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CAPITOLO II – LO STATO: NOZIONI INTRODUTTIVE
Il potere politico
Il potere sociale è la capacità di influenzare il comportamento di altri individui. Ciò che è rilevante per
distinguere un tipo di potere sociale dall’altro è il mezzo con il quale questo si è affermato. In quest’ottica
si distinguono tre poteri principali:
1) il potere economico, che si avvale del possesso di un certo bene necessario o percepito come tale al
fine di indurre coloro che non lo posseggono a seguire una determinata condotta. L’esempio più
immediato è offerto dal proprietario che, grazie alla disponibilità esclusiva di un bene produttivo (la terra o la
fabbrica), ottiene che il non proprietario lavori per lui alle condizioni da lui stesso poste;
2) il potere ideologico, che si avvale del possesso di certe forme di sapere, conoscenze, dottrine
filosofiche o religiose per esercitare un’azione di influenza sulla popolazione. Tradizionalmente
detenuto da sacerdoti, scienziati e ad oggi da coloro che operano nei mezzi di comunicazione;
3) il potere politico, che si avvale, seppure in ultima istanza, dell’uso della forza, della coercizione
fisica per imporre la propria volontà.
Nelle società antiche non esistevano nette demarcazioni tra le tre specie di potere sociale, che spesso si
cumulavano in capo ai medesimi soggetti.
Solo con l’era moderna si realizza un processo di affermazione dell’autonomia del potere politico,
così da impedire che soggetti privati utilizzino la forza per prevaricare sugli altri: per assicurare la
pacifica coesistenza tra individui e tra gruppi di una determinata società.
Lo Stato, che incarna la figura tipica di potere politico, per far rispettare le sue leggi può ricorrere ai suoi
apparati repressivi: il potere politico è quella specie di potere sociale che permette a chi lo detiene di
imporre la propria volontà ricorrendo alla forza legittima.
La legittimazione
Il potere politico, non si basa solo sulla forza, ma anche su un principio di giustificazione, che si
chiama legittimazione. L’uso della forza è una risorsa estrema e ciò che realmente conta è l’astratta
possibilità del suo impiego.
Il filosofo tedesco Max Weber ha ripartito, in rapporto alle diverse ragioni dell’obbedienza, il potere
legittimo in tre tipologie:
1. il potere tradizionale: basato sulla credenza del fondamento sacro delle tradizioni e sulla legittimità
automatica degli organi che le attuano;
2. il potere carismatico: detenuto da chi in forza del suo valore esemplare o eroico ha creato un
ordinamento;
3. potere legale-razionale: poggia sulla credenza nel diritto di comando di coloro che ottengono la
titolarità del potere sulla base di procedure legali ed esercitano il potere medesimo con l’osservanza
dei limiti stabiliti dal diritto. Quest’ultima tipologia è figlia delle rivoluzioni liberali del XVIII secolo
e trova le sue fondamenta in documenti come la Costituzione americana o la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino: è in questo periodo storico che si afferma il principio secondo cui il potere
politico non agisce libero da vincoli giuridici, ma è esso stesso sottoposto al diritto, perché le
regole garantiscono la libertà dei cittadini contro i pericoli dell’abuso da parte di chi detiene il
potere.
Nella nostra cultura il potere politico deve porsi il problema della legittimità: ad esso è riservato il
monopolio della forza, perché serve ad evitare le prevaricazioni dei soggetti più forti a danno
dell’autonomia degli altri soggetti.
La soluzione al problema di una possibile distruzione delle libertà da parte del potere politico, è stato il
costituzionalismo consiste nella sottoposizione del potere politico a limiti giuridici: Stato di diritto è il
nome che viene dato ai sistemi politici in cui questi mezzi vengono effettivamente impiegati.
La democratizzazione delle strutture dello Stato, l’avvento del consenso popolare del XX secolo ha fatto
si che la legittimazione giuridica non fosse più sufficiente il potere politico deve essere legittimato
innanzitutto sulla base del consenso popolare. Da qui sono derivati nuovi problemi e nuovi compiti per
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il diritto costituzionale:
da una parte ha dovuto predisporre i mezzi giuridici e istituzionali affinché il potere politico
derivasse effettivamente dal popolo, ne rispecchiasse le esigenze e le aspirazioni;
dall’altra ha dovuto escogitare nuove tecniche istituzionali attraverso cui scongiurare il pericolo
che il consenso popolare legittimasse una nuova forma di assolutismo: la tirannia della
maggioranza.
Ne è derivata anche la spinta alla costruzione di organi sovranazionali, di cui la più importante è l’Unione
europea, cui vengono demandate certe funzioni che in origine appartenevano agli Stati, soprattutto per
quanto riguarda la regolamentazione dell’economia. A questo, si affianca una spinta in direzione inversa,
cioè quella al trasferimento di importanti compiti dello Stato a livelli territoriali inferiori (Regioni e
Comuni).
Lo Stato può essere definito come una particolare forma storica di organizzazione del potere
politico, che esercita il monopolio della forza legittima in un determinato e stabilito territorio e si
avvale di un apparato amministrativo.
Lo Stato moderno che nasce in Europa tra XV e XVII secolo si differenzia dai modelli precedenti per due
principali caratteristiche:
a) la concentrazione del potere legittimo in un determinato territorio in capo ad un’unica autorità;
b) l’esistenza di un’organizzazione amministrativa gestita da burocrazia professionale.
Il vocabolo Stato è relativamente recente: i Romani utilizzavano altre espressioni come civitas o res
publica, mentre la parola status indicava la condizione di un soggetto, il suo modo d’essere: la fortuna
del significato moderno di Stato si deve soprattutto al prestigio dell’opera di Machiavelli, Il Principe
(1513).
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La sovranità
Lo Stato moderno è un apparato centralizzato stabile che ha il monopolio della forza legittima in un
dato territorio: il concetto giuridico che inquadra questa nuova caratteristica è quello di sovranità.
La sovranità ha due aspetti principali: uno interno e uno esterno.
- La sovranità interna consiste nel supremo potere di comando in un territorio spazialmente definito,
tanto intenso da non riconoscerne altri al di sopra di esso;
- la sovranità esterna, invece, consiste nell’indipendenza dello Stato da qualsiasi altro Stato.
Come si può osservare i due aspetti sono interdipendenti. Il principale teorico di questo processo è stato il
filosofo Thomas Hobbes, che ha contrapposto alla raffigurazione di un’iniziale ‘stato di natura’,
caratterizzato da individui pronti a distruggersi reciprocamente, un insieme di atti contrattuali con cui i
singoli individui trasferiscono tutta la loro forza ad una ‘persona comune’, che è lo Stato: quest’ultimo
ha il monopolio dell’uso della forza che gli è stata trasferita da individui isolati e terrorizzati, spinti
dalla necessità di uscire dallo stato di natura.
Chi esercita effettivamente il potere sovrano? Il campo è stato conteso da tre teorie:
- teoria della sovranità della persona giuridica dello Stato: sono soprattutto i giuristi tedeschi e
italiani, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento a configurare lo Stato come persona
giuridica, cioè come vero e proprio soggetto di diritto, titolare della sovranità. Questa tesi da una parte
serviva a dare legittimazione oggettiva allo Stato, e quindi era utile al rafforzamento di ancora deboli
identità nazionali; d’altra parte poteva risolvere il conflitto tra il principio monarchico e il principio
popolare. Secondo l’interpretazione prevalente dello Statuto Albertino, sovrano non era né il re né il
popolo, bensì lo Stato medesimo personificato;
- teoria della sovranità della nazione: la sovranità nazionale è stata una delle invenzioni più
importanti del costituzionalismo francese dopo la rivoluzione del 1789. Con l’ordine politico nato
dalla rivoluzione francese cessa l’identificazione, propria dell’Ancien Regime, dello Stato con la
persona del Re, al cui posto viene collocata l’entità collettiva ‘Nazione’, a cui si appartiene perché
accomunati da valori, ideali, legami di sangue e tradizioni comuni. La sovranità nazionale sorge con
due precise funzioni:
• da un lato, era diretta contro la sovranità del Re;
• d’altro lato, la Nazione era una collettività omogenea che metteva fine all’antica
divisione del Paese in ordini e ceti sociali. Al loro posto subentravano i singoli
cittadini eguali, unificati politicamente nell’entità collettiva chiamata Nazione;
- teoria della sovranità popolare: entrambe le teorie richiamate hanno tentato di contrastare
l’affermazione di un altro principio, quello della sovranità popolare. La sua formulazione più nota si
deve a Rousseau, il quale faceva coincidere la sovranità con la ‘volontà generale’, che a sua volta era
identificata con la volontà del popolo sovrano, ossia dell’insieme dei cittadini considerati come un
ente collettivo.
Tuttavia c’è almeno un elemento che accomuna le diverse teorie sulla sovranità: il rifiuto di qualsiasi
‘legge fondamentale’ capace di vincolare il sovrano, Re o popolo che fosse. Se l’agire dello Stato
poteva essere circoscritto e disciplinato attraverso leggi, si trattava comunque di autolimiti che il sovrano
poneva a sé stesso e che quindi poteva rimuovere a suo piacimento.
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confronti del nuovo potere pubblico europeo: il riconoscimento dei diritti fondamentali nell’ordinamento
europeo è avvenuto per effetto della giurisprudenza della Corte di giustizia e quest’evoluzione è stata
codificata dall’art. 6 del Trattato dell’Unione, firmato a Maastricht.
Quindi, poi, si è sviluppato un ampio dibattito sull’opportunità di tradurre i diritti di origine
giurisprudenziale in diritti proclamati in un documento di natura costituzionale: il primo risultato di
questo dibattito è stata la proclamazione, in occasione del Consiglio europeo riunito a Nizza nel 2000, del
Carta dei diritti dell’Unione Europea e alla fine il Trattato di Lisbona le ha conferito piena efficacia
giuridica.
Il territorio
La sovranità è esercitata dallo Stato innanzitutto su un determinato territorio: secondo la concezione
tradizionale, la sovranità implica che lo Stato eserciti il supremo potere di comando in un determinato
ambito spaziale, in modo indipendente da qualsiasi altro Stato. Una precisa delimitazione territoriale è
quindi condizione essenziale per l’esercizio della sovranità e per assicurare agli Stati
l’indipendenza reciproca.
Per convenzione il territorio statale è costituito da: terraferma, acque interne comprese entro i confini,
piattaforma continentale, spazio atmosferico sovrastante, da navi e aeromobili battenti bandiera dello
Stato quando si trovano in spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato, dalle sedi delle
rappresentanze statali all’estero.
- terraferma: porzione territoriale delimitata dai confini, che possono essere naturali o artificiali. Di
regola i confini sono delimitati da Trattati internazionali;
- mare territoriale: fascia di mare costiero interamente sottoposto alla sovranità dello Stato.
Tradizionalmente si estendeva 3 miglia oltre la costa (gittata dei cannoni), mentre ad oggi si estende fino a 12
miglia dalla costa, come decretato dopo la convenzione internazionale di Montego Bay (Giamaica): questa
regola non è accettata da tutti gli Stati, alcuni dei quali rivendicano una maggiore estensione;
- piattaforma continentale: è costituita dal c.d. zoccolo continentale, cioè da quella parte del fondo
marino di profondità costante che circonda le terre emerse prima che la costa sprofondi negli abissi
marini. Per convenzione gli Stati rivendicano ogni risorsa estraibile dallo zoccolo continentale, a patto che sia
assicurata la libertà delle acque.
La dottrina giuridica ha sempre ribadito come il territorio sia coessenziale allo Stato, ma ad oggi lo Stato
ha perduto il controllo di alcuni fattori presenti sul suo territorio e, di conseguenza, il rapporto intenso che
aveva col territorio stesso. In riferimento al mercato unico europeo, all’attuazione piena della libera
circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e delle persone tra gli stati dell’UE, lo Stato ha perso la
capacità ed il potere di trattenere al suo interno importanti fattori produttivi come i capitali e di
scongiurare l’ingresso di beni prodotti in altri paesi.
L’indebolimento del controllo che lo Stato esercita sul proprio territorio è da collegare soprattutto
all’affermazione della globalizzazione, cioè la creazione di un mercato mondiale in cui i fattori
produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all’altro. Alla base della globalizzazione
dell’economia stanno diversi fattori:
a) il progresso tecnologico nel campo dei trasporti e delle comunicazioni;
b) la smaterializzazione delle ricchezze tradizionali, attraverso la c.d. finanziarizzazione dell’economia;
c) lo sviluppo dell’informatica e la creazione delle reti telematiche;
d) l’accresciuta importanza strategica ed economica di altri ‘beni immateriali’, come la conoscenza e
l’informazione;
e) lo sviluppo di sistemi produttivi flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente da un
luogo ad un altro o di allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali diverse.
Dalla globalizzazione dell’economia derivano numerose conseguenze:
- il capitale finanziario si sposta da un luogo ad un altro, e perciò da uno Stato ad un altro, alla
ricerca del luogo più conveniente in cui posizionarsi, sfuggendo quasi integralmente al controllo dei
poteri pubblici;
- in secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese al di fuori
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dei loro confini, ma che hanno effetti considerevoli all’interno del territorio dello Stato.
- In questo modo si realizza una competizione tra Stati per attrarre imprese e capitali e quindi per
aumentare la ricchezza che esiste e si produce nel territorio; gli Stati si trovano davanti ad una
alternativa secca: o chiudere le proprie frontiere agli scambi con l’esterno, oppure garantire la piena
libertà di movimento a capitali, servizi, accettando così di conformarsi alla logica del mercato e alla
competizione tra aree territoriali.
Ma l’adesione alla seconda alternativa comporta una certa riduzione dell’area delle scelte politiche
consentite allo Stato: lo Stato, quindi, è formalmente libero di adottare gli indirizzi politici che
ritiene opportuni, ma sostanzialmente è costretto a sottostare al giudizio del mercato e a seguire gli
indirizzi politici compatibili con le esigenze della competizione internazionale.
La cittadinanza
La cittadinanza è uno status cui la Costituzione riconosce diritti e doveri. Essa è anzitutto condizione
per l’esercizio dei diritti connessi alla sovranità popolare ma anche fondamento di doveri costituzionali.
La Costituzione stabilisce altresì che nessuno possa essere privato della cittadinanza per motivi politici
(art. 22); i metodi di costituzione, revoca ed acquisto della cittadinanza sono disciplinati dalla legge (l.
91/1992 e relativo regolamento di esecuzione, modificati restrittivamente dalle l. 94/2009).
La cittadinanza italiana viene acquistata:
a) con la nascita per:
- ius sanguinis, ossia acquista la cittadinanza il figlio, anche adottivo, di padre o madre in possesso
della cittadinanza italiana, qualunque sia il luogo di nascita;
- ius soli, ossia acquista la cittadinanza colui che è nato in Italia da genitori ignoti o apolidi, o che, nato
in Italia da cittadini stranieri, non ottenga la cittadinanza dei genitori sulla base delle leggi degli Stati
cui questi appartengono;
b) lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al
raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se entro un anno dichiara di voler acquistare la
cittadinanza italiana;
c) su istanza dell’interessato, rivolta al sindaco del Comune di residenza o all’autorità consolare, in
particolare: 1) dal coniuge, straniero o apolide, di un cittadino o di una cittadina italiana qualora
ricorrano determinate condizioni; 2) dallo straniero che possa vantare un genitore o un ascendente in
linea retta di secondo grado che sia cittadino italiano per nascita; 3) dallo straniero, che abbia
raggiunto la maggiore età, adottato da cittadino italiano e residente da almeno cinque anni successivi
all’adozione; 4) dallo straniero che ha prestato servizio per 5 anni alle dipendenze dello Stato; 5) dal
cittadino di uno degli Stati membri dell’Ue, dopo almeno quattro anni di residenze nel territorio della
Repubblica; 6) dall’apolide dopo almeno cinque anni di residenza; 7) dallo straniero, dopo almeno
dieci anni di regolare residenza in Italia.
La cittadinanza europea
Con l’integrazione europea cessa il rapporto esclusivo fra Stato e cittadini. In particolare, a seguito del
Trattato di Maastricht del 1992 si è introdotto il concetto di cittadinanza europea: presupposto per
l’acquisizione di tale cittadinanza è il possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri.
La cittadinanza dell’unione ‘integra la cittadinanza nazionale e non la sostituisce’: il cittadino
dell’Unione, oltre a poter agire in giudizio davanti ad organi di giustizia dell’Unione, può agire contro lo
Stato di appartenenza per far valere i propri diritti in forza della cittadinanza comunitaria.
Al cittadino comunitario è consentita la libertà di circolazione nel territorio degli Stati membri, la
possibilità di godere della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato
membro al pari dei cittadini di quello Stato. In Italia, sulla base di quanto previsto di quanto previsto da
una direttiva comunitaria, è stato adottato il d.lgs. 197/1996 che definisce le modalità di esercizio
dell’elettorato attivo e passivo in relazione alle elezioni comunali.
I cittadini dell’Ue che intendano partecipare alle elezioni per il rinnovo degli organi comunali e
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circoscrizionali, devono chiedere l’iscrizione ad un’apposita lista elettorale: l’iscrizione consente
anche l’eleggibilità a consigliere comunale (non a sindaco) e la nomina a componente di giunta (ma non a
quella di vice-sindaco). L’Unione, infine, si impegna a rispettare i diritti fondamentali quali sono sanciti
nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino e quali risultano dalle
‘tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario’.
Il sistema è completato da un apparato di garanzie: ogni persona può adire la Corte di Giustizia con
riguardo ad atti delle istituzioni comunitarie che considera contrari ai diritti fondamentali.
La distinzione fra cittadini e stranieri è in crisi. Agli effetti della cittadinanza comunitaria si
aggiungono quelli derivanti dai flussi migratori, dall’utilizzo di stranieri in attività economiche, dallo
stabilirsi di intere famiglie provenienti dall’estero nel territorio nazionale che fanno subentrare un’altra
divisione basata sulla nozione generale di ‘residente’. In questa sfera alcuni diritti vengono riconosciuti
anche agli stranieri, a patto che siano appunto residenti nel territorio nazionale: si fornisce, così, una
risposta ai problemi sollevati dalla società multiculturale. Al fine di una coesistenza pacifica si è
ritenuto di dover garantire il mantenimento delle rispettive identità culturali piuttosto che
l’assimilazione della cultura comune ai cittadini dello Stato d’accoglienza: si garantisce, quindi,
l’esistenza di identità particolari regolate dal principio di tolleranza e a patto che esse non pretendano di
imporsi sulle altre preesistenti.
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del giugno 1788.
Altro fattore importante fattore che ha promosso l’organizzazione del potere politico tipica dello Stato
liberale è stato l’avvento di un’economia di mercato prevalentemente a carattere capitalista. L’economia
di mercato è basata su un principio di domanda e offerta tra acquirente e venditore. L’uno punta ad
acquistare alla cifra più bassa, l’altro a vendere alla cifra più alta. La transazione si risolve e fa comparire
un prezzo: l’equilibrio di mercato è risultante di milioni di contratti conclusi tra singoli individui.
L’economia si è storicamente accoppiata al modo produttivo capitalistico, basato sulla distinzione tra
soggetti proprietari e soggetti non proprietari che vendono ai primi la loro forza lavoro, affinchè essa
possa essere impiegata nel ciclo produttivo, diretto a creare profitti per l’imprenditore. Lo Stato assoluto
ostacolava questa nuova economia: va sottolineato l’aspetto del particolarismo giuridico, che consiste
nella disuguaglianze e tendenziale assenza di unitarietà e coerenza delle leggi vigenti all’interno di
ciascuno Stato. Di contro, l’economia di mercato e capitalistica presupponeva, sul terreno giuridico, la
certezza dei diritti di proprietà dei venditori e dei compratori, la piena libertà contrattuale, l’eguaglianza
formale dei contraenti, l’abolizione dei privilegi dei monopoli pubblici e di tutte le restrizioni alla libera
circolazione delle merci, la prevedibilità degli effetti giuridici delle azioni necessaria per effettuare il
calcolo economico. Le nuove modalità di produzione della ricchezza e l’esigenza di garanzia della libertà
contro le tentazioni assolutistiche, favorirono l’affermarsi di una società civile distinta dallo Stato. Ma,
mentre lo Stato assoluto rendeva la società civile oggetto di gestione politica, lo Stato liberale assegnava
a questa capacità di autoregolarsi e di sviluppare autonomamente i propri interessi.
In questa prospettiva si collocano le due tendenze tipiche dello Stato liberale:
1. le codificazioni costituzionali, ovvero la tendenza a consolidare in un unico documento i principi
sulla titolarità e sull’esercizio del potere politico.
2. le codificazioni civili, ovvero la tendenza a formare un corpo sistematico di regole che
disciplinassero i rapporti fra privati dotate di requisiti di generalità ( perché riferibili a tutti gli
individui resi uguali di fronte alla legge), astrattezza (perché soggette a numerose applicazioni
nel tempo) e certezza (perché erano raccolte in un corpo normativo unitario e prevedibili nei loro
effetti).
Il modello di questo nuovo modo di legiferare era il Codice napoleonico del 1804, sulla cui falsariga
vennero elaborati gran parte dei codici europei.
I caratteri dello Stato liberale
Occorre prendere in considerazione, quindi, i tratti caratterizzanti di questa forma di stato, ma anche il
fatto che ciascuna esperienza storica è molto più articolata e complessa del modello e presenta i suoi tratti
peculiari non presenti nel modello stesso, che è sempre frutto di un’astrazione. Il modello ‘Stato liberale’
è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali:
a) da una finalità politico costituzionale garantista. Lo Stato è considerato lo strumento di tutela
delle libertà e dei diritti degli individui, in primo luogo del diritto di proprietà (John Locke
afferma che gli uomini nascono liberi ma poi si assoggettano al potere per avere assicurata la
tutela del diritto di proprietà). Si afferma il principio secondo cui la finalità principale dello Stato
è quella di garantire i diritti ed in modo strumentale rispetto a tale finalità garantistica deve
strutturarsi l’organizzazione costituzionale (attraverso il principio della separazione dei poteri);
b) da una concezione dello Stato minimo. È uno Stato che si astiene dall’intervenire nella sfera
economica, affidata alle relazione ed alle autoregolazione dei soggetti privati: nei suoi
programmi rientrano, quindi, un basso livello di tassazione ed il pareggio di bilancio;
c) dal principio di libertà individuale. Lo Stato riconosce e tutela la libertà personale, la proprietà
privata, la libertà contrattuale, la libertà di pensiero e di stampa, la libertà religiosa, la libertà di
domicilio, ma si tratta di libertà riferite all’individuo: si esclude ogni diaframma tra lo Stato ed i
singoli cittadini, definendo un sistema giuridico che presuppone una società formata da individui
eguali di fronte alla legge;
d) dalla separazione dei poteri. Il potere politico viene suddiviso tra soggetti istituzionali diversi,
che si controllano reciprocamente;
e) dal principio di legalità. La tutela dei diritti è affidata inoltre alla legge; la sua caratterizzazione
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come Stato di diritto significa che ogni limitazione della sfera di libertà riconosciuta a ciascun
individuo deve avvenire per mezzo della legge e quindi, tutta l’attività dei pubblici poteri deve
fondarsi sulla previa autorizzazione della legge. Questa funzione garantistica della legge si basa
su due premesse: 1) la legge deve avere i caratteri di generalità e astrattezza, dettando modelli
validi per tutti a prescindere dal caso concreto; 2) il secondo presupposto è che la legge sia
formata dai rappresentanti della Nazione ai cui membri essa di applica, e quindi provenga da
soggetti che condividano le finalità di tutela di libertà e del diritto di proprietà: lo Stato liberale si
basa sul principio rappresentativo;
f) dal principio rappresentativo. Le assemblee legislative dello Stato liberale rappresentano l'intera
nazione o l'intero popolo, come entità complessiva. Pertanto, i singoli parlamentari devono agire
liberi da mandati vincolanti da parte del rispettivo collegio elettorale (divieto di mandato
imperativo); ma comunque i rappresentanti vengono eletti da un corpo elettorale assai ristretto,
essenzialmente circoscritto alla classe borghese: di conseguenza vi è un omogeneità sociale tra i
rappresentanti, autori della legge, ed i soggetti cui la legge si applica. Tale omogeneità
costituisce la principale garanzia che la legge abbia effettivamente contenuti tali da renderla
garanzia della proprietà e delle altre libertà individuali.
Tale caratteristica è molto importante: la legislazione elettorale di questa forma di stato attribuisce il
diritto di voto solamente a cittadini ritenuti ‘capaci’ e ‘affidabili’, e in quanto tali realmente interessati
alla gestione della cosa pubblica. Il diritto di voto è quindi circoscritto a chi abbia un adeguato livello di
istruzione e di reddito. Quindi, lo Stato liberale ha una base sociale ristretta, tendenzialmente coincidente
con la classe borghese e pertanto viene qualificato come Stato monoclasse.
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accomunati da estrazione sociale e culturale, ricercavano il modo migliore per soddisfare l’interesse
comune, a luoghi di confronto tra partiti, che finiscono perciò col controllare direttamente l’azione del
Parlamento e del Governo. Tali trasformazioni sono divenute particolarmente evidenti soprattutto dopo la
prima guerra mondiale, allorchè i partiti di massa hanno avuto una considerevole crescita a scapito delle
tradizionali forze politiche liberali: in alcuni Paesi, come il Regno Unito, il passaggio dalle istituzioni
liberali a quelle democratiche non ha impedito di avere Governi saldi e autorevoli. La comune
accettazione dei valori della democrazia pluralistica hanno impedito che il partito uscito vittorioso dalle
urne utilizzasse il potere ottenuto per eliminare l’altro.
Crisi delle democrazia e nascita dello Stato totalitario
In altri paesi come la Germania e l'Italia, l'affermazione dei nuovi partiti di massa non si è accompagnata
alla comune accettazione di una democrazia pluralista da parte dei principali partiti politici; ciò portò alla
crisi delle istituzioni liberali e vi fu l'identificazione del partito unico con lo Stato: è lo Stato totalitario.
In Italia, la frammentazione politica della giovane democrazia di massa, la prevalenza di forze che non
accettavano pienamente i valori della nuova democrazia pluralista e l’arroccamento delle forze
economiche che temevano gli effetti del suffragio universale determinarono una forte instabilità, insieme
al deficit di legittimazione delle istituzioni costituzionali, innescando una crisi gravissima che culminò
con l’avvento dello Stato fascista. Il Re nominò Presidente del Consiglio Benito Mussolini quando, a
seguito della riforma elettorale del 1919, che aveva instaurato un modello proporzionale, non si riusciva a
trovare una maggioranza stabile e a raggiungere la governabilità. La rottura con la democrazia e
l’instaurazione dello Stato autoritario si verificarono solo nei due anni successivi, attraverso alcuni
passaggi. Lo Stato fascista ha operato in Italia dal 1922 al 1943, ed è stato organizzato in
contrapposizione al modello liberale ed a quello di democrazia pluralista, accusati di non essere in grado
di difendere gli interessi nazionali a causa della frammentazione del potere politico. Lo Stato fascista
concentrava il potere politico in un unico organo, che assommava la funzione legislativa e quella
esecutiva, e cioè il Capo del Governo. Lo Stato assumeva l'attributo della totalitarietà, nel senso che si
riteneva che la collettività nazionale si integrava in modo totale nello Stato; in tutto questo vi fu la
soppressione delle tradizionali libertà liberali.
La Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale, rimosse l’imperatore e diede vita ad una
Repubblica, basata sulla Costituzione di Weimar del 1919, con la quale si tentava una profonda
democratizzazione delle strutture dello Stato: la Repubblica potè godere di una relativa stabilità fino alla
profonda crisi economica del 1929, quando si realizzò una profonda crisi della governabilità del Paese.
I Governi che si succedevano erano privi di maggioranza politica e si basavano esclusivamente
sull’appoggio del Capo dello Stato: è in questo contesto, caratterizzato dalla mancanza di attaccamento
agli istituti democratici, da un forte conflitto ideologico e da instabilità politica, che ha potuto avere
fortuna il partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. La dottrina elaborata da quest’ultimo portò alla
formazione dello Stato nazionalsocialista, operante dal 1933 al 1945. Esso si basava sull'idea secondo cui
lo Stato doveva essere uno degli strumenti dei quali si avvaleva, per la realizzazione dei suoi fini, l'unico
movimento ammesso, ovvero quello nazionalsocialista. Il Capo del movimento era vertice dello Stato, del
Governo e delle forze armate, concentrando in sé il potere costituente, quello di revisione costituzionale,
quello legislativo, quello esecutivo e quello giurisdizionale. Perciò il movimento era sovraordinato allo
Stato e il soggetto posto alla guida del movimento era considerato in posizione di supremazia.
Un'altra alternativa alla democrazia pluralista è lo Stato socialista: il riferimento storico di questa forma
di stato è dato dall'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) e affonda le sue radici nella
dottrina marxista-leninista. Questa forma di stato trova origine nella c.d. dittatura del proletariato, con la
quale si sarebbe dovuta emarginare la classe antagonista, e cioè la borghesia, in vista del futuro
superamento del potere statale e dell'avvento di una società senza classi e senza conflitti sociali. Questo
modello si reggeva sull'abolizione della proprietà privata e sull'attribuzione alla Stato del dominio di tutti
i mezzi di produzione; si realizzò, infatti, l'abolizione del mercato a favore di un'economia collettivistica.
Alla fine degli anni '80 del XX secolo, gli Stati socialisti sono entrati in una crisi profonda che è
culminata con l'evento simbolico del crollo del Muro di Berlino. Si sono dissolti stati multinazionali con
l'URSS e la Jugoslavia, da cui sono nati nuovi Stati che adottano Costituzioni basate su principi di
democrazia pluralista.
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Consolidamento della democrazia pluralista e affermazione dello Stato sociale
I principi dello Stato di democrazia pluralista hanno trovato conferma al termine del secondo conflitto
mondiale in tutte le aree di influenza politica e culturale delle potenze alleate diverse dall’URSS.
In alcuni casi è stato ripreso un processo di sviluppo costituzionale interrotto dalle parentesi totalitarie
(Italia), in altri sono stati ripresi concetti liberali e democratici sacrificati dall’occupazione straniera
(Francia, Belgio, Olanda, ecc.), altri ancora hanno subito l’imposizione di questo modello dalle potenze
vincitrici (Germania, Giappone). Solo Spagna e Portogallo sono rimasti nell’area dello Stato autoritario
prebellico fino agli anni ’70, quando si sono dati degli ordinamenti democratici; mentre la Grecia ha
avuto un temporaneo ritorno allo Stato autoritario nel periodo 1967-1974.
La fase costituzionale, in tutti casi, vede garantite insieme alle tradizionali ‘libertà negative’ tipiche delle
concezioni liberali (libertà personale, di domicilio, religiosa, di pensiero, ecc.), anche le diverse
manifestazioni del pluralismo politico, sociale, religioso e culturale (riconosciuto ruolo costituzionale dei
partiti politici).
Nella Costituzione Italiana:
art. 49: ‘tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale’: garanzia del pluralismo dei partiti;
art. 39: garanzia del pluralismo dei sindacati;
art. 8: garanzia del pluralismo delle confessioni religiose;
art. 33: garanzia del pluralismo delle scuole e culturale;
art. 18: garanzia del pluralismo sociale. Riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente,
per perseguire qualsiasi fine, salvo quelli vietati ai singoli dal codice penale.
Si assiste ad un generale riconoscimento dei diritti sociali (la tutela della salute, del lavoro,
dell’istruzione, ecc.), che comportano la pretesa a prestazioni positive dei poteri pubblici da parte dei
cittadini più svantaggiati. Affinchè questi diritti siano tutelati, gli Stati devono operare attivamente nella
società e nell’economia, col fine di ridurre le diseguaglianze materiali tra individui derivanti dalle
diversità di distribuzione del reddito e delle opportunità di vita. Gli ordinamenti democratici sono
sottoposti al rischio di perdere il consenso delle classi economicamente svantaggiate, che non possono
effettivamente godere delle libertà liberali. Gli Stati di democrazia pluralista sono perciò sorti in contesti
sociali e politici caratterizzati dalla lotta di classe, cui hanno cercato di dare uno sbocco pacifico
attraverso un compromesso politico che sta alla base delle loro Costituzioni e delle loro pratiche. Il
problema principale che si è posto alle democrazie pluraliste è quello della ‘coesione sociale’,
raggiungibile solo attraverso il compromesso politico che, da un lato, garantisce l’economia di mercato e
i diritti su cui essa si fonda; dall’altro limita ed interviene attivamente al fine di correggere le
disuguaglianze inevitabili attraverso interventi pubblici.
Ne deriva un ruolo statale profondamente diverso da quello dello Stato liberale: il cosiddetto Stato sociale
o Welfare State. Lo Stato liberale concedeva e garantiva i mezzi per l’affermazione dell’individuo: su
questa affermazione di reggevano i meccanismi di mercato; lo Stato sociale, viceversa, interviene nella
distribuzione dei benefici compensando quegli esiti che derivano dal semplice operare di rapporti
economici nel mercato. In questo modo lo Stato supera l’individualismo e sviluppa forme di solidarietà
sociale: lo Stato di democrazia pluralista ha visto lo sviluppo di forme variegate di intervento pubblico
nell’economia e nella società, che danno luogo ad un’economia mista.
Sono prevalse diverse forme di interventismo statale in campo economico-sociale, riconducibili
principalmente al governo del ciclo economico e all’intento di ridurre le disuguaglianze di reddito tra
individui. Nel primo caso si sono sviluppate politiche keynesiane dirette a contrastare le fasi della crisi
economica attraverso la crescita della spesa pubblica, con l’intento di mantenere alta la domanda interna e
quindi di garantire uno sbocco ai prodotti delle imprese. Contrastando gli effetti negativi del ciclo
economico attraverso la spesa pubblica in investimenti, lo Stato dovrebbe evitare la disoccupazione,
garantendo un lavoro e un reddito alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini. Nel secondo caso si
sono sviluppate politiche di tipo regolativo, atte appunto a disciplinare i comportamenti di determinate
categorie per mezzo di leggi, e politiche di tipo redistributivo, che distribuiscono risorse finanziarie da
determinate categorie di soggetti in favore di altri. Il mercato, in definitiva, viene riconosciuto e tutelato,
ma lo Stato realizza forme di compensazione per modificare certi risultati prodotti dal mercato, e quindi
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ridurre iniquità e rischi, oppure interviene nel mercato correggendone certe dinamiche.
La Costituzione Italiana non usa espressamente il termine ‘Stato Sociale’, ma delinea comunque uno
Stato che interviene attivamente nella sfera economica correggendo il mercato e compensando alle
disuguaglianze derivanti dalla sola logica economica dello scambio.
La Costituzione Italiana è un chiaro esempio di compromesso sul quale si è costituito lo Stato Sociale. Da
un lato riconosce e garantisce la proprietà privata e la successione legittima e testamentaria (art. 42), il
risparmio privato e la libertà di iniziativa (artt. 47 e 41) e l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di
fronte alla legge (art. 3.1).
Dall’altro prevede l’esistenza di doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2) e riconosce che
è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di qualsiasi ordine che limitino la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini (art. 3.2), garantire a tutti il diritto di lavoro e rendere effettivo questo diritto
(art. 4).
Omogeneità e differenze tra gli Stati di democrazia pluralista
La sufficiente omogeneità degli ordinamenti che nella seconda metà del novecento hanno dato vita
all’insieme delle c.d. democrazie occidentali, permette di elaborare il modello ‘Stato di democrazia
pluralista’: ma tutto ciò non deve fare sottovalutare come tra gli Stati riconducibili al modello, insieme a
tante affinità e a principi sostanzialmente uniformi, permangano alcune differenze. Una delle principali
riguarda quella relativa al ruolo ed ai caratteri dei partiti politici. Mentre in Europa l’esperienza
costituzionale è rimasta contrassegnata dal fondamentale ruolo dei partiti politici, per quanto riguarda gli
Stati Uniti, essi solo inizialmente sono stati una complessa organizzazione in grado di realizzare la
mobilitazione dell’elettorato di massa e di riuscire così a dirigere l’azione dello Stato. Successivamente i
partiti americani si sono trasformati in ‘macchine elettorali’ al servizio del candidato, privi di precisa
identità ideologica e di significative differenze programmatiche. La loro attività si concentra nelle
campagne elettorali e così dopo le elezioni essi perdono gran parte del loro ruolo e non sono in grado di
controllare le attività degli eletti, con conseguente fluidità delle maggioranze parlamentari. Lo sviluppo
politico-istituzionale americano ha visto, quindi il graduale rafforzamento della Presidenza che ha
acquisito canali autonomi rispetto ai partiti. Ciò nonostante, non si è determinato un venir meno del
pluralismo sociale, che anzi conosce, nell’esperienza americana, la sua massima esaltazione: vi è una
diversa formazione del pluralismo, fatto da associazioni con finalità particolari, chiese e gruppi di
promozione di interessi specifici.
Altra importante differenza è quella relativa all’omogeneità o all’eterogeneità della cultura politica: in
alcuni Paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, c’è stata un’evoluzione storica che ha portato a condividere
i principi fondamentali della democrazia pluralista; in altri, invece, per ragioni etniche, linguistiche,
religiose e ideologiche, la società è rimasta divisa in settori non comunicanti fra loro. Nei primi il
conflitto politico attiene principalmente alle modalità di ripartizione del reddito nazionale tra individui e
gruppi, che accettano il tipo di società e di regime politico ed economico che vivono; nei secondi, invece,
quando prevalgono le divisioni ideologiche, esistono seri presupposti per un’esplosione violenta del
conflitto e quindi le istituzioni costituzionali devono operare in modo tale da attenuare le differenze e
favorire la coesistenza pacifica della diversità.
Una terza differenza riguarda le modalità di intervento dello Stato nell’economia e nella società: in alcuni
Paesi quest’intervento si è attuato a livelli moderati, mantenendo una ‘dominanza privatistica’ nei
rapporti economici e sociali (USA, Svizzera, Giappone); in altri Paesi hanno avuto una ‘dominanza
pubblicistica’ nell’economia per il prevalere di finalità sociali. Ma a partire dagli anni ’90 del XX secolo,
queste differenze si sono attenuate dato il prevalere di un’economia di mercato concorrenziale e la
privatizzazione delle imprese pubbliche.
A seguito della crisi dello Stato Socialista si è sviluppata una nuova ondata di democratizzazione che
investe ampie zone del pianeta, causando il diffondersi di principi propri delle Costituzioni liberali anche
in gran parte dei Paesi precedentemente retti da sistemi socialisti e nelle zone dell’Africa e dell’Asia.
È tuttavia improprio parlare di trionfo del trionfo del modello costituzionale della democrazia pluralista.
A questo riguardo si considerano tre circostanze: alcuni Paesi (Cina, Corea del Nord, Cuba) hanno
mantenuto il modello di Stato Socialista seppure con notevoli aperture in fatto di riconoscimento della
proprietà privata, di settori privati dell’economia e di apertura al mercato globale. Alcuni Paesi ex-
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socialisti portano comunque uno strascico del vecchio assetto costituzionale: ciò si spiega nel fatto che
questi Paesi non hanno conosciuto una fase precedente di tipo pluralista e di tipo liberale. È il caso della
maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est che avevano subito dei regimi autoritari e che hanno ricevuto
in eredità talvolta il riemerge di tendenze nazionalistiche estremiste.
Ciò è particolarmente marcato quando si afferma la coincidenza dello Stato con il gruppo etnico
maggioritario, con consecutiva soppressione del pluralismo. La tendenza prevalente è quella
dell’affermazione generalizzata di strutture autoritarie e di forte limitazione del pluralismo e della libertà:
i principi della libertà di mercato, della democrazia pluralistica e del costituzionalismo liberale trovano
applicazione relativamente ristretta, in un numero limitato di ordinamenti concentrati principalmente in
Europa e in America.
Lo Stato di democrazia pluralista tra società post-classista e globalizzazione
Come si è visto, lo Stato di democrazia pluralista ha subito notevoli trasformazioni in risposta alle
imponenti evoluzioni sociali degli ultimi secoli. In modo particolarmente sintetico si possono riassumere
questi cambiamenti con le espressioni: 1) società post-classica, 2) crisi fiscale, 3) globalizzazione e 4)
integrazione europea.
La base materiale dello Stato di democrazia pluralista è, in origine, una società divisa in classi ben
individuate. Sulla divisione e sulla contrapposizione classista si fondavano i partiti, che traducevano
questa tendenza in ambito politico, fornendo un’identità collettiva agli individui che aderivano al partito.
A partire dagli ultimi decenni del XX secolo, la società ha conosciuto un considerevole aumento della sua
complessità, spinto soprattutto dal mutamento dei metodi di produzione, dallo sviluppo tecnologico e
dalla globalizzazione. Entra in crisi l’identità collettiva: la società è troppo variegata per fornire il
riconoscimento necessario all’aggregazione di numeri considerevoli di individui; inoltre, aumentano gli
interessi e l’appartenenza di classe non ha più valore. Alla fine, i singoli gruppi sociali iniziano a chiedere
risposte particolari e provvedimenti favorevoli ai loro interessi agli organi costituzionali: lo Stato, più che
ridistribuire la ricchezza, si limita a distribuire risorse tra i vari gruppi cedendo al potere di pressione di
ciascuno di essi. A partire dagli anni ’70 del novecento si è parlato di crisi fiscale dello Stato, in
riferimento alla crescita della spesa pubblica in risposta ai costi delle richieste particolari: in alcuni casi,
questo processo ha determinato una crescita della pressione fiscale con conseguente malcontento diffuso
dai ceti più colpiti. Ne è scaturita una prima spinta al riordino sociale per la riduzione dei costi, alla quel
se n’è aggiunta un’altra, conseguenza della globalizzazione.
Quest’ultima che, come si è visto, permette lo spostamento territoriale relativamente facile di capitali e
attività alla ricerca delle condizioni migliori ai fini dell’investimento; da questa situazione derivano
almeno tre conseguenze importanti ai fini dell’analisi che stiamo svolgendo:
a) lo Stato, per evitare la ‘fuga’ di capitali e imprese non può spingere la pressione fiscale oltre
certi limiti;
b) lo Stato deve cercare di avere una finanza pubblica sana, evitando gli eccessi di liquidità e quindi
l’inflazione, ma anche l’eccessivo indebitamento che sottrae risorse al settore privato. Ciò pone
limiti ingenti alla crescita della spesa pubblica e perciò rende più difficile sia il finanziamento
dei servizi di natura sociale, sia l’attuazione delle politiche keynesiane;
c) le imprese chiedono sempre maggiore flessibilità, ovvero minori vincoli legali sul terreno della
disciplina del rapporto di lavoro e della protezione sociale dei lavoratori.
Tutte queste spinte hanno un’origine e un risultato comune: il mantenimento della competitività del
sistema economico nazionale e la riduzione dei fondi per l’attuazione dello Stato sociale. Con l’avvio
dell’Unione economica e monetaria, poi, gli Stati partecipanti hanno accettato vincoli al rapporto tra il
loro debito pubblico e il PIL e tra il disavanzo ed il PIL: ciò equivale a ridurre la possibilità di crescita
della spesa pubblica, anzi comporta una riduzione della stessa. Lo Stato è costretto a ridurre la spesa
pubblica e a comprimere le prestazioni oggetto dei diritti sociali: essi sono detti “finanziariamente
condizionati” poiché, come afferma la Corte Costituzionale, la loro attuazione è un compromesso del
bilanciamento tra l’interesse da tutelare e gli interessi costituzionali.
Una delle più importanti sfide che viene posta allo Stato, in particolare nei Paesi occidentali, è la crisi del
debito sovrano. Prima dell’affermazione della globalizzazione economica, l’economia nazionale veniva
stimolata con la spesa pubblica (diretta ad aumentare l’occupazione e la domanda interna), finanziata dal
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disavanzo di bilancio (finanziato dal debito pubblico). L’affermazione della globalizzazione, unita alla
prevalenza di politiche orientate a favore del mercato, ha spinto alla contrazione della spesa pubblica e
alla riduzione dell’indebitamento pubblico. Gli obiettivi però sono stati mancati per effetto di fattori
diversi.
Il risultato è che gli stati sono stati costretti ad applicare politiche di forte rigore finanziario, con tagli
della spesa pubblica. Alla fine l’autonomia politica dello Stato ne risulta fortemente compressa: ciò
avviene soprattutto nei Paesi aderenti all’UE, che hanno accettato rigorosi vincoli ai loro bilanci e si sono
sottoposti al controllo delle istituzioni europee.
L’esigenza di maggior rigore finanziario conduce alla ricerca di forze di razionalizzazione e riordino
dello Stato sociale e di nuove modalità di soddisfacimento dei diritti sociali che costino di meno al
bilancio statale. La tendenza è quella di adeguare lo Stato sociale alle esigenze della competitività
internazionale, trasformandolo in Stato sociale competitivo. Tra le strade possibili per razionalizzare lo
Stato sociale, si segnalano:
a) in primo luogo si supera il carattere universalistico di alcuni servizi erogati dallo Stato sociale,
limitandone la tendenziale gratuità solo ai soggetti meno abbienti, mentre gli altri concorrono in
relazione al livello di reddito di cui godono (c.d. ticket);
b) in secondo luogo si fa leva sul senso di responsabilità individuale, per cui si consente la
creazione di fondi di risparmio sussidiari a quelli già garantiti dallo Stato, come i fondi
pensionistici sussidiari o i fondi assicurativi;
c) in terzo luogo si ricorre al principio di sussidiarietà che si sviluppa lungo due direttrici: 1)
decentrare la gestione di alcuni servizi pubblici ad enti locali: essi sono più vicini ai cittadini,
potendo così controllare meglio la qualità dei servizi e i relativi costi (c.d. sussidiarietà
verticale); 2) attribuire alcuni compiti propri dello Stato sociale a formazioni sociali senza scopo
di lucro, appartenenti al cosiddetto ‘terzo settore’, che forniscono le prestazioni con una qualità
migliore ad un costo minore; lo Stato interviene comunque con incentivi (c.d. sussidiarietà
orizzontale); 3) c’è il tentativo di attrarre a livello sovranazionale alcuni compiti propri dello
Stato sociale.
L’idea alla base di quest’ultima tendenza è che, se i limiti all’azione dello Stato sociale derivano dalla
globalizzazione, bisogna trasferire una quota di queste politiche specifiche a realtà politiche più ampie in
grado di contrastare gli effetti della globalizzazione. In questa prospettiva si collocano le norme del
trattato UE che inseriscono tra gli scopi di quest’ultima l’economia sociale di mercato e la coesione
economica e sociale e le innovazioni introdotte dal trattato di Amsterdam nel complesso normativo del
trattato CE.
I caratteri dello Stato di democrazia pluralista
Come si è visto lo Stato di democrazia pluralista copre un vasto spettro di esperienze politico-
costituzionali, ognuna con proprie caratteristiche, e che perciò presentano tra loro differenze anche
notevoli. Volendo riunificare queste esperienze in un modello unitario, che tenga conto soprattutto della
fase più recente, possiamo sintetizzarne i tratti peculiari nel modo seguente:
a) lo Stato di democrazia pluralista si basa sul suffragio universale, la segretezza e la libertà del
voto, le elezioni periodiche e il pluripartitismo. Le Costituzioni degli Stati che adottano questo
modello contengono le più ampie garanzie del pluralismo politico, sociale, economico, religioso,
culturale, ecc. L’insieme di queste garanzie presuppone l’accoglimento del principio di
tolleranza, cioè del principio secondo cui il dissenso non può essere represso, ma garantito.
