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CAPITOLO I – LO STUDIO DEL DIRITTO COSTITUZIONALE

Che cos’è il diritto?


Il termine ‘diritto’ può essere utilizzato con due significati diversi:
 in senso SOGGETTIVO indica una pretesa
 in senso OGGETTIVO indica un insieme di norme giuridiche, un ordinamento giuridico.
Naturalmente tra i due significati vi è una forte interdipendenza.
“Ubi societas, ibi ius” è un’espressione latina che significa “dove c’è una società, lì vi è diritto”.
Sin dall’antichità non esisteva società che non avvertiva l’esigenza di imporsi delle regole al suo interno.
Già dall’epoca dell’antica Roma questo principio indicava la necessità di regole per vivere.
Oggi, la nostra società ha subito profonde e repentine trasformazioni, un enorme ampliamento dei contatti
e delle relazioni tra le persone, avverte ancora più la necessità di affidarsi a regole condivise che
consentano a tutti gli uomini di poter vivere in base ad alcuni principi fondamentali quali la libertà
personale, il rispetto reciproco, l’uguaglianza.
Il nostro ordinamento riconosce e garantisce le formazioni sociali, ossia gli altri ordinamenti che si
formano nella società, ma solo il diritto statuale può prevedere, come sanzione alla propria violazione, la
coercizione fisica.
La percezione comune è questa:
 da un lato sta il diritto vero e proprio fatto di vere norme giuridiche, il cui rispetto è garantito dalla
‘forza pubblica’ e alle quali corrispondono sanzioni;
 dall’altro stanno le cosiddette esperienze pre- o paragiuridiche costituite da norme e sanzioni
‘sociali’.
Il nostro concetto di diritto imperniato sullo Stato: è un concetto destinato ad essere superato.
I segni della decadenza sono evidenti, di fronte all’integrazione europea da un lato, e, dall’altro, di fronte
ad un processo di globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni
Quindi il diritto è assai di più dell’insieme delle regole poste dallo Stato, perché è anche l’insieme delle
interpretazioni che di esse hanno dato i giudici chiamati ad applicarle nei casi specifici (c.d.
giurisprudenza) e gli studiosi che si sono sforzati di ricreare attorno ad essi un sistema coerente (c.d.
dottrina).
Esiste una grande divisione tracciata tra due famiglie di ‘diritti’, ossia tra due sottoinsiemi di norme: il
diritto pubblico e il diritto privato. Mentre nel diritto pubblico si tratta, oltre che dell’organizzazione dei
pubblici poteri, dei rapporti tra l’autorità pubblica e i privati (rapporti dominati dalla prevalenza
dell’interesse pubblico su quello privato), nel diritto privato si tratta dei rapporti tra soggetti privati, in
posizione di parità. L’oggetto specifico del diritto costituzionale può essere diviso in quattro argomenti:
a) le fonti del diritto pubblico, ossia i meccanismi con cui si producono le norme giuridiche
nell’ordinamento italiano;
b) l’organizzazione costituzionale dello Stato, ossia i rapporti tra gli organi costituzionali (c.d.
forma di governo) e quella tra l’apparato dello Stato e il popolo (c.d. forma di stato);
c) le libertà e i diritti costituzionali;
d) la giustizia costituzionale.

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CAPITOLO II – LO STATO: NOZIONI INTRODUTTIVE
Il potere politico
Il potere sociale è la capacità di influenzare il comportamento di altri individui. Ciò che è rilevante per
distinguere un tipo di potere sociale dall’altro è il mezzo con il quale questo si è affermato. In quest’ottica
si distinguono tre poteri principali:
1) il potere economico, che si avvale del possesso di un certo bene necessario o percepito come tale al
fine di indurre coloro che non lo posseggono a seguire una determinata condotta. L’esempio più
immediato è offerto dal proprietario che, grazie alla disponibilità esclusiva di un bene produttivo (la terra o la
fabbrica), ottiene che il non proprietario lavori per lui alle condizioni da lui stesso poste;
2) il potere ideologico, che si avvale del possesso di certe forme di sapere, conoscenze, dottrine
filosofiche o religiose per esercitare un’azione di influenza sulla popolazione. Tradizionalmente
detenuto da sacerdoti, scienziati e ad oggi da coloro che operano nei mezzi di comunicazione;
3) il potere politico, che si avvale, seppure in ultima istanza, dell’uso della forza, della coercizione
fisica per imporre la propria volontà.
Nelle società antiche non esistevano nette demarcazioni tra le tre specie di potere sociale, che spesso si
cumulavano in capo ai medesimi soggetti.
Solo con l’era moderna si realizza un processo di affermazione dell’autonomia del potere politico,
così da impedire che soggetti privati utilizzino la forza per prevaricare sugli altri: per assicurare la
pacifica coesistenza tra individui e tra gruppi di una determinata società.
Lo Stato, che incarna la figura tipica di potere politico, per far rispettare le sue leggi può ricorrere ai suoi
apparati repressivi: il potere politico è quella specie di potere sociale che permette a chi lo detiene di
imporre la propria volontà ricorrendo alla forza legittima.

La legittimazione
Il potere politico, non si basa solo sulla forza, ma anche su un principio di giustificazione, che si
chiama legittimazione. L’uso della forza è una risorsa estrema e ciò che realmente conta è l’astratta
possibilità del suo impiego.
Il filosofo tedesco Max Weber ha ripartito, in rapporto alle diverse ragioni dell’obbedienza, il potere
legittimo in tre tipologie:
1. il potere tradizionale: basato sulla credenza del fondamento sacro delle tradizioni e sulla legittimità
automatica degli organi che le attuano;
2. il potere carismatico: detenuto da chi in forza del suo valore esemplare o eroico ha creato un
ordinamento;
3. potere legale-razionale: poggia sulla credenza nel diritto di comando di coloro che ottengono la
titolarità del potere sulla base di procedure legali ed esercitano il potere medesimo con l’osservanza
dei limiti stabiliti dal diritto. Quest’ultima tipologia è figlia delle rivoluzioni liberali del XVIII secolo
e trova le sue fondamenta in documenti come la Costituzione americana o la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino: è in questo periodo storico che si afferma il principio secondo cui il potere
politico non agisce libero da vincoli giuridici, ma è esso stesso sottoposto al diritto, perché le
regole garantiscono la libertà dei cittadini contro i pericoli dell’abuso da parte di chi detiene il
potere.
Nella nostra cultura il potere politico deve porsi il problema della legittimità: ad esso è riservato il
monopolio della forza, perché serve ad evitare le prevaricazioni dei soggetti più forti a danno
dell’autonomia degli altri soggetti.
La soluzione al problema di una possibile distruzione delle libertà da parte del potere politico, è stato il
costituzionalismo  consiste nella sottoposizione del potere politico a limiti giuridici: Stato di diritto è il
nome che viene dato ai sistemi politici in cui questi mezzi vengono effettivamente impiegati.
La democratizzazione delle strutture dello Stato, l’avvento del consenso popolare del XX secolo ha fatto
si che la legittimazione giuridica non fosse più sufficiente  il potere politico deve essere legittimato
innanzitutto sulla base del consenso popolare. Da qui sono derivati nuovi problemi e nuovi compiti per
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il diritto costituzionale:
 da una parte ha dovuto predisporre i mezzi giuridici e istituzionali affinché il potere politico
derivasse effettivamente dal popolo, ne rispecchiasse le esigenze e le aspirazioni;
 dall’altra ha dovuto escogitare nuove tecniche istituzionali attraverso cui scongiurare il pericolo
che il consenso popolare legittimasse una nuova forma di assolutismo: la tirannia della
maggioranza.
Ne è derivata anche la spinta alla costruzione di organi sovranazionali, di cui la più importante è l’Unione
europea, cui vengono demandate certe funzioni che in origine appartenevano agli Stati, soprattutto per
quanto riguarda la regolamentazione dell’economia. A questo, si affianca una spinta in direzione inversa,
cioè quella al trasferimento di importanti compiti dello Stato a livelli territoriali inferiori (Regioni e
Comuni).

Lo Stato  può essere definito come una particolare forma storica di organizzazione del potere
politico, che esercita il monopolio della forza legittima in un determinato e stabilito territorio e si
avvale di un apparato amministrativo.
Lo Stato moderno che nasce in Europa tra XV e XVII secolo si differenzia dai modelli precedenti per due
principali caratteristiche:
a) la concentrazione del potere legittimo in un determinato territorio in capo ad un’unica autorità;
b) l’esistenza di un’organizzazione amministrativa gestita da burocrazia professionale.
Il vocabolo Stato è relativamente recente: i Romani utilizzavano altre espressioni come civitas o res
publica, mentre la parola status indicava la condizione di un soggetto, il suo modo d’essere: la fortuna
del significato moderno di Stato si deve soprattutto al prestigio dell’opera di Machiavelli, Il Principe
(1513).

La nascita dello stato moderno


La spinta per la concentrazione del potere in capo ad un’unica autorità e quindi alla creazione dello
Stato moderno nasce come reazione alla dispersione del potere tipica del sistema feudale.
La base del sistema feudale era costituita dal rapporto vassallo/signore: il signore concedeva al vassallo un feudo
instaurando con lui un rapporto di obblighi e diritti reciproci e come corrispettivo del feudo, il vassallo aveva
obblighi di aiuto nei confronti del signore, sia in termini finanziari che militari; al contempo il feudo diventava la
fonte di autosufficienza economica del vassallo e il quadro di riferimento spaziale del suo potere di comando.
I rapporti di potere erano di carattere privato e personale e c’era coincidenza tra proprietà privatistica del
feudo e potere di comando sugli individui che a quel feudo erano collegati. Questo tipo di rapporti si riproduceva a
vari livelli: il cavaliere che sfruttava il feudo e ne esercitava il potere lo faceva come vassallo di un signore che a
sua volta era vassallo di un signore più elevato: di grado in grado si giungeva sino ad un ‘sopra-signore’ che si
fregiava di un titolo di origine romana, come rex, princeps, dux e che reclamava un insieme di poteri di dominio
più vasti e riferiti ad un territorio piuttosto che a singoli fondi posseduti a titolo privato.
I legami tra signori e vassalli si fecero sempre più tenui e, inoltre, la comunità non era né unitaria né composta da
individui, ma da aggregazioni sociali, comunità minori tra loro diversamente combinate (la famiglia-clan, le
corporazioni dei mestieri, le associazioni politiche e religiose).
Ne derivava un diritto debole e confuso, poiché uno stesso soggetto, a causa dell’appartenenza a diverse
comunità, era sottoponibile a diversi diritti, spesso anche in contrasto tra loro. Pur esistendo i parlamenti medievali,
essi erano depositari di norme non precise, sancite dalla tradizione e dalla consuetudine. La dispersione del potere
ed il grande scisma religioso che sconvolse la cristianità dal 1378 e il 1417 furono i principali propellenti delle
guerre civili e di religione che sconvolsero l’Europa tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo e del susseguirsi
di guerre, saccheggi e miserie che caratterizzavano la vita dei popoli.

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La sovranità
Lo Stato moderno è un apparato centralizzato stabile che ha il monopolio della forza legittima in un
dato territorio: il concetto giuridico che inquadra questa nuova caratteristica è quello di sovranità.
La sovranità ha due aspetti principali: uno interno e uno esterno.
- La sovranità interna consiste nel supremo potere di comando in un territorio spazialmente definito,
tanto intenso da non riconoscerne altri al di sopra di esso;
- la sovranità esterna, invece, consiste nell’indipendenza dello Stato da qualsiasi altro Stato.
Come si può osservare i due aspetti sono interdipendenti. Il principale teorico di questo processo è stato il
filosofo Thomas Hobbes, che ha contrapposto alla raffigurazione di un’iniziale ‘stato di natura’,
caratterizzato da individui pronti a distruggersi reciprocamente, un insieme di atti contrattuali con cui i
singoli individui trasferiscono tutta la loro forza ad una ‘persona comune’, che è lo Stato: quest’ultimo
ha il monopolio dell’uso della forza che gli è stata trasferita da individui isolati e terrorizzati, spinti
dalla necessità di uscire dallo stato di natura.
Chi esercita effettivamente il potere sovrano? Il campo è stato conteso da tre teorie:
- teoria della sovranità della persona giuridica dello Stato: sono soprattutto i giuristi tedeschi e
italiani, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento a configurare lo Stato come persona
giuridica, cioè come vero e proprio soggetto di diritto, titolare della sovranità. Questa tesi da una parte
serviva a dare legittimazione oggettiva allo Stato, e quindi era utile al rafforzamento di ancora deboli
identità nazionali; d’altra parte poteva risolvere il conflitto tra il principio monarchico e il principio
popolare. Secondo l’interpretazione prevalente dello Statuto Albertino, sovrano non era né il re né il
popolo, bensì lo Stato medesimo personificato;
- teoria della sovranità della nazione: la sovranità nazionale è stata una delle invenzioni più
importanti del costituzionalismo francese dopo la rivoluzione del 1789. Con l’ordine politico nato
dalla rivoluzione francese cessa l’identificazione, propria dell’Ancien Regime, dello Stato con la
persona del Re, al cui posto viene collocata l’entità collettiva ‘Nazione’, a cui si appartiene perché
accomunati da valori, ideali, legami di sangue e tradizioni comuni. La sovranità nazionale sorge con
due precise funzioni:
• da un lato, era diretta contro la sovranità del Re;
• d’altro lato, la Nazione era una collettività omogenea che metteva fine all’antica
divisione del Paese in ordini e ceti sociali. Al loro posto subentravano i singoli
cittadini eguali, unificati politicamente nell’entità collettiva chiamata Nazione;
- teoria della sovranità popolare: entrambe le teorie richiamate hanno tentato di contrastare
l’affermazione di un altro principio, quello della sovranità popolare. La sua formulazione più nota si
deve a Rousseau, il quale faceva coincidere la sovranità con la ‘volontà generale’, che a sua volta era
identificata con la volontà del popolo sovrano, ossia dell’insieme dei cittadini considerati come un
ente collettivo.
Tuttavia c’è almeno un elemento che accomuna le diverse teorie sulla sovranità: il rifiuto di qualsiasi
‘legge fondamentale’ capace di vincolare il sovrano, Re o popolo che fosse. Se l’agire dello Stato
poteva essere circoscritto e disciplinato attraverso leggi, si trattava comunque di autolimiti che il sovrano
poneva a sé stesso e che quindi poteva rimuovere a suo piacimento.

