territorio sia coessenziale allo Stato, ma ad oggi lo
Stato ha perduto il controllo di alcuni fattori presenti sul suo territorio e, di conseguenza, il rapporto
intenso che aveva col territorio stesso. In riferimento al mercato unico europeo, all’attuazione
piena della libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e delle persone tra gli stati
dell’UE, lo Stato ha perso la capacità ed il potere di trattenere al suo interno importanti
fattori produttivi come i capitali e di scongiurare l’ingresso di beni prodotti in altri paesi.

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L’indebolimento del controllo che lo Stato esercita sul proprio territorio è da collegare
soprattutto all’affermazione della globalizzazione, cioè la creazione di un mercato mondiale in
cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all’altro. Alla base della
globalizzazione dell’economia stanno diversi fattori:
a) il progresso tecnologico nel campo dei trasporti e delle comunicazioni;
b) la smaterializzazione delle ricchezze tradizionali, attraverso la c.d. finanziarizzazione
dell’economia;
c) lo sviluppo dell’informatica e la creazione delle reti telematiche;
d) l’accresciuta importanza strategica ed economica di altri ‘beni immateriali’, come la conoscenza
e l’informazione;
e) lo sviluppo di sistemi produttivi flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente
da un luogo ad un altro o di allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali
diverse.
Dalla globalizzazione dell’economia derivano numerose conseguenze:
- il capitale finanziario si sposta da un luogo ad un altro, e perciò da uno Stato ad un altro, alla
ricerca del luogo più conveniente in cui posizionarsi, sfuggendo quasi integralmente al controllo
dei poteri pubblici;
- in secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese al di
fuori dei loro confini, ma che hanno effetti considerevoli all’interno del territorio dello Stato.
- In questo modo si realizza una competizione tra Stati per attrarre imprese e capitali e
quindi per aumentare la ricchezza che esiste e si produce nel territorio; gli Stati si trovano
davanti ad una alternativa secca: o chiudere le proprie frontiere agli scambi con l’esterno,
oppure garantire la piena libertà di movimento a capitali, servizi, accettando così di conformarsi
alla logica del mercato e alla competizione tra aree territoriali.
Ma l’adesione alla seconda alternativa comporta una certa riduzione dell’area delle scelte politiche
consentite allo Stato: lo Stato, quindi, è formalmente libero di adottare gli indirizzi politici che
ritiene opportuni, ma sostanzialmente è costretto a sottostare al giudizio del mercato e a
seguire gli indirizzi politici compatibili con le esigenze della competizione internazionale.

La cittadinanza
La cittadinanza è uno status cui la Costituzione riconosce diritti e doveri. Essa è anzitutto
condizione per l’esercizio dei diritti connessi alla sovranità popolare ma anche fondamento di
doveri costituzionali.
La Costituzione stabilisce altresì che nessuno possa essere privato della cittadinanza per motivi
politici (art. 22); i metodi di costituzione, revoca ed acquisto della cittadinanza sono disciplinati
dalla legge (l. 91/1992 e relativo regolamento di esecuzione, modificati restrittivamente dalle l.
94/2009).
La cittadinanza italiana viene acquistata:
a) con la nascita per:
- ius sanguinis, ossia acquista la cittadinanza il figlio, anche adottivo, di padre o madre in
possesso della cittadinanza italiana, qualunque sia il luogo di nascita;
- ius soli, ossia acquista la cittadinanza colui che è nato in Italia da genitori ignoti o apolidi, o
che, nato in Italia da cittadini stranieri, non ottenga la cittadinanza dei genitori sulla base delle
leggi degli Stati cui questi appartengono;
b) lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al
raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se entro un anno dichiara di voler
acquistare la cittadinanza italiana;

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c) su istanza dell’interessato, rivolta al sindaco del Comune di residenza o all’autorità consolare,
in particolare: 1) dal coniuge, straniero o apolide, di un cittadino o di una cittadina italiana
qualora ricorrano determinate condizioni; 2) dallo straniero che possa vantare un genitore o un
ascendente in linea retta di secondo grado che sia cittadino italiano per nascita; 3) dallo
straniero, che abbia raggiunto la maggiore età, adottato da cittadino italiano e residente da
almeno cinque anni successivi all’adozione; 4) dallo straniero che ha prestato servizio per 5 anni
alle dipendenze dello Stato; 5) dal cittadino di uno degli Stati membri dell’Ue, dopo almeno
quattro anni di residenze nel territorio della Repubblica; 6) dall’apolide dopo almeno cinque
anni di residenza; 7) dallo straniero, dopo almeno dieci anni di regolare residenza in Italia.

La cittadinanza europea
Con l’integrazione europea cessa il rapporto esclusivo fra Stato e cittadini. In particolare, a seguito
del Trattato di Maastricht del 1992 si è introdotto il concetto di cittadinanza europea: presupposto
per l’acquisizione di tale cittadinanza è il possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri.
La cittadinanza dell’unione ‘integra la cittadinanza nazionale e non la sostituisce’: il cittadino
dell’Unione, oltre a poter agire in giudizio davanti ad organi di giustizia dell’Unione, può agire
contro lo Stato di appartenenza per far valere i propri diritti in forza della cittadinanza comunitaria.
Al cittadino comunitario è consentita la libertà di circolazione nel territorio degli Stati
membri, la possibilità di godere della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di
qualsiasi Stato membro al pari dei cittadini di quello Stato. In Italia, sulla base di quanto previsto di
quanto previsto da una direttiva comunitaria, è stato adottato il d.lgs. 197/1996 che definisce le
modalità di esercizio dell’elettorato attivo e passivo in relazione alle elezioni comunali.
I cittadini dell’Ue che intendano partecipare alle elezioni per il rinnovo degli organi comunali
e circoscrizionali, devono chiedere l’iscrizione ad un’apposita lista elettorale: l’iscrizione
consente anche l’eleggibilità a consigliere comunale (non a sindaco) e la nomina a componente di
giunta (ma non a quella di vice-sindaco). L’Unione, infine, si impegna a rispettare i diritti
fondamentali quali sono sanciti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e del cittadino e quali risultano dalle ‘tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario’.
Il sistema è completato da un apparato di garanzie: ogni persona può adire la Corte di Giustizia
con riguardo ad atti delle istituzioni comunitarie che considera contrari ai diritti fondamentali.
La distinzione fra cittadini e stranieri è in crisi. Agli effetti della cittadinanza comunitaria si
aggiungono quelli derivanti dai flussi migratori, dall’utilizzo di stranieri in attività economiche,
dallo stabilirsi di intere famiglie provenienti dall’estero nel territorio nazionale che fanno subentrare
un’altra divisione basata sulla nozione generale di ‘residente’. In questa sfera alcuni diritti vengono
riconosciuti anche agli stranieri, a patto che siano appunto residenti nel territorio nazionale: si
fornisce, così, una risposta ai problemi sollevati dalla società multiculturale. Al fine di una
coesistenza pacifica si è ritenuto di dover garantire il mantenimento delle rispettive identità
culturali piuttosto che l’assimilazione della cultura comune ai cittadini dello Stato
d’accoglienza: si garantisce, quindi, l’esistenza di identità particolari regolate dal principio di
tolleranza e a patto che esse non pretendano di imporsi sulle altre preesistenti.

A) Lo Stato come apparato


- L’apparato burocratico
Lo Stato si differenzia dalle altre organizzazioni che si sono aggiudicate il monopolio della forza
legittima in un dato territorio poiché si serve di un apparato organizzativo servito da una burocrazia
professionale.
Quest’organizzazione è stabile nel tempo ed ha carattere impersonale poiché esiste e funziona sulla
base di regole predefinite. La complessa attività dell’apparato è scomposta in compiti minori
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esercitati da strutture minori: gli uomini che presiedono a date istituzioni sono sottoposti a
procedure prestabilite e operano nei limiti delle competenze assegnate. L’apparato esiste
indipendentemente da chi lo fa funzionare, ha perciò carattere impersonale.
Il funzionamento dell’apparato presuppone la presenza di una burocrazia professionale, che è
formata di soggetti che ‘per vivere’ prestano la loro opera professionale a favore dello Stato,
eseguendo compiti amministrativi nel rispetto di determinate regole tecniche.
Le origini della burocrazia professionale si collocano nel secolo XVI nei principali Paesi europei
(Inghilterra, Francia, Spagna, Austria): è nata per soddisfare due esigenze scaturenti dalle lotte della
corona contro le baronie locali. La prima esigenza è stata quella di creare corpi militari e ciò ha
portato che si costituissero eserciti non dipendenti dalla corona; la seconda esigenza era quella di
mettere a disposizioni ingenti risorse con cui mantenere i corpi militari, e ciò richiedeva l’uso
efficace dell’imposizione tributaria. Quindi, le burocrazie professionali sono nate per finalità
militari e tributarie. Nello Stato assoluto, l’apparato civile e militare era alle dipendenze della
corona, che concentrava la titolarità delle funzioni pubbliche; dopo l’avvento dello Stato liberale, le
funzioni pubbliche furono divise tra più organi di vertice da cui dipendeva l’apparato con la sua
burocrazia.
Per inquadrare giuridicamente la realtà dell’apparato statale, la dottrina giuridica tedesca del XIX
secolo e, sulla scia, la dottrina degli altri Paesi dell’Europa continentale, impiegò la nozione di
persona giuridica, che è la figura soggettiva alla quale l’ordinamento attribuisce capacità di agire in
modo giuridicamente rilevante e di costituire centri di imputazione di effetti giuridici. Con
l’attribuzione allo Stato di un’autonoma personalità giuridica si otteneva il risultato di impedire
l’identificazione dell’autorità dell’apparato con la volontà delle persone preposte agli uffici e, al
contempo, di assicurare alle manifestazioni di volontà statale il carattere dell’obiettività assoluta.
Sul piano internazionale non ci sono dubbi che lo Stato agisca come persona giuridica, su quello
interno (nazionale) lo Stato agisce, invece, tramite i propri enti o i propri organi: Comuni o
Prefetture ad esempio.
Gli enti pubblici
Accanto allo Stato esistono numerosi enti pubblici dotati di propria capacità giuridica. Essi possono
essere definiti come apparati costituiti dalle comunità per il perseguimento dei propri fini, che
vengono riconosciuti come persone giuridiche o come soggetti giuridici. Essi si distinguono dalle
persone giuridiche private (organizzazioni o società comunque regolate dall’ordinamento) poiché
sono istituiti per il soddisfacimento di interessi ritenuti comuni ad una determinata comunità, cioè
gli interessi pubblici.
Gli enti pubblici furono inizialmente considerati come satelliti dello Stato medesimo, strumenti per
la realizzazione del suo interesse pubblici. Oggi, l’affermazione della democrazia pluralistica ha
modificato notevolmente il quadro: da una parte, il pluralismo ha comportato che numerosi interessi
assurgessero ad interessi pubblici e come tali venissero affidati alla cura di un apparato statale o di
un ente pubblico. Si è creata una situazione in cui esistono numerosi interessi pubblici, spesso in
conflitto tra loro, per cui si parla di eterogeneità degli interessi pubblici. D’altra parte, ad alcuni enti
rappresentativi della territorialità, viene riconosciuta l’autonomia politica: nei limiti della
Costituzione i loro organi sono eletti direttamente dai cittadini e possono esprimere maggioranze e
indirizzi politici diversi da quelli dello Stato; questi enti territoriali assumono un rilievo crescente,
non solo per il loro numero, ma per l’ampiezza delle loro funzioni.
La potestà pubblica
Stato ed enti pubblici sono collocati dall’ordinamento in una posizione di supremazia rispetto ai
soggetti privati. Gli effetti giuridici che ne derivano si producono nella sfera dell’interessato con la
semplice manifestazione di volontà, indipendentemente dal consenso o dal dissenso dell’interessato.
Questo potere di determinare unilateralmente effetti giuridici nella sfera del destinatario è detto
potestà pubblica o potere di imperio. Ogni potestà è strettamente disciplinata e posta in essere dalla
legge, al di fuori della legge lo Stato non ha alcuna autorità. Ben diversa è la posizione reciproca dei

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privati, essi sono posti in tendenziale parità, disciplinano da sé i loro rapporti nei limiti stabiliti dalla
legge: si parla di principio di autonomia privata.
Attualmente lo Stato e gli altri enti pubblici sempre più frequentemente utilizzano strumenti e
istituti tipi del diritto privato per soddisfare interessi pubblici, con la conseguenza che, in questi
casi, i rapporti instaurati con altri soggetti si svolgono su un piano paritario. La tendenza a rendere
sempre meno rilevante la distinzione tra soggetti privati ed enti pubblici è accentuata per effetto
dell’influenza del diritto comunitario, che ha elaborato la nozione di organismo di diritto pubblico:
questa nozione assicura che anche ad enti che formalmente non fanno parte della pubblica
amministrazione vengono applicate le direttive in materia di appalti pubblici, se prendono soldi
pubblici.
Uffici ed organi
Ognuno degli apparati minori che formano l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici
opera secondo regole prestabilite che delineano un particolare disegno organizzativo, il quale regola
lo svolgimento di determinati servizi a ciascuno dei quali è preposto un determinato ufficio.
L’ufficio è l’unità strutturale elementare dell’organizzazione; esso esiste astrattamente, prescinde
cioè dalle persone fisiche che vi sono preposte. L’organo è un ufficio particolarmente qualificato da
una norma come idoneo ad esprimere la volontà della persona giuridica e ad imputarle l’atto e i
relativi effetti. La persona giuridica (l’ente) può avere parecchi uffici, di cui però solo alcuni (gli
organi appunto) hanno la capacità giuridica di compiere atti giuridici, ossia a manifestare verso
l’esterno la volontà dell’ente. Gli organi sono i soli uffici produttivi di rapporti giuridici.
Sono possibili numerose classificazioni fra gli organi:
 organi rappresentativi, i cui titolari sono eletti direttamente dal corpo elettorale o che sono
istituzionalmente collegati ad organi elettivi;
 organi burocratici, cui sono preposte persone che professionalmente prestano la loro attività in
modo pressoché esclusivo a favore dello Stato o di altri enti pubblici;
 organi attivi, con compito deliberativo, decidono per l’organo di cui sono parte;
 organi consultivi, danno dei consigli, i pareri, ai primi sul modo in cui esercitare il loro potere
decisionale
 organi di controllo, devono verificare la conformità alle norme (la legittimità), ovvero
l’opportunità (il merito) di atti compiuti da altri organi.
È opportuno aggiungere che i pareri espressi dagli organi consultivi si distinguono in:
α) facoltativi: l’organo deliberativo ha facoltà ma non obbligo di richiederli;
β) obbligatori: l’organo deliberativo ha l’obbligo di richiederli;
γ) vincolanti: devono essere obbligatoriamente seguiti dall’organo che decide.
Ai nostri fini la figura più importante è costituita dagli organi costituzionali: essi sono elementi
necessari dello Stato, tanto che la loro mancanza determinerebbe il totale arresto dell’attività statale;
sono elementi indefettibili, poiché la loro soppressione o sostituzione determinerebbe un’inevitabile
modifica dello Stato stesso; la loro struttura di base è definita interamente dalla Costituzione;
ciascuno di essi si trova in condizione di parità giuridica nei confronti degli altri.
Gli organi costituzionali si differenziano dagli altri non solo per una diversità di funzione ma
soprattutto per una differente posizione, poiché solo essi individuano lo Stato in un determinato
momento storico

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CAPITOLO II – FORME DI STATO
Forma di stato
Con l’espressione forma di stato si intende il rapporto che intercorre tra le autorità dotate di potestà
di imperio e la società civile, nonché l’insieme dei principi e dei valori a cui lo Stato ispira la sua
azione. Con l’espressione forma di Governo, invece, si intende il modo in cui si distribuisce il
potere tra i diversi organi di uno Stato-apparato e l’insieme dei rapporti che intercorrono fra essi. La
nozione ‘forma di stato’ si riferisce al modo in cui si strutturano i rapporti tra lo Stato e la società: al
variare di tali rapporti corrispondono finalità diverse perseguite dallo Stato nell’esercizio delle sue
funzioni. Lo Stato è un ordinamento a fini generali, nel senso cioè che può assumere come proprio
qualsiasi fine; in ogni epoca storica però esiste una finalità prevalente, che dà luogo ad un
particolare assetto delle relazioni tra Stato e società.
Le due nozioni sono diverse, ma strettamente collegate: l’organizzazione del potere politico
nell’ambito dello Stato è lo strumento tecnico predisposto per realizzare la finalità politica
caratterizzante lo Stato.
Tra forma di stato e forma di governo esiste un rapporto di strumentalità.
Gli studiosi hanno elaborato classificazioni delle forme di stato e delle forme di governo
distinguendo le differenti specie sulla base di tratti caratterizzanti: nell’ambito delle prime si
distinguono lo Stato assoluto, lo Stato liberale, lo Stato di democrazia pluralista, lo Stato totalitario
e lo Stato socialista. Nell’ambito di ciascuna specie di forma di stato sono stati individuati vari tipi
di forma di governo, a seconda del modo in cui il potere di indirizzo politico è ripartito tra gli
organi costituzionali. Le diverse specie di forma di governo e di forma di stato elaborate dalla
dottrina costituzionalista sono idealtipi, cioè modelli ricavati attraverso la comparazione di più
esperienze costituzionali e l’individuazione di alcuni elementi comuni a tali esperienze: il modello è
un concetto riassuntivo di tratti ricorrente in una pluralità di sistemi costituzionali concreti, che si
sono realizzati in tempi e luoghi diversi. Ma è importante sottolineare che la realtà storica di ogni
Stato è infinitamente più ricca del modello costruito dagli studiosi. Il modello è il frutto dell’opera
di astrazione e comparazione compiuta dallo studioso: non contiene regole o principi direttamente
applicabili in ciascuno dei sistemi costituzionali, riconducibili alla singola specie di forma di stato o
forma di governo, ma quando c’è un dubbio sull’interpretazione del documento costituzionale, il
modello può essere d’ausilio per l’interprete.
Lo Stato assoluto
Lo Stato assoluto è la prima forma di Stato moderno: esso nacque in Europa tra il quattrocento e il
cinquecento, affermandosi nei due secoli successivi. Si caratterizzava per l’esistenza di un apparato
autoritario separato e distinto dalla società e per l’affermazione di un potere sovrano attribuito
interamente alla Corona. Questa, in quanto organo dello Stato, godeva dei requisiti
dell’impersonalità e della continuità garantiti dalla legge. Lo Stato assoluto è quel modello di Stato
in cui il potere sovrano è concentrato nelle mani della Corona, che perciò era titolare sia della
funzione legislativa, sia di quella esecutiva, mentre il potere giudiziario era esercitato da Corti e
Tribunali i cui membri erano nominati dal Re. La volontà del Re era la fonte primaria del diritto e
ciò che egli voleva aveva efficacia di legge: il suo potere assoluto non incontrava limiti legali (il Re
era legibus solutus), né poteva essere condizionato dai desideri dei sudditi. Il potere regio non
derivava da scelte umane, ma era ritenuto di origine divina.
L’assolutismo regio si affermò in quei Paesi dove riuscì a limitare drasticamente il peso delle
corporazioni e della nobiltà feudale, e quindi a svuotare la funzione dei ‘parlamenti’ medioevali’:
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ciò avvenne soprattutto in Francia, dove gli ‘Stati generali’ non vennero convocati per la maggior
parte del seicento e fino al termine del settecento, mentre la nobiltà feudale venne sottomesse allo
Stato, accettando come compensazione la prospettiva di entrare a far parte della corte del Re a
Versailles. In Inghilterra, invece, l’assolutismo si affermò solo parzialmente nel cinquecento con la
dinastia dei Tudor, mentre nel secolo successivo fallì il tentativo degli Stuart di realizzare il modello
assolutistico francese.