Questa esigenza ha portato, in alcuni ordinamenti, al divieto di costituire certe organizzazioni
politiche che si pongono ed operano come ‘nemici’ della democrazia (la XII disposizione
transitoria e finale della Costituzione italiana vieta la ricostruzione del partito fascista);
b) il pluralismo costituzionalmente garantito non è solo di idee e di valori, ma è anche pluralismo di
formazioni sociali e di formazioni politiche. Le prime operano per la realizzazione degli interessi
comuni ai loro componenti; le seconde hanno come finalità il controllo del potere politico al fine
di imprimere un determinato indirizzo alla società nella sua interezza. Il pluralismo trova la sua
garanzia nel riconoscimento delle libertà costituzionali di associazione, di formazione di partiti
politici, sindacale, di confessione religiosa, ecc. La differenza principale con lo Stato liberale è
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che in questo caso fra l’individuo e lo Stato si inserisce il diaframma delle formazioni collettive;
c) attraverso il pluralismo dei centri di potere si raggiungono due obiettivi principali: 1) si limita il
potere dello Stato, costretto al confronto con essi; 2) attraverso le formazioni sociali ed i partiti
politici si creano canali di partecipazione diretta e permanente dei cittadini alla vita politica,
sicchè essi sono in grado di esercitare una pressione sugli organi costituzionali per ottenere
provvedimenti che soddisfino le loro esigenze. A questo punto si crea il problema di come
organizzare il pluralismo per evitare che le molteplici pressioni degli interessi ne producano la
paralisi: all’inizio, una risposta è stata data dalla capacità unificante dei partiti di massa, dalla
loro capacità di sintetizzare più interessi inserendoli in un programma organico di azione. Poi,
mano mano che tale capacità unificante è diminuita, su accorgimenti istituzionali che facilitano
la selezione degli interessi, tra cui particolarmente il rafforzamento del ruolo del Governo;
d) l’affermazione del pluralismo supera l’ideologia dell’interesse generale, per approdare ad una
concezione nuova di esistenza di valori differenti. Le costituzioni, specchio di questo fenomeno,
riconoscono e tutelano principi tra loro in conflitto. Tali principi, nell’attuazione concreta,
richiedono forme di contemperamento in ordine alle quali si parla di bilanciamento;
e) tra le conseguenze vi è il fatto che, solamente attraverso il confronto fra le idee e le opinioni
diverse si possa raggiungere una concezione particolare dell’interesse generale, anch’essa
comunque suscettibile di critica e di superamento, a favore di una diversa concezione dello
stesso. Le democrazie pluraliste assicurano la più ampia garanzia alla libertà di manifestazione
del pensiero ed al pluralismo dei mezzi di comunicazione: è anche grazie a queste garanzie che si
forma la sfera pubblica, distinta da quella dei partiti e da quella politico elettorale. Essa, tuttavia,
possiede un forte ascendente sulla politica, poiché forma le idee, le opinioni ed i programmi che
poi alimentano sia le proposte dei partiti, sia la vita del Parlamento.
Conseguentemente alle dinamiche sopra elencate si assiste ad un radicale mutamento dei ruoli del
Parlamento rispetto a quanto avveniva nello Stato liberale: precedentemente il Parlamento era
semplicemente il luogo dove, attraverso la discussione razionale, i parlamentari, liberi da qualsiasi
vincolo con l’elettorato, decidevano come dovesse essere perseguito l’interesse nazionale. Ora invece le
idee e gli indirizzi si formano prevalentemente all’esterno dei Parlamenti e vengono poi trasferiti nella
loro attività. Almeno inizialmente, i partiti mantengono, nello Stato di democrazia pluralista, il ruolo di
filtro necessario tra la sfera pubblica e il Parlamento; più recentemente, invece, questa acquista maggiore
autonomia e finisce, con modalità diverse, ad interrogare direttamente gli organi costituzionali. Per porre
rimedio alle pressioni particolaristiche si è sviluppata la tendenza al rafforzamento del ruolo del Governo,
attraverso sia crescita dei poteri e sia attraverso una maggiore legittimità (scelta popolare del capo del
Governo). Di fatto il Parlamento ha perso il monopolio delle decisioni su questioni politicamente
rilevanti, in favore delle istituzioni europee e del Governo.
La rappresentanza politica
Nella nozione di rappresentanza politica confluiscono due significati, che si collegano a contesti storici
diversi: da un lato questo termine presuppone un ‘agire per conto di’, che pone in essere un rapporto tra
rappresentante e rappresentato, per cui il secondo sulla base di un atto di volontà detto mandato, dà al
primo il potere di agire nel suo interesse. Dall’altro, invece, indica l’azione di chi, in un determinato
ambito, pone in essere qualcosa che in realtà non c’è: il rappresentante, in questo caso, dispone di una
condizione autonoma rispetto al rappresentante. Nel primo caso siamo in epoca medioevale o comunque
pre-liberale, e nell’ambito di una società rigidamente suddivisa in ceti, i quali necessitavano di un modo
per interloquire col sovrano: per indicare tale specie di rappresentanza si usa l’espressione di
rappresentanza di interessi. Ciò significa che il rappresentante sia tenuto ad agire nell’interesse del
rappresentato, con cui corre un rapporto di mandato imperativo. La società liberale ha cancellato i corpi
intermedi e introdotto singoli individui uguali di fronte alla legge; la rappresentanza politica doveva
soddisfare esigenze nuove:
doveva essere mezzo tecnico utilizzato per formazione di un’istituzione che agisse nell’interesse
generale;
doveva arginare tendenze assolutistiche e, al contempo, l’evoluzione democratica radicale del
sistema, temuta dalla classe borghese;
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Questi principi trovano perfetta attuazione nella Costituzione francese del 1791: la sovranità era tolta al
Re, ma non attribuita al popolo, bensì ad un’entità astratta: la Nazione. Essa non poteva agire
direttamente e perciò, come specificava la Costituzione, esercitava i suoi poteri per delegazione, tramite
rappresentanza. Da questa costruzione costituzionale derivavano importanti implicazioni:
a) se i parlamentari erano scelti per decidere in nome e per conto della Nazione, la Costituzione
doveva assicurarsi che le modalità di elezione fossero tali da garantire che gli elettori fossero in
grado di scegliere i soggetti più idonei per curare l’interesse generale. L’elettorato attivo non era
perciò configurato come un diritto soggettivo, ma come una funzione pubblica conferita dalla
Costituzione nell’interesse della Nazione: ne derivava il restringimento dell’elettorato attivo per
ragioni di censo e di capacità. Si dava un fondamento costituzionale al suffragio limitato
assicurando la permanenza dello Stato monoclasse;
b) i parlamentari non dovevano curare l’interesse del loro collegio elettorale, ma quello della
Nazione;
c) sempre in favore dell’interesse generale al parlamentare non potevano essere fornite istruzioni
particolari su come agire. Si introdusse, così, il divieto di mandato imperativo, recepito da tutte
le Costituzioni di età liberale e anche dalla Costituzione italiana (art. 67) seppure con significato
diverso.
È utile chiarire che per responsabilità politica si intende quella del soggetto con autonomia politica
rispetto al soggetto rappresentato: egli risponde per eventuali inadempienze e/o cattive conduzioni, pena
la revoca del potere. Nello Stato liberale questo sistema era limitato in ambito statale, essendosi affermata
come responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento. Nello stato di democrazia pluralista
sempre più spesso il termine di riferimento è il corpo elettorale, chiamato a giudicare soggetti politici
divenuti politicamente responsabili nei suoi confronti.
La rappresentanza politica nello Stato di democrazia pluralista
La rappresentanza è sorta nel contesto di uno Stato a base sociale ristretta (lo Stato monoclasse), nel
quale l’autonomia rappresentativa e il divieto di mandato imperativo non escludevano che fossero
adottate leggi e politiche coerenti con gli interessi degli elettori: la legittimazione legale-razionale poteva
funzionare nel presupposto che le leggi, in relazione a questa omogeneità, venivano comunque ritenute
giuste. Invece, nelle democrazie pluraliste si afferma il principio della sovranità popolare, che esige che il
potere politico si basi sul consenso del popolo: in questo sistema gli interessi sociali premono sullo Stato
per avere risposte ai rispettivi bisogni ed a tal fine si organizzano stabilmente per ottenere dai parlamenti
leggi e politiche adeguate alle loro differenti esigenze. Ma, in regime di suffragio universale, questi
interessi sono molteplici, eterogenei e spesso conflittuali. Il problema di fondo che i sistemi
rappresentativi delle democrazie pluraliste hanno dovuto affrontare è questo: come assicurare la capacità
del sistema di decidere (c.d. governabilità)senza che venga meno la legittimazione democratica dello
Stato, la quale presuppone il libero e genuino consenso popolare? Il problema può essere risolto mettendo
insieme e facendo convivere i due aspetti della rappresentanza politica: la rappresentanza come rapporto
con gli elettori e la rappresentanza come titolo di esercizio autonomo del potere, che assicuri la possibilità
di prendere decisioni e scongiuri la paralisi del sistema. Il modo in cui questo equilibrio si è realizzato
varia da sistema a sistema, ma volendo sintetizzare le diverse esperienze, tali modalità sono riconducibili
alle seguenti ipotesi:
1) lo Stato dei partiti. La prima soluzione ha fatto leva sulla doppia virtù dei partiti politici: da un
lato la capacità di assicurare un filo diretto tra elettori e rappresentanza, superando la tradizionale
critica dei sistemi rappresentativi mossa per primo da J.J. Rousseau, secondo cui il popolo è
sovrano quando vota, ma poi torna ad essere schiavo; dall’altro, la possibilità di trascendere
dagli interessi particolari e compiere una sintesi politica, che permetta di superare il contrasto e
decidere. A questo punto, veri soggetti di rappresentanza politica diventano i partiti, con
conseguente necessità di reintrodurre il mandato imperativo di origine partitica. Bisogna avere
chiaro, comunque, che la centralità dei partiti nei sistemi rappresentativi delle democrazie
pluralistiche non è un dato di fatto, ma è il frutto di precisi riconoscimenti costituzionali e di una
legislazione di sostegno ai partiti stessi.
Come recita l’articolo 67, nella legislazione italiana ‘ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione
ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato’. Ciò nonostante la prassi figura l’affermazione della
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disciplina di partito: molti aspetti legislativi sono stati oggetto di voto da parte di parlamentari uniformati
alle direttive di partito. Negli anni ’60 si diffuse una critica a tali comportamenti e si coniò il termine
‘partitocrazia’. L’art. 67 deve essere interpretato sistematicamente insieme con gli artt. 49.1 e 94 della
Costituzione: il primo costituzionalizza il ruolo dei partiti, e collegandolo all’art. 1 qualifica i partiti come
i principali strumenti di esercizio della sovranità popolare. L’art. 94, invece, impone che la votazione
della mozione di fiducia e quella di sfiducia avvenga per appello nominale, un modo che permette un
maggiore controllo dei partiti sul comportamento dei parlamentari. Da tale quadro complessivo è partita
la Corte costituzionale quando ha detto che il ‘divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare
è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma
potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli
abbia votato contro le direttive del partito’. L’art. 67 viene a configurarsi come una norma di garanzia nei
confronti dei parlamentari: da un lato rende inefficace a livello statale eventuali sanzioni del partito al
parlamentare indisciplinato; dall’altro consente al parlamentare dissidente di cambiare gruppo politico nel
corso della legislatura.
La funzionalità del collegamento dei partiti con la società perciò dipende strettamente dalla effettiva
democraticità interna ai partiti, ossia dalla possibilità che essi siano concretamente sede di partecipazione
popolare.
Si è sviluppata, di pari passo con la democrazia di massa, la tendenza critica di considerare i partiti come
delle strutture oligarchiche, dominate da capi irremovibili che scelgono i candidati indipendentemente dal
gradimento che essi riscuotono negli elettori. La soluzione è disciplinare le procedure di scelta dei
candidati alle cariche: in questa prospettiva c’è chi richiama all’esperienza statunitense delle elezioni
primarie, in cui gli elettori scelgono i candidati direttamente o indirettamente, attraverso l’elezione dei
delegati nelle assemblee; esse si distinguono in aperte o chiuse a seconda che alle elezioni possano
partecipare o meno anche soggetti non iscritti al partito.
Si parla oggi di crisi dei partiti sia sul piano dei loro rapporti con la società sia su quello della loro
capacità effettiva di decidere: le cause di questa crisi sono molteplici. In modo sintetico si può osservare
come all’origine della fortuna dei partiti sociali di integrazione ci fosse un legame di integrazione che
tiene insieme la base ed il vertice del partito, ovvero l’adesione ad una particolare sub-cultura. Le società
contemporanee sono diventate più complesse ed è diventata quasi impossibile la loro distinzione in pochi
settori: è cessato il legame di stabile appartenenza che legava individui e partiti. Così, i partiti hanno
perduto il monopolio della rappresentanza e non sempre riescono a comporre i diversi interessi sociali in
una sintesi politica: il risultato è una pioggia di richieste disordinate e dirette agli organi costituzionali e
una consecutiva perdita di consenso;
2) il rafforzamento del Governo e l’investitura popolare diretta del suo Capo. Sono entrambe
soluzioni alla crisi sopra citata: esse perseguono il duplice obiettivo di porre al riparo il potere
esecutivo dalle pressioni particolaristiche e allo stesso tempo di farlo considerare legittimo
poiché il capo dell’esecutivo è scelto direttamente dal popolo. Tendenzialmente i due aspetti
della rappresentanza fanno capo ad organi costituzionali distinti: il Parlamento diventa sede della
rappresentanza- rapporto con i singoli collegi elettorali, mentre il Governo è deputato alla sintesi
degli interessi particolari, riflesso dell’interesse generale. Per il modo in cui adempie questa
funzione il Governo, di diritto o di fatto, diventa politicamente responsabile nei confronti
dell’intero corpo elettorale;
Questi aspetti nuovi mantengono comunque il carattere rappresentativo della democrazia: è ancora ben
marcata la distinzione tra governanti e governati. In casi limite tuttavia, crisi dei partiti e investitura
popolare del Governo sfociano in una democrazia plebiscitaria: ovvero il potere personale di un capo
basato su un rapporto diretto col popolo e su una legittimazione di tipo carismatico. Il potere personale
non è dispotico ma risultato di un consenso attivo popolare; esso tende a non tollerare i limiti giuridici e
si esprime liberamente nella misura in cui gode del consenso popolare. Il potere che ne deriva è sintesi
dell’infallibilità del popolo e, perciò, superiore a qualsiasi altro organo costituzionale. I sistemi
rappresentativi perciò si trovano in equilibrio fra le oligarchie dei partiti e la democrazia plebiscitaria,
risultato fisiologico della personalizzazione del potere, oggi esaltata dal ruolo della comunicazione di
massa;
3) gli assetti neocorporativi. Nelle democrazie pluraliste essi sono molto diversi dal corporativismo
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fascista: essi si affiancano ma non sostituiscono il sistema rappresentativo, rimediando alle sue
insufficienze; inoltre non sono una creazione statale, ma sorgono spontaneamente dalla società.
Il Governo tende a negoziare il contenuto dei principali provvedimenti riguardanti l’economia
con i sindacati dei lavoratori subordinati e con le associazioni degli imprenditori, dando vita ad
un tavolo triangolare, e ottenendo da questi determinati comportamenti;
4) la rappresentanza territoriale. Si tratta dell’istituzione di una seconda camera a base territoriale ,
in cui sono rappresentati direttamente gli enti territoriali (Stati federali, Regioni, ecc.);
5) la sottrazione della decisione al circuito rappresentativo. Si esclude dalla regolamentazione e dal
controllo di certi aspetti il circuito rappresentativo e li si affida ad autorità amministrative
indipendenti, autonome rispetto al circuito democratico-rappresentativo;
6) il passaggio ad una democrazia diretta, senza intermediari. Prevalentemente si attua attraverso la
manifestazione della volontà del cittadino grazie alle nuove tecnologie informatiche e
all’affermazione di Internet.
Democrazia diretta e democrazia rappresentativa
Particolare importanza assume, nel fronteggiare la crisi dei sistemi rappresentativi dei sistemi
costituzionali moderni, il ricorso ad istituti di democrazia diretta. Questi istituti affiancano e non
sostituiscono il sistema rappresentativo, assicurando la partecipazione del popolo alle decisioni che
riguardano la collettività, colmando la distanza tra il popolo e l’autorità statale. Questo espediente
affronta la risoluzione della ‘crisi della legittimità’, ossia la perdita di fiducia del popolo in ordine alla
corrispondenza delle decisioni pubbliche ai suoi effettivi interessi, contrariamente agli altri (sopra
elencati) che risolvono il problema della ‘governabilità’.
La ‘libertà degli antichi’ consisteva nella partecipazione attiva e costante al potere politico, per cui la
democrazia era diretta. L’individuo era sovrano nei rapporti pubblici ma schiavo in quelli privati: ciò si
traduceva nella mancanza di libertà di opinione, di religione eccetera. La base sociale della democrazia
diretta doveva essere, quindi, necessariamente di ridotte dimensioni. La ‘libertà dei moderni’ che si
afferma con lo Stato liberale e rappresentativo consiste, anzitutto, nell’attribuzione all’individuo di una
sfera di autonomia personale e nella protezione dei suoi beni. Con l’affermazione dello Stato di
democrazia pluralista i tradizionali meccanismi rappresentativi sono affiancati da istituti di democrazia
diretta, che consentono un’integrazione del sistema, comunque basato sulla rappresentanza politica.
Gli istituti di democrazia diretta si riducono soprattutto ai seguenti: 1) l’iniziativa legislativa popolare; 2)
la petizione; 3) il referendum. Nel primo caso la Costituzione attribuisce il potere di esercitare la funzione
legislativa ad un certo numero di cittadini (cinquantamila elettori secondo l’art. 71). La petizione, invece,
consiste nell’avanzare una determinata richiesta agli organi parlamentari o di Governo per sollecitare
determinate attività. Tuttavia essa ha limitatissimi effetti pratici: puro carattere esortativo ma non
produttore di effetti giuridici rilevanti. Il diritto di petizione è garantito a tutti i cittadini e tutelato dall’art.
50 Cost. il più importante strumento di democrazia diretta è il referendum, che consiste in una
consultazione dell’intero corpo elettorale produttiva di effetti giuridici.
Dei referendum si fanno numerose classificazioni: in relazione all’oggetto si distinguono i referendum
costituzionali, legislativi, politici e amministrativi. I referendum costituzionali, che hanno ad oggetto un
atto costituzionale, si suddividono:
referendum precostituente, quando il voto popolare ha come oggetto l’atto fondativo del nuovo
Stato (ad esempio la previsione di convocare un’Assemblea costituente);
referendum costituente, quando il voto popolare interviene sul testo di una nuova Costituzione
predisposto da un’Assemblea costituente, ovvero dal Parlamento o da altri organi, per approvarlo
o respingerlo;
referendum di revisione costituzionale, che, a differenza dei precedenti, in cui il popolo opera
come ‘potere costituente’, ha come oggetto la modifica parziale o l’integrazione della
Costituzione, e perciò è espressione del potere costituito.
Il referendum legislativo storicamente è nato in Francia e si è affermato in Svizzera; oggi è previsto dalla
maggior parte delle Costituzioni europee. Può essere:
obbligatorio, quando l’atto di indizione della consultazione popolare si configura come atto
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dovuto;
facoltativo, se è subordinato all’iniziativa da parte di uno dei soggetti che è a ciò legittimato. In
questo caso si distingue in:
attivo, quando la consultazione è promossa da un certo numero di cittadini, configurandosi
come strumento di partecipazione popolare ad integrazione dei circuiti rappresentativi;
passivo, quando è promosso da un organo dello Stato, configurandosi come strumento di
garanzia per la minoranza parlamentare contro il rischio della ‘tirannia della maggioranza’,
ovvero come mezzo di ‘arbitraggio’ del conflitto politico insorto tra organi costituzionali, o
ancora come modalità di legittimazione della decisione adottata.
Il referendum, inoltre, può essere preventivo o successivo, a seconda che il voto popolare intervenga
prima o dopo l’entrata in vigore dell’atto che ne forma oggetto. Il referendum costituzionale è sempre di
tipo preventivo perché la consultazione popolare ha senso in quanto interviene prima dell’entrata in
vigore di una nuova Costituzione o di una sua modifica, per assicurarne la legittimazione democratica.
Un particolare tipo di referendum preventivo è quello di indirizzo, che si ha quando il corpo elettorale di
proposta in via preliminare su un principio o su una proposta formulata in termini molto generali, i quali
dovranno avere attuazione da parte del Parlamento. La Costituzione italiana prevede quattro tipi di
referendum:
1. il referendum di revisione costituzionale , che ha carattere eventuale e si può inserire nel
procedimento di revisione costituzionale. Analogo è il referendum anch’esso eventuale, che si
inserisce nel procedimento di formazione degli Statuti delle Regioni ordinarie e delle ‘leggi
statutarie’ delle Regioni speciali. È detto anche referendum approvativo o sospensivo;
2. referendum abrogativo, di una legge o di un atto avente forza di legge, già in vigore, il quale ha
carattere eventuale e successivo;
3. referendum consultivo, previsto dagli artt. 132 e 133 per la modificazione territoriale di Regioni,
Province e Comuni;
4. referendum abrogativi o consultivi su leggi e provvedimenti amministrativi delle Regioni, che
possono essere disciplinati e previsti dagli Statuti regionali. Inoltre, la legge ordinaria ha
demandato agli statuti dei Comuni e delle Province la competenza a prevedere e disciplinare
forme di consultazione della popolazione e referendum consultivi su richiesta di un adeguato
numero di cittadini, relativi a materie di esclusiva competenza locale.
Negli ultimi anni, con la crisi dei partiti, il referendum è stato largamente utilizzato in tutte le democrazie
pluralistiche. Tuttavia va sottolineato come sia difficile la convivenza tra sistema rappresentativo, che si
fonda sulla distinzione tra rappresentanti e rappresentati, e democrazia diretta, che viene posta in essere
dal ricorso al referendum e che si fonda sul principio di identità tra governanti e governati: in primo
luogo la richiesta può sprigionare un’ incontrollabile carica antagonistica nei confronti delle istituzioni e
la loro conseguente delegittimazione; in secondo luogo la forma stessa con la quale viene formulata la
domanda può essere appositamente ambigua o poco chiara o addirittura condizionante per il corpo
elettorale. Al fine di evitare questi espedienti l’art. 75, ultimo comma della Costituzione garantisce i
limiti di ammissibilità del referendum. La separazione dei poteri
Il modello liberale
Il principio della separazione dei poteri è stato ideato dal costituzionalismo liberale con l’obiettivo di
limitare il potere politico e tutelare le libertà degli individui. La sua iniziale teorizzazione si deve a
Montesquieu, il quale scriveva che ‘se il fine dello stato è quello di garantire la libertà politica, i poteri
devono essere tre e tra di loro distinti’. I tre poteri sono: a) potere legislativo, che consiste nel porre le
leggi, le norme giuridiche astratte; b) potere esecutivo, che consiste nell’applicare le leggi internamente
allo Stato e nel tutelarlo dalle minacce esterne; c) potere giudiziario, che consiste nell’applicare le leggi
per risolvere controversie
Fra gli aspetti caratterizzanti la dottrina della separazione dei poteri si possono sinteticamente ricordare:
Attribuzione ad ogni potere in senso oggettivo (costituito da un complesso di organi) di una funzione
pubblica ben individuata e distinta dalle funzioni attribuite ad altri poteri. Gli aspetti caratterizzanti la
dottrina della separazione dei poteri possono essere sintetizzati così:
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c’è l’attribuzione ad ogni potere in senso oggettivo, costituito da un complesso unitario di organi, di
una funzione pubblica ben individuata e distinta dalle funzioni attribuite agli altri poteri;
è fondamentale che ogni funzione sia assegnata ad un potere distinto, poiché se più funzioni fossero
assegnate in capo allo stesso soggetto, questi potrebbe facilmente adottare leggi tiranniche, applicare
norme generali nella risoluzione di una controversia e ricorrere a regole arbitrarie;
i poteri, seppure distinti, devono potersi frenare reciprocamente in modo da limitare l’uno gli eccessi
dell’altro, in un sistema detto di pesi e contrappesi.
Questa dottrina ha trovato piena applicazione nell’ordinamenti costituzionale statunitense dove i tre
poteri seppure distinti sono giuridicamente separati ed indipendenti. Nella forma di governo
presidenziale: il Presidente ed il Congresso (potere esecutivo e legislativo) sono eletti separatamente dal
corpo elettorale ed esercitano funzioni distinte. Il Congresso non può votare la sfiducia al Presidente e
quest’ultimo non ha possibilità di sciogliere il primo anticipatamente. In Europa la situazione è diversa,
poiché fin dal periodo dello Stato liberale la separazione dei poteri ha un’applicazione più temperata. Si
considerano due elementi:
1. l’affermazione della forma di governo parlamentare. In questa forma i due poteri esecutivo-
legislativo sono strettamente collegati poiché il Governo deve godere della fiducia del
Parlamento che deve votargli la fiducia e può costringerlo alle dimissioni. Tale assetto
costituzionale conduce ben presto all’affermazione di una maggioranza politica stabile che dà la
fiducia al Governo e approva le leggi in Parlamento: i due organi finiscono per essere collegati
strettamente dalla maggioranza, che li rende politicamente omogenei;
2. la tendenza per la quale un determinato potere esercita una funzione tipica di un altro. In
numerosi Stati liberali il Governo adotta regolamenti, atti che secondo il modello originario
dovrebbero appartenere al potere legislativo. In altri casi, per esempio con l’approvazione della
legge sul bilancio, il Parlamento adotta atti che non contengono norme generali.
La spiegazione a questi fenomeni arriva dalla cosiddetta teoria formale-sostanziale della separazione dei
poteri secondo la quale occorre distingue il potere in senso oggettivo (funzioni dello Stato) e il potere in
senso soggettivo (complesso unitario di organi). Le funzioni sono tre e si distinguono secondo criteri
formali e materiali. Le tre funzioni secondo criteri materiali:
a) funzione legislativa pone norme generali e astratte;
b) funzione esecutiva consiste nella cura concreta di pubblici interessi;
c) funzione giudiziaria applica le norme per risolvere una controversia.
Applicando i criteri formali, le funzioni vengono distinte con riferimento al potere soggettivo che le
esercita, seguendo le modalità formali che lo caratterizzano:
a) potere legislativo esercita la funzione formalmente legislativa (attraverso atti di regola con forma
di legge);
b) potere esecutivo esercita la funzione formalmente esecutiva (attraverso atti che hanno la forma
del decreto);
c) potere giudiziario esercita la funzione formalmente giudiziaria (attraverso atti che hanno la
forma della sentenza).
In linea di massima ciascun potere assolve a funzioni uguali sia sul piano materiale che sul piano formale.
Questa tendenza non è sempre rispettata e, in alcuni casi, il potere esercita una funzione che è tipica di un
altro. È il caso dei regolamenti del Governo, con i quali esso assolve a funzioni sostanzialmente
normative e della legge di bilancio del Parlamento con la quale esso assolve a funzioni sostanzialmente
esecutive. Si dice che il Governo esercita funzione formalmente esecutiva ma materialmente legislativa
mentre si dice che il Parlamento esercita funzione formalmente legislativa ma materialmente esecutiva.
La separazione dei poteri nelle democrazie pluraliste
Tuttavia il principio della separazione dei poteri ha conosciuto modificazioni nel suo significato,
risultanti dalle trasformazioni politico sociali che hanno accompagnato l’affermarsi della democrazia
pluralista. Lo Stato ha allargato il campo dei suoi interventi dal governo dell’economia alla realizzazione
di sistemi di sicurezza sociale, dalla promozione dei beni culturali alla tutela contro la disoccupazione ,
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ecc.; lo stesso processo di ridimensionamento dei servizi dello Stato sociale, di taglio della spesa pubblica
e valorizzazione del ruolo del mercato, si realizza sulla base di programmi politici che richiedono una
molteplicità di azioni dello Stato tra di loro coordinate. Quindi, l’esercizio delle funzioni dello Stato, il
più delle volte, presuppone una preventiva determinazione di obiettivi e fini politici, mentre i singoli atti
di esercizio della funzione legislativa e di quella esecutiva sono gli strumenti tecnici attraverso cui
realizzare tali obiettivi. Perciò, si afferma una quarta funzione, la funzione di indirizzo politico, che
consiste appunto nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della
politica interna ed esterna dello Stato e nella cura della loro coerente attuazione. Questa funzione assicura
una guida coerente delle altre funzioni che vengono tutte orientate per il raggiungimento di fini
predeterminati, come espressamente menzionato nell’art. 95 della Costituzione.
Questa funzione è venuta a condensarsi nell’organo del Governo: esso dispone della legittimità e
dell’organizzazione che gli consente di assumere il ruolo di guida del sistema. Sotto il profilo della
legittimazione esso è in collegamento diretto con i partiti e, in molti assetti costituzionali, anche con
l’elettorato, con i sindacati e le organizzazioni sociali, coi quali può instaurare rapporti diretti; lavora
trattenendo rapporti anche a livello internazionale con altri Stati e con l’UE. Da un punto di vista
organizzativo, la sua capacità decisionale è rapida e snella rispetto a quella macchinosa e relativamente
lenta del Parlamento e inoltre dispone di strutture tecniche e di un efficiente apparato amministrativo.
L’esecutivo, contrariamente al modello liberale, oggi non si limita appunto alla sola esecuzione, ma è un
potere che decide ai fini dell’azione politica, diventa un vero e proprio potere governante. Dopo la scelta
dell’indirizzo e la sua traduzione in atti normativi, gli apparati non si limitano a dare esecuzione alla
legge. Da un lato la legge fissa gli obiettivi (i sociologi del diritto lo definiscono un ‘programma di
scopo’), ma rimette all’amministrazione la scelta degli strumenti per la loro realizzazione; dall’altra,
esistono leggi che disciplinano l’operato dell’amministrazione ma non il contenuto, quindi, di fatto, la
scelta sostanziale non è operata dalla legge bensì dall’amministrazione. In genere, le decisioni
dell’amministrazione hanno un impatto sociale ed economico assai più forte di tante leggi del
Parlamento.
Altra tendenza è quella sviluppatasi in alcuni Stati, per la quale l’amministrazione non può più essere
considerata come un apparato dipendente dal Governo, ma come un’organizzazione unitaria. In
attuazione all’art. 97 della Costituzione è stato introdotta la separazione tra politica e amministrazione, tra
la sfera riservata al Governo e quella dell’amministrazione pubblica. Si crea distinzione tra i poteri di
indirizzo e i poteri di gestione amministrativa. L’amministrazione assume dunque una propria autonomia
giuridica rispetto al Governo, anche se resta collegata al suo indirizzo politico e amministrativo.
L’amministrazione si scompone in una pluralità di apparati tra loro più o meno indipendenti, ciascuno dei
quali ha affidata la cura di determinati interessi, che sono eterogenei e spesso conflittuali con quelli
facenti capo ad altri apparati. Né questi apparati sono solamente statali, vista la grande crescita di
amministrazioni diverse da quella statale, come le amministrazioni delle Regioni e degli enti locali: anche
i compiti sono diversi, tanto che certi apparati agiscono attraverso l’esercizio di potestà pubbliche e
provvedimenti amministrativi (Prefettura, amministrazione di Polizia), altri operano in parità con il
contraente privato ed impiegano i mezzi del diritto privato, altri ancora esercitano compiti consultivi e di
controllo oppure di regolamentazione di certi settori o di determinati mercati.
Le alterazioni rispetto al modello liberale sono ancora più marcate rispetto a quelle ora elencate.
- La funzione legislativa non si caratterizza solo per la produzione di leggi generali e astratte:
spesso assume i caratteri del concreto provvedere, ossia contiene prescrizioni che si riferiscono a
situazioni e soggetti determinati, sicchè si parla di legge provvedimento;
- l’attività interpretativa, propria del potere giurisdizionale assume tratti differenti rispetto al
modello liberale: 1) non è meramente dichiarativa di un diritto che preesiste all’opera
dell’interprete, ma è intrisa di scelte discrezionali. Tra norma generale e situazione particolare
non c’è rapporto logico- deduttivo, ma di integrazione discrezionale; 2) sugli ordinamenti
giurisdizionali ricadono le domande che non hanno avuto risposta nei tradizionali circuiti
rappresentativi, spingendo così i giudici a riconoscere e tutelare ‘nuovi diritti’; 3) la crisi della
legge causata dall’esigenza di compromesso nella produzione di leggi per le diverse categorie
sociali e forze politiche, ha creato norme ambigue e discrezionalmente interpretabili. Tutto ciò
accresce la discrezionalità dei giudici che, chiamati all’interpretazione della legge, in realtà ne
concorrono alla definizione;
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- va aggiunta una nuova funzione: quella della garanzia giurisdizionale della Costituzione,
realizzata nei confronti di tutti i poteri statali, compreso il legislativo. A partire dal XX secolo
questa funzione è divenuta prerogativa di tutti gli ordinamenti di democrazia pluralista, con la
rilevante eccezione del Regno Unito. In Italia essa è associata all’organo costituzionale del
Presidente della Repubblica, distinto e autonomo rispetto al Governo e con la funzione di
garantire gli equilibri costituzionali, senza partecipare all’indirizzo politico.
Cosa resta della separazione dei poteri in una democrazia pluralista, come quella italiana?
1. Rimane operante il principio che pone in essere più poteri tra loro indipendenti. L’assetto
costituzionale stesso tende ad impedire che un apparato organizzativo prevalga sugli altri: il
risultato è addirittura un assetto pluralistico accresciuto rispetto a quello del modello liberale: i
poteri principali non sono più i soli tradizionali (si aggiungono il Presidente della Repubblica e
la Corte Costituzionale). Alla divisione orizzontale del potere viene affiancata una divisione
verticale del potere, attuata dalla costituzione di Stati federali o, come in Italia, Stati regionali, in
cui l’autorità e l’autonomia politica territoriale riducono notevolmente la quota di potere politico
delle autorità centrali;
2. resta la possibilità di distinguere le tre tradizionali funzioni dello Stato, cui si aggiungono quella
di indirizzo politico e quella di garanzia giurisdizionale della Costituzione e, dove esiste, anche
la funzione presidenziale. I criteri di distinzione ed di individuazione delle funzioni si basano
non solo su criteri contenutistici, ma anche su criteri formali, con riferimento cioè alle modalità
con cui vengono esercitate. Perciò la funzione legislativa si distingue perché è esercitata
collettivamente dalle due Camere (art. 70 e artt. 71, 72 e 73 che ne disciplinano i procedimenti).
Invece, la funzione giurisdizionale è caratterizzata dalla posizione di indipendenza del giudice
nei confronti di ogni altro potere e la sua terzietà rispetto alle parti del processo;
3. discorso a parte va fatto per la funzione esecutiva o meglio amministrativa: esistono tante
funzioni attribuite ad amministrazioni pubbliche diverse, sicché è impossibile parlare di una
funzione amministrativa unitaria in senso oggettivo mentre può essere considerata tale solo in
senso soggettivo;
4. una trasformazione parallela è stata anche quella in senso politico oltre che giuridico. Si è creata
infatti una nuova tendenza, con conseguente riconoscimento costituzionale, che ha portato a
dividere il potere politico tra la maggioranza che governa e l’opposizione che controlla.
La regola di maggioranza
La regola di maggioranza che caratterizza il funzionamento dello Stato liberale e della democrazia
pluralistica, assume significati e funzioni diverse:
a) principio funzionale, ossia la tecnica attraverso cui il collegio può decidere;
b) principio di rappresentanza, ossia il mezzo attraverso cui si eleggono il Parlamento e le altre
Assemblee rappresentative;
c) principio di organizzazione politica, ossia il criterio attraverso cui si svolgono i rapporti tra i
partiti politici in Parlamento.
La regola di maggioranza è lo strumento attraverso cui ampie collettività e organi collegiali possono
adottare una decisione: è adottata la decisione che ottiene il numero più elevato di voti o di consensi a
seguito di una votazione. La regola opposta è quella dell’unanimità, che richiede il consenso di tutti i
membri del collegio e che se venisse usata per qualsiasi decisione, porterebbe alla paralisi decisionale del
collegio. Presupposto di questa regola è la sostanziale uguaglianza dei membri del collegio, sicché ogni
voto ha lo stesso valore. Ora, si tratta di un’arma a doppio taglio poiché, se da un lato si evita la
prevaricazione dei pochi sui tanti (eliminando i privilegi del Clero e dell’Aristocrazia nello Stato
liberale), dall’altro il rischio è quello della cosiddetta tirannia della maggioranza, ovvero che i tanti usino
il potere acquisito per eliminare i soggetti in minoranza. La vera distinzione è quella tra maggioranza
politica (cui aderiscono in modo continuativo partiti e parlamentari che intendono sostenere un
determinato indirizzo politico e che, grazie all’operare della regola maggioritaria, possono avere il
controllo del Parlamento) e minoranza politica, dotata anch’essa di stabilità e di persistenza nel tempo. La
regola della maggioranza non può essere applicata se non ci sono le tutele costituzionali necessarie alla
salvaguardia delle minoranze: la tirannia della maggioranza aprirebbe la strada al conflitto violento, alla
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delegittimazione dello stato e alla sua disgregazione. Al riguardo dell’ordinamento italiano le minoranze
vengono tutelate attraverso numerosi strumenti:
1) rigidità della costituzione. Riconosce certi diritti ai cittadini e limita il potere della funzione
legislativa garantendo un effettivo pluralismo;
2) attribuzione alla Corte Costituzionale della facoltà di giudicare sulla legittimità delle leggi;
3) la previsione che, per prendere determinate decisioni, non basta la maggioranza semplice o relativa
(numero più alto di voti espressi), ma occorrono quorum deliberativi più elevati: come la
maggioranza assoluta (metà + 1 dei membri del collegio) o la maggioranza qualificata
(corrispondente ad una porzione consistente dei membri del collegio, per esempio i 2/3). Prevedendo
quorum deliberativi o funzionali si rende in qualche modo la maggioranza incapace di decidere da
sola e la minoranza partecipe, seppure in misura ridotta, a determinate decisioni. La Costituzione
italiana stabilisce maggioranze speciali per: l’elezione del Presidente della Repubblica, per
l’elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare, per la funzione di revisione
costituzionale e per l’approvazione di leggi costituzionali (quorum aggravati), per l’approvazione
dei regolamenti interni concernenti le Camere;
4) la concessione di determinate facoltà alle minoranze che si traduce nell’attribuzione di poteri di
condizionamento procedurale a queste. Le minoranze, nell’ordinamento italiano, possono chiedere la
convocazione in via straordinaria della Camera, la votazione dell’intera Assemblea per un disegno di
legge assegnato in Commissione deliberante, che sia indetto il referendum sulle leggi costituzionali
e di revisione costituzionale approvate dal Parlamento;
5) la sottrazione dal circuito dell’indirizzo politico di certe decisioni e l’assegnazione di queste ad
organi decisionali neutrali rispetto alla politica e slegati dalla maggioranza e dalla minoranza,
generalmente per decisioni che richiedono competenze tecniche complesse (c.d. Autorità
amministrative indipendenti);
6) il decentramento politico, che si attua costituzionalmente attraverso l’istituzione di numerose
autorità territoriali. Ciò favorisce l’esistenza di maggioranze diverse per ogni livello di autorità
territoriale e consente alle minoranze di trovare protezione a livello locale ed elaborare indirizzi
politici diversi da quelli a livello statale.
Tuttavia la tutela della maggioranza e la garanzia del pluralismo sono direttamente dipendenti dalla
cultura politica e dalla dimensione dell’intervento pubblico nella società. Se la prima accetta i valori della
pluralità e della tolleranza allora sarà più facile che i soggetti politici adottino atteggiamenti rispettosi
delle minoranze. La seconda accezione di regola di maggioranza intesa come principio di rappresentanza
riguarda invece le modalità attraverso cui si forma il Parlamento e si determina la consistenza delle
maggioranze e delle minoranze in termini di seggi parlamentari. La regola di maggioranza diventa perciò
strumento attraverso il quale si elegge il Parlamento: di ogni collegio elettorale viene eletto il candidato
che ottiene la maggioranza semplice (o, più raramente, assoluta). La conseguenza è che solo i gruppi
politici più forti ottengono rappresentanza parlamentare: questo metodo è estremamente selettivo ed
opposto a quello proporzionale che tende a riconoscere a tutti i gruppi politici adeguata rappresentanza in
modo da rendere il Parlamento una fotografia del Paese reale.
Secondo la terza concezione, la regola di maggioranza come regola elettorale è particolarmente coerente
con una determinata concezione delle elezioni e del funzionamento della democrazia. Le elezioni hanno il
compito di assicurare la formazione di una maggioranza stabile e coesa e di un Governo autorevole in
grado di realizzare un indirizzo politico. Al corpo elettorale spetta il compito di scegliere una
maggioranza politica e alle successive elezioni, quello di sottoporla a giudizio di responsabilità politica
(confermandola o sostituendola). Questa concezione è perciò opposta a quella che figura il Parlamento
come riflesso del Paese reale, poiché le elezioni non sono mezzo per l’affermazione di questo modello,
ma semplice metro di misura del consenso di ogni gruppo politico. Sulla base del consenso si forma il
corpo parlamentare e non su una scelta effettiva di maggioranza e Governo da parte del popolo.
Democrazie maggioritarie e democrazie consociative
Più che la scelta di un sistema elettorale maggioritario o proporzionale, assume importanza un’altra
distinzione, che si basa sulle dinamiche del funzionamento dei diversi ordinamenti democratici. Occorre
distinguere tra democrazie maggioritarie e democrazie consociative. Nelle democrazie maggioritarie, la
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regola di maggioranza diventa ‘principio di organizzazione’: esse sono basate sulla contrapposizione tra
due partiti o tra due candidati alla carica di Capo del potere governante tra i quali gli elettori si trovano a
dover effettuare una scelta secca. La contrapposizione per la titolarità del potere esiste durante le elezioni
ma anche dopo le elezioni, quando, il partito sconfitto (la minoranza) assume la funzione di opposizione,
mentre quello vincitore (la maggioranza) costituisce il Governo ed il nuovo indirizzo politico.
Da un lato il Governo lavorerà per far perdurare il consenso, in modo da restare maggioranza in luogo
delle prossime elezioni, mentre, dall’altro la funzione dell’opposizione impedisce che si instauri la
tirannia della maggioranza attraverso la critica dell’operato del Governo e la proposta di un indirizzo
politico alternativo. In tali sistemi è realizzabile l’alternanza ciclica dei partiti nei ruoli di maggioranza o
opposizione.
Viceversa le democrazie consociative tendono a sfavorire il contrasto tra gli indirizzi e a favorire invece
l’accordo tra i principali partiti al fine di condividere il potere politico. Alle elezioni i partiti competono
per proprio conto, ma la differenza si attua dopo le elezioni, quando i partiti utilizzano il proprio potere
politico, il quale si evince dai risultati delle elezioni, per raggiungere il compromesso. Le minoranze sono
associate alla funzione di Governo poiché manca l’opposizione: ogni decisione è il risultato di una
mediazione attraverso la quale ogni parte ottiene qualcosa in cambio di una rinuncia su qualcos’altro.
Lo Stato e la società multiculturale Rapporti fra Stato e confessioni religiose
La nascita dello Stato moderno comporta il riconoscimento della laicità dello Stato, ovvero la neutralità
del primo rispetto alla questione religiosa, la separazione della sfera politica da quella della religione e il
conseguente riconoscimento della libertà religiosa come diritto fondamentale dei cittadini. E’ stata la
Rivoluzione francese del 1789 a perfezionare la creazione dello Stato moderno come unità politica
neutrale di fronte alle scelte religiose dei cittadini: essa introdusse l’idea del cittadino come essere
profano, emancipato da un destino inevitabilmente religioso. La Costituzione francese del 1791
riconosceva la libertà di fede e di religione: lo Stato diventava pienamente neutrale rispetto alla religione.
Forte è stata in Europa la tendenza a sottrarsi al processo di secolarizzazione della politica a partire dal
secolo XIX. All’emancipazione dello Stato dalla Chiesa venne opposta l’idea di uno ‘Stato Cristiano’: i
rapporti tra queste due istituzione iniziano il loro oscillare tra due poli opposti. Da un lato il regime
confessionale, che si basa sul fatto che la Chiesa è depositaria di una verità assoluta concernente tutti gli
uomini, e perciò la necessità è quella di uniformare etica pubblica e leggi con la morale religiosa.
Dall’altro, il regime della separazione tra Stato e chiesa, che riconosce ciascuna istituzione come
autonoma nel proprio campo d’azione. Al fine di prevedere i conflitti tra le due istituzioni la necessità è
quella di creare un regime concordatario, ovvero un regime in cui le competenze reciproche siano
disciplinate e definite da un accordo, che prende il nome appunto, di Concordato. La Costituzione italiana
ha scelto questa strada: l’art. 7 sancisce la separazione tra Stato e Chiesa stabilendo che entrambi sono,
nel proprio ordine, sovrani e indipendenti; in seguito riconosce tutela costituzionale al principio
concordatario affermando che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi (1929) e
questi possono essere mutati solo con l’accordo da entrambe le parti (principio concordatario). La
garanzia costituzionale del regime concordatario non esclude né la laicità dello Stato né il pluralismo
religioso. L’art. 3 stabilisce che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge senza distinzioni religiose;
l’art. 8.1 stabilisce che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere di fronte alla legge e hanno
diritto di organizzarsi con proprio statuto purché non contrasti con l’ordinamento italiano; l’art 8.3
disciplina i rapporti dello Stato con le religioni diverse dalla cattolica. Le intese hanno cominciato ad
essere stipulate solo dopo la riforma del Concordato e sinora solo alcune confessione hanno potuto
ottenerne una: dato che le intese sono fonte di grandi privilegi, soprattutto di agevolazioni finanziarie,
molte confessioni tradizionalmente ‘separatiste’ rispetto allo Stato le hanno richieste.
Il principio di laicità, accolto dallo Stato italiano, in sé è soggetto a diverse applicazioni, differenti
secondo la storia istituzionale e politica di ciascun paese. In Francia il principio è accolto con una
concezione assai rigida che fa si che lo Stato si basi sul cittadino come individuo, e considera lesiva
dell’uguaglianza ogni rilievo dato all’appartenenza di questo ad una confessione religiosa. In Italia,
invece, la laicità non esclude un rilievo positivo giuridico del fenomeno religioso, purchè questo non sia
causa di disparità nel trattamento.
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strumenti per tutelare la loro alterità, definita sulla base di criteri di ordine etnico o religioso inizialmente,
poi anche su criteri di altro ordine (vedi le preferenze sessuali o l’appartenenza di genere). Al fine di
mantenere e garantire le identità culturali differenziate i sistemi giuridici hanno escogitato varie
soluzioni:
- diritto derogatorio, che si applica solo ai membri di determinate comunità riconosciute (diritto di
caccia per i nativi in Canada o diritto di esonero dalla pubblica istruzione per i bambini della
comunità Amish in USA);
- strumenti di promozione della cultura particolare (come la creazione di organismi specifici col
compito di promuovere e proteggere una determinata cultura);
- costruzione di luoghi di culto o edifici simbolici sul territorio nazionale (moschee, sinagoghe);
- estensione di istituti di garanzia previsti per chi segue comportamenti maggioritari anche alle
minoranze, in modo da riconoscerne l’identità e garantirne l’esistenza (unioni civili).
Si tratta di capire se la strada migliore per assicurare la coesione delle moderne società pluralistiche sia
quella di promuovere l’integrazione di tali minoranze ed incanalarne la cultura in quella maggioritaria
(limitando alla sfera privata l’espressione di quella particolare) o garantire e tutelare tali minoranze
tramite il riconoscimento giuridico delle differenze. Da un lato il rischio è quello di coartare
eccessivamente la libertà personale con tutto ciò che ne deriva, dall’altro invece si rischia un’eccessiva
frammentazione che romperebbe i vincoli unitari e, di conseguenza, metterebbe in discussione lo Stato
stesso.
Inoltre, è legittimo fornire strumenti di tutela anche a quelle comunità culturali che non solo sono aliene
al contesto maggioritario, ma sono anche attivamente ostili ai valori su cui si basa lo Stato di democrazia
pluralistica? Risultato della caduta di eterogeneità della cultura è la difficile facoltà di scelta sulle
decisioni di carattere etico: un relativismo etico mette in risalto la libertà di scelta del singolo individuo,
mentre chi parte dall’esistenza di un’etica assoluta e universale, tende a porre dei limiti alla libertà di
scelta dell’individuo in nome di principi etici superiori.
CONFLITTI ETICI: CASO WELBY E CASO ENGLARO
Nel 2006, Piergiorgio Welby, malato terminale affetto da una gravissima forma di sclerosi, chiede
espressamente al suo medico di sospendere il trattamento che lo manteneva in vita. Il medico,
somministrati dei sedativi, ha interrotto le pratiche suddette con la conseguenza che il paziente è deceduto
nella mezzora successiva. Il PM esclude che il medico sia accusato di ‘omicidio del consenziente’ e
chiede l’archiviazione: tra i due principi egualmente tutelati dall’ordinamento (art. 32 diritto al rifiuto del
trattamento e istanza di sostegno della vita) deve prevalere l’autodeterminazione del paziente rispetto alle
cure somministrate.
Può essere sostituita la volontà di un paziente incapace di esprimersi con quella del suo tutore in materia
di sospensione del trattamento? Il padre di Eluana Englaro fa ricorso al Tribunale di Lecco per chiedere la
sospensione dell’alimentazione forzata a sua figlia, in coma dal 1992 a seguito di un incidente. La
Cassazione si è pronunciata su questo caso a seguito di un iter processuale definendo che, nei casi
analoghi a quello della signora Englaro, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio di
alimentazione forzata unicamente in presenza dei seguenti presupposti: 1) lo stato comatoso deve essere,
a seguito di adeguato ed accurato apprezzamento medico, irreversibile e deve essere assente qualsiasi
possibilità di recupero, di ritorno alla percezione del mondo esterno o di recupero della coscienza,
secondo gli standard riconosciuti a livello internazionale; b) in base a segni di prova chiari, univoci e
convincenti, della voce del paziente, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità,
dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima della
caduta in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Nel caso in cui, uno solo dei due
presupposti non sussista, il giudice non può autorizzare indipendentemente dalle condizioni, dal grado di
autonomia e dalla capacità di intendere e di volere del paziente.