Nuove tendenze della sovranità


Il costituzionalismo del novecento ha visto la generalizzata affermazione del principio di sovranità
popolare: la vigente Costituzione italiana afferma che ‘la sovranità appartiene al popolo che la esercita
nelle forme e nei limiti della costituzione’ (art 1, comma 2).
D’altra parte, però, la sovranità del popolo ha perso il carattere assolutistico del secolo precedente, a
causa di tre circostanze, che hanno messo in crisi la tradizionale teoria della sovranità popolare.
1. La prima è che la sovranità popolare non si esercita direttamente ma viene inserita in un sistema
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rappresentativo basato sul suffragio universale. L’esercizio del potere politico da parte delle
istituzioni rappresentative deve svolgersi sulla base del consenso popolare, che diventa la
condizione preminente di legittimazione dello Stato.
2. La seconda circostanza è la diffusione di Costituzioni rigide che hanno un’efficacia superiore alla
legge e possono essere modificate solo attraverso procedure molto complesse: inoltre, la preminenza
della Costituzione viene garantita dall’opera della Corte costituzionale; dunque, i titolari della
sovranità incontrano, nell’esercizio dei loro poteri, limiti giuridici difficilmente superabili.
La Costituzione italiana afferma nell’art. 1 comma 2 che ‘la sovranità appartiene al popolo che la esercita
nelle forme e nei limiti della Costituzione’: si è quindi riconosciuto che la vigente Costituzione
accoglie il principio della sovranità popolare.
Ma insieme alla sovranità popolare, è prevista anche la preminenza della Costituzione, garantita
dalla Corte Costituzionale chiamata ad imporne l’osservanza: la nostra Costituzione nasce come
garanzia reciproca di esistenza contro la possibilità che sorgesse un nuovo potere assoluto e dispotico,
anche se legittimato dal voto popolare. Essa prevede i mezzi di cui il popolo può servirsi per l’esercizio
della sovranità, ma i poteri in cui si scompone la sovranità non sono tutti affidati al popolo, che può
azionare solamente quelli attribuitigli per Costituzione, mentre gli altri sono esercitati dalle altre
articolazioni dell’organizzazione statale, sempre nel rispetto della Carta fondamentale.
In conclusione ‘sovranità popolare’ nel diritto costituzionale italiano significa che il popolo può porre in
essere esclusivamente gli atti di esercizio della sovranità a lui riservati dalla Costituzione, ossia:
a) quelli che esprimono una volontà unitaria del popolo influente e talora determinante degli indirizzi
politici dello Stato;
b) quegli atti attraverso cui il popolo si esprime attraverso atti singoli e particolari, imputabili a ciascun
cittadino che persegue un interesse politico nell’esercizio di alcuni diritti costituzionali.
3. La terza tendenza che concorre nella limitazione della sovranità statale è l’affermazione delle
organizzazioni internazionali. In un primo momento la sovranità “esterna” non riconosceva alcun
limite, se non quelli scaturiti dagli accordi fra gli Stati stessi ma, dopo il tragico epilogo di questo
sistema con lo scoppio della I e della II guerra mondiale, si è sviluppato un processo per mezzo del
quale si limitava la sovranità statale con lo scopo di garantire la pace e tutelare i diritti umani. Il 26
giugno del 1945 nasce l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) garante della sicurezza
internazionale e il 10 dicembre 1948 viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo. Dall’ONU non discendono limiti giuridici, quest’associazione è ‘fondata sul principio
della sovrana eguaglianza degli stati membri’ e pertanto vieta l’ingerenza sulle questioni interne.
La limitazione della sovranità statale diventa molto più evidente con la fondazione in Europa di
organizzazioni sovranazionali quali: Comunità economica europea (1957), Comunità europea del carbone e
dell’acciaio (1951) e la Comunità europea per l’energia atomica (1957) tutte e tre riunite (dopo il trattato di
Maastricht del 1992) nella Comunità Europea poi Unione Europea.
Gli Stati membri hanno trasferito in capo a queste organizzazioni poteri rilevanti come la competenza a
produrre norme giuridiche, vincolanti ed efficaci per gli Stati e talvolta prevalenti sul diritto interno,
nonché il potere di prendere in certi campi decisioni prima di competenza statale, che propriamente ne
definivano il nucleo della sovranità (potere normativo, governo della moneta).
Va comunque precisato che le organizzazioni sovranazionali non possono sostituirsi integralmente
allo Stato: solo riconoscendo un ruolo ai Parlamenti nazionali è possibile assicurare una legittimazione
democratica all’Unione Europea. Quanto alla Corte costituzionale italiana, essa ha posto come limite
all’azione delle istituzioni comunitarie il rispetto di ‘controlimiti’ rappresentati dai ‘principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale’.
Le Comunità europee sono sorte con l’obiettivo di assicurare ai Paesi europei una pace duratura
dopo gli sconvolgimenti delle due guerre mondiali scoppiate nel novecento.
Tale obiettivo andava raggiunto integrando le economie dei Paesi fondatori e perciò le libertà previste dal
Trattato di Roma erano finalizzate all’instaurazione di un mercato comune: la libertà di circolazione delle
persone, dei beni, dei capitali e dei servizi.
Successivamente cominciò ad affermarsi la questione dei diritti dei cittadini europei, da far valere nei

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confronti del nuovo potere pubblico europeo: il riconoscimento dei diritti fondamentali nell’ordinamento
europeo è avvenuto per effetto della giurisprudenza della Corte di giustizia e quest’evoluzione è stata
codificata dall’art. 6 del Trattato dell’Unione, firmato a Maastricht.
Quindi, poi, si è sviluppato un ampio dibattito sull’opportunità di tradurre i diritti di origine
giurisprudenziale in diritti proclamati in un documento di natura costituzionale: il primo risultato di
questo dibattito è stata la proclamazione, in occasione del Consiglio europeo riunito a Nizza nel 2000, del
Carta dei diritti dell’Unione Europea e alla fine il Trattato di Lisbona le ha conferito piena efficacia
giuridica.
Il territorio
La sovranità è esercitata dallo Stato innanzitutto su un determinato territorio: secondo la concezione
tradizionale, la sovranità implica che lo Stato eserciti il supremo potere di comando in un determinato
ambito spaziale, in modo indipendente da qualsiasi altro Stato. Una precisa delimitazione territoriale è
quindi condizione essenziale per l’esercizio della sovranità e per assicurare agli Stati
l’indipendenza reciproca.
Per convenzione il territorio statale è costituito da: terraferma, acque interne comprese entro i confini,
piattaforma continentale, spazio atmosferico sovrastante, da navi e aeromobili battenti bandiera dello
Stato quando si trovano in spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato, dalle sedi delle
rappresentanze statali all’estero.
- terraferma: porzione territoriale delimitata dai confini, che possono essere naturali o artificiali. Di
regola i confini sono delimitati da Trattati internazionali;
- mare territoriale: fascia di mare costiero interamente sottoposto alla sovranità dello Stato.
Tradizionalmente si estendeva 3 miglia oltre la costa (gittata dei cannoni), mentre ad oggi si estende fino a 12
miglia dalla costa, come decretato dopo la convenzione internazionale di Montego Bay (Giamaica): questa
regola non è accettata da tutti gli Stati, alcuni dei quali rivendicano una maggiore estensione;
- piattaforma continentale: è costituita dal c.d. zoccolo continentale, cioè da quella parte del fondo
marino di profondità costante che circonda le terre emerse prima che la costa sprofondi negli abissi
marini. Per convenzione gli Stati rivendicano ogni risorsa estraibile dallo zoccolo continentale, a patto che sia
assicurata la libertà delle acque.
La dottrina giuridica ha sempre ribadito come il territorio sia coessenziale allo Stato, ma ad oggi lo Stato
ha perduto il controllo di alcuni fattori presenti sul suo territorio e, di conseguenza, il rapporto intenso che
aveva col territorio stesso. In riferimento al mercato unico europeo, all’attuazione piena della libera
circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e delle persone tra gli stati dell’UE, lo Stato ha perso la
capacità ed il potere di trattenere al suo interno importanti fattori produttivi come i capitali e di
scongiurare l’ingresso di beni prodotti in altri paesi.
L’indebolimento del controllo che lo Stato esercita sul proprio territorio è da collegare soprattutto
all’affermazione della globalizzazione, cioè la creazione di un mercato mondiale in cui i fattori
produttivi si spostano con estrema facilità da un Paese all’altro. Alla base della globalizzazione
dell’economia stanno diversi fattori:
a) il progresso tecnologico nel campo dei trasporti e delle comunicazioni;
b) la smaterializzazione delle ricchezze tradizionali, attraverso la c.d. finanziarizzazione dell’economia;
c) lo sviluppo dell’informatica e la creazione delle reti telematiche;
d) l’accresciuta importanza strategica ed economica di altri ‘beni immateriali’, come la conoscenza e
l’informazione;
e) lo sviluppo di sistemi produttivi flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente da un
luogo ad un altro o di allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali diverse.
Dalla globalizzazione dell’economia derivano numerose conseguenze:
- il capitale finanziario si sposta da un luogo ad un altro, e perciò da uno Stato ad un altro, alla
ricerca del luogo più conveniente in cui posizionarsi, sfuggendo quasi integralmente al controllo dei
poteri pubblici;
- in secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese al di fuori

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dei loro confini, ma che hanno effetti considerevoli all’interno del territorio dello Stato.
- In questo modo si realizza una competizione tra Stati per attrarre imprese e capitali e quindi per
aumentare la ricchezza che esiste e si produce nel territorio; gli Stati si trovano davanti ad una
alternativa secca: o chiudere le proprie frontiere agli scambi con l’esterno, oppure garantire la piena
libertà di movimento a capitali, servizi, accettando così di conformarsi alla logica del mercato e alla
competizione tra aree territoriali.
Ma l’adesione alla seconda alternativa comporta una certa riduzione dell’area delle scelte politiche
consentite allo Stato: lo Stato, quindi, è formalmente libero di adottare gli indirizzi politici che
ritiene opportuni, ma sostanzialmente è costretto a sottostare al giudizio del mercato e a seguire gli
indirizzi politici compatibili con le esigenze della competizione internazionale.

La cittadinanza
La cittadinanza è uno status cui la Costituzione riconosce diritti e doveri. Essa è anzitutto condizione
per l’esercizio dei diritti connessi alla sovranità popolare ma anche fondamento di doveri costituzionali.
La Costituzione stabilisce altresì che nessuno possa essere privato della cittadinanza per motivi politici
(art. 22); i metodi di costituzione, revoca ed acquisto della cittadinanza sono disciplinati dalla legge (l.
91/1992 e relativo regolamento di esecuzione, modificati restrittivamente dalle l. 94/2009).
La cittadinanza italiana viene acquistata:
a) con la nascita per:
- ius sanguinis, ossia acquista la cittadinanza il figlio, anche adottivo, di padre o madre in possesso
della cittadinanza italiana, qualunque sia il luogo di nascita;
- ius soli, ossia acquista la cittadinanza colui che è nato in Italia da genitori ignoti o apolidi, o che, nato
in Italia da cittadini stranieri, non ottenga la cittadinanza dei genitori sulla base delle leggi degli Stati
cui questi appartengono;
b) lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al
raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se entro un anno dichiara di voler acquistare la
cittadinanza italiana;
c) su istanza dell’interessato, rivolta al sindaco del Comune di residenza o all’autorità consolare, in
particolare: 1) dal coniuge, straniero o apolide, di un cittadino o di una cittadina italiana qualora
ricorrano determinate condizioni; 2) dallo straniero che possa vantare un genitore o un ascendente in
linea retta di secondo grado che sia cittadino italiano per nascita; 3) dallo straniero, che abbia
raggiunto la maggiore età, adottato da cittadino italiano e residente da almeno cinque anni successivi
all’adozione; 4) dallo straniero che ha prestato servizio per 5 anni alle dipendenze dello Stato; 5) dal
cittadino di uno degli Stati membri dell’Ue, dopo almeno quattro anni di residenze nel territorio della
Repubblica; 6) dall’apolide dopo almeno cinque anni di residenza; 7) dallo straniero, dopo almeno
dieci anni di regolare residenza in Italia.