Lo Stato liberale
Lo Stato liberale è una forma di stato che nasce tra la fine del 700 e la prima metà dell’800, a
seguito della crisi dello Stato assoluto, dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e
dell’affermazione della borghesia. I caratteri strutturali che definiscono la forma di stato liberale
sono: la base sociale ristretta ad una sola classe; il principio di libertà e di autonomia dei privati; il
principio rappresentativo; lo Stato di diritto.
La crisi dello Stato assoluto fu dovuta soprattutto a ragioni finanziarie, connesso ai costi crescenti
del suo funzionamento che portarono ad un peso fiscale ritenuto insopportabile soprattutto dalla
classe borghese, ed all’indebolimento della sua legittimazione politica, derivante dalla sua
incapacità di far coesistere la sfera della sovranità del Re con il riconoscimento di una sfera di
libertà alle varie componenti della società.
In Francia la crisi assunse una forma traumatica con la rivoluzione del 1989: da qui il
riconoscimento della preminenza politica della borghesia, che rifiutò il sistema tradizionale delle
riunioni e dei voti separati dei singoli ‘stati’. La monarchia assoluta fu travolta così da una
rivoluzione parlamentare e da una sommossa popolare: in un clima incandescente l’Assemblea
approvò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che consacrò la filosofia politica del
nuovo Stato, specificata successivamente dalla Costituzione del 1791. La Dichiarazione sanciva
che lo scopo fondamentale dello Stato doveva essere quello di conservare i diritti naturali
dell’uomo, l’eguaglianza di fronte alla legge, che poneva fine agli antichi privilegi nobiliari, la
limitazione del potere tramite il principio della divisione dei poteri. Dal 1789 al 1870 la Francia
ebbe più di una dozzina di Costituzioni e svariati assetti politico-costituzionali: solo con le leggi
costituzionali del 1875, repubblicane e liberali, la Francia conobbe una stabilità costituzionale
destinata a durare quasi 70 anni (‘terza Repubblica’).
In Inghilterra invece l’affermazione dello Stato liberale fu più graduale, ma anche più stabile: qui
l’assolutismo non aveva attecchito pienamente e le forze politiche, la cui base sociale era
rappresentata dall’alleanza tra nobiltà di campagna e i ricchi mercanti della città, consideravano il
Common Law, cioè il tradizionale complesso di norme consuetudinarie, come fondamento e
garanzia della loro indipendenza, per cui lo stesso Re doveva ritenersi sottoposto al diritto. In questa
prospettiva, il Parlamento negava al Re la possibilità di imporre nuovi tributi senza il suo consenso
e riteneva illegittimi gli arresti arbitrari e l’alloggio forzato di truppe presso i privati.
La tensione tra Parlamento e Carlo I portò alla guerra civile e all’esecuzione del Re nel 1649: fu
però con Giacomo II che si verificò un evento politico-costituzionale fondamentale per la storia
europea, la rivoluzione del 1689. Si affermò il principio secondo cui il Re aveva perso il diritto a
pretendere fedeltà dai sudditi per avere deliberatamente cercato di sovvertire le ‘leggi fondamentali’
del Paese: il Re venne dichiarato abdicario ed al trono venne chiamato Guglielmo III d’Orange.
Il Parlamento adottò due fondamentali documenti costituzionali: la Declaration of Rights ed il Bill
of Rights, con cui si riaffermarono la libertà dagli arresti arbitrari, la libertà di parola e discussione
in Parlamento, il divieto per il Re di sospendere le leggi e dispensarne dall’osservanza senza il
consenso del Parlamento, il divieto per il Re di imporre tributi senza consenso parlamentare, il
divieto per il Re di mantenere armate stabili in tempo di pace, il diritto del Parlamento ad essere
frequentemente riunito per garantire il rispetto delle leggi, il diritto del Parlamento a sindacare la
regolarità delle elezioni.
Diverso ancora fu il caso americano: l’Inghilterra si rivolgeva alle colonie americane con lo scopo
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di rimpinguare le casse provate dalle guerre, imponendo nuove tasse senza il consenso delle
assemblee legislative locali. Gli americani risposero invocando il principio ben saldo nel
costituzionalismo inglese (no taxation without rapresentation), secondo cui era illegittima qualsiasi
tassazione che non fosse approvata dai loro rappresentanti eletti. A seguito del radicalizzarsi del
conflitto si giunse alla Dichiarazione di indipendenza (nel luglio 1776), sottoscritta dai
rappresentanti di tutte le colonie: questo documento fissava i principi politico-costituzionali da
porre a fondamento della nuova nazione americana. Si giunse, così, alla convocazione di una
Convenzione federale a Filadelfia, dove si riunirono i delegati di tredici Stati americani che
approvarono la Costituzione americana, la quale entrò in vigore del giugno 1788.
Altro fattore importante fattore che ha promosso l’organizzazione del potere politico tipica dello
Stato liberale è stato l’avvento di un’economia di mercato prevalentemente a carattere capitalista.
L’economia di mercato è basata su un principio di domanda e offerta tra acquirente e venditore.
L’uno punta ad acquistare alla cifra più bassa, l’altro a vendere alla cifra più alta. La transazione si
risolve e fa comparire un prezzo: l’equilibrio di mercato è risultante di milioni di contratti conclusi
tra singoli individui. L’economia si è storicamente accoppiata al modo produttivo capitalistico,
basato sulla distinzione tra soggetti proprietari e soggetti non proprietari che vendono ai primi la
loro forza lavoro, affinché essa possa essere impiegata nel ciclo produttivo, diretto a creare profitti
per l’imprenditore. Lo Stato assoluto ostacolava questa nuova economia: va sottolineato l’aspetto
del particolarismo giuridico, che consiste nelle disuguaglianze e tendenziale assenza di unitarietà e
coerenza delle leggi vigenti all’interno di ciascuno Stato.
Di contro, l’economia di mercato e capitalistica presupponeva, sul terreno giuridico, la certezza dei
diritti di proprietà dei venditori e dei compratori, la piena libertà contrattuale, l’eguaglianza formale
dei contraenti, l’abolizione dei privilegi dei monopoli pubblici e di tutte le restrizioni alla libera
circolazione delle merci, la prevedibilità degli effetti giuridici delle azioni necessaria per effettuare
il calcolo economico. Le nuove modalità di produzione della ricchezza e l’esigenza di garanzia
della libertà contro le tentazioni assolutistiche, favorirono l’affermarsi di una società civile distinta
dallo Stato. Ma, mentre lo Stato assoluto rendeva la società civile oggetto di gestione politica, lo
Stato liberale assegnava a questa capacità di autoregolarsi e di sviluppare autonomamente i propri
interessi.
In questa prospettiva si collocano le due tendenze tipiche dello Stato liberale:
1. le codificazioni costituzionali, ovvero la tendenza a consolidare in un unico documento i
principi sulla titolarità e sull’esercizio del potere politico.
2. le codificazioni civili, ovvero la tendenza a formare un corpo sistematico di regole che
disciplinassero i rapporti fra privati dotate di requisiti di generalità ( perché riferibili a tutti gli
individui resi uguali di fronte alla legge), astrattezza (perché soggette a numerose applicazioni
nel tempo) e certezza (perché erano raccolte in un corpo normativo unitario e prevedibili nei
loro effetti).
Il modello di questo nuovo modo di legiferare era il Codice napoleonico del 1804, sulla cui
falsariga vennero elaborati gran parte dei codici europei.
I caratteri dello Stato liberale
Occorre prendere in considerazione, quindi, i tratti caratterizzanti di questa forma di stato, ma anche
il fatto che ciascuna esperienza storica è molto più articolata e complessa del modello e presenta i
suoi tratti peculiari non presenti nel modello stesso, che è sempre frutto di un’astrazione. Il modello
‘Stato liberale’ è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali:
a) da una finalità politico costituzionale garantista. Lo Stato è considerato lo strumento di tutela
delle libertà e dei diritti degli individui, in primo luogo del diritto di proprietà (John Locke
afferma che gli uomini nascono liberi ma poi si assoggettano al potere per avere assicurata la
tutela del diritto di proprietà). Si afferma il principio secondo cui la finalità principale dello
Stato è quella di garantire i diritti ed in modo strumentale rispetto a tale finalità garantistica deve

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strutturarsi l’organizzazione costituzionale (attraverso il principio della separazione dei poteri);
b) da una concezione dello Stato minimo. È uno Stato che si astiene dall’intervenire nella sfera
economica, affidata alle relazioni ed alle autoregolazione dei soggetti privati: nei suoi
programmi rientrano, quindi, un basso livello di tassazione ed il pareggio di bilancio;
c) dal principio di libertà individuale. Lo Stato riconosce e tutela la libertà personale, la
proprietà privata, la libertà contrattuale, la libertà di pensiero e di stampa, la libertà religiosa, la
libertà di domicilio, ma si tratta di libertà riferite all’individuo: si esclude ogni diaframma tra lo
Stato ed i singoli cittadini, definendo un sistema giuridico che presuppone una società formata
da individui eguali di fronte alla legge;
d) dalla separazione dei poteri. Il potere politico viene suddiviso tra soggetti istituzionali diversi,
che si controllano reciprocamente;
e) dal principio di legalità. La tutela dei diritti è affidata inoltre alla legge; la sua
caratterizzazione come Stato di diritto significa che ogni limitazione della sfera di libertà
riconosciuta a ciascun individuo deve avvenire per mezzo della legge e quindi, tutta l’attività dei
pubblici poteri deve fondarsi sulla previa autorizzazione della legge. Questa funzione
garantistica della legge si basa su due premesse: 1) la legge deve avere i caratteri di generalità e
astrattezza, dettando modelli validi per tutti a prescindere dal caso concreto; 2) il secondo
presupposto è che la legge sia formata dai rappresentanti della Nazione ai cui membri essa di
applica, e quindi provenga da soggetti che condividano le finalità di tutela di libertà e del diritto
di proprietà: lo Stato liberale si basa sul principio rappresentativo;
f) dal principio rappresentativo. Le assemblee legislative dello Stato liberale rappresentano
l'intera nazione o l'intero popolo, come entità complessiva. Pertanto, i singoli parlamentari
devono agire liberi da mandati vincolanti da parte del rispettivo collegio elettorale (divieto di
mandato imperativo); ma comunque i rappresentanti vengono eletti da un corpo elettorale assai
ristretto, essenzialmente circoscritto alla classe borghese: di conseguenza vi è un’omogeneità
sociale tra i rappresentanti, autori della legge, ed i soggetti cui la legge si applica. Tale
omogeneità costituisce la principale garanzia che la legge abbia effettivamente contenuti tali da
renderla garanzia della proprietà e delle altre libertà individuali.
Tale caratteristica è molto importante: la legislazione elettorale di questa forma di stato attribuisce il
diritto di voto solamente a cittadini ritenuti ‘capaci’ e ‘affidabili’, e in quanto tali realmente
interessati alla gestione della cosa pubblica. Il diritto di voto è quindi circoscritto a chi abbia un
adeguato livello di istruzione e di reddito. Quindi, lo Stato liberale ha una base sociale ristretta,
tendenzialmente coincidente con la classe borghese e pertanto viene qualificato come Stato
monoclasse.

La nascita dello Stato di democrazia pluralista


Lo Stato di democrazia pluralista si afferma a seguito di un lungo processo di trasformazione dello
Stato liberale, che porta all’allargamento della sua base sociale: lo Stato monoclasse si trasforma in
Stato pluriclasse e si fonda sul riconoscimento della pluralità di gruppi, interessi, idee e valori che
possono confrontarsi nella società ed esprimere la loro voce in Parlamento. Si tratta sostanzialmente
di uno Stato liberale con base sociale molto più ampia: la causa dominante dell’affermarsi di questo
modello è appunto l’allargamento progressivo dell’elettorato che culmina nel suffragio universale.
L’ampliamento si verifica da un punto di vista ‘quantitativo’ dell’elettorato attivo e da un punto di
vista ‘qualitativo’ supportato da tre trasformazioni:
a) nascita e affermazione dei partiti di massa, che organizzano la partecipazione politica di
migliaia di elettori;
b) configurazione degli organi elettivi come luogo di incontro e scontro di interessi eterogenei;
c) il riconoscimento di diritti sociali come strumenti di integrazione nello Stato dei gruppi sociali

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più svantaggiati.
L’evoluzione di queste tendenze ha conosciuto sviluppi più graduali in alcuni Paesi (Inghilterra e
Stati Uniti) e molto evidenti in altri (Italia e Germania).
I partiti politici di massa
Con l’introduzione del suffragio universale sono nati e si sono affermati i moderni partiti di massa,
caratterizzati da una solida struttura organizzativa che ha consentito loro di diventare veri mezzi di
mobilitazione popolare e di integrazione delle masse nelle istituzioni. Essi hanno un apparato
organizzativo permanente che opera al di fuori del Parlamento e tiene collegati eletti ed elettori:
questo apparato è formato da persone che professionalmente si occupano di politica e traggono i
loro mezzi di vita dalla politica, dando vita ad una burocrazia di partito. Alla nascita dei partiti di
massa ha, inoltre, contribuito anche il conflitto sociale sempre più aspro per il raggiungimento di
una uguaglianza sostanziale tra gli uomini appartenenti a tutte le classi: il diffondersi delle ideologie
socialiste e marxiste ha fornito ai nuovi partiti una risorsa importante per il controllo di milioni di
persone sotto la guida del gruppo dirigente del partito.
Il risultato di queste trasformazioni è stato l’emergere delle contrapposizioni della società anche a
livello istituzionale. Tutto ciò avviene nei Parlamenti, i quali si trasformano da luoghi in cui i
parlamentari, accomunati da estrazione sociale e culturale, ricercavano il modo migliore per
soddisfare l’interesse comune, a luoghi di confronto tra partiti, che finiscono perciò col controllare
direttamente l’azione del Parlamento e del Governo. Tali trasformazioni sono divenute
particolarmente evidenti soprattutto dopo la prima guerra mondiale, allorchè i partiti di massa hanno
avuto una considerevole crescita a scapito delle tradizionali forze politiche liberali: in alcuni Paesi,
come il Regno Unito, il passaggio dalle istituzioni liberali a quelle democratiche non ha impedito di
avere Governi saldi e autorevoli. La comune accettazione dei valori della democrazia pluralistica
hanno impedito che il partito uscito vittorioso dalle urne utilizzasse il potere ottenuto per eliminare
l’altro.
Crisi della democrazia e nascita dello Stato totalitario
In altri paesi come la Germania e l'Italia, l'affermazione dei nuovi partiti di massa non si è
accompagnata alla comune accettazione di una democrazia pluralista da parte dei principali partiti
politici; ciò portò alla crisi delle istituzioni liberali e vi fu l'identificazione del partito unico con lo
Stato: è lo Stato totalitario.
In Italia, la frammentazione politica della giovane democrazia di massa, la prevalenza di forze che
non accettavano pienamente i valori della nuova democrazia pluralista e l’arroccamento delle forze
economiche che temevano gli effetti del suffragio universale determinarono una forte instabilità,
insieme al deficit di legittimazione delle istituzioni costituzionali, innescando una crisi gravissima
che culminò con l’avvento dello Stato fascista. Il Re nominò Presidente del Consiglio Benito
Mussolini quando, a seguito della riforma elettorale del 1919, che aveva instaurato un modello
proporzionale, non si riusciva a trovare una maggioranza stabile e a raggiungere la governabilità.
La rottura con la democrazia e l’instaurazione dello Stato autoritario si verificarono solo nei due
anni successivi, attraverso alcuni passaggi. Lo Stato fascista ha operato in Italia dal 1922 al 1943,
ed è stato organizzato in contrapposizione al modello liberale ed a quello di democrazia pluralista,
accusati di non essere in grado di difendere gli interessi nazionali a causa della frammentazione del
potere politico. Lo Stato fascista concentrava il potere politico in un unico organo, che assommava
la funzione legislativa e quella esecutiva, e cioè il Capo del Governo.
Lo Stato assumeva l'attributo della totalitarietà, nel senso che si riteneva che la collettività nazionale
si integrava in modo totale nello Stato; in tutto questo vi fu la soppressione delle tradizionali libertà
liberali.
La Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale, rimosse l’imperatore e diede vita ad una
Repubblica, basata sulla Costituzione di Weimar del 1919, con la quale si tentava una profonda
democratizzazione delle strutture dello Stato: la Repubblica poté godere di una relativa stabilità fino