Stato unitario, Stato federale e Stato regionale
La separazione dei poteri e l’applicazione della regola di maggioranza può avvenire non solo a livello
orizzontale ma anche a livello verticale, ovvero tramite l’assegnazione di poteri ad enti territoriali. Si
distingue tra: 1) Stato unitario, nel quale il potere è attribuito al solo Stato o ad enti ad esso dipendenti (si
parla di decentramento amministrativo o burocratico, perché i soggetti periferici fanno parte
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dell’organizzazione statale); 2) Stato composto, nel quale il potere è distribuito tra lo Stato e gli enti
territoriali distinti, dotati di propria autonomia politica di indirizzo e della funzione legislativa e
amministrativa in determinate materie, ed agiscono mediante organi rappresentativi che sono espressione
delle popolazioni locali (decentramento politico). Lo Stato unitario ha caratterizzato a lungo l’esperienza
europea, ma da alcuni anni anche in Europa ha avuto successo lo Stato composto, nelle sue due varianti:
a) Stato federale, i cui caratteri tipici sono l’esistenza di un ordinamento statale federale, dotato di
una costituzione scritta e rigida, e di alcuni enti territoriali dotati di proprie Costituzioni; la
previsione della costituzione di una ripartizione di competenze tra Stato centrale e Stati membri
con riguardo alle tre tradizionali funzioni; l’esistenza di un Parlamento bilaterale nel quale esiste
una Camera rappresentativa degli Stati membri; la partecipazione degli Stati membri al
procedimento di revisione costituzionale, oltre che la presenza di una Corte costituzionale che
risolva i confini tra Stato federale e Stati membri;
b) Stato regionale, che è distinto dallo Stato federale per le seguenti caratteristiche: l’esistenza di
una Costituzione statale che riconosce e garantisce la autorità territoriali, dotate di propri statuti
ma non di Costituzioni; l’attribuzione di competenze amministrative e legislative alle Regioni,
una limitata partecipazione di queste ai processi di revisione costituzionale, la presenza di una
Corte costituzionale deputata a risolvere i conflitti fra Stato e Regioni che assicura preminenza
dell’interesse nazionale e l’assenza di una Camera rappresentativa delle Regioni.
In realtà la distinzione tra Stato federale e Stato regionale è difficile da tracciare: la distinzione
fondamentale resta quella tra Stato unitario e Stato composto e tra Stati a forte decentramento politico e
Stati a decentramento politico limitato.
L’Unione europea
Costituita a seguito del Trattato di Maastricht con una struttura istituzionale complessa, per descriverla si
è ricorso alla metafora del tempio greco che poggia su tre pilastri: il pilastro centrale era quello della
Comunità europea (CE), i due pilastri laterali erano costituiti dai nuovi ambiti della politica estera e di
sicurezza comune (PESC) e dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (CGAI)
La differenza tra i tre pilastri è principalmente nei processi decisionali: la CE aveva ottenuto una certa
omogeneità politica perciò consentiva decisioni anche senza il consenso di tutti: PESC e CGAI, invece,
necessitavano dell’unanimità. Con il trattato di Lisbona i tre pilastri sono stati condensati nell’UE.
L’organizzazione
L’organizzazione comunitaria si articola in diversi organi:
a) il Consiglio Europeo: è l’organo di impulso politico, definisce gli orientamenti politici generali
ma è privo di proprio potere normativo. È composto dal Capo di Governo o di Stato di ciascuno
Stato membro e dal Presidente della Commissione: egli è eletto a maggioranza qualificata e dura
in carica due anni e mezzo; il Trattato di Lisbona ha stabilito che non può essere il Capo di
Governo del Paese con presidenza semestrale dell’Unione;
b) il Consiglio: è l’organo che esercita, congiuntamente al Parlamento Europeo, la funzione
legislativa e di bilancio, coordina le politiche generali di tutti gli Stati membri. È formato da un
rappresentante di ogni Stato (membro del Governo), in relazione alla materia trattata, o, in alcuni
casi, dal Capo di Stato o di Governo ed è presieduto da ciascuno dei suoi membri a turno per 6
mesi. Le sue deliberazioni sono assunte a maggioranza qualificata (che tiene conto anche della
popolazione rappresentata), solo in casi specifici è richiesta l’unanimità. Il Comitato dei
Rappresentanti Permanenti (COREPER) coadiuva l’attività del Consiglio;
c) la Commissione Europea: è l’organo di propulsione dell’ordinamento comunitario, centro dei
processi di decisione. Dispone di poteri di iniziativa normativa per gli atti che il Consiglio
adotta; di decisione amministrativa e di regolamentazione; di controllo verso gli Stati membri
riguardo l’adempimento di obblighi comunitari, che possono sfociare in ricorso e condanna.
Inoltre la Commissione può esercitare un controllo ‘indiretto’ sugli Stati membri, attraverso le
segnalazioni di privati, creando un rapporto trilatero Commissione-amministrazioni nazionali-
privati; ha poteri di gestione dei finanziamenti comunitari. I componenti sono tanti quanti sono
gli Stati membri e sono scelti in base a competenze tecniche: durano in carica 5 anni e devono
essere confermati dal Presidente dopo essere stati designati dal Consiglio su proposta degli Stati.
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Il Presidente è eletto dal Parlamento su proposta del Consiglio: egli ha facoltà di approvare la
composizione della Commissione. Il Parlamento ha facoltà di censurare la Commissione e
costringerla alle dimissioni. Fa parte della Commissione, e anzi, ne è Vicepresidente, l’Alto
rappresentante per gli affari esteri, che rappresenta l’UE nella politica estera;
d) il Parlamento Europeo: è composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione eletti in ciascuno
Stato a suffragio universale e diretto, restano in carica 5 anni. Organo rappresentativo e dotato di
legittimazione democratica, che partecipa al processo di formazione degli atti normativi
attraverso la procedura legislativa ordinaria: in essa l’adozione degli atti normativi proposti dalla
Commissione richiede il consenso sia del PE che del Consiglio: un eventuale dissenso è
comunque risolto con l’intervento di un apposito Comitato di conciliazione chiamato a trovare
un accordo tra i due organi. Dispone inoltre di un potere di iniziativa legislativa indiretta,
esercitato tramite la Commissione e risponde alle petizioni dei cittadini nominando un
mediatore. È infine titolare di poteri di controllo verso la Commissione (facoltà di istituire
Commissioni temporanee di inchiesta ma soprattutto di votare la fiducia sul Presidente e sui
membri della Commissione, oltre alla possibilità di approvare una mozione di censura verso la
stessa e provocarne le dimissioni);
e) la Corte di Giustizia: è l’organo giurisdizionale europeo, chiamato ad assicurare il rispetto del
diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato. Ha facoltà di giudicare sulle
violazioni del diritto comunitario, sulla legittimità degli atti normativi e di interpretare il diritto
comunitario in via pregiudiziale. La Corte è coadiuvata dal Tribunale di primo grado, le cui
sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte stessa;
f) la Corte dei Conti: è l’organo di controllo contabile della Comunità, chiamato all’esame delle
entrate e delle uscite della stessa e degli organi da essa creati;
g) il Comitato economico e sociale: è l’organo consultivo del Consiglio, della commissione e del
PE. Composto dai rappresentanti delle diverse categorie economiche e sociali, esprime il suo
parere obbligatoriamente (quando previsto dal Trattato), su richiesta o di propria iniziativa;
h) il Comitato delle Regioni: anch’esso è un organo consultivo delle istituzioni UE. Composto dai
rappresentanti delle varie collettività regionali e locali, delle quali esprime le istanze a livello
comunitario, esprime il suo parere obbligatoriamente (quando previsto dal Trattato), su richiesta
o di propria iniziativa.
Costituzione Europea
Realizzata l’integrazione economica tra gli Stati membri (culminata nella realizzazione di un mercato
unico e di una moneta unica) si è dovuto affrontare il problema di realizzare un’integrazione politica tra
gli Stati europei. Gli aspetti rilevanti in questo senso sono stati due: a) in primo luogo il deficit
democratico, espressione che allude al fatto che i poteri normativi sono esercitati da organi comunitari
che non sono eletti dai cittadini. Manca inoltre una sfera pubblica europea, le politiche sembrano
piuttosto essere discusse da una burocrazia europea e da tecnici; b) in secondo luogo si pone la questione
se l’Europa debba avere un ruolo politico unitario rilevante a livello internazionale. A questi problemi si
sono aggiunti quelli scaturiti dall’allargamento dell’Unione.
L’ordinamento comunitario, istituito sulla base di 6 Paesi tendenzialmente omogenei sul piano politico,
sociale ed economico, rischia di provocare la paralisi istituzionale dato il suo complicato metodo
decisionale, in particolare ora che è stato esteso fino all’Europa dell’est. Al fine di semplificare i Trattati
europei e giungere ad un Trattato di base (la Costituzione Europea), è stata istituita la Convenzione
europea. Il testo modificato è stato adottato nel giugno 2004, salvo poi essere rifiutato dai referendum
dell’anno successivo in Francia e Olanda. Il successivo trattato di Lisbona ha eliminato tutta la
terminologia federalista dal Trattato costituzionale, ha reso più snello il metodo decisionale ed ha
modificato la composizione degli organi decisionali, adattandola alla crescita del numero degli Stati
membri.
Il principio di attribuzione fa si che le attribuzioni dell’UE siano solo quelle espressamente previste dai
Trattati, esse non hanno competenze generali ma specifiche e funzionali per il raggiungimento di obiettivi
prefissati. La tassatività delle attribuzioni è temperata in due casi:
quando venga applicato il principio di autointegrazione, ovvero quando la UE può esercitare i
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poteri necessari per la realizzazione di scopi del Trattato anche se questo non lo prevede
espressamente;
quando venga applicato il principio dei poteri impliciti, adottato dalla Corte di giustizia, per il
quale l’attribuzione di una competenza comporta anche quella del potere di adottare tutte le
misure necessarie per il suo esercizio efficace ed adeguato.
Si parla di principio di proporzionalità quando, all’UE, è imposto l’utilizzo di mezzi e strumenti adeguati,
proporzionali e non esagerati per il risultato da raggiungere. Si parla di principio di sussidiarietà quando,
nel caso di competenze congiunte, quelle assegnate all’UE possono essere applicate solo se si ritenga che
perseguano meglio la causa comunitaria e solo se ritenute di entità tale da trovare soluzione migliore
nell’intervento europeo. Si parla infine di principio di leale cooperazione per intendere il dovere di tutti
gli Stati membri a collaborare e a non interferire con l’operato delle istituzioni comunitarie, evitando
comportamenti che possono impedire la realizzazione degli scopi.
Il mercato, tra Stato e Unione europea
Stato liberale e Stato di democrazia pluralista sono stati associati all’esistenza di un’economia di mercato.
Lo Stato sociale, invece, è intervenuto correggendo e compensando il mercato, per raggiungere finalità
sociali o per contrastare le crisi economiche, dando luogo ad un’economia mista. Nell’esperienza italiana
gli interventi statali in economia sono stati:
- creazione di imprese pubbliche ovvero imprese gestite da un ente pubblico economico (che
svolge attività di produzione di beni e servizi e che perciò utilizza le regole del diritto privato) o
in altri casi di aziende autonome, ovvero collegate ad amministrazioni statali ma dotate di
autonomia di gestione;
- creazione di SPA in mano pubblica, società per azioni controllate da un’amministrazione
pubblica che attraverso essa svolge un’attività economica;
- finanziamenti agevolati ai privati, coi quali lo Stato ha sostenuto l’attività di alcune imprese
erogando ausili finanziari;
- la programmazione economica, l’adozione di atti di poteri pubblici contenenti un disegno
ordinato di condotte future, riguardanti più elementi: si estendono per un certo arco temporale e
riguardano l’intera materia economica;
- l’acquisto del monopolio sui servizi pubblici, ovvero quelli che si caratterizzano per soddisfare i
bisogni di interesse generale, col fine di sottrarre questi settori alla concorrenza e mantenere i
prezzi sotto controllo;
- il potere di conformazione verso le imprese private, per cui l’ingresso in certi mercati non è
libero ma sottoposto a vincoli e limiti e soggetto all’autorizzazione di determinate
amministrazioni pubbliche.
Attraverso l’insieme dei suddetti interventi si è affermato il cosiddetto dirigismo economico, ovvero la
tendenza secondo cui lo Stato interviene nell’economia, la orienta per il conseguimento dei suoi obiettivi
politici e sociali. Questa tendenza non è prevista dalla Costituzione e, ad oggi, entra in forte contrasto con
i principi dell’Unione europea. L’instaurazione di un mercato comune, caratterizzato dall’eliminazione
tra gli Stati membri di ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, è al centro
degli obiettivi dei Trattati istitutivi europei. Alla creazione di un mercato unico europeo si è giunti
utilizzando tre strumenti: 1) libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali (le
c.d. quattro libertà);
2) il divieto di aiuti finanziari; 3) la disciplina della concorrenza (gli Stati non possono impedire la
creazione di un mercato comune limitando la circolazione delle merci, ad esempio con l’introduzione di
tariffe doganali, o introdurre privilegi per le proprie imprese. Il diritto comunitario non si è limitato alla
semplice garanzia del mercato unico, basato sul principio della libera concorrenza, ma ha posto le
premesse giuridiche per la drastica riduzione dei monopoli pubblici legati a diritti di esclusiva. Quelle
attività tradizionalmente configurate come servizi pubblici devono essere sottoposte alle regole della
concorrenza, attraverso l’adozione di regolamenti e direttive, ma anche con specifiche azioni di
contrasto delle attività delle residue imprese pubbliche monopolistiche, sottoposte alle regole di
concorrenza.
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L’Unione monetaria e i parametri di Maastricht
Il mercato unico è stato completato (a partire dal trattato di Maastricht del 1993) dalla creazione di una
moneta unica: l’EURO e dalla definizione di una politica di monetaria e di cambio uniche gestite da
istituzioni comunitarie, il Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC). Prima della moneta unica gli stati
potevano servirsi di due strumenti di politica monetaria: il tasso di cambio, che definisce il prezzo
relativo tra due monete. La svalutazione di una moneta rispetto ad un'altra produce svantaggi per i
consumatori del Paese che ha svalutato, vantaggi per gli imprenditori del Paese che ha svalutato (è più
facile esportare) e svantaggio per le imprese stranere, schiacciate dalla concorrenza del Paese che ha
svalutato. Differente è la manovra del tasso di interesse: definisce il prezzo che si deve pagare sul denaro
preso in prestito. La maggioranza degli investimenti delle imprese è attuata tramite denaro preso in
prestito, più basso è il tasso, maggiori saranno gli investimenti; inversamente se il tasso è alto, calano gli
investimenti. Dunque la riduzione del tasso di interesse stimola la crescita economica ma, causando
l’aumento del denaro circolante, può creare l’inflazione. Lasciare questi strumenti agli Stati era di
ostacolo alla creazione di un mercato unico: con l’Unione monetaria questi ostacoli vengono meno,
spariscono le monete nazionali e la loro concorrenza; le decisioni sul tassi di interesse sono accentrate nel
SEBC. Tra gli obiettivi principali dell’UE vi è quello di mantenere la stabilità dei prezzi e quindi la lotta
all’inflazione.
Esiste una stretta correlazione tra mercato aperto, basato sulla libera concorrenza, moneta unica e stabilità
dei prezzi. La moneta unica e la politica monetaria consolidano il mercato comune, togliendo alla
disponibilità degli Stati membri quegli strumenti che utilizzavano per la tutela e la protezione delle
rispettive economie nazionali. Tuttavia l’instaurazione di una moneta unica impone una certa
convergenza tra le economie degli Stati dell’Unione. Questo si rende necessario poiché vi è il rischio che
l’inflazione sia esportata dai Paesi con economie più deboli verso quelli con economie forti che ne
risentirebbero: la necessità è che gli Stati aderenti all’UE abbiano condizioni finanziarie tali da ridurre i
pericoli di inflazione.
I parametri di Maastricht
L’Unione monetaria stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi membri. A questi
viene imposto il rispetto di finanze pubbliche sane. A questo proposito, due volte l’anno, gli Stati membri
devono sottoporre il proprio bilancio ad una procedura di esame con l’obiettivo di evitare disavanzi
eccessivi. Secondo il Trattato ed il Protocollo aggiuntivo un disavanzo è eccessivo se:
- il debito pubblico supera il 60% del PIL;
- il disavanzo supera il 3% del PIL.
Quando il debito di un paese risulta eccessivo la Commissione prepara un rapporto per il Consiglio,
questo può fare delle raccomandazioni al Paese in questione ed emettere sanzioni pecuniarie. Questa
particolare disciplina è stata completata dal Patto di stabilità e crescita concordato ad Amsterdam nel
1997, col quale i Paesi si impegnano a porsi obiettivi di bilancio nel medio termine.
La politica monetaria comunitaria è interamente gestita dal SEBC (organismo di tipo federale costituito
dalle banche centrali degli Stati membri e, in posizione sovraordinata, dalla Banca centrale europea). Nel
SEBC le banche nazionali svolgono principalmente due compiti:
- concorrono a determinare le decisioni del Consiglio direttivo BCE;
- danno piena attuazione di tali decisioni all’interno dei propri confini.
In questo contesto la funzione monetaria è stata completamente sottratta dalle autorità nazionali ed è
concepita come attività tecnica separata sia dai poteri politici nazionali che da quelli comunitari.
Attualmente aderiscono all’euro 18 dei 28 paesi dell’UE.
La crisi finanziaria in Europa e la nuova governance economica
Secondo il meccanismo concepito dal trattato di Maastricht le politica monetaria doveva essere condotta a
livello sovranazionale dalla BCE, mentre le politiche di bilancio restavano di competenza dei singoli
Stati. I fatti hanno tuttavia dimostrato che questo meccanismo non è riuscito ad imporre la riduzione del
debito pubblico né ad impedire che i forti squilibri macroeconomici di alcuni Paesi intaccassero
l’economia degli altri dell’Eurozona. La situazione del debito pubblico nel 2010 era drammatica per molti
Stati (fra cui l’Italia il cui disavanzo era del 118% del PIL) e ciò ha portato ad un vertiginoso aumento
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degli interessi. Si è innestato a questo punto un circolo vizioso: l’aumento degli interessi ha portato
all’aumento della spesa pubblica, che, a sua volta, è stata finanziata con altro debito pubblico. La
conseguenza è stata l’aggravarsi della crisi finanziaria. I mercati finanziari hanno dapprima colpito con la
richiesta di alti tassi uno Stato specifico, salvo poi estendere la loro richiesta speculativa a tutti gli Stati (il
c.d. contagio). Si evidenziano, così, i limiti istituzionali dell’Unione economica e monetaria: in caso di
crisi delle finanze pubbliche manca un meccanismo che garantisca la solvibilità del debito. Di norma
esiste un garante di ultima istanza rappresentato dalla Banca Centrale che stampa nuovo denaro (col
rischio di inflazione); ma questo non può avvenire per gli Stati dell’Eurozona, poiché la politica
monetaria è stata trasferita alla BCE (la quale ha come compito anche quello di evitare l’inflazione). I
meccanismi che assicurano che gli Stati perseguano l’obiettivo di finanze pubbliche sane sono troppo
deboli.
Per affrontare la grave crisi delle finanze degli Stati dell’Eurozona sono state introdotte importanti
riforme, che vanno nella direzione del rafforzamento dell’integrazione europea. La nuova governance
economica europea ha rafforzato il coordinamento europeo delle politiche economiche nazionali e reso
più efficace la sorveglianza delle politiche di bilancio di ogni Stato membro: rilievo particolare hanno nei
confronti degli Stati che rischiano l’insolvenza; essi vedono limitato il loro potere decisionale in materia e
sono obbligati a seguire le indicazioni europee. Fra 2010 e 2014 le principali innovazioni attuate sono
state le seguenti:
a) semestre europeo. Procedura finalizzata al coordinamento preventivo delle politiche economiche
e di bilancio degli stati membri, è così articolato:
i) Gennaio. La Commissione formula l’analisi annuale sulla crescita e fa proposte strategiche
per l’economia;
ii) Marzo. La Commissione predispone un rapporto sulla base del quale i Consiglio europeo
indica gli obiettivi economici e le strategie per raggiungerli;
iii) Aprile. Sulla base delle suddette indicazioni gli Stati membri comunicano i propri obiettivi di
medio termine e le riforme che intendono adottare;
iv) Giugno, Luglio. Sulla base dei documenti di ciascun Paese il Consiglio europeo e il
Consiglio dei Ministri finanziari forniscono indicazioni specifiche per ogni Paese;
v) Ottobre. Ogni stato invia un DPB (Documento programmatico di bilancio) che contiene
l’aggiornamento delle stime precedenti e i relativi provvedimenti da attuare;
vi) Novembre. Entro la fine del mese la Commissione valuta la conformità del DPB alle
prerogative e alle linee guida formulate nell’ambito del semestre europeo.
2) Nuova sorveglianza macroeconomica e finanziaria (six pack e two pack). Il six pack è un insieme di
sei regolamenti comunitari che, insieme al two pack ha modificato il Patto di stabilità e di crescita. È
stato introdotto un meccanismo di controllo sui dati macroeconomici di ciascun Paese per cui la
Commissione che ritenga ci siano degli squilibri può chiedere allo stato di intervenire per eliminarli;
3) Trattato sulla stabilità sulla governance e sul coordinamento dell’UE. La cui parte principale è il
fiscal compact, si tratta di un vero Trattato internazionale, esterno ai trattati UE che si caratterizza
per:
a) introduzione del divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5% del PIL (regola che deve
essere recepita dagli ordinamenti nazionali possibilmente con modifica costituzionale);
b) individuazione di un percorso di riduzione del debito pubblico sulla base del PIL;
4) meccanismo di solidarietà diretto agli Stati in difficoltà finanziarie. Nel 2010 è stato introdotto EFSF
dotato di risorse finanziarie messe a disposizione dagli stati membri: gli aiuti sono subordinati ad un
programma di riforme tese a migliorare i conti pubblici, la sua durata era limitata a 3 anni. Perciò
successivamente è stato istituito un meccanismo permanente di intervento diretto ad assicurare la
stabilità finanziaria nell’area euro: il Meccanismo europeo di stabilita (MES), dotato di maggiore
capitale;
5) Unione bancaria, diretta ad evitare i rischi di contagio tra sistema finanziario privato e economia
pubblica. Il contagio si è compiuto in due modi: 1) il salvataggio di banche entrate in crisi a causa di
operazioni finanziarie altamente speculative da parte di alcuni Stati costretti ad indebitarsi (Spagna,
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Cipro, Irlanda); 2) le banche hanno contribuito al risanamento acquistando i titoli di debito pubblico
del loro Paese, perdendo però la fiducia nelle proprie immobilizzazioni da parte dei mercati
finanziari. L’unione bancaria vera e propria si realizza solo per quei Paesi la cui moneta è l’euro e si
basa su 3 pilastri: a) un meccanismo di supervisione unico, che riguarda le principali banche
nazionali e la BCE; b) un meccanismo di risoluzione unico, il cui fondo è fornito dalle banche; c) la
garanzia per i depositari di somme fino a 100000€ in caso di fallimento.
Il risultato di questa crescita dell’integrazione europea è il rafforzamento del ruolo del Consiglio
Europeo. Ne è risultato un forte accrescimento del deficit democratico: le politiche europee appaiono
come scelte operate dai tecnici di Bruxelles e non dagli organi democraticamente eletti ed il pericolo che
si crea è quello della prevalenza della tecnocrazia sulla democrazia. Il deficit si è aggravato per effetto
delle innovazioni introdotte per rispondere alla crisi dei debiti sovrani. L’erogazione dell’aiuto è stata
subordinata all’attuazione di politiche di austerità decise al di fuori del circuito democratico nazionale e
da parte di istituzioni europee la cui volontà era dettata dagli Stati creditori. La nuova governance e il
fiscal compact hanno imposto politiche di austerity anche a Paesi (come l’Italia) la cui situazione non
richiedeva l’intervento del fondo ‘salvastati’.
Queste politiche sono un’arma a doppio taglio: da un lato sono ovviamente malviste dai cittadini dello
Stato in difficoltà, che devono fare molti sacrifici, dall’altro lo sono anche dai cittadini degli Stati
creditori che percepiscono di dover subire le conseguenze della cattiva gestione di altri Stati.
L’UE si trova di fronte ad un bivio: 1) restituire agli Stati una parte delle competenze perdute in materia
di politica monetaria; 2) procedere sulla strada dell’integrazione. Le elezioni per il rinnovo del
Parlamento europeo del 2014 hanno visto un preoccupante sostegno della prima tendenza, con la
conseguente elezione di rappresentanti di partiti populisti ed euroscettici. Un passo importante tuttavia è
stato fatto sulla strada della prevaricazione della democrazia sulla tecnocrazia: i partiti hanno promosso
direttamente agli elettori i candidati per la carica di Presidente della Commissione e il confronto è stato
tra le due principali correnti politiche europee: quella popolare (Junker) e quella socialdemocratica
(Schulz); il risultato non è stato favorevole a nessuno dei due candidati, si creata perciò una coalizione. Il
fatto è rilevante e può imprimere evoluzioni dell’assetto istituzionale europeo per 4 ragioni: a) un unico
candidato è stato sottoposto direttamente agli elettori europei, superando i particolarismi (e gli egoismi)
dei singoli Stati; b) Junker si è presentato con un preciso programma politico, rafforzando la prospettiva
politica transnazionale; c) si è avviata (anche se non ancora irreversibilmente) la tendenza ad un
evoluzione in senso parlamentare della forma di Governo europea; d) il programma di Junker è
spiccatamente diretto alla integrazione europea, in differenti settori a cominciare dall’economia.
La questione della crisi democratica è riesplosa nel 2015 con l’elezione in Grecia del partito di sinistra
radicale Syriza, che contestava l’austerity imposto dall’UE. Il Governo ha avviato un duro negoziato con
le istituzioni Ue al fine di ottenere aiuti finanziari e scongiurare il rischio di insolvenza. Il programma che
ne è derivato prevedeva importanti riforme strutturali e la continuazione del rigore finanziario, profili in
disaccordo con le promesse elettorali di Syriza. Il programma è stato bocciato al referendum. La non
adesione avrebbe comportato l’uscita dall’Eurozona e il conseguente ritorno alla moneta nazionale (la
dracma), con conseguenze descritte come catastrofiche dagli economisti. Tsipras ha scelto di non
ascoltare l’esito del referendum e proseguire col negoziato europeo per arrivare ad una soluzione non
drammatica per la finanza nazionale. Questa vicenda ha messo in evidenza l’esigenza di una doppia
fiducia dei Governi, rivolta agli elettori e al proprio Parlamento ma anche ai governi degli altri Stati
membri. Proprio quest’ultimo aspetto è utile per ottenere gli aiuti fiscali ma soprattutto, a quegli Stati che
necessitano di elasticità nei rapporti debito/PIL di avere maggiori margini di manovra.
Il principio democratico è sottoposto a forti tensioni nel sistema di Governo multilivello europeo. Da qui
si sviluppano due diverse tendenze:
restituire agli Stati nazionali quote di sovranità e competenze attualmente attribuite all’UE.
Questa prospettiva si basa sul presupposto che il principio democratico può operare
esclusivamente a livello nazionale, dove gli elettori possono controllare i governanti;
approfondire l’integrazione europea, dotare l’UE di un proprio indirizzo politico economico, con
la conseguenza di dover rafforzare il principio democratico, il ruolo del PE e i suoi rapporti coi
Parlamenti nazionali.
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CAPITOLO III – LA COSTITUZIONE
Significati di Costituzione
Il termine è utilizzato con significati notevolmente diversi:
a) con funzione descrittiva, indica gli elementi che caratterizzano un determinato sistema politico,
come esso è organizzato e funziona. In questo senso si può parlare di costituzione di qualsiasi
sistema politico o formazione sociale. Sono implicite in quest’accezione di costituzione
condizioni come la costanza dei meccanismi con cui si prendono le decisioni più importanti, una
certa prevedibilità nei comportamenti e la loro relativa immodificabilità;
b) con funzione di documento, ma prima come manifesto politico, frutto di richieste e concessioni a
furor di popolo e risultato di importanti riforme sociali conseguenze delle fratture provocate da
eventi storici come la Rivoluzione francese e i moti del ’48. Sono le lacrime e il sangue del
popolo che hanno cementato i muri maestri della Costituzione italiana. È un documento
fondamentale che segna il trionfo di un ideale, proiettato al futuro e pieno di promesse di
cambiamento, di programmi e speranze. La nostra Costituzione, a differenza di quella
americana, non contiene preamboli che ne definiscano gli intenti preventivamente, tuttavia è
piena di programmi ed enunciati di valore;
c) la Costituzione opera anzitutto come testo normativo, come fonte primaria del diritto, da essa
derivano diritti e doveri, attribuzioni di poteri e regole per il loro esercizio.
IL CASO:
Un professore di ginnastica in una scuola cattolica viene licenziato perché sposato con rito civile. Impugna il
licenziamento in tribunale e la questione arriva in Cassazione, dove gli viene data ragione. La cassazione utilizza la
Costituzione. Una legge ordinaria consente alle cosiddette organizzazioni di tendenza di licenziare i dipendenti
‘dissidenti’, si dice che ciò consente di tutelare l’identità particolare garantita dalla Costituzione stessa. Insomma di
fronte all’importanza costituzionale della tutela delle organizzazioni sociali, nei quali si attua il pluralismo si
possono ammettere deroghe al sacrosanto diritto al lavoro anch’esso garantito dalla Costituzione. La Cassazione ha
però interpretato la legge nel modo più conforme alla Costituzione, poiché ha ritenuto che la vita privata di un
professore di ginnastica non incida sulla linea educativa adottata nella scuola. Se l’interpretazione non avesse
consentito questa mediazione, l’unica strada possibile sarebbe stato il ricorso per incostituzionalità della legge sul
licenziamento per motivi ideologici nelle organizzazioni di tendenza alla Corte Costituzionale.
Il termine Costituzione è usato in senso descrittivo soprattutto dai sociologi e dai politologi: essi sono
interessati a come un sistema concretamente vive piuttosto che alle sue premesse normative. Alla
Costituzione come manifesto politico guardano soprattutto gli storici e i filosofi, che sono
particolarmente interessati a comprendere la genesi di un documento così significativo per la storia e il
pensiero politico: a loro interessa ricostruire gli eventi politici che hanno ispirato i ‘padri’ del testo
costituzionale, ambientarli nel loro contesto, seguirne l’evoluzione e i cambiamenti. I giuristi guardano
alla Costituzione come ad un testo normativo, per decidere se un determinato atto o comportamento può
essere qualificato come legittimo o meno. Per usare un testo come premessa di una decisione bisogna
prima interpretarlo e, nell’opera di interpretazione anche la descrizione del funzionamento concreto del
sistema e la ricostruzione della sua genesi storica forniscono informazioni molto utili. Si incorre in un
intollerabile confusione: tra ciò che è il sistema politico e ciò che il comportamento dei suoi attori deve
essere, tra la descrizione del sistema e la prescrizione costituzionale. Oppure tra ciò che oggettivamente
oggi esprime il testo costituzionale e ciò che chi ha concepito la costituzione intendeva che esprimesse.
Potere costituente e poteri costituiti
Se tutti i sistemi politici hanno una costituzione in senso descrittivo, non tutti hanno anche una
costituzione come documento scritto. La Costituzione come testo normativo è un fenomeno abbastanza
recente, frutto di un movimento filosofico chiamato “costituzionalismo”, che fa della Costituzione scritta
un obiettivo irrinunciabile, sinonimo di libertà. Costituzione come ‘manifesto politico’ e come
‘documento normativo’ nascono insieme: il ‘testo’ è la traduzione in regole giuridiche del ‘manifesto’.
Non tutti i Paesi moderni hanno una Costituzione scritta, anzi tra i Paesi privi di Costituzione scritta vi è
anche il Regno Unito, alla cui costituzione, paradossalmente, dichiara i ispirarsi il costituzionalismo
moderno. La straordinaria continuità della storia politica inglese ha dato luogo ad una stratificazione di
regole e consuetudini che ha stabilizzato l’assetto costituzionale del potere, senza che si sia creata
l’esigenza di emanare un atto specifico. Ciò nonostante non mancano in Inghilterra i testi costituzionali:
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la differenza con quelli tradizionali è che essi venivano emanati ogni qual volta, in momenti di crisi, si
riteneva ci fosse bisogno di una nuova regola costituzionale. È il caso della ‘Magna Charta’ , degli acts
sulla Unione con Scozia, sulle direttive parlamentari e sul diritto elettorale fino alla recente devolution
della Scozia.
Ora, mentre la Costituzione in senso descrittivo è il riflesso fisiologico di un sistema politico, la
Costituzione come documento, invece, è un consapevole atto di volontà, frutto di sconvolgimenti politici
(spesso vere e proprie rivoluzioni), attraverso il quale il sistema politico tende a consolidarsi ponendo in
essere un insieme di regole alle quali dovrà soggiogarsi. Solitamente è un sistema politico non ancora
consolidato, provvisorio, che vuole uscire da una condizione di precarietà ad emanare una Costituzione.
POTERE COSTITUENTE E POTERE COSTITUITO IN ITALIA
La fine del regime fascista, instauratosi con metodi formalmente legali, diede luogo ad una serie di eventi
visti come una rottura dell’ordinamento. Mussolini, sfiduciato da Gran Consiglio del Fascismo, viene
revocato dal suo incarico dal Re, al suo posto Vittorio Emanuele III pone a Capo del Governo il
maresciallo Badoglio. Badoglio, servendosi della decretazione d’urgenza, soppresse tutti gli organi
istituzionali del fascismo e annunciò l’elezione di una nuova Camera. L’intento era chiaramente quello di
ripristinare la forma parlamentare prefascista. Le forze del C.L.N. si opposero a questo tentativo e
chiesero, dopo l’armistizio, l’avvio di un nuovo processo costituente. Nel 1944 il C.L.N. e Badoglio
raggiungono un’intesa: col Patto di Salerno la questione istituzionale è rimandata e si decide di
convocare, finita la guerra, un’Assemblea costituente. Il Re nomina il figlio Umberto Luogotenente e si
ritira, subito dopo, nel secondo Governo Badoglio, entrano gli esponenti politici del C.L.N. Nel 1944 si
istituì un nuovo Governo,interamente formato da membri del C.L.N.: viene emanata una Costituzione
provvisoria che, annunciando l’elezione dell’assemblea costituente a suffragio universale e diretto,
dettava le regole per la produzione normativa successiva. Ne segue un periodo di instabilità politica
dovuta ai contrasti all’interno del C.L.N.: è rilevante l’istituzione dell’organo della Consulta Nazionale,
con compito consultivo del Governo i cui membri sono designati dai partiti maggiori. Dello stesso
periodo è la legislazione preparatoria del processo costituente (legge per l’elezione proporzionale dei
membri dell’assemblea costituente e la disciplina per il referendum istituzionale): l’assemblea assumeva
anche funzioni tipicamente parlamentari poiché fra l’altro, aveva anche facoltà di approvare le leggi del
Governo; inoltre si stabilì che la decisione sul nuovo assetto istituzionale spettasse all’elettorato e non più
all’assemblea costituente. Il 10 maggio 1946, il Re, contravvenendo ai patti e alla vigilia delle votazioni
per il referendum istituzionale, abdica in favore del figlio Umberto che gli succede facendo cadere la
luogotenenza: il tentativo disperato è quello di separare le proprie responsabilità per l’avvento del
fascismo da quelle della Corona. Il referendum vide vincitore l’assetto costituzionale repubblicano, ma i
monarchici contestarono a lungo il conteggio. Il Presidente del Consiglio De Gasperi assunse il ruolo di
capo di Stato temporaneamente.
Con la Costituzione si esaurisce il potere costituente ed inizia il potere costituito. Il potere costituente è
definito nel linguaggio giuridico come l’unico potere libero, perché nessuna regola preesistente lo
vincola, prima di esso c’è il caos. Esso si esercita in situazioni di fatto in cui non valgono né giudici, né
legalità, ma solo i rapporti di forza come nel caso di rivoluzioni, guerre civili, colpi di stato. Non sempre
però esso è del tutto privo di vincoli giuridici: il referendum in Italia del 1946 ad esempio, poneva un
limite preciso alle scelte che l’assemblea costituente poteva compiere; infatti, nella Costituzione del 1948
si vieta di utilizzare i mezzi della revisione costituzionale per modificare la forma repubblicana (art. 139).
Si può affermare, quindi, che l’Assemblea costituente, vincolata da una decisione del popolo a scrivere
una Costituzione repubblicana, non avrebbe potuto consentire che in seguito, gli organi del ‘potere
costituito modificassero quella decisione.
I condizionamenti di cui risente il potere costituente sono principalmente di natura politica: 1) il consenso
interno che è necessario, poiché nessun regime politico può durare a lungo solo grazie alla coercizione e
alla violenza. Le regole che si intendono introdurre nella Costituzione devono perciò essere condivise
dalla maggioranza delle forze politiche, sempre a condizione che queste forze politiche siano capaci di
rappresentare i valori e gli interessi della gran maggioranza della società; 2) il consenso esterno che si
esprime attraverso la pratica del riconoscimento internazionale. Attraverso il riconoscimento
internazionale lo Stato acquisisce l’approvazione degli altri Stati o quanto meno il suo riconoscimento
come Stato sovrano.
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Per Hans Kelsen un ordinamento giuridico, uno Stato, nasce e s’impone di fatto e le ragioni per cui esso
riesce a imporsi non sono spiegabili dal diritto. Perché le persone ubbidiscono alle norme di un
determinato ordinamento giuridico? Nessuna delle risposte che si possono dare a questa domanda è
esprimibile in termini di diritto. Egli la vede così: esiste una norma fondamentale (Grundnorm) che
afferma che le norme di quell’ordinamento devono essere rispettate, essa giustifica la validità di tutte le
altre, ma non è a sua volta giustificata. La dottrina di Kelsen è detta pura proprio perché prescinde da
tutte quelle valutazioni causali di ordine storico, sociologico, politico, ecc.,che si possono fare: essa è
contestata e discussa, ma di fatto accettata da larga parte dei giuristi anche perché si fonda ed applica ai
sistemi giuridici il teorema dell’incompiutezza di Gödel. Anche il diritto è un sistema formale in cui non
è possibile decidere sulla validità della totalità delle norme che lo formano senza sconfinare dal diritto
stesso e cercare risposta altrove.
Le Costituzioni sono il riflesso del passato storico che ha prodotto la rottura e la crisi del vecchio regime
e l’instaurazione del nuovo ordine. Riflettendo sulle diverse situazioni storiche si può comprendere la
tradizionale distinzione tra costituzioni flessibili e costituzioni rigide.
Costituzioni ‘flessibili’ e Costituzioni ‘rigide’
Sono flessibili quelle costituzioni che non prevedono un procedimento particolare per la loro modifica,
ma consentono che questa avvenga attraverso la normale attività legislativa; sono rigide, invece, quelle
costituzioni che dispongono di un procedimento particolare per la modificazione del testo costituzionale,
più gravoso di quello per le leggi ordinarie. Per le prime, laddove ci sia conflitto tra una norma ordinaria
e una costituzionale non è prevista alcuna garanzia che tuteli la Costituzione, perciò, in tal caso, è questa
a cedere. Per le seconde, invece, esiste un giudice apposito che ha il compito di verificare la compatibilità
delle leggi ordinarie rispetto a quelle costituzionali.
Le costituzioni flessibili sono tipiche dell’800, gentilmente concesse dal sovrano e tendenzialmente brevi;
quelle rigide sono invece tipiche del 900 e sono costituzioni lunghe, poiché non si limitano alla
definizione generale di norme riguardanti il potere pubblico, ma riguardano anche ambiti particolari e
disparati.
Tuttavia la differenza più marcata è quella di funzione, di scopo:
sulla nozione di Costituzione ‘flessibile’. Le costituzioni dell’800 segnavano la fine del potere
assoluto ed avviavano il processo di condivisione della titolarità della sovranità tra Re e
Parlamento, così che il primo si sottoponesse alla legge e la società assumesse titolarità del
potere tramite i suoi rappresentanti in Parlamento. Il compito di queste costituzioni flessibili si
esauriva stabilito che, da quel momento, la legge ed il suo procedimento erano fonti legittime
dell’autorità. Tuttavia se, da un lato, diritti e libertà erano solennemente professati, dall’altro il
consenso congiunto di Re e Camera poteva plasmarli a piacimento.
Lo Statuto Albertino del 1848 è un tipico esempio di costituzione flessibile, col quale il Re rinunciava
“con decisione perpetua ed irrevocabile” ad essere un sovrano assoluto. Nessuna norma prevedeva la sua
revisione, nessun procedimento era prescritto per la sua modifica ma parve subito impossibile che lo
Statuto fosse immodificabile. Si diceva, anzi, che proprio nella modificabilità stesse la forza dello Statuto
che, al contrario delle costituzioni rigide, garantiva con la sua pieghevolezza la rinnovazione tacita e la
stabilità dell’ordinamento poiché una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni
future. Irrevocabile, come ebbe cura di chiarire Cavour pochi giorni dopo la promulgazione, era da
riferirsi allo stato di condivisione della sovranità fra Parlamento e Re. Infatti se il potere fosse passato
totalmente in mano del Re, vi sarebbe stata violazione costituzionale. Le continue oscillazioni verso un
sistema parlamentare e i continui colpi di mano del Re, atti a tornare allo Statuto, sino alla chiamata al
Governo di Mussolini e l’instaurazione di forme legali del fascismo sono il risultato di una Costituzione
ritenuta modificabile solo attraverso il consenso congiunto di Re e Parlamento.
Le Costituzioni di allora erano costituzioni che guardavano al passato, non al futuro. In esse l’aspetto
della costituzione come ‘manifesto politico’ prevaleva nettamente sulla Costituzione come ‘testo
normativo’: si proclamava l’irrevocabilità della concessione piuttosto che badare alle modifiche future.
L’idea che lo Statuto fosse interamente e liberamente modificabile non è stata mai prevalente. L’idea
dominante è che ciò potesse accadere, per via consuetudinaria o per legge, solo attraverso l’accordo
congiunto di Re e Camere: perciò, tutto si poteva modificare ad esclusione del principio secondo cui era
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necessario l’accordo delle Camere e del Re per legiferare. Tuttavia era pratica diffusa il raggiro, da parte
del Governo, del consenso parlamentare per mezzo di decretazioni d’urgenza, tendenza che incontrò la
fiera opposizione dei giudici che accusavano il Governo di usurpazione del potere legislativo ai danni
delle Camere. In molti casi proprio l’intervento parlamentare impedì la modifica strisciante dello Statuto.
Sulla nozione di Costituzione ‘rigida’. Le Costituzioni rigide pretendono che tutte le loro
disposizioni abbiano forza regolativa e siano trattate come norme inderogabili. La rigidità
costituzionale può servire a scopi diversi: nel caso americano essa è conseguenza dell’origine
federale dello Stato unitario. Esso si forma attraverso un patto fra Stati sovrani che decidono di
trasferire la loro sovranità in capo ad uno Stato centrale: queste regole non possono mutare se
non attraverso una procedura complessa nella quale va espresso anche il consenso degli Stati
membri. Nelle costituzioni del ‘900 è comunque presente una componente di ‘patto’ anche
laddove esse non siano risultato di un processo di federalizzazione: non è un patto tra Stati ma
fra componenti religiose, politiche, sociale ecc., e ciò che vuole garantire è principalmente che la
componente che ottiene la temporanea maggioranza non prevalga sulle altre. Per il
raggiungimento di questo obiettivo la strada è opposta rispetto a quella delle costituzioni
flessibili: ogni costituzione rigida è frutto di un compromesso e deve essere necessariamente
essere garantita da un giudice a cui è attribuito il compito di assicurarlo.
Le garanzie della rigidità costituzionale
La Costituzione rigida è una Costituzione garantita: è garantita la prevalenza delle sue regole rispetto a
qualsiasi altra regola. Le garanzie sono di due tipi:
-procedimento di revisione costituzionale. Il procedimento è sempre più gravoso rispetto al normale
procedimento legislativo; per modificare la Costituzione occorrono maggioranze molto ampie: si devono
realizzare condizioni simili a quelle che hanno prodotto il compromesso iniziale, perciò il processo di
revisione è differente da Stato a Stato. Tuttavia non esiste una Costituzione così rigida da non ammetter
alcun cambiamento: essa sarebbe un invito alla rivoluzione alla rottura violenta dell’ordinamento. Ogni
costituzione trova un punto di equilibrio tra due esigenze contrastanti: quella della stabilità delle norme
costituzionali e quella dell’adeguamento delle regole ai problemi che l’esperienza pone.
Di tutte le Costituzioni moderne prese come termine di paragone, quella italiana è la più facile da
cambiare: in Germania, qualsiasi modifica deve ottenere il consenso di almeno 2/3 dei membri delle
Camere; in Portogallo e in Giappone, inoltre, è richiesta conferma popolare per mezzo di referendum; in
Belgio è prevista l’elezione di nuove Camere prima della votazione finale; in Norvegia, in Svezia e in
Danimarca il Parlamento che propone una modifica viene sciolto e viene rinviata alle nuove Camere la
decisione finale, spesso poi si ricorre al referendum popolare; in Grecia, allo stesso modo, sono previste
due delibere delle vecchie Camere e una di quella nuova e viene comunque imposto il raggiungimento
della maggioranza di 3/5 dei deputati; in Spagna, le riforme richiedono la maggioranza di almeno 3/5 dei
membri delle Camere, per le decisioni più importanti è imposto che le Camere votino a maggioranza dei
2/3, siano sciolte e le nuove Camere devono rivotare con la stessa maggioranza, in seguito la riforma è
sottoposta a referendum popolare. Negli USA le riforme devono passare attraverso due filtri: il Congresso
ed il Parlamento degli Stati membri, le maggioranze richieste variano tra proposta e approvazione. In
Francia è possibile modificare la Costituzione tramite la semplice maggioranza nelle due camere, il
referendum può essere evitato solo se le Camere approvano la proposta a maggioranza dei 3/5.
E in Italia? Il meccanismo di modifica è macchinoso ma paradossalmente semplice: la via principale è il
consenso di uno schieramento abbastanza vasto da ricreare le condizioni che avevano posto in essere la
Costituzione, per non rendere questo processo troppo complicato e per non regalare alle minoranze il
diritto di veto, si è previsto che la modifica sia voluta dalla sola maggioranza di Governo, salvo il ricorso
al corpo elettorale dell’opposizione.
L’introduzione di un processo gravoso di modifica della costituzione non avrebbe senso se non fosse
posta in essere un’autorità capace di verificare che tali procedure siano verificate e non siano aggirate. La
maggioranza delle istituzioni affida questo compito ad un giudice particolare che deve rispettare alcune
caratteristiche: è necessario che sia estraneo ai giochi politici, che non abbia carattere rappresentativo e
non risponda al principio di maggioranza.
Costituzione scritta e diritto costituzionale
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La Costituzione italiana conta 139 articoli: in essa sono stati trasfusi tutti gli interessi e i valori che le
diverse forze ritennero tanto importanti da porli al riparo dalle scelte del legislatore futuro. Fra questi si
distinguono alcuni principi, che non interessano singole materie, ma possono trovare applicazione in
qualsiasi campo.
Ciò significa che, potenzialmente, ognuno dei milioni di articoli delle leggi in vigore possono essere
imputati di fronte alla Corte Costituzionale affinché ne venga provata la legittimità. Sia l’articolo della
Costituzione che l’articolo della legge ordinaria vengono perciò confrontati: tuttavia sono norme molto
diverse. Cambia il grado di definizione, di dettaglio.
La Corte però non si occupa solo dei giudizi di compatibilità della legge ordinaria con la Costituzione,
poiché essa deve anche garantire la rigidità dell’intero assetto costituzionale dei poteri pubblici, ovvero
della forma di stato e della forma di governo. Ma come fa la Costituzione a fornire risposte a qualsiasi
caso particolare? Ad essere applicabile a qualsiasi caso particolare se la sua composizione è minima
rispetto alle infinite possibilità della prassi?