La cittadinanza europea
Con l’integrazione europea cessa il rapporto esclusivo fra Stato e cittadini. In particolare, a seguito del
Trattato di Maastricht del 1992 si è introdotto il concetto di cittadinanza europea: presupposto per
l’acquisizione di tale cittadinanza è il possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri.
La cittadinanza dell’unione ‘integra la cittadinanza nazionale e non la sostituisce’: il cittadino
dell’Unione, oltre a poter agire in giudizio davanti ad organi di giustizia dell’Unione, può agire contro lo
Stato di appartenenza per far valere i propri diritti in forza della cittadinanza comunitaria.
Al cittadino comunitario è consentita la libertà di circolazione nel territorio degli Stati membri, la
possibilità di godere della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato
membro al pari dei cittadini di quello Stato. In Italia, sulla base di quanto previsto di quanto previsto da
una direttiva comunitaria, è stato adottato il d.lgs. 197/1996 che definisce le modalità di esercizio
dell’elettorato attivo e passivo in relazione alle elezioni comunali.
I cittadini dell’Ue che intendano partecipare alle elezioni per il rinnovo degli organi comunali e
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circoscrizionali, devono chiedere l’iscrizione ad un’apposita lista elettorale: l’iscrizione consente
anche l’eleggibilità a consigliere comunale (non a sindaco) e la nomina a componente di giunta (ma non a
quella di vice-sindaco). L’Unione, infine, si impegna a rispettare i diritti fondamentali quali sono sanciti
nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino e quali risultano dalle
‘tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario’.
Il sistema è completato da un apparato di garanzie: ogni persona può adire la Corte di Giustizia con
riguardo ad atti delle istituzioni comunitarie che considera contrari ai diritti fondamentali.
La distinzione fra cittadini e stranieri è in crisi. Agli effetti della cittadinanza comunitaria si
aggiungono quelli derivanti dai flussi migratori, dall’utilizzo di stranieri in attività economiche, dallo
stabilirsi di intere famiglie provenienti dall’estero nel territorio nazionale che fanno subentrare un’altra
divisione basata sulla nozione generale di ‘residente’. In questa sfera alcuni diritti vengono riconosciuti
anche agli stranieri, a patto che siano appunto residenti nel territorio nazionale: si fornisce, così, una
risposta ai problemi sollevati dalla società multiculturale. Al fine di una coesistenza pacifica si è
ritenuto di dover garantire il mantenimento delle rispettive identità culturali piuttosto che
l’assimilazione della cultura comune ai cittadini dello Stato d’accoglienza: si garantisce, quindi,
l’esistenza di identità particolari regolate dal principio di tolleranza e a patto che esse non pretendano di
imporsi sulle altre preesistenti.

A) Lo Stato come apparato


- L’apparato burocratico
Lo Stato si differenzia dalle altre organizzazioni che si sono aggiudicate il monopolio della forza
legittima in un dato territorio poiché si serve di un apparato organizzativo servito da una burocrazia
professionale.
Quest’organizzazione è stabile nel tempo ed ha carattere impersonale poiché esiste e funziona sulla base
di regole predefinite. La complessa attività dell’apparato è scomposta in compiti minori esercitati da
strutture minori: gli uomini che presiedono a date istituzioni sono sottoposti a procedure prestabilite e
operano nei limiti delle competenze assegnate. L’apparato esiste indipendentemente da chi lo fa
funzionare, ha perciò carattere impersonale.
Il funzionamento dell’apparato presuppone la presenza di una burocrazia professionale, che è formata di
soggetti che ‘per vivere’ prestano la loro opera professionale a favore dello Stato, eseguendo compiti
amministrativi nel rispetto di determinate regole tecniche.
Le origini della burocrazia professionale si collocano nel secolo XVI nei principali Paesi europei
(Inghilterra, Francia, Spagna, Austria): è nata per soddisfare due esigenze scaturenti dalle lotte della
corona contro le baronie locali. La prima esigenza è stata quella di creare corpi militari e ciò ha portato
che si costituissero eserciti non dipendenti dalla corona; la seconda esigenza era quella di mettere a
disposizioni ingenti risorse con cui mantenere i corpi militari, e ciò richiedeva l’uso efficace
dell’imposizione tributaria. Quindi, le burocrazie professionali sono nate per finalità militari e tributarie.
Nello Stato assoluto, l’apparato civile e militare era alle dipendenze della corona, che concentrava la
titolarità delle funzioni pubbliche; dopo l’avvento dello Stato liberale, le funzioni pubbliche furono divise
tra più organi di vertice da cui dipendeva l’apparato con la sua burocrazia.
Per inquadrare giuridicamente la realtà dell’apparato statale, la dottrina giuridica tedesca del XIX secolo
e, sulla scia, la dottrina degli altri Paesi dell’Europa continentale, impiegò la nozione di persona giuridica,
che è la figura soggettiva alla quale l’ordinamento attribuisce capacità di agire in modo giuridicamente
rilevante e di costituire centri di imputazione di effetti giuridici. Con l’attribuzione allo Stato di
un’autonoma personalità giuridica si otteneva il risultato di impedire l’identificazione dell’autorità
dell’apparato con la volontà delle persone preposte agli uffici e, al contempo, di assicurare alle
manifestazioni di volontà statale il carattere dell’obiettività assoluta. Sul piano internazionale non ci sono
dubbi che lo Stato agisca come persona giuridica, su quello interno (nazionale) lo Stato agisce, invece,
tramite i propri enti o i propri organi: Comuni o Prefetture ad esempio.
Gli enti pubblici
Accanto allo Stato esistono numerosi enti pubblici dotati di propria capacità giuridica. Essi possono
essere definiti come apparati costituiti dalle comunità per il perseguimento dei propri fini, che vengono
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riconosciuti come persone giuridiche o come soggetti giuridici. Essi si distinguono dalle persone
giuridiche private (organizzazioni o società comunque regolate dall’ordinamento) poiché sono istituiti per
il soddisfacimento di interessi ritenuti comuni ad una determinata comunità, cioè gli interessi pubblici.
Gli enti pubblici furono inizialmente considerati come satelliti dello Stato medesimo, strumenti per la
realizzazione del suo interesse pubblici. Oggi, l’affermazione della democrazia pluralistica ha modificato
notevolmente il quadro: da una parte, il pluralismo ha comportato che numerosi interessi assurgessero ad
interessi pubblici e come tali venissero affidati alla cura di un apparato statale o di un ente pubblico. Si è
creata una situazione in cui esistono numerosi interessi pubblici, spesso in conflitto tra loro, per cui si
parla di eterogeneità degli interessi pubblici. D’altra parte, ad alcuni enti rappresentativi della
territorialità, viene riconosciuta l’autonomia politica: nei limiti della Costituzione i loro organi sono eletti
direttamente dai cittadini e possono esprimere maggioranze e indirizzi politici diversi da quelli dello
Stato; questi enti territoriali assumono un rilievo crescente, non solo per il loro numero, ma per
l’ampiezza delle loro funzioni.
La potestà pubblica
Stato ed enti pubblici sono collocati dall’ordinamento in una posizione di supremazia rispetto ai soggetti
privati. Gli effetti giuridici che ne derivano si producono nella sfera dell’interessato con la semplice
manifestazione di volontà, indipendentemente dal consenso o dal dissenso dell’interessato. Questo potere
di determinare unilateralmente effetti giuridici nella sfera del destinatario è detto potestà pubblica o
potere di imperio. Ogni potestà è strettamente disciplinata e posta in essere dalla legge, al di fuori della
legge lo Stato non ha alcuna autorità. Ben diversa è la posizione reciproca dei privati, essi sono posti in
tendenziale parità, disciplinano da sé i loro rapporti nei limiti stabiliti dalla legge: si parla di principio di
autonomia privata.
Attualmente lo Stato e gli altri enti pubblici sempre più frequentemente utilizzano strumenti e istituti tipi
del diritto privato per soddisfare interessi pubblici, con la conseguenza che, in questi casi, i rapporti
instaurati con altri soggetti si svolgono su un piano paritario. La tendenza a rendere sempre meno
rilevante la distinzione tra soggetti privati ed enti pubblici è accentuata per effetto dell’influenza del
diritto comunitario, che ha elaborato la nozione di organismo di diritto pubblico: questa nozione assicura
che anche ad enti che formalmente non fanno parte della pubblica amministrazione vengono applicate le
direttive in materia di appalti pubblici, se prendono soldi pubblici.
Uffici ed organi
Ognuno degli apparati minori che formano l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici opera
secondo regole prestabilite che delineano un particolare disegno organizzativo, il quale regola lo
svolgimento di determinati servizi a ciascuno dei quali è preposto un determinato ufficio.
L’ufficio è l’unità strutturale elementare dell’organizzazione; esso esiste astrattamente, prescinde cioè
dalle persone fisiche che vi sono preposte. L’organo è un ufficio particolarmente qualificato da una
norma come idoneo ad esprimere la volontà della persona giuridica e ad imputarle l’atto e i relativi effetti.
La persona giuridica (l’ente) può avere parecchi uffici, di cui però solo alcuni (gli organi appunto) hanno
la capacità giuridica di compiere atti giuridici, ossia a manifestare verso l’esterno la volontà dell’ente. Gli
organi sono i soli uffici produttivi di rapporti giuridici.
Sono possibili numerose classificazioni fra gli organi:
 organi rappresentativi, i cui titolari sono eletti direttamente dal corpo elettorale o che sono
istituzionalmente collegati ad organi elettivi;
 organi burocratici, cui sono preposte persone che professionalmente prestano la loro attività in
modo pressoché esclusivo a favore dello Stato o di altri enti pubblici;
 organi attivi, con compito deliberativo, decidono per l’organo di cui sono parte;
 organi consultivi, danno dei consigli, i pareri, ai primi sul modo in cui esercitare il loro potere
decisionale
 organi di controllo, devono verificare la conformità alle norme (la legittimità), ovvero
l’opportunità (il merito) di atti compiuti da altri organi.
È opportuno aggiungere che i pareri espressi dagli organi consultivi si distinguono in:
α) facoltativi: l’organo deliberativo ha facoltà ma non obbligo di richiederli;
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β) obbligatori: l’organo deliberativo ha l’obbligo di richiederli;
γ) vincolanti: devono essere obbligatoriamente seguiti dall’organo che decide.
Ai nostri fini la figura più importante è costituita dagli organi costituzionali: essi sono elementi necessari
dello Stato, tanto che la loro mancanza determinerebbe il totale arresto dell’attività statale; sono elementi
indefettibili, poiché la loro soppressione o sostituzione determinerebbe un’inevitabile modifica dello
Stato stesso; la loro struttura di base è definita interamente dalla Costituzione; ciascuno di essi si trova in
condizione di parità giuridica nei confronti degli altri.
Gli organi costituzionali si differenziano dagli altri non solo per una diversità di funzione ma soprattutto
per una differente posizione, poiché solo essi individuano lo Stato in un determinato momento storico