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alla profonda crisi economica del 1929, quando si realizzò una profonda crisi della governabilità del
Paese.
I Governi che si succedevano erano privi di maggioranza politica e si basavano esclusivamente
sull’appoggio del Capo dello Stato: è in questo contesto, caratterizzato dalla mancanza di
attaccamento agli istituti democratici, da un forte conflitto ideologico e da instabilità politica, che ha
potuto avere fortuna il partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. La dottrina elaborata da
quest’ultimo portò alla formazione dello Stato nazionalsocialista, operante dal 1933 al 1945. Esso si
basava sull'idea secondo cui lo Stato doveva essere uno degli strumenti dei quali si avvaleva, per la
realizzazione dei suoi fini, l'unico movimento ammesso, ovvero quello nazionalsocialista. Il Capo
del movimento era vertice dello Stato, del Governo e delle forze armate, concentrando in sé il
potere costituente, quello di revisione costituzionale, quello legislativo, quello esecutivo e quello
giurisdizionale. Perciò il movimento era sovraordinato allo Stato e il soggetto posto alla guida del
movimento era considerato in posizione di supremazia.
Un'altra alternativa alla democrazia pluralista è lo Stato socialista: il riferimento storico di questa
forma di stato è dato dall'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) e affonda le sue
radici nella dottrina marxista-leninista. Questa forma di stato trova origine nella c.d. dittatura del
proletariato, con la quale si sarebbe dovuta emarginare la classe antagonista, e cioè la borghesia, in
vista del futuro superamento del potere statale e dell'avvento di una società senza classi e senza
conflitti sociali. Questo modello si reggeva sull'abolizione della proprietà privata e sull'attribuzione
alla Stato del dominio di tutti i mezzi di produzione; si realizzò, infatti, l'abolizione del mercato a
favore di un'economia collettivistica. Alla fine degli anni '80 del XX secolo, gli Stati socialisti sono
entrati in una crisi profonda che è culminata con l'evento simbolico del crollo del Muro di Berlino.
Si sono dissolti stati multinazionali con l'URSS e la Jugoslavia, da cui sono nati nuovi Stati che
adottano Costituzioni basate su principi di democrazia pluralista.

Consolidamento della democrazia pluralista e affermazione dello Stato sociale


I principi dello Stato di democrazia pluralista hanno trovato conferma al termine del secondo
conflitto mondiale in tutte le aree di influenza politica e culturale delle potenze alleate diverse
dall’URSS.
In alcuni casi è stato ripreso un processo di sviluppo costituzionale interrotto dalle parentesi
totalitarie (Italia), in altri sono stati ripresi concetti liberali e democratici sacrificati
dall’occupazione straniera (Francia, Belgio, Olanda, ecc.), altri ancora hanno subito l’imposizione
di questo modello dalle potenze vincitrici (Germania, Giappone). Solo Spagna e Portogallo sono
rimasti nell’area dello Stato autoritario prebellico fino agli anni ’70, quando si sono dati degli
ordinamenti democratici; mentre la Grecia ha avuto un temporaneo ritorno allo Stato autoritario nel
periodo 1967-1974.
La fase costituzionale, in tutti casi, vede garantite insieme alle tradizionali ‘libertà negative’ tipiche
delle concezioni liberali (libertà personale, di domicilio, religiosa, di pensiero, ecc.), anche le
diverse manifestazioni del pluralismo politico, sociale, religioso e culturale (riconosciuto ruolo
costituzionale dei partiti politici).
Nella Costituzione Italiana:
- art. 49: ‘tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale’: garanzia del pluralismo dei partiti;
- art. 39: garanzia del pluralismo dei sindacati;
- art. 8: garanzia del pluralismo delle confessioni religiose;
- art. 33: garanzia del pluralismo delle scuole e culturale;
- art. 18: garanzia del pluralismo sociale. Riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente,
per perseguire qualsiasi fine, salvo quelli vietati ai singoli dal codice penale.

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Si assiste ad un generale riconoscimento dei diritti sociali (la tutela della salute, del lavoro,
dell’istruzione, ecc.), che comportano la pretesa a prestazioni positive dei poteri pubblici da parte
dei cittadini più svantaggiati. Affinchè questi diritti siano tutelati, gli Stati devono operare
attivamente nella società e nell’economia, col fine di ridurre le diseguaglianze materiali tra
individui derivanti dalle diversità di distribuzione del reddito e delle opportunità di vita. Gli
ordinamenti democratici sono sottoposti al rischio di perdere il consenso delle classi
economicamente svantaggiate, che non possono effettivamente godere delle libertà liberali. Gli Stati
di democrazia pluralista sono perciò sorti in contesti sociali e politici caratterizzati dalla lotta di
classe, cui hanno cercato di dare uno sbocco pacifico attraverso un compromesso politico che sta
alla base delle loro Costituzioni e delle loro pratiche. Il problema principale che si è posto alle
democrazie pluraliste è quello della ‘coesione sociale’, raggiungibile solo attraverso il
compromesso politico che, da un lato, garantisce l’economia di mercato e i diritti su cui essa si
fonda; dall’altro limita ed interviene attivamente al fine di correggere le disuguaglianze inevitabili
attraverso interventi pubblici.
Ne deriva un ruolo statale profondamente diverso da quello dello Stato liberale: il cosiddetto Stato
sociale o Welfare State. Lo Stato liberale concedeva e garantiva i mezzi per l’affermazione
dell’individuo: su questa affermazione di reggevano i meccanismi di mercato; lo Stato sociale,
viceversa, interviene nella distribuzione dei benefici compensando quegli esiti che derivano dal
semplice operare di rapporti economici nel mercato. In questo modo lo Stato supera
l’individualismo e sviluppa forme di solidarietà sociale: lo Stato di democrazia pluralista ha visto lo
sviluppo di forme variegate di intervento pubblico nell’economia e nella società, che danno luogo
ad un’economia mista.
Sono prevalse diverse forme di interventismo statale in campo economico-sociale, riconducibili
principalmente al governo del ciclo economico e all’intento di ridurre le disuguaglianze di reddito
tra individui. Nel primo caso si sono sviluppate politiche keynesiane dirette a contrastare le fasi
della crisi economica attraverso la crescita della spesa pubblica, con l’intento di mantenere alta la
domanda interna e quindi di garantire uno sbocco ai prodotti delle imprese. Contrastando gli effetti
negativi del ciclo economico attraverso la spesa pubblica in investimenti, lo Stato dovrebbe evitare
la disoccupazione, garantendo un lavoro e un reddito alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini.
Nel secondo caso si sono sviluppate politiche di tipo regolativo, atte appunto a disciplinare i
comportamenti di determinate categorie per mezzo di leggi, e politiche di tipo redistributivo, che
distribuiscono risorse finanziarie da determinate categorie di soggetti in favore di altri. Il mercato,
in definitiva, viene riconosciuto e tutelato, ma lo Stato realizza forme di compensazione per
modificare certi risultati prodotti dal mercato, e quindi ridurre iniquità e rischi, oppure interviene
nel mercato correggendone certe dinamiche.
La Costituzione Italiana non usa espressamente il termine ‘Stato Sociale’, ma delinea comunque
uno Stato che interviene attivamente nella sfera economica correggendo il mercato e compensando
alle disuguaglianze derivanti dalla sola logica economica dello scambio.
La Costituzione Italiana è un chiaro esempio di compromesso sul quale si è costituito lo Stato
Sociale. Da un lato riconosce e garantisce la proprietà privata e la successione legittima e
testamentaria (art. 42), il risparmio privato e la libertà di iniziativa (artt. 47 e 41) e l’uguaglianza
formale di tutti i cittadini di fronte alla legge (art. 3.1).
Dall’altro prevede l’esistenza di doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2) e
riconosce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di qualsiasi ordine che limitino la
libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3.2), garantire a tutti il diritto di lavoro e rendere effettivo
questo diritto (art. 4).

Omogeneità e differenze tra gli Stati di democrazia pluralista


La sufficiente omogeneità degli ordinamenti che nella seconda metà del novecento hanno dato vita
all’insieme delle c.d. democrazie occidentali, permette di elaborare il modello ‘Stato di democrazia

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pluralista’: ma tutto ciò non deve fare sottovalutare come tra gli Stati riconducibili al modello,
insieme a tante affinità e a principi sostanzialmente uniformi, permangano alcune differenze. Una
delle principali riguarda quella relativa al ruolo ed ai caratteri dei partiti politici. Mentre in Europa
l’esperienza costituzionale è rimasta contrassegnata dal fondamentale ruolo dei partiti politici, per
quanto riguarda gli Stati Uniti, essi solo inizialmente sono stati una complessa organizzazione in
grado di realizzare la mobilitazione dell’elettorato di massa e di riuscire così a dirigere l’azione
dello Stato. Successivamente i partiti americani si sono trasformati in ‘macchine elettorali’ al
servizio del candidato, privi di precisa identità ideologica e di significative differenze
programmatiche. La loro attività si concentra nelle campagne elettorali e così dopo le elezioni essi
perdono gran parte del loro ruolo e non sono in grado di controllare le attività degli eletti, con
conseguente fluidità delle maggioranze parlamentari. Lo sviluppo politico-istituzionale americano
ha visto, quindi il graduale rafforzamento della Presidenza che ha acquisito canali autonomi rispetto
ai partiti. Ciò nonostante, non si è determinato un venir meno del pluralismo sociale, che anzi
conosce, nell’esperienza americana, la sua massima esaltazione: vi è una diversa formazione del
pluralismo, fatto da associazioni con finalità particolari, chiese e gruppi di promozione di interessi
specifici.
Altra importante differenza è quella relativa all’omogeneità o all’eterogeneità della cultura politica:
in alcuni Paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, c’è stata un’evoluzione storica che ha portato a
condividere i principi fondamentali della democrazia pluralista; in altri, invece, per ragioni etniche,
linguistiche, religiose e ideologiche, la società è rimasta divisa in settori non comunicanti fra loro.
Nei primi il conflitto politico attiene principalmente alle modalità di ripartizione del reddito
nazionale tra individui e gruppi, che accettano il tipo di società e di regime politico ed economico
che vivono; nei secondi, invece, quando prevalgono le divisioni ideologiche, esistono seri
presupposti per un’esplosione violenta del conflitto e quindi le istituzioni costituzionali devono
operare in modo tale da attenuare le differenze e favorire la coesistenza pacifica della diversità.
Una terza differenza riguarda le modalità di intervento dello Stato nell’economia e nella società: in
alcuni Paesi quest’intervento si è attuato a livelli moderati, mantenendo una ‘dominanza
privatistica’ nei rapporti economici e sociali (USA, Svizzera, Giappone); in altri Paesi hanno avuto
una ‘dominanza pubblicistica’ nell’economia per il prevalere di finalità sociali. Ma a partire dagli
anni ’90 del XX secolo, queste differenze si sono attenuate dato il prevalere di un’economia di
mercato concorrenziale e la privatizzazione delle imprese pubbliche.
A seguito della crisi dello Stato Socialista si è sviluppata una nuova ondata di democratizzazione
che investe ampie zone del pianeta, causando il diffondersi di principi propri delle Costituzioni
liberali anche in gran parte dei Paesi precedentemente retti da sistemi socialisti e nelle zone
dell’Africa e dell’Asia.
È tuttavia improprio parlare di trionfo del trionfo del modello costituzionale della democrazia
pluralista. A questo riguardo si considerano tre circostanze: alcuni Paesi (Cina, Corea del Nord,
Cuba) hanno mantenuto il modello di Stato Socialista seppure con notevoli aperture in fatto di
riconoscimento della proprietà privata, di settori privati dell’economia e di apertura al mercato
globale. Alcuni Paesi ex-socialisti portano comunque uno strascico del vecchio assetto
costituzionale: ciò si spiega nel fatto che questi Paesi non hanno conosciuto una fase precedente di
tipo pluralista e di tipo liberale. È il caso della maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est che
avevano subito dei regimi autoritari e che hanno ricevuto in eredità talvolta il riemerge di tendenze
nazionalistiche estremiste.
Ciò è particolarmente marcato quando si afferma la coincidenza dello Stato con il gruppo etnico
maggioritario, con consecutiva soppressione del pluralismo. La tendenza prevalente è quella
dell’affermazione generalizzata di strutture autoritarie e di forte limitazione del pluralismo e della
libertà: i principi della libertà di mercato, della democrazia pluralistica e del costituzionalismo
liberale trovano applicazione relativamente ristretta, in un numero limitato di ordinamenti
concentrati principalmente in Europa e in America.

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Lo Stato di democrazia pluralista tra società post-classista e globalizzazione
Come si è visto, lo Stato di democrazia pluralista ha subito notevoli trasformazioni in risposta alle
imponenti evoluzioni sociali degli ultimi secoli. In modo particolarmente sintetico si possono
riassumere questi cambiamenti con le espressioni: 1) società post-classica, 2) crisi fiscale, 3)
globalizzazione e 4) integrazione europea.
La base materiale dello Stato di democrazia pluralista è, in origine, una società divisa in classi ben
individuate. Sulla divisione e sulla contrapposizione classista si fondavano i partiti, che traducevano
questa tendenza in ambito politico, fornendo un’identità collettiva agli individui che aderivano al
partito. A partire dagli ultimi decenni del XX secolo, la società ha conosciuto un considerevole
aumento della sua complessità, spinto soprattutto dal mutamento dei metodi di produzione, dallo
sviluppo tecnologico e dalla globalizzazione. Entra in crisi l’identità collettiva: la società è troppo
variegata per fornire il riconoscimento necessario all’aggregazione di numeri considerevoli di
individui; inoltre, aumentano gli interessi e l’appartenenza di classe non ha più valore. Alla fine, i
singoli gruppi sociali iniziano a chiedere risposte particolari e provvedimenti favorevoli ai loro
interessi agli organi costituzionali: lo Stato, più che ridistribuire la ricchezza, si limita a distribuire
risorse tra i vari gruppi cedendo al potere di pressione di ciascuno di essi. A partire dagli anni ’70
del novecento si è parlato di crisi fiscale dello Stato, in riferimento alla crescita della spesa pubblica
in risposta ai costi delle richieste particolari: in alcuni casi, questo processo ha determinato una
crescita della pressione fiscale con conseguente malcontento diffuso dai ceti più colpiti. Ne è
scaturita una prima spinta al riordino sociale per la riduzione dei costi, alla quel se n’è aggiunta
un’altra, conseguenza della globalizzazione.
Quest’ultima che, come si è visto, permette lo spostamento territoriale relativamente facile di
capitali e attività alla ricerca delle condizioni migliori ai fini dell’investimento; da questa situazione
derivano almeno tre conseguenze importanti ai fini dell’analisi che stiamo svolgendo:
a) lo Stato, per evitare la ‘fuga’ di capitali e imprese non può spingere la pressione fiscale oltre
certi limiti;
b) lo Stato deve cercare di avere una finanza pubblica sana, evitando gli eccessi di liquidità e
quindi l’inflazione, ma anche l’eccessivo indebitamento che sottrae risorse al settore privato.
Ciò pone limiti ingenti alla crescita della spesa pubblica e perciò rende più difficile sia il
finanziamento dei servizi di natura sociale, sia l’attuazione delle politiche keynesiane;
c) le imprese chiedono sempre maggiore flessibilità, ovvero minori vincoli legali sul terreno
della disciplina del rapporto di lavoro e della protezione sociale dei lavoratori.
Tutte queste spinte hanno un’origine e un risultato comune: il mantenimento della competitività del
sistema economico nazionale e la riduzione dei fondi per l’attuazione dello Stato sociale. Con
l’avvio dell’Unione economica e monetaria, poi, gli Stati partecipanti hanno accettato vincoli al
rapporto tra il loro debito pubblico e il PIL e tra il disavanzo ed il PIL: ciò equivale a ridurre la
possibilità di crescita della spesa pubblica, anzi comporta una riduzione della stessa. Lo Stato è
costretto a ridurre la spesa pubblica e a comprimere le prestazioni oggetto dei diritti sociali: essi
sono detti “finanziariamente condizionati” poiché, come afferma la Corte Costituzionale, la loro
attuazione è un compromesso del bilanciamento tra l’interesse da tutelare e gli interessi
costituzionali.
Una delle più importanti sfide che viene posta allo Stato, in particolare nei Paesi occidentali, è la
crisi del debito sovrano. Prima dell’affermazione della globalizzazione economica, l’economia
nazionale veniva stimolata con la spesa pubblica (diretta ad aumentare l’occupazione e la domanda
interna), finanziata dal disavanzo di bilancio (finanziato dal debito pubblico). L’affermazione della
globalizzazione, unita alla prevalenza di politiche orientate a favore del mercato, ha spinto alla
contrazione della spesa pubblica e alla riduzione dell’indebitamento pubblico. Gli obiettivi però
sono stati mancati per effetto di fattori diversi.
Il risultato è che gli stati sono stati costretti ad applicare politiche di forte rigore finanziario, con
tagli della spesa pubblica. Alla fine l’autonomia politica dello Stato ne risulta fortemente
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compressa: ciò avviene soprattutto nei Paesi aderenti all’UE, che hanno accettato rigorosi vincoli ai
loro bilanci e si sono sottoposti al controllo delle istituzioni europee.
L’esigenza di maggior rigore finanziario conduce alla ricerca di forze di razionalizzazione e
riordino dello Stato sociale e di nuove modalità di soddisfacimento dei diritti sociali che costino di
meno al bilancio statale. La tendenza è quella di adeguare lo Stato sociale alle esigenze della
competitività internazionale, trasformandolo in Stato sociale competitivo. Tra le strade possibili per
razionalizzare lo Stato sociale, si segnalano:
a) in primo luogo si supera il carattere universalistico di alcuni servizi erogati dallo Stato
sociale, limitandone la tendenziale gratuità solo ai soggetti meno abbienti, mentre gli altri
concorrono in relazione al livello di reddito di cui godono (c.d. ticket);
b) in secondo luogo si fa leva sul senso di responsabilità individuale, per cui si consente la
creazione di fondi di risparmio sussidiari a quelli già garantiti dallo Stato, come i fondi
pensionistici sussidiari o i fondi assicurativi;