La Costituzione non galleggia nel nulla. Attorno ai suoi 139 articoli ci sono numerose componenti che
formano il diritto costituzionale: innanzitutto rilevante è il ruolo delle leggi costituzionali. Sono leggi
emanate per integrazione o modifica della Costituzione o previste dalla Costituzione stessa per questioni
specifiche. Dal 1948 al 2013 le leggi costituzionali sono state 38, di cui le prime cinque, approvate
dall’Assemblea costituente nel 1948. Vi è poi l’eredità della tradizione costituzionale: la storia
costituzionale moderna ha depositato le regole basilari di funzionamento delle istituzioni rappresentative
e delle garanzie delle libertà individuali oltre ad aver fornito modelli precisi, sistemi di regole i quali sono
sviluppati per garantire un determinato equilibrio degli interessi. La ricostruzione dei modelli di
riferimento, la ricomposizione del quadro di riferimento sono compiti principali della dottrina. Vi è, poi,
la giurisprudenza della Corte che è un lavoro di continua specificazione del significato delle disposizioni
costituzionali in reazione agli infiniti casi pratici quotidiani. Tale specificazione ovviamente mantiene un
certo grado di coerenza: la Corte si sforza di collocare in un sistema omogeneo le proprie affermazioni.
Ruolo non poco importante lo svolge anche la legislazione ordinaria almeno in due direzioni: 1) esiste
una massiccia legislazione complementare alla materia costituzionale (legislazione elettorale, regolamenti
parlamentari, disciplina del referendum, ordinamento giudiziario, ecc.): queste competenze sono delegate
alla legge ordinaria dalla Costituzione stessa per mezzo delle riserve di legge. Se, da un lato, la legge è
vincolata a seguire i principi cardine dettati dalla Costituzione, dall’altro sarà proprio la legge a dare una
configurazione concreta a questi tratti; 2) la Costituzione, soprattutto nella parte dedicata alle libertà e ai
diritti fondamentali, richiama nozioni che sono elaborate dalla legislazione di settore. Benché la norma
costituzionale rappresenti un limite per la legge ordinaria di settore, capita che la prima non possa essere
intesa se non in relazione alla seconda. Esiste una certa coerenza sistematica che lega la Costituzione alla
legislazione ordinaria.
Disposizioni, norme, regole, principi, valori, interessi
Valori e interessi sono concetti esterni e precedenti al mondo delle norme, sono gli obiettivi che muovono
il legislatore: essi entrano nel contesto normativo sotto forma di principi. I principi sono un tipo di norma
giuridica che si distingue dalle regole per un elevato grado di genericità e per non essere circostanziato.
Le regole rendono operativo il principio concretizzandone il senso. A loro volta principi e regole (che
insieme formano l’insieme delle norme giuridiche) sono costruzioni operate dagli interpreti al fine di dare
senso coerente agli enunciati dei legislatori: le disposizioni. Le disposizioni sono dunque parte del testo,
enunciati scritti dal legislatore; le norme giuridiche sono il significato che a tali disposizioni attribuiscono
gli interpreti. Nel linguaggio corrente è assai frequente la distinzione tra costituzione formale e
costituzione materiale: per costituzione formale si intende il complesso di disposizioni della Costituzione
e le norme che ne sono ricavate; per costituzione materiale si intende invece, l’assetto costituzionale
effettivo, frutto di interpretazioni, integrazioni e deroghe alla Costituzione. Nella prassi perciò la
Costituzione assume una fisionomia diversa da quella prevista dal testo. Se così fosse tutte le divergenze
tra costituzione formale e costituzione materiale dovrebbero essere dichiarate semplicemente illegittime.
L’introduzione del termine ‘materiale’ sembra voler giustificare quelle prassi contestabili e contestate.
La Costituzione italiana
La Costituzione Italiana entrò in vigore il 1 gennaio del 1948 e fu approvata dall’Assemblea Costituente
L’Assemblea costituente fu eletta il 2 giugno del 1946 per la prima volta a suffragio universale (anche
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femminile) e si componeva complessivamente di 556 membri proporzionalmente ripartiti. All’AC non
spettò solo il compito di scrivere una Costituzione, ma gli furono delegati altri compiti di competenza
prevalentemente parlamentare:
1) eleggere il capo provvisorio di Stato (Enrico de Nicola); 2)far valere la responsabilità politica del
Governo: approvare le leggi in materia costituzionale, elettorale e i Trattati internazionali (l’AC contestò
con forza la delega di funzioni legislative al Governo, si arrivò ad un accordo secondo cui l’AC aveva
facoltà di scegliere quali decreti potesse emanare il Governo e quali erano propria competenza). I lavori
furono molto più lunghi del previsto, nonostante la frattura che si era prodotta all’interno dell’AC tra le
forze politiche: il nuovo testo fu approvato il 22 dicembre del 1947 con una maggioranza del 90%.
Un tale accordo tra forze politiche contrastanti è stato possibile solo grazie al fatto che la Costituzione è:
lunga poiché somma e non seleziona le istanze, gli interessi e i valori delle diverse componenti;
aperta poiché lascia alla legislazione successiva la ricerca del punto di equilibrio tra i diversi
interessi che si limita ad elencare.
C’è da dire che il contesto di nascita della Costituzione fu unico e irripetibile: l’ignoranza da parte dei
partiti della loro futura sorte politica , eletti per la prima volta col voto delle donne dopo il ventennio
fascista, sono condizioni che non si verificheranno per chissà quanto tempo. Perciò è così difficile oggi
modificare la Costituzione. In tutte le componenti è stata maggiore la paura di soccombere rovinosamente
nelle nuove elezioni rispetto alla preoccupazione di imporsi sugli altri: da qui prende senso la
Costituzione stessa rivolta a scongiurare la prevalenza della maggioranza sulle minoranze e alla tutela di
queste ultime. Il risultato è che la Costituzione afferma valori opposti, spesso conflittuali senza dire quale
dovrà prevalere, è aperta, come si è detto, e ciò le conferisce al contempo stabilità e un’elevata
dinamicità, un’elevata capacità di adattarsi ai tempi. In questo senso molte sono state le critiche mosse: la
Costituzione sarebbe troppo vecchia e legata a un contesto anacronistico ed estremo, si preoccupa solo di
porre limiti e garanzie senza preoccuparsi dell’efficienza dell’intero meccanismo istituzionale. Ma per
definizione le Costituzioni hanno come obiettivo quello di scongiurare l’avverarsi di condizione analoghe
a quelle in cui sono nate e di porre limiti. È tendenza comune scaricare sulla Costituzione le conseguenze
delle incapacità delle istituzioni politiche allo stesso modo in cui un pilota incolpa il costruttore dell’auto
della sua cattiva conduzione.
Purtroppo il costituente qualche errore lo ha commesso. Il più grave forse è l’ingenuità commessa nel
progettare quei tipici meccanismi costituzionali che servono ad evitare la concentrazione del potere nelle
mani di pochi: i c.d. contropoteri. Il loro funzionamento è stato rinviato a delle leggi di attuazione della
Costituzione, la loro operatività è rimesta condizionata dalla legge, che è la più tipica espressione della
volontà della maggioranza stessa: il potere costituente ha affidato al potere costituito di porre in essere
organi che ne avrebbero dovuto limitare il potere. Il risultato è stato una lunga fase di inattuazione della
Costituzione: la Corte Costituzionale ha iniziato il suo lavoro otto anni dopo l’entrata in vigore della
Costituzione; il Consiglio Superio della Magistratura è rimasto privo di ordinamento per dieci anni dopo
l’entrata in vigore delle Costituzione; le leggi per il funzionamento delle Regioni ordinarie e del
referendum (abrogativo e di approvazione delle leggi costituzionali) sono state varate ben ventidue anni
dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
Contenuti
La Costituzione italiana del 1948 si compone di parti diverse. Inizia con i principi fondamentali: 12
articoli che contengono norme di principio, poste talvolta l’una in contrasto con l’altra, risultato del
complesso di premesse ideologiche e politiche che hanno trascritto i costituenti traendole dai loro
manifesti politici. Questi principi fondamentali assegnano al legislatore il compito di dare agli stessi
rilievo operativo: ciò non significa che, di per sé, essi non hanno rilievo giuridico; infatti il giudice può,
senza l’intervento del legislatore, agire in maniera negativa, ovvero impugnando l’incostituzionalità di
quelle norme che vanno in direzione opposta, che ostacolano l’operato del legislatore. Almeno questa
funzione ‘negativa’ può essere riconosciuta sul piano giuridico alle ‘norme programmatiche’ che sono
disseminate in più punti della Costituzione. L’avvento della Corte Costituzionale, e l’applicazione che
essa ha fatto di ogni norma costituzionale, ha fatto perdere di significato la distinzione, nelle norme
costituzionali, tra norme precettive e norme programmatiche, a seconda che potessero essere applicate dal
giudice direttamente o necessitassero dell’intervento del legislatore. La maggior parte delle norme era
dunque programmatica: non poteva essere applicata in tribunale senza l’intervento del legislatore
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ordinario, una minima parte invece era ‘pronta all’uso’. La Corte ha subito contestato questa tendenza
dichiarando che tutte le disposizioni costituzionali come fonti di legge direttamente applicabile. Le altre
disposizioni, come si diceva, sono il risultato del compromesso tra principi opposti:
i. l’art. 1, comma 2 pone il principio della sovranità popolare, ma subito ne limita la portata
affermando che essa si esercita nelle sole forme individuate dalla Costituzione, rimandando agli
artt. che riguardano la disciplina della democrazia cooperativa e della democrazia diretta;
ii. l’art. 2 afferma l’inviolabilità dei diritti umani, ma anche l’inderogabilità dei doveri di
solidarietà, cosicchè i primi possono venir meno in nome dei secondi (diritto di lavoro, diritto di
sciopero e assicurazione del funzionamento dei servizi pubblici essenziali);
iii. l’art. 3 afferma l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma anche il dovere
pubblico di rimuove le disuguaglianze di fatto; così se sono vietati i privilegi resta nella facoltà
del legislatore introdurre differenziazioni tra soggetti se rivolte a una migliore giustizia sociale.
Una seconda sezione (parte I - Diritti e Doveri dei Cittadini) pone le garanzie delle libertà individuali ed
economiche, nonché i modi di esercizio della sovranità da parte del popolo. Segue una terza sezione
(parte II - Ordinamento della Repubblica) dedicata all’organizzazione costituzionale dello Stato:
Parlamento, Presidente della Repubblica e Governo nei loro rapporti reciproci; disciplina della pubblica
amministrazione e della Magistratura, delle Regioni e delle autonomie locali, oltre alla disciplina degli
organi di garanzia e della revisione costituzionale.
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emerge con chiarezza la coalizione di maggioranza: questa poi non si servirà dello Stato come mezzo per
eliminare la concorrenza, perciò la regola di maggioranza potrà essere applicata. La conformazione finale
è del tutto simile a quella di un sistema bipartitico, in cui esistendo due soli partiti, le elezioni diventano
una competizione tra due forze alternative, ciascuna delle quali aspira a conquistare la maggioranza
parlamentare ed a fare sì che il proprio leader assume la guida del Governo.
Tuttavia, allo stesso modo in cui il sistema dei partiti condiziona il funzionamento della forma di
governo, la forma di governo influenza il sistema dei partiti in quanto fornisce la struttura formale attorno
alla quale questi si articolano e dalla quale non possono prescindere. Si dice che tra sistema politico e
forma di governo esiste un rapporto di condizionamento reciproco.
Il sistema parlamentare e le sue varianti
Forma di governo parlamentare e razionalizzazione del potere
La forma di Governo parlamentare si caratterizza per l’esistenza di un rapporto di fiducia tra Governo e
Parlamento: il primo costituisce emanazione permanente del secondo, il quale può costringerlo alle
dimissione votandogli contro la sfiducia. Se il Parlamento è bicamerale poi, occorre distingue fra quei
sistemi in cui la fiducia è facoltà di entrambe le Camere e quei sistemi in cui una sola Camera (quella
politica) ha questa facoltà.
Le Costituzioni del secondo dopoguerra hanno cercato di evitare l’eccessiva instabilità dei governi,
esposti costantemente al rischio di perdere la fiducia parlamentare. Dall’esigenza di contrastare tali
pericoli ha preso corpo la tendenza alla razionalizzazione del parlamentarismo, ovvero la tendenza a
tradurre in disposizioni costituzionali scritte le regole sul funzionamento del sistema parlamentare che si
erano già imposte in via di prassi. La razionalizzazione del parlamentarismo ha avuto come obiettivo
prevalente quello di garantire la stabilità del Governo e la sua capacità di realizzare l’indirizzo politico
prescelto, nell’ambito di un sistema costituzionale che comunque tutela le minoranze politiche. La
Costituzione italiana prevede una forma di governo parlamentare a debole razionalizzazione: la differenza
con gli schemi del razionalismo ottocentesco è la presenza di un Presidente della Repubblica con funzioni
autonome e di una Corte Costituzionale al cui sindacato è sottoposto l’esercizio della funzione legislativa.
L’esempio più significativo di razionalizzazione è offerto dalla Costituzione Tedesca del 1949. Essa
prevede un parlamentarismo che affibbia risalto particolare al Capo del Governo ovvero il Cancelliere,
che è eletto senza dibattito dal Bundestag su proposta del Presidente: qualora non ottenga la maggioranza
la Camera può eleggere a maggioranza assoluta un nuovo Cancelliere entro 14 gg; se, decorso questo
termine, il candidato non ha raggiunto tale maggioranza, il Capo dello Stato deve scegliere se nominarlo
ugualmente o sciogliere la Camera. Attraverso questa decisione si punta a raggiungere i seguenti
obiettivi: 1) creare un Governo in cui sia assicurata la preminenza del Cancelliere, legittimato
dall’elezione parlamentare; 2) consentire, anche se non si è raggiunta la maggioranza assoluta, la
creazione di un Governo, seppure minoritario, rimettendo al Capo dello Stato la decisione se sciogliere la
Camera o mantenerla in carica; 3) rendere il Cancelliere titolare di importanti poteri, tra cui quello di
determinare l’indirizzo politico del Governo. L’istituto più noto è quello della sfiducia costruttiva, in base
al quale il Parlamento può votare la sfiducia al Cancelliere esclusivamente se contestualmente elegge un
successore a maggioranza assoluta, con l’intento di evitare le cosiddette crisi al buio, cioè quelle crisi che
si aprono senza che le forze politiche abbiano scelto la soluzione da dare alla crisi.
Parlamentarismo maggioritario e parlamentarismo compromissorio
Il funzionamento del sistema deriva dall’interazione tra la disciplina costituzionale e le caratteristiche del
sistema politico. In questa prospettiva si distingue tra parlamentarismo maggioritario e compromissorio.
A. Parlamentarismo Maggioritario. Caratterizzato dalla presenza di un sistema politico bipolare,
con due partiti (o due poli) ciascuno alternativo all’altro. Le elezioni in questo modo danno vita
ad una maggioranza politica chiara, il cui leader gode di forte legittimazione politica (derivante
dall’investitura popolare) e in cui il Governo gode dell’appoggio del Parlamento
tendenzialmente per tutta la durata della legislatura (Governo di legislatura). L’elettore
formalmente non vota per il Primo Ministro, ma per i candidati del suo collegio elettorale:
tuttavia egli si comporta come se votasse direttamente per il Primo Ministro, poiché ciascuna
coalizione si presenta già con un candidato leader che assumerà il potere in caso di vittoria. Al
partito che costituisce la maggioranza si contrappone quello che costituisce la minoranza detto
opposizione parlamentare: essa esercita un controllo politico sulla maggioranza al fine di poterne
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prendere il posto a fine mandato. Si realizza così un’alternanza ciclica fra i partiti
all’opposizione e quelli alla maggioranza: la funzione di opposizione trova fondamento
normativo in regole dettate dalla consuetudine e in regolamenti parlamentari (in Inghilterra
Gabinetto Ombra).
Nel 1990 Margaret Thatcher dopo aver vinto le elezioni, non fu riconfermata leader del partito
conservatore e costretta alle dimissioni. Al suo posto subentrò un altro candidato: John Major, nominato
in seguito dalla Regina. Allo stesso modo nel 2007 il primo Ministro Tony Blair, persa la fiducia
popolare per l’intervento in Iraq, è costretto alle dimissioni e sostituito da Gordon Brown. Ma come si
conciliano questi episodi col principio del parlamentarismo maggioritario che vuole affidata al corpo
elettorale l’investitura del Primo Ministro? In realtà è proprio su questa tendenza che si basa la differenza
tra parlamentarismo maggioritario e presidenzialismo statunitense. Il parlamentarismo inglese è basato
sul ruolo dei partiti e non sulla figura del Primo Ministro, anzi la legittimazione di questo deriva proprio
dall’appoggio del partito di appartenenza, sicché è lo stesso partito che sarà giudicato in termini di
responsabilità politica dagli elettori alle elezioni successive. Al contrario nel presidenzialismo gli elettori
votano direttamente per le persone dei candidati: i partiti di appartenenza hanno quasi un ruolo di
semplice sostegno de candidato più che un potere effettivo.
Il Parlamentarismo Maggioritario può funzionare solo in presenza di una cultura politica omogenea.
Diversa è la situazione nelle società segnate da profonde divisioni sociali nelle quali si adotta, al fine di
evitare conflitti violenti, una forma di Governo diversa, che prende il nome di parlamentarismo a
prevalenza del Parlamento che può arrivare ad essere un parlamentarismo compromissorio.
B. Parlamentarismo a prevalenza del Parlamento. Opera in presenza di numerosi partiti tra i quali
esistono profonde differenze ideologiche. Le elezioni non consentono all’elettore di scegliere né
la maggioranza né il Governo; dopo di queste si rendono necessari accordi fra i partiti per
formare la maggioranza politica ed individuare la composizione del Governo e il primo Ministro.
Il Governo può contenere esponenti appartenenti a tutti i partiti della maggioranza (Governo di
coalizione), oppure godere dell’appoggio di partiti esterni. L’equilibrio di Governo si regge sugli
accordi fra partiti, ognuno dei quali ha potere di ricatto: per questo questa forma di Governo è
fondamentalmente debole ed instabile. Cresce, invece, il ruolo del Parlamento, perché il
Governo per mantenere la fiducia, è portato a contrattare con i gruppi presenti all’interno del
Parlamento il contenuto delle leggi;
C. in alcuni sistemi poi, la procedura parlamentare è formulata in modo da consentire il dialogo ed
il progressivo raggiungimento di accordi anche tra partiti in radicale opposizione ideologica. Il
sistema in questione può essere definito parlamentarismo compromissorio. Esso comporta la
garanzia del pluripartitismo e la competizione tra partiti durante la campagna elettorale: le
elezioni servono solo a individuare il consenso di ciascun partito e la proporzionale forza politica
di cui gode. Il compromesso tuttavia segna la mancanza di una vera e propria (più che altro
consistente e capace) opposizione.
Presidenzialismo
La forma di Governo presidenziale quella in cui il Capo dello Stato (Presidente):
1. è eletto dall’intero corpo elettorale nazionale;
2. non può essere sfiduciato dal Parlamento nel corso del suo mandato, che ha una durata
prestabilita;
3. presiede e dirige i governi da lui nominati.
L’esperienza storico-costituzionale dove questa forma di Governo ha avuto maggior successo è
certamente quella degli Stati Uniti. Il Presidente è eletto per un mandato di 4 anni (XXII emendamento
stabilisce l’ineleggibilità dopo due mandati) attraverso una procedura solo formalmente a doppio grado:
ogni Stato elegge uno degli ‘elettori presidenziali’ che formeranno l’organo collegiale che procede
all’elezione del Presidente. Tuttavia poiché i due grandi partiti maggioritari hanno preventivamente scelto
i loro candidati alla carica, gli elettori, di fatto, sanno già quale candidato voterà l’elettore presidenziale
designato. L’elettore in realtà esprime la sua preferenza per il candidato alla Presidenza. Il Presidente, che
gode di una forte legittimazione derivante dall’investitura popolare diretta, nomina i suoi collaboratori i
quali, una volta riuniti formano il Gabinetto; inoltre si ricordano le sue importanti funzioni in materia di
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politica estera e di comando delle forze armate. Di fronte al presidente si trova il Parlamento che prende il
nome di Congresso. Il Congresso ha struttura bicamerale, le due Camere sono: a) Senato, formato da due
rappresentanti per ogni Stato membro; b) Camera dei rappresentanti, formata su base nazionale in modo
proporzionale alla popolazione dei singoli Stati. Esso è titolare del potere legislativo, approva il bilancio
annuale e può mettere in stato di accusa (impeachment) il Presidente (il giudizio finale spetta al Senato).
Presidente e Congresso sono indipendenti l’uno dall’altro anche se esistono meccanismi di controllo:
- il Presidente ha potere di veto sospensivo sulle proposte del Congresso: esso può superare
l’impedimento solo con un’ulteriore deliberazione con maggioranza superiore ai 2/3;
- il Congresso ha potere di confermare le nomine presidenziali e di convocare funzionari
dell’amministrazione al fine di esercitare un controllo sull’operato presidenziale.
Il Presidente è separato dal sostegno parlamentare, visto che non esiste voto di sfiducia, e resta in carica
indipendentemente da tale consenso; di contro, il Presidente non ha facoltà di sciogliere anticipatamente
il Congresso. Si determina così un dualismo paritario tra Presidenza e Congresso; l’esatto opposto è il
monismo posto in essere dal rapporto di fiducia che lega Parlamento e Governo. In termini generali, fino
al XIX secolo prevaleva il potere del Congresso, mentre nel secolo successivo è emerso con maggiore
forza il ruolo del Presidente anche grazie al suo ruolo centrale nella politica mondiale.
Semipresidenzialismo
La forma di Governo semipresidenziale si caratterizza per i seguenti elementi costitutivi:
1. il Presidente è eletto dal corpo elettorale dell’intera nazione e resta in carica per un periodo
prestabilito;
2. il Presidente è indipendente dal Parlamento (non necessita di fiducia), ma non può governare da
solo, deve nominare un Governo;
3. il Governo deve avere la fiducia del Parlamento.
Si crea una struttura bicefala: le teste sono il Presidente e il Primo Ministro. Il primo trae la sua
legittimazione dall’investitura popolare, mentre il secondo è a capo di un Governo che deve avere la
fiducia del Parlamento. Questa struttura consente ampia oscillazione ed equilibrio tra le due figure, con la
conseguenza che si distingue tra forme di governo semipresidenziali a presidente forte e forme di governo
semipresidenziali a prevalenza del Governo. Nel primo caso possiamo considerare la Costituzione della
V Repubblica Francese: vediamo come il Presidente goda di poteri importanti esercitabili senza
controfirma del Governo. Tuttavia il ruolo di direzione politica del Presidente si è basato piuttosto che su
tali poteri, sull’investitura popolare e sulla legittimazione che ne deriva e sul controllo della maggioranza
parlamentare. Normalmente egli viene eletto dalla stessa coalizione di partiti che detiene la maggioranza
in Parlamento, cosicché egli può indirizzare sia il Governo, che è espressione della sua maggioranza, che
il Parlamento.
Si parla di coabitazione quando il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio sono
espressione di due indirizzi politici opposti. Tale situazione si è verificata in Francia data la differenza di
mandato che c’è tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio. Nel 2000 una riforma
costituzionale ha scongiurato il rischio di una paralisi decisionale parificando la durata di tali mandati.
Circostanza che ha portato il Presidente Sarkozy a godere di una forte maggioranza ed ha così avviato la
Francia verso una stagione di riforme costituzionali dirette a riequilibrare una forma di Governo sempre
più marcatamente presidenziale.
Nel secondo caso, in cui prevale la componente parlamentare, il ruolo del Presidente è ridotto a quello di
semplice garanzia. Ciò è dovuto in particolare: a) alla bipolarizzazione del sistema politico che pone in
essere due coalizioni alternative; b) alla coincidenza nella stessa persona del ruolo di Presidente del
Consiglio e leader della maggioranza; c) alla convenzione secondo la quale i candidati alla presidenza
sono personalità politiche di secondo piano. Chiamare questi sistemi ‘semipresidenziali’ è fuorviante:
l’elezione diretta del Presidente della Repubblica non comporta uno scostamento reale del regime
parlamentare.
Altre forme di governo contemporanee
Si ricordano poi altre forme che hanno avuto però applicazione particolarmente ridotta:
1. forma di Governo neoparlamentare, si caratterizza per: a) rapporto di fiducia fra Governo e
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Parlamento; b) elezione popolare diretta del Primo Ministro; c) elezione contestuale di Primo
Ministro e Parlamento; d) Governo di legislatura (le dimissioni di questo determinano anche lo
scioglimento del Parlamento). Quella neoparlamentare è una sorta di riproduzione tecnica di quei
risultati che nel Regno Unito si sono raggiunti con l’evoluzione storica (investitura popolare del
primo Ministro e stabilità del Governo);
2. forma di Governo direttoriale, si caratterizza per la presenza, accanto al Parlamento, di un
direttorio, formato da 7 membri ed eletto, ma non revocabile, dal primo. Questa forma di
Governo ha trovato attuazione solo in Svizzera, dove la pluralità di comunità etniche,
linguistiche e religiose ha imposto che Governo e Capo dello Stato avessero una struttura
collegiale.
Tendenza comune delle forme di governo delle democrazie pluraliste evidenziate finora è la
concentrazione del potere in mano alla persona che occupa il vertice del potere governante. L’investitura
popolare del Capo del Governo è sempre assicurata, seppure con modalità diverse: in base a procedure
prestabilite (USA, Francia), oppure a causa dell’interazione tra sistema politico e sistema elettorale
(Regno Unito, Germania). Si aggiunga poi che la disciplina costituzionale tende a accrescere gli
strumenti di cui il Governo si può avvalere per realizzare il suo indirizzo politico in ambito parlamentare.
Si ricorda, a questo proposito la costituzione della V repubblica in Francia: essa prevede il voto bloccato
e la questione di fiducia posta dal Governo (un decreto si ritiene approvato salvo la presentazione entro
24 ore di una mozione di sfiducia e l’ approvazione di questa dalla maggioranza dei componenti
dell’Assemblea). Secondo Duverger nelle democrazie occidentali si sarebbe affermata una monarchia
repubblicana. Gli ordinamenti mantengono caratteri propri della conformazione monarchica (come la
concentrazione di potere nelle mani di una sola persona) a fianco a caratteri propri dell’assetto
repubblicano (il capo del Governo deve sottoporsi periodicamente a giudizio dell’elettorato).
I sistemi elettorali e la legislazione di contorno La legislazione elettorale
Nella legislazione elettorale confluiscono tre componenti diversi:
a) le norme che definiscono i confini della cittadinanza politica, ovvero quelle che stabiliscono
quali soggetti godono dell’elettorato attivo;
b) la legislazione elettorale di contorno, formata da quelle norme che hanno la finalità principale di
garantire la lealtà della competizione elettorale e la parità tra i concorrenti;
c) le norme sul sistema elettorale, ovvero quelle che sanciscono i meccanismi attraverso cui i voti si
trasformano in seggi.
L’elettorato attivo e passivo
Per quanto riguarda il primo profilo l’art. 48 Cost. definisce il cosiddetto elettorato attivo, costituito da
tutti i cittadini (uomini e donne) che hanno raggiunto la maggiore età. Esso è subordinato ai requisiti
seguenti: 1) la cittadinanza italiana; 2) la maggiore età, fissata ai 18 anni di età, anche se la stessa
Costituzione innalza l’età utile a 25 per le elezioni al Senato. Anche i detenuti, che non siano incorsi in
una causa di incapacità elettorale, sono ammessi a votare nel luogo di detenzione, mentre i malati
possono votare negli ospedali e nelle case di cura.
Come si perde l’elettorato attivo?
La perdita del diritto di voto si attua in presenza di alcune condizioni, definite ai sensi dell’art. 48.4 della
Costituzione: a) per cause di incapacità civile (secondo il diritto privato sono incapaci i minori e gli
interdetti); b) per effetto di sentenze penali irrevocabili (sentenze pronunciate per delitti fascisti, altre
portano alla sola sospensione temporanea); c) per indegnità morale (riguarda temporaneamente coloro
che sono sottoposti a fermo di polizia e all’interdizione temporanea dei pubblici uffici). Il legislatore,
tuttavia, ha riconosciuto la capacità elettorale ai ricoverati in ospedale psichiatrico, agli interdetti e agli
inabilitati.
L’art. 48.2 pone alcuni principi caratteristici del diritto di voto:
il voto è personale, con la conseguenza che si esclude il voto per procura;
il voto è eguale, si esclude radicalmente secondo un principio democratico che ad alcuni soggetti
sia concesso voto plurimo;
il voto è libero, la legge vieta e sanziona le coartazioni che possono derivare dall’esercizio di
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certe funzioni e considera reato l’elargizione di denaro e cibo nell’imminenza elettorale;
il voto è segreto, laddove la segretezza serve a garantire l’effettiva libertà dello stesso (con
l’unica eccezione delle persone cieche che possono farsi accompagnare in cabina elettorale);
il voto è un dovere civico, ma si tratta di una formula ambigua, anche perché non esistono
sanzioni nei confronti di chi non vota, è un dovere civico e non giuridico: l’astensionismo è da
ritenersi ammissibile e lecito.
Anche gli italiani residenti all’estero possono votare per l’elezione del Parlamento: la legge costituzionale
1/2000 ha introdotto il comma 3 dell’art. 48, che riconosce a questa categoria di cittadini il diritto di
elettorato attivo. Essi dovranno votare in un’apposita circoscrizione elettorale, la Circoscrizione estero,
nella quale vengono eletti dodici deputati e sei senatori.
Dall’elettorato attivo va distinto l’elettorato passivo, che consiste nella capacità di essere eletti . Principio
generale è che tutti i cittadini possono essere eletti, salvo restrizioni previste dalla Costituzione.
Quest’ultima pone una restrizione che concerne l’età: per l’elezione alla Camera dei deputati occorre aver
compiuto 25 anni, mentre per l’elezione al Senato occorre aver compiuto 40 anni. Per il resto si rinvia al
principio per cui se si perde l’elettorato attivo, si perde anche quello passivo. La Costituzione poi richiede
la mancanza di alcune condizioni negative che determinano invece la cosiddetta ineleggibilità.
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In questo contesto sono state introdotte alcune eccezioni. Con una delibera del 2 ottobre 2012 la Giunta
ha stabilito che è compatibile col mandato parlamentare la nomina a Sindaco di un Comune superiore ai
20000 abitanti sopravvenuta dopo l’elezione. Nella altre ipotesi di ineleggibilità sopravvenuta si
determina comunque la decadenza dalla carica parlamentare: ciò avviene anche se nel corso del mandato
si perde il diritto all’elettorato attivo o si è condannati per reati che prevedano la pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici. In ogni caso la decadenza non è automatica, richiede deliberazione
apposita dell’Assemblea parlamentare, derivante da proposta della Giunta dopo completa attività
istruttoria.
Tra le cause di incompatibilità parlamentare alcune sono previste dalla legislazione ordinaria, altre
direttamente dalla Costituzione. Fra le cause previste dalla Costituzione, incompatibilità fra: deputato e
senatore (art. 65.2); Presidente della Repubblica e qualsiasi altra carica (art. 84.2); Parlamentare e
membro del CSM (art. 104.7); Parlamentare e Consigliere regionale (art. 122.2); Parlamentare e giudice
della Corte costituzionale (art. 135.6). Tra le cause di incompatibilità designate dalla legge ordinaria, e in
particolare dalla legge 60/1953, si ricordano l’incompatibilità con: la titolarità di uffici pubblici o privati,
derivanti da nomina o designazione parlamentare (art. 1); con cariche in enti che gestiscono servizi per
conto dello Stato; per le cariche direttive ricoperte in istituti bancari o in spa con prevalente esercizio di
attività finanziarie.
Istituto differente è la cosiddetta incandidabilità. Inizialmente è stata introdotta con riguardo alle sole
cariche elettive di livello locale e regionale: essa prevede che il Presidente di Regione, se rimosso a
seguito di grave dissesto finanziario, è incandidabile alle cariche di deputato e senatore per un periodo di
10 anni. Ha conosciuto la sua massima estensione con l’approvazione della cosiddetta legge Severino
(legge 190/2012): essa reca il divieto per chi è colpito da sentenze definitive di condanna alla reclusione
superiore a due anni per reati gravi non colposi (nella fattispecie le 3 categorie di reati con finalità di
terrorismo e stampo mafioso, tratta delle persone e riduzione in schiavitù, prostituzione e sfruttamento,
delitti contro la pubblica amministrazione, peculato, corruzione, concussione). Se l’incandidabilità
sopraggiunge durante il mandato essa produce la decadenza della carica; se la sentenza di condanna non è
definitiva la carica viene sospesa fino alla sentenza definitiva.
Viva è la discussione sulla natura dell’incandidabilità: essa è una sanzione penale? Una sanzione
amministrativa? O una semplice variazione dello status dovuta a responsabilità penali? Dalla diversa
qualificazione giuridica discendono conseguenze diverse in ordine di portata retroattiva eventuale
dell’incandidabilità. Il problema si pone quando questa derivi da fatti avvenuti prima dell’approvazione
della legge Severino o da condanne precedenti la stessa data: se fosse una sanzione penale la retroattività
sarebbe costituzionalmente esclusa dall’articolo 25 della Costituzione; se fosse una sanzione
amministrativa allo stesso modo si escluderebbe la retroattività dato che la Corte Costituzionale ha
recentemente parificato le sanzioni amministrative con quelle penali in fatto di non retroattività (sent.
196/2010). Nella prassi applicativa tuttavia è prevalsa la terza tesi: l’incandidabilità è considerata come
una modifica di status, essa non ha perciò carattere sanzionatorio, ma consiste in una forma di esclusione
dall’elettorato passivo discendente dall’obbligo costituzionale di condurre le cariche pubbliche ‘con
disciplina e onore’ (art. 54). La Corte ha dichiarato perciò che la retroattività è perfettamente lecita e anzi
frutto di un giudizio che non è meramente oggettivo, ma ricollegato ad un principio di ‘indegnità morale’.
Il risultato è che sia ininfluente che fatti commessi e condanne penali siano antecedenti l’entrata in vigore
della Severino. Nel novembre 2013 il Senato dichiara decaduto l’on. Silvio Berlusconi: egli è dichiarato
colpevole con sentenza definitiva per fatti accaduti ben prima della legge Severino. La Giunta per le
elezioni e le immunità parlamentari ha respinto la tesi della non retroattività, ma il senatore Berlusconi ha
proposto ricorso di fronte alla Corte EDU che ancora non si è pronunciata. Caso più recente è quello
sollevato dal Tribunale di Napoli al riguardo della preventiva sospensione dalle cariche del sindaco De
Magistris e del Presidente delle Regione De Luca: essa sarebbe ritenuta illegittima in opposizione al
principio dell’accesso alle cariche pubbliche tutelato dall’art. 51.
L’incandidabilità si basa sull’indegnità morale del soggetto, che è ritenuto privo delle qualità personali
necessarie per mantenere il prestigio delle cariche pubbliche. Rispetto alle cause dell’ineleggibilità quelle
dell’incandidabilità non sono rimovibili per volontà dell’interessato, esse impediscono preventivamente
la partecipazione alla competizione elettorale. Le cause dell’ineleggibilità, invece, possono essere rimosse
per volontà dell’interessato: in ogni caso all’interessato è consentito partecipare alla competizione
elettorale, dato che la sua condizione, in questo caso verrà accertata a seguito dell’elezione.
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La questione della commistione tra interessi pubblici ed interessi privati è un problema che tutte le
democrazie devono affrontare. La complessità nel formulare un regolamento sul conflitto di interessi
risiede proprio nel trovare un equilibrio tra valori di rilievo costituzionale, quali la libertà di iniziativa
economica privata e il diritto di par condicio nella concorrenze a cariche elettive. In alcuni Paesi esistono
norme generali e settoriali molto stringenti: a) in Inghilterra un apposito atto esclude dalla titolarità di
concessioni televisive alcuni soggetti tra cui il Capo e i componenti del Governo, componenti
dell’opposizione ma anche altri soggetti non necessariamente politici; b) gli Usa possiedono la disciplina
più competente in materia. Tale sistema si fonda non sulla previsione di rimedi per determinate ipotesi di
conflitto, ma su una modulazione di tali provvedimenti sulla base di diversi casi concreti. I soggetti
interessati devono comunicare ad un’autorità competente lo stato patrimoniale che li riguarda, spetterà a
tale uffici esercitare i controlli necessari e decidere quali rimedi applicare. In Italia il Parlamento ha
approvato la legge 215/2004 che disciplina il conflitto di interessi: essa stabilisce che il Governo debba
occuparsi esclusivamente alla cura degli interessi pubblici, non possono quindi adottare atti o partecipare
a deliberazioni collegiali in situazioni di conflitto di interessi. Ciò si verifica quando il Governo adotta un
atto che ha un’incidenza specifica sul patrimonio di un membro del Governo o di un suo familiare,
nonché sulle sue imprese, e quando il provvedimento comporti un danno per l’interesse pubblico. I
membri del Governo sono incompatibili con cariche parlamentari e con compiti di gestione con scopi di
lucro e con attività imprenditoriali. Sull’osservanza vigila il Garante della concorrenze e del mercato che,
se accerta un vantaggio arrecato può multare l’impresa fino ad una somma pari al vantaggio ottenuto.
Disciplina delle campagne elettorali
In un sistema democratico, la libertà di scelta dell’elettore e la parità di chances dei candidati
costituiscono principi irrinunciabili: la Costituzione tutela espressamente la libertà di voto e il diritto di
tutti i cittadini di potere accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza. Una parte importante
della legislazione elettorale di contorno ha il compito di disciplinare la fase precedente alle elezioni e
assicurare che il voto sia espressione genuina della volontà degli elettori e di garantire l’eguaglianza di
opportunità dei candidati.
Con la legge 515/1993 trovano disciplina la parità di accesso ai mezzi di informazione, le forme di
propaganda elettorale, le spese elettorali e un sistema sanzionatorio per eventuali violazioni. Il primo
obiettivo era quello di garantire la parità tra i concorrenti, singoli o partiti che siano, nell’accesso ai mezzi
di informazione nei 30 giorni precedenti la data delle elezioni. Si predispongono a questo scopo idonei
spazi nelle emittenti radiovisive e si impone a tali emittente di rispettare i canoni della par condicio
definiti dalla legge. Tale disciplina è modificata dalla legge 28/2000: essa non si limita a regolare la
comunicazione politica solo nei periodi delle campagne elettorali ma anche nei periodi di fuori da questi.
Il legislatore ha previsto l’obbligatorietà dell’offerta di programmi di comunicazione politica da parte
delle emittenti secondo criteri che assicurino l’imparzialità e l’equità fra tutti i soggetti politici per
l’accesso a tali mezzi. Nel periodo elettorale (che va dalla convocazione dei comizi elettorali fino alla
chiusura delle operazioni di voto) la comunicazione politica è regolata attraverso una ripartizione equa
degli spazi tra i competitori secondo criteri di imparzialità, obiettività e completezza dell’informazione.
Inoltre, a differenza della precedente legge del 1993, la legge 28/2000 consente i messaggi autogestiti, e
anzi ne consente l’emissione gratuita solo nella concessione pubblica, che pertanto deve fornire i mezzi
necessari a tale attuazione.
La legge 28/2000 disciplina anche la diffusione dei sondaggi politici: questi non possono essere
pubblicati nell’imminenza (15 giorni prima) delle elezioni poiché potrebbero recare nocumento allo
svolgimento delle stesse; inoltre, se pubblicati in periodo non elettorale devono essere accompagnati da
apposita scheda tecnica illustrativa della qualità del sondaggio.
Allo stesso modo, le spese elettorali sono sottoposte ad un regime particolare, differente se sono riferite
ad un soggetto o ad un partito o movimento. Nel primo caso, il candidato deve nominare un mandatario
elettorale: egli diviene l’unico mezzo attraverso cui il candidato ottiene finanziamenti ed inoltre è garante
della regolarità di gestione e del rispetto dei limiti di spesa imposti. Il candidato ha poi l’obbligo di
presentare un rendiconto delle spese e dei fondi ricevuti alla Camera di appartenenza: tale rendiconto
verrà esaminato dal Collegio regionale di garanzia elettorale (un organo con poteri sanzionatori pecuniari
in caso di violazioni). I partiti invece presentano il proprio consuntivo ai Presidenti delle Camere: il
controllo viene effettuato da uno speciale organo istituito presso la Corte dei conti.
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Il finanziamento della politica
Il costo delle politica è in rapida crescita negli ultimi anni, spinto da un lato dalla complessità crescente
dei partiti, che necessitano di ingenti risorse; e dall’altro dal costo delle campagne elettorali che
richiedono le più moderne tecniche di comunicazione al fine di raggiungere il loro scopo. Da questa
situazione derivano esigenze diverse: occorre innanzitutto evitare che solo chi dispone di ingenti somme
di denaro acquisti il monopolio della comunicazione e quindi abbia effettiva possibilità di essere eletto.
Questo scopo si è raggiunto con l’introduzione di forme di finanziamento pubblico, che gravano cioè
sulle casse dello Stato, ma che garantiscono una tendenziale parità delle risorse. Se, da un lato, il
finanziamento pubblico è garanzia di parità, dall’altro rischia di trasformare i partiti in apparati
burocratici distanti dalle esigenze dei cittadini: a questa tendenza si è ovviato facendo discendere tale
finanziamento dalla volontà dei cittadini. Pertanto, ogni disciplina delle modalità di finanziamento della
politica deve bilanciare esigenze diverse, realizzando assetti molto complessi, spesso oggetto di veementi
critiche e, perciò, soggetti a rapido mutamento.
Il finanziamento pubblico dei partiti in Italia è stato oggetto di una massiccia legislazione. La legge
195/1974 prevedeva: un contributo annuale ai gruppi parlamentari per lo svolgimento delle loro normali
attività; un contributo alle spese elettorali sostenute dai partiti per le elezioni del Parlamento europeo, del
Parlamento nazionale e dei Consigli regionali; l’obbligo di presentare un bilancio annuale da sottoporre ai
Presidenti delle Camere; il divieto, con relative sanzioni penali, per il finanziamento di partiti o gruppi
parlamentari da parte di enti pubblici o della pubblica amministrazione o a partecipazione statale. A
seguito di un referendum, sulla spinta della reazione popolare, sono state abrogate le disposizioni
riguardanti il finanziamento pubblico dei partiti. Il risultato del referendum ha indotto il legislatore ad
orientare tale finanziamento alla scelta dell’elettore: la legge 2/1997 ha introdotto il contributo volontario
del 4 per mille. Nel 1999 venne reintrodotto il finanziamento pubblico sotto forma però di rimborso per le
spese elettorali. Una norma del 2002 riduceva dal 4 all’1% la soglia necessaria per godere di tali rimborsi,
sicché si garantiva la sopravvivenza finanziaria anche di quelle minoranze a bassissimo consenso
nazionale. Nel 2012 una nuova riforma ha innalzato la percentuale minima al 2% e ha ridotto il suddetto
finanziamento, inoltre ha sottoposto a controllo di garanzia l’uso effettivo dei fondi, data la tendenza ad
utilizzare per fini personali i fondi destinati ai gruppi parlamentari.
Si è arrivati, infine, al decreto legge 149/2013 (convertito con la legge 13/2014) che abolisce
definitivamente il finanziamento pubblico dei partiti e lo sostituisce con uno volontario del 2 per mille
della propria imposta, promuovendo tali erogazioni libere con detrazioni fiscali. Il nuovo sistema sarà
attivo a pieno regime solo dal 2017 e prevede per la prima volta la registrazione dei partiti e un tentativo
di disciplina della democrazia interna.
Un altro tipo di finanziamento è quello che riguarda i gruppi parlamentari. Essi ricevono un contributo
per lo svolgimento delle loro attività istituzionali, basato su due criteri: 1) le esigenze di base comuni a
tutti i partiti e 2) la consistenza numerica di ciascun partito. A seguito di una legge del 2012 ciascun
partito deve dotarsi di uno statuto che va reso pubblico poiché, sulla base di questo statuto, vengono
approvati bilanci e rendiconti. Tali contributi sono destinati esclusivamente alle esigenze fisiologiche dei
gruppi parlamentari, ai loro scopi istituzionali ed alle attività politiche ad esse connesse. Il rendiconto
viene poi sottoposto ad una società di revisione contabile, che ne verifica la regolarità.
I sistemi elettorali
Il sistema elettorale è il meccanismo attraverso cui i voti espressi dagli elettori si trasformano in seggi. Il
sistema elettorale si compone fondamentalmente di tre parti:
1. il tipo di scelta che spetta all’elettore. L’elettore può esprimere una scelta secca oppure un ordine
di preferenze (come nel cosiddetto voto trasferibile) con uno o più voti ausiliari al principale; se
il primo candidato ha raggiunto il numero dei voti necessari per essere eletto non si tiene più
conto del voto espresso in suo favore e, invece, si terrà conto del secondo candidato espresso
nella scheda;
2. le dimensioni del collegio. Ovvero l’ambito preso in considerazione per la ripartizione dei seggi
in base ai voti (se l’ambito è territoriale, si chiama anche circoscrizione elettorale). Si distingue:
il collegio unico, che si ha quando esiste un solo collegio che ripartisce ai candidati tutti i seggi
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in palio. Possono anche essere previsti più collegi ciascuno dei quali eleggerà un certo numero di
parlamentari. Bisogna ancora distinguere in base alle dimensioni del collegio (ovvero del
numero di parlamentari che viene eletto): 1) collegio uninominale, in cui risulta eletto un solo
candidato; 2) collegio plurinominale in cui risultano eletti più candidati. Nell’ambito dei collegi
plurinominali, corre una grossa differenza tra i collegi in cui si elegge un piccolo numero di
parlamentari e collegi in cui si elegge un numero elevato di parlamentari: nel primo caso solo i
partiti più grandi avranno effettiva possibilità di entrare in Parlamento, poiché i seggi da
distribuire sono pochi; nel secondo caso, invece, anche i partiti più piccoli avranno la possibilità
di ottenere qualche seggio;
3. la formula elettorale. Meccanismo attraverso cui si procede, sulla base dei voti espressi, alla
ripartizione dei seggi tra i soggetti che hanno partecipato alla competizione elettorale.
Tenendo conto della formula elettorale, i sistemi elettorali si distinguono in sistemi maggioritari e sistemi
proporzionali.
A. Nei sistemi maggioritari il seggio è attribuito a chi ottiene la maggioranza dei voti, occorre
ancora distinguere per tipo di maggioranza: 1) se è richiesta la maggioranza assoluta, occorre
avere ottenuto almeno la metà più uno dei voti totali e se nessun candidato la raggiunge si
procede ad un secondo turno di elezioni: questa volta il vincitore emerge tra i due candidati con
maggiori voti a maggioranza relativa; 2) se è richiesta la maggioranza relativa, è eletto
semplicemente chi ottiene più voti, anche se questi non raggiungono la metà più uno.