CAPITOLO II – FORME DI STATO


Forma di stato
Con l’espressione forma di stato si intende il rapporto che intercorre tra le autorità dotate di potestà di
imperio e la società civile, nonché l’insieme dei principi e dei valori a cui lo Stato ispira la sua azione.
Con l’espressione forma di Governo, invece, si intende il modo in cui si distribuisce il potere tra i diversi
organi di uno Stato-apparato e l’insieme dei rapporti che intercorrono fra essi. La nozione ‘forma di stato’
si riferisce al modo in cui si strutturano i rapporti tra lo Stato e la società: al variare di tali rapporti
corrispondono finalità diverse perseguite dallo Stato nell’esercizio delle sue funzioni. Lo Stato è un
ordinamento a fini generali, nel senso cioè che può assumere come proprio qualsiasi fine; in ogni epoca
storica però esiste una finalità prevalente, che dà luogo ad un particolare assetto delle relazioni tra Stato e
società.
Le due nozioni sono diverse, ma strettamente collegate: l’organizzazione del potere politico nell’ambito
dello Stato è lo strumento tecnico predisposto per realizzare la finalità politica caratterizzante lo Stato.
Tra forma di stato e forma di governo esiste un rapporto di strumentalità.
Gli studiosi hanno elaborato classificazioni delle forme di stato e delle forme di governo distinguendo le
differenti specie sulla base di tratti caratterizzanti: nell’ambito delle prime si distinguono lo Stato
assoluto, lo Stato liberale, lo Stato di democrazia pluralista, lo Stato totalitario e lo Stato socialista.
Nell’ambito di ciascuna specie di forma di stato sono stati individuati vari tipi di forma di governo, a
seconda del modo in cui il potere di indirizzo politico è ripartito tra gli organi costituzionali. Le diverse
specie di forma di governo e di forma di stato elaborate dalla dottrina costituzionalista sono idealtipi, cioè
modelli ricavati attraverso la comparazione di più esperienze costituzionali e l’individuazione di alcuni
elementi comuni a tali esperienze: il modello è un concetto riassuntivo di tratti ricorrente in una pluralità
di sistemi costituzionali concreti, che si sono realizzati in tempi e luoghi diversi. Ma è importante
sottolineare che la realtà storica di ogni Stato è infinitamente più ricca del modello costruito dagli
studiosi. Il modello è il frutto dell’opera di astrazione e comparazione compiuta dallo studioso: non
contiene regole o principi direttamente applicabili in ciascuno dei sistemi costituzionali, riconducibili alla
singola specie di forma di stato o forma di governo, ma quando c’è un dubbio sull’interpretazione del
documento costituzionale, il modello può essere d’ausilio per l’interprete.
Lo Stato assoluto
Lo Stato assoluto è la prima forma di Stato moderno: esso nacque in Europa tra il quattrocento e il
cinquecento, affermandosi nei due secoli successivi. Si caratterizzava per l’esistenza di un apparato
autoritario separato e distinto dalla società e per l’affermazione di un potere sovrano attribuito
interamente alla Corona. Questa, in quanto organo dello Stato, godeva dei requisiti dell’impersonalità e
della continuità garantiti dalla legge. Lo Stato assoluto è quel modello di Stato in cui il potere sovrano è
concentrato nelle mani della Corona, che perciò era titolare sia della funzione legislativa, sia di quella
esecutiva, mentre il potere giudiziario era esercitato da Corti e Tribunali i cui membri erano nominati dal
Re. La volontà del Re era la fonte primaria del diritto e ciò che egli voleva aveva efficacia di legge (quod
principi placuit legis habet vigorem): il suo potere assoluto non incontrava limiti legali (il Re era legibus
solutus), né poteva essere condizionato dai desideri dei sudditi. Il potere regio non derivava da scelte
umane, ma era ritenuto di origine divina.
L’assolutismo regio si affermò in quei Paesi dove riuscì a limitare drasticamente il peso delle
corporazioni e della nobiltà feudale, e quindi a svuotare la funzione dei ‘parlamenti’ medioevali’: ciò
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avvenne soprattutto in Francia, dove gli ‘Stati generali’ non vennero convocati per la maggior parte del
seicento e fino al termine del settecento, mentre la nobiltà feudale venne sottomesse allo Stato, accettando
come compensazione la prospettiva di entrare a far parte della corte del Re a Versailles. In Inghilterra,
invece, l’assolutismo si affermò solo parzialmente nel cinquecento con la dinastia dei Tudor, mentre nel
secolo successivo fallì il tentativo degli Stuart di realizzare il modello assolutistico francese.
Lo Stato liberale
Lo Stato liberale è una forma di stato che nasce tra la fine del 700 e la prima metà dell’800, a seguito
della crisi dello Stato assoluto, dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e dell’affermazione
della borghesia. I caratteri strutturali che definiscono la forma di stato liberale sono: la base sociale
ristretta ad una sola classe; il principio di libertà e di autonomia dei privati; il principio rappresentativo; lo
Stato di diritto.
La crisi dello Stato assoluto fu dovuto soprattutto a ragioni finanziarie, connesso ai costi crescenti del suo
funzionamento che portarono ad un peso fiscale ritenuto insopportabile soprattutto dalla classe borghese,
ed all’indebolimento della sua legittimazione politica, derivante dalla sua incapacità di far coesistere la
sfera della sovranità del Re con il riconoscimento di una sfera di libertà alle varie componenti della
società.
In Francia la crisi assunse una forma traumatica con la rivoluzione del 1989: da qui il riconoscimento
della preminenza politica della borghesia, che rifiutò il sistema tradizionale delle riunioni e dei voti
separati dei singoli ‘stati’. La monarchia assoluta fu travolta così da una rivoluzione parlamentare e da
una sommossa popolare: in un clima incandescente l’Assemblea approvò la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino, che consacrò la filosofia politica del nuovo Stato, specificata successivamente
dalla Costituzione del 1791. La Dichiarazione sanciva che lo scopo fondamentale dello Stato doveva
essere quello di conservare i diritti naturali dell’uomo, l’eguaglianza di fronte alla legge, che poneva fine
agli antichi privilegi nobiliari, la limitazione del potere tramite il principio della divisione dei poteri. Dal
1789 al 1870 la Francia ebbe più di una dozzina di Costituzioni e svariati assetti politico-costituzionali:
solo con le leggi costituzionali del 1875, repubblicane e liberali, la Francia conobbe una stabilità
costituzionale destinata a durare quasi 70 anni (‘terza Repubblica’).
In Inghilterra invece l’affermazione dello Stato liberale fu più graduale, ma anche più stabile: qui
l’assolutismo non aveva attecchito pienamente e le forze politiche, la cui base sociale era rappresentata
dall’alleanza tra nobiltà di campagna e i ricchi mercanti della città, consideravano il Common Law, cioè
il tradizionale complesso di norme consuetudinarie, come fondamento e garanzia della loro indipendenza,
per cui lo stesso Re doveva ritenersi sottoposto al diritto. In questa prospettiva, il Parlamento negava al
Re la possibilità di imporre nuovi tributi senza il suo consenso e riteneva illegittimi gli arresti arbitrari e
l’alloggio forzato di truppe presso i privati. La tensione tra Parlamento e Carlo I portò alla guerra civile e
all’esecuzione del Re nel 1649: fu però con Giacomo II che si verificò un evento politico-costituzionale
fondamentale per la storia europea, la rivoluzione del 1689. Si affermò il principio secondo cui il Re
aveva perso il diritto a pretendere fedeltà dai sudditi per avere deliberatamente cercato di sovvertire le
‘leggi fondamentali’ del Paese: il Re venne dichiarato abdicario ed al trono venne chiamato Guglielmo III
d’Orange. Il Parlamento adottò due fondamentali documenti costituzionali: la Declaration of Rights ed il
Bill of Rights, con cui si riaffermarono la libertà dagli arresti arbitrari, la libertà di parola e discussione in
Parlamento, il divieto per il Re di sospendere le leggi e dispensarne dall’osservanza senza il consenso del
Parlamento, il divieto per il Re di imporre tributi senza consenso parlamentare, il divieto per il Re di
mantenere armate stabili in tempo di pace, il diritto del Parlamento ad essere frequentemente riunito per
garantire il rispetto delle leggi, il diritto del Parlamento a sindacare la regolarità delle elezioni.
Diverso ancora fu il caso americano: l’Inghilterra si rivolgeva alle colonie americane con lo scopo di
rimpinguare le casse provate dalle guerre, imponendo nuove tasse senza il consenso delle assemblee
legislative locali. Gli americani risposero invocando il principio ben saldo nel costituzionalismo inglese
(no taxation without rapresentation), secondo cui era illegittima qualsiasi tassazione che non fosse
approvata dai loro rappresentanti eletti. A seguito del radicalizzarsi del conflitto si giunse alla
Dichiarazione di indipendenza (nel luglio 1776), sottoscritta dai rappresentanti di tutte le colonie: questo
documento fissava i principi politico-costituzionali da porre a fondamento della nuova nazione
americana. Si giunse, così, alla convocazione di una Convenzione federale a Filadelfia, dove si riunirono
i delegati di tredici Stati americani che approvarono la Costituzione americana, la quale entrò in vigore

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del giugno 1788.
Altro fattore importante fattore che ha promosso l’organizzazione del potere politico tipica dello Stato
liberale è stato l’avvento di un’economia di mercato prevalentemente a carattere capitalista. L’economia
di mercato è basata su un principio di domanda e offerta tra acquirente e venditore. L’uno punta ad
acquistare alla cifra più bassa, l’altro a vendere alla cifra più alta. La transazione si risolve e fa comparire
un prezzo: l’equilibrio di mercato è risultante di milioni di contratti conclusi tra singoli individui.
L’economia si è storicamente accoppiata al modo produttivo capitalistico, basato sulla distinzione tra
soggetti proprietari e soggetti non proprietari che vendono ai primi la loro forza lavoro, affinchè essa
possa essere impiegata nel ciclo produttivo, diretto a creare profitti per l’imprenditore. Lo Stato assoluto
ostacolava questa nuova economia: va sottolineato l’aspetto del particolarismo giuridico, che consiste
nella disuguaglianze e tendenziale assenza di unitarietà e coerenza delle leggi vigenti all’interno di
ciascuno Stato. Di contro, l’economia di mercato e capitalistica presupponeva, sul terreno giuridico, la
certezza dei diritti di proprietà dei venditori e dei compratori, la piena libertà contrattuale, l’eguaglianza
formale dei contraenti, l’abolizione dei privilegi dei monopoli pubblici e di tutte le restrizioni alla libera
circolazione delle merci, la prevedibilità degli effetti giuridici delle azioni necessaria per effettuare il
calcolo economico. Le nuove modalità di produzione della ricchezza e l’esigenza di garanzia della libertà
contro le tentazioni assolutistiche, favorirono l’affermarsi di una società civile distinta dallo Stato. Ma,
mentre lo Stato assoluto rendeva la società civile oggetto di gestione politica, lo Stato liberale assegnava
a questa capacità di autoregolarsi e di sviluppare autonomamente i propri interessi.
In questa prospettiva si collocano le due tendenze tipiche dello Stato liberale:
1. le codificazioni costituzionali, ovvero la tendenza a consolidare in un unico documento i principi
sulla titolarità e sull’esercizio del potere politico.
2. le codificazioni civili, ovvero la tendenza a formare un corpo sistematico di regole che
disciplinassero i rapporti fra privati dotate di requisiti di generalità ( perché riferibili a tutti gli
individui resi uguali di fronte alla legge), astrattezza (perché soggette a numerose applicazioni
nel tempo) e certezza (perché erano raccolte in un corpo normativo unitario e prevedibili nei loro
effetti).
Il modello di questo nuovo modo di legiferare era il Codice napoleonico del 1804, sulla cui falsariga
vennero elaborati gran parte dei codici europei.
I caratteri dello Stato liberale
Occorre prendere in considerazione, quindi, i tratti caratterizzanti di questa forma di stato, ma anche il
fatto che ciascuna esperienza storica è molto più articolata e complessa del modello e presenta i suoi tratti
peculiari non presenti nel modello stesso, che è sempre frutto di un’astrazione. Il modello ‘Stato liberale’
è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali:
a) da una finalità politico costituzionale garantista. Lo Stato è considerato lo strumento di tutela
delle libertà e dei diritti degli individui, in primo luogo del diritto di proprietà (John Locke
afferma che gli uomini nascono liberi ma poi si assoggettano al potere per avere assicurata la
tutela del diritto di proprietà). Si afferma il principio secondo cui la finalità principale dello Stato
è quella di garantire i diritti ed in modo strumentale rispetto a tale finalità garantistica deve
strutturarsi l’organizzazione costituzionale (attraverso il principio della separazione dei poteri);
b) da una concezione dello Stato minimo. È uno Stato che si astiene dall’intervenire nella sfera
economica, affidata alle relazione ed alle autoregolazione dei soggetti privati: nei suoi
programmi rientrano, quindi, un basso livello di tassazione ed il pareggio di bilancio;
c) dal principio di libertà individuale. Lo Stato riconosce e tutela la libertà personale, la proprietà
privata, la libertà contrattuale, la libertà di pensiero e di stampa, la libertà religiosa, la libertà di
domicilio, ma si tratta di libertà riferite all’individuo: si esclude ogni diaframma tra lo Stato ed i
singoli cittadini, definendo un sistema giuridico che presuppone una società formata da individui
eguali di fronte alla legge;
d) dalla separazione dei poteri. Il potere politico viene suddiviso tra soggetti istituzionali diversi,
che si controllano reciprocamente;
e) dal principio di legalità. La tutela dei diritti è affidata inoltre alla legge; la sua caratterizzazione

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come Stato di diritto significa che ogni limitazione della sfera di libertà riconosciuta a ciascun
individuo deve avvenire per mezzo della legge e quindi, tutta l’attività dei pubblici poteri deve
fondarsi sulla previa autorizzazione della legge. Questa funzione garantistica della legge si basa
su due premesse: 1) la legge deve avere i caratteri di generalità e astrattezza, dettando modelli
validi per tutti a prescindere dal caso concreto; 2) il secondo presupposto è che la legge sia
formata dai rappresentanti della Nazione ai cui membri essa di applica, e quindi provenga da
soggetti che condividano le finalità di tutela di libertà e del diritto di proprietà: lo Stato liberale si
basa sul principio rappresentativo;
f) dal principio rappresentativo. Le assemblee legislative dello Stato liberale rappresentano l'intera
nazione o l'intero popolo, come entità complessiva. Pertanto, i singoli parlamentari devono agire
liberi da mandati vincolanti da parte del rispettivo collegio elettorale (divieto di mandato
imperativo); ma comunque i rappresentanti vengono eletti da un corpo elettorale assai ristretto,
essenzialmente circoscritto alla classe borghese: di conseguenza vi è un omogeneità sociale tra i
rappresentanti, autori della legge, ed i soggetti cui la legge si applica. Tale omogeneità
costituisce la principale garanzia che la legge abbia effettivamente contenuti tali da renderla
garanzia della proprietà e delle altre libertà individuali.
Tale caratteristica è molto importante: la legislazione elettorale di questa forma di stato attribuisce il
diritto di voto solamente a cittadini ritenuti ‘capaci’ e ‘affidabili’, e in quanto tali realmente interessati
alla gestione della cosa pubblica. Il diritto di voto è quindi circoscritto a chi abbia un adeguato livello di
istruzione e di reddito. Quindi, lo Stato liberale ha una base sociale ristretta, tendenzialmente coincidente
con la classe borghese e pertanto viene qualificato come Stato monoclasse.