c) in terzo luogo si ricorre al principio di sussidiarietà che si sviluppa lungo due direttrici:
1) decentrare la gestione di alcuni servizi pubblici ad enti locali: essi sono più vicini ai cittadini,
potendo così controllare meglio la qualità dei servizi e i relativi costi (c.d. sussidiarietà
verticale);
2) attribuire alcuni compiti propri dello Stato sociale a formazioni sociali senza scopo di lucro,
appartenenti al cosiddetto ‘terzo settore’, che forniscono le prestazioni con una qualità migliore
ad un costo minore; lo Stato interviene comunque con incentivi (c.d. sussidiarietà orizzontale);
3) c’è il tentativo di attrarre a livello sovranazionale alcuni compiti propri dello Stato sociale.
L’idea alla base di quest’ultima tendenza è che, se i limiti all’azione dello Stato sociale derivano
dalla globalizzazione, bisogna trasferire una quota di queste politiche specifiche a realtà politiche
più ampie in grado di contrastare gli effetti della globalizzazione. In questa prospettiva si collocano
le norme del trattato UE che inseriscono tra gli scopi di quest’ultima l’economia sociale di mercato
e la coesione economica e sociale e le innovazioni introdotte dal trattato di Amsterdam nel
complesso normativo del trattato CE.
I caratteri dello Stato di democrazia pluralista
Come si è visto lo Stato di democrazia pluralista copre un vasto spettro di esperienze politico-
costituzionali, ognuna con proprie caratteristiche, e che perciò presentano tra loro differenze anche
notevoli. Volendo riunificare queste esperienze in un modello unitario, che tenga conto soprattutto
della fase più recente, possiamo sintetizzarne i tratti peculiari nel modo seguente:
a) lo Stato di democrazia pluralista si basa sul suffragio universale, la segretezza e la libertà del
voto, le elezioni periodiche e il pluripartitismo. Le Costituzioni degli Stati che adottano questo
modello contengono le più ampie garanzie del pluralismo politico, sociale, economico,
religioso, culturale, ecc. L’insieme di queste garanzie presuppone l’accoglimento del principio
di tolleranza, cioè del principio secondo cui il dissenso non può essere represso, ma garantito.
Questa esigenza ha portato, in alcuni ordinamenti, al divieto di costituire certe organizzazioni
politiche che si pongono ed operano come ‘nemici’ della democrazia (la XII disposizione
transitoria e finale della Costituzione italiana vieta la ricostruzione del partito fascista);
b) il pluralismo costituzionalmente garantito non è solo di idee e di valori, ma è anche pluralismo
di formazioni sociali e di formazioni politiche. Le prime operano per la realizzazione degli
interessi comuni ai loro componenti; le seconde hanno come finalità il controllo del potere
politico al fine di imprimere un determinato indirizzo alla società nella sua interezza. Il
pluralismo trova la sua garanzia nel riconoscimento delle libertà costituzionali di associazione,
di formazione di partiti politici, sindacale, di confessione religiosa, ecc. La differenza principale
con lo Stato liberale è che in questo caso fra l’individuo e lo Stato si inserisce il diaframma delle

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formazioni collettive;
c) attraverso il pluralismo dei centri di potere si raggiungono due obiettivi principali: 1) si limita il
potere dello Stato, costretto al confronto con essi; 2) attraverso le formazioni sociali ed i partiti
politici si creano canali di partecipazione diretta e permanente dei cittadini alla vita politica,
sicchè essi sono in grado di esercitare una pressione sugli organi costituzionali per ottenere
provvedimenti che soddisfino le loro esigenze. A questo punto si crea il problema di come
organizzare il pluralismo per evitare che le molteplici pressioni degli interessi ne producano la
paralisi: all’inizio, una risposta è stata data dalla capacità unificante dei partiti di massa, dalla
loro capacità di sintetizzare più interessi inserendoli in un programma organico di azione. Poi,
mano mano che tale capacità unificante è diminuita, su accorgimenti istituzionali che facilitano
la selezione degli interessi, tra cui particolarmente il rafforzamento del ruolo del Governo;
d) l’affermazione del pluralismo supera l’ideologia dell’interesse generale, per approdare ad una
concezione nuova di esistenza di valori differenti. Le costituzioni, specchio di questo fenomeno,
riconoscono e tutelano principi tra loro in conflitto. Tali principi, nell’attuazione concreta,
richiedono forme di contemperamento in ordine alle quali si parla di bilanciamento;
e) tra le conseguenze vi è il fatto che, solamente attraverso il confronto fra le idee e le opinioni
diverse si possa raggiungere una concezione particolare dell’interesse generale, anch’essa
comunque suscettibile di critica e di superamento, a favore di una diversa concezione dello
stesso. Le democrazie pluraliste assicurano la più ampia garanzia alla libertà di manifestazione
del pensiero ed al pluralismo dei mezzi di comunicazione: è anche grazie a queste garanzie che
si forma la sfera pubblica, distinta da quella dei partiti e da quella politico elettorale. Essa,
tuttavia, possiede un forte ascendente sulla politica, poiché forma le idee, le opinioni ed i
programmi che poi alimentano sia le proposte dei partiti, sia la vita del Parlamento.
Conseguentemente alle dinamiche sopra elencate si assiste ad un radicale mutamento dei ruoli del
Parlamento rispetto a quanto avveniva nello Stato liberale: precedentemente il Parlamento era
semplicemente il luogo dove, attraverso la discussione razionale, i parlamentari, liberi da qualsiasi
vincolo con l’elettorato, decidevano come dovesse essere perseguito l’interesse nazionale. Ora
invece le idee e gli indirizzi si formano prevalentemente all’esterno dei Parlamenti e vengono poi
trasferiti nella loro attività. Almeno inizialmente, i partiti mantengono, nello Stato di democrazia
pluralista, il ruolo di filtro necessario tra la sfera pubblica e il Parlamento; più recentemente, invece,
questa acquista maggiore autonomia e finisce, con modalità diverse, ad interrogare direttamente gli
organi costituzionali. Per porre rimedio alle pressioni particolaristiche si è sviluppata la tendenza al
rafforzamento del ruolo del Governo, attraverso sia crescita dei poteri e sia attraverso una maggiore
legittimità (scelta popolare del capo del Governo). Di fatto il Parlamento ha perso il monopolio
delle decisioni su questioni politicamente rilevanti, in favore delle istituzioni europee e del
Governo.
La rappresentanza politica
Nella nozione di rappresentanza politica confluiscono due significati, che si collegano a contesti
storici diversi: da un lato questo termine presuppone un ‘agire per conto di’, che pone in essere un
rapporto tra rappresentante e rappresentato, per cui il secondo sulla base di un atto di volontà detto
mandato, dà al primo il potere di agire nel suo interesse. Dall’altro, invece, indica l’azione di chi, in
un determinato ambito, pone in essere qualcosa che in realtà non c’è: il rappresentante, in questo
caso, dispone di una condizione autonoma rispetto al rappresentante. Nel primo caso siamo in epoca
medioevale o comunque pre-liberale, e nell’ambito di una società rigidamente suddivisa in ceti, i
quali necessitavano di un modo per interloquire col sovrano: per indicare tale specie di
rappresentanza si usa l’espressione di rappresentanza di interessi. Ciò significa che il rappresentante
sia tenuto ad agire nell’interesse del rappresentato, con cui corre un rapporto di mandato imperativo.
La società liberale ha cancellato i corpi intermedi e introdotto singoli individui uguali di fronte alla
legge; la rappresentanza politica doveva soddisfare esigenze nuove:
 doveva essere mezzo tecnico utilizzato per formazione di un’istituzione che agisse nell’interesse

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generale;
 doveva arginare tendenze assolutistiche e, al contempo, l’evoluzione democratica radicale del
sistema, temuta dalla classe borghese;
Questi principi trovano perfetta attuazione nella Costituzione francese del 1791: la sovranità era
tolta al Re, ma non attribuita al popolo, bensì ad un’entità astratta: la Nazione. Essa non poteva
agire direttamente e perciò, come specificava la Costituzione, esercitava i suoi poteri per
delegazione, tramite rappresentanza. Da questa costruzione costituzionale derivavano importanti
implicazioni:
a) se i parlamentari erano scelti per decidere in nome e per conto della Nazione, la Costituzione
doveva assicurarsi che le modalità di elezione fossero tali da garantire che gli elettori fossero in
grado di scegliere i soggetti più idonei per curare l’interesse generale. L’elettorato attivo non era
perciò configurato come un diritto soggettivo, ma come una funzione pubblica conferita dalla
Costituzione nell’interesse della Nazione: ne derivava il restringimento dell’elettorato attivo per
ragioni di censo e di capacità. Si dava un fondamento costituzionale al suffragio limitato
assicurando la permanenza dello Stato monoclasse;
b) i parlamentari non dovevano curare l’interesse del loro collegio elettorale, ma quello della
Nazione;
c) sempre in favore dell’interesse generale al parlamentare non potevano essere fornite istruzioni
particolari su come agire. Si introdusse, così, il divieto di mandato imperativo, recepito da tutte
le Costituzioni di età liberale e anche dalla Costituzione italiana (art. 67) seppure con significato
diverso.
È utile chiarire che per responsabilità politica si intende quella del soggetto con autonomia politica
rispetto al soggetto rappresentato: egli risponde per eventuali inadempienze e/o cattive conduzioni,
pena la revoca del potere. Nello Stato liberale questo sistema era limitato in ambito statale,
essendosi affermata come responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento. Nello stato di
democrazia pluralista sempre più spesso il termine di riferimento è il corpo elettorale, chiamato a
giudicare soggetti politici divenuti politicamente responsabili nei suoi confronti.
La rappresentanza politica nello Stato di democrazia pluralista
La rappresentanza è sorta nel contesto di uno Stato a base sociale ristretta (lo Stato monoclasse), nel
quale l’autonomia rappresentativa e il divieto di mandato imperativo non escludevano che fossero
adottate leggi e politiche coerenti con gli interessi degli elettori: la legittimazione legale-razionale
poteva funzionare nel presupposto che le leggi, in relazione a questa omogeneità, venivano
comunque ritenute giuste. Invece, nelle democrazie pluraliste si afferma il principio della sovranità
popolare, che esige che il potere politico si basi sul consenso del popolo: in questo sistema gli
interessi sociali premono sullo Stato per avere risposte ai rispettivi bisogni ed a tal fine si
organizzano stabilmente per ottenere dai parlamenti leggi e politiche adeguate alle loro differenti
esigenze. Ma, in regime di suffragio universale, questi interessi sono molteplici, eterogenei e spesso
conflittuali. Il problema di fondo che i sistemi rappresentativi delle democrazie pluraliste hanno
dovuto affrontare è questo: come assicurare la capacità del sistema di decidere (c.d. governabilità)
senza che venga meno la legittimazione democratica dello Stato, la quale presuppone il libero e
genuino consenso popolare? Il problema può essere risolto mettendo insieme e facendo convivere i
due aspetti della rappresentanza politica: la rappresentanza come rapporto con gli elettori e la
rappresentanza come titolo di esercizio autonomo del potere, che assicuri la possibilità di prendere
decisioni e scongiuri la paralisi del sistema. Il modo in cui questo equilibrio si è realizzato varia da
sistema a sistema, ma volendo sintetizzare le diverse esperienze, tali modalità sono riconducibili
alle seguenti ipotesi:
1) lo Stato dei partiti. La prima soluzione ha fatto leva sulla doppia virtù dei partiti politici: da un
lato la capacità di assicurare un filo diretto tra elettori e rappresentanza, superando la
tradizionale critica dei sistemi rappresentativi mossa per primo da J.J. Rousseau, secondo cui il
popolo è sovrano quando vota, ma poi torna ad essere schiavo; dall’altro, la possibilità di
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trascendere dagli interessi particolari e compiere una sintesi politica, che permetta di superare il
contrasto e decidere. A questo punto, veri soggetti di rappresentanza politica diventano i partiti,
con conseguente necessità di reintrodurre il mandato imperativo di origine partitica. Bisogna
avere chiaro, comunque, che la centralità dei partiti nei sistemi rappresentativi delle democrazie
pluralistiche non è un dato di fatto, ma è il frutto di precisi riconoscimenti costituzionali e di una
legislazione di sostegno ai partiti stessi.
Come recita l’articolo 67, nella legislazione italiana ‘ogni membro del Parlamento rappresenta la
Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato’. Ciò nonostante la prassi figura
l’affermazione della disciplina di partito: molti aspetti legislativi sono stati oggetto di voto da parte
di parlamentari uniformati alle direttive di partito.
Negli anni ’60 si diffuse una critica a tali comportamenti e si coniò il termine ‘partitocrazia’. L’art.
67 deve essere interpretato sistematicamente insieme con gli artt. 49.1 e 94 della Costituzione: il
primo costituzionalizza il ruolo dei partiti, e collegandolo all’art. 1 qualifica i partiti come i
principali strumenti di esercizio della sovranità popolare. L’art. 94, invece, impone che la votazione
della mozione di fiducia e quella di sfiducia avvenga per appello nominale, un modo che permette
un maggiore controllo dei partiti sul comportamento dei parlamentari. Da tale quadro complessivo è
partita la Corte costituzionale quando ha detto che il ‘divieto di mandato imperativo importa che il
parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene;
nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del
parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito’. L’art. 67 viene a
configurarsi come una norma di garanzia nei confronti dei parlamentari: da un lato rende inefficace
a livello statale eventuali sanzioni del partito al parlamentare indisciplinato; dall’altro consente al
parlamentare dissidente di cambiare gruppo politico nel corso della legislatura.
La funzionalità del collegamento dei partiti con la società perciò dipende strettamente dalla effettiva
democraticità interna ai partiti, ossia dalla possibilità che essi siano concretamente sede di
partecipazione popolare.
Si è sviluppata, di pari passo con la democrazia di massa, la tendenza critica di considerare i partiti
come delle strutture oligarchiche, dominate da capi irremovibili che scelgono i candidati
indipendentemente dal gradimento che essi riscuotono negli elettori. La soluzione è disciplinare le
procedure di scelta dei candidati alle cariche: in questa prospettiva c’è chi richiama all’esperienza
statunitense delle elezioni primarie, in cui gli elettori scelgono i candidati direttamente o
indirettamente, attraverso l’elezione dei delegati nelle assemblee; esse si distinguono in aperte o
chiuse a seconda che alle elezioni possano partecipare o meno anche soggetti non iscritti al partito.
Si parla oggi di crisi dei partiti sia sul piano dei loro rapporti con la società sia su quello della loro
capacità effettiva di decidere: le cause di questa crisi sono molteplici. In modo sintetico si può
osservare come all’origine della fortuna dei partiti sociali di integrazione ci fosse un legame di
integrazione che tiene insieme la base ed il vertice del partito, ovvero l’adesione ad una particolare
sub-cultura. Le società contemporanee sono diventate più complesse ed è diventata quasi
impossibile la loro distinzione in pochi settori: è cessato il legame di stabile appartenenza che
legava individui e partiti. Così, i partiti hanno perduto il monopolio della rappresentanza e non
sempre riescono a comporre i diversi interessi sociali in una sintesi politica: il risultato è una
pioggia di richieste disordinate e dirette agli organi costituzionali e una consecutiva perdita di
consenso;
2) il rafforzamento del Governo e l’investitura popolare diretta del suo Capo. Sono entrambe
soluzioni alla crisi sopra citata: esse perseguono il duplice obiettivo di porre al riparo il potere
esecutivo dalle pressioni particolaristiche e allo stesso tempo di farlo considerare legittimo
poiché il capo dell’esecutivo è scelto direttamente dal popolo. Tendenzialmente i due aspetti
della rappresentanza fanno capo ad organi costituzionali distinti: il Parlamento diventa sede
della rappresentanza- rapporto con i singoli collegi elettorali, mentre il Governo è deputato alla
sintesi degli interessi particolari, riflesso dell’interesse generale. Per il modo in cui adempie
questa funzione il Governo, di diritto o di fatto, diventa politicamente responsabile nei confronti
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dell’intero corpo elettorale;
Questi aspetti nuovi mantengono comunque il carattere rappresentativo della democrazia: è ancora
ben marcata la distinzione tra governanti e governati. In casi limite tuttavia, crisi dei partiti e
investitura popolare del Governo sfociano in una democrazia plebiscitaria: ovvero il potere
personale di un capo basato su un rapporto diretto col popolo e su una legittimazione di tipo
carismatico. Il potere personale non è dispotico ma risultato di un consenso attivo popolare; esso
tende a non tollerare i limiti giuridici e si esprime liberamente nella misura in cui gode del consenso
popolare. Il potere che ne deriva è sintesi dell’infallibilità del popolo e, perciò, superiore a qualsiasi
altro organo costituzionale. I sistemi rappresentativi perciò si trovano in equilibrio fra le oligarchie
dei partiti e la democrazia plebiscitaria, risultato fisiologico della personalizzazione del potere, oggi
esaltata dal ruolo della comunicazione di massa;
3) gli assetti neocorporativi. Nelle democrazie pluraliste essi sono molto diversi dal corporativismo
fascista: essi si affiancano ma non sostituiscono il sistema rappresentativo, rimediando alle sue
insufficienze; inoltre non sono una creazione statale, ma sorgono spontaneamente dalla società.
Il Governo tende a negoziare il contenuto dei principali provvedimenti riguardanti l’economia
con i sindacati dei lavoratori subordinati e con le associazioni degli imprenditori, dando vita ad
un tavolo triangolare, e ottenendo da questi determinati comportamenti;
4) la rappresentanza territoriale. Si tratta dell’istituzione di una seconda camera a base territoriale ,
in cui sono rappresentati direttamente gli enti territoriali (Stati federali, Regioni, ecc.);
5) la sottrazione della decisione al circuito rappresentativo. Si esclude dalla regolamentazione e dal
controllo di certi aspetti il circuito rappresentativo e li si affida ad autorità amministrative
indipendenti, autonome rispetto al circuito democratico-rappresentativo;
6) il passaggio ad una democrazia diretta, senza intermediari. Prevalentemente si attua attraverso la
manifestazione della volontà del cittadino grazie alle nuove tecnologie informatiche e
all’affermazione di Internet.