B. Nei sistemi proporzionali i seggi in palio vengono distribuiti proporzionalmente alla percentuale
di voti ottenuta da ciascuna lista in competizione. Si tiene conto, ai fini della ripartizione dei
seggi, di tutte le liste di candidati che abbiano ottenuto una quantità di voti almeno pari ad una
percentuale minima, che prende il nome di quoziente elettorale. Tutte le liste che raggiungono
questo livello minimo partecipano alla ripartizione dei seggi in rapporto al numero di voti
ottenuto da ciascuna. Attribuiti i seggi, si procede ad accertare i candidati eletti per ciascuna
lista. Si seguono due procedimenti: a) se gli elettori esprimono, oltre ad una preferenza per la
lista, una sul candidato, viene eletto quello col numero maggiore di voti; b) se manca tale
possibilità, si considera l’ordine della lista seguendo la priorità con metodo della cosiddetta lista
bloccata, che attribuisce grandi poteri ai dirigenti di partito. I metodi più utilizzati per la
ripartizione dei seggi nei sistemi elettorali sono principalmente due:
- il metodo d’Hondt (o delle divisioni successive). La cifra elettorale (ovvero il totale dei voti riportati da
ciascuna lista nel collegio) è divisa prima per 1, poi per 2, per 2 e per 4 fino alla concorrenza del numero
dei seggi da coprire. Quindi si scelgono tra i quozienti così ottenuti i più alti, in numero eguale a quello
dei deputati da eleggere, e si collocano in una graduatoria decrescente. Ad ogni lista sono attribuiti tanti
seggi quanti sono i quozienti della stessa graduatoria. Ad esempio, assumiamo che i seggi da ripartire
siano 6 e che le liste presenti siano tre (A, B, C). Poniamo la cifra elettorale di A = 1500, di B = 900 e di
C = 700: a questo punto ciascuna cifra elettorale sarà divisa per 1, 2, 3, 4, 5, 6 (essendo 6 i seggi da
ripartire). Con riferimento alla lista A avremo i seguenti quozienti: 1500, 750, 500, 375, 300, 250; con
riferimento alla lista B, i quozienti sono: 900, 450, 300, 225, 180, 150; con riferimento alla lista C i
quozienti sono: 700, 250, 233, 175, 146, 116. Si scelgono i sei quozienti più alti tra tutti quelli ottenuti,
ossia 1500 (A), 900 (B), 750 (C), 500 (A), 450 (B). A ciascuna lista ci sono tanti seggi quanti sono i
quozienti della stessa presenti nella graduatoria, quindi la lista A avrà tre seggi, la lista B ne avrà due e la
lista C ne avrà uno;
- il metodo del quoziente: si calcola la cifra elettorale generale (ovvero il totale dei voti validi espressi) e la
si divide per il numero dei seggi da coprire e si ottiene il quoziente elettorale. Si calcola la cifra elettorale
di ciascuna lista, che viene poi divisa per il quoziente elettorale e si ottiene il numero dei seggi che
spettano ad ogni lista. I risultati potrebbero non essere interi, per ovviare a questo problema ed assegnare
i seggi si seguono due strade: 1) il metodo dei più forti, attraverso il quale i seggi in disavanzo sono
assegnati alle liste con i resti più elevati; 2) il metodo del quoziente rettificato, attraverso il quale la cifra
elettorale generale si divide per il numero dei seggi aumentato di una o più unità. Ad esempio,
supponiamo che i seggi da ripartire siano 10, i voti 1000 (cifra elettorale generale) e le liste concorrenti
siano A, B e C. La cifra elettorale di A = 466, di B = 351, di C = 183. Il quoziente elettorale sarà dato da
1000: 10 = 100. Ciascuna cifra elettorale di lista è divisa per il quoziente elettorale, ottenendo i seguenti
risultati: A = 466: 100 = 4 + 66 resti; B = 351: 100 = 3 + 51 resti; C = 183: 100 = 1 + 83 resti. Due seggi
non sono stati attribuiti a causa dei resti, quindi: se ai fini della loro ripartizione si adottasse il metodo del
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più forte un seggio andrebbe alla lista C (83 resti) e uno alla lista A (66 resti). Se invece si applica il
metodo del quoziente rettificato, per ottenere il quoziente elettorale, la cifra generale elettorale non si
divide già per 10 (numero di seggi da ripartire), ma per 11 (numero di seggi da ripartire aumentato di
un’unità). Il quoziente elettorale sarà più basso, precisamente di 90,9. La cifra elettorale di ciascuna lista
andrà divisa per il quoziente elettorale ottenendo: A = 466: 90,9 = 5 seggi; B = 351: 90,9 = 3 seggi; C =
183: 90,9 = 2 seggi. Tutti i seggi in palio sono stati attribuiti alle liste in competizione.
I sistemi maggioritari sono per definizione selettivi, in quanto consentono l’accesso alle aule alle sole
forze politiche maggiori. Le forze politiche minori, pur avendo ottenuto un numero consistente di voti
non hanno rappresentanza parlamentare. I sistemi proporzionali invece consentono l’accesso in aula di
tutte le formazioni politiche, poiché fotografano la realtà politica del Paese ed hanno quindi effetto
proiettivo. Tuttavia la selettività del sistema non è dovuta solo alla formula elettorale: si è già visto come
la dimensione dei collegi influenzi i risultati in tal senso; inoltre, alcuni sistemi proporzionali mantengono
un certo grado di selettività grazie alla presenza di una clausola di sbarramento, in virtù della quale
accedono ai seggi le sole liste che superano una certa percentuale di consenso (in Germania il 5%). Altro
aspetto che coniuga sistema proporzionale e selettività è l’introduzione di premi di maggioranza per cui le
coalizioni che superano una certa percentuale hanno in premio un numero di seggi (il caso della legge
148/1953, ben presto denominata legge truffa e abrogata). In conclusione si può osservare come il
sistema elettorale influenzi l’assetto del sistema politico. Ciò spiega perché le tecniche elettorali
costituiscono il mezzo principale dell’attuazione della c.d. ingegneria istituzionale, ovvero l’orientamento
secondo cui, attraverso la modifica di regole legali, è possibile cambiare le caratteristiche del sistema
politico.
Il sistema elettorale del Parlamento in Italia
Sin dal 1993 in Italia le due Camere sono elette con sistema proporzionale: ciò si spiega in relazione alle
profonde fratture sociali e ad un sistema politico fortemente polarizzato. La legge elettorale proporzionale
assicurava a tutte le forze garanzia di rappresentanza, evitava la concentrazione di troppo potere nelle
mani delle forze maggioritarie e stimolava la ricerca dell’accordo e della mediazione.
Il sistema elettorale proporzionale è stato per molto tempo componente cardine del parlamentarismo
compromissorio italiano. Le trasformazione sociali in Italia hanno prodotto una spinta verso una
democrazia maggioritaria. Questa spinta ha avuto il suo apice nel referendum del 1993 col quale si
modificavano le norme dell’elezione in Senato: tali modificazioni, per motivi casuali, consentivano che
l’assetto di trasformasse in senso maggioritario-uninominale. Col referendum (che ebbe una delle
maggiori percentuali di sì della storia italiana: oltre l’80%) si evidenziava un chiaro indirizzo politico
rivolto in favore di una trasformazione del sistema; tuttavia, a causa di dissidi interni, il Parlamento
incontrò grosse difficoltà nell’approvare una riforma elettorale. Si preferì attuare il risultato del
referendum con due leggi che ponevano in essere un sistema elettorale sostanzialmente misto: il 70% dei
seggi era assegnato con metodo maggioritario-uninominale, mentre il restante 25% con metodo
proporzionale.
Il sistema maggioritario viene abbandonato nuovamente nel 2005 in favore della legge 270 rinominata
dal dibattito giornalistico Porcellum. Essa introduce sistema elettorale proporzionale con liste bloccate,
clausola di sbarramento e premio di maggioranza. Il Porcellum trova la sua prima applicazione nel 2006,
in seguito alle elezioni anticipate del 2008 (con esclusione di alcune liste a causa della clausola di
sbarramento). Ma la legge elettorale dà la peggiore prova di se nel 2013: la disciplina differente del
premio di maggioranza in Senato e alla Camera dà luogo a maggioranze diverse, sicché si è resa difficile
la formazione di un Governo: la difficile situazione politica assieme con le liste bloccate ha pesantemente
delegittimato il Parlamento, che è apparso più come nominato che come eletto. In questo panorama le
pesanti critiche di incostituzionalità della legge trovano un varco ed arrivano alla Corte, che ne ammette
solo alcuni aspetti.
La Corte si pronuncia nella sentenza 1/2014 e dichiara illegittimo: 1) l’eccessivo premio di maggioranza
assegnato nell’elezione alla Camera dei deputati; 2) il premio di maggioranza garantito all’elezione al
Senato, in ciascuna circoscrizione regionale, alla coalizione di lista o singola lista che ha ottenuto il
maggior numero di voti validi; 3) il sistema delle liste bloccate e la mancata previsione della facoltà di
preferenza. L’intera riforma elettorale è rimasta valida, abrogate le norme precise elencate, in quanto
‘idonea a garantire il rinnovo dell’organo costituzionale’.
Sotto il profilo sostanziale la Corte ha ribadito che non è costituzionalmente obbligatorio un sistema
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proporzionale, ma il legislatore gode di ampia discrezionalità in quando deve operare un bilanciamento
tra due esigenze di rilievo costituzionale: l’esigenza di rappresentanza e l’esigenza di governabilità.
Il sistema elettorale che risulta dalla pronuncia della Corte è quindi un sistema proporzionale con voto di
preferenza: in generale la Corte ha ribadito che il sistema non è costituzionalmente tenuto ad essere
proporzionale, ma anzi è tenuto ad operare un bilanciamento tra governabilità e rappresentatività. A
seguito di tale pronuncia, per superare il proporzionalismo puro che discendeva dalle abrogazioni, è stata
approvata nel 2015 una nuova legge elettorale (la legge 52/2015 o Italicum). Essa prevede un sistema
proporzionale, con premio di maggioranza, clausola di sbarramento e voto di preferenza. Il fine è ancora
una volta assicurare una maggioranza a sostegno del Governo, fine perseguito col premio di
maggioranza, meno intenso di quello della legge del 2005. Inoltre, e qui sta la differenza maggiore con la
legislazione precedente, il premio di maggioranza non viene assegnato alla coalizione che ha più voti, ma
alla lista più votata, sicché non vi è più incentivo a formare coalizioni. Nella medesima direzione si
muovono la previsione di una clausola di sbarramento e la previsione che l’attribuzione dei seggi avvenga
in collegi di piccole dimensioni, che eleggono da un minimo di tre ad un massimo di nove seggi. Il
sistema che ne deriva è proporzionale ma piuttosto selettivo: di fatto questi accorgimenti si muovono
nella direzione di rafforzare il Governo e semplificare il sistema politico (vedi nello specifico a pag. 180-
181). La nuova legge elettorale riguarda solamente le elezioni della Camera dei deputati, perché al
momento della sua approvazione era in corso il procedimento di revisione costituzionale del
bicameralismo paritario, con l’obiettivo di modificare ed escludere l’elezione diretta dei senatori.
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non richiedono nuove elezioni. Com’è ovvio la legittimazione delle coalizioni del primo tipo è
maggiore e diretta.
In Italia fino al 1994 le coalizioni sono sempre state formate in sede parlamentare dopo elezioni,
attraverso complesse trattative tra le forze politiche. A seguito della crisi del sistema politico e delle
spinte popolari verso una democrazia maggioritaria sono state abbandonate le regole convenzionali che
consentivano la formazioni di tale tipologia di coalizione e si è sviluppata la tendenza verso un sistema
basato sulla competizione tra due coalizioni annunciate agli elettori. Ciò nonostante esse hanno
continuato ad avere elementi di conflittualità e disomogeneità al loro interno, determinando una certa
instabilità. I processi di crisi del sistema politico già avvistati nel 2008, nel 2013 diventano ancora più
vistosi, mettendo in crisi sia la logica bipolare sia la coincidenza tra coalizione annunciata al corpo
elettorale e coalizione di governo. Nessuna delle due coalizioni ottiene la maggioranza alle elezioni, si
forma un Governo Letta basato su una grande coalizione in cui confluivano i partiti maggiori, insieme ad
altre forze minori. Dopo l’uscita del Pdl dalla maggioranza, e la permanenza entro il suo perimetro del
partito nato dalla scissione dello stesso Pdl, la presenza di una variegata opposizione parlamentare, ha
portato al superamento dell’esperienza della ‘grande coalizione’: ma è rimasto il dato di una coalizione
diversa da quella proposta al corpo elettorale e formata dopo le elezioni.
Breve storia delle crisi di Governo
La crisi di governo consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del
rapporto di fiducia tra il Governo e il Parlamento (o meglio, la maggioranza). Tradizionalmente si
distinguono le crisi di Governo in parlamentari o extraparlamentari. Le crisi parlamentari sono causate: a)
dall’approvazione di una mozione di sfiducia; b) da un voto contrario sulla fiducia posta dal Governo. In
nessun caso vi sono state crisi determinate da presentazione di mozioni di sfiducia, in due casi sono state
causate da voto parlamentare negativo sulla questione di fiducia e in quattro casi da una mancata
concessione della fiducia iniziale. Le crisi extraparlamentari invece sono frutto di dimissioni volontarie
del Governo o del solo Presidente del Consiglio: nella storia politica italiana sono state molto più
frequenti delle prime. Ciò è facilmente spiegabile se consideriamo che le coalizioni sono formate a
seguito di accordi conclusi tra partiti dopo le elezioni e che quindi il venir meno di tali accordi comporta
la crisi della maggioranza, con la conseguenza che il Governo si trova privo del sostegno parlamentare. È
possibile la pratica del cosiddetto rimpasto ministeriale anche senza che occorrano momenti di crisi: tale
procedimento è possibile se i partiti sono consenzienti e non richiede nuovo voto di fiducia.
Dal punto di vista del diritto costituzionale, le crisi extraparlamentari non costituiscono violazione
dell’art. 94 della Costituzione, tuttavia si pone il problema, in questi casi, di far conoscere le cause della
crisi ai cittadini in modo che questi possano valutare eventuali responsabilità dei partiti. Si è aperto, a
questo scopo, un percorso di parlamentarizzazione delle crisi: accorgimento concepito dal presidente
Pertini, consiste nella presentazione del Presidente del Consiglio dimissionario di fronte ad una delle
Camere per esporre le cause della crisi e su queste iniziare un dibattito. Il dibattito non serve tanto a far
rientrare la crisi, quanto a rendere pubbliche le cause della crisi medesima, nata all’interno dei rapporti tra
i partiti politici. La prassi, rivolta ad una maggiore trasparenza, è stata abbandonata in tempi recenti.
In alcuni casi poi, le crisi si risolvono con la pratica dei cosiddetti ribaltoni, ovvero con la formazione di
un nuovo Governo sostenuto da una maggioranza diversa da quella presentata al corpo elettorale. Le
norme costituzionali sulla forma di Governo sono compatibili con tale pratica, perciò non si può
affermare che tali episodi siano costituzionalmente inammissibili. È esclusivamente dalla convinta
adesione dei soggetti politici al parlamentarismo maggioritario che dovrebbe scaturire l’affermazione di
un corpo di regole convenzionali che impediscano che il mutamento di maggioranza avvenga senza
elezioni anticipate. Tali norme avrebbero forte funzione deterrente nei confronti di quei partiti che escono
dalla maggioranza politica poiché dopo la crisi sarebbero immediatamente sottoposti al giudizio
dell’elettorato.
La mancanza di prassi e convenzioni che assicurino un certo grado di durata delle coalizioni ha avuto
influenze sulle stabilità del Governo, cioè sul periodo che resta in carica. Di conseguenza si è resa
difficile l’esistenza di un indirizzo politico che assicuri efficienza decisionale e affronti i problemi
strutturali del paese.
Esistono anche casi di cosiddetta sfiducia individuale, nei confronti di un singolo ministro. I regolamenti
parlamentari hanno riconosciuto questa figura estendendo ad essa la disciplina già prevista dalla
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Costituzione riguardo la sfiducia all’intero Governo. Questo dopo la pronuncia della Corte che ha
dichiarato ammissibile costituzionalmente la sfiducia proposta dal Senato per il Ministro Mancuso ne
1995. Fino al caso Mancuso la sfiducia individuale era lo strumento attraverso cui l’opposizione metteva
in crisi in Governo, costringendolo di fatto a prendere le difese del Ministro i questione ed assumersi la
responsabilità dell’operato dello stesso. Nel 1995 però la situazione era particolare: il Governo Dini era
privo di fisionomia politica e prendendo le difese del Ministro avrebbe di fatto sostenuto una posizione
politica e perso la sua asserita neutralità; per questa ragione, per la prima volta il Governo non ha coperto
il Ministro e si è rimesso alle decisioni del Parlamento. Terreno fertile per la fiducia individuale è perciò
un Governo tecnico privo di specifiche caratterizzazioni politiche. Tuttavia questo strumento è caduto in
desuetudine: a seguito dell’acquisito assetto maggioritario del parlamentarismo, non avrebbe senso che si
sfiduci un membro della propria maggioranza.
Il Governo Definizione
Il Governo è un organo complesso, formato dal Presidente del Consiglio, dai Ministri e dall’organo
collegiale del Consiglio dei Ministri. Esso esercita una notevole quota dell’attività di indirizzo politico,
delle potestà pubbliche della funzione esecutiva e importanti poteri normativi: ma la dimensione effettiva
del suo potere politico dipende dagli equilibri della complessiva forma di governo e dal grado di
attuazione dei principi del decentramento politico e dell’economia di mercato. Il ruolo del Governo
italiano, le modalità della sua formazione e del suo funzionamento risentono degli equilibri assunti dalla
forma di governo la quale per lungo tempo opera come parlamentarismo compromissorio, poi si avvicina
alla conformazione del parlamentarismo maggioritario. Altri aspetti che hanno condizionato ruolo ed
operato del Governo sono: 1) maggiore decentramento politico, che ha affidato agli enti locali importanti
attribuzioni; 2) riduzione degli interventi in campo economico per favorire il mercato concorrenziale; 3)
integrazione europea.
Le regole giuridiche sul Governo
Il Governo gode di una notevole elasticità della disciplina costituzionale che lo riguarda: essa pone poche
e semplici regole e rinvia il resto alle regole della prassi, alle convenzioni e alle leggi ed agli atti di
autorganizzazione dello stesso. La sua formazione è disciplinata negli artt. 92.2, 93 e 94 Cost., che
consacrano le seguenti regole:
1. il Presidente della repubblica nomina il Presidente del Consiglio;
2. i Ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica ma sono proposti dal Presidente del
Consiglio;
3. i membri del Governo prima di entrare in carica devono giurare di fronte al Presidente delle
Repubblica;
4. il Governo formato deve presentarsi entro 10 gg per ottenere la fiducia parlamentare;
5. tale fiducia è accordata e revocata tramite appello nominale e motivata (art. 94.2).
In materia di struttura, ci riferiamo all’articolo 92.1 Cost., che cita gli organi governativi necessari: il
Presidente del Consiglio, i Ministri, che insieme formano l’organo del Consiglio dei ministri. Tali organi
sono sufficienti, la legge tuttavia non esclude che siano affiancati da altri che si rendano necessari
ammesso che non turbino le funzioni di questi, comunque tutelate dalla legge, che si definiscono organi
governativi non necessari. Per ciò che riguarda il suo funzionamento, l’art. 95 rinvia alla legge
sull’ordinamento delle Presidenza del Consiglio dei ministri (approvata nel 1998) e in attuazione della
stessa viene adottato il regolamento interno del Consiglio dei ministri. Ulteriori modifiche si sono avute
con la successiva legislazione del 1999, ma nelle legislature successive la disciplina è stata modificata più
volte per permettere l’aumento del numero dei ministeri. Per ciò che riguarda i rapporti con la pubblica
amministrazione le regole costituzionali sono fissate dagli artt. 95, 97, 98.
La legge 124/2008 prevede che i processi penali a carico di chi riveste la carica di Presidente della
Repubblica, Presidente del Consiglio e Presidente delle due Camere siano sospesi fino alla data di
cessazione della carica. Tale accorgimento è da un lato posto a tutela del regolare svolgimento delle
funzioni degli organi costituzionali, ponendolo al riparo da iniziative giudiziarie strumentali, dall’altro
però, come tutte le immunità costituisce una limitazione ai principi di legalità ed uguaglianza. La
democrazia pluralista deve operare un dovuto bilanciamento tra i due principi, escludendo qualsiasi
assolutismo. Alla Corte costituzionale parve irragionevole la disciplina posta dal c.d. lodo Maccanico-
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Schifani del 2003 cosicché si è resa necessaria una nuova legge: il lodo Alfano del 2008. Tale
legislazione prevede un più ragionevole bilanciamento dei principi in gioco, tuttavia la Corte dichiara
incostituzionale anche questa, affermando che una tale sottrazione di un soggetto dalla giurisdizione non
può essere disposta con legge ordinaria. Una successiva legge del 2010 stabilisce che per il Presidente del
Consiglio costituisca legittimo impedimento a partecipare a processi penali se ciò interferisce con
l’esercizio delle sue funzioni: tuttavia la norma è stata nuovamente dichiarata illegittima in quanto non
consente al giudice di valutare l’effettiva esistenza di tale impedimento. Il resto della legge è stato
abrogato con referendum nel 2011.
Unità ed omogeneità del Governo
Per quanto concerne i rapporti tra gli organi necessari del Governo l’art. 95 scarta tanto le proposte che
volevano incentrare il potere di direzione politica nel solo Presidente del Consiglio, quanto quelle che
volevano porre sullo stesso piano Presidente del Consiglio e Consiglio dei ministri. Tali proposte
miravano a costituire un organo unitario, responsabile politicamente nella sua unità per l’indirizzo
politico che segue e capace di dare attuazione coerente a tale indirizzo, sia nella sua attività che nei
rapporti con gli altri organi costituzionale. Ovviamente, ciò è più difficile nei governi di coalizione, dove
si pone il problema di ricondurre le diverse tendenze entro un indirizzo unitario.
L’esperienza storica dimostra che, per raggiungere tale obiettivo, si è fatto leva ora sul ruolo unificante
del Consiglio dei ministri, ora sulla prevalenza del Primo Ministro. Tuttavia le difficoltà nella formazione
di un parlamentarismo maggioritario e la diffidenza con cui si guardava ad un Governo forte, risultato
dell’applicazione pratica di tali proposte, impedirono che la Costituzione le accogliesse.
L’art. 95 si è limitato a prevedere che: a) il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del
Governo; b) il Presidente del Consiglio mantiene l’unità di indirizzo politico del Governo coordinando
l’attività dei ministri; c) i ministri rispondo collegialmente per gli atti del Consiglio ed individualmente
per quelli dei loro ministeri. Il Presidente del Consiglio quindi “dirige” e “mantiene” la politica del
Governo, ma tale politica è determinata da un altro organo cioè il Consiglio dei ministri. L’art. 95
consacra tre diversi principi che si sono affermati in momenti precisi della storia politica:
- principio della responsabilità politica di ciascun ministro, che per il nesso esistente tra
responsabilità e potere comporta il riconoscimento dell’autonomia di ciascun ministro nella
conduzione del suo ministero;
- principio della responsabilità politica collegiale, incentrata nel Consiglio dei ministri;
- principio della direzione politica monocratica del Presidente del Consiglio
Tutto ciò comporta che il concreto equilibrio fra questi organi non sia stabile e definito, ma oscilli a
seconda degli equilibri complessivi che interessano il sistema: dal grado di compattezza della
maggioranza, al prestigio del Primo Ministro. La storia del Governo italiano è caratterizzata da costanti
tentativi di disciplinare giuridicamente il ruolo del Presidente del Consiglio ed i suoi rapporti con gli altri
organi costituzionali.
La formazione del Governo
I metodi di formazione del Governo sono riconducibili a due modalità diverse:
a) democrazie mediate, in cui i partiti, dopo le elezioni, detengono il potere di decidere struttura e
programmi del Governo;
b) democrazie immediate, in cui esiste la sostanziale investitura popolare diretta del capo del
Governo Si prendano in esame in questo campo le modalità utilizzate in Inghilterra e Usa. Nel
Regno Unito la competizione avviene tra due partiti tra loro alternativi, di regola, il leader del
partito vincitore diventa Presidente del Consiglio. In questo tipo di ordinamento la struttura
formale del potere si basa sul rapporto di fiducia, l’elettore vota per i candidati ai seggi elettorali.
Negli Stati Uniti invece, la competizione si svolge tra due personalità contrapposte, i partiti sono
semplici macchine elettorali, e l’investitura popolare del vertice del potere esecutivo e prevista
dalle stesse regole costituzionali sulla forma di Governo.
La disciplina costituzionale italiana al riguardo è compatibile sia con le modalità di formazione del
Governo tipiche della democrazia mediata, che con quelle tipiche della democrazia immediata. Determina
l’evoluzione in uno o nell’altro senso le caratteristiche del sistema politico, le sue regole convenzionali e
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la legislazione elettorale. La Costituzione si limita a prevedere che il Presidente del Consiglio sia
nominato dal Presidente della Repubblica e nomini i suoi ministri. Tale soluzione poneva in essere un
Presidente del Consiglio autorevole, capace di formare personalmente la lista dei ministri, che ne avrebbe
rafforzato il ruolo.
Tale modalità di attuazione dell’art. 92 tuttavia si è resa impossibile per la presenza di maggioranze di
coalizione eterogenee: piuttosto tali accordi di coalizione comprendevano anche la scelta dei ministri e la
loro attribuzione ai ministeri. Perciò la prassi ha visto l’affermazione della figura dell’incarico preventivo
dei ministri, fortemente limitante per il Presidente del Consiglio. In presenza di coalizioni formate in sede
elettorale poi, il Capo dello Stato si limita a nominare Presidente del Consiglio il leader della coalizione
che ha vinto le elezioni. Ma se tale coalizione non c’è, o se chi ha vinto non è in grado di governare con
una maggioranza sicura, cresce la discrezionalità del Capo dello Stato. Tale discrezionalità si allarga nelle
fasi di crisi del sistema politico: in queste situazioni particolari il Capo dello Stato sceglie personalità
autorevoli, capaci di riunire attorno a sé quanti più soggetti possibili e con capacità tecniche precise . A
volte si rende necessaria l’attribuzione di tale carica a soggetti senza una precisa personalità politica ma
con spiccate capacità tecniche: è il caso dei governi tecnici.
Consultazioni e incarico per la formazione del Governo
Dopo l’apertura delle crisi di Governo (o dopo le elezioni) il Presidente della Repubblica procede alle
consultazioni, con cui si apre il procedimento di formazione del Governo.
Il capo dello Stato incontra i presidenti dei gruppi parlamentari, i Presidenti delle due camere e tutti i
soggetti che ritenga utile sentire al fine di venire a conoscenza delle posizioni anche reciproche dei partiti,
compresi gli accordi che fra di essi si stanno instaurando. Il Presidente della Repubblica, attraverso le
consultazioni poteva conosce ed apprezzare i contenuti del processo di coalizione post-elettorale, al fine
di scegliere un soggetto ritenuto idoneo a continuare la mediazione necessaria per giungere al
perfezionamento degli accordi di coalizione e alla definizione dei profili programmatici del Governo.
La prassi per cui il Capo dello Stato, alla fine delle consultazioni, conferisce l’incarico non è prevista
dalla Costituzione ed è stata giustificata alla stregua di una particolare interpretazione dell’art.92: secondo
questa il procedimento di formazione di Governo deve essere unitario. Si è parlato perciò di consuetudine
interpretativa, come di consuetudine si è parlato per la prassi delle consultazioni. Sul piano sostanziale
altro non è che la corrispondenza alle logiche di funzionamento della democrazia mediata, in cui scelta
del Presidente e dei ministri sono parte integrante degli accordi di coalizione.
L’incarico viene conferito oralmente al Presidente del Consiglio. Egli accetta di norma con riserva, che
sarà sciolta quando avrà compiuto con successo le sue attività. In particolare la nomina dei ministri e la
presentazione del programma di Governo al Parlamento.
In alcuni casi particolarmente delicati, al fine di non esporre troppo il soggetto designato, il Presidente
della Repubblica ha conferito dei preincarichi, un mandato esplorativo. Entrambi questi strumenti
servono al Presidente stesso per accrescere la sua conoscenza e nominare un Governo che potrà godere
della fiducia del Parlamento. Il mandato esplorativo è conferito ad un soggetto super partes che svolge
attività istruttoria di fianco a quella dello stesso Presidente delle Repubblica. Il preincarico invece viene
conferito allo stesso soggetto che il Capo dello Stato ha previsto di nominare Presidente.
Fino a quando la forma di Governo ha operato sulla base di coalizioni formate dopo le elezioni, il potere
dell’incaricato, ai sensi dell’art. 92 Cost. di proporre al Capo dello Stato la lista dei ministri è stato
svuotato di contenuto sostanziale: i partiti, per mezzo degli accordi di coalizione, sono stati i veri
formatori del Governo. Non sono mancate critiche alla prassi citata che tuttavia non hanno modificato la
prassi di formare la lista dei ministri attraverso un attento dosaggio dei ministeri fra i partiti e le loro
componenti. Dal punto di vista costituzionale non si può parlare di illegittimità della prassi: innanzitutto
perché la costituzione riconosce il ruolo costituzionale dei partiti, e poi poiché essa nulla specifica
riguardo alle modalità di formazione della proposta del Presidente del Consiglio. Le modalità adottate
hanno subito variazioni prima a seguito della crisi del sistema dei partiti, poiché si è resa possibile una
maggiore autonomia del Governo rispetto a questi; poi, con le coalizioni annunciate al corpo elettorale: la
legittimazione che ne deriva per il leader vincitore ne ha rafforzato notevolmente il ruolo di formazione
del programma e nomina dei ministri.
Formata la lista dei ministri il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e quindi, su
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proposta di quest’ultimo, i ministri. Dopo la nomina, Presidente del Consiglio e ministri prestano
giuramento in mano al Presidente della Repubblica: con tale giuramento il Governo termina il proprio
processo di formazione. Il primo incarico nel nuovo Presidente del Consiglio è la controfirma della sua
nomina e di quella dei ministri.
L’incarico di formazione del Governo è conferito oralmente. Questa prassi ha una motivazione precisa: se
l’incarico fosse conferito con atto scritto, questo dovrebbe essere controfirmato necessariamente dal
Presidente del Consiglio uscente che potrebbe, rifiutando di firmare, condizionare la scelta del suo
successore.
Il procedimento di formazione del Governo è collegato al successivo procedimento di votazione della
fiducia parlamentare, anche se costituisce un procedimento distinto e autonomo.
La posizione del Governo in attesa di fiducia sarebbe, per l’opinione prevalente, simile a quella del
Governo dimissionario: la sua attività si deve limitare a quella di ordinaria amministrazione. Tuttavia la
definizione di ordinaria amministrazione è molto elastica, sicché, dal punto di vista dello stretto diritto, è
difficile o quasi impossibile definire quali atti il Governo dimissionario o in attesa di fiducia possono o
non possono compiere.
Sostanzialmente, in questo campo, il Governo si pone degli autolimiti, consacrati, dal secondo Governo
Cossiga, da apposite direttive del Presidente del Consiglio.
Il Governo è nella pienezza dei sui poteri solo dopo l’approvazione del voto di fiducia. Il Presidente del
Consiglio presenta, entro 10 giorni dalla nomina, il programma di Governo autorizzato dal Consiglio dei
ministri. In ciascuna Camera i deputati di maggioranza presentano una mozione di fiducia motivata e
votata per appello nominale. La fiducia è accordata se tale mozione è approvata in entrambe le Camere (è
sufficiente la maggioranza relativa).
I rapporti tra gli organi del Governo
Al fine di garantire l’unitarietà dell’azione del Governo, la Costituzione punta sul principio collegiale,
ovvero la competenza del Consiglio dei ministri di determinare la politica generale del Governo e sul
principio monocratico, ovvero la competenza del Presidente del Consiglio ad indirizzare tale politica. In
altri termini questi principi servono a contrastare gli eccessi di autonomia dei ministri che potrebbero
minacciare l’unitarietà dell’attività di Governo (il coordinamento di cui parla l’art.95.1 è proprio l’attività
diretta a mantenere l’unità di azione del Governo, assicurando che le iniziative politiche ed
amministrative dei singoli ministri, siano attuazione del più generale indirizzo politico del Governo). È
necessario che questi due principi siano forniti degli strumenti giuridici per la loro applicazione. Dal testo
giuridico si ricavano:
a) il potere del Presidente del Consiglio di proporre la lista con i ministri da nominare;
b) il potere di indirizzare con direttive politiche e amministrative l’operato dei ministri, i quali
comunque, mantengono un certo grado di autonomia nell’ordine delle modalità di attuazione;
c) la competenza del Consiglio dei ministri di deliberare sulla politica generale del Governo, cioè
l’indirizzo che intende seguire.
Si è visto come, in governi di coalizione, il potere di formare la lista dei ministri è influenzato dalle
decisioni dei partiti. In tali situazioni i ministri si sono comportati più che come parti di un’istituzione
unitaria, come delegati dei rispettivi partiti all’interno del Governo. In questa circostanza politica è
consistita la radice del cosiddetto neofeudalesimo ministeriale. Con l’esperienza di coalizioni elettorali
con un candidato comune alla Presidenza del Consiglio, si è accresciuto il peso del Presidente nella scelta
dei ministri, è aumentata la sua legittimazione e autorevolezza. A ciò si è aggiunta un’altra circostanza:
l’aumento di vincoli comunitari e la perdita di capacità di sintesi politica dei partiti, i quali hanno fatto
acquisire al Governo notevole autonomia rispetto alle dinamiche della coalizione. Su di esso sono
ricadute esigenze della gestione di interessi generali del sistema Paese.Tale circostanza ha posto in essere
la distinzione costituzionale tra politica nazionale, affidata ai partiti e politica generale del Governo.
Nel parlamentarismo maggioritario il Primo Ministro è leader del partito di maggioranza. Tale
coincidenza tra leadership di partito e premiership non si è mai realizzata in Italia: esisteva una regola
convenzionale che riservava la carica di Primo Ministro ad un esponente DC, ma parimenti c’era un’altra
convenzione che escludeva la coincidenza tra carica di Presidente e di Segretario politico DC.
L’applicazione di tale regola si è interrotta con le presidenze laiche di Spadolini e Craxi, salvo poi essere
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ripresa quando si è avviata la fase delle coalizioni formate a livello elettorale. Tale tendenza indebolisce il
ruolo del Presidente del Consiglio e può trovare una duplice spiegazione: 1) pone il Governo al riparo
dalla conflittualità fra i partiti della coalizione; 2) esprime la difficoltà del sistema politico di trovare una
leadership autorevole.
Nel 2005-2006, al fine di rafforzare l’autorevolezza del candidato, il centro sinistra ha utilizzato la pratica
delle elezioni primarie: a differenza dell’esperienza nordamericana c’era un solo vero candidato, gli altri
soggetti si sono presentati solo per definire il rispettivo peso all’interno della coalizione. In questo modo
però, le primarie hanno suggellato le divergenze e la divisione interna alla coalizione e aumentato il
potere dei partiti di condizionare il Presidente del Consiglio. La riunificazione tra leadership e
premiership si è compiuta nel 2014 quando Matteo Renzi, neoeletto segretario del PD, ha assunto la
carica di Presidente del Consiglio.
Per far fronte a ministri con condotte particolarmente lesive nei confronti del Governo, esiste un potere di
revoca del ministro (oggetto di accese dispute dottrinali) che tuttavia nessun Presidente ha mai ritenuto di
poter utilizzare.
Il presidente Spadolini avvisò per primo la necessità di una prassi costituzionale per cui il Presidente del
Consiglio può proporre al Presidente della Repubblica la revoca dei ministri. Tuttavia fu lo stesso
Spadolini a rassegnare le dimissioni quando fu di fronte all’acceso contrasto fra due ministri della sua
coalizione di Governo. I limiti di applicazione di tale soluzione non sono tanto giuridici, quanto politici.
Da un punto di vista giuridico il potere di revoca dei ministri si potrebbe considerare come implicito in
quello di nomina, tuttavia politicamente parlando, tale accorgimento utilizzato all’interno di una
coalizione porterebbe inevitabilmente alla rottura degli equilibri che l’hanno resa possibile. Questo
rischio non si presenta nei casi in cui il ministro in questione abbia perso l’appoggio del suo partito,
oppure quando non è membro di uno dei partiti artefice dell’accordo di coalizione.
L’unità dell’indirizzo politico e amministrativo nella legge 400/1988
Al fine di mantenere l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo del Governo, oltre ai poteri
derivanti da norme costituzionali, esistono strumenti previsti da fonti di livello subordinato alla
Costituzione. Nel 1988 viene approvata la legge 400 che razionalizza gli strumenti per tale garanzia,
sostituendo di fatto il decreto Zanardelli che si muoveva si nella stessa direzione, ma risultava inutile
rispetto alle esigenze di un nuovo sistema politico. Le direttrici di tale legge sono state:
A. concentrazione delle decisioni riguardanti la politica generale di Governo nel Consiglio dei ministri.
Il Consiglio delibera in merito a: 1) indirizzo politico; 2) indirizzo generale dell’azione amministrativa; 3)
conflitti di attribuzione fra ministri; 4) iniziativa di porre la questione di fiducia; 5) i disegni di legge e le
proposte di ritiro degli stessi; 6) linee di indirizzo dei rapporti internazionali, accordi politici o militari; 7)
rapporti con la chiesa cattolica e con le altre confessioni; 8) nomine alla presidenza di istituti di carattere
nazionale.
B. Attribuzione al Presidente del Consiglio di poteri relativi al funzionamento del Consiglio dei
ministri. In particolare il Presidente del Consiglio lo convoca e ne forma l’ordine del giorno;
Il regolamento interno al consiglio inoltre, ha previsto che: Il ministro che intende inserire un nuovo
argomento all’ordine del giorno ne deve far richiesta al Presidente; 5 giorni prima della riunione del
Consiglio il Presidente dirama un documento con tutti i provvedimenti su cui il Consiglio può deliberare.
Tali provvedimenti sono preventivamente esaminati prima della loro delibera definitiva in sede di
Consiglio e nessuna questione può far parte dell’ordine del giorno se non è stata preventivamente
esaminata. Si conseguono due risultati: 1) si facilita la circolazione delle informazioni e, di conseguenza,
si facilita la risoluzione preventiva di problemi tra le diverse iniziative ministeriali; 2) si concentra nelle
mani del Presidente il coordinamento preventivo delle attività ministeriali.
C. Attribuzione al Presidente di poteri strumentali rispetto al coordinamento del Consiglio dei ministri.
Egli può:
- sospendere l’adozione di atti dei ministri per sottoporre la questione al Consiglio;
- adottare le direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del
Consiglio;
- adottare direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza
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dell’amministrazione pubblica;
- concordare coi ministri le dichiarazioni pubbliche;
- istituire Comitati di ministri per sottoporgli questioni particolari.
La Presidenza del Consiglio dei ministri
La Presidenza del consiglio dei ministri è la struttura amministrativa di supporto per lo svolgimento dei
compiti del Presidente. Gli uffici di diretta comunicazione del Presidente sono organizzati nel
Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri, cui è preposto un Segretario generale
nominato con d. P.C.M.
Il Segretariato è organizzato in singole strutture di due tipi:
- dipartimenti, comprensivi di una pluralità di uffici accomunati da omogeneità funzionale;
- uffici, strutture dotate di autonomia funzionale.
Tale autonomia di gestione è completata da una notevole autonomia contabile e di bilancio: la Presidenza
provvede autonomamente alla gestione delle sue spese. I compiti che tale struttura svolge sono peculiari e
differenti da quelli propri dei ministeri, sono attività di studio e di elaborazione politica, di raccolta dati
ed informazioni, di collegamento tra i diversi settori dell’amministrazione statale e locale. Il personale di
conseguenza è variegato: una parte è di ruolo (assicura continuità amministrativa), un’altra è di diversa
provenienza (assicura professionalità e competenze svariate e qualificate).
Gli organi governativi non necessari
Fra gli organi governativi non necessari la legge ha previsto:
1. Vice Presidente del Consiglio dei ministri: esso ha funzione di supplente del Presidente, di
norma si ricorre ala nomina di tale figura per dare risalto alla presenza nella coalizione di un
partito diverso da quello che esprime il Presidente del Consiglio;
2. il Consiglio di gabinetto, che in passato il Presidente ha istituito per riunire i ministri che
rappresentavano le diverse componenti politiche della coalizione;
3. Comitati interministeriali, possono essere di due tipi: a) istituiti per legge (che ne fissa
composizione e competenze); b) istituiti con decreto del Presidente del Consiglio, con compiti
provvisori per affrontare questioni definite. Tali organi dovevano avere principalmente la
funzione di decongestionare l’attività dei ministeri, esaminando questioni poco rilevanti per la
politica generale del Governo. La pratica tuttavia ha portato ad una vera e propria sostituzione di
tale organo con quello ministeriale per alcuni ed alla conseguente frammentazione dell’indirizzo
politico. Per ovviare a questa situazione si è agito in due modi: 1) i Comitati sono tenuti a dare
avviso preventivo delle loro riunioni, i ministri forniscono direttive alle quali i comitati devono
attenersi; 2) si è diminuito il numero di Comitati esistenti;
4. ministri senza portafoglio, ovvero che non sono preposti ad un ministero, la loro attività è dettata
dal Presidente del Consiglio;
5. sottosegretari di stato, ovvero collaboratori del ministro. In quanto tali non fanno parte del
Consiglio dei ministri e non concorrono alla determinazione dell’indirizzo politico di Governo.
Essi agiscono seguendo le direttive del ministro, la loro nomina avviene per decreto del
Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, in concerto col ministro
che il sottosegretario dovrà aiutare;
6. Viceministri, ovvero quei sottosegretari cui vengono conferite deleghe rispetto all’intera area di
competenza di strutture amministrative ministeriali. Possono partecipare alle sedute del
Consiglio per riferire su argomenti e questioni attinenti alle materie a loro delegate, senza diritto
di voto;
7. Commissari straordinari del Governo, che sono nominati per perseguire specifici obiettivi,
determinati in relazione a programmi o ad indirizzi deliberati dal Governo o dal Parlamento, o
per particolari esigenze di coordinamento operativo tra amministrazioni statali.
Gli strumenti per l’attuazione dell’indirizzo politico
Il Governo esercita una quota rilevante del potere di indirizzo politico. Le linee generali di tale indirizzo
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politico sono espresse nel programma di Governo che è alla base della concessione parlamentare della
fiducia.
Nell’attuazione di tale indirizzo il Governo ha a disposizione una molteplicità di strumenti giuridici e in
particolare: a) la direzione dell’amministrazione statale; b) poteri di condizionamento dell’attività
legislativa parlamentare; c) adozione di atti con forza di legge (decreti legislativi e decreti legge) e dei
regolamenti.
L’abuso della capacità di emanare decreti legge ha spinto la Corte a dichiarare l’incostituzionalità di tali
reiterazioni da parte del Governo. L’attività normativa del Governo si è notevolmente ridimensionata
dopo la sentenza del ’96, ma il Governo ha trovato comunque il modo di soddisfare le sue esigenze
legislative di realizzazione dell’indirizzo politico mediante decreti legislativi e regolamenti.
Settori della politica governativa
Alcuni settori dell’indirizzo politico formano discipline particolari in cui si sviluppano prassi che vedono
il Governo titolare del potere decisionale:
la politica di bilancio e finanziaria. La legge attribuisce al Governo il compito di elaborare i
diversi documenti che definiscono il quadro finanziario; dopo che tali documenti sono stati
presentati al Parlamento per l’approvazione, il Governo si vede riconosciuto un ruolo di
direzione del processo decisionale: esso esercita importanti poteri di controllo della spesa
pubblica. L’insieme di questi poteri fa capo al ministero dell’economia e delle finanze;
la politica estera. Che si sostanzia nella stipulazione di trattati internazionali, nella cura di
rapporti con altri Stati anche nell’ambito delle organizzazioni internazionali (ONU). Esistono
alcune categorie di trattati sui quali il Parlamento esercita un controllo con la legge di
autorizzazione alla ratifica, tuttavia sono molti i trattati, anche di importante rilievo politico, che
sfuggono al controllo parlamentare. La prassi internazionale ha visto crescere il numero dei
trattati in forma semplificata che pertanto rientrano nella sfera esclusiva del Governo attraverso
il ministro degli esteri. Esistono anche altre strade che portano all’esclusione da quest’ambito del
Parlamento. Una di queste consiste nell’applicazione dell’istituto dell’esecuzione provvisoria di
trattati che non hanno ancora ricevuto approvazione parlamentare, che consente, di fatto, di
scavalcare la ratifica. Altro aspetto rilevante è quello dell’approvazione di trattati all’interno
della NATO: in questo campo spesso si ricorre ad atti del Governo, spesso coperti dal segreto di
Stato;
la politica europea. Concerne i rapporti con l’UE: in questo campo è il Governo a partecipare
alle decisioni più importanti, la sua azione è coordinata dal Presidente del Consiglio e dai
ministri. Esistono comunque correttivi istituzionali che rendono partecipi sia il Parlamento che le
Regioni;
la politica militare. Settore il cui indirizzo politico è prevalentemente rimesso al Governo. Il
documento costituzionale ha disciplinato il regime di emergenza bellica (artt. 78 e 87)
dichiarando che: 1) le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri
necessari; 2) il Capo di Stato dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere; 3) il Capo dello
Stato ha il comando delle forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa, al Governo
spetta la direzione tecnico militare delle forze armate. La prassi si è allontanata notevolmente da
tali disposizioni: i regimi di emergenza bellica si instaurano ormai per mezzo di decreti-legge del
Governo che procede all’intervento militare e ad operazioni iniziate segue una delibera di testo
conforme del Parlamento (la conversione in legge dell’operato del Governo)
La decisione di avviare operazioni militari nella maggior parte dei casi è riconducibile a decisioni prese
nell’ambito di trattati internazionali a cui l’Italia partecipa. Tali operazioni si sono conformate negli anni
come azioni coercitive in caso di ‘minaccia alla pace, rottura della pace o atto di aggressione’, oppure sul
‘diritto di legittima difesa individuale e collettiva’: in questi casi la giustificazione è la difesa da un
attacco militare ingiusto, sia pure condotto al di fuori dei confini di Stato. Nell’ambito delle più recenti
trasformazioni dei rapporti internazionali ci sono stati interventi militari cosiddetti ‘di polizia
internazionale’ in Paesi dove erano eseguite violazioni gravi dei diritti umani. Come si conciliano tali
interventi con l’art. 11 della Costituzione secondo cui ‘l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’? L’Italia, in
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definitiva, si è conformata alla consuetudine internazionale che inserisce la tutela dei diritti umani tra i
principi fondamentali del diritto internazionale.
La trasformazione del concetto di guerra evidenzia l’inadeguatezza della disciplina costituzionale al
riguardo. Fin’ora però lo svuotamento della disciplina costituzionale si era accompagnato al consenso
univoco delle forze politiche. Il consenso bipartisan viene pericolosamente meno in occasione del
conflitto iracheno, rendendo debole la posizione del Governo.
L’attentato dell’11 settembre modifica ulteriormente il concetto di guerra: si è parlato di guerra globale.
Da un lato Al Qaida ha portato le operazioni belliche tragicamente all’interno dei confini dello Stato
nemico (altro aspetto della difficoltà di controllo entro i confini), dall’altra la risposta degli USA è stata
l’avvio di operazioni militari prima in Afghanistan poi in Iraq. Proprio su quest’ultimo si aprì la
spaccatura interna alla NATO: da un lato la Coalizione dei volenterosi che ha avviato le operazioni senza
l’avvallo del consiglio di sicurezza ONU, dall’altro i paesi fermamente oppositori. La legittimazione a
tale attacco fu il ‘diritto all’autodifesa con un’operazione preventiva’ volta a scongiurare l’uso di armi di
distruzione chimica, in presunto possesso del leader iracheno Saddam. La posizione assunta dall’Italia
nell’immediato fu di non-belligeranza, il contingente italiano forniva semplice ‘supporto logistico’ ad
Usa e Regno Unito. Il Governo annunciò in seguito il contributo alla ‘stabilità umanitaria’ e l’invio di un
numero considerevole di soldati. Il contingente italiano subisce gravi perdite umane.
Nel 2006 il nuovo Governo Prodi attua il progressivo ritiro delle truppe;
politica informativa e di sicurezza. Ricade principalmente sotto la responsabilità del Presidente
del Consiglio: a lui fa capo la direzione dei servizi segreti e allo stesso si rimanda per la materia
del segreto di Stato. Anche se in democrazia la regola è la trasparenza, esistono esigenze
costituzionalmente rilevanti per le quali è possibile ammettere deroghe eccezionali alla regola
attraverso l’apposizione del segreto di Stato. La finalità unica di tale espediente è la tutela
dell’integrità della Repubblica. Per garantire coerenza nell’apposizione del segreto un decreto
del P.C.M. definisce i criteri di individuazione degli oggetti suscettibili di copertura segreta. Per
confermare il carattere di eccezionalità del segreto, tale accorgimento ha durata temporale
limitata nel tempo. Il segreto di Stato pone l’autorità giudiziaria in una situazione straordinaria di
inibizione delle sue facoltà di acquisizione e utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte
dal segreto. Il giudice, può comunque sollevare il conflitto di attribuzione di fronte alla Corte.
Il Governo e la pubblica amministrazione
Ciascun Ministro è preposto ad uno degli organi dell’amministrazione statale che prende il nome di
Ministero. I ministri hanno una doppia funzione istituzionale: da un lato contribuiscono a determinare
l’indirizzo politico, dall’altro sono posti al vertice del ministero, chiamato a realizzarlo. L’organizzazione
dei ministeri attualmente è basata sul principio di separazione tra politica ed amministrazione: agli organi
di Governo è assegnata l’esercizio della funzione di indirizzo politico, di determinazione degli obiettivi e
dei programmi da attuare, e la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli
indirizzi impartiti; ai dirigenti amministrativi invece, spetta l’adozione di atti e provvedimenti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno e l’organizzazione degli strumenti e del personale.
Il ministro, periodicamente, definisce priorità, obiettivi piani e programmi nelle direttive generali. Tali
direttive non possono contenere indicazioni concrete in quanto spetta ai dirigenti la gestione, della quale
risponderanno in caso di cattiva conduzione (responsabilità dirigenziale). Il ministro inoltre assegna a
ciascun ufficio le risorse necessarie per assolvere alle sue funzioni.