La nascita dello Stato di democrazia pluralista


Lo Stato di democrazia pluralista si afferma a seguito di un lungo processo di trasformazione dello Stato
liberale, che porta all’allargamento della sua base sociale: lo Stato monoclasse si trasforma in Stato
pluriclasse e si fonda sul riconoscimento della pluralità di gruppi, interessi, idee e valori che possono
confrontarsi nella società ed esprimere la loro voce in Parlamento. Si tratta sostanzialmente di uno Stato
liberale con base sociale molto più ampia: la causa dominante dell’affermarsi di questo modello è
appunto l’allargamento progressivo dell’elettorato che culmina nel suffragio universale.
L’ampliamento si verifica da un punto di vista ‘quantitativo’ dell’elettorato attivo e da un punto di vista
‘qualitativo’ supportato da tre trasformazioni:
a) nascita e affermazione dei partiti di massa, che organizzano la partecipazione politica di migliaia
di elettori;
b) configurazione degli organi elettivi come luogo di incontro e scontro di interessi eterogenei;
c) il riconoscimento di diritti sociali come strumenti di integrazione nello Stato dei gruppi sociali
più svantaggiati.
L’evoluzione di queste tendenze ha conosciuto sviluppi più graduali in alcuni Paesi (Inghilterra e Stati
Uniti) e molto evidenti in altri (Italia e Germania).
I partiti politici di massa
Con l’introduzione del suffragio universale sono nati e si sono affermati i moderni partiti di massa,
caratterizzati da una solida struttura organizzativa che ha consentito loro di diventare veri mezzi di
mobilitazione popolare e di integrazione delle masse nelle istituzioni. Essi hanno un apparato
organizzativo permanente che opera al di fuori del Parlamento e tiene collegati eletti ed elettori: questo
apparato è formato da persone che professionalmente si occupano di politica e traggono i loro mezzi di
vita dalla politica, dando vita ad una burocrazia di partito. Alla nascita dei partiti di massa ha, inoltre,
contribuito anche il conflitto sociale sempre più aspro per il raggiungimento di una uguaglianza
sostanziale tra gli uomini appartenenti a tutte le classi: il diffondersi delle ideologie socialiste e marxiste
ha fornito ai nuovi partiti una risorsa importante per il controllo di milioni di persone sotto la guida del
gruppo dirigente del partito.
Il risultato di queste trasformazioni è stato l’emergere delle contrapposizioni della società anche a livello
istituzionale. Tutto ciò avviene nei Parlamenti, i quali si trasformano da luoghi in cui i parlamentari,

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accomunati da estrazione sociale e culturale, ricercavano il modo migliore per soddisfare l’interesse
comune, a luoghi di confronto tra partiti, che finiscono perciò col controllare direttamente l’azione del
Parlamento e del Governo. Tali trasformazioni sono divenute particolarmente evidenti soprattutto dopo la
prima guerra mondiale, allorchè i partiti di massa hanno avuto una considerevole crescita a scapito delle
tradizionali forze politiche liberali: in alcuni Paesi, come il Regno Unito, il passaggio dalle istituzioni
liberali a quelle democratiche non ha impedito di avere Governi saldi e autorevoli. La comune
accettazione dei valori della democrazia pluralistica hanno impedito che il partito uscito vittorioso dalle
urne utilizzasse il potere ottenuto per eliminare l’altro.
Crisi delle democrazia e nascita dello Stato totalitario
In altri paesi come la Germania e l'Italia, l'affermazione dei nuovi partiti di massa non si è accompagnata
alla comune accettazione di una democrazia pluralista da parte dei principali partiti politici; ciò portò alla
crisi delle istituzioni liberali e vi fu l'identificazione del partito unico con lo Stato: è lo Stato totalitario.
In Italia, la frammentazione politica della giovane democrazia di massa, la prevalenza di forze che non
accettavano pienamente i valori della nuova democrazia pluralista e l’arroccamento delle forze
economiche che temevano gli effetti del suffragio universale determinarono una forte instabilità, insieme
al deficit di legittimazione delle istituzioni costituzionali, innescando una crisi gravissima che culminò
con l’avvento dello Stato fascista. Il Re nominò Presidente del Consiglio Benito Mussolini quando, a
seguito della riforma elettorale del 1919, che aveva instaurato un modello proporzionale, non si riusciva a
trovare una maggioranza stabile e a raggiungere la governabilità. La rottura con la democrazia e
l’instaurazione dello Stato autoritario si verificarono solo nei due anni successivi, attraverso alcuni
passaggi. Lo Stato fascista ha operato in Italia dal 1922 al 1943, ed è stato organizzato in
contrapposizione al modello liberale ed a quello di democrazia pluralista, accusati di non essere in grado
di difendere gli interessi nazionali a causa della frammentazione del potere politico. Lo Stato fascista
concentrava il potere politico in un unico organo, che assommava la funzione legislativa e quella
esecutiva, e cioè il Capo del Governo. Lo Stato assumeva l'attributo della totalitarietà, nel senso che si
riteneva che la collettività nazionale si integrava in modo totale nello Stato; in tutto questo vi fu la
soppressione delle tradizionali libertà liberali.
La Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale, rimosse l’imperatore e diede vita ad una
Repubblica, basata sulla Costituzione di Weimar del 1919, con la quale si tentava una profonda
democratizzazione delle strutture dello Stato: la Repubblica potè godere di una relativa stabilità fino alla
profonda crisi economica del 1929, quando si realizzò una profonda crisi della governabilità del Paese.
I Governi che si succedevano erano privi di maggioranza politica e si basavano esclusivamente
sull’appoggio del Capo dello Stato: è in questo contesto, caratterizzato dalla mancanza di attaccamento
agli istituti democratici, da un forte conflitto ideologico e da instabilità politica, che ha potuto avere
fortuna il partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. La dottrina elaborata da quest’ultimo portò alla
formazione dello Stato nazionalsocialista, operante dal 1933 al 1945. Esso si basava sull'idea secondo cui
lo Stato doveva essere uno degli strumenti dei quali si avvaleva, per la realizzazione dei suoi fini, l'unico
movimento ammesso, ovvero quello nazionalsocialista. Il Capo del movimento era vertice dello Stato, del
Governo e delle forze armate, concentrando in sé il potere costituente, quello di revisione costituzionale,
quello legislativo, quello esecutivo e quello giurisdizionale. Perciò il movimento era sovraordinato allo
Stato e il soggetto posto alla guida del movimento era considerato in posizione di supremazia.
Un'altra alternativa alla democrazia pluralista è lo Stato socialista: il riferimento storico di questa forma
di stato è dato dall'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) e affonda le sue radici nella
dottrina marxista-leninista. Questa forma di stato trova origine nella c.d. dittatura del proletariato, con la
quale si sarebbe dovuta emarginare la classe antagonista, e cioè la borghesia, in vista del futuro
superamento del potere statale e dell'avvento di una società senza classi e senza conflitti sociali. Questo
modello si reggeva sull'abolizione della proprietà privata e sull'attribuzione alla Stato del dominio di tutti
i mezzi di produzione; si realizzò, infatti, l'abolizione del mercato a favore di un'economia collettivistica.
Alla fine degli anni '80 del XX secolo, gli Stati socialisti sono entrati in una crisi profonda che è
culminata con l'evento simbolico del crollo del Muro di Berlino. Si sono dissolti stati multinazionali con
l'URSS e la Jugoslavia, da cui sono nati nuovi Stati che adottano Costituzioni basate su principi di
democrazia pluralista.

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Consolidamento della democrazia pluralista e affermazione dello Stato sociale
I principi dello Stato di democrazia pluralista hanno trovato conferma al termine del secondo conflitto
mondiale in tutte le aree di influenza politica e culturale delle potenze alleate diverse dall’URSS.
In alcuni casi è stato ripreso un processo di sviluppo costituzionale interrotto dalle parentesi totalitarie
(Italia), in altri sono stati ripresi concetti liberali e democratici sacrificati dall’occupazione straniera
(Francia, Belgio, Olanda, ecc.), altri ancora hanno subito l’imposizione di questo modello dalle potenze
vincitrici (Germania, Giappone). Solo Spagna e Portogallo sono rimasti nell’area dello Stato autoritario
prebellico fino agli anni ’70, quando si sono dati degli ordinamenti democratici; mentre la Grecia ha
avuto un temporaneo ritorno allo Stato autoritario nel periodo 1967-1974.
La fase costituzionale, in tutti casi, vede garantite insieme alle tradizionali ‘libertà negative’ tipiche delle
concezioni liberali (libertà personale, di domicilio, religiosa, di pensiero, ecc.), anche le diverse
manifestazioni del pluralismo politico, sociale, religioso e culturale (riconosciuto ruolo costituzionale dei
partiti politici).
Nella Costituzione Italiana:
 art. 49: ‘tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale’: garanzia del pluralismo dei partiti;
 art. 39: garanzia del pluralismo dei sindacati;
 art. 8: garanzia del pluralismo delle confessioni religiose;
 art. 33: garanzia del pluralismo delle scuole e culturale;
 art. 18: garanzia del pluralismo sociale. Riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente,
per perseguire qualsiasi fine, salvo quelli vietati ai singoli dal codice penale.
Si assiste ad un generale riconoscimento dei diritti sociali (la tutela della salute, del lavoro,
dell’istruzione, ecc.), che comportano la pretesa a prestazioni positive dei poteri pubblici da parte dei
cittadini più svantaggiati. Affinchè questi diritti siano tutelati, gli Stati devono operare attivamente nella
società e nell’economia, col fine di ridurre le diseguaglianze materiali tra individui derivanti dalle
diversità di distribuzione del reddito e delle opportunità di vita. Gli ordinamenti democratici sono
sottoposti al rischio di perdere il consenso delle classi economicamente svantaggiate, che non possono
effettivamente godere delle libertà liberali. Gli Stati di democrazia pluralista sono perciò sorti in contesti
sociali e politici caratterizzati dalla lotta di classe, cui hanno cercato di dare uno sbocco pacifico
attraverso un compromesso politico che sta alla base delle loro Costituzioni e delle loro pratiche. Il
problema principale che si è posto alle democrazie pluraliste è quello della ‘coesione sociale’,
raggiungibile solo attraverso il compromesso politico che, da un lato, garantisce l’economia di mercato e
i diritti su cui essa si fonda; dall’altro limita ed interviene attivamente al fine di correggere le
disuguaglianze inevitabili attraverso interventi pubblici.
Ne deriva un ruolo statale profondamente diverso da quello dello Stato liberale: il cosiddetto Stato sociale
o Welfare State. Lo Stato liberale concedeva e garantiva i mezzi per l’affermazione dell’individuo: su
questa affermazione di reggevano i meccanismi di mercato; lo Stato sociale, viceversa, interviene nella
distribuzione dei benefici compensando quegli esiti che derivano dal semplice operare di rapporti
economici nel mercato. In questo modo lo Stato supera l’individualismo e sviluppa forme di solidarietà
sociale: lo Stato di democrazia pluralista ha visto lo sviluppo di forme variegate di intervento pubblico
nell’economia e nella società, che danno luogo ad un’economia mista.
Sono prevalse diverse forme di interventismo statale in campo economico-sociale, riconducibili
principalmente al governo del ciclo economico e all’intento di ridurre le disuguaglianze di reddito tra
individui. Nel primo caso si sono sviluppate politiche keynesiane dirette a contrastare le fasi della crisi
economica attraverso la crescita della spesa pubblica, con l’intento di mantenere alta la domanda interna e
quindi di garantire uno sbocco ai prodotti delle imprese. Contrastando gli effetti negativi del ciclo
economico attraverso la spesa pubblica in investimenti, lo Stato dovrebbe evitare la disoccupazione,
garantendo un lavoro e un reddito alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini. Nel secondo caso si
sono sviluppate politiche di tipo regolativo, atte appunto a disciplinare i comportamenti di determinate
categorie per mezzo di leggi, e politiche di tipo redistributivo, che distribuiscono risorse finanziarie da
determinate categorie di soggetti in favore di altri. Il mercato, in definitiva, viene riconosciuto e tutelato,
ma lo Stato realizza forme di compensazione per modificare certi risultati prodotti dal mercato, e quindi
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ridurre iniquità e rischi, oppure interviene nel mercato correggendone certe dinamiche.
La Costituzione Italiana non usa espressamente il termine ‘Stato Sociale’, ma delinea comunque uno
Stato che interviene attivamente nella sfera economica correggendo il mercato e compensando alle
disuguaglianze derivanti dalla sola logica economica dello scambio.
La Costituzione Italiana è un chiaro esempio di compromesso sul quale si è costituito lo Stato Sociale. Da
un lato riconosce e garantisce la proprietà privata e la successione legittima e testamentaria (art. 42), il
risparmio privato e la libertà di iniziativa (artt. 47 e 41) e l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di
fronte alla legge (art. 3.1).
Dall’altro prevede l’esistenza di doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2) e riconosce che
è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di qualsiasi ordine che limitino la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini (art. 3.2), garantire a tutti il diritto di lavoro e rendere effettivo questo diritto
(art. 4).
Omogeneità e differenze tra gli Stati di democrazia pluralista
La sufficiente omogeneità degli ordinamenti che nella seconda metà del novecento hanno dato vita
all’insieme delle c.d. democrazie occidentali, permette di elaborare il modello ‘Stato di democrazia
pluralista’: ma tutto ciò non deve fare sottovalutare come tra gli Stati riconducibili al modello, insieme a
tante affinità e a principi sostanzialmente uniformi, permangano alcune differenze. Una delle principali
riguarda quella relativa al ruolo ed ai caratteri dei partiti politici. Mentre in Europa l’esperienza
costituzionale è rimasta contrassegnata dal fondamentale ruolo dei partiti politici, per quanto riguarda gli
Stati Uniti, essi solo inizialmente sono stati una complessa organizzazione in grado di realizzare la
mobilitazione dell’elettorato di massa e di riuscire così a dirigere l’azione dello Stato. Successivamente i
partiti americani si sono trasformati in ‘macchine elettorali’ al servizio del candidato, privi di precisa
identità ideologica e di significative differenze programmatiche. La loro attività si concentra nelle
campagne elettorali e così dopo le elezioni essi perdono gran parte del loro ruolo e non sono in grado di
controllare le attività degli eletti, con conseguente fluidità delle maggioranze parlamentari. Lo sviluppo
politico-istituzionale americano ha visto, quindi il graduale rafforzamento della Presidenza che ha
acquisito canali autonomi rispetto ai partiti. Ciò nonostante, non si è determinato un venir meno del
pluralismo sociale, che anzi conosce, nell’esperienza americana, la sua massima esaltazione: vi è una
diversa formazione del pluralismo, fatto da associazioni con finalità particolari, chiese e gruppi di
promozione di interessi specifici.
Altra importante differenza è quella relativa all’omogeneità o all’eterogeneità della cultura politica: in
alcuni Paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, c’è stata un’evoluzione storica che ha portato a condividere
i principi fondamentali della democrazia pluralista; in altri, invece, per ragioni etniche, linguistiche,
religiose e ideologiche, la società è rimasta divisa in settori non comunicanti fra loro. Nei primi il
conflitto politico attiene principalmente alle modalità di ripartizione del reddito nazionale tra individui e
gruppi, che accettano il tipo di società e di regime politico ed economico che vivono; nei secondi, invece,
quando prevalgono le divisioni ideologiche, esistono seri presupposti per un’esplosione violenta del
conflitto e quindi le istituzioni costituzionali devono operare in modo tale da attenuare le differenze e
favorire la coesistenza pacifica della diversità.
Una terza differenza riguarda le modalità di intervento dello Stato nell’economia e nella società: in alcuni
Paesi quest’intervento si è attuato a livelli moderati, mantenendo una ‘dominanza privatistica’ nei
rapporti economici e sociali (USA, Svizzera, Giappone); in altri Paesi hanno avuto una ‘dominanza
pubblicistica’ nell’economia per il prevalere di finalità sociali. Ma a partire dagli anni ’90 del XX secolo,
queste differenze si sono attenuate dato il prevalere di un’economia di mercato concorrenziale e la
privatizzazione delle imprese pubbliche.
A seguito della crisi dello Stato Socialista si è sviluppata una nuova ondata di democratizzazione che
investe ampie zone del pianeta, causando il diffondersi di principi propri delle Costituzioni liberali anche
in gran parte dei Paesi precedentemente retti da sistemi socialisti e nelle zone dell’Africa e dell’Asia.
È tuttavia improprio parlare di trionfo del trionfo del modello costituzionale della democrazia pluralista.
A questo riguardo si considerano tre circostanze: alcuni Paesi (Cina, Corea del Nord, Cuba) hanno
mantenuto il modello di Stato Socialista seppure con notevoli aperture in fatto di riconoscimento della
proprietà privata, di settori privati dell’economia e di apertura al mercato globale. Alcuni Paesi ex-