Democrazia diretta e democrazia rappresentativa


Particolare importanza assume, nel fronteggiare la crisi dei sistemi rappresentativi dei sistemi
costituzionali moderni, il ricorso ad istituti di democrazia diretta. Questi istituti affiancano e non
sostituiscono il sistema rappresentativo, assicurando la partecipazione del popolo alle decisioni che
riguardano la collettività, colmando la distanza tra il popolo e l’autorità statale. Questo espediente
affronta la risoluzione della ‘crisi della legittimità’, ossia la perdita di fiducia del popolo in ordine
alla corrispondenza delle decisioni pubbliche ai suoi effettivi interessi, contrariamente agli altri
(sopra elencati) che risolvono il problema della ‘governabilità’.
La ‘libertà degli antichi’ consisteva nella partecipazione attiva e costante al potere politico, per cui
la democrazia era diretta. L’individuo era sovrano nei rapporti pubblici ma schiavo in quelli privati:
ciò si traduceva nella mancanza di libertà di opinione, di religione eccetera. La base sociale della
democrazia diretta doveva essere, quindi, necessariamente di ridotte dimensioni. La ‘libertà dei
moderni’ che si afferma con lo Stato liberale e rappresentativo consiste, anzitutto, nell’attribuzione
all’individuo di una sfera di autonomia personale e nella protezione dei suoi beni. Con
l’affermazione dello Stato di democrazia pluralista i tradizionali meccanismi rappresentativi sono
affiancati da istituti di democrazia diretta, che consentono un’integrazione del sistema, comunque
basato sulla rappresentanza politica.
Gli istituti di democrazia diretta si riducono soprattutto ai seguenti: 1) l’iniziativa legislativa
popolare; 2) la petizione; 3) il referendum. Nel primo caso la Costituzione attribuisce il potere di
esercitare la funzione legislativa ad un certo numero di cittadini (cinquantamila elettori secondo
l’art. 71). La petizione, invece, consiste nell’avanzare una determinata richiesta agli organi
parlamentari o di Governo per sollecitare determinate attività. Tuttavia essa ha limitatissimi effetti
pratici: puro carattere esortativo ma non produttore di effetti giuridici rilevanti. Il diritto di petizione

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è garantito a tutti i cittadini e tutelato dall’art. 50 Cost. il più importante strumento di democrazia
diretta è il referendum, che consiste in una consultazione dell’intero corpo elettorale produttiva di
effetti giuridici.
Dei referendum si fanno numerose classificazioni: in relazione all’oggetto si distinguono i
referendum costituzionali, legislativi, politici e amministrativi. I referendum costituzionali, che
hanno ad oggetto un atto costituzionale, si suddividono:
 referendum precostituente, quando il voto popolare ha come oggetto l’atto fondativo del
nuovo Stato (ad esempio la previsione di convocare un’Assemblea costituente);
 referendum costituente, quando il voto popolare interviene sul testo di una nuova Costituzione
predisposto da un’Assemblea costituente, ovvero dal Parlamento o da altri organi, per
approvarlo o respingerlo;
 referendum di revisione costituzionale, che, a differenza dei precedenti, in cui il popolo opera
come ‘potere costituente’, ha come oggetto la modifica parziale o l’integrazione della
Costituzione, e perciò è espressione del potere costituito.

Il referendum legislativo storicamente è nato in Francia e si è affermato in Svizzera; oggi è


previsto dalla maggior parte delle Costituzioni europee. Può essere:
 obbligatorio, quando l’atto di indizione della consultazione popolare si configura come atto
dovuto;
 facoltativo, se è subordinato all’iniziativa da parte di uno dei soggetti che è a ciò legittimato. In
questo caso si distingue in:
 attivo, quando la consultazione è promossa da un certo numero di cittadini, configurandosi
come strumento di partecipazione popolare ad integrazione dei circuiti rappresentativi;
 passivo, quando è promosso da un organo dello Stato, configurandosi come strumento di
garanzia per la minoranza parlamentare contro il rischio della ‘tirannia della maggioranza’,
ovvero come mezzo di ‘arbitraggio’ del conflitto politico insorto tra organi costituzionali, o
ancora come modalità di legittimazione della decisione adottata.
Il referendum, inoltre, può essere preventivo o successivo, a seconda che il voto popolare
intervenga prima o dopo l’entrata in vigore dell’atto che ne forma oggetto.
Il referendum costituzionale è sempre di tipo preventivo perché la consultazione popolare ha
senso in quanto interviene prima dell’entrata in vigore di una nuova Costituzione o di una sua
modifica, per assicurarne la legittimazione democratica. Un particolare tipo di referendum
preventivo è quello di indirizzo, che si ha quando il corpo elettorale di proposta in via preliminare
su un principio o su una proposta formulata in termini molto generali, i quali dovranno avere
attuazione da parte del Parlamento. La Costituzione italiana prevede quattro tipi di referendum:
1. il referendum di revisione costituzionale, che ha carattere eventuale e si può inserire nel
procedimento di revisione costituzionale. Analogo è il referendum anch’esso eventuale, che si
inserisce nel procedimento di formazione degli Statuti delle Regioni ordinarie e delle ‘leggi
statutarie’ delle Regioni speciali. È detto anche referendum approvativo o sospensivo;
2. referendum abrogativo, di una legge o di un atto avente forza di legge, già in vigore, il quale
ha carattere eventuale e successivo;

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3. referendum consultivo, previsto dagli artt. 132 e 133 per la modificazione territoriale di
Regioni, Province e Comuni;
4. referendum abrogativi o consultivi su leggi e provvedimenti amministrativi delle Regioni ,
che possono essere disciplinati e previsti dagli Statuti regionali. Inoltre, la legge ordinaria ha
demandato agli statuti dei Comuni e delle Province la competenza a prevedere e disciplinare
forme di consultazione della popolazione e referendum consultivi su richiesta di un adeguato
numero di cittadini, relativi a materie di esclusiva competenza locale.
Negli ultimi anni, con la crisi dei partiti, il referendum è stato largamente utilizzato in tutte le
democrazie pluralistiche. Tuttavia va sottolineato come sia difficile la convivenza tra sistema
rappresentativo, che si fonda sulla distinzione tra rappresentanti e rappresentati, e democrazia
diretta, che viene posta in essere dal ricorso al referendum e che si fonda sul principio di identità tra
governanti e governati: in primo luogo la richiesta può sprigionare un’ incontrollabile carica
antagonistica nei confronti delle istituzioni e la loro conseguente delegittimazione; in secondo luogo
la forma stessa con la quale viene formulata la domanda può essere appositamente ambigua o poco
chiara o addirittura condizionante per il corpo elettorale. Al fine di evitare questi espedienti l’art.
75, ultimo comma della Costituzione garantisce i limiti di ammissibilità del referendum.

La separazione dei poteri


Il modello liberale
Il principio della separazione dei poteri è stato ideato dal costituzionalismo liberale con l’obiettivo
di limitare il potere politico e tutelare le libertà degli individui. La sua iniziale teorizzazione si deve
a Montesquieu, il quale scriveva che ‘se il fine dello stato è quello di garantire la libertà politica, i
poteri devono essere tre e tra di loro distinti’. I tre poteri sono: a) potere legislativo, che consiste nel
porre le leggi, le norme giuridiche astratte; b) potere esecutivo, che consiste nell’applicare le leggi
internamente allo Stato e nel tutelarlo dalle minacce esterne; c) potere giudiziario, che consiste
nell’applicare le leggi per risolvere controversie
Fra gli aspetti caratterizzanti la dottrina della separazione dei poteri si possono sinteticamente
ricordare: Attribuzione ad ogni potere in senso oggettivo (costituito da un complesso di organi) di
una funzione pubblica ben individuata e distinta dalle funzioni attribuite ad altri poteri. Gli aspetti
caratterizzanti la dottrina della separazione dei poteri possono essere sintetizzati così:
- c’è l’attribuzione ad ogni potere in senso oggettivo, costituito da un complesso unitario di
organi, di una funzione pubblica ben individuata e distinta dalle funzioni attribuite agli altri
poteri;
- è fondamentale che ogni funzione sia assegnata ad un potere distinto, poiché se più funzioni
fossero assegnate in capo allo stesso soggetto, questi potrebbe facilmente adottare leggi
tiranniche, applicare norme generali nella risoluzione di una controversia e ricorrere a regole
arbitrarie;
- i poteri, seppure distinti, devono potersi frenare reciprocamente in modo da limitare l’uno gli
eccessi dell’altro, in un sistema detto di pesi e contrappesi.
Questa dottrina ha trovato piena applicazione nell’ordinamenti costituzionale statunitense dove i tre
poteri seppure distinti sono giuridicamente separati ed indipendenti. Nella forma di governo
presidenziale: il Presidente ed il Congresso (potere esecutivo e legislativo) sono eletti separatamente
dal corpo elettorale ed esercitano funzioni distinte. Il Congresso non può votare la sfiducia al
Presidente e quest’ultimo non ha possibilità di sciogliere il primo anticipatamente. In Europa la

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situazione è diversa, poiché fin dal periodo dello Stato liberale la separazione dei poteri ha
un’applicazione più temperata. Si considerano due elementi:
1. l’affermazione della forma di governo parlamentare. In questa forma i due poteri esecutivo-
legislativo sono strettamente collegati poiché il Governo deve godere della fiducia del
Parlamento che deve votargli la fiducia e può costringerlo alle dimissioni. Tale assetto
costituzionale conduce ben presto all’affermazione di una maggioranza politica stabile che dà la
fiducia al Governo e approva le leggi in Parlamento: i due organi finiscono per essere collegati
strettamente dalla maggioranza, che li rende politicamente omogenei;
2. la tendenza per la quale un determinato potere esercita una funzione tipica di un altro. In
numerosi Stati liberali il Governo adotta regolamenti, atti che secondo il modello originario
dovrebbero appartenere al potere legislativo. In altri casi, per esempio con l’approvazione della
legge sul bilancio, il Parlamento adotta atti che non contengono norme generali.
La spiegazione a questi fenomeni arriva dalla cosiddetta teoria formale-sostanziale della
separazione dei poteri secondo la quale occorre distingue il potere in senso oggettivo (funzioni dello
Stato) e il potere in senso soggettivo (complesso unitario di organi). Le funzioni sono tre e si
distinguono secondo criteri formali e materiali. Le tre funzioni secondo criteri materiali:
a) funzione legislativa pone norme generali e astratte;
b) funzione esecutiva consiste nella cura concreta di pubblici interessi;
c) funzione giudiziaria applica le norme per risolvere una controversia.

Applicando i criteri formali, le funzioni vengono distinte con riferimento al potere soggettivo che le
esercita, seguendo le modalità formali che lo caratterizzano:
a) potere legislativo esercita la funzione formalmente legislativa (attraverso atti di regola con
forma di legge);
b) potere esecutivo esercita la funzione formalmente esecutiva (attraverso atti che hanno la forma
del decreto);
c) potere giudiziario esercita la funzione formalmente giudiziaria (attraverso atti che hanno la
forma della sentenza).
In linea di massima ciascun potere assolve a funzioni uguali sia sul piano materiale che sul piano
formale. Questa tendenza non è sempre rispettata e, in alcuni casi, il potere esercita una funzione
che è tipica di un altro. È il caso dei regolamenti del Governo, con i quali esso assolve a funzioni
sostanzialmente normative e della legge di bilancio del Parlamento con la quale esso assolve a
funzioni sostanzialmente esecutive. Si dice che il Governo esercita funzione formalmente esecutiva
ma materialmente legislativa mentre si dice che il Parlamento esercita funzione formalmente
legislativa ma materialmente esecutiva.
La separazione dei poteri nelle democrazie pluraliste
Tuttavia il principio della separazione dei poteri ha conosciuto modificazioni nel suo significato,
risultanti dalle trasformazioni politico sociali che hanno accompagnato l’affermarsi della
democrazia pluralista. Lo Stato ha allargato il campo dei suoi interventi dal governo dell’economia
alla realizzazione di sistemi di sicurezza sociale, dalla promozione dei beni culturali alla tutela
contro la disoccupazione, ecc.; lo stesso processo di ridimensionamento dei servizi dello Stato
sociale, di taglio della spesa pubblica e valorizzazione del ruolo del mercato, si realizza sulla base di
programmi politici che richiedono una molteplicità di azioni dello Stato tra di loro coordinate.
Quindi, l’esercizio delle funzioni dello Stato, il più delle volte, presuppone una preventiva
determinazione di obiettivi e fini politici, mentre i singoli atti di esercizio della funzione legislativa
e di quella esecutiva sono gli strumenti tecnici attraverso cui realizzare tali obiettivi. Perciò, si
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afferma una quarta funzione, la funzione di indirizzo politico, che consiste appunto nella
determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica interna ed
esterna dello Stato e nella cura della loro coerente attuazione. Questa funzione assicura una guida
coerente delle altre funzioni che vengono tutte orientate per il raggiungimento di fini
predeterminati, come espressamente menzionato nell’art. 95 della Costituzione.
Questa funzione è venuta a condensarsi nell’organo del Governo: esso dispone della legittimità e
dell’organizzazione che gli consente di assumere il ruolo di guida del sistema. Sotto il profilo della
legittimazione esso è in collegamento diretto con i partiti e, in molti assetti costituzionali, anche con
l’elettorato, con i sindacati e le organizzazioni sociali, coi quali può instaurare rapporti diretti;
lavora trattenendo rapporti anche a livello internazionale con altri Stati e con l’UE. Da un punto di
vista organizzativo, la sua capacità decisionale è rapida e snella rispetto a quella macchinosa e
relativamente lenta del Parlamento e inoltre dispone di strutture tecniche e di un efficiente apparato
amministrativo. L’esecutivo, contrariamente al modello liberale, oggi non si limita appunto alla sola
esecuzione, ma è un potere che decide ai fini dell’azione politica, diventa un vero e proprio potere
governante. Dopo la scelta dell’indirizzo e la sua traduzione in atti normativi, gli apparati non si
limitano a dare esecuzione alla legge.
Da un lato la legge fissa gli obiettivi (i sociologi del diritto lo definiscono un ‘programma di
scopo’), ma rimette all’amministrazione la scelta degli strumenti per la loro realizzazione;
dall’altra, esistono leggi che disciplinano l’operato dell’amministrazione ma non il contenuto,
quindi, di fatto, la scelta sostanziale non è operata dalla legge bensì dall’amministrazione. In genere,
le decisioni dell’amministrazione hanno un impatto sociale ed economico assai più forte di tante
leggi del Parlamento.
Altra tendenza è quella sviluppatasi in alcuni Stati, per la quale l’amministrazione non può più
essere considerata come un apparato dipendente dal Governo, ma come un’organizzazione unitaria.
In attuazione all’art. 97 della Costituzione è stata introdotta la separazione tra politica e
amministrazione, tra la sfera riservata al Governo e quella dell’amministrazione pubblica.
Si crea distinzione tra i poteri di indirizzo e i poteri di gestione amministrativa. L’amministrazione
assume dunque una propria autonomia giuridica rispetto al Governo, anche se resta collegata al suo
indirizzo politico e amministrativo. L’amministrazione si scompone in una pluralità di apparati tra
loro più o meno indipendenti, ciascuno dei quali ha affidata la cura di determinati interessi, che
sono eterogenei e spesso conflittuali con quelli facenti capo ad altri apparati. Né questi apparati
sono solamente statali, vista la grande crescita di amministrazioni diverse da quella statale, come le
amministrazioni delle Regioni e degli enti locali: anche i compiti sono diversi, tanto che certi
apparati agiscono attraverso l’esercizio di potestà pubbliche e provvedimenti amministrativi
(Prefettura, amministrazione di Polizia), altri operano in parità con il contraente privato ed
impiegano i mezzi del diritto privato, altri ancora esercitano compiti consultivi e di controllo oppure
di regolamentazione di certi settori o di determinati mercati.
Le alterazioni rispetto al modello liberale sono ancora più marcate rispetto a quelle ora elencate.
- La funzione legislativa non si caratterizza solo per la produzione di leggi generali e astratte:
spesso assume i caratteri del concreto provvedere, ossia contiene prescrizioni che si riferiscono
a situazioni e soggetti determinati, sicchè si parla di legge provvedimento;
- l’attività interpretativa, propria del potere giurisdizionale assume tratti differenti rispetto al
modello liberale:
1) non è meramente dichiarativa di un diritto che preesiste all’opera dell’interprete, ma è
intrisa di scelte discrezionali. Tra norma generale e situazione particolare non c’è rapporto
logico- deduttivo, ma di integrazione discrezionale;
2) sugli ordinamenti giurisdizionali ricadono le domande che non hanno avuto risposta nei
tradizionali circuiti rappresentativi, spingendo così i giudici a riconoscere e tutelare ‘nuovi
diritti’;