Tale rapporto politica-amministrazione pone importanti problemi di natura costituzionale:
- riconduzione dell’amministrazione all’interno di un sistema di controllo democratico;
- evitare che l’amministrazione operi in modo discriminatorio facendo favoritismi e favori
vendendo meno al principio di eguaglianza;
Il primo punto evoca una burocrazia privata, in grado di perseguire i propri interessi in spregio delle
esigenze collettive. Il secondo invece richiama l’immagine di una burocrazia strumento della lotta
politica, che opprime fortemente le minoranze. La soluzione al primo problema è basata sul principio di
responsabilità ministeriale di fronte al Governo: in questo modo l’amministrazione e la burocrazia sono
indirettamente ricondotte al circuito democratico. La soluzione del secondo problema è stata ricondotta al
principio di legalità in quanto l’amministrazione opera nei limiti della legge. Tuttavia queste soluzioni si
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sono rivelate poco efficaci, quindi l’ordinamento giuridico italiano ha proposto nuove soluzioni:
l’amministrazione è separata dal sistema di indirizzo politico, i dirigenti svolgono le loro attività di
gestione in conformità alla legge; c’è comunque comunicazione fra gli organi di Governo e quelli
dell’organizzazione: i primi stabiliscono gli obiettivi che i secondi devono attuare. I dirigenti sono
valutati nel loro operato ed incorrono nella responsabilità dirigenziale.
Il gran numero di ministeri, e quindi di ministri, rendeva l’organo collegiale disomogeneo e difficilmente
riconducibile ad un indirizzo unitario, le materie di competenza spesso erano frammentate tra più
ministeri e ciò rendeva difficile anche l’attuazione delle singole attività amministrative. La soluzione a
questo problema è stata una riduzione drastica del numero dei ministri.
I principi costituzionali sull’amministrazione
Esistono dei principi costituzionali comuni a tutte le amministrazioni:
I. Legalità della pubblica amministrazione e la riserva di legge in materia di organizzazione. Il
principio di legalità a quale sono sottoposte le amministrazioni può definirsi come la
sottoposizione dell’amministrazione alla legge, nel senso che l’amministrazione pubblica può
agire solo nei limiti imposti dalla legge e nel modo da essa indicato (contrariamente al soggetto
privato che agisce si nei limiti, ma nelle modalità che preferisce). Tuttavia l’amministrazione
non è totalmente obbligata: essa effettua delle scelte tra le diverse opzioni offerte dalla legge
rimandando al principio della discrezionalità amministrativa. Qualora poi si serva di strumenti
propri del diritto privato essa si imbatterà nei normali limiti legali che concernono appunto il
diritto privato. La Costituzione, in materia di organizzazione dei pubblici uffici, pone una riserva
di legge relativa. La tendenza è quella di ridurre l‘intervento legislativo in questo campo e
limitarlo alla fissazione di pochi principi organizzativi che rimandino a più puntuali regolamenti
di organizzazione.
II. Imparzialità della pubblica amministrazione. Vieta le discriminazioni tra soggetti non sorrette da
alcun fondamento razionale. L’imparzialità è l’applicazione sul piano amministrativo del
principio di eguaglianza.
III. Buon andamento della pubblica amministrazione. Richiede un’attività amministrativa efficace
(capace di operare il miglior rapporto mezzi utilizzati, risultati conseguiti) ed efficiente (capace
di raggiungere gli obiettivi fissati). Numerosi sono stati gli interventi legislativi per porre in
primo piano tale principio, inizialmente sottostimato. In particolare, in attuazione di tale
obiettivo si è approvata un’importante riforma con il fine di snellire e semplificare l’attività
amministrativa.
IV. Il principio del concorso pubblico. Utilizzato per l’accesso al rapporto di lavoro alle pubbliche
amministrazioni. Questo principio costituisce specificazione di quello di imparzialità e buon
andamento e pone il merito personale come criterio di selezione. Sentenze della Corte hanno
stabilito che i concorrenti vadano valutati da commissioni di esperti e che non sono ammesse
promozioni se non precedute da apposita fase concorsuale.
V. Dovere di fedeltà. Che riguarda tutti i cittadini indistintamente per l’art. 54, e che si specifica
nell’adempimento delle pubbliche funzioni con onore e disciplina, a seguito di giuramento
quando specificato dalla legge. La stessa Costituzione quindi, onde evitare il rischio di
un’amministrazione partigiana, consente di applicare limiti al diritto di iscrizione ai partiti per i
magistrati, i militari, i funzionari e gli agenti di polizia e i diplomatici (art. 98.3).
VI. Principio di separazione tra politica e Governo. Che divide il potere politico da quello
amministrativo sicché non esistano contaminazioni politiche all’interno dell’attività
amministrativa. L’autonomia amministrativa tuttavia non è totale: l’amministrazione è separata
dagli organi di Governo ma è funzionalmente collegata agli stessi in quanto tenuta ad attuarne
l’indirizzo amministrativo.
VII. Responsabilità personale dei dipendenti pubblici. Esclude ogni forma di immunità per gli atti
compiuti in violazione dei diritti. È una responsabilità diretta che il dipendente ha solidalmente
con lo Stato o con l’ente pubblico da cui dipende.
VIII. Principio di sussidiarietà. Che a seguito della riforma del titolo V impone che l’amministrazione
pubblica sia tendenzialmente locale.
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Nell’ordinamento italiano al principio della separazione tra politica ed amministrazione si è innestato
quello che affida agli organi politici il potere di nomina dei dirigenti degli organi amministrativi, i quali
ricevono una carica a termine fino alla fine del mandato di Governo. Il fenomeno che vede il ricambio ai
vertici amministrativi ad ogni cambio di Governo ha preso il nome di spoils system. Si pone però il
problema della sua compatibilità col principio costituzionale di imparzialità. La Corte ha, seppure
parzialmente, legittimato questa tendenza: ha riconosciuto che alcuni incarichi necessitino di essere
conferiti a personalità di fiducia per il Governo, in modo da rafforzare la coesione tra l’organo politico
regionale e l’organo al vertice dell’apparato burocratico; ha ribadito che tale meccanismo deve essere
rigorosamente circoscritto all’ambito della separazione dei poteri dell’amministrazione da quelli della
politica. Inoltre, ha censurato una legge regionale che consentiva alla Regione, in caso di illegittimità
dichiarata dei meccanismi di spoils system, di scegliere fra il reintegro nel ruolo o l’indennizzo. Ha poi
annullato una norma che imponeva la decadenza automatica dei revisori dei conti delle aziende sanitarie,
figura che necessita maggiormente di vedere tutelato il principio di imparzialità.
Gli organi ausiliari
Gli organi ausiliari sono organi con funzione di ausilio nei confronti di altri organi: tali compiti si
riassumono in compiti di iniziativa, di controllo e consultivi. Gli organi ausiliari previsti dalla
costituzione sono:
1. Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Composto di esperti e rappresentanti delle
diverse categorie produttive in proporzione alla loro importanza qualitativa e quantitativa, essi
sono nominati con decreto del PDR dopo deliberazione del Consiglio dei ministri e durano in
carica 5 anni. L’obiettivo dei costituenti era integrare alla componente politica una
rappresentanza diretta di interessi per operare un raccordo con la società. Tuttavia, nella pratica,
il CNEL ha avuto scarsissima incidenza sul potere decisionale politico, a causa dei continui
mutamenti sociali esso non ha mai potuto essere espressione reale degli interessi della comunità.
Col presupposto di rivitalizzarlo si è estesa la portata delle sue attribuzioni, gli sono stati
conferiti: a) consulenza nei confronti delle Camere; b) esercizio di iniziativa legislativa in
materia economica e sociale;
2. Consiglio di stato. Organo di consulenza giuridico amministrativa del Governo e organo di
appello giurisdizionale della giustizia amministrativa. Si articola in 7 sezioni (4 con funzione
consultiva e 3 con funzione giurisdizionale). I pareri che discendono dalla funzione consultiva
sono di diversi tipi, occorre distinguere fra quelli da esporre obbligatoriamente e quelli che
vengono resi su richiesta di un’amministrazione statale. I pareri obbligatori riguardano: 1)
regolamenti del Governo e dei ministri, nonché i testi unici; 2) i ricorsi al Presidente della
Repubblica; 3) gli schemi generali di contratti tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o
più ministeri;
3. Corte dei conti. Esercita:
- Controllo preventivo di legittimità su alcuni atti delle amministrazioni statali, tra cui i
provvedimenti a seguito di delibere del CDM, gli atti normativi a rilevanza esterna, gli atti di
programmazione comportanti spese e gli atti generali attuativi di norme UE. Ove la corte ravvisi
un contrasto con una norma di ordine superiore rinvia l’atto in questione al Governo esponendo i
motivi. Di regola il Governo segue le direttive ma può chiedere la registrazione dell’atto con
riserva se vuole adottarlo ugualmente. La Corte in questo caso invia i documenti registrati con
riserva al Parlamento che compie le necessarie valutazioni sull’operato del Governo.
- Controllo successivo della gestione del bilancio: valuta la corrispondenza tra le previsioni
finanziarie coi risultati della gestione finanziaria, riferisce al Parlamento con apposita relazione.
Inoltre, partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo stato contribuisce. La
Corte costituzionale ha chiarito che tale controllo permane anche sugli enti pubblici trasformati
in SPA;
- la funzione giurisdizionale in materia di responsabilità dei funzionari pubblici per il danno recato
alle amministrazioni pubbliche; di giudizi di conto, sui conti di coloro che maneggiano soldi o
beni pubblici; di giudizi in materia di pensioni (civili e militari).
Tale funzione è esercitata dalle sezioni, quelle regionali e quella centrale con funzione di Corte d’appello.
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Non gode di copertura costituzionale ma può essere annoverata tra gli organi ausiliari anche l’Avvocatura
dello Stato, che ha la funzione quella di tutelare le amministrazioni statali nei giudizi di cui sono parte.
Essa si articola in un’avvocatura generale con sede a Roma e le avvocature distrettuali le cui
circoscrizioni corrispondono a quelle delle Corti d’appello.
Il Parlamento
La struttura del Parlamento
La struttura dei parlamenti moderni può essere bicamerale o monocamerale. La Costituzione italiana ha
optato per la prima alternativa, perciò il Parlamento si compone di due camere: la Camera dei deputati e il
Senato della Repubblica.
La struttura bicamerale è giustificata, negli Stati federali, dall’esigenza di rappresentanza degli Stati
membri, mentre negli Stati non federali, dall’esigenza di maggiore ponderazione delle decisioni del
Parlamento. Di regola in questi ordinamenti esiste un bicameralismo imperfetto, le due Camere sono
composte diversamente ed assolvono a funzioni diverse: in alcuni Stati la seconda camera non può votare
la sfiducia al Governo; in materia finanziaria la prima camera è preponderante sulla seconda; per quanto
riguarda i casi di divergenza tra i due rami del Parlamento, nella maggior parte degli Stati vengono risolti
facendo prevalere la prima camera sulla seconda. Il monocameralismo invece si ricollega all’esigenza di
rafforzare il Parlamento.
La Costituzione ha optato per un bicameralismo perfetto (o paritario) per cui entrambe le Camere hanno
uguale funzione e lievissime differenze strutturali. Il Senato è agganciato al territorio nazionale, in quanto
è ‘eletto a base regionale’. Ciascuna Camera può deliberare la concessione o il ritiro della fiducia al
Governo, mentre la formazione delle leggi richiede che ciascuno dei due rami adotti deliberazioni con
uguale testo deliberativo dato che ‘la funzione legislativa è svolta collettivamente dalle Camere’ (art. 70).
Per ciò che riguarda le lievi differenziazioni strutturali: Camera e Senato hanno differente consistenza
numerica (630 deputati, 315 senatori) ed esclusivamente per il Senato è prevista la nomina presidenziale
di 5 ‘senatori a vita’. Sono stabilite età diverse sia per essere eletti nelle due Camere sia per votare per
l’elezione alle due Camere; inoltre, la legge ha stabilito che entrambe le Camere abbiano uguale durata
delle rispettive legislature (5 anni). Le leggi elettorali per le due Camere sono caratterizzate entrambe
dalle stesse regole di fondo, il che però non garantisce dal rischio che nelle due Camere vi siano
maggioranze politiche diverse con conseguente rischio di stallo decisionale.
Il risultato del bicameralismo paritario è tuttavia un eccessivo appesantimento dell’intero sistema
legislativo e del processo decisionale: prima che la legge si perfezioni è necessario che le due Camere
approvino il medesimo testo e se una vi apporta qualche modifica dopo l’approvazione dell’altra,
quest’ultima dovrà pronunciarsi una seconda volta. Per questi motivi il Governo Renzi ha inserito nel
proprio programma un’importante revisione del bicameralismo perfetto. La proposta in attesa di
approvazione tramite referendum, prevede che la Camera sia esclusiva titolare del rapporto di fiducia con
i Governi, eserciti la funzione di indirizzo politico, di controllo politico del Governo e la funzione
legislativa. Il Senato perde perciò la capacità di costringere il Governo alle dimissioni.
Il Senato dovrebbe trasformarsi in una Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali, composto da
senatori rappresentativi di tali istituzioni e 5 senatori a vita. I senatori dovrebbero essere eletti dai
Consigli regionali, scegliendo per metà fra i propri componenti e per metà tra i sindaci in carica. La
ripartizione dei seggi si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni (l’elezione diretta è esclusa
poiché la Camera deve essere espressione diretta dell’indirizzo politico, mentre il Senato delle autonomie
territoriali). Il Senato: 1) non avrebbe più funzioni legislative identiche a quelle della Camera; 2)
eserciterebbe funzioni di raccordo fra Stato, enti territoriali ed enti comunitari; 3) partecipa alla
formazione ed all’attuazione degli atti normativi dell’UE; 4) inoltre (sotto un profilo totalmente nuovo)
dovrebbe valutare e vigilare sulle politiche pubbliche, verificare l’attuazione delle leggi statali e, nei casi
previsti, esprimere pareri sulle nomine di competenza statale.
Il Parlamento in seduta comune
La Costituzione ha previsto anche il Parlamento in seduta comune, un organo collegiale formato da
senatori e deputati per lo svolgimento di funzioni particolari. Si definisce come collegio imperfetto
poiché non è padrone del proprio ordine ma viene convocato per questioni strettamente disciplinate dalla
Costituzione:
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- l’elezione del Presidente della Repubblica (cui partecipano anche i delegati delle Regioni);
- l’elezione dei cinque giudici costituzionali;
- l’elezione di 1/3 dei componenti del Consiglio superiore della magistratura;
- la votazione dell’elenco dei cittadini dal quale saranno sorteggiati i membri aggregati alla Corte
costituzionale per giudicare le accuse costituzionali;
- la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica.
Esso è presieduto dal Presidente della Camera dei deputati e per il suo funzionamento si applicano le
disposizioni del regolamento della Camera dei deputati.
I regolamenti del Parlamento
La Costituzione demanda ai regolamenti parlamentari la disciplina del funzionamento interno di ciascuna
Camera. Tali regolamenti necessitano di forte stabilità perciò, per la loro approvazione necessitano di
essere votati a maggioranza assoluta dei suoi membri. La disciplina contenuta nei vari regolamenti
parlamentari varia in funzione dei diversi equilibri della forma di governo che concorre a determinare.
Operando nei limiti costituzionali, hanno concorso alle definizione dei rapporti tra maggioranza e
minoranza e tra Governo e Parlamento.
I regolamenti parlamentari del ‘71 risentivano dell’evoluzione in direzione del parlamentarismo
compromissorio e perciò, introducevano la regola dell’accordo unanime tra i presidenti dei gruppi
parlamentari e riconoscevano numerosi poteri di condizionamento procedurale ai gruppi parlamentari.
Queste regole mostrarono i loro limiti soprattutto dopo l’introduzione di minoranze capaci, con gli
strumenti fornitigli dal regolamento stesso, di praticare un efficace ostruzionismo parlamentare e di
conseguenza, la paralisi decisionale.
Si è visto quindi un progressivo allontanamento dal principio di parità di tutti i gruppi politici. Si è
introdotta la regola del voto palese che rafforzava sia la posizione del Governo che il suo potere di
controllo: in questo modo si sbarrava la strada ai c.d. franchi tiratori. Il sistema tendeva ad allontanarsi
dai moduli funzionali del parlamentarismo compromissorio per avvicinarsi al riconoscimento alla
maggioranza di una posizione dominante nei lavori parlamentari.
L’organizzazione interna delle Camere: Presidenti e Uffici di Presidenza
Ciascun ramo del Parlamento ha un’organizzazione interna complessa, all’interno della quale agiscono:
presidenti d’assemblea, ufficio di presidenza, commissioni, gruppi parlamentari, conferenza dei
capigruppo. I Presidenti di assemblea rappresentano rispettivamente la Camera e il Senato, hanno il
compito di regolare l’attività di tutti i loro organi garantendo il rispetto dei regolamenti. Le differenze più
significative tra Presidente della Camera e Presidente del Senato sono:
- il Presidente della Camera presiede il Parlamento in seduta comune;
- il Presidente del Senato sostituisce il Presidente della Repubblica nelle ipotesi di impedimento.
Entrambi devono essere convocati dal Presidente della Repubblica prima di sciogliere
anticipatamente le Camere. La tradizione parlamentare italiana riconduce le funzione dei
Presidenti d’assemblea a una posizione di (tendenziale) imparzialità: per la loro elezione i
regolamenti prevedono la maggioranza qualificata al fine di ottenere una convergenza delle forze
politiche più ampia della maggioranza di Governo.
Alla Camera l’elezione avviene con scrutinio segreto con quorum che nella prima elezione è dei 2/3.
Dopo la terza elezione è sufficiente la maggioranza assoluta. Al Senato viene eletto Presidente chi ottiene
la maggioranza assoluta: se per due scrutini non si raggiunge tale maggioranza è sufficiente la
maggioranza dei presenti, se ancora non si è raggiunta tale maggioranza si procede al ballottaggio tra i
due senatori che hanno ottenuto più voti.
Le modificazioni degli equilibri di Governo, in accoglimento del principio maggioritario, spingono verso
una modifica dello stesso ruolo dei presidenti. La logica maggioritaria sembra ricondurre le dette cariche
alla sfera delle scelte operate dalla maggioranza. Se, a partire dalla XII legislatura i Presidenti sono stati
scelti tra personalità politiche appartenenti alla maggioranza (venendo meno alla consuetudine per cui
una presidenza si assegnava alla maggioranza e l’altra all’opposizione), non si può escludere che sia
destinato a perdere importanza il ruolo tradizionale di imparzialità dei Presidenti.
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Successivamente all’elezione dei Presidenti, le Camere provvedono all’elezione dei vicepresidenti, dei
deputati (o senatori) questori e dei segretari che costituiscono l’Ufficio di presidenza, il cui compito è
quello di coadiuvare il Presidente nell’esercizio delle sue funzioni.
I regolamenti stabiliscono che nell’Ufficio siano rappresentati tutti i gruppi parlamentari, in questo modo
si assicura la presenza di parlamentari riconducibili agli schieramenti di maggioranza e opposizione. Ma,
a seguito del rilievo che il fenomeno delle migrazioni dei parlamentari da un gruppo ad un altro ha
assunto nel corso della XIII legislatura, il regolamento del Senato ha definito che decada dall’incarico
ogni parlamentare che cambia schieramento durante la legislazione.
Il vicepresidente collabora col Presidente e lo sostituisce in caso di assenza o impedimento. I questori
provvedono al buon andamento dell’amministrazione di ciascuna Camera e svolgono alcune funzioni
riconducibili al funzionamento interno ed alle spese delle assemblee. I segretari sovrintendono alla
redazione del processo verbale ed assolvono a funzioni riconducibili al corretto esercizio delle funzioni
parlamentari.
I gruppi parlamentari
Con gruppi parlamentari si intendono le unioni dei membri di una Camera, espressione dello stesso
partito o movimento politico che costituiscono un’organizzazione stabile e una disciplina di gruppo.
La Costituzione non li nomina mai esplicitamente, si limita solo a definire che qualsiasi commissione
deve essere istituita in modo tale da tener conto della eterogeneità del Parlamento: da tale disposizione
discende l’importanza strutturale dei gruppi parlamentari. Le regolamentazioni parlamentari prevedono
che, entro pochi giorni dalla prima riunione, ogni parlamentare dichiari di quale gruppo fa parte: i
parlamentari che non lo fanno confluiscono nel cosiddetto gruppo misto. I gruppi parlamentari svolgono
una funzione importante nel funzionamento del Parlamento, essi definiscono la dimensione collettiva
sulla quale si basa.
I regolamenti parlamentari in questo modo intendono perseguire due obiettivi: a) infiltrare la società
organizzata politicamente nel tessuto parlamentare; b) salvaguardare l’efficienza decisionale del
Parlamento che potrebbe essere compromessa se il suo funzionamento dipendesse in termini rilevanti
dalle decisioni di singoli parlamentari.
In quest’ottica inquadriamo le previsioni regolamentari che attribuiscono significativi poteri ai Presidenti
dei gruppi parlamentari: i presidenti danno vita alla Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari,
che ha poteri determinanti sull’organizzazione dei lavori dell’assemblea. Inoltre, alla Camera i presidenti
dei gruppi hanno poteri procedurali particolari (ad esempio la presentazione di emendamenti e di
mozioni), che non richiedono la richiesta da parte di un certo numero di parlamentari. Infine, al gruppo si
attribuisce potere di designare i membri delle commissioni parlamentari. I presidenti dei gruppi
parlamentari hanno altresì rilievo esterno: vengono sentiti dal Capo dello Stato nel corso delle
consultazioni per la risoluzione della crisi di Governo. I partiti politici sono, sotto il profilo giuridico,
delle semplici associazioni private non riconosciute: non possono essere formalmente ascoltati dal
Presidente della Repubblica nella formazione dell’istituzione Governo ed è per questo che i gruppi
parlamentari diventano l’unica proiezione dei partiti sul piano delle istituzioni.
Le commissioni parlamentari e le Giunte
Le commissioni parlamentari sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei,
monocamerali o bicamerali. La loro costituzione deve avvenire in modo proporzionale ai vari gruppi
parlamentari.
Le commissioni parlamentari temporanee assolvono a compiti specifici e sono istituite per un
tempo limitato all’adempimento della loro funzione;
le commissioni permanenti sono invece organi stabili e necessari di ciascuna Camera, titolari di
ampi poteri nell’ambito del processo legislativo. Inoltre esse si riuniscono in sede consultiva per
esprimere pareri;
La funzione consultiva del Parlamento ha assunto grande rilievo dovuto principalmente alle profonde
trasformazioni che hanno riguardato il sistema delle fonti. Rispetto ai decreti legislativi e ai regolamenti
governativi, l’intervento parlamentare è collocato prima (con l’approvazione della legge delega) e dopo
(tutte le volte che è previsto che le commissioni debbano esprimere il loro parere sul processo di
legiferazione del Governo). Ciascuna commissione permanente ha competenza in una determinata
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materia.
Le commissioni bicamerali sono formate in parte uguale da rappresentanti delle due Camere:
anche la loro formazione deve rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. La
Costituzione prevede espressamente l’esistenza di una sola commissione di questo tipo: quella
per le questioni regionali. Dalla legge sono invece state istituite: 1) Comitato per i servizi di
sicurezza, che ha un controllo politico-istituzionale sull’apposizione del segreto di Stato; 2)
Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, che
esercita poteri di controllo e di vigilanza finalizzati a far si che l’informazione da parte del
servizio pubblico si svolga in modo tale da garantire il corretto funzionamento del sistema
democratico.
Le Giunte sono invece organi collegiali previsti dai regolamenti parlamentari per l’esercizio di funzioni
diverse da quelle di controllo e legislative:
- per l’esercizio di compiti di garanzia dell’osservanza dei regolamenti e di elaborazione di
proposte di modifica degli stessi;
- per la verifica dell’assenza di cause di ineleggibilità o incompatibilità e garanzia delle
prerogative parlamentari.
Per definire l’insieme dei poteri attribuiti all’opposizione per svolgere la sua funzione di controllo critico
dell’operato del Governo si usa l’espressione statuto dell’opposizione. Alcune volte questa nozione è
confusa con quella di tutela delle minoranze contro la tirannia della maggioranza: questa confusione si è
introdotta dopo che il sistema politico tendenzialmente bipolare ha reso inadeguati i meccanismi di tutela
delle minoranze. Tuttavia, in senso proprio, lo statuto dell’opposizione ha come punto di riferimento
l’esperienza del Parlamento maggioritario inglese.
Qui l’opposizione ha una vera e propria funzione costituzionale e una propria organizzazione: un Capo
dell’opposizione che ne esprime le posizioni politiche ufficialmente e un Gabinetto Ombra che controlla
e critica le politiche settoriali del Governo. Per realizzare un effettivo statuto occorre innanzitutto che le
minoranze siano riunite sotto un unico fronte con un unico leader, e poi che a queste siano affidati
adeguati poteri: il riconoscimento del ruolo del Capo dell’opposizione in sede di stesura dell’ordine del
giorno, il potere di chiedere commissioni d’inchiesta, la possibilità che il Capo dell’opposizione possa
parlare nelle stesse sedute cui prende parte il Presidente del Consiglio.
Il funzionamento del Parlamento
Durata in carica del Parlamento e regole decisionali
La durata in carica delle due Camere è di 5 anni. La stessa Costituzione prevede chele funzioni delle
Camere possano essere esercitate anche al di là del termine di scadenza, nel caso della prorogatio (art.
61.2 Cost.) e della proroga (art. 60.2 Cost.).
I. Prorogatio , istituto in virtù del quale per assicurare la continuità funzionale le camere ‘scadute’
rimangono in carica fino all’elezione di nuovi organi che li sostituiscano. Questo regime cessa
con la ‘prima riunione delle nuove Camere’, ma va considerato che i neoeletti acquistano lo
status di parlamentare al momento della proclamazione.
II. Proroga con legge, disposta solo nel caso di guerra.
La Costituzione definisce i poteri delle Camere in prorogatio come esclusivamente attinenti alla ordinaria
amministrazione e pone solo l’impossibilità di procedere all’elezione del Capo dello Stato. Tuttavia è
difficile definire cosa sia l’ordinaria amministrazione: nella prassi intanto le Camere in prorogatio hanno
convertito decreti legge, approvato leggi di bilancio, discusso di rinvio presidenziale di leggi e perfino
approvato leggi costituzionali. Si ritiene così che rientrino nell’ordinaria amministrazione oltre agli atti
privi di rilievo politico, tutti quelli che risultano costituzionalmente indefettibili.
Altri aspetti del funzionamento del Parlamento riguardano la validità delle sedute e la modalità di voto
parlamentare.
Per la validità della seduta è richiesta la maggioranza dei componenti, ciò significa che il numero legale
(quorum strutturale) della seduta si raggiunge se sono presenti almeno la metà più uno dei componenti.
Tale quorum si considera raggiunto fino a che uno dei deputati o dei senatori non richiede una verifica: a
questo punto se il quorum non è raggiunto la seduta è rinviata o tolta. Per la validità delle deliberazioni è
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invece richiesta la maggioranza dei presenti o quorum funzionale. La pratica delle astensioni è
disciplinata dai regolamenti parlamentari. Astenuto è colui che, al momento della votazione, non si
esprime ne in modo favorevole ne in modo contrario. Alla Camera i deputati astenuti figurano nel
conteggio per l’accertamento del raggiungimento del quorum strutturale ma non in quello per il
raggiungimento del quorum funzionale. Al Senato, al contrario, chi è intenzionato ad astenersi deve
allontanarsi fisicamente dall’aula.
In ordine alle modalità di voto, la regola è che si proceda con voto palese, il voto segreto rappresenta
l’eccezione. Il voto segreto è concesso ogni qual volta le deliberazioni riguardino persone, diritti di
libertà, diritti della famiglia e della persona umana. Il voto è espresso per alzata di mano, per appello
nominale, con procedimento elettronico, per schede.
Per regola generale le sedute delle Camere sono pubbliche: il principio della pubblicità dei lavori
parlamentari si concretizza anche attraverso i resoconti sommari e stenografici delle discussioni che si
svolgono all’interno del Parlamento.
Come lavora il Parlamento
Le modifiche apportate ai regolamenti di Camera e Senato tra il ‘97 e il ‘99 sono ispirate all’esigenza di
assicurare tempi certi all’esame dei progetti inseriti nel programma e poi nel calendario: il tempo
disponibile per la discussione è stabilito preventivamente. La manovra di bilancio e le leggi comunitarie
hanno una corsia preferenziale.
Il metodo della maggioranza realizza l’equilibrio tra esigenze della maggioranza, che deve realizzare
l’indirizzo politico su cui si è accordata la fiducia al Governo, e la garanzia del ruolo delle opposizioni.
L’ordine dei lavori è basato sulla predisposizione del calendario, del programma e dell’ordine del giorno.
Il programma contiene l’elenco degli argomenti che la Camera intende esaminare e la loro priorità per un
periodo di tempo di almeno due mesi e di massimo tre mesi. Il calendario specifica quali materie saranno
trattate nel corso delle singole sedute previste, mentre l’ordine del giorno che organizza i lavori delle
singole sedute ed ha a questo punto funzione esecutiva. Programma e calendario riservano una parte del
tempo agli argomenti indicati dai gruppi diversi da quelli che sostengono la maggioranza: il regolamento
del Senato a tal proposito, stabilisce che ogni due mesi almeno quattro sedute sono destinate all’esame di
disegni di legge presentati dai gruppi parlamentari all’opposizione. Il tempo a disposizione per ciascun
gruppo è assegnato dai presidenti dei gruppi parlamentari riuniti nella Conferenza: a ciascun gruppo
spetta la stessa quota di tempo alla quale ne va aggiunta un’altra proporzionale alla consistenza del
gruppo stesso.
Le modificazioni del ‘97 e del ‘99 dunque riconoscono al Governo lo spazio procedurale per attuare il
suo programma (sul quale ha ottenuto la fiducia) e nello stesso tempo dà rilievo anche al ruolo delle
opposizioni, nello svolgimento dei poteri di informazione e di controllo.
Le prerogative parlamentari
Con l’espressione prerogative parlamentari si fa riferimento ad istituti che mirano a salvaguardare il
libero ed ordinato esercizio delle funzioni parlamentari, ponendole al riparo dai condizionamenti. In
particolare esse dovrebbero servire a tutelare la libertà d’ opinione dei parlamentari e a porli al riparo da
azioni della magistratura penale che siano pretestuose, ovvero infondate e dirette solo ad esercitare un
condizionamento sull’operato politico. L’art. 68 prevede due istituti separati:
- insindacabilità in qualsiasi sede delle opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio della funzione
parlamentare;
- immunità penale: il parlamentare non può essere sottoposto a misure restrittive della libertà
personale o domiciliare, né a limitazioni della libertà di corrispondenza e comunicazione senza
previa autorizzazione della Camera di appartenenza.
Le due prerogative hanno efficacia temporale differente: la prima copre l’attività del parlamentare anche
dopo che sia venuto a scadenza il mandato; la seconda ha come presupposto il fatto che il parlamentare
sia ancora in carica, ed è dunque limitata alla durata della legislatura.
Ora, la Corte ha precisato che nei casi di sindacabilità, l’autorità giudiziaria non è ‘carente di
giurisdizione’: sta al giudice decidere se l’imputato è insindacabile o meno, nel primo caso chiudendo il
procedimento e nel secondo comunicando tale decisione alla Camera di appartenenza. La Camera poi ha
potere di interrompere l’operato del giudice qualora, esaminata la deliberazione, ritenga che l’imputato
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sia insindacabile. Il giudice ha quindi il compito di adeguarsi alla valutazione della Camera, ‘a meno che’
dice la Corte ‘egli non ritenga che la Camera, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia
illegittimamente esercitato il suo potere, per vizi in procedendo, oppure perché mancano i presupposti di
tale dichiarazione’. Quindi, l’autorità giudiziaria ha la possibilità di sollevare conflitto di attribuzione,
ove ritenga che il potere parlamentare sia stato illegittimamente esercitato. Tale possibilità di contestare
l’insindacabilità deriva dal fatto che il parlamentare è coperto ogni qual volta egli agisca in termini di
opinioni espresse e voti riconducibili all’esercizio della funzione parlamentare. La delimitazione delle
opinioni parlamentari coperte da insindacabilità è sempre stata un problema. La giurisprudenza
costituzionale si limita a dire che “non si può ricondurre l’intera attività politica svolta dal deputato” alla
materia dell’insindacabilità, ma che l’opinione del parlamentare e l’esercizio della sua funzione non possa
ritenersi accertato solo quando il parlamentare si trovi ad esprimere l’opinione all’interno delle Camere.
Il legislatore ha cercato di difendere le proprie prerogative con la legge 140/2003. Tale legge ha
specificato che l’insindacabilità si applica oltre che per tutte le funzioni proprie dell’attività parlamentare
interne al Parlamento stesso, anche per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di
denuncia politica, connessa alla funzione parlamentare, anche al di fuori del Parlamento. La Corte ha dato
un’interpretazione adeguatrice per adattare la legge e renderla compatibile con l’art. 68.1, di fatto ha
portato le disposizioni in materia al punto di partenza. Vanificando il tentativo del legislatore.
Nell’espletazione di qualsiasi azione di competenza giudiziaria: dal fermo all’intercettazione, dalla
perquisizione alla misura cautelare coercitiva nei confronti di un parlamentare non è più richiesta
autorizzazione (come dal testo costituzionale originario art. 68.2) ma si deve richiedere autorizzazione
della Camera di appartenenza di tale soggetto. In attesa di questa il provvedimento resta sospeso.
L’autorizzazione non è necessaria in caso di flagranza di reato o nel caso dell’esecuzione di una sentenza
irrevocabile di condanna.
La previa autorizzazione parlamentare a procedere con l’intercettazione telefonica di un deputato è stata
più volte identificata come un istituto ipocrita ed inutile: se deve essere richiesta l’autorizzazione per
svolgere intercettazioni telefoniche su una linea a disposizione del parlamentare, è certo che questi, dal
momento della richiesta di autorizzazione, si guarderà bene dal riferire telefonicamente fatti o notizie che
possano aggravare la sua posizione processuale. Ma è sorto il problema dell’obbligo di autorizzazione per
le c.d. intercettazioni indirette, ovvero quelle effettuate su linee telefoniche non intestate al parlamentare.
In materia l’art. 68.3 è stato interpretato nel senso di ritenere necessaria l’autorizzazione ex post per
l’utilizzo processuale dell’intercettazione indiretta. La legge 140/2003 ha disciplinato la materia
prevedendo le seguenti ipotesi: a) il giudice può disporre la distruzione integrale delle prove o delle parti
che ritiene irrilevanti ai fini del processo; b) il giudice che ritenesse utile utilizzare le intercettazioni
richiede autorizzazione alla Camera di appartenenza, se questa nega è disposta la distruzione delle prove
Per tali autorizzazioni il processo parlamentare si articola in un esame della questione da parte di apposita
Giunta, presentazione da parte di questa di una proposta cui segue deliberazione della Camera di
appartenenza. L’autorizzazione è negata ogni volta che si ravvisa un intento persecutorio. Tale potere
esprime l’autonomia costituzionale affidata al Parlamento.
Gli interna corporis
Ogni camera è dotata di autonomia normativa, per quanto riguarda la disciplina delle proprie attività e
della propria organizzazione, di autonomia contabile per la gestione del proprio bilancio e autodichia,
ossia della giurisdizione esclusiva per ciò che riguarda i ricorsi relativi ai rapporti di lavoro con i
dipendenti. La medesima esigenza di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia sta alla base
dell’insindacabilità degli interna corporis acta, che consiste nella sottrazione all’autorità giudiziaria di atti
e procedimenti che si svolgono all’interno delle assemblee parlamentari.
Subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione una parte della dottrina ha sostenuto che anche gli
interna corporis dovessero essere oggetto di controllo da parte della Corte. Essa avrebbe potuto: 1)
sindacare l’osservanza delle norme costituzionali nel procedimento legislativo; 2) controllare
l’osservanza delle norme contenute nei regolamenti parlamentari; 3) verificare la conformità
costituzionale dei regolamenti parlamentari.
La Corte ha ritenuto di estendere il proprio controllo sull’osservanza delle norme costituzionali nel
processo legislativo, ma ha d’altro canto riconosciuto che i regolamenti parlamentari non rientrano fra gli
atti con forza di legge sindacabili. Tale posizione ha sollevato critiche poiché tali regolamenti possono
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essere considerati come norme interposte tra Costituzione e legge e, in caso di violazione, costituire
violazione della Costituzione stessa. Inoltre, essendo posti al di sotto della Costituzione come gli atti con
forza di legge potrebbero essere equiparati a questi.
Esistono tuttavia casi in cui l’attività parlamentare non è sfuggita del tutto al controllo della Corte: in
materia di deliberazioni parlamentari sull’insindacabilità, la Corte può effettuare un controllo, diretto ad
accertare l’eventuale arbitrarietà di tale esercizio di potere.
In Parlamento per il voto segreto si può utilizzare il sistema elettronico. Si è però diffusa la prassi assai
deprecabile di alcuni parlamentari che, utilizzando tessere magnetiche di colleghi assenti, compiono una
doppia votazione (i c.d. “pianisti”). Di fronte ad episodi in cui quest’uso era stato palese, il procuratore
della Repubblica del Tribunale di Roma ha ritenuto penalmente rilevanti e sottoponibili ad indagine
giudiziaria tali comportamenti. La Camera sollevò conflitto di attribuzione e la Corte ha escluso ‘che la
tutela del diritto di voto spetti all’autorità giudiziaria’, con la conseguenza che i pianisti si sottraggono ad
ogni rimedio diverso da quelli proposti dai regolamenti parlamentari.
Le funzioni del Parlamento
L’art. 70 Cost. afferma che ‘la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere’; gli
articoli che vanno dal 71 al 74 descrivono le modalità attraverso cui tale funzione è destinata a realizzarsi
nel nostro ordinamento.
La disciplina regolamentare del procedimento legislativo costituisce uno dei campi in cui si manifestano
le diverse modalità di funzionamento della forma di governo: nel Parlamento compromissorio, il
Parlamento si affermava come luogo nel quale le decisioni dovevano essere il prodotto del compromesso
tra maggioranza e minoranza. Con la riforma elettorale si è iniziata una delicata fase di transizione verso
assetti basati su principio maggioritario. Si è già accennato al ruolo della maggioranza e alle indicazioni
fornite dal Governo per il calendario, il programma e l’ordine del giorno del Parlamento. Bisogna
aggiungere che il Governo può porre la questione di fiducia: se la Camera si esprime con voto contrario,
il Governo, avendo messo in gioco la questione fiduciaria rassegnerà le proprie dimissioni. Nell’ipotesi
nella quale il Governo ponga la questione di fiducia su un articolo di un progetto di legge, se la Camera si
esprime favorevolmente, tale articolo è approvato e tutti gli emendamenti sono considerati respinti: la
questione di fiducia diventa un espediente per rendere più veloce il procedimento legislativo.
La funzione parlamentare di controllo si concretizza in singoli istituti diretti a far valere la responsabilità
politica del Governo nei confronti del Parlamento.
La funzione parlamentare di controllo
La funzione parlamentare di controllo si concretizza in singoli istituti di diritto parlamentare, il cui
comune denominatore è quello di essere diretti a far valere la responsabilità politica del Governo nei
confronti del Parlamento. Con l’affermazione dei partiti però, il Parlamento si trova diviso fra
maggioranza e minoranza. Nel parlamentarismo maggioritario, l’opposizione sottopone a critica l’operato
del Governo e, se è pressoché impossibile che ne ottenga la rimozione parlamentare, utilizza gli strumenti
di controllo per rendere più informata ed incisiva la sua attività di critica.
Gli istituti di questo tipo sono:
- l’interrogazione, che consiste in una domanda scritta che un parlamentare rivolge al Governo,
avente ad oggetto la veridicità o meno di un fatto determinato;
- l’interpellanza, per mezzo della quale l’interpellante chiede, sempre per iscritto, di conoscere le
intenzioni del Governo in relazione ad una determinata situazione o fatto.
All’interrogazione, il Governo può anche dichiarare di non poter rispondere, indicandone i motivi, o di
differire la risposta, indicando però la data precisa.
Successivamente è stato introdotto l’istituto delle interrogazioni a risposta immediata con cui si voleva
rivitalizzare il sindacato ispettivo: si tratta di interrogazioni aventi ad oggetto una sola domanda che fa
riferimento ad un argomento avente rilevanza generale, i cui tempi sono già fissati dai regolamenti
parlamentari, che dedicano a questo contraddittorio un apposito spazio (question time). I regolamenti
parlamentari prevedono pure lo svolgimento di interpellanze urgenti: queste possono essere presentate dal
presidente di un gruppo parlamentare a nome del gruppo o da un numero di deputati non inferiore a 30.
Tali interpellanze hanno anche un limite di applicazione, sancito dai regolamenti stessi.
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Atti parlamentari di indirizzo
I regolamenti parlamentari prevedono alcuni atti che mirano ad indirizzare l’operato del Governo. Gli atti
parlamentari di indirizzo sono:
mozione, che può essere presentata da un presidente dei gruppi parlamentari o da almeno 10
deputati alla camera e almeno 8 senatori al Senato. Il fine è quello di determinare una
discussione e la deliberazione della Camera su questioni riguardanti l’attività del Governo: il
Governo può porre la questione di fiducia;
risoluzione, al contrario della mozione può essere esposta in commissione. Ha come obiettivo
quello di manifestare un orientamento o definire un indirizzo. La sua proponibilità consente da
un lato di accentuare il ruolo di controllo delle commissioni, dall’altro comporta il rischio di una
‘frantumazione settoriale’ dell’indirizzo governativo;
l’ordine del giorno è un atto d’indirizzo rivolto al Governo che ha carattere accessorio (si
inserisce nella discussione di un altro atto e serve a dettare direttive su come questo deve essere
applicato). Il Governo può accettarlo o meno.
Le inchieste parlamentari: profili generali
La Costituzione attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire commissioni di inchiesta su materie di
pubblico interesse con i poteri e i limiti dell’autorità giudiziaria. Merita attenzione la questione delle
inchieste parlamentari che si svolgono parallelamente ad indagini giudiziarie. Il procedimento penale
mira all’accertamento di responsabilità giuridiche individuali, mentre l’inchiesta parlamentare può far
valere la responsabilità politica. I dati acquisiti dalla commissione d’inchiesta non possono essere
utilizzati come prove nel processo penale, tuttavia nella prassi, frequenti sono gli scambi di dati tra i due
livelli. Come si è detto, la commissione può utilizzare gli stessi poteri tipici dell’autorità giudiziaria ma il
fine è diverso: la sua attività non si conclude con una sentenza, atto tipico del giudizio, ma con una
relazione. La commissione resta organo parlamentare che gode di ampia libertà nello svolgimento della
sua attività: a sua discrezione essa potrà ricorrere agli strumenti formali del codice di procedura, e
ascoltare i testi con lo strumento della testimonianza, o utilizzare la libera audizione di tipo parlamentare.
Con la sentenza 231/1975, la Corte decide il conflitto di attribuzione tra commissione parlamentare
antimafia e tribunale di Torino e Milano, riconoscendo alla prima il potere di decidere se i documenti
raccolti debbano essere pubblici o privati e, allo stesso tempo, imponendole di trasmettere all’autorità
giudiziaria gli atti che non siano coperti da segreto di Stato. La Corte afferma lo ‘spirito di doverosa
collaborazione’ che deve valere anche tra gli organi di poteri distinti per ‘fini di giustizia’. Tale
collaborazione ha trovato nel sistema alcune regole fondamentali: a) il potere di inchiesta si esercita
evitando interferenze nell’azione degli organi giudiziari; b) non si ammette l’utilizzo di accertamenti
effettuati dalla commissione nel processo penale senza le garanzie del contraddittorio; c) l’autonomia
degli organi di garanzia condiziona l’esercizio del potere d’inchiesta
Tale obbligo di leale collaborazione si ripete nella più recente sent. 28/2008, dove viene negata alla
commissione parlamentare la possibilità di rifiutare all’autorità giudiziaria di compiere accertamenti sul
veicolo nel caso Ilaria Alpi, che si trova a sua disposizione.
Alla commissione è perciò conferito potere di apporre il segreto sulle risultanze acquisite dalle indagini e
la possibilità di potervi derogare quando non ne derivi danno per l’assolvimento del suo compito.
Compare nella giurisprudenza l’istituto del segreto funzionale, espressione dell’autonomia costituzionale
delle Camere.
Alcuni aspetti strutturali: la commissione di inchiesta è formata in modo da rispecchiare la proporzione
dei gruppi parlamentari. Il principio di proporzionalità tuttavia non comporta solo vantaggi: commissioni
parlamentari con 40 o 50 membri incontrano difficoltà operative considerevoli rispetto ad altre
numericamente ridotte (come l’agile comitato di controllo sui servizi segreti).
A chi giova il potere di inchiesta? Non convince la tesi che riconduce l’inchiesta alla funzione
parlamentare di controllo politico, volta a far valere la responsabilità del Governo di fronte al Parlamento.
Infatti, il funzionamento delle due grandi inchieste dell’ultimo quindicennio, quella sulla mafia e quella
sul terrorismo e le stragi, testimonia una gamma di accertamenti a tutto raggio. Per l’istituzione della
commissione d’inchiesta occorre in ciascuna Camera un voto a maggioranza; la relazione con cui essa
termina i suoi lavori è pure approvata a maggioranza. L’unico limite al potere della maggioranza, nella
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procedura parlamentare per istituire l’inchiesta, è il divieto di porre la questione di fiducia e
l’ammissibilità dello scrutinio segreto. Inoltre, nella prassi, vi è spesso la designazione del presidente
della commissione fra gli esponenti dell’opposizione.
Parlamento e Unione Europea
L’appartenenza italiana all’UE pone al Parlamento due esigenze:
- recepire le direttive UE in tempi ragionevoli, evitando la responsabilità dello Stato italiano per la
loro mancata immissione nell’ordinamento interno;
- avere cognizione degli indirizzi comunitari sui grandi temi in modo da intervenire in tempi utili
per incidere sulla posizione italiana a Bruxelles.
La legge La Pergola (legge 86/1989) ha introdotto uno strumento annuale: la legge comunitaria, sostituita
recentemente dalla legge di delegazione europea e dalla legge europea. Vengono disciplinate sia la fase
che precede l’adozione formale di atti dai competenti organi europei (fase ascendente), che la fase in cui
si tratta di dare attuazione delle direttive europee nell’ordinamento italiano (fase discendente). La
disciplina della fase ascendente ha come obiettivo quello di consentire la partecipazione del Parlamento
alla definizione dei contenuti degli atti dell’UE, che altrimenti sarebbero determinati solo dagli organi
europei e dai negoziati cui partecipa il Governo italiano con gli altri Esecutivi europei.
L’innovazione più significativa introdotta negli ultimi anni, al fine di evitare l’emarginazione del
Parlamento nella fase ascendente di formazione del diritto europeo, riguarda la cosiddetta riserva di
esame parlamentare: il Governo italiano, può apporre in sede di Consiglio dei ministri UE, una ‘riserva di
esame parlamentare’ sul testo o su una o più parti di esso. Il testo viene inviato alle Camere affinché su di
esso si esprimano i competenti organi parlamentari. Decorsi 30 gg dall’invio, il Governo può comunque
proseguire nelle sue attività nel Consiglio UE anche se le Camere non si sono pronunciate.
Alla fase ascendente tuttavia, non partecipa soltanto il Parlamento ma anche le Regioni e gli enti locali.
Questo a seguito della riforma del 2001 che ha ampliato le competenze delle Regioni prevedendo, tra
l’altro, che esse partecipino alla formazione degli atti normativi dell’UE e siano competenti in materia
della loro attuazione. La fase discendente riguarda l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi
comunitari, ed in particolare l’attuazione delle direttive UE. Lo strumento principale in attuazione della
fase ascendente sono le leggi comunitarie, approvate ogni anno su iniziativa del Governo.
Il processo di bilancio tra Governo e Parlamento La finanza pubblica nella Costituzione
L’esercizio dei compiti dello Stato richiede l’utilizzo di risorse finanziarie assai ingenti. I servizi forniti
(da quelli elementari a quelli tipici dello Stato sociale) hanno costi elevati, cosi come elevato è il costo
sopportato dallo Stato per pagare gli stipendi della burocrazia. Lo Stato, da un lato, deve imporre tributi
con cui ottenere risorse finanziarie necessarie per il suo funzionamento e, dall’altro deve erogare stipendi
grazie ai quali i suoi compiti vengono effettivamente esercitati. La disciplina delle entrate e quella della
spesa formano oggetto di un’essenziale disciplina costituzionale. Per ciò che riguarda le entrate sono
stabiliti due principi fondamentali: ’tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della
loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività’ (art. 53). Ciò
significa che tutti pagano imposte il cui ammontare è determinato sulla base del reddito: l’imposizione
fiscale però non è proporzionale, bensì ispirata al principio di progressività (il reddito prelevato cresce
con il crescere del reddito stesso: maggiore è il guadagno, maggiore è l’imposizione fiscale).