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socialisti portano comunque uno strascico del vecchio assetto costituzionale: ciò si spiega nel fatto che
questi Paesi non hanno conosciuto una fase precedente di tipo pluralista e di tipo liberale. È il caso della
maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est che avevano subito dei regimi autoritari e che hanno ricevuto
in eredità talvolta il riemerge di tendenze nazionalistiche estremiste.
Ciò è particolarmente marcato quando si afferma la coincidenza dello Stato con il gruppo etnico
maggioritario, con consecutiva soppressione del pluralismo. La tendenza prevalente è quella
dell’affermazione generalizzata di strutture autoritarie e di forte limitazione del pluralismo e della libertà:
i principi della libertà di mercato, della democrazia pluralistica e del costituzionalismo liberale trovano
applicazione relativamente ristretta, in un numero limitato di ordinamenti concentrati principalmente in
Europa e in America.
Lo Stato di democrazia pluralista tra società post-classista e globalizzazione
Come si è visto, lo Stato di democrazia pluralista ha subito notevoli trasformazioni in risposta alle
imponenti evoluzioni sociali degli ultimi secoli. In modo particolarmente sintetico si possono riassumere
questi cambiamenti con le espressioni: 1) società post-classica, 2) crisi fiscale, 3) globalizzazione e 4)
integrazione europea.
La base materiale dello Stato di democrazia pluralista è, in origine, una società divisa in classi ben
individuate. Sulla divisione e sulla contrapposizione classista si fondavano i partiti, che traducevano
questa tendenza in ambito politico, fornendo un’identità collettiva agli individui che aderivano al partito.
A partire dagli ultimi decenni del XX secolo, la società ha conosciuto un considerevole aumento della sua
complessità, spinto soprattutto dal mutamento dei metodi di produzione, dallo sviluppo tecnologico e
dalla globalizzazione. Entra in crisi l’identità collettiva: la società è troppo variegata per fornire il
riconoscimento necessario all’aggregazione di numeri considerevoli di individui; inoltre, aumentano gli
interessi e l’appartenenza di classe non ha più valore. Alla fine, i singoli gruppi sociali iniziano a chiedere
risposte particolari e provvedimenti favorevoli ai loro interessi agli organi costituzionali: lo Stato, più che
ridistribuire la ricchezza, si limita a distribuire risorse tra i vari gruppi cedendo al potere di pressione di
ciascuno di essi. A partire dagli anni ’70 del novecento si è parlato di crisi fiscale dello Stato, in
riferimento alla crescita della spesa pubblica in risposta ai costi delle richieste particolari: in alcuni casi,
questo processo ha determinato una crescita della pressione fiscale con conseguente malcontento diffuso
dai ceti più colpiti. Ne è scaturita una prima spinta al riordino sociale per la riduzione dei costi, alla quel
se n’è aggiunta un’altra, conseguenza della globalizzazione.
Quest’ultima che, come si è visto, permette lo spostamento territoriale relativamente facile di capitali e
attività alla ricerca delle condizioni migliori ai fini dell’investimento; da questa situazione derivano
almeno tre conseguenze importanti ai fini dell’analisi che stiamo svolgendo:
a) lo Stato, per evitare la ‘fuga’ di capitali e imprese non può spingere la pressione fiscale oltre
certi limiti;
b) lo Stato deve cercare di avere una finanza pubblica sana, evitando gli eccessi di liquidità e quindi
l’inflazione, ma anche l’eccessivo indebitamento che sottrae risorse al settore privato. Ciò pone
limiti ingenti alla crescita della spesa pubblica e perciò rende più difficile sia il finanziamento
dei servizi di natura sociale, sia l’attuazione delle politiche keynesiane;
c) le imprese chiedono sempre maggiore flessibilità, ovvero minori vincoli legali sul terreno della
disciplina del rapporto di lavoro e della protezione sociale dei lavoratori.
Tutte queste spinte hanno un’origine e un risultato comune: il mantenimento della competitività del
sistema economico nazionale e la riduzione dei fondi per l’attuazione dello Stato sociale. Con l’avvio
dell’Unione economica e monetaria, poi, gli Stati partecipanti hanno accettato vincoli al rapporto tra il
loro debito pubblico e il PIL e tra il disavanzo ed il PIL: ciò equivale a ridurre la possibilità di crescita
della spesa pubblica, anzi comporta una riduzione della stessa. Lo Stato è costretto a ridurre la spesa
pubblica e a comprimere le prestazioni oggetto dei diritti sociali: essi sono detti “finanziariamente
condizionati” poiché, come afferma la Corte Costituzionale, la loro attuazione è un compromesso del
bilanciamento tra l’interesse da tutelare e gli interessi costituzionali.
Una delle più importanti sfide che viene posta allo Stato, in particolare nei Paesi occidentali, è la crisi del
debito sovrano. Prima dell’affermazione della globalizzazione economica, l’economia nazionale veniva
stimolata con la spesa pubblica (diretta ad aumentare l’occupazione e la domanda interna), finanziata dal
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disavanzo di bilancio (finanziato dal debito pubblico). L’affermazione della globalizzazione, unita alla
prevalenza di politiche orientate a favore del mercato, ha spinto alla contrazione della spesa pubblica e
alla riduzione dell’indebitamento pubblico. Gli obiettivi però sono stati mancati per effetto di fattori
diversi.
Il risultato è che gli stati sono stati costretti ad applicare politiche di forte rigore finanziario, con tagli
della spesa pubblica. Alla fine l’autonomia politica dello Stato ne risulta fortemente compressa: ciò
avviene soprattutto nei Paesi aderenti all’UE, che hanno accettato rigorosi vincoli ai loro bilanci e si sono
sottoposti al controllo delle istituzioni europee.
L’esigenza di maggior rigore finanziario conduce alla ricerca di forze di razionalizzazione e riordino
dello Stato sociale e di nuove modalità di soddisfacimento dei diritti sociali che costino di meno al
bilancio statale. La tendenza è quella di adeguare lo Stato sociale alle esigenze della competitività
internazionale, trasformandolo in Stato sociale competitivo. Tra le strade possibili per razionalizzare lo
Stato sociale, si segnalano:
a) in primo luogo si supera il carattere universalistico di alcuni servizi erogati dallo Stato sociale,
limitandone la tendenziale gratuità solo ai soggetti meno abbienti, mentre gli altri concorrono in
relazione al livello di reddito di cui godono (c.d. ticket);
b) in secondo luogo si fa leva sul senso di responsabilità individuale, per cui si consente la
creazione di fondi di risparmio sussidiari a quelli già garantiti dallo Stato, come i fondi
pensionistici sussidiari o i fondi assicurativi;
c) in terzo luogo si ricorre al principio di sussidiarietà che si sviluppa lungo due direttrici: 1)
decentrare la gestione di alcuni servizi pubblici ad enti locali: essi sono più vicini ai cittadini,
potendo così controllare meglio la qualità dei servizi e i relativi costi (c.d. sussidiarietà
verticale); 2) attribuire alcuni compiti propri dello Stato sociale a formazioni sociali senza scopo
di lucro, appartenenti al cosiddetto ‘terzo settore’, che forniscono le prestazioni con una qualità
migliore ad un costo minore; lo Stato interviene comunque con incentivi (c.d. sussidiarietà
orizzontale); 3) c’è il tentativo di attrarre a livello sovranazionale alcuni compiti propri dello
Stato sociale.
L’idea alla base di quest’ultima tendenza è che, se i limiti all’azione dello Stato sociale derivano dalla
globalizzazione, bisogna trasferire una quota di queste politiche specifiche a realtà politiche più ampie in
grado di contrastare gli effetti della globalizzazione. In questa prospettiva si collocano le norme del
trattato UE che inseriscono tra gli scopi di quest’ultima l’economia sociale di mercato e la coesione
economica e sociale e le innovazioni introdotte dal trattato di Amsterdam nel complesso normativo del
trattato CE.
I caratteri dello Stato di democrazia pluralista
Come si è visto lo Stato di democrazia pluralista copre un vasto spettro di esperienze politico-
costituzionali, ognuna con proprie caratteristiche, e che perciò presentano tra loro differenze anche
notevoli. Volendo riunificare queste esperienze in un modello unitario, che tenga conto soprattutto della
fase più recente, possiamo sintetizzarne i tratti peculiari nel modo seguente:
a) lo Stato di democrazia pluralista si basa sul suffragio universale, la segretezza e la libertà del
voto, le elezioni periodiche e il pluripartitismo. Le Costituzioni degli Stati che adottano questo
modello contengono le più ampie garanzie del pluralismo politico, sociale, economico, religioso,
culturale, ecc. L’insieme di queste garanzie presuppone l’accoglimento del principio di
tolleranza, cioè del principio secondo cui il dissenso non può essere represso, ma garantito.
Questa esigenza ha portato, in alcuni ordinamenti, al divieto di costituire certe organizzazioni
politiche che si pongono ed operano come ‘nemici’ della democrazia (la XII disposizione
transitoria e finale della Costituzione italiana vieta la ricostruzione del partito fascista);
b) il pluralismo costituzionalmente garantito non è solo di idee e di valori, ma è anche pluralismo di
formazioni sociali e di formazioni politiche. Le prime operano per la realizzazione degli interessi
comuni ai loro componenti; le seconde hanno come finalità il controllo del potere politico al fine
di imprimere un determinato indirizzo alla società nella sua interezza. Il pluralismo trova la sua
garanzia nel riconoscimento delle libertà costituzionali di associazione, di formazione di partiti
politici, sindacale, di confessione religiosa, ecc. La differenza principale con lo Stato liberale è
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che in questo caso fra l’individuo e lo Stato si inserisce il diaframma delle formazioni collettive;
c) attraverso il pluralismo dei centri di potere si raggiungono due obiettivi principali: 1) si limita il
potere dello Stato, costretto al confronto con essi; 2) attraverso le formazioni sociali ed i partiti
politici si creano canali di partecipazione diretta e permanente dei cittadini alla vita politica,
sicchè essi sono in grado di esercitare una pressione sugli organi costituzionali per ottenere
provvedimenti che soddisfino le loro esigenze. A questo punto si crea il problema di come
organizzare il pluralismo per evitare che le molteplici pressioni degli interessi ne producano la
paralisi: all’inizio, una risposta è stata data dalla capacità unificante dei partiti di massa, dalla
loro capacità di sintetizzare più interessi inserendoli in un programma organico di azione. Poi,
mano mano che tale capacità unificante è diminuita, su accorgimenti istituzionali che facilitano
la selezione degli interessi, tra cui particolarmente il rafforzamento del ruolo del Governo;
d) l’affermazione del pluralismo supera l’ideologia dell’interesse generale, per approdare ad una
concezione nuova di esistenza di valori differenti. Le costituzioni, specchio di questo fenomeno,
riconoscono e tutelano principi tra loro in conflitto. Tali principi, nell’attuazione concreta,
richiedono forme di contemperamento in ordine alle quali si parla di bilanciamento;
e) tra le conseguenze vi è il fatto che, solamente attraverso il confronto fra le idee e le opinioni
diverse si possa raggiungere una concezione particolare dell’interesse generale, anch’essa
comunque suscettibile di critica e di superamento, a favore di una diversa concezione dello
stesso. Le democrazie pluraliste assicurano la più ampia garanzia alla libertà di manifestazione
del pensiero ed al pluralismo dei mezzi di comunicazione: è anche grazie a queste garanzie che si
forma la sfera pubblica, distinta da quella dei partiti e da quella politico elettorale. Essa, tuttavia,
possiede un forte ascendente sulla politica, poiché forma le idee, le opinioni ed i programmi che
poi alimentano sia le proposte dei partiti, sia la vita del Parlamento.
Conseguentemente alle dinamiche sopra elencate si assiste ad un radicale mutamento dei ruoli del
Parlamento rispetto a quanto avveniva nello Stato liberale: precedentemente il Parlamento era
semplicemente il luogo dove, attraverso la discussione razionale, i parlamentari, liberi da qualsiasi
vincolo con l’elettorato, decidevano come dovesse essere perseguito l’interesse nazionale. Ora invece le
idee e gli indirizzi si formano prevalentemente all’esterno dei Parlamenti e vengono poi trasferiti nella
loro attività. Almeno inizialmente, i partiti mantengono, nello Stato di democrazia pluralista, il ruolo di
filtro necessario tra la sfera pubblica e il Parlamento; più recentemente, invece, questa acquista maggiore
autonomia e finisce, con modalità diverse, ad interrogare direttamente gli organi costituzionali. Per porre
rimedio alle pressioni particolaristiche si è sviluppata la tendenza al rafforzamento del ruolo del Governo,
attraverso sia crescita dei poteri e sia attraverso una maggiore legittimità (scelta popolare del capo del
Governo). Di fatto il Parlamento ha perso il monopolio delle decisioni su questioni politicamente
rilevanti, in favore delle istituzioni europee e del Governo.
La rappresentanza politica
Nella nozione di rappresentanza politica confluiscono due significati, che si collegano a contesti storici
diversi: da un lato questo termine presuppone un ‘agire per conto di’, che pone in essere un rapporto tra
rappresentante e rappresentato, per cui il secondo sulla base di un atto di volontà detto mandato, dà al
primo il potere di agire nel suo interesse. Dall’altro, invece, indica l’azione di chi, in un determinato
ambito, pone in essere qualcosa che in realtà non c’è: il rappresentante, in questo caso, dispone di una
condizione autonoma rispetto al rappresentante. Nel primo caso siamo in epoca medioevale o comunque
pre-liberale, e nell’ambito di una società rigidamente suddivisa in ceti, i quali necessitavano di un modo
per interloquire col sovrano: per indicare tale specie di rappresentanza si usa l’espressione di
rappresentanza di interessi. Ciò significa che il rappresentante sia tenuto ad agire nell’interesse del
rappresentato, con cui corre un rapporto di mandato imperativo. La società liberale ha cancellato i corpi
intermedi e introdotto singoli individui uguali di fronte alla legge; la rappresentanza politica doveva
soddisfare esigenze nuove:
 doveva essere mezzo tecnico utilizzato per formazione di un’istituzione che agisse nell’interesse
generale;
 doveva arginare tendenze assolutistiche e, al contempo, l’evoluzione democratica radicale del
sistema, temuta dalla classe borghese;