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3) la crisi della legge causata dall’esigenza di compromesso nella produzione di leggi per le
diverse categorie sociali e forze politiche, ha creato norme ambigue e discrezionalmente
interpretabili. Tutto ciò accresce la discrezionalità dei giudici che, chiamati
all’interpretazione della legge, in realtà ne concorrono alla definizione;
- va aggiunta una nuova funzione: quella della garanzia giurisdizionale della Costituzione,
realizzata nei confronti di tutti i poteri statali, compreso il legislativo. A partire dal XX secolo
questa funzione è divenuta prerogativa di tutti gli ordinamenti di democrazia pluralista, con la
rilevante eccezione del Regno Unito. In Italia essa è associata all’organo costituzionale del
Presidente della Repubblica, distinto e autonomo rispetto al Governo e con la funzione di
garantire gli equilibri costituzionali, senza partecipare all’indirizzo politico.
Cosa resta della separazione dei poteri in una democrazia pluralista, come quella italiana?
1. Rimane operante il principio che pone in essere più poteri tra loro indipendenti. L’assetto
costituzionale stesso tende ad impedire che un apparato organizzativo prevalga sugli altri: il
risultato è addirittura un assetto pluralistico accresciuto rispetto a quello del modello liberale: i
poteri principali non sono più i soli tradizionali (si aggiungono il Presidente della Repubblica e
la Corte Costituzionale). Alla divisione orizzontale del potere viene affiancata una divisione
verticale del potere, attuata dalla costituzione di Stati federali o, come in Italia, Stati regionali,
in cui l’autorità e l’autonomia politica territoriale riducono notevolmente la quota di potere
politico delle autorità centrali;
2. resta la possibilità di distinguere le tre tradizionali funzioni dello Stato, cui si aggiungono quella
di indirizzo politico e quella di garanzia giurisdizionale della Costituzione e, dove esiste, anche
la funzione presidenziale. I criteri di distinzione ed di individuazione delle funzioni si basano
non solo su criteri contenutistici, ma anche su criteri formali, con riferimento cioè alle modalità
con cui vengono esercitate. Perciò la funzione legislativa si distingue perché è esercitata
collettivamente dalle due Camere (art. 70 e artt. 71, 72 e 73 che ne disciplinano i procedimenti).
Invece, la funzione giurisdizionale è caratterizzata dalla posizione di indipendenza del giudice
nei confronti di ogni altro potere e la sua terzietà rispetto alle parti del processo;
3. discorso a parte va fatto per la funzione esecutiva o meglio amministrativa: esistono tante
funzioni attribuite ad amministrazioni pubbliche diverse, sicché è impossibile parlare di una
funzione amministrativa unitaria in senso oggettivo mentre può essere considerata tale solo in
senso soggettivo;
4. una trasformazione parallela è stata anche quella in senso politico oltre che giuridico. Si è creata
infatti una nuova tendenza, con conseguente riconoscimento costituzionale, che ha portato a
dividere il potere politico tra la maggioranza che governa e l’opposizione che controlla.
La regola di maggioranza
La regola di maggioranza che caratterizza il funzionamento dello Stato liberale e della democrazia
pluralistica, assume significati e funzioni diverse:
a) principio funzionale, ossia la tecnica attraverso cui il collegio può decidere;
b) principio di rappresentanza, ossia il mezzo attraverso cui si eleggono il Parlamento e le altre
Assemblee rappresentative;
c) principio di organizzazione politica, ossia il criterio attraverso cui si svolgono i rapporti tra i
partiti politici in Parlamento.
La regola di maggioranza è lo strumento attraverso cui ampie collettività e organi collegiali possono
adottare una decisione: è adottata la decisione che ottiene il numero più elevato di voti o di consensi
a seguito di una votazione.
La regola opposta è quella dell’unanimità, che richiede il consenso di tutti i membri del collegio e
che se venisse usata per qualsiasi decisione, porterebbe alla paralisi decisionale del collegio.
Presupposto di

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questa regola è la sostanziale uguaglianza dei membri del collegio, sicché ogni voto ha lo stesso
valore. Ora, si tratta di un’arma a doppio taglio poiché, se da un lato si evita la prevaricazione dei
pochi sui tanti (eliminando i privilegi del Clero e dell’Aristocrazia nello Stato liberale), dall’altro il
rischio è quello della cosiddetta tirannia della maggioranza, ovvero che i tanti usino il potere
acquisito per eliminare i soggetti in minoranza. La vera distinzione è quella tra maggioranza politica
(cui aderiscono in modo continuativo partiti e parlamentari che intendono sostenere un determinato
indirizzo politico e che, grazie all’operare della regola maggioritaria, possono avere il controllo del
Parlamento) e minoranza politica, dotata anch’essa di stabilità e di persistenza nel tempo. La regola
della maggioranza non può essere applicata se non ci sono le tutele costituzionali necessarie alla
salvaguardia delle minoranze: la tirannia della maggioranza aprirebbe la strada al conflitto violento,
alla delegittimazione dello stato e alla sua disgregazione.
Al riguardo dell’ordinamento italiano le minoranze vengono tutelate attraverso numerosi strumenti:
1) rigidità della costituzione. Riconosce certi diritti ai cittadini e limita il potere della funzione
legislativa garantendo un effettivo pluralismo;
2) attribuzione alla Corte Costituzionale della facoltà di giudicare sulla legittimità delle leggi;
3) la previsione che, per prendere determinate decisioni, non basta la maggioranza semplice o
relativa (numero più alto di voti espressi), ma occorrono quorum deliberativi più elevati: come
la maggioranza assoluta (metà + 1 dei membri del collegio) o la maggioranza qualificata
(corrispondente ad una porzione consistente dei membri del collegio, per esempio i 2/3).
Prevedendo quorum deliberativi o funzionali si rende in qualche modo la maggioranza
incapace di decidere da sola e la minoranza partecipe, seppure in misura ridotta, a determinate
decisioni. La Costituzione italiana stabilisce maggioranze speciali per: l’elezione del
Presidente della Repubblica, per l’elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare,
per la funzione di revisione costituzionale e per l’approvazione di leggi costituzionali (quorum
aggravati), per l’approvazione dei regolamenti interni concernenti le Camere;
4) la concessione di determinate facoltà alle minoranze che si traduce nell’attribuzione di poteri
di condizionamento procedurale a queste. Le minoranze, nell’ordinamento italiano, possono
chiedere la convocazione in via straordinaria della Camera, la votazione dell’intera Assemblea
per un disegno di legge assegnato in Commissione deliberante, che sia indetto il referendum
sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale approvate dal Parlamento;
5) la sottrazione dal circuito dell’indirizzo politico di certe decisioni e l’assegnazione di queste ad
organi decisionali neutrali rispetto alla politica e slegati dalla maggioranza e dalla minoranza,
generalmente per decisioni che richiedono competenze tecniche complesse (c.d. Autorità
amministrative indipendenti);
6) il decentramento politico, che si attua costituzionalmente attraverso l’istituzione di numerose
autorità territoriali. Ciò favorisce l’esistenza di maggioranze diverse per ogni livello di autorità
territoriale e consente alle minoranze di trovare protezione a livello locale ed elaborare
indirizzi politici diversi da quelli a livello statale.
Tuttavia la tutela della maggioranza e la garanzia del pluralismo sono direttamente dipendenti dalla
cultura politica e dalla dimensione dell’intervento pubblico nella società. Se la prima accetta i valori
della pluralità e della tolleranza allora sarà più facile che i soggetti politici adottino atteggiamenti
rispettosi delle minoranze. La seconda accezione di regola di maggioranza intesa come principio di
rappresentanza riguarda invece le modalità attraverso cui si forma il Parlamento e si determina la
consistenza delle maggioranze e delle minoranze in termini di seggi parlamentari. La regola di
maggioranza diventa perciò strumento attraverso il quale si elegge il Parlamento: di ogni collegio
elettorale viene eletto il candidato che ottiene la maggioranza semplice (o, più raramente, assoluta).
La conseguenza è che solo i gruppi politici più forti ottengono rappresentanza parlamentare: questo
metodo è estremamente selettivo ed opposto a quello proporzionale che tende a riconoscere a tutti i
gruppi politici adeguata rappresentanza in modo da rendere il Parlamento una fotografia del Paese
reale.

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Secondo la terza concezione, la regola di maggioranza come regola elettorale è particolarmente
coerente con una determinata concezione delle elezioni e del funzionamento della democrazia. Le
elezioni hanno il compito di assicurare la formazione di una maggioranza stabile e coesa e di un
Governo autorevole in grado di realizzare un indirizzo politico. Al corpo elettorale spetta il compito
di scegliere una maggioranza politica e alle successive elezioni, quello di sottoporla a giudizio di
responsabilità politica (confermandola o sostituendola). Questa concezione è perciò opposta a
quella che figura il Parlamento come riflesso del Paese reale, poiché le elezioni non sono mezzo per
l’affermazione di questo modello, ma semplice metro di misura del consenso di ogni gruppo
politico. Sulla base del consenso si forma il corpo parlamentare e non su una scelta effettiva di
maggioranza e Governo da parte del popolo.
Democrazie maggioritarie e democrazie consociative
Più che la scelta di un sistema elettorale maggioritario o proporzionale, assume importanza un’altra
distinzione, che si basa sulle dinamiche del funzionamento dei diversi ordinamenti democratici.
Occorre distinguere tra democrazie maggioritarie e democrazie consociative. Nelle democrazie
maggioritarie, la regola di maggioranza diventa ‘principio di organizzazione’: esse sono basate sulla
contrapposizione tra due partiti o tra due candidati alla carica di Capo del potere governante tra i
quali gli elettori si trovano a dover effettuare una scelta secca. La contrapposizione per la titolarità
del potere esiste durante le elezioni ma anche dopo le elezioni, quando, il partito sconfitto (la
minoranza) assume la funzione di opposizione, mentre quello vincitore (la maggioranza) costituisce
il Governo ed il nuovo indirizzo politico.
Da un lato il Governo lavorerà per far perdurare il consenso, in modo da restare maggioranza in
luogo delle prossime elezioni, mentre, dall’altro la funzione dell’opposizione impedisce che si
instauri la tirannia della maggioranza attraverso la critica dell’operato del Governo e la proposta di
un indirizzo politico alternativo. In tali sistemi è realizzabile l’alternanza ciclica dei partiti nei ruoli
di maggioranza o opposizione.
Viceversa le democrazie consociative tendono a sfavorire il contrasto tra gli indirizzi e a favorire
invece l’accordo tra i principali partiti al fine di condividere il potere politico. Alle elezioni i partiti
competono per proprio conto, ma la differenza si attua dopo le elezioni, quando i partiti utilizzano il
proprio potere politico, il quale si evince dai risultati delle elezioni, per raggiungere il
compromesso.

Lo Stato e la società multiculturale Rapporti fra Stato e confessioni religiose


La nascita dello Stato moderno comporta il riconoscimento della laicità dello Stato, ovvero la
neutralità del primo rispetto alla questione religiosa, la separazione della sfera politica da quella
della religione e il conseguente riconoscimento della libertà religiosa come diritto fondamentale dei
cittadini. È stata la Rivoluzione francese del 1789 a perfezionare la creazione dello Stato moderno
come unità politica neutrale di fronte alle scelte religiose dei cittadini: essa introdusse l’idea del
cittadino come essere profano, emancipato da un destino inevitabilmente religioso. La Costituzione
francese del 1791 riconosceva la libertà di fede e di religione: lo Stato diventava pienamente
neutrale rispetto alla religione.
Forte è stata in Europa la tendenza a sottrarsi al processo di secolarizzazione della politica a partire
dal secolo XIX. All’emancipazione dello Stato dalla Chiesa venne opposta l’idea di uno ‘Stato
Cristiano’: i rapporti tra queste due istituzioni iniziano il loro oscillare tra due poli opposti. Da un
lato il regime confessionale, che si basa sul fatto che la Chiesa è depositaria di una verità assoluta
concernente tutti gli uomini, e perciò la necessità è quella di uniformare etica pubblica e leggi con la
morale religiosa. Dall’altro, il regime della separazione tra Stato e chiesa, che riconosce ciascuna
istituzione come autonoma nel proprio campo d’azione. Al fine di prevedere i conflitti tra le due
istituzioni la necessità è quella di creare un regime concordatario, ovvero un regime in cui le
competenze reciproche siano disciplinate e definite da un accordo, che prende il nome appunto, di
Concordato. La Costituzione italiana ha scelto questa strada: l’art. 7 sancisce la separazione tra

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Stato e Chiesa stabilendo che entrambi sono, nel proprio ordine, sovrani e indipendenti; in seguito
riconosce tutela costituzionale al principio concordatario affermando che i rapporti tra Stato e
Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi (1929) e questi possono essere mutati solo con l’accordo
da entrambe le parti (principio concordatario). La garanzia costituzionale del regime concordatario
non esclude né la laicità dello Stato né il pluralismo religioso. L’art. 3 stabilisce che tutti i cittadini
sono uguali di fronte alla legge senza distinzioni religiose; l’art. 8.1 stabilisce che tutte le
confessioni religiose sono egualmente libere di fronte alla legge e hanno diritto di organizzarsi con
proprio statuto purché non contrasti con l’ordinamento italiano; l’art 8.3 disciplina i rapporti dello
Stato con le religioni diverse dalla cattolica. Le intese hanno cominciato ad essere stipulate solo
dopo la riforma del Concordato e sinora solo alcune confessioni hanno potuto ottenerne una: dato
che le intese sono fonte di grandi privilegi, soprattutto di agevolazioni finanziarie, molte confessioni
tradizionalmente ‘separatiste’ rispetto allo Stato le hanno richieste.
Il principio di laicità, accolto dallo Stato italiano, in sé è soggetto a diverse applicazioni, differenti
secondo la storia istituzionale e politica di ciascun paese. In Francia il principio è accolto con una
concezione assai rigida che fa si che lo Stato si basi sul cittadino come individuo, e considera lesiva
dell’uguaglianza ogni rilievo dato all’appartenenza di questo ad una confessione religiosa. In Italia,
invece, la laicità non esclude un rilievo positivo giuridico del fenomeno religioso, purchè questo
non sia causa di disparità nel trattamento.