Se l’imposizione fiscale fosse proporzionale, il sistema tributario sarebbe assolutamente ‘neutrale’, non
realizzerebbe alcun equilibrio a favore dei meno abbienti. La funzione di redistribuzione sarebbe
realizzata esclusivamente sul fronte della spesa ma non su quelli dell’entrata. Il sistema progressivo
permette di esercitare maggiore pressione sui soggetti ricchi e minore sui soggetti poveri, in modo da
realizzare le finalità di riequilibrio sociale previste dall’art.3.2.
Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
L’imposizione tributaria è oggetto di una riserva di legge relativa.
Entrate e spese pubbliche nella Costituzione e nell’esperienza repubblicana
In materia di entrate e di spese la disciplina costituzionale è posta principalmente dall’art. 81. Il testo
originale stabiliva: 1) le Camere approvano ogni anno il bilancio e il rendiconto consuntivo presentandoli
al Governo; 2) l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi
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non superiori complessivamente a quattro mesi; 3) con la legge di approvazione di bilancio non possono
introdursi nuovi tributi e nuove spese; 4) ogni altra legge che introduca nuove o maggiori spese deve
indicare un mezzo per farvi fronte.
Questa disciplina fu considerata da alcuni espressione della tendenza al pareggio di bilancio, tipica dello
Stato liberale. Il 4 comma infatti impone l’obbligo di copertura delle leggi di spesa. In questo sistema la
legge di bilancio preventivo avrebbe avuto funzione meramente formale, sicché avrebbe esclusivamente
fotografato la legislazione già esistete e non avrebbe potuto rinnovare in alcun modo.
La gestione della finanza pubblica cambiò decisamente quando si affermarono le teorie di matrice
keynesiana, secondo cui un bilancio in disavanzo può servire, anche attraverso ampi programmi di
investimenti pubblici finanziati con l’indebitamento, a rilanciare l’economia ed a creare nuovi posti di
lavoro. In secondo luogo, aumentava la pressione degli interessi settoriali che rivendicavano benefici
particolaristici e ciò ha indotto la classe politica a concedere tali benefici per conquistare il loro consenso
finanziandoli con l’indebitamento. In terzo luogo, l’affermazione delle teorie favorevoli alla
programmazione economica richiedeva che in sede di approvazione di bilancio si potesse operare un
riesame delle decisioni di spesa e più in generale una programmazione della spesa pubblica, per adeguarla
ai più generali obiettivi di politica economica.
La dottrina costituzionalistica prospettò una nuova interpretazione dell’art. 81. È stato sostenuto che esso
non incorporasse il principio del pareggio di bilancio: sarebbe diretto piuttosto a permettere la gestione
statale della politica finanziaria condotta sulla base di un programma prestabilito. Il Governo avrebbe
dovuto formulare, ed il Parlamento approvare, un programma di politica finanziaria sulla base del quale
avrebbe presentato al Parlamento un disegno di legge di bilancio. Questo avrebbe potuto disporre nuovi
provvedimenti, condizionanti gli sviluppi della nuova finanza pubblica e prestabilire fondi speciali per
l’approvazione di leggi future.
Le leggi di spesa approvate avrebbero potuto trovare copertura nei fondi speciali, e solo per le leggi di
spesa che non rientrano nel fondo speciale si sarebbero dovute indicare le nuove entrate con cui effettuare
la copertura.
Nel mutato quadro politico e culturale degli anni ‘70 cresce la spesa pubblica, il debito pubblico e il
disavanzo in bilancio. Le spese in deficit vengono finanziate con l’emissione di nuova moneta e il
risultato è un aumento del tasso di inflazione. Un primo tentativo di mettere ordine nei conti pubblici è
avvenuto nel 1978, con una riforma della contabilità pubblica che ha introdotto l’istituto della legge
finanziaria: in questa prospettiva la decisione di bilancio doveva diventare la sede in cui procedere al
riassetto delle precedenti leggi di entrata e di spesa e inoltre avrebbe dovuto fissare il tetto del ricorso al
mercato per il finanziamento del debito pubblico. Ma era difficile conciliare questa scelta con l’art. 81.3
Cost., che pone il divieto alla legge di bilancio di stabilire nuovi tributi e nuove spese: la soluzione al
problema fu trovata nell’introduzione della legge finanziaria, che è una legge distinta da quella di
bilancio ma elaborata in parallelo e approvata ogni anni contestualmente con la legge di bilancio. La
legge finanziaria (sostituita nel 2009 dalla legge di stabilità), preceduta da un documento di
programmazione economico-finanziaria, doveva fissare, in armonia con esso, l’entità del disavanzo
voluto e il tetto del ricorso all’indebitamento; doveva inoltre riassestare la legislazione tributaria e di
spesa preesistente e fissare l’ammontare dei fondi speciali. La legge finanziaria doveva essere votata
immediatamente prima della legge di bilancio, che quindi avrebbe trasfuso in un documento contabile
tutti gli effetti delle disposizioni adottate con la legge finanziaria. Nella prassi, però, le cose andarono
diversamente: in sede di approvazione, venivano inserite le più disparate previsioni di spesa ricorrendo ad
una miriade di emendamenti parlamentari, col risultato che l’entità del disavanzo e del debito pubblico
venivano stabiliti solo alla fine di questo complicato processo decisionale. La conseguenza è stata la
crescita notevole del disavanzo e del debito pubblico. L’inversione delle tendenze si è avuta solamente
con la creazione dell’Unione economica monetaria, grazie ai rigidi vincoli imposti alle finanze degli Stati
membri.
Il Trattato UE ha posto in capo agli Stati membri l’obbligo fondamentale di evitare disavanzi di bilancio
eccessivi. Successivamente sono stati adottati dei regolamenti comunitari, che hanno stabilito complesse
procedure di sorveglianza sul rispetto da parte degli Stati membri di parametri finanziari, che prendono il
nome di Patto di stabilità e crescita. Tra le varie innovazioni introdotte a seguito della grave crisi
finanziaria del 2007-2010 c’è stata la riforma di tale patto e l’introduzione del semestre europeo (una
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procedura che si instaura nei primi 6 mesi dell’anno nella quale sono stabilite le politiche economiche
degli Stati membri). Perciò le politiche di bilancio nazionali risultano fortemente condizionate da tali
indirizzi europei.
All’attuazione interna di tali disposizioni europee si è provveduto con il c.d. Patto di stabilità interno, che
impone la concorrenza di Stato, Regioni e Province nella realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica,
impegnandosi a ridurre progressivamente il disavanzo ed a ridurre il rapporto tra il proprio debito e il
PIL, mediante il perseguimento di obiettivi di efficienza e di produttività nei servizi pubblici, il
contenimento della spesa corrente, il potenziamento dell’attività di accertamento dei tributi propri, ecc. Il
patto generalmente prevede sanzioni per gli enti che non raggiungono gli obiettivi fissati.
Questi interventi di razionalizzazione hanno favorito la progressiva riduzione del disavanzo in linea con
gli impegni europei, consentendo all’Italia di entrare a far parte dei Paesi dell’Eurozona; tuttavia il debito,
sommato agli interessi, ha imposto nuove e stringenti misure di razionalizzazione finanziaria.
La crisi delle finanze pubbliche in Europa ha colpito l’Italia. Il venir meno della fiducia dei mercati
finanziari internazionali ha comportato la crescita dei tassi di interesse. Si è innescato un circolo vizioso:
il debito elevato fa aumentare i tassi di interesse e, il pagamento di questi fa aumentare progressivamente
il debito.
La riforma costituzione del 2012 e l’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio
Per fronteggiare la grave crisi finanziaria del 2011 si è proceduto con la modifica dell’art. 81. La nuova
disciplina costituzionale è in sintonia con quanto disposto in sede europea dal c.d. fiscal compact,
sottoscritto dagli Stati nel marzo 2012, che impone agli loro di sancire il principio del pareggio di
bilancio a livello costituzionale. Dunque, il nuovo testo dell’art. 81 prevede che lo Stato assicura
l’equilibrio delle entrate e delle spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi
favorevoli del ciclo economico. Piuttosto che di ‘pareggio’ si è scelto di parlare di ‘equilibrio di bilancio’.
Allo stesso modo si è proceduti con la modifica dell’art. 97 definendo che le pubbliche amministrazioni,
in coerenza con le direttive europee, assicurano la stabilità del debito pubblico.
L’equilibrio di bilancio si misura in termini di saldo (differenza fra entrate e spese): tale saldo che si
rileva in sede europea è l’indebitamento netto strutturale. Questo significa che, nelle fasi negative del
ciclo, proprio per contrastarlo, si può finanziare la spesa col ricorso all’indebitamento, senza che tale
misura, pari alla componente ciclica, comporti un saldo negativo. Tuttavia, una volta superata la fase
negativa del ciclo, il bilancio va ricondotto verso il pareggio, non potendosi più far ricorso al debito.
Il nuovo testo dell’art. 81.2 stabilisce che, il ricorso all’indebitamento, è possibile al solo fine di
considerare gli effetti del ciclo economico e previa autorizzazione delle Camere, al verificarsi di eventi
eccezionali. Le limitazioni anzidette forniscono la vera garanzia dell’equilibrio di bilancio. Le nuove
regole di bilancio sono estese espressamente alle Regioni e agli enti locali: è stato modificato l’art. 119
Cost., prevedendo che essi hanno l’autonomia finanziaria nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento UE.
La riforma costituzionale prevede che il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i
criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del
complesso delle pubbliche amministrazioni siano stabiliti attraverso una legge approvata a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera.
La successiva legge 143/2013 definisce quali sono gli eventi straordinari in deroga dei quali ci si può
discostare dagli obiettivi stabiliti dai documenti di programmazione al fine di raggiungere il bilancio
economico: a) periodi di grave recessione economica; b) eventi straordinari al di fuori del controllo dello
Stato quali calamità naturali e gravi crisi finanziarie. La stessa legge ha istituito l’Ufficio parlamentare di
bilancio, che è un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e
per l’osservanza delle regole di bilancio. Immutata rispetto al vecchio testo dell’art. 81 resta la disciplina
dell’esercizio provvisorio.
Il ciclo di bilancio, tra vincoli europei e autonomie territoriali
Le disciplina relativa al processo di bilancio era già stata modificata precedentemente alla riforma
costituzionale col duplice obiettivo di: 1) contenere il disavanzo e l’indebitamento trasponendo anche sul
piano interno i vincoli del patto di stabilità; 2) evitare che in un sistema con diversi livelli territoriali di
Governo, la moltiplicazione dei centri di spesa comportasse condotte contrastanti coi vincoli europei.
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La riforma del processo di bilancio è stata introdotta con la legge 196/2009 recante i principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica: tali principi si estendono all’intero ambito della
pubblica amministrazione. In questa prospettiva il raccordo con le autonomie territoriali è soprattutto
assicurato dal patto di stabilità interno e dal patto di convergenza.
Il Governo è tenuto ad inviare entro il 15 luglio, le linee guida per la realizzazione degli obiettivi della
finanzia pubblica sulla base di quanto deciso in sede europea, alla Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica (in cui sono presenti i rappresentanti dei diversi livelli territoriali di
governo. Sulla base di questo, il Governo definisce, nell’ambito della Decisione di finanza pubblica, il
contenuto del Patto di stabilità interno, nonché di eventuali sanzioni a carico di enti locali inadempienti.
Da questo si distingue il Patto di convergenza, cui è riservato il compito di assicurare la convergenza di
costi e fabbisogni standard dei vari livelli di Governo. In questo caso il confronto con le autonomie
territoriali avviene in sede di Conferenza unificata. Il contenuto definitivo del patto è fissato nel
Documento di economia e finanza. La legge di bilancio successiva potrà introdurre eventualmente gli
strumenti per l’attuazione delle disposizioni del patto di stabilità interno e del patto di convergenza.
Come si è notato il ciclo di bilancio si articola in una serie di passaggi procedurali ciascuno dei quali vede
come protagonista un documento di programmazione finanziaria:
- Documento di economia e finanza (DEF) da presentare alle Camere entro il 10 aprile di ogni
anno, per conseguenti deliberazioni parlamentari, dopo aver consultato la Conferenza
permanente per la finanza pubblica. Il DEF è composto di 3 sezioni: 1)la prima contiene il
programma di stabilità e contiene tutto ciò che è richiesto dalle disposizioni europee, con
specifico riferimento agli obiettivi da conseguire per accelerare la riduzione del debito pubblico;
2) la seconda contiene informazioni sull’andamento della spesa pubblica, sulla pressione fiscale
e le previsioni sui flussi di entrata e di spesa; 3) la terza contiene lo schema del Programma
nazionale di riforma, in riferimento allo stato delle riforme richieste per rispettare i parametri
europei e quanto previsto nell’ambito del semestre europeo.
- Nota di aggiornamento del DEF, da presentare alle Camere entro il 20 settembre di ogni anno
per le deliberazioni;
- Il disegno di legge di bilancio, da presentare alle Camere entro il 15 ottobre di ogni anno;
- Il disegno di legge di assestamento, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni anno;
- Gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, da presentare alle
Camere entro il mese di gennaio di ogni anno.
La legge di bilancio contiene il bilancio di previsione, che costituisce la base per la gestione finanziaria
dello Stato. Essa è articolata in due sezioni:
la prima contiene disposizioni in materia di entrata e di spesa aventi come oggetto misure
quantitative, funzionali a realizzare gli obiettivi indicati nei documenti di programmazione
(norme innovative che modificano la legislazione precedente) oltre al saldo al netto da
finanziare;
la seconda contiene previsioni di entrata e di spesa formate sulla base della legislazione vigente.
Distinti articoli di questa sezione stabiliscono lo stato di previsione di entrata e di spesa e il
quadro generale riassuntivo. Con apposito articolo vien annualmente stabilito l’importo massimo
di emissione di titoli di stato.
A questo proposito va precisata la distinzione tra bilancio di previsione (quantifica l’entità prevista delle
entrate che le amministrazioni statali acquisiranno il diritto di percepire e l’entità prevista delle spese che
le amministrazioni assumeranno l’obbligo di effettuare) e bilancio di cassa (quantifica l’entità delle
entrate effettivamente incassate e delle spese effettivamente dovute). Una tiene conto del momento in cui
sorge il titolo giuridico dal quale deriva l’entrata, l’altro si riferisce al compimento di fatto delle
operazioni.
Il processo di bilancio: l’intreccio fra legge e regolamento parlamentare
Nella disciplina delle procedure finanziarie in Parlamento si verifica un intreccio fra le norme poste dalla
legge 468/1978ed i regolamenti parlamentari: da un lato il legislatore ordinario si è astenuto dal regolare
aspetti di stretta competenza parlamentare, dall’altra i regolamenti parlamentari rimandano alla
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legislazione vigente in materia di bilancio. La normativa parlamentare è segnata da 3 importanti direttrici:
- la concentrazione procedurale al fine di evitare dispersione e ritardi: la legge di bilancio deve
essere approvata in tempo utile al fine di evitare l’esercizio provvisorio, che è pure ammesso
dall’art. 81.2 Cost., nell’ipotesi di mancata approvazione di bilancio entro il 31 dicembre;
- la commissione di bilancio ha ruolo preminente rispetto alle altre commissioni, che vengono
comunque investite in sede consultiva per le parti di competenza;
- i tempo certi devono essere accompagnati dal rispetto dei limiti contenutistici della manovra di
bilancio. I Presidenti delle Camere devono vigilare sull’ammissibilità degli emendamenti.
Sono inammissibili emendamenti estranei all’oggetto del disegno di legge di bilancio e a quello dei
provvedimenti collegati: gli emendamenti non compensativi che sforerebbero i saldi-obiettivo. Si tratta
dunque di una procedura peculiare dove risulta limitata la tradizionale libertà delle assemblee nella
modifica dei testi trasmessi dalla commissione in sede referente
In realtà, per effetto dei vincoli concordati a livello europeo, il sistema tende a ridurre il ruolo del
Parlamento, sia sul piano dell’indirizzo che del controllo. La politica di bilancio (che condiziona tutte le
altre politiche) è saldamente nelle mani del Governo e più precisamente del ministro dell’economia.
La copertura finanziaria delle leggi
L’art. 81.4 stabilisce l’obbligo di copertura finanziaria per le leggi di spesa, che vale sia per le leggi
statali, ma anche per le leggi delle Regioni ordinarie e per quelle delle Regioni speciali. Quando in
Assemblea costituente Luigi Einaudi propose il testo di quello che sarebbe diventato l’art. 81, aveva in
mente di creare uno strumento che avrebbe assicurato il pareggio di bilancio. In realtà la possibilità, ben
presto costituzionalmente riconosciuta, di coprire la spesa pubblica con indebitamento ha determinato il
disavanzo strutturale del bilancio e la crescita della spesa pubblica. Al fine di razionalizzare il sistema
finanziario si è agito sulla manovra di bilancio, accentuando il rigore finanziario. In particolare, la
copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, ovvero minori entrate, è
determinata attraverso queste modalità:
1. mediante modificazioni legislative che comportino maggiori o minori entrate;
2. mediante riduzioni di precedenti autorizzazioni legislative di spesa;
3. mediante gli accantonamenti previsti nei fondi speciali, stabiliti dalla legge di bilancio.
La giurisprudenza costituzionale moderna ha precisato che qualsiasi legge comportante una spesa deve
specificarne l’entità per poter indicare relativa copertura. A tali fine è inoltre fatto obbligo di corredare
ogni disegno di legge oneroso di una relazione tecnica sulla quantificazione delle spese da esso previste.
È inoltre previsto un vero e proprio monitoraggio affidato alla Corte dei conti che deve trasmettere al
Parlamento ogni quattro mesi una relazione sulla tipologia delle coperture adottate dalle leggi e sulle
tecniche impiegate per quantificare gli oneri.
Presidente della Repubblica
Capo dello Stato e forma di governo
Il Capo dello Stato può assumere ruoli differenti, che oscillano tra i due estremi dell’organo di garanzia
costituzionale e di organo governante. Secondo la prima prospettiva, il Presidente della Repubblica
dovrebbe restare rigorosamente estraneo alle scelte che riguardano l’indirizzo politico: i suoi poteri
dovrebbero servire a garantire il corretto funzionamento del sistema costituzionale. La seconda
prospettiva invece, amplia la sfera di intervento del Presidente, il quale dovrebbe assumere il ruolo di
decisore politico di ultima istanza.
La diversità di ruolo è riconducibile alle differenze di disciplina costituzionale e ai caratteri del sistema
politico.
Il passaggio dal sistema monarchico al sistema parlamentare è avvenuto attraverso una progressiva
traslazione di potere politico dal Re al Governo. Nella prima fase di sviluppo del sistema parlamentare
l’esecutivo è rimasto bicefalo, con due titolari: il Re e il Governo che ha conquistato la titolarità del
potere esecutivo. Il Capo dello Stato è relegato ad un ruolo estraneo al circuito del’indirizzo politico. Nel
contesto del parlamentarismo europeo del XX secolo, con frequenti crisi di Governo, il Capo dello Stato
ha assunto una funzione ben diversa: esso si erge al di sopra del pluralismo e delle sue spinte disgregatrici
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e assicura, con l’esercizio dei suoi poteri, l’unità politica dello Stato. In questo senso è neutrale: non nel
senso che non esercita potere politico, ma nel senso che è un organo separato dal principio maggioritario.
In situazioni di crisi derivante dall’incapacità dei partiti di formare una maggioranza, il Capo dello Stato
può diventare autentica struttura governante.
La dottrina costituzionalistica nel ricostruire il ruolo del Presidente della Repubblica in Italia, ha oscillato
tra la sua configurazione quale organo di garanzia e la sua caratterizzazione quale reggitore dello Stato
nei momenti di crisi.
La razionalizzazione del parlamentarismo operata dalla Costituzione italiana ha previsto un Presidente
della Repubblica, distinto e autonomo dal Governo, dotato di poteri propri, che è il ‘Capo dello Stato e
rappresenta l’unità nazionale’ (art. 87.1). Ma la Costituzione non dice qual è il ruolo complessivo del
Presidente. Essa si limita a:
a) fissare l’ampia rappresentatività che deriva dalle modalità di elezione che lo sganciano dalla
maggioranza;
b) attribuirgli alcuni poteri (nominare il Presidente del Consiglio, sciogliere anticipatamente il
Parlamento, rinviare le leggi, nominare alcune cariche, ecc.);
c) porre limiti sicuri all’esercizio dei poteri, che consistono nell’obbligo che i suoi atti siano
controfirmati (art. 89) dal Governo, in modo che egli sia controllato e non agisca in totale
contrapposizione al Governo e alla maggioranza, e nella necessità che il Governo dopo la sua
nomina si presenti in Parlamento per ottenere la fiducia (art. 94), impedendo la formazione di
Governi presidenziali, nominati dal Capo dello Stato contro il Parlamento;
d) sancire e garantire la sua irresponsabilità politica (art. 89).
Determinati tali argini costituzionali, il ruolo concreto che egli può svolgere varia a seconda dei mutevoli
equilibri della forma di governo e del sistema politico. Più precisamente:
- se la coalizione si forma dopo le elezioni ed i rapporti fra i partiti sono instabili, il ruolo del
Presidente della Repubblica si espande e in capo a lui ricadono decisioni politiche assai
importanti (la scelta del Presidente del Consiglio o la decisione se sciogliere o meno il
Parlamento);
- se invece i rapporti fra i partiti sono stabili, il Capo dello Stato si limita ad esercitare i suoi poteri
per garantire il rispetto dei limiti costituzionali o al massimo per stimolare la conclusione di
accordi fra le forze politiche.
Perciò, i poteri del Capo dello Stato sono ‘a fisarmonica’, ossia si espandono in certe fasi politiche e si
contraggono in altre. Bisogna sottolineare, però, che le fasi in cui il Presidente allarga l’ambito dei propri
poteri a causa dell’instabilità dei partiti, sono fasi provvisorie: si accentua il ruolo politico di un organo
che è politicamente irresponsabile e privo di collegamento con il corpo elettorale.
L’elezione del Presidente della Repubblica
L’elezione del Presidente della Repubblica avviene in Parlamento in seduta comune, con la
partecipazione dei delegati regionali eletti dai rispettivi Consigli (tre per ogni Regione, ad eccezione della
Val d’Aosta che ne ha solo uno). La presenza dei delegati regionali dovrebbe rafforzare la
caratterizzazione del Presidente della Repubblica come rappresentante dell’unità nazionale.
I requisiti per essere eletto Presidente sono indicati dall’art. 84: esso prescrive, la cittadinanza italiana, il
compimento del cinquantesimo anno di età ed il godimento dei diritti civili e politici; quest’articolo
dispone anche l’incompatibilità di tale carica con qualsiasi altra. All’elezione si procede per iniziativa del
Presidente della Camera che, 30 giorni prima della scadenza del mandato presidenziale, convoca il
Parlamento in seduta comune integrato con i delegati regionali per l’elezione del nuovo Presidente (art.
85.2). Analoga iniziativa è assunta dal Presidente della Camera entro 15 giorni, nelle ipotesi di
impedimento permanente, di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica (art. 86.2). Nel caso in
cui le Camere siano sciolte, o se manchino meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione del Presidente
della Repubblica avverrà ad opera delle nuove Camere ed entro 15 giorni dalla loro riunione (art. 85.3).
In questa ipotesi, i poteri del Presidente della Repubblica scaduto sono prorogati fino all’elezione di
quello nuovo. L’elezione del Presidente della Repubblica avviene a scrutinio segreto e a maggioranza dei
2/3 dell’Assemblea; dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta, cioè il voto favorevole
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della metà più uno degli aventi diritto al voto. Il quorum elevato serve ad evitare che il Presidente sia
espressione della sola volontà della maggioranza.
Mai nella storia italiana si erano avuti casi di rielezione del Presidente della Repubblica, anzi, una certa
corrente della dottrina tende pure a dubitare che vi possa esser un secondo mandato. Sta di fatto che nella
fase di grave crisi del sistema politico seguita alle elezioni del 2013, le forze politiche non riuscivano
neppure a formare una maggioranza in grado di eleggere il Presidente della Repubblica e dopo 5 scrutini
in cui i candidati PD non ottenevano il quorum necessario, si è giunti ad un accordo tra le forze politiche
maggiori sulla rielezione del presidente Giorgio Napolitano. Questo, restando nell’alveo del suo ruolo
costituzionale, era riuscito ad evitare il collasso del sistema, in un periodo in cui la crisi politica si
sommava con una gravissima crisi economica e con la crisi dei debiti sovrani in Europa: aveva
conquistato autorevolezza sia verso l’opinione pubblica che verso la comunità internazionale . In questo
contesto eccezionale il Presidente Napolitano veniva rieletto con una larghissima maggioranza. Come
aveva preannunciato il Presidente, accertata la stabilità delle istituzioni ha rassegnato le dimissioni. Si è
poi proceduti con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Qualora la riforma costituzionale attualmente in attesa di referendum passasse, cambieranno anche le
regole per la elezione del Presidente della Repubblica. Innanzitutto il corpo elettorale sarà rappresentato
dal solo Parlamento in seduta comune (senza l’integrazione dei rappresentanti delle Regioni, che si
trovano già rappresentate all’interno del Senato). Per ciò che riguarda il profilo della maggioranza
necessaria invece, nulla cambia per le prime tre votazioni. A partire dalla quarta sarà invece sufficiente la
maggioranza dei 3/5 dell’Assemblea e dal settimo scrutinio la maggioranza dei 3/5 dei votanti.
Una volta eletto il Presidente presta giuramento di fedeltà di fronte al Parlamento in seduta comune,
accompagnato, per prassi da un discorso nel quale il neo-eletto espone quali saranno i principi ispiratori
del proprio operato. Il mandato presidenziale decorre dalla data di giuramento e ha una durata di 7 anni:
durante tale mandato egli dispone di un assegno personale e di una dotazione (che consiste
nell’attribuzione al patrimonio indisponibile dello Stato di alcuni beni immobili per la residenza del
Presidente della Repubblica e per gli uffici presidenziali). Alle dipendenze esclusive del Presidente è
posta una struttura amministrativa chiamata Segretariato generale della Presidenza della Repubblica.
La cessazione della carica presidenziale avviene per:
- conclusione del mandato;
- impedimento permanente;
- dimissioni;
- morte;
- decadenza per effetto di perdita di uno dei requisiti di eleggibilità;
- destituzione disposta per effetto di una condanna della Corte Costituzionale per i reati di alto
tradimento e di attentato alla Costituzione.
Nei primi tre casi il Presidente diviene per diritto senatore a vita, a meno che non vi rinunci (art. 59.1).
La controfirma ministeriale
La Costituzione stabilisce che ‘nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è
controfirmato dal ministri proponenti che ne assumono la responsabilità’ ed aggiunge che ‘gli atti che
hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del
Consiglio dei ministri’ (art. 89). La controfirma è la firma apposta da un membro del Governo sull’atto
adottato e sottoscritto dal Presidente: esso è requisito di validità dell’atto e la sua apposizione rende
irresponsabile il Presidente per l’atto adottato, trasferendo la relativa responsabilità in capo al Governo.
Agli albori della forma di governo parlamentare in Inghilterra, la controfirma degli atti del Capo dello
Stato era conseguenza di due fondamentali principi, che definivano la posizione del Re in
quell’ordinamento
costituzionale: il primo di questi diceva che il ‘Re non può sbagliare’; il secondo affermava che il ‘Re
non può agire da solo’, ma i suoi atti dovevano essere ricondotti alla responsabilità di un altro soggetto.
La controfirma del Governo doveva servire ad individuare formalmente un soggetto giuridicamente
responsabile per gli atti compiuti dal monarca.
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La controfirma garantisce l’irresponsabilità del Capo dello Stato. Ma nel sistema italiano essa adempie a
funzioni ulteriori. Tra gli atti formalmente emanati dal Presidente della Repubblica si possono distinguere
tre diverse categorie, che si differenziano per il soggetto che sostanzialmente decide il contenuto
dell’atto:
a) atti formalmente adottati dal Presidente della Repubblica, anche se il loro contenuto è deciso
sostanzialmente dal Governo (c.d. atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi);
b) gli atti che non solo sono adottati formalmente dal Presidente della Repubblica, ma i cui
contenuti sono decisi sostanzialmente dallo stesso Presidente (c.d. atti formalmente e
sostanzialmente presidenziali);
c) gli atti formalmente adottati del Presidente della Repubblica, il cui contenuto è determinato
dall’accordo tra Presidente della Repubblica e Governo (c.d. atti complessi eguali).
La controfirma, secondo la Costituzione, riguarda tutti gli atti presidenziali (si dice che ne siano esclusi
solo gli atti personalissimi, ossia le dimissioni), quale che sia il tipo a cui appartengono. Ma chi
controfirma? Il testo costituzionale fa riferimento al ministro proponente, usando una forma che va
benissimo per gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, dove esiste una proposta
ministeriale: in questo caso la controfirma attesta la sostanziale determinazione governativa del contenuto
dell’atto, che è emanato dal Presidente per consentirgli di vigilare sul rispetto da parte del Governo di
fondamentali principi costituzionali. In questi casi il Capo dello Stato può chiedere un riesame del
contenuto da parte del Governo ma, se questo non ne modifica la sostanza, non può rifiutarsi di adottarlo,
a meno che attraverso esso non incorra nell’ipotesi di responsabilità presidenziale previste dalla
Costituzione, ossia per alto tradimento e attentato alla Costituzione. Negli atti formalmente e
sostanzialmente presidenziali manca una proposta, perché chi decide del contenuto dell’atto è lo stesso
Presidente: una prassi consolidata affida la controfirma dell’atto al ministro competente in materia. La
controfirma in questo caso serve, oltre che a rendere irresponsabile il Presidente, ad evitare che
quest’ultimo eserciti i suoi poteri per imporre un proprio indirizzo politico, anche in contrasto con quello
della maggioranza. Infine, gli atti composti eguali (che sono la nomina del Presidente del Consiglio e lo
scioglimento anticipato delle Camere) sono controfirmate dallo stesso Presidente del Consiglio (c.d. atti
duumvirali), in rappresentanza del Governo complessivamente inteso.
L’irresponsabilità del Presidente
Il principio cardine che la Costituzione fissa è l’irresponsabilità del Presidente. Egli non può essere
chiamato a rispondere sul piano della responsabilità politica ma, come tutti i titolari di organi
costituzionali, può essere sottoposto a critica. Tale critica tuttavia, costituisce solo espressione di generale
libertà critica senza dare luogo ad alcuna possibilità che ne segua la rimozione del Presidente.
La critica, quando c’è, proviene dall’esterno del sistema costituzionale, cioè da quella che si è chiamata
sfera pubblica: mentre gli operatori costituzionali tendono a seguire una convenzione che vuole sottratto
il Capo dello Stato alla critica politica. Tuttavia occorre che il Capo dello Stato si comporti in modo da
apparire realmente come soggetto imparziale: un suo eventuale sbilanciamento comporterebbe non una
vera e propria assunzione di responsabilità, ma comunque una perdita di autorevolezza.
Per ciò che riguarda la responsabilità giuridica del Presidente occorre distinguere fra gli atti che egli
compie nell’esercizio della sua funzione costituzionale e quelli che compie come cittadino qualunque. Per
ciò che riguarda i primi la Costituzione prevede responsabilità penale per i reati di alto tradimento e
attentato alla Costituzione (art. 90); per i secondi invece il Capo dello Stato è penalmente responsabile
per i fatti commessi e qualificabili come reati estranei all’esercizio delle sue funzioni, anche se l’azione
penale è non-procedibile per tutta la durata del mandato. Il Presidente può essere chiamato a rispondere
delle opinioni espresse: la Corte costituzionale, infatti, ha affidato al giudice il compito di verificare il
nesso funzionale tra le ‘esternazioni’ e le funzioni di Presidente, negando comunque che si possa
‘configurare un’esenzione senza limiti dalla giurisdizione e un privilegio personale privo di fondamento
costituzionale’.
La soluzione delle crisi di Governo: nomina del Presidente del Consiglio
Per la soluzione delle crisi di Governo il Capo dello Stato dispone di due poteri: la nomina del Presidente
del Consiglio e la possibilità di sciogliere anticipatamente il Parlamento.
Nel parlamentarismo maggioritario entrambi questi atti costituiscono una semplice ratifica di decisioni
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prese da altri: nella prima ipotesi è il corpo elettorale che sceglie la maggioranza, nella seconda il
Governo propone lo scioglimento. Nei sistemi parlamentari in cui la maggioranza si forma dopo le
elezioni il ruolo che il Capo dello Stato assume è sensibilmente diverso, perché attraverso l’esercizio dei
suoi poteri può influenza la soluzione della crisi: in alcune esperienze costituzionali, il Capo dello Stato si
caratterizza come autentica struttura governante, mentre in altre esso ha compito di intermediazione
politica.
La funzione di intermediazione politica si basa su due pilastri:
il primo è dato dal diritto costituzionale, che attribuisce la nomina del Presidente del Consiglio al
Presidente della Repubblica, ma obbliga il Governo ad ottenere la fiducia parlamentare, sicché la
decisione del Presidente della Repubblica non può essere in disaccordo col Parlamento;
il secondo è prodotto dal sistema politico. Il sistema politico pluripartitico con coalizione post-
elettorali fa si che il Governo si formi dopo laboriose trattative e si regge su delicati equilibri. In
tale contesto il Presidente della Repubblica può usare strumenti serventi rispetto al potere di
nomina, come le consultazioni, il conferimento dell’incarico e il mandato esplorativo.
La soluzione delle crisi: lo scioglimento anticipato del Parlamento
I dati costituzionali e il sistema politico
Se ci limitiamo a leggere le disposizioni costituzionali sullo scioglimento anticipato (art. 88), vediamo
che:
a) il Capo dello Stato può sciogliere entrambe le Camere o una sola di esse;
b) prima di sciogliere le Camere deve sentire i loro Presidenti, che esprimono parere obbligatorio
ma non vincolante;
c) il potere di scioglimento anticipato non può essere esercitato negli ultimi sei mesi di mandato a
meno che questi non coincidano con gli ultimi delle Camere (si parla di semestre bianco)
Ma chi decide sullo scioglimento delle Camere? L’atto è sostanzialmente governativo, presidenziale o
duumvirale? In astratto sono possibili tutte e tre le letture, ma in concreto per determinare chi decide sullo
scioglimento delle Camere occorre soffermarsi sugli equilibri complessivi della forma di governo. Nel
parlamentarismo maggioritario la decisione sostanziale di sciogliere il Parlamento si è spostata in capo al
Governo.
In questo tipo di sistemi il potere sostanziale di scelta della maggioranza e del Governo è nelle mani del
corpo elettorale, di fronte al quale Premier e Governo sono responsabili politicamente. Il Capo dello stato
si limita nominare Presidente del Consiglio il leader dal partito o della coalizione che ha vinto le elezioni.
Poiché, a seguito di questo procedimento, tra maggioranza e corpo elettorale si instaura il rapporto di
responsabilità politica, è nelle mani del Governo la decisione sostanziale in ordine allo scioglimento
anticipato mediante apposito atto di richiesta al Capo dello Stato.
L’esperienza italiana
Nell’esperienza italiana il parlamentarismo ha operato con modalità diverse da quelle del
parlamentarismo maggioritario: ciò spiega perché lo scioglimento anticipato è stato considerato piuttosto
che come atto governativo, come atto complesso o duumvirale. Lo scioglimento è stato considerato come
una sorta di extrema ratio: solo se il Parlamento non è in grado di esprimere nessuna maggioranza e
nessun Governo si procede allo scioglimento. Lo scioglimento, in questo caso viene detto funzionale. Se
si escludono gli scioglimenti tecnici finalizzati a far svolgere contemporaneamente l’elezione delle due
Camere, i restanti scioglimenti anticipati furono tutti dovuti alle gravi difficoltà politiche che impedivano
ai partiti di trovare un accordo. Discorso a parte vale per lo scioglimento del 1994, disposto dal
Presidente Scalfaro dopo il referendum elettorale del 1993 e dopo l’approvazione della legge elettorale
maggioritaria: in questo caso non c’era stata una crisi del governo, tuttavia il Presidente ravvisò nell’esito
del referendum la perdita di fiducia del popolo nel Parlamento. In una situazione di gravissima crisi di
legittimità dei partiti, si è aggiunta una nuova causa di scioglimento: la perdita di rappresentatività del
Parlamento, cioè nel fatto che, a causa di importanti fatti politici, risulta chiara una forte perdita di fiducia
nel Parlamento, che perde il collegamento con la società Deciso lo scioglimento però, quale Governo
dovrà gestire le successive elezioni, quello dimissionario o uno nuovo, nominato appositamente dal Capo
dello Stato?
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La soluzione ritenuta preferibile è che, una volta appurata l’impossibilità della soluzione della crisi, il
decreto sia controfirmato dal Governo dimissionario (in modo da calibrare la volontà presidenziale che
potrebbe nominare un Governo ad hoc per ottenere la controfirma). Il Governo dimissionario resta in
carica per l’ordinaria amministrazione.
L’ordinaria amministrazione significa sbrigare gli affari correnti, compiere gli atti dovuti, quelli urgenti o
indifferibili. Tuttavia nella prassi, il Governo deve autolimitarsi sì, ma salvaguardare gli interessi del
paese.
Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali
Gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali sono i seguenti:
- gli atti di nomina, cioè quelli con il quale il Presidente della Repubblica nomina: a) cinque
senatori a vita (art. 59.2), cioè cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario. La disposizione costituzionale consente che
possano essere complessivamente nominati cinque senatori a vita, pur tuttavia una diversa
interpretazione è stata seguita dai presidenti Pertini e Cossiga, i quali hanno ritenuto che il limite
di cinque fosse riferibile al potere di nomina di ciascun Presidente; 2) un terzo dei giudici
costituzionali (art. 135.1). Il decreto di nomina dei giudici costituzionali è controfirmato dal
Presidente del Consiglio e la controfirma certifica la sola regolarità del procedimento seguito;
- il rinvio delle leggi. Il Presidente con un messaggio motivato e vincolato nel contenuto può
rinviare una legge alle Camere per una nuova deliberazione: tale messaggio deve contenere i
motivi del rinvio.
Nell’ipotesi in cui il Presidente abbia già disposto lo scioglimento delle Camere, si pone il problema di
stabilire se un rinvio presidenziale di leggi già approvate sia legittimo e se il Parlamento sciolto possa
riunirsi per deliberare. Ove si ritiene che le Camere sciolte non possano riunirsi per discutere, ciò
equivale di fatto a trasformare il potere di veto sospensivo presidenziale in veto assoluto. Era questa la
posizione assunta dal presidente Cossiga: tuttavia la tesi presidenziale fu contraddetta e la legge rinviata
fu, in quell’occasione, riapprovata.
- I messaggi presidenziali. Sono la via formale di comunicazione tra il Presidente e le Camere, essi
non sono vincolati nel senso che la Costituzione non ne disciplina il contenuto. La Costituzione
ne individua due tipi: 1) a contenuto vincolato, che accompagnano l’atto di rinvio delle leggi e
infatti il messaggio deve indicare i motivi di tale rinvio; 2) a contenuto libero, il cui contenuto è
scelto dal Presidente e questo è il modo formale con cui il presidente comunica con le Camere.
Tutti i messaggi hanno forma scritta e vanno controfirmati dal Presidente del Consiglio. L’invio
alla Camera del messaggio non necessariamente promuove un dibattito parlamentare sui suoi
contenuti. Secondo una valutazione largamente condivisa i messaggi non sono riusciti ad
incidere sul dibattito politico e le forze politiche si sono mostrate non particolarmente interessate
ai richiami presidenziali;
- le esternazioni atipiche. Le manifestazioni del pensiero presidenziale i cui destinatari sono
genericamente la pubblica opinione o il popolo. Tali esternazioni, per loro natura si sottraggono
alla controfirma. Grazie ad esse il Presidente si pone in rapporto diretto col corpo elettorale: il
ricorso a tale metodo di comunicazione è accentuato nei periodi di crisi della legittimazione del
sistema politico e inibito nei momenti di stabilità;
- la convocazione straordinaria delle Camere. Diretta a garantire il funzionamento delle istituzioni
costituzionali contro eventuali prevaricazioni della maggioranza.
Gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi
sono i seguenti:
l’emanazione di atti governativi aventi valore di legge (decreti-legge, decreti legislativi e
regolamenti governativi) che assumono la forma del decreto presidenziale. È sicuramente il
Governo che determina il contenuto di questi atti e il Presidente della Repubblica lo emana,
tuttavia non si esclude che quest’ultimo entri nel procedimento, a seguito della proposta
governativa, esercitando un controllo di legittimità e di merito costituzionale sull’atto.
Nella prassi si trovano alcuni episodi in cui il Presidente ha operato in questo modo: 1) il Presidente
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Pertini che ottenne la modifica del decreto legge prima che il Governo lo adottasse; 2) il Presidente
Cossiga che negò l’emanazione; 3) il Presidente Napolitano che, comprese le intenzioni del Governo di
emanare un decreto-legge che paralizzasse il decreto della Corte di Appello di Milano con cui si
autorizzava l’interruzione del trattamento della Englaro, inviò una lettera al Governo, spiegando le
ragioni costituzionali che gli avrebbero impedito di autorizzare quell’atto. Il Governo tuttavia non
modificò ne ritirò il testo e il Presidente rifiutò di firmare un atto simile. Tali episodi confermano che,
quantomeno in assenza di requisiti di chiara necessità od urgenza, il Presidente può opporre un rifiuto
assoluto di emanazione.
L’adozione con decreto presidenziale dei più importanti atti del Governo e in particolare la
nomina dei funzionari dello Stato, nei casi previsti dalla legge (art. 87). Di fronte alla enorme
quantità di atti che, immotivatamente, assumevano la forma del decreto presidenziale, la legge
13/1991 ridusse drasticamente il numero di tali atti e prevedendo per molti atti governativi la
forma di decreto del Presidente del Consiglio o dei ministri. Conservano la forma di decreto
presidenziale pochi atti governativi, come lo scioglimento anticipato di Consigli comunali e
provinciali, la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica e tutti gli atti per i
quali è intervenuta una deliberazione del Consiglio dei ministri. Quanto alle nomine sono state
successivamente ridotte a quelle per i massimi dirigenti statali.
La promulgazione della legge è attribuita al Capo dello Stato che deve provvedervi entro un
mese dall’approvazione parlamentare seguendo la seguente formula di promulgazione: 1) accerta
che la legge sia stata approvata nel medesimo testo da entrambe le Camere; 2) manifesta la
volontà di promulgare la legge; 3) ne ordina la pubblicazione nella raccolta ufficiale degli atti
normativi della repubblica italiana; 4) obbliga chiunque ad osservarla e a farla osservare come
legge dello stato;
la ratifica dei trattati internazionali, ed eventualmente autorizzati dal Parlamento, l’
accreditamento dei rappresentanti diplomatici all’estero (art. 87), la dichiarazione dello stato di
guerra previa deliberazione delle Camere, chiamate a conferire i poteri necessari al Governo (art.
78). In quest’ultimo contesto al Capo dello Stato è affidato anche il comando delle forze armate;
la concessione della grazia e commutazione delle pene (art. 87) che si differenziano dall’amnistia
e dall’indulto perché si riferiscono a persone singole e consistono nel condono totale o nella
commutazione della pena irrogata. È stato controverso se la decisione di concedere la grazia
fosse del Presidente della Repubblica o del Governo. La ricostruzione prevalente configurava la
grazia come ‘atto complesso’ a cui dovevano concorrere Presidente e Governo. Coerentemente
con quest’evoluzione, la legislazione ordinaria conferiva al ministro di giustizia l’attività
istruttoria, mentre la prassi faceva precedere il decreto presidenziale di concessione della grazia
da una proposta ministeriale. Recentemente poi, la Corte costituzionale ha configurato la grazia
come atto formalmente e sostanzialmente presidenziale a seguito del cosiddetto ‘Caso Sofri’.
Di fronte alle richieste di larga parte dell’opinione pubblica di concedere la grazia a Sofri (ex leader della
sinistra estrema, condannato per terrorismo ritenuto estraneo ai fatti dall’opinione stessa e comunque
moralmente riabilitato), il Capo dello Stato ha deciso di concedere il provvedimento di clemenza
nonostante incontrasse la ferma opposizione del ministro. Questo, presupponendo che tale atto fosse solo
formalmente presidenziale e sostanzialmente governativo ha rifiutato di apporre la firma e il Presidente
ha sollevato conflitto di attribuzione di fronte alla Corte. Questa nella sentenza ha specificato che
l’esercizio del potere di grazia corrisponde alla manifestazione del senso di umanità costituzionalmente
riconosciuto, per tale motivo questa funzione richiede che il potere di concederla sia attribuito ad un
soggetto estraneo al circuito politico, cioè al Capo dello Stato.
La Costituzione (art. 87) infine affida al Capo dello Stato i seguenti poteri: 1) autorizzare la
presentazione alle Camere dei disegni di legge; 2) indire le elezioni delle nuove Camere e indire
i referendum popolari; 3) conferire le onorificenze della Repubblica; 4) emanare il decreto di
scioglimento dei Consigli regionali e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano
compiuto gravi violazioni della legge.
Atti compiuti nella qualità di Presidente del Consiglio supremo di difesa e del Consiglio superiore della
magistratura
In talune fattispecie, il Capo dello Stato opera come Presidente di un organo collegiale e gli atti posti in
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essere in tale veste si fondono con la volontà del collegio.
Al Capo dello Stato è attribuita la presidenza del Consiglio supremo di difesa: un organo collegiale di cui
stabilmente fanno parte il Presidente del Consiglio, alcuni ministri e il Capo di stato maggiore della
difesa. In quest’ambito la titolarità sostanziale dei poteri militari e di difesa è del Governo, ma il
Presidente della Repubblica svolge alcuni poteri, connessi alla presidenza del Consiglio superiore di
difesa: poteri di convocazione, di formazione dell’ordine del giorno, di nomina e revoca del Segretario
del Consiglio.
Per ciò che concerne invece la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura si ritiene che
l’attività presidenziale si fonda con quella del collegio, con la conseguenza che si hanno atti del
Presidente del CSM e non atti del Presidente della Repubblica. In questo caso la prassi riconosce al Capo
dello Stato un generico potere di rinvio, ove ravvisi mere irregolarità nello svolgimento del procedimento
per il conferimento degli incarichi direttivi.
La supplenza del Presidente della Repubblica
La supplenza del Presidente della Repubblica è un istituto che si utilizza ogni qual volta in cui il
Presidente non può adempiere alle sue funzioni e , al suo posto subentra il Presidente del Senato. La
supplenza è un istituto che consente la continuità delle funzioni presidenziali, anche nell’ipotesi in cui il
Capo dello Stato non possa adempierle per impedimenti. Comunemente si ritiene che il supplente debba
limitarsi all’esercizio dell’attività di ordinaria amministrazione.
Gli impedimenti si distinguono in:
- temporanei. Il Presidente del Senato è legittimato ad assumere le funzioni presidenziali fino alla
cessazione dell’impedimento;
- permanenti (così pure per morte o dimissioni). Scatta sempre la supplenza ma
contemporaneamente anche il procedimento per l’elezione del nuovo Presidente della
Repubblica.
Nel primo caso l’accertamento di impedimento è dichiarato dallo stesso Presidente, e, in ragione di ciò, la
supplenza opera automaticamente senza l’obbligo per il Presidente del Senato di presta giuramento. Più
complicata è la situazione nel caso nell’accertamento di impedimento di un Presidente che non sia più in
grado di intendere e di volere. Nel ’64, a seguito della grave ed irreversibile malattia che colpì il
Presidente Segni, si diede vita ad una procedura particolare di accertamento che vide attivarsi il
Segretario generale della Presidenza della Repubblica, che ha ufficializzato un bollettino medico
dell’entourage di fiducia del Presidente al fine di legittimare la supplenza. Nel caso di viaggi all’estero,
non si tratta di una vera e propria supplenza: sarebbe preferibile parlare di alcune funzioni presidenziali
che, in circostanze che allontanino il Presidente dal territorio nazionale, vengono ad essere esercitate dal
Presidente del Senato.
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autonomia sono state riconosciute pure alle Province autonome di Trento e Bolzano.
Lo stesso documento riconosceva l’autonomia di enti territoriali riguardanti un’area più piccola di quella
regionale: i Comuni e le Province. Mentre le Regioni però avevano capacità di fare leggi, gli enti locali
non hanno capacità legislativa, ma solo regolamentare: si stabiliva anche che l’autonomia di questi enti
locali doveva essere definita da leggi generali dello Stato, mentre quella regionale è definita dalla
Costituzione. Le regioni ordinarie sono state istituite solo nel ’70: in ogni caso l’esercizio effettivo delle
loro funzioni richiedeva che lo Stato, con legge apposita (c.d. decreti di trasferimento), trasferisse loro le
funzioni amministrative. Tale concreto trasferimento si effettuato prima nel ‘72 e poi nel ‘77, ma si è
trattato di un trasferimento parziale, poiché i ministeri hanno conservato numerose competenze
nell’ambito delle materie che la Costituzione affidava alle Regioni.