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Questi principi trovano perfetta attuazione nella Costituzione francese del 1791: la sovranità era tolta al
Re, ma non attribuita al popolo, bensì ad un’entità astratta: la Nazione. Essa non poteva agire
direttamente e perciò, come specificava la Costituzione, esercitava i suoi poteri per delegazione, tramite
rappresentanza. Da questa costruzione costituzionale derivavano importanti implicazioni:
a) se i parlamentari erano scelti per decidere in nome e per conto della Nazione, la Costituzione
doveva assicurarsi che le modalità di elezione fossero tali da garantire che gli elettori fossero in
grado di scegliere i soggetti più idonei per curare l’interesse generale. L’elettorato attivo non era
perciò configurato come un diritto soggettivo, ma come una funzione pubblica conferita dalla
Costituzione nell’interesse della Nazione: ne derivava il restringimento dell’elettorato attivo per
ragioni di censo e di capacità. Si dava un fondamento costituzionale al suffragio limitato
assicurando la permanenza dello Stato monoclasse;
b) i parlamentari non dovevano curare l’interesse del loro collegio elettorale, ma quello della
Nazione;
c) sempre in favore dell’interesse generale al parlamentare non potevano essere fornite istruzioni
particolari su come agire. Si introdusse, così, il divieto di mandato imperativo, recepito da tutte
le Costituzioni di età liberale e anche dalla Costituzione italiana (art. 67) seppure con significato
diverso.
È utile chiarire che per responsabilità politica si intende quella del soggetto con autonomia politica
rispetto al soggetto rappresentato: egli risponde per eventuali inadempienze e/o cattive conduzioni, pena
la revoca del potere. Nello Stato liberale questo sistema era limitato in ambito statale, essendosi affermata
come responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento. Nello stato di democrazia pluralista
sempre più spesso il termine di riferimento è il corpo elettorale, chiamato a giudicare soggetti politici
divenuti politicamente responsabili nei suoi confronti.
La rappresentanza politica nello Stato di democrazia pluralista
La rappresentanza è sorta nel contesto di uno Stato a base sociale ristretta (lo Stato monoclasse), nel
quale l’autonomia rappresentativa e il divieto di mandato imperativo non escludevano che fossero
adottate leggi e politiche coerenti con gli interessi degli elettori: la legittimazione legale-razionale poteva
funzionare nel presupposto che le leggi, in relazione a questa omogeneità, venivano comunque ritenute
giuste. Invece, nelle democrazie pluraliste si afferma il principio della sovranità popolare, che esige che il
potere politico si basi sul consenso del popolo: in questo sistema gli interessi sociali premono sullo Stato
per avere risposte ai rispettivi bisogni ed a tal fine si organizzano stabilmente per ottenere dai parlamenti
leggi e politiche adeguate alle loro differenti esigenze. Ma, in regime di suffragio universale, questi
interessi sono molteplici, eterogenei e spesso conflittuali. Il problema di fondo che i sistemi
rappresentativi delle democrazie pluraliste hanno dovuto affrontare è questo: come assicurare la capacità
del sistema di decidere (c.d. governabilità)senza che venga meno la legittimazione democratica dello
Stato, la quale presuppone il libero e genuino consenso popolare? Il problema può essere risolto mettendo
insieme e facendo convivere i due aspetti della rappresentanza politica: la rappresentanza come rapporto
con gli elettori e la rappresentanza come titolo di esercizio autonomo del potere, che assicuri la possibilità
di prendere decisioni e scongiuri la paralisi del sistema. Il modo in cui questo equilibrio si è realizzato
varia da sistema a sistema, ma volendo sintetizzare le diverse esperienze, tali modalità sono riconducibili
alle seguenti ipotesi:
1) lo Stato dei partiti. La prima soluzione ha fatto leva sulla doppia virtù dei partiti politici: da un
lato la capacità di assicurare un filo diretto tra elettori e rappresentanza, superando la tradizionale
critica dei sistemi rappresentativi mossa per primo da J.J. Rousseau, secondo cui il popolo è
sovrano quando vota, ma poi torna ad essere schiavo; dall’altro, la possibilità di trascendere
dagli interessi particolari e compiere una sintesi politica, che permetta di superare il contrasto e
decidere. A questo punto, veri soggetti di rappresentanza politica diventano i partiti, con
conseguente necessità di reintrodurre il mandato imperativo di origine partitica. Bisogna avere
chiaro, comunque, che la centralità dei partiti nei sistemi rappresentativi delle democrazie
pluralistiche non è un dato di fatto, ma è il frutto di precisi riconoscimenti costituzionali e di una
legislazione di sostegno ai partiti stessi.
Come recita l’articolo 67, nella legislazione italiana ‘ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione
ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato’. Ciò nonostante la prassi figura l’affermazione della
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disciplina di partito: molti aspetti legislativi sono stati oggetto di voto da parte di parlamentari uniformati
alle direttive di partito. Negli anni ’60 si diffuse una critica a tali comportamenti e si coniò il termine
‘partitocrazia’. L’art. 67 deve essere interpretato sistematicamente insieme con gli artt. 49.1 e 94 della
Costituzione: il primo costituzionalizza il ruolo dei partiti, e collegandolo all’art. 1 qualifica i partiti come
i principali strumenti di esercizio della sovranità popolare. L’art. 94, invece, impone che la votazione
della mozione di fiducia e quella di sfiducia avvenga per appello nominale, un modo che permette un
maggiore controllo dei partiti sul comportamento dei parlamentari. Da tale quadro complessivo è partita
la Corte costituzionale quando ha detto che il ‘divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare
è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma
potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli
abbia votato contro le direttive del partito’. L’art. 67 viene a configurarsi come una norma di garanzia nei
confronti dei parlamentari: da un lato rende inefficace a livello statale eventuali sanzioni del partito al
parlamentare indisciplinato; dall’altro consente al parlamentare dissidente di cambiare gruppo politico nel
corso della legislatura.
La funzionalità del collegamento dei partiti con la società perciò dipende strettamente dalla effettiva
democraticità interna ai partiti, ossia dalla possibilità che essi siano concretamente sede di partecipazione
popolare.
Si è sviluppata, di pari passo con la democrazia di massa, la tendenza critica di considerare i partiti come
delle strutture oligarchiche, dominate da capi irremovibili che scelgono i candidati indipendentemente dal
gradimento che essi riscuotono negli elettori. La soluzione è disciplinare le procedure di scelta dei
candidati alle cariche: in questa prospettiva c’è chi richiama all’esperienza statunitense delle elezioni
primarie, in cui gli elettori scelgono i candidati direttamente o indirettamente, attraverso l’elezione dei
delegati nelle assemblee; esse si distinguono in aperte o chiuse a seconda che alle elezioni possano
partecipare o meno anche soggetti non iscritti al partito.
Si parla oggi di crisi dei partiti sia sul piano dei loro rapporti con la società sia su quello della loro
capacità effettiva di decidere: le cause di questa crisi sono molteplici. In modo sintetico si può osservare
come all’origine della fortuna dei partiti sociali di integrazione ci fosse un legame di integrazione che
tiene insieme la base ed il vertice del partito, ovvero l’adesione ad una particolare sub-cultura. Le società
contemporanee sono diventate più complesse ed è diventata quasi impossibile la loro distinzione in pochi
settori: è cessato il legame di stabile appartenenza che legava individui e partiti. Così, i partiti hanno
perduto il monopolio della rappresentanza e non sempre riescono a comporre i diversi interessi sociali in
una sintesi politica: il risultato è una pioggia di richieste disordinate e dirette agli organi costituzionali e
una consecutiva perdita di consenso;
2) il rafforzamento del Governo e l’investitura popolare diretta del suo Capo. Sono entrambe
soluzioni alla crisi sopra citata: esse perseguono il duplice obiettivo di porre al riparo il potere
esecutivo dalle pressioni particolaristiche e allo stesso tempo di farlo considerare legittimo
poiché il capo dell’esecutivo è scelto direttamente dal popolo. Tendenzialmente i due aspetti
della rappresentanza fanno capo ad organi costituzionali distinti: il Parlamento diventa sede della
rappresentanza- rapporto con i singoli collegi elettorali, mentre il Governo è deputato alla sintesi
degli interessi particolari, riflesso dell’interesse generale. Per il modo in cui adempie questa
funzione il Governo, di diritto o di fatto, diventa politicamente responsabile nei confronti
dell’intero corpo elettorale;
Questi aspetti nuovi mantengono comunque il carattere rappresentativo della democrazia: è ancora ben
marcata la distinzione tra governanti e governati. In casi limite tuttavia, crisi dei partiti e investitura
popolare del Governo sfociano in una democrazia plebiscitaria: ovvero il potere personale di un capo
basato su un rapporto diretto col popolo e su una legittimazione di tipo carismatico. Il potere personale
non è dispotico ma risultato di un consenso attivo popolare; esso tende a non tollerare i limiti giuridici e
si esprime liberamente nella misura in cui gode del consenso popolare. Il potere che ne deriva è sintesi
dell’infallibilità del popolo e, perciò, superiore a qualsiasi altro organo costituzionale. I sistemi
rappresentativi perciò si trovano in equilibrio fra le oligarchie dei partiti e la democrazia plebiscitaria,
risultato fisiologico della personalizzazione del potere, oggi esaltata dal ruolo della comunicazione di
massa;
3) gli assetti neocorporativi. Nelle democrazie pluraliste essi sono molto diversi dal corporativismo