Principio di laicità, libertà di coscienza e pluralismo religioso


La laicità dello Stato Italiano adotta una prospettiva ‘positiva’, ciò significa che gli unici interventi
possibili sono quelli in senso ‘positivo’ ovvero atti a sostenere il libero svolgimento delle attività
religiose. Secondo la Corte il principio di laicità ‘implica non l’indifferenza dello Stato dinnanzi
alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di regime di pluralismo
confessionale e culturale’. Il principio di non discriminazione tuttavia ha conosciuto alcune
deroghe: la Corte sembrava ammettere differenze tra le diverse religioni, principalmente sulla base
del criterio numerico (la religione col maggior numero di adepti) e del criterio sociologico
( connessione tra la religione e la coscienza sociale), ma la giurisprudenza moderna ha abbandonato
questa tendenza a favore di un’applicazione più rigorosa di tale principio. Aspetto che,
nell’esperienza moderna, va di pari passo con questo discorso è quello della libertà di coscienza,
che si trova perfettamente applicato nell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole: esso è
giudicato ammissibile se, e solo se, si garantisce parimenti la posizione degli studenti che non
vogliono avvalersi di tale insegnamento.
Materia a parte, e ampiamente dibattuta, è quella dell’esposizione di simboli religiosi in luogo
pubblico. Le reazioni all’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici hanno coinvolto giudici
ordinari ed amministrativi ma hanno prodotto esiti incoerenti:
- il crocifisso deve essere rimosso poiché manifestazione della volontà dello Stato di porre il culto
cattolico al centro della dimensione pubblica ed educativa, in contrasto col principio di pluralismo
religioso (Tar dell’Aquila, 2003);
- il crocifisso è simbolo di un’evoluzione storica e culturale, di un sistema di valori condivisi e di
libertà, uguaglianza dignità umana e religiosa, la conseguenza è che esso finisce per rappresentare
il principio stesso della laicità dello Stato (Tar Veneto, 2005);
- l’esposizione del crocifisso è espressione della cultura e della civiltà cristiana e perciò patrimonio
dell’umanità, simbolo di identità nazionale e patrimonio tradizionale d’Italia (Tribunale Civile
L’Aquila, 2005);
- il crocifisso è atto ad esprimere l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto, di
valorizzazione personale, di affermazione dei diritti, di libertà, di autonomia di coscienza morale,
di rifiuto delle discriminazioni che connotano la civiltà italiana. Perciò è compatibile col principio
costituzionale della laicità dello Stato (Consulta di Stato,2006);

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- la questione è arrivata alla Corte EDU che in primo grado si è pronunciata per l’incompatibilità tra
principio di laicità ed esposizione del crocifisso nei locali scolastici, ma in appello la Grande
Chambre ha rovesciato la decisione, ritenendo che il crocifisso sia un simbolo passivo, non
associato a forme di insegnamento religioso obbligatorio o a pratiche religiose coercitive, e che
non impedisce agli alunni di altri culti di portare i simboli della propria diversa religione.
Fattispecie completamente opposta è quella dell’esibizione pubblica di un simbolo religioso da
parte del singolo individuo. In assetti costituzionali dove il principio di laicità è accolto in maniera
tanto rigorosa da evitare il rilevo pubblico della religione e l’affermazione di identità collettive
differenziate sulla base della religione, simili manifestazioni sono vietate. In Francia una legge del
2004 proibisce agli studenti di indossare simboli o abiti attraverso i quali la loro affiliazione
religiosa emerga in modo palese. Rientrano nel divieto l’ostentazione di crocifissi, l’utilizzo di
kippah ebraiche e turbanti sik e soprattutto i veli islamici.

La tutela delle minoranze e la società multiculturale


Una società multiculturale deve far fronte al diritto di ciascun essere umano di crescere dentro una
cultura che sia la propria e non quella maggioritaria del contesto socio-politico dove si trova a
vivere. In quest’ambito occorre effettuare una distinzione tra minoranze storiche (ovvero presenti da
sempre nei confini nazionali) e minoranze nuove (risultato di flussi migratori o cambiamenti
generazionali). La tutela delle prime generalmente è già contemplata nelle Costituzioni: così nella
Costituzione italiana si riconoscono le minoranze linguistiche e il fondamento per il riconoscimento
di diritti speciali (art. 6); la legge 482 del 1999 addirittura consente ad alcune lingue individuate, di
essere insegnate a scuola o utilizzate nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Ma la sfida più
grande sottoposta alle moderne democrazie è quella derivante dalle nuove minoranze: queste
richiedono non solo la redistribuzione della ricchezza, ma anche una tutela dell’identità, risultato di
un conflitto sociale non solo di tipo economico ma anche di identità culturale. La richiesta è
principalmente quella di trovare nel sistema giuridico gli strumenti per tutelare la loro alterità,
definita sulla base di criteri di ordine etnico o religioso inizialmente, poi anche su criteri di altro
ordine (vedi le preferenze sessuali o l’appartenenza di genere). Al fine di mantenere e garantire le
identità culturali differenziate i sistemi giuridici hanno escogitato varie soluzioni:
- diritto derogatorio, che si applica solo ai membri di determinate comunità riconosciute (diritto di
caccia per i nativi in Canada o diritto di esonero dalla pubblica istruzione per i bambini della
comunità Amish in USA);
- strumenti di promozione della cultura particolare (come la creazione di organismi specifici col
compito di promuovere e proteggere una determinata cultura);
- costruzione di luoghi di culto o edifici simbolici sul territorio nazionale (moschee, sinagoghe);
- estensione di istituti di garanzia previsti per chi segue comportamenti maggioritari anche alle
minoranze, in modo da riconoscerne l’identità e garantirne l’esistenza (unioni civili).
Si tratta di capire se la strada migliore per assicurare la coesione delle moderne società pluralistiche
sia quella di promuovere l’integrazione di tali minoranze ed incanalarne la cultura in quella
maggioritaria (limitando alla sfera privata l’espressione di quella particolare) o garantire e tutelare
tali minoranze tramite il riconoscimento giuridico delle differenze. Da un lato il rischio è quello di
coartare eccessivamente la libertà personale con tutto ciò che ne deriva, dall’altro invece si rischia
un’eccessiva frammentazione che romperebbe i vincoli unitari e, di conseguenza, metterebbe in
discussione lo Stato stesso.
Inoltre, è legittimo fornire strumenti di tutela anche a quelle comunità culturali che non solo sono
aliene al contesto maggioritario, ma sono anche attivamente ostili ai valori su cui si basa lo Stato di
democrazia pluralistica? Risultato della caduta di eterogeneità della cultura è la difficile facoltà di
scelta sulle decisioni di carattere etico: un relativismo etico mette in risalto la libertà di scelta del
singolo individuo, mentre chi parte dall’esistenza di un’etica assoluta e universale, tende a porre dei

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limiti alla libertà di scelta dell’individuo in nome di principi etici superiori.
CONFLITTI ETICI: CASO WELBY E CASO ENGLARO
Nel 2006, Piergiorgio Welby, malato terminale affetto da una gravissima forma di sclerosi, chiede
espressamente al suo medico di sospendere il trattamento che lo manteneva in vita. Il medico, somministrati
dei sedativi, ha interrotto le pratiche suddette con la conseguenza che il paziente è deceduto nella mezzora
successiva. Il PM esclude che il medico sia accusato di ‘omicidio del consenziente’ e chiede l’archiviazione:
tra i due principi egualmente tutelati dall’ordinamento (art. 32 diritto al rifiuto del trattamento e istanza di
sostegno della vita) deve prevalere l’autodeterminazione del paziente rispetto alle cure somministrate.
Può essere sostituita la volontà di un paziente incapace di esprimersi con quella del suo tutore in materia di
sospensione del trattamento? Il padre di Eluana Englaro fa ricorso al Tribunale di Lecco per chiedere la
sospensione dell’alimentazione forzata a sua figlia, in coma dal 1992 a seguito di un incidente. La
Cassazione si è pronunciata su questo caso a seguito di un iter processuale definendo che, nei casi analoghi a
quello della signora Englaro, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio di alimentazione forzata
unicamente in presenza dei seguenti presupposti: 1) lo stato comatoso deve essere, a seguito di adeguato ed
accurato apprezzamento medico, irreversibile e deve essere assente qualsiasi possibilità di recupero, di
ritorno alla percezione del mondo esterno o di recupero della coscienza, secondo gli standard riconosciuti a
livello internazionale; b) in base a segni di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente, tratta
dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti,
corrispondendo al suo modo di concepire, prima della caduta in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità
della persona. Nel caso in cui, uno solo dei due presupposti non sussista, il giudice non può autorizzare
indipendentemente dalle condizioni, dal grado di autonomia e dalla capacità di intendere e di volere del
paziente.
Stato unitario, Stato federale e Stato regionale
La separazione dei poteri e l’applicazione della regola di maggioranza può avvenire non solo a
livello orizzontale ma anche a livello verticale, ovvero tramite l’assegnazione di poteri ad enti
territoriali. Si distingue tra: 1) Stato unitario, nel quale il potere è attribuito al solo Stato o ad enti ad
esso dipendenti (si parla di decentramento amministrativo o burocratico, perché i soggetti periferici
fanno parte dell’organizzazione statale); 2) Stato composto, nel quale il potere è distribuito tra lo
Stato e gli enti territoriali distinti, dotati di propria autonomia politica di indirizzo e della funzione
legislativa e amministrativa in determinate materie, ed agiscono mediante organi rappresentativi che
sono espressione delle popolazioni locali (decentramento politico). Lo Stato unitario ha
caratterizzato a lungo l’esperienza europea, ma da alcuni anni anche in Europa ha avuto successo lo
Stato composto, nelle sue due varianti:
a) Stato federale, i cui caratteri tipici sono l’esistenza di un ordinamento statale federale, dotato di
una costituzione scritta e rigida, e di alcuni enti territoriali dotati di proprie Costituzioni; la
previsione della costituzione di una ripartizione di competenze tra Stato centrale e Stati membri
con riguardo alle tre tradizionali funzioni; l’esistenza di un Parlamento bilaterale nel quale esiste
una Camera rappresentativa degli Stati membri; la partecipazione degli Stati membri al
procedimento di revisione costituzionale, oltre che la presenza di una Corte costituzionale che
risolva i confini tra Stato federale e Stati membri;
b) Stato regionale, che è distinto dallo Stato federale per le seguenti caratteristiche: l’esistenza di
una Costituzione statale che riconosce e garantisce la autorità territoriali, dotate di propri statuti
ma non di Costituzioni; l’attribuzione di competenze amministrative e legislative alle Regioni,
una limitata partecipazione di queste ai processi di revisione costituzionale, la presenza di una
Corte costituzionale deputata a risolvere i conflitti fra Stato e Regioni che assicura preminenza
dell’interesse nazionale e l’assenza di una Camera rappresentativa delle Regioni.
In realtà la distinzione tra Stato federale e Stato regionale è difficile da tracciare: la distinzione
fondamentale resta quella tra Stato unitario e Stato composto e tra Stati a forte decentramento
politico e Stati a decentramento politico limitato.

L’Unione europea

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Costituita a seguito del Trattato di Maastricht con una struttura istituzionale complessa, per
descriverla si è ricorso alla metafora del tempio greco che poggia su tre pilastri: il pilastro centrale
era quello della Comunità europea (CE), i due pilastri laterali erano costituiti dai nuovi ambiti della
politica estera e di sicurezza comune (PESC) e dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli
affari interni (CGAI)
La differenza tra i tre pilastri è principalmente nei processi decisionali: la CE aveva ottenuto una
certa omogeneità politica perciò consentiva decisioni anche senza il consenso di tutti: PESC e
CGAI, invece, necessitavano dell’unanimità. Con il trattato di Lisbona i tre pilastri sono stati
condensati nell’UE.
L’organizzazione
L’organizzazione comunitaria si articola in diversi organi:
a) il Consiglio Europeo: è l’organo di impulso politico, definisce gli orientamenti politici generali
ma è privo di proprio potere normativo. È composto dal Capo di Governo o di Stato di ciascuno
Stato membro e dal Presidente della Commissione: egli è eletto a maggioranza qualificata e dura
in carica due anni e mezzo; il Trattato di Lisbona ha stabilito che non può essere il Capo di
Governo del Paese con presidenza semestrale dell’Unione;
b) il Consiglio: è l’organo che esercita, congiuntamente al Parlamento Europeo, la funzione
legislativa e di bilancio, coordina le politiche generali di tutti gli Stati membri. È formato da un
rappresentante di ogni Stato (membro del Governo), in relazione alla materia trattata, o, in
alcuni casi, dal Capo di Stato o di Governo ed è presieduto da ciascuno dei suoi membri a turno
per 6 mesi. Le sue deliberazioni sono assunte a maggioranza qualificata (che tiene conto anche
della popolazione rappresentata), solo in casi specifici è richiesta l’unanimità. Il Comitato dei
Rappresentanti Permanenti (COREPER) coadiuva l’attività del Consiglio;
c) la Commissione Europea: è l’organo di propulsione dell’ordinamento comunitario, centro dei
processi di decisione. Dispone di poteri di iniziativa normativa per gli atti che il Consiglio
adotta; di decisione amministrativa e di regolamentazione; di controllo verso gli Stati membri
riguardo l’adempimento di obblighi comunitari, che possono sfociare in ricorso e condanna.
Inoltre la Commissione può esercitare un controllo ‘indiretto’ sugli Stati membri, attraverso le
segnalazioni di privati, creando un rapporto trilatero Commissione-amministrazioni nazionali-
privati; ha poteri di gestione dei finanziamenti comunitari. I componenti sono tanti quanti sono
gli Stati membri e sono scelti in base a competenze tecniche: durano in carica 5 anni e devono
essere confermati dal Presidente dopo essere stati designati dal Consiglio su proposta degli Stati.
Il Presidente è eletto dal Parlamento su proposta del Consiglio: egli ha facoltà di approvare la
composizione della Commissione. Il Parlamento ha facoltà di censurare la Commissione e
costringerla alle dimissioni. Fa parte della Commissione, e anzi, ne è Vicepresidente, l’Alto
rappresentante per gli affari esteri, che rappresenta l’UE nella politica estera;
d) il Parlamento Europeo: è composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione eletti in
ciascuno Stato a suffragio universale e diretto, restano in carica 5 anni. Organo rappresentativo e
dotato di legittimazione democratica, che partecipa al processo di formazione degli atti
normativi attraverso la procedura legislativa ordinaria: in essa l’adozione degli atti normativi
proposti dalla Commissione richiede il consenso sia del PE che del Consiglio: un eventuale
dissenso è comunque risolto con l’intervento di un apposito Comitato di conciliazione chiamato
a trovare un accordo tra i due organi. Dispone inoltre di un potere di iniziativa legislativa
indiretta, esercitato tramite la Commissione e risponde alle petizioni dei cittadini nominando un
mediatore. È infine titolare di poteri di controllo verso la Commissione (facoltà di istituire
Commissioni temporanee di inchiesta ma soprattutto di votare la fiducia sul Presidente e sui
membri della Commissione, oltre alla possibilità di approvare una mozione di censura verso la
stessa e provocarne le dimissioni);
e) la Corte di Giustizia: è l’organo giurisdizionale europeo, chiamato ad assicurare il rispetto del
diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato. Ha facoltà di giudicare sulle

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violazioni del diritto comunitario, sulla legittimità degli atti normativi e di interpretare il diritto
comunitario in via pregiudiziale. La Corte è coadiuvata dal Tribunale di primo grado, le cui
sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte stessa;
f) la Corte dei Conti: è l’organo di controllo contabile della Comunità, chiamato all’esame delle
entrate e delle uscite della stessa e degli organi da essa creati;
g) il Comitato economico e sociale: è l’organo consultivo del Consiglio, della commissione e del
PE. Composto dai rappresentanti delle diverse categorie economiche e sociali, esprime il suo
parere obbligatoriamente (quando previsto dal Trattato), su richiesta o di propria iniziativa;
h) il Comitato delle Regioni: anch’esso è un organo consultivo delle istituzioni UE. Composto dai
rappresentanti delle varie collettività regionali e locali, delle quali esprime le istanze a livello
comunitario, esprime il suo parere obbligatoriamente (quando previsto dal Trattato), su richiesta
o di propria iniziativa.
Costituzione Europea
Realizzata l’integrazione economica tra gli Stati membri (culminata nella realizzazione di un
mercato unico e di una moneta unica) si è dovuto affrontare il problema di realizzare
un’integrazione politica tra gli Stati europei. Gli aspetti rilevanti in questo senso sono stati due: a) in
primo luogo il deficit democratico, espressione che allude al fatto che i poteri normativi sono
esercitati da organi comunitari che non sono eletti dai cittadini. Manca inoltre una sfera pubblica
europea, le politiche sembrano piuttosto essere discusse da una burocrazia europea e da tecnici; b)
in secondo luogo si pone la questione se l’Europa debba avere un ruolo politico unitario rilevante a
livello internazionale. A questi problemi si sono aggiunti quelli scaturiti dall’allargamento
dell’Unione.
L’ordinamento comunitario, istituito sulla base di 6 Paesi tendenzialmente omogenei sul piano
politico, sociale ed economico, rischia di provocare la paralisi istituzionale dato il suo complicato
metodo decisionale, in particolare ora che è stato esteso fino all’Europa dell’est. Al fine di
semplificare i Trattati europei e giungere ad un Trattato di base (la Costituzione Europea), è stata
istituita la Convenzione europea. Il testo modificato è stato adottato nel giugno 2004, salvo poi
essere rifiutato dai referendum dell’anno successivo in Francia e Olanda. Il successivo trattato di
Lisbona ha eliminato tutta la terminologia federalista dal Trattato costituzionale, ha reso più snello
il metodo decisionale ed ha modificato la composizione degli organi decisionali, adattandola alla
crescita del numero degli Stati membri.
Il principio di attribuzione fa si che le attribuzioni dell’UE siano solo quelle espressamente previste
dai Trattati, esse non hanno competenze generali ma specifiche e funzionali per il raggiungimento
di obiettivi prefissati. La tassatività delle attribuzioni è temperata in due casi:
- quando venga applicato il principio di autointegrazione, ovvero quando la UE può esercitare i
poteri necessari per la realizzazione di scopi del Trattato anche se questo non lo prevede
espressamente;
- quando venga applicato il principio dei poteri impliciti, adottato dalla Corte di giustizia, per il
quale l’attribuzione di una competenza comporta anche quella del potere di adottare tutte le
misure necessarie per il suo esercizio efficace ed adeguato.
Si parla di principio di proporzionalità quando, all’UE, è imposto l’utilizzo di mezzi e strumenti
adeguati, proporzionali e non esagerati per il risultato da raggiungere. Si parla di principio di
sussidiarietà quando, nel caso di competenze congiunte, quelle assegnate all’UE possono essere
applicate solo se si ritenga che perseguano meglio la causa comunitaria e solo se ritenute di entità
tale da trovare soluzione migliore nell’intervento europeo. Si parla infine di principio di leale
cooperazione per intendere il dovere di tutti gli Stati membri a collaborare e a non interferire con
l’operato delle istituzioni comunitarie, evitando comportamenti che possono impedire la
realizzazione degli scopi.
Il mercato, tra Stato e Unione europea