Una svolta nella ripartizione delle funzioni amministrative c’è stata con la legge 59/1997, la c.d. Legge
Bassanini , la quale introduceva il seguente principio: alle Regioni ed agli enti locali dovevano essere
attribuite tutte le funzioni ed i compiti amministrativi relativi alla cura ed alla promozione dello sviluppo
delle rispettive comunità, nonché i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori, con sola
eccezione dei compiti prerogative dello Stato. Con la riforma Bassanini si realizzava un’interpretazione
evolutiva del’art.118 con cui le funzioni amministrative venivano attribuite in linea di principio a Regioni
ed enti locali anche nelle materie in cui lo Stato aveva titolarità della funzione legislativa. Questo
processo fu avviato a Costituzione invariata, perciò potevano sollevarsi questioni riguardanti la sua
compatibilità costituzionale. Sulle spinte di correnti e forze politiche favorevoli ci si è avviati verso la
“Riforma del Titolo V”.
Nel 2001 il Parlamento ha approvato una legge costituzionale (l. cost. 3/2001) di riforma organica del
Titolo V della Parte II della Costituzione, che è entrata in vigore a seguito dell’esito positivo del
referendum costituzionale. La nuova disciplina costituzionale, introdotta dalla revisione del titolo V, ha
profondamente mutato l’assetto dei rapporti tra stato, regioni ed enti locali, realizzando un forte
decentramento politico.
Piuttosto che designare uno Stato Federale ha definito una Repubblica delle autonomie, articolata su più
livelli territoriali di governo, ciascuno dotato di autonomia costituzionalmente tutelata. La riforma
costituzionale del 2001 è stata preceduta da un’altra legge costituzionale (legge cost. 1/1999), che aveva
modificato la forma di governo regionale, introducendo l’elezione diretta del Presidente della Giunta e
ampliando l’autonomia statutaria in materia di forma di governo. La ripartizione di competenze tra Stato,
Regioni ed enti locali
La Costituzione ha previsto che la Repubblica sia articolata in Comuni, Province, Città metropolitane,
Regioni e Stato, tutti costituzionalmente dotati di autonomia. La scelta in favore della Repubblica delle
autonomie ha delle immediate conseguenze sul modo in cui sono ripartite le competenze tra Stato ed enti
territoriali. In un sistema in cui è prevista equordinazione (parità di rango) degli enti territoriali, lo Stato
ha perduto la potestà legislativa generale: esso può legiferare esclusivamente nelle materie individuate ed
al lui riservate dalla Costituzione. Legge statale e legge regionale sono sottoposte agli stessi limiti:
rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli accordi
internazionali. Anche sul piano regolamentare, la competenza dello Stato è limitata alle materia di
competenza legislativa esclusiva, mentre in ogni altra materia la potestà regolamentare è riservata alle
Regioni.
Secondo l’interpretazione prevalente del testo costituzionale originale, doveva operare il principio del
“parallelismo delle funzioni” (nelle materie di competenza legislativa delle Regioni queste esercitavano
anche le funzioni amministrative). Con la legge Bassanini e con la riforma costituzionale si è tentato di
superare questo principio con l’attribuzione ai Comuni della generalità delle funzioni amministrative, con
la sola eccezione di quelle che siano conferite a Città metropolitane, Province, Regioni e Stato sulla base
del principio di sussidiarietà (il livello governativo superiore interviene quando quello di livello inferiore
non possa assolvere al compito), di differenziazione (enti dello stesso livello possono avere competenze
diverse) e adeguatezza (funzioni assegnate ad enti con requisiti di efficienza). Pertanto, a seguito della
riforma costituzionale, tutte le funzioni dell’amministrazione pubblica dovrebbero essere tendenzialmente
assegnate ad un’amministrazione locale, salvo che non vi sia l’esigenza di unificarne l’esercizio a livello
più elevato.
Anche il nuovo testo costituzionale ha mantenuto le Regioni speciali, il cui ordinamento e le cui funzioni
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sono stabiliti dai rispettivi statuti, approvati con legge costituzionale.
I raccordi tra i diversi livelli territoriali di governo
Negli Stati federali, o a forte decentramento politico, si pone il problema dei raccordi, ossia gli strumenti
di coordinamento e di collegamento fra i diversi livelli territoriali di governo. In una società progredita ad
intenso mutamento ed a forte sviluppo tecnologico, le materie sono sempre interconnesse e qualsiasi
problema complesso richiede il coordinamento di tutti i centri di potere pubblico: anche per questo,
alcune competenze statali sono di tipo trasversale, tagliano cioè più materie. La riforma costituzionale del
2001 non ha previsto quel meccanismo di raccordo presente in numerosi Stati federali che è la Camera
delle Regioni. Attualmente pertanto, in attesa della riforma del Senato che dovrebbe assolvere a tale
funzione, i raccordi principali sono la Commissione Bilaterale integrata (che sarebbe abrogata se la
riforma venisse approvata) e il sistema delle conferenze.
La Commissione bicamerale integrata
La Commissione parlamentare per le questioni regionali è un organo bicamerale per svolgere compiti
consultivi. La nuova disciplina introdotta con la riforma costituzionale del 1999 prevede che, con decreto
motivato dal Presidente della Repubblica, sentita la commissione bicamerale, siano disposti: lo
scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta. Ma è stato l’art. 11 della
legge cost. 3/2001 a valorizzare la Commissione con l’attribuzione di funzioni di raccordo tra Stato e
Regioni:
a) i regolamenti parlamentari possono prevedere la partecipazione rappresentanti delle Regioni,
delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione bicamerale;
b) quando un progetto di legge riguardante le materie in regime di competenza legislativa
concorrente contenga disposizioni sulle quali la Commissione, come sopra integrata, abbia
espresso pareri contrari o favorevoli condizionato dall’introduzione di specificamente formulate,
e la Commissione che ha svolto l’esame in sede referente non vi si sia adeguata, queste parti del
progetto possono essere approvate solo se l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta.
La Conferenza Stato-Regioni e le altre Conferenze
Il sistema delle Conferenze è, ancora oggi, il principale strumento con cui si persegue la “leale
collaborazione” fra Stato, regioni ed enti locali. Il nucleo fondamentale è la Conferenza Stato-Regioni, a
cui è affiancata la Conferenza stato, Città e autonomie locali: per le materie ed i compiti di interesse
comune, le due Conferenze sono riunite insieme della Conferenza unificata. Tali conferenze sono
presiedute dal Presidente del consiglio e sono formate da alcuni ministri e dai Presidenti delle Regioni
(Conferenza Stato-Regioni), mentre per quanto riguarda la Conferenza delle autonomie locali, essa è
formata dai rappresentanti degli enti locali.
Esse sono sede di confronto tra Governo, Regioni ed autonomie locali, coinvolte nell’elaborazione di
taluni atti governativi che interessano le Regioni stesse. Il più delle volte ciò avviene attraverso la
previsione normativa secondo cui determinati atti del Governo devono essere preceduti dal parere di una
di tali Conferenze: questo parere, di regola, non è giuridicamente vincolante ma ha grande forza politica,
cosicché se le Regioni lo esprimono in modo unitario è difficile che il Governo se ne discosti. In altri casi
è previsto lo strumento dell’intesa, ossia del consenso delle Regioni che sono così chiamate alla
codecisione dell’atto.
Il principio di leale collaborazione
La giurisprudenza della Corte ritiene che il principio di “leale collaborazione” debba “governare i
rapporti tra Stato e Regioni nelle materie e in relazione alle attività in cui le rispettive competenze
concorrono o si intersechino imponendo un contemperamento dei rispettivi interessi”. Le leggi statali
hanno stabilito numerose forme di collaborazione, che vanno dalla previsione secondo cui determinati atti
devono essere adottati dallo Stato, previa intesa con la Regione, alla richiesta di pareri, all’istituzione di
organi misti, formati da rappresentanti dello Stato e rappresentanti delle Regioni, allo scambio di
informazioni, ecc.
Nella Costituzione del ‘48 era previsto che le leggi regionali incontrassero un limite politico
nell’interesse nazionale: il Governo poteva bloccarle e provocare una decisione dell’organo politico
nazionale di vertice, il Parlamento. Avendo tale potere di controllo sulle leggi regionali, il Governo
godeva di una posizione di supremazia rispetto alle Regioni. L’eliminazione nel 2001 di qualsiasi
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riferimento all’interesse nazionale e l’imporsi invece di una visione dei rapporti tra i diversi livelli di
governo che ‘obbedisce ad una concezione orizzontale-collegiale, più che ad una visione verticale-
gerarchica degli stessi’, hanno provocato un rafforzamento delle esigenze di cooperazione.
Altra esigenza di raccordo riguarda l’esercizio del potere estero delle Regioni ed i rapporti delle stesse
con l’UE: nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti
territoriali interni ad altri Stati. Ciò può avvenire solamente nei casi e con le forme disciplinati da leggi
dello Stato, che quindi deve prevedere meccanismi che assicurino il raccordo tra la politica estera dello
Stato e le attività di rilievo internazionale delle Regioni. Va infine evidenziato che il Governo può
esercitare potere sostitutivo nei confronti degli organi delle Regioni nel caso di mancato rispetto di norme
o trattati internazionali o della normativa UE o di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica,
ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economico o, in particolare, la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociale, emanando direttamente o
attraverso un commissario ad acta l’atto necessario.
La riforma costituzionale prevede che “lo Stato possa intervenire anche su materie non riservate alla
legislazione esclusiva quando lo richiedano il mantenimento dell’unità giuridica o economica dello Stato,
ovvero l’interesse nazionale”. Non è affatto detto che, come potrebbe sembrare, questo costituisca una
forte compressione delle competenze regionali: la nuova normativa pone in essere una legge tipica che il
Senato può proporre di modificare costringendo la Camera a superare le sue obiezioni con un voto a
maggioranza assoluta. In realtà è proprio tale tipicità ad impedire qualsiasi intrusione ingiustificata nella
sovranità regionale.
I rapporti tra le Regioni e gli enti locali
Un problema politico istituzionale che ha sempre accompagnato l’evoluzione dello Stato-regionale in
Italia, è stato quello dei rapporti fra Stato e Regione da un lato ed enti locali dall’altro. Il testo originale
della Costituzione stabiliva che “lo Stato riconosce e promuove le autonomie locali” (art. 5) e demandava
a “leggi generali” il compito di determinare i principi cui doveva ispirarsi l’autonomia degli enti locali
(art. 128).
Comuni e province hanno però dovuto fare i conti con un nuovo centralismo: quello di molte Regioni che
tendevano a non attribuire ai Comuni le funzioni amministrative nelle materie di loro competenza e
mantenevano una posizione di sopraordinazione.
L’avvio del cambiamento si è avuto con la legge 142/1990, che ha reso gli enti locali più efficienti
modificando il loro ordinamento; successivamente la riforma del 1993 ha introdotto l’elezione diretta sia
del Sindaco che del Presidente della Provincia. Più recentemente attraverso un processo riformativo
alquanto caotico, culminato con la c.d. legge Delrio si è rivisto l’ordinamento dell’ente intermedio (la
Provincia): esso diventa un ente di “secondo grado” i cui organi non sono eletti direttamente dai cittadini
ma dagli organi dei Comuni che ne fanno parte.
Il sistema degli enti locali, a questo puto si basa su:
i. il Comune, ente locale dotato di autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa,
nonché di autonomia impositiva e finanziaria nell’ambito delle leggi di coordinamento della
finanza pubblica. I suoi organi sono eletti direttamente dai cittadini;
ii. la Provincia, che è un ente intermedio tra Comune e Regione: i suoi organi sono eletti dai sindaci
e dai consiglieri dei comuni che vi sono compresi. Ha funzioni di “area vasta” di coordinamento
ma anche di gestione;
iii. la Città metropolitana, istituita dalla legge Delrio che la prevede solo per le città maggiori. In
linea di principio essa si sostituisce alla Provincia ed è governata da un sindaco metropolitano e
da un consiglio eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni compresi nella sua area e dalla
conferenza metropolitana che riunisce tutti i sindaci. La Città metropolitana si occupa soprattutto
dei piani territoriali, del coordinamento e della mobilità;
iv. le Unioni di Comuni, che sono enti locali costituiti da due o più comuni per l’esercizio associato
di funzioni o servizi di competenza.
La questione delle Province è da molto tempo dibattuta: già in sede di Assemblea Costituente si era
discusso dell’eventuale soppressione di quest’organo. La discussione è tornata ad accendersi a seguito
dell’esigenza del taglio delle spese e della soppressione degli enti inutili. La prima chiamata in causa è
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stata proprio la Provincia: essa è stata oggetto di una serie di provvedimenti legislativi volti alla sua
riduzione ad “organo di secondo grado” ed alla riduzione del numero di quelle esistenti. A questo scopo
tuttavia si è agito con lo strumento meno adatto: il decreto-legge; perciò la Corte lo ha bocciato,
affermando tra le righe che autonomia provinciale è costituzionalmente garantita.
Il Governo ha presentato una proposta di riforma che mira ad eliminare dal testo costituzionale qualsiasi
riferimento alle Province al fine di eliminare gli ostacoli costituzionali al conseguimento del suo scopo.
Prima della riforma costituzionale del 2001 l’autonomia degli enti locali risultava sostanzialmente
“decostituzionalizzata”, visto che le regole e gli strumenti della stessa erano rimandati al legislatore. Con
la riforma costituzionale l’autonomia di Comuni, Città metropolitane e Provincie ha trovato più ampia
garanzia costituzionale. Vi è quindi la garanzia dell’autonomia di ciascuno di tali enti del potere a darsi
autonomamente un proprio statuto, il quale stabilisca le norme fondamentali dell’organizzazione
dell’ente. L’innovazione più importante è tuttavia quella introdotta dalla riforma del 2011 che consiste
nella previsione costituzionale secondo cui l’amministrazione pubblica deve essere, in linea di principio,
una amministrazione locale.
Coerentemente con questa previsione si afferma che le autonomia locali sono titolari di funzioni proprie
oltre a quelle attribuitegli dallo Stato: questo conserva però potestà legislativa esclusiva per la
legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Provincie e Città
metropolitane. Per ciò che riguarda i raccordi fra Regione ed enti locali, la Costituzione prevede che in
ogni Regione lo statuto debba disciplinare il Consiglio delle autonomie locali che funziona come organo
con funzioni consultive.
Finanza regionale e finanza locale
Nei sistemi federali, l’autonomia degli enti territoriali riguarda anche il versante finanziario. Si usa
l’espressione federalismo fiscale per indicare un sistema di finanza pubblica che riconosce tanto
l’autonomia degli enti territoriali, quanto l’esistenza di interventi finanziari centrali, sotto forma di
trasferimenti, con cui realizzare obiettivi di politica economica e sociale non tutelati dagli enti territoriali.
L’art. 119 Cost., garantisce l’autonomia finanziaria a favore delle Regioni e degli enti locali. Ciò significa
che gli enti locali:
- devono avere entrate proprie ed il potere di determinarne composizione e quantità;
- devono poter stabilire liberamente come spendere le risorse che ricavano.
La Costituzione prevede che Regioni ed enti locali abbiano una finanza alimentata sia con tributi ed
entrate proprie, sia con compartecipazioni al gettito di tributi statali riferibili al loro territorio.
L’autonomia finanziaria attribuita alle Regioni ed agli enti locali comporta altresì che questi abbiano
autonomia di scelta sia in ordine di livello di imposizione tributaria, sia su come impiegare le risorse a
disposizione.
Lo Stato non ha perduto il potere di intervenire nella disciplina della finanza regionale: l’art. 117.3
prevede la materia ‘coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario’ tra le ‘potestà
legislative concorrenti’; lo Stato potrà dunque limitarsi ad introdurre principi fondamentali sui quali
dovrà articolarsi la legislazione territoriale. Regioni ed autonomie saranno dotate di risorse differenti in
relazione alla ricchezza del territorio: le Regioni più povere avranno meno mezzi e quelle più ricche
avranno più risorse su cui contare. Al fine però, di evitare che fra le diverse Regioni si creino delle
differenze di disponibilità finanziarie, si è previsto un fondo perequativo che ha la funzione di assegnare
agli enti territoriali più deboli delle risorse aggiuntive.
Il nuovo art. 119 è un testo che consente diverse soluzioni interpretative e lasciano ampia discrezionalità
al legislatore nell’individuare modalità per la realizzazione del “federalismo fiscale”. Tra i principi più
importanti segnalati dalla recente giurisprudenza costituzionale si segnalano i seguenti: 1) non è possibile
una piena esplicazione delle potestà regionali senza previa legge di coordinamento, con la conseguenza
che è precluso alle Regioni di legiferare in modo innovativo; 2) non è possibile configurare una materia
“sistema tributario degli enti locali” di competenza residuale delle Regioni; 3) non è più ammissibile
l’istituzione da parte dello Stato di fondi di finanziamento settoriali e vincolanti per finalità specifiche a
favore di enti locali; 4) la normativa statale può imporre oneri contrattuali per il pubblico impiego; 5) la
legge statale può imporre vincoli alla crescita della spesa corrente degli enti locali.
Il processo di attuazione dell’art. 119 avrebbe dovuto avere come momento centrale l’approvazione della
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legge di ‘attuazione del federalismo fiscale’ (legge 42/2009). L’idea portante è che venga istituita una
tendenziale correlazione tra responsabilità finanziaria e responsabilità amministrativa. In questo modo i
cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni di valutare il modo in cui sono utilizzate le risorse che
essi cedono ai poteri pubblici attraverso l’imposizione tributaria, il che dovrebbe favorire la
responsabilità politica degli eletti nei confronti degli elettori. Il principio della territorialità dei tributi
regionali fa si che i territori più ricchi produrranno gettito più elevato che va a finanziare i servizi di cui
gli stessi territori godranno.
Da questo sistema derivano almeno due problemi: 1) come assicurare che sia comunque attribuita
copertura finanziaria integrale delle funzioni che Regioni ed enti locali devono svolgere; 2) come
garantire un certo livello di solidarietà tra le diverse aree territoriali.
Al fine di quantificare il finanziamento necessario alle Regioni per garantire la copertura finanziaria delle
loro prestazioni, si individuano i costi standard di ciascuna prestazione, in modo che sia possibile
confrontare l’efficienza delle Regioni nell’erogazione dei servizi. È un’operazione assai complicata
perché le esigenze delle popolazioni delle singole Regioni sono diverse: è davvero difficile calcolare le
singole prestazioni ed è altrettanto complicato individuare quali concrete prestazioni vanno prese in
considerazione.
La forma di governo regionale
La c.d. ‘forma di governo transitoria’
La legge cost. 1/1999 ha modificato gli articoli da 121 a 126 della Costituzione, affidando a ciascuna
Regione il potere di scegliersi la propria forma di governo. La legge costituzionale ha previsto una forma
di governo transitoria, vigente fino a quando la Regione non approverà il nuovo statuto, caratterizzata
dall’elezione popolare diretta del Presidente della Regione. La forma di governo transitoria si basa su due
strutture egualmente legittimate dal corpo elettorale: da una parte c’è il Consiglio regionale, eletto dagli
elettori regionali, titolare della funzione legislativa, del potere di fare proposte alle Camere e delle altre
funzioni conferitegli dalla Costituzione. Egli gode della classica prerogative delle assemblee elettive, cioè
dell’insindacabilità dei suoi membri per le opinioni espresse e i voti dati. Dall’altra parte c’è il Presidente
della Regione eletto a suffragio universale, che rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta e ne
è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali, dirige le funzioni amministrative
delegate dallo Stato alla Regione. La Giunta regionale è l’organo esecutivo della Regione (titolare della
funzione amministrativa) ma è diretta politicamente dal Presidente eletto, cui la Costituzione affida il
potere di nominare componenti della Giunta, nonché il potere di revocarli.
Le relazioni tra il Consiglio regionale e il Presidente eletto e la Giunta sono riconducibili al modello della
forma di governo neoparlamentare: il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del
Presidente della Giunta mediante mozione motivata ed approvata a maggioranza assoluta per appello
nominale dei componenti. Ma l’approvazione della mozione di sfiducia determina le dimissioni della
Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale, con la conseguenza che si andrà a nuove elezioni per il
rinnovo di entrambi gli organi.
Sia la forma di governo transitoria stabilita dalla legge costituzionale, sia la forma di governo stabilita
dello statuto regionale, sono caratterizzate dal principio del “simul stabunt, simul cadent”. Si intende che
i due organi sono eletti contestualmente e che il venir meno di uno dei due determina la scadenza
anticipata del mandato dell’altro. In questo modo si intendono conseguire i seguenti risultati: 1) evitare
cambiamenti di maggioranze di governi in corso di legislatura, senza il pronunciamento del corpo
elettorale; 2) assicurare la stabilità dei governi regionali e la loro legittimazione; 3) assicurare la
contestualità delle elezioni del Presidente e del Consiglio, in modo da rendere più probabile che essi
appartengano alla stessa coalizione, evitando la “coabitazione”.
L’assetto descritto della forma di governo regionale è previsto dalla Costituzione che, però, affida allo
statuto di ciascuna Regione la competenza a determinare, in armonia con la disciplina costituzionale, la
forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (art. 123.1). Lo statuto
regionale può integrare e modificare il modello costituzionale e , in ultima istanza può anche escludere
l’elezione diretta del Presidente della Regione. La nuova disciplina costituzionale affida alla legge
regionale il compito di stabilire il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e incompatibilità del
Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali, nei limiti dei
principi fondamentali determinati con la legge della Repubblica, la quale fissa la durata degli organi
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elettivi.
I nuovi statuti delle Regioni hanno tutti optato per l’elezione diretta del Presidente, tuttavia ancora poche
Regioni si sono dotate di una propria legge elettorale. Nelle altre Regioni le elezioni sono rette dalla
disciplina transitoria: a) sono candidati alla presidenza della Regione i capilista delle liste regionali; b) è
eletto Presidente il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti; c) il Presidente della Regione fa
parte del Consiglio regionale; d) il Presidente della Regione nomina i componenti della Giunta. Se il
Consiglio approva una mozione di sfiducia, si procede entro tre mesi all’indizione di nuove elezioni del
Consiglio regionale e del Presidente della Regione.
Il margine delle scelte statutarie
La Costituzione attribuisce alla Regione la facoltà di discostarsi dalla disciplina transitoria prevista nel
disciplinare la forma di governo. La Costituzione fissa un criterio generale di elezione a suffragio
universale e diretto del Presidente della Regione: in questo contesto, il rapporto tra Presidente della
Regione e Consiglio regionale si basa sul principio del “simul stabunt simul cadent”. Il Consiglio
potrebbe votare una mozione di sfiducia contro il Presidente e questa possibilità non sarebbe derogabile
da parte dello statuto.
Le Regioni, nell’esercizio della loro potestà statutaria, potrebbero allontanarsi da tale modello e
prevedere diverse modalità di elezione del Presidente. Qualora la Regione scegliesse di confermare
l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente dovrebbe rispettare la disciplina dell’art.126
secondo cui: 1) il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia con mozione motivata ed approvata per
appello nominale da almeno la maggioranza assoluta dei sui componenti (detta mozione non può essere
messa in discussione prima di tre giorni dalla presentazione); 2) l’approvazione di tale mozione comporta
la rimozione del Presidente ed il contestuale scioglimento del Consiglio regionale; 3) gli stessi effetti
conseguono alla rimozione, all’impedimento permanente, alla morte o alle dimissioni del Presidente.
Ma quali sono gli spazi effettivi lasciati all’autonomia dello statuto nella disciplina della forma di
governo?
A seguito della riforma costituzionale i Consigli regionali hanno sostanzialmente perduto il potere “della
crisi”, infatti il Presidente può essere sfiduciato, ma in questo caso si scioglie anticipatamente anche il
Consiglio e si va a votare per il rinnovo dei due organi. La riforma ha voluto rafforzare la legittimazione
democratica e la stabilità del Presidente della Giunta, ma ha fatto perdere ai consiglieri regionali questo
importante potere.
Da qui la spinta a trovare fantasiose soluzioni di compromesso che salvino sia l’elezione diretta del
Presidente che la possibilità di sostituirlo senza decretare nuove elezioni: emblematico è il caso dello
Statuto regionale della Calabria dichiarato incostituzionale dalla Corte per violazione dell’art. 122. In
questo modo la Corte ha finito per consolidare la riforma della forma di governo regionale basata
sull’elezione diretta del Presidente della Regione, ponendo un consistente ostacolo ai tentativi di limitare
o temperare il ruolo del Presidente eletto.
La forma di governo degli enti locali
La forma di governo dei Comuni si basa sull’elezione popolare diretta del Sindaco. L’elezione dei
Consigli comunali prevede una combinazione di elementi maggioritari e proporzionali che si realizza con
modalità diverse per i comuni minori di 15000 abitanti e maggiori di 15000 abitanti. Nei Comuni fino a
15000 abitanti, ogni candidato a Sindaco deve essere collegato ad una lista di candidati a consigliere
comunale. È eletto Sindaco chi ottiene il maggior numero di voti (maggiorana relativa). La lista collegata
al candidato che risulta vincitore ottiene 2/3 dei seggi del Consiglio, i rimanenti sono distribuiti con
criterio proporzionale.
Nei comuni con oltre 15000 abitanti, il candidato a Sindaco deve essere collegato ad una o più liste di
candidati a consigliere comunale. L’elettore vota contestualmente per un candidato a Sindaco e per una
delle liste (contrariamente a quanto detto per i comuni minori, c’è possibilità di esprimere voto
disgiunto). È eletto sindaco chi ottiene la maggioranza assoluta; è prevista inoltre, nella distribuzione dei
seggi, l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista vincitrice oltre ad una clausola di sbarramento
atta a scoraggiare la frammentazione del sistema politico.
A parte alcune attribuzioni, assegnate dalla legge esclusivamente al Sindaco, che agisce in veste di
ufficiale del governo, il sindaco è l’organo monocratico posto al vertice del governo locale. Il consiglio è
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un organo di indirizzo e controllo politico, la cui competenza è circoscritta dalla legge: il numero dei
membri del consiglio varia in relazione alla popolazione. La giunta comunale è composta dal sindaco e da
un numero di assessori: essa collabora col Sindaco e compie ogni atto amministrativo non attribuito al
consiglio, al sindaco, al segretario o ai dirigenti comunali.
Tuttavia, in presenza del principio di separazione tra politica e amministrazione l’ambito delle
attribuzioni della Giunta si è ridotto considerevolmente. Sindaco e Giunta cessano dalla carica in caso di
approvazione di una mozione di sfiducia per appello nominale a maggioranza assoluta dei componenti
del Consiglio. Se la mozione viene approvata, oltre alla cessazione della carica del Sindaco e della Giunta
si determina lo scioglimento anticipato del Consiglio.
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Fonti-fatto e fonti-atto Definizioni
Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: le fonti-atto (o atti normativi) e le fonti-fatto (o
fatti normativi). Le fonti-atto sono parte degli atti giuridici, che potremmo definire come i comportamenti
consapevoli e volontari che danno luogo ad effetti giuridici. Rispetto ai semplici atti giuridici, gli atti
normativi hanno due caratteristiche peculiari: a) quanto agli effetti giuridici, gli atti normativi hanno la
capacità di porre norme vincolanti per tutti (sono fonti del diritto); b) quanto ai comportamenti, le fonti-
atto implicano non solo un agire volontario, ma un agire con volontà da parte di un organo a ciò abilitato
da un ordinamento giuridico. La fonte-atto (o l’atto normativo) è l’espressione di volontà normativa di un
soggetto cui l’ordinamento attribuisce l’idoneità di porre in essere norme giuridiche: tale idoneità è
conferita da una norma di riconoscimento. Le fonti-fatto sono tutte le altre fonti che l’ordinamento
riconosce e di cui ordina o consente l’applicazione, non perché espressione di volontà, ma per il semplice
fatto di esistere. Appartengono alla categoria dei fatti giuridici, cioè a quegli eventi naturali produttivi di
conseguenze rilevanti per l’ordinamento: la differenza con questi è che dalle fonti-fatto l’ordinamento fa
discendere obblighi vincolanti per tutti.
Tipicità delle fonti-atto
Perché la volontà del soggetto possa produrre effetti normativi, bisogna che questa sia palese e
riconoscibile. Da qui l’esigenza che ogni atto normativo si manifesti esteriormente nei modi specifici che
l’ordinamento stesso determina: ogni tipo di fonte ha, a questo proposito, una sua forma essenziale, che i
singoli atti devono rispettare per essere riconoscibili come discendenti da quella fonte. La forma tipica
dell’atto è data da una serie di elementi quali l’intestazione all’autorità emanante, il nome proprio
dell’atto, il procedimento di formazione dell’atto stesso. Dal punto di vista redazionale, ogni atto è
suddiviso in articoli, e questi in commi; gli articoli, spesso correlati da una rubrica (ne indica
l’argomento), possono essere raccolti in capi, e questi ancora in titoli e parti.
Le consuetudini
Una volta si poteva dire che la fonte-fatto per eccellenza fosse la consuetudine. Questa discende da un
comportamento sociale ripetuto nel tempo, sino al punto che, dimenticata o da sempre ignorata la sua
origine, esso viene sentito come obbligatorio, giuridicamente vincolante (opinio juris seu necessitatis). La
consuetudine ebbe perciò importanza in tutti gli ordinamenti che si sono sviluppati lentamente, finché
hanno mantenuto una certa coesione sociale.
La Common Law è il sistema giuridico sviluppatosi in Inghilterra dopo la conquista normanna: essa
consisteva nel corpo di consuetudini locali riconosciuto dai conquistatori ed esteso alle colonie. Oggi non
si può certo dire che la Common Law sia un corpo di regole consuetudinarie: esso è invece un corpo di
regole giurisprudenziali, formatosi attraverso il consolidamento dei “precedenti giudiziari”, ovvero delle
autorevoli pronunce dei giudici che gli altri giudici sono tenuti a rispettare (principio dello stare decisis).
La consuetudine è oggi quasi scomparsa dagli ordinamenti moderni che si ispirano alla codificazione, ne
rimangono solo poche tracce:
1) la prima traccia si trova nelle c.d. Preleggi. L’art. 1 designando la gerarchia delle fonti del diritto
enumera, dopo la legge, i regolamenti, le norme corporative, anche gli usi; le consuetudini perciò
compaiono nel nostro ordinamento e sono poste come ultima fonte nella gerarchia. Ciò significa
che la consuetudine può operare in mancanza di fonti-atto in materia (c.d. consuetudine praeter
legem) o quando le fonti-atto presenti, rimandino esplicitamente ad essa (c.d. consuetudine
secundum legem); non può esistere, invece, una consuetudine contra legem, ovvero quella che
dispone in contrasto con le fonti-atto, poiché essa è semplicemente illegittima.
Al Codice civile, entrato in vigore nel ‘42, è premesso un corpo di 31 articoli intitolato “Disposizioni
sulla legge in generale” e diviso in due capi: 1) “delle fonti del diritto”; 2) “dell’applicazione della legge
in generale”. Esso non riguarda solo il diritto civile, ma l’intero ordinamento. Infatti, queste disposizioni
si occupano almeno in parte di argomenti che sono tipicamente costituzionali: anche per questa ragione fu
messa in dubbio la legittimità stessa di queste disposizioni, sia perché il Codice è stato emanato con
decreto-delegato, sia perché l’ordinamento fascista prevedeva che le leggi in materia costituzionale
fossero approvate a seguito del consenso del Gran Consiglio del Fascismo. Già allora prevalse l’idea che
le Preleggi non avessero carattere innovativo e fossero solo la riproduzione di norme già vigenti:
quest’argomento consentì di superare i dubbi di legittimità, ma al tempo stesso svalutò notevolmente la
Rapporti tra norme europee e norme interne La limitazione di sovranità e il deficit normativo
Aderendo all’UE, l’Italia ha accettato che le leggi europee entrassero direttamente nel proprio
ordinamento, senza l’intermediazione del legislatore nazionale. La Corte di giustizia ha precisato che
l’effetto diretto comporta la prevalenza del diritto europeo su quello interno.
Se la legge è l’espressione tipica della sovranità, tale atteggiamento segna un cedimento della sovranità
nazionale: la progressiva estensione dell’area di competenza della Comunità ha segnato un’estensione
impressionante della limitazione di sovranità subita dagli Stati membri.
È vero che la Comunità era nata per eliminare le barriere che impedivano la circolazione delle merci e,
per tale scopo era fornita di due meccanismi che consentono agli organi della Comunità di emanare
direttive che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune e
di adottare le disposizioni appropriate per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati senza che questi
ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine. Sono clausole di flessibilità che consentono
un continuo allargamento dell’attività normativa.
In quasi tutti gli Stati europei, l’adesione alla Comunità europea, prima, e l’accettazione delle sue
trasformazioni più salienti, poi, sono state accompagnate da riforme costituzionali, avvenute spesso tra
forti polemiche; in Italia questo non è avvenuto. Le uniche fonti che disciplinano l’adesione dell’Italia
sono la legge di autorizzazione alla ratifica del trattato di Roma e l’ordine di esecuzione in essa
contenuta. Sono fonti primarie sub-costituzionali: bastano a disporre una cessione di sovranità?
La Corte costituzionale ha risposto di si, interpretando in maniera estensiva la disposizione dell’art. 11
della Costituzione che sostiene che “l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (che come è facile intuire si riferiva alla
partecipazione dell’Italia alla Società delle nazioni). La Corte ha potuto leggere così nell’art. 11
l’autorizzazione a cedere parte della sovranità per aderire, in condizioni di parità, all’Unione europea. Il
risultato tuttavia è che manca una vera e propria disciplina dei rapporti tra l’ordinamento italiano e quello
dell’Unione europea. Ciò ha comportato che l’intera disciplina sia stata elaborata dalla giurisprudenza
costituzionale.
Le tappe del cammino comunitario della Corte costituzionale
Che accade se una norma interna è in contrasto con una norma europea? A questa domanda fondamentale
la Corte costituzionale, chiamata più volte a decidere sul contrasto tra le leggi ordinarie ed i regolamenti
UE, ha dato nel tempo risposte differenti, applicando in successione i diversi criteri di risoluzione delle
antinomie.
In un primo tempo, la Corte ha applicato il criterio cronologico: i conflitti tra le leggi italiane e le ‘leggi
europee’ si sarebbero dovuti risolvere secondo le regole della successione della legge nel tempo, le norme
più recenti abrogando quelle meno recenti senza dar luogo a questioni di costituzionalità. Ma questa
soluzione non era affatto gradita alla Corte di giustizia dell’UE, impegnata a garantire sempre e
comunque la prevalenza del diritto europeo. Sicché la Corte costituzionale cercò di adeguare la propria
giurisprudenza adottando il criterio gerarchico: le leggi italiane che contrastassero con un regolamento
precedente UE dovevano essere impugnate davanti alla Corte costituzionale stessa per violazione
indiretta dell’art. 11, cioè degli impegni e delle limitazioni che l’Italia aveva assunto ratificando il
Trattato in attuazione dell’art. 11 stesso. Ma anche questa soluzione non era priva di inconvenienti: la
Corte costituzionale, impegnata nel primo ed unico processo penale a carico di alcuni ministri coinvolti
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nello scandalo Lockhead, accumulò un arretrato consistente: ciò significa che il regolamento UE è
rimasto violato per anni senza rimedio.
È emblematica la vicenda Granital, da cui la Corte costituzionale trarrà l’occasione per modificare
ulteriormente la sua giurisprudenza.
Un’impresa italiana, la Granital, ha una complicata vertenza con la dogana italiana in merito all’imposta
da pagare per l’importazione di orzo canadese. È un’intricata questione d’interpretazione della normativa
europea sui dazi, ulteriormente complicata dall’emanazione nelle “more del giudizio” di una norma
nazionale che dispone diversamente dall’interpretazione che la Corte di giustizia ha dato alla disciplina
europea.
Il tribunale impugna la legge italiana di fronte alla Corte costituzionale: siamo nel 1979, la Corte
costituzionale è impegnata nel processo penale nel caso Lockheed, i ricorsi contro le leggi si accumulano.
La Corte risponderà alla questione Granital solo nel 1984, dodici anni dopo l’episodio che l’ha fatta
nascere.
Per tutti gli anni che passano dall’entrata in vigore della norme europea, all’impugnazione della legge
italiana contrastante di fronte alla Corte e, infine, alla sentenza di illegittimità, la norma europea è di fatto
disattesa.
Il caso Granital offre alla Corte costituzionale l’occasione di una modifica radicale nel sistema dei
rapporti tra diritto europeo e diritto interno. A cambiare è essenzialmente il criterio di risoluzione delle
antinomie: per farlo la Corte deve elaborare impegnative premesse teoriche. La sentenza 170/1984, nota
come Granital o La Pergola, sviluppa il suo ragionamento attraverso i punti seguenti:
- l’ordinamento europeo e l’ordinamento italiano sono due sistemi distinti, autonomi e separati,
ognun col proprio sistema di fonti. È la c.d. teoria dualistica.
- La normativa europea ‘non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta
al regime disposto per le leggi (e gli atti con forza di legge) dello Stato’. Non esiste neanche un
vero e proprio conflitto fra fonti europee e nazionali: ognuna è valida ed efficace nel proprio
ordinamento, secondo le condizioni poste dall’ordinamento stesso.
- Con la ratifica e l’ordine di esecuzione del Trattato, il legislatore italiano ha riconosciuto che le
istituzioni dell’Unione abbiano competenza nell’emanare norme che si impongano direttamente
nell’ordinamento italiano, non perché abbiano forza di legge ma per la forza che gli attribuisce il
Trattato. Quindi, è il Trattato a segnare la ripartizione di competenza tra i due ordinamenti e il
regime giuridico delle fonti europee.
- I conflitti che eventualmente sorgano, vanno risolti dal giudice italiano applicando il criterio di
competenza. Il giudice deve accertare se, in base al Trattato, sia competente l’ordinamento
italiano o quello europeo ed applicare di conseguenza la norma competente. La norma interna
eventualmente non applicata non viene ne abrogata ne dichiarata illegittima ma semplicemente
non-applicata. Resta valida ed applicabile eventualmente in un altro caso.
Se il giudice invece trova una legge in contrasto con la Costituzione, non può disapplicare la prima ed
applicare la seconda, ma deve investire della questione la Corte costituzionale (giudizio incidentale di
legittimità costituzionale). Nessuna legge può essere disapplicata dal giudice, neppure se si tratta di
applicare una regola precisa della Costituzione, ma come mai questo principio si sovverte se ad essere
lesa dalla legge non è la Costituzione ma una legge europea? La disapplicazione è un effetto che evoca un
vizio dell’atto: il giudice ad esempio può disapplicare il regolamento che ritenesse illegittimo (mentre
solo il giudice amministrativo potrebbe annullarlo). L’ipotesi di disapplicazione implicherebbe un
giudizio sulla validità della legge in questione; la non-applicazione invece è frutto di una scelta della
norma competente a disciplinare la materia sulla base del riparto di attribuzioni tracciato dal Trattato,
senza alcun giudizio sulla validità della legge.
La disapplicazione può apparire come un accertamento di illegittimità con giudizio inter partes, mentre la
non applicazione implica solo la definizione dell’ambito di applicazione di norme che si suppongo tutte
valide ed efficaci. La Corte europea non può accertare che in uno Stato membro siano ritenute valide e
restino in vigore leggi contrarie alle norme europee.
Contrasto tra norme interne e norme europee: il quadro attuale
Il Presidente
Il Presidente della Corte Costituzionale è un giudice della Corte, eletto dalla Corte stessa a scrutinio
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segreto e a maggioranza assoluta. Il suo mandato è triennale ed è rinnovabile: a parte le consuete funzioni
di rappresentanza esterna e la direzione amministrativa degli uffici della Corte, spettano al Presidente le
funzioni tipiche di chi presiede un organo collegiale. In particolare: fissa il ruolo delle udienze e convoca
la Corte; designa il giudice incaricato dell’istruzione della causa; designa il giudice incaricato di redigere
il progetto di motivazione della decisione; presiede il collegio giudicante e ne dirige i lavori, regola la
discussione e può determinare i punti più importanti sui quali deve svolgersi; vota per ultimo ed esprime
il voto decisivo in caso di parità di voti.
Procedure
Le procedure sono diverse a seconda del tipo di giudizio, vi sono però alcuni tratti comuni.
La Corte ha poteri istruttori: essi consistono nell’accertamento di dati e fatti anche attraverso l’audizione
di testimoni. La Corte con ordinanza può disporre i mezzi di prova che ritiene necessari e fissa i termini
per la loro esecuzione, avvertendo le parti dieci giorni prima di quello fissato per l’assunzione delle prove
orali. La Corte si riunisce in udienza pubblica o in camera di consiglio quando le parti non siano
costituite, oppure quando il Presidente, sentito il giudice istruttore, ipotizzi una decisione di manifesta
infondatezza o inammissibilità. La regola è che ci sia un dibattito pubblico in cui le parti sono
rappresentate dai rispettivi avvocati. Il giudice relatore espone le questioni della causa e poi i difensori
delle parti sono invitati ad intervenire. La decisione è assunta a maggioranza assoluta dei votanti.
Quello che la camera di consiglio vota è solo il dispositivo della decisione. Il Presidente di solito incarica
un giudice di redigere una bozza di motivazione che verrà approvato collegialmente in una seduta
successiva della camera di consiglio. La decisione è firmata dal Presidente e dal giudice redattore e viene
quindi pubblicata sull’apposito supplemento della Gazzetta Ufficiale . Vi sono tre date rilevanti che si
riferiscono alla decisione della Corte: 1) quella della decisione finale in camera di consiglio; 2) quella del
deposito in cancelleria; 3) quella della pubblicazione in Gazzetta ufficiale (a questo punto si ritiene che
l’ignoranza della decisione della Corte avrebbe, sul piano delle responsabilità, le stesse conseguenze
dell’ignoranza della legge). Le decisioni della Corte
Le decisioni che la Corte costituzionale emana sono di due tipi: sentenze e ordinanze. In generale “la
Corte costituzionale giudica in via definitiva con sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua
competenza sono adottati con ordinanza”.
La sentenza definisce il giudizio, ossia è l’atto con cui il giudice chiude il processo; mentre l’ordinanza è
uno strumento interlocutorio che non esaurisce il rapporto processuale. Con ordinanza per esempio si
assumono provvedimenti cautelari, si ordinano attività istruttorie, si sollevano questioni incidentali, quali
la questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia UE o la questione di legittimità costituzionale
(nei giudizi sulla legittimità delle leggi la Corte ha sviluppato un uso delle ordinanze più ampio).
Come avviene di fronte agli altri giudici, le sentenze devono essere esaurientemente motivate, mentre per
le ordinanze è sufficiente che siano “succintamente motivate”. Ma le decisioni della Corte hanno una
particolarità: non possono essere mai impugnate, come stabilito dalla Costituzione (art. 137.3). l’obbligo
di motivazione non è per la Corte sanzionabile attraverso l’impugnazione, ma è il modo in cui
quest’ultima rende conto dei propri processi interpretativi e argomentativi, legittimando le proprie
conclusioni.
Il controllo di costituzionalità delle leggi Atti sindacabili
La Corte costituzionale giudica sulle “ controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e
degli atti, aventi forza di legge dello Stato e delle regioni” (art. 134.1). Questa disposizione ha posto
alcuni problemi interpretativi.
- È da chiarire che cosa si intenda per “legge”: con questo termine si intendono solo gli atti che
hanno la forma delle legge e il grado gerarchico delle fonti primarie comprese le leggi
costituzionali. Al giudizio di legittimità costituzionale, che potrà estendersi non soltanto ai “vizi
formali” - derivati dalla violazione delle regole procedurali- ma anche ai vizi materiali - derivati
dalla violazione dei limiti posti dalla Costituzione. L’unica legge costituzionale che la Corte ha
fin’ora dichiarato illegittima è la legge di approvazione dello Statuto della regione Sicilia. Se non
vi fosse la possibilità di provocare un giudizio di legittimità sulle leggi di revisione, il rispetto
dei limiti posti nella Costituzione resterebbe affidato solo alla buona volontà delle forze
politiche, perdendo il suo più stringente significato giuridico.
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- Un problema storico è se le leggi impugnabili di fronte alla Corte per incostituzionalità siano
solo quelle successive all’entrata in vigore della Costituzione stessa. Occorre considerare che
l’entrata in vigore della Costituzione nell’ 1948 non ha prodotto una rottura nell’ordinamento
giuridico: sono rimaste in vigore tutte le norme precedenti, con eccezione di quelle abrogate
esplicitamente dalla Costituzione. Ovviamente le leggi “anteriori” alla Costituzione possono
essere impugnate solo per vizi materiali e non per i vizi formali. Diverso è il problema se la
Corte possa sindacare gli atti anteriori alla Costituzione rispetto ai parametri dell’epoca: la
risposta è ancora una volta negativa, poiché la legge impone che i parametri di giudizio siano le
disposizioni della Costituzione o le leggi costituzionali.
- Sono escluse dal sindacato di legittimità le fonti-fatto. Quindi non solo le consuetudini ma anche
le norme provenienti da altri ordinamenti come quello europeo.
- Che gli atti sindacabili debbano avere forza di legge significa che la tipologia sindacabile è
chiusa. Sono esclusi i regolamenti dell’esecutivo e gli altri regolamenti amministrativi: il giudice
competente è il giudice amministrativo.
Molti ritengono che i regolamenti, essendo atti normativi del tutto simili, in quanto a contenuto, alle
leggi, richiedano lo stesso giudice e lo stesso tipo di giudizio che la Costituzione ha istituito per le leggi.
Occorre considerare che se il regolamento è incostituzionale, il vizio deriva in primo luogo dalla
violazione della legge stessa che lo disciplina; se invece questo è fedele alla legge, significa che è proprio
la legge, ancor prima del regolamento ad essere incostituzionale : allora, impugnato il regolamento
davanti al giudice lo si inviterà a presentare la questione di legittimità anche per la legge.
La Corte non giudica delle disposizioni legislative in astratto, ma nel significato normativo che esse
concretamente hanno assunto nella prassi interpretativa e attuativa.
Qualche problema pratico si pone per l’impugnazione dei decreti-legge. Se il decreto-legge non viene
convertito in tempo, la sua decadenza ha effetto su tutti i rapporti sorti sulla sua base: venendo meno
l’oggetto dell’impugnazione la Corte dovrebbe dichiarare l’inammissibilità della questione. Se il decreto-
legge viene invece convertito in tempo, si ha novazione della fonte: la Corte ha specificato che in questo
caso la questione si trasferisce direttamente sulla legge.
Le ipotesi in cui il decreto-legge viene giudicato concretamente dalla Corte sono solo due:
1) se viene impugnato e giudicato dalla Corte nei 60 giorni di vigenza provvisoria;
2) se il decreto legge viene reiterato contro quanto stabilito dalla stessa Corte.
Per il referendum abrogativo, è difficile che venga impugnato a posteriori, è invece possibile che venga
impugnata la normativa di risulta, ossia le norme così come si presentano a seguito dell’abrogazione di
quelle sottoposte a referendum. In questo caso però, oggetto dell’impugnazione sono le norme rimaste in
vigore, non già il referendum in se. Le leggi regionali sono ovviamente equiparate a quelle dello Stato,
mentre la Corte ha negato di poter sindacare i regolamenti interni dei Consigli regionali. Le leggi
regionali che approvano gli Statuti delle regioni ordinarie sono soggette ad una particolare forma di
impugnazione preventiva da parte del Governo.
I vizi della legge
I vizi formali riguardano il procedimento di formazione dell’atto legislativo; in linea generale essi
colpiscono l’intero atto ma, in certi casi, è possibile che colpiscano singole disposizioni. I vizi materiali
riguardano invece i contenuti normativi dell’atto legislativo. Essi colpiscono non l’atto ma le singole
disposizioni che risulteranno viziate perché il loro contenuto normativo risulta in contrasto con le norme
ricavabili dalle disposizioni costituzionali.
Il parametro di giudizio
Per parametro di giudizio si intende il termine di paragone impiegato nel giudicare la legittimità degli atti
legislativi. Il parametro è dato in primo luogo dalle disposizioni costituzionali e dalle leggi costituzionali.
La stessa Costituzione prevede in certi casi che le leggi o gli atti con forza di legge siano vincolati da
fonti sub- costituzionali. Il decreto legislativo delegato deve ad esempio, rispettare le norme della legge di
delega; la legge regionale concorrente deve rispettare i principi fondamentali posti dalla legge dello Stato.
In questi casi si parla di parametro interposto, la cui violazione delle leggi comporta un’indiretta
violazione delle norme costituzionali.