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fascista: essi si affiancano ma non sostituiscono il sistema rappresentativo, rimediando alle sue
insufficienze; inoltre non sono una creazione statale, ma sorgono spontaneamente dalla società.
Il Governo tende a negoziare il contenuto dei principali provvedimenti riguardanti l’economia
con i sindacati dei lavoratori subordinati e con le associazioni degli imprenditori, dando vita ad
un tavolo triangolare, e ottenendo da questi determinati comportamenti;
4) la rappresentanza territoriale. Si tratta dell’istituzione di una seconda camera a base territoriale ,
in cui sono rappresentati direttamente gli enti territoriali (Stati federali, Regioni, ecc.);
5) la sottrazione della decisione al circuito rappresentativo. Si esclude dalla regolamentazione e dal
controllo di certi aspetti il circuito rappresentativo e li si affida ad autorità amministrative
indipendenti, autonome rispetto al circuito democratico-rappresentativo;
6) il passaggio ad una democrazia diretta, senza intermediari. Prevalentemente si attua attraverso la
manifestazione della volontà del cittadino grazie alle nuove tecnologie informatiche e
all’affermazione di Internet.
Democrazia diretta e democrazia rappresentativa
Particolare importanza assume, nel fronteggiare la crisi dei sistemi rappresentativi dei sistemi
costituzionali moderni, il ricorso ad istituti di democrazia diretta. Questi istituti affiancano e non
sostituiscono il sistema rappresentativo, assicurando la partecipazione del popolo alle decisioni che
riguardano la collettività, colmando la distanza tra il popolo e l’autorità statale. Questo espediente
affronta la risoluzione della ‘crisi della legittimità’, ossia la perdita di fiducia del popolo in ordine alla
corrispondenza delle decisioni pubbliche ai suoi effettivi interessi, contrariamente agli altri (sopra
elencati) che risolvono il problema della ‘governabilità’.
La ‘libertà degli antichi’ consisteva nella partecipazione attiva e costante al potere politico, per cui la
democrazia era diretta. L’individuo era sovrano nei rapporti pubblici ma schiavo in quelli privati: ciò si
traduceva nella mancanza di libertà di opinione, di religione eccetera. La base sociale della democrazia
diretta doveva essere, quindi, necessariamente di ridotte dimensioni. La ‘libertà dei moderni’ che si
afferma con lo Stato liberale e rappresentativo consiste, anzitutto, nell’attribuzione all’individuo di una
sfera di autonomia personale e nella protezione dei suoi beni. Con l’affermazione dello Stato di
democrazia pluralista i tradizionali meccanismi rappresentativi sono affiancati da istituti di democrazia
diretta, che consentono un’integrazione del sistema, comunque basato sulla rappresentanza politica.
Gli istituti di democrazia diretta si riducono soprattutto ai seguenti: 1) l’iniziativa legislativa popolare; 2)
la petizione; 3) il referendum. Nel primo caso la Costituzione attribuisce il potere di esercitare la funzione
legislativa ad un certo numero di cittadini (cinquantamila elettori secondo l’art. 71). La petizione, invece,
consiste nell’avanzare una determinata richiesta agli organi parlamentari o di Governo per sollecitare
determinate attività. Tuttavia essa ha limitatissimi effetti pratici: puro carattere esortativo ma non
produttore di effetti giuridici rilevanti. Il diritto di petizione è garantito a tutti i cittadini e tutelato dall’art.
50 Cost. il più importante strumento di democrazia diretta è il referendum, che consiste in una
consultazione dell’intero corpo elettorale produttiva di effetti giuridici.
Dei referendum si fanno numerose classificazioni: in relazione all’oggetto si distinguono i referendum
costituzionali, legislativi, politici e amministrativi. I referendum costituzionali, che hanno ad oggetto un
atto costituzionale, si suddividono:
 referendum precostituente, quando il voto popolare ha come oggetto l’atto fondativo del nuovo
Stato (ad esempio la previsione di convocare un’Assemblea costituente);
 referendum costituente, quando il voto popolare interviene sul testo di una nuova Costituzione
predisposto da un’Assemblea costituente, ovvero dal Parlamento o da altri organi, per approvarlo
o respingerlo;
 referendum di revisione costituzionale, che, a differenza dei precedenti, in cui il popolo opera
come ‘potere costituente’, ha come oggetto la modifica parziale o l’integrazione della
Costituzione, e perciò è espressione del potere costituito.
Il referendum legislativo storicamente è nato in Francia e si è affermato in Svizzera; oggi è previsto dalla
maggior parte delle Costituzioni europee. Può essere:
 obbligatorio, quando l’atto di indizione della consultazione popolare si configura come atto

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dovuto;
 facoltativo, se è subordinato all’iniziativa da parte di uno dei soggetti che è a ciò legittimato. In
questo caso si distingue in:
 attivo, quando la consultazione è promossa da un certo numero di cittadini, configurandosi
come strumento di partecipazione popolare ad integrazione dei circuiti rappresentativi;
 passivo, quando è promosso da un organo dello Stato, configurandosi come strumento di
garanzia per la minoranza parlamentare contro il rischio della ‘tirannia della maggioranza’,
ovvero come mezzo di ‘arbitraggio’ del conflitto politico insorto tra organi costituzionali, o
ancora come modalità di legittimazione della decisione adottata.
Il referendum, inoltre, può essere preventivo o successivo, a seconda che il voto popolare intervenga
prima o dopo l’entrata in vigore dell’atto che ne forma oggetto. Il referendum costituzionale è sempre di
tipo preventivo perché la consultazione popolare ha senso in quanto interviene prima dell’entrata in
vigore di una nuova Costituzione o di una sua modifica, per assicurarne la legittimazione democratica.
Un particolare tipo di referendum preventivo è quello di indirizzo, che si ha quando il corpo elettorale di
proposta in via preliminare su un principio o su una proposta formulata in termini molto generali, i quali
dovranno avere attuazione da parte del Parlamento. La Costituzione italiana prevede quattro tipi di
referendum:
1. il referendum di revisione costituzionale , che ha carattere eventuale e si può inserire nel
procedimento di revisione costituzionale. Analogo è il referendum anch’esso eventuale, che si
inserisce nel procedimento di formazione degli Statuti delle Regioni ordinarie e delle ‘leggi
statutarie’ delle Regioni speciali. È detto anche referendum approvativo o sospensivo;
2. referendum abrogativo, di una legge o di un atto avente forza di legge, già in vigore, il quale ha
carattere eventuale e successivo;
3. referendum consultivo, previsto dagli artt. 132 e 133 per la modificazione territoriale di Regioni,
Province e Comuni;
4. referendum abrogativi o consultivi su leggi e provvedimenti amministrativi delle Regioni, che
possono essere disciplinati e previsti dagli Statuti regionali. Inoltre, la legge ordinaria ha
demandato agli statuti dei Comuni e delle Province la competenza a prevedere e disciplinare
forme di consultazione della popolazione e referendum consultivi su richiesta di un adeguato
numero di cittadini, relativi a materie di esclusiva competenza locale.
Negli ultimi anni, con la crisi dei partiti, il referendum è stato largamente utilizzato in tutte le democrazie
pluralistiche. Tuttavia va sottolineato come sia difficile la convivenza tra sistema rappresentativo, che si
fonda sulla distinzione tra rappresentanti e rappresentati, e democrazia diretta, che viene posta in essere
dal ricorso al referendum e che si fonda sul principio di identità tra governanti e governati: in primo
luogo la richiesta può sprigionare un’ incontrollabile carica antagonistica nei confronti delle istituzioni e
la loro conseguente delegittimazione; in secondo luogo la forma stessa con la quale viene formulata la
domanda può essere appositamente ambigua o poco chiara o addirittura condizionante per il corpo
elettorale. Al fine di evitare questi espedienti l’art. 75, ultimo comma della Costituzione garantisce i
limiti di ammissibilità del referendum. La separazione dei poteri
Il modello liberale
Il principio della separazione dei poteri è stato ideato dal costituzionalismo liberale con l’obiettivo di
limitare il potere politico e tutelare le libertà degli individui. La sua iniziale teorizzazione si deve a
Montesquieu, il quale scriveva che ‘se il fine dello stato è quello di garantire la libertà politica, i poteri
devono essere tre e tra di loro distinti’. I tre poteri sono: a) potere legislativo, che consiste nel porre le
leggi, le norme giuridiche astratte; b) potere esecutivo, che consiste nell’applicare le leggi internamente
allo Stato e nel tutelarlo dalle minacce esterne; c) potere giudiziario, che consiste nell’applicare le leggi
per risolvere controversie
Fra gli aspetti caratterizzanti la dottrina della separazione dei poteri si possono sinteticamente ricordare:
Attribuzione ad ogni potere in senso oggettivo (costituito da un complesso di organi) di una funzione
pubblica ben individuata e distinta dalle funzioni attribuite ad altri poteri. Gli aspetti caratterizzanti la
dottrina della separazione dei poteri possono essere sintetizzati così:

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 c’è l’attribuzione ad ogni potere in senso oggettivo, costituito da un complesso unitario di organi, di
una funzione pubblica ben individuata e distinta dalle funzioni attribuite agli altri poteri;
 è fondamentale che ogni funzione sia assegnata ad un potere distinto, poiché se più funzioni fossero
assegnate in capo allo stesso soggetto, questi potrebbe facilmente adottare leggi tiranniche, applicare
norme generali nella risoluzione di una controversia e ricorrere a regole arbitrarie;
 i poteri, seppure distinti, devono potersi frenare reciprocamente in modo da limitare l’uno gli eccessi
dell’altro, in un sistema detto di pesi e contrappesi.
Questa dottrina ha trovato piena applicazione nell’ordinamenti costituzionale statunitense dove i tre
poteri seppure distinti sono giuridicamente separati ed indipendenti. Nella forma di governo
presidenziale: il Presidente ed il Congresso (potere esecutivo e legislativo) sono eletti separatamente dal
corpo elettorale ed esercitano funzioni distinte. Il Congresso non può votare la sfiducia al Presidente e
quest’ultimo non ha possibilità di sciogliere il primo anticipatamente. In Europa la situazione è diversa,
poiché fin dal periodo dello Stato liberale la separazione dei poteri ha un’applicazione più temperata. Si
considerano due elementi:
1. l’affermazione della forma di governo parlamentare. In questa forma i due poteri esecutivo-
legislativo sono strettamente collegati poiché il Governo deve godere della fiducia del
Parlamento che deve votargli la fiducia e può costringerlo alle dimissioni. Tale assetto
costituzionale conduce ben presto all’affermazione di una maggioranza politica stabile che dà la
fiducia al Governo e approva le leggi in Parlamento: i due organi finiscono per essere collegati
strettamente dalla maggioranza, che li rende politicamente omogenei;
2. la tendenza per la quale un determinato potere esercita una funzione tipica di un altro. In
numerosi Stati liberali il Governo adotta regolamenti, atti che secondo il modello originario
dovrebbero appartenere al potere legislativo. In altri casi, per esempio con l’approvazione della
legge sul bilancio, il Parlamento adotta atti che non contengono norme generali.
La spiegazione a questi fenomeni arriva dalla cosiddetta teoria formale-sostanziale della separazione dei
poteri secondo la quale occorre distingue il potere in senso oggettivo (funzioni dello Stato) e il potere in
senso soggettivo (complesso unitario di organi). Le funzioni sono tre e si distinguono secondo criteri
formali e materiali. Le tre funzioni secondo criteri materiali:
a) funzione legislativa pone norme generali e astratte;
b) funzione esecutiva consiste nella cura concreta di pubblici interessi;
c) funzione giudiziaria applica le norme per risolvere una controversia.
Applicando i criteri formali, le funzioni vengono distinte con riferimento al potere soggettivo che le
esercita, seguendo le modalità formali che lo caratterizzano:
a) potere legislativo esercita la funzione formalmente legislativa (attraverso atti di regola con forma
di legge);
b) potere esecutivo esercita la funzione formalmente esecutiva (attraverso atti che hanno la forma
del decreto);
c) potere giudiziario esercita la funzione formalmente giudiziaria (attraverso atti che hanno la
forma della sentenza).
In linea di massima ciascun potere assolve a funzioni uguali sia sul piano materiale che sul piano formale.
Questa tendenza non è sempre rispettata e, in alcuni casi, il potere esercita una funzione che è tipica di un
altro. È il caso dei regolamenti del Governo, con i quali esso assolve a funzioni sostanzialmente
normative e della legge di bilancio del Parlamento con la quale esso assolve a funzioni sostanzialmente
esecutive. Si dice che il Governo esercita funzione formalmente esecutiva ma materialmente legislativa
mentre si dice che il Parlamento esercita funzione formalmente legislativa ma materialmente esecutiva.
La separazione dei poteri nelle democrazie pluraliste
Tuttavia il principio della separazione dei poteri ha conosciuto modificazioni nel suo significato,
risultanti dalle trasformazioni politico sociali che hanno accompagnato l’affermarsi della democrazia