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Stato liberale e Stato di democrazia pluralista sono stati associati all’esistenza di un’economia di
mercato. Lo Stato sociale, invece, è intervenuto correggendo e compensando il mercato, per
raggiungere finalità sociali o per contrastare le crisi economiche, dando luogo ad un’economia
mista. Nell’esperienza italiana gli interventi statali in economia sono stati:
- creazione di imprese pubbliche ovvero imprese gestite da un ente pubblico economico (che
svolge attività di produzione di beni e servizi e che perciò utilizza le regole del diritto privato) o
in altri casi di aziende autonome, ovvero collegate ad amministrazioni statali ma dotate di
autonomia di gestione;
- creazione di SPA in mano pubblica, società per azioni controllate da un’amministrazione
pubblica che attraverso essa svolge un’attività economica;
- finanziamenti agevolati ai privati, coi quali lo Stato ha sostenuto l’attività di alcune imprese
erogando ausili finanziari;
- la programmazione economica, l’adozione di atti di poteri pubblici contenenti un disegno
ordinato di condotte future, riguardanti più elementi: si estendono per un certo arco temporale e
riguardano l’intera materia economica;
- l’acquisto del monopolio sui servizi pubblici, ovvero quelli che si caratterizzano per soddisfare i
bisogni di interesse generale, col fine di sottrarre questi settori alla concorrenza e mantenere i
prezzi sotto controllo;
- il potere di conformazione verso le imprese private, per cui l’ingresso in certi mercati non è
libero ma sottoposto a vincoli e limiti e soggetto all’autorizzazione di determinate
amministrazioni pubbliche.
Attraverso l’insieme dei suddetti interventi si è affermato il cosiddetto dirigismo economico, ovvero
la tendenza secondo cui lo Stato interviene nell’economia, la orienta per il conseguimento dei suoi
obiettivi politici e sociali. Questa tendenza non è prevista dalla Costituzione e, ad oggi, entra in
forte contrasto con i principi dell’Unione europea. L’instaurazione di un mercato comune,
caratterizzato dall’eliminazione tra gli Stati membri di ostacoli alla libera circolazione delle merci,
delle persone e dei capitali, è al centro degli obiettivi dei Trattati istitutivi europei. Alla creazione di
un mercato unico europeo si è giunti utilizzando tre strumenti:
1) libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali (le c.d. quattro libertà);
2) il divieto di aiuti finanziari;
3) la disciplina della concorrenza (gli Stati non possono impedire la creazione di un mercato comune
limitando la circolazione delle merci, ad esempio con l’introduzione di tariffe doganali, o
introdurre privilegi per le proprie imprese. Il diritto comunitario non si è limitato alla semplice
garanzia del mercato unico, basato sul principio della libera concorrenza, ma ha posto le premesse
giuridiche per la drastica riduzione dei monopoli pubblici legati a diritti di esclusiva. Quelle
attività tradizionalmente configurate come servizi pubblici devono essere sottoposte alle regole
della concorrenza, attraverso l’adozione di regolamenti e direttive, ma anche con specifiche azioni
di contrasto delle attività delle residue imprese pubbliche monopolistiche, sottoposte alle regole di
concorrenza.
L’Unione monetaria e i parametri di Maastricht
Il mercato unico è stato completato (a partire dal trattato di Maastricht del 1993) dalla creazione di
una moneta unica: l’EURO e dalla definizione di una politica di monetaria e di cambio uniche
gestite da istituzioni comunitarie, il Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC). Prima della
moneta unica gli stati potevano servirsi di due strumenti di politica monetaria: il tasso di cambio,
che definisce il prezzo relativo tra due monete. La svalutazione di una moneta rispetto ad un'altra
produce svantaggi per i consumatori del Paese che ha svalutato, vantaggi per gli imprenditori del
Paese che ha svalutato (è più facile esportare) e svantaggio per le imprese straniere, schiacciate
dalla concorrenza del Paese che ha svalutato. Differente è la manovra del tasso di interesse:
definisce il prezzo che si deve pagare sul denaro preso in prestito. La maggioranza degli
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investimenti delle imprese è attuata tramite denaro preso in prestito, più basso è il tasso, maggiori
saranno gli investimenti; inversamente se il tasso è alto, calano gli investimenti. Dunque la
riduzione del tasso di interesse stimola la crescita economica ma, causando l’aumento del denaro
circolante, può creare l’inflazione. Lasciare questi strumenti agli Stati era di ostacolo alla creazione
di un mercato unico: con l’Unione monetaria questi ostacoli vengono meno, spariscono le monete
nazionali e la loro concorrenza; le decisioni sui tassi di interesse sono accentrate nel SEBC. Tra gli
obiettivi principali dell’UE vi è quello di mantenere la stabilità dei prezzi e quindi la lotta
all’inflazione.
Esiste una stretta correlazione tra mercato aperto, basato sulla libera concorrenza, moneta unica e
stabilità dei prezzi. La moneta unica e la politica monetaria consolidano il mercato comune,
togliendo alla disponibilità degli Stati membri quegli strumenti che utilizzavano per la tutela e la
protezione delle rispettive economie nazionali. Tuttavia l’instaurazione di una moneta unica impone
una certa convergenza tra le economie degli Stati dell’Unione. Questo si rende necessario poiché vi
è il rischio che l’inflazione sia esportata dai Paesi con economie più deboli verso quelli con
economie forti che ne risentirebbero: la necessità è che gli Stati aderenti all’UE abbiano condizioni
finanziarie tali da ridurre i pericoli di inflazione.

I parametri di Maastricht
L’Unione monetaria stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi membri. A
questi viene imposto il rispetto di finanze pubbliche sane. A questo proposito, due volte l’anno, gli
Stati membri devono sottoporre il proprio bilancio ad una procedura di esame con l’obiettivo di
evitare disavanzi eccessivi. Secondo il Trattato ed il Protocollo aggiuntivo un disavanzo è eccessivo
se:
- il debito pubblico supera il 60% del PIL;
- il disavanzo supera il 3% del PIL.
Quando il debito di un paese risulta eccessivo la Commissione prepara un rapporto per il Consiglio,
questo può fare delle raccomandazioni al Paese in questione ed emettere sanzioni pecuniarie.
Questa particolare disciplina è stata completata dal Patto di stabilità e crescita concordato ad
Amsterdam nel 1997, col quale i Paesi si impegnano a porsi obiettivi di bilancio nel medio termine.
La politica monetaria comunitaria è interamente gestita dal SEBC (organismo di tipo federale
costituito dalle banche centrali degli Stati membri e, in posizione sovraordinata, dalla Banca
centrale europea). Nel SEBC le banche nazionali svolgono principalmente due compiti:
- concorrono a determinare le decisioni del Consiglio direttivo BCE;
- danno piena attuazione di tali decisioni all’interno dei propri confini.
In questo contesto la funzione monetaria è stata completamente sottratta dalle autorità nazionali ed è
concepita come attività tecnica separata sia dai poteri politici nazionali che da quelli comunitari.
Attualmente aderiscono all’euro 18 dei 28 paesi dell’UE.
La crisi finanziaria in Europa e la nuova governance economica
Secondo il meccanismo concepito dal trattato di Maastricht le politica monetaria doveva essere
condotta a livello sovranazionale dalla BCE, mentre le politiche di bilancio restavano di
competenza dei singoli Stati. I fatti hanno tuttavia dimostrato che questo meccanismo non è riuscito
ad imporre la riduzione del debito pubblico né ad impedire che i forti squilibri macroeconomici di
alcuni Paesi intaccassero l’economia degli altri dell’Eurozona. La situazione del debito pubblico nel
2010 era drammatica per molti Stati (fra cui l’Italia il cui disavanzo era del 118% del PIL) e ciò ha
portato ad un vertiginoso aumento degli interessi. Si è innestato a questo punto un circolo vizioso:
l’aumento degli interessi ha portato all’aumento della spesa pubblica, che, a sua volta, è stata
finanziata con altro debito pubblico. La conseguenza è stata l’aggravarsi della crisi finanziaria. I
mercati finanziari hanno dapprima colpito con la richiesta di alti tassi uno Stato specifico, salvo poi
estendere la loro richiesta speculativa a tutti gli Stati (il c.d. contagio). Si evidenziano, così, i limiti
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istituzionali dell’Unione economica e monetaria: in caso di crisi delle finanze pubbliche manca un
meccanismo che garantisca la solvibilità del debito. Di norma esiste un garante di ultima istanza
rappresentato dalla Banca Centrale che stampa nuovo denaro (col rischio di inflazione); ma questo
non può avvenire per gli Stati dell’Eurozona, poiché la politica monetaria è stata trasferita alla BCE
(la quale ha come compito anche quello di evitare l’inflazione). I meccanismi che assicurano che gli
Stati perseguano l’obiettivo di finanze pubbliche sane sono troppo deboli.
Per affrontare la grave crisi delle finanze degli Stati dell’Eurozona sono state introdotte importanti
riforme, che vanno nella direzione del rafforzamento dell’integrazione europea. La nuova
governance economica europea ha rafforzato il coordinamento europeo delle politiche economiche
nazionali e reso più efficace la sorveglianza delle politiche di bilancio di ogni Stato membro: rilievo
particolare hanno nei confronti degli Stati che rischiano l’insolvenza; essi vedono limitato il loro
potere decisionale in materia e sono obbligati a seguire le indicazioni europee. Fra 2010 e 2014 le
principali innovazioni attuate sono state le seguenti:
a) semestre europeo. Procedura finalizzata al coordinamento preventivo delle politiche
economiche e di bilancio degli stati membri, è così articolato:
i) Gennaio. La Commissione formula l’analisi annuale sulla crescita e fa proposte strategiche
per l’economia;
ii) Marzo. La Commissione predispone un rapporto sulla base del quale i Consiglio europeo
indica gli obiettivi economici e le strategie per raggiungerli;
iii) Aprile. Sulla base delle suddette indicazioni gli Stati membri comunicano i propri obiettivi
di medio termine e le riforme che intendono adottare;
iv) Giugno, Luglio. Sulla base dei documenti di ciascun Paese il Consiglio europeo e il
Consiglio dei Ministri finanziari forniscono indicazioni specifiche per ogni Paese;
v) Ottobre. Ogni stato invia un DPB (Documento programmatico di bilancio) che contiene
l’aggiornamento delle stime precedenti e i relativi provvedimenti da attuare;
vi) Novembre. Entro la fine del mese la Commissione valuta la conformità del DPB alle
prerogative e alle linee guida formulate nell’ambito del semestre europeo.
2) Nuova sorveglianza macroeconomica e finanziaria (six pack e two pack). Il six pack è un
insieme di sei regolamenti comunitari che, insieme al two pack ha modificato il Patto di
stabilità e di crescita. È stato introdotto un meccanismo di controllo sui dati macroeconomici di
ciascun Paese per cui la Commissione che ritenga ci siano degli squilibri può chiedere allo
stato di intervenire per eliminarli;
3) Trattato sulla stabilità sulla governance e sul coordinamento dell’UE. La cui parte principale è
il fiscal compact, si tratta di un vero Trattato internazionale, esterno ai trattati UE che si
caratterizza per:
a) introduzione del divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5% del PIL (regola che
deve essere recepita dagli ordinamenti nazionali possibilmente con modifica
costituzionale);
b) individuazione di un percorso di riduzione del debito pubblico sulla base del PIL;
4) meccanismo di solidarietà diretto agli Stati in difficoltà finanziarie. Nel 2010 è stato introdotto
EFSF dotato di risorse finanziarie messe a disposizione dagli stati membri: gli aiuti sono
subordinati ad un programma di riforme tese a migliorare i conti pubblici, la sua durata era
limitata a 3 anni. Perciò successivamente è stato istituito un meccanismo permanente di
intervento diretto ad assicurare la stabilità finanziaria nell’area euro: il Meccanismo europeo di
stabilita (MES), dotato di maggiore capitale;
5) Unione bancaria, diretta ad evitare i rischi di contagio tra sistema finanziario privato e
economia pubblica. Il contagio si è compiuto in due modi:
1) il salvataggio di banche entrate in crisi a causa di operazioni finanziarie altamente speculative

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da parte di alcuni Stati costretti ad indebitarsi (Spagna, Cipro, Irlanda);
2) le banche hanno contribuito al risanamento acquistando i titoli di debito pubblico del loro Paese,
perdendo però la fiducia nelle proprie immobilizzazioni da parte dei mercati finanziari. L’unione
bancaria vera e propria si realizza solo per quei Paesi la cui moneta è l’euro e si basa su 3 pilastri:
a) un meccanismo di supervisione unico, che riguarda le principali banche nazionali e la
BCE;
b) un meccanismo di risoluzione unico, il cui fondo è fornito dalle banche;
c) la garanzia per i depositari di somme fino a 100000€ in caso di fallimento.
Il risultato di questa crescita dell’integrazione europea è il rafforzamento del ruolo del Consiglio
Europeo. Ne è risultato un forte accrescimento del deficit democratico: le politiche europee
appaiono come scelte operate dai tecnici di Bruxelles e non dagli organi democraticamente eletti ed
il pericolo che si crea è quello della prevalenza della tecnocrazia sulla democrazia. Il deficit si è
aggravato per effetto delle innovazioni introdotte per rispondere alla crisi dei debiti sovrani.
L’erogazione dell’aiuto è stata subordinata all’attuazione di politiche di austerità decise al di fuori
del circuito democratico nazionale e da parte di istituzioni europee la cui volontà era dettata dagli
Stati creditori. La nuova governance e il fiscal compact hanno imposto politiche di austerity anche a
Paesi (come l’Italia) la cui situazione non richiedeva l’intervento del fondo ‘salvastati’.
Queste politiche sono un’arma a doppio taglio: da un lato sono ovviamente malviste dai cittadini
dello Stato in difficoltà, che devono fare molti sacrifici, dall’altro lo sono anche dai cittadini degli
Stati creditori che percepiscono di dover subire le conseguenze della cattiva gestione di altri Stati.
L’UE si trova di fronte ad un bivio:
1) restituire agli Stati una parte delle competenze perdute in materia di politica monetaria;
2) procedere sulla strada dell’integrazione. Le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del
2014 hanno visto un preoccupante sostegno della prima tendenza, con la conseguente elezione di
rappresentanti di partiti populisti ed euroscettici. Un passo importante tuttavia è stato fatto sulla
strada della prevaricazione della democrazia sulla tecnocrazia: i partiti hanno promosso
direttamente agli elettori i candidati per la carica di Presidente della Commissione e il confronto è
stato tra le due principali correnti politiche europee: quella popolare (Junker) e quella
socialdemocratica (Schulz); il risultato non è stato favorevole a nessuno dei due candidati, si creata
perciò una coalizione.
Il fatto è rilevante e può imprimere evoluzioni dell’assetto istituzionale europeo per 4 ragioni:
a) un unico candidato è stato sottoposto direttamente agli elettori europei, superando i particolarismi
(e gli egoismi) dei singoli Stati;
b) Junker si è presentato con un preciso programma politico, rafforzando la prospettiva politica
transnazionale;
c) si è avviata (anche se non ancora irreversibilmente) la tendenza ad un’evoluzione in senso
parlamentare della forma di Governo europea;
d) il programma di Junker è spiccatamente diretto alla integrazione europea, in differenti settori a
cominciare dall’economia.
La questione della crisi democratica è riesplosa nel 2015 con l’elezione in Grecia del partito di
sinistra radicale Syriza, che contestava l’austerity imposto dall’UE. Il Governo ha avviato un duro
negoziato con le istituzioni Ue al fine di ottenere aiuti finanziari e scongiurare il rischio di
insolvenza. Il programma che ne è derivato prevedeva importanti riforme strutturali e la
continuazione del rigore finanziario, profili in disaccordo con le promesse elettorali di Syriza. Il
programma è stato bocciato al referendum. La non adesione avrebbe comportato l’uscita
dall’Eurozona e il conseguente ritorno alla moneta nazionale (la dracma), con conseguenze descritte
come catastrofiche dagli economisti. Tsipras ha scelto di non ascoltare l’esito del referendum e
proseguire col negoziato europeo per arrivare ad una soluzione non drammatica per la finanza

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nazionale. Questa vicenda ha messo in evidenza l’esigenza di una doppia fiducia dei Governi,
rivolta agli elettori e al proprio Parlamento ma anche ai governi degli altri Stati membri. Proprio
quest’ultimo aspetto è utile per ottenere gli aiuti fiscali ma soprattutto, a quegli Stati che necessitano
di elasticità nei rapporti debito/PIL di avere maggiori margini di manovra.
Il principio democratico è sottoposto a forti tensioni nel sistema di Governo multilivello europeo.
Da qui si sviluppano due diverse tendenze:
 restituire agli Stati nazionali quote di sovranità e competenze attualmente attribuite all’UE.
Questa prospettiva si basa sul presupposto che il principio democratico può operare
esclusivamente a livello nazionale, dove gli elettori possono controllare i governanti;
 approfondire l’integrazione europea, dotare l’UE di un proprio indirizzo politico economico,
con la conseguenza di dover rafforzare il principio democratico, il ruolo del PE e i suoi rapporti
coi Parlamenti nazionali.

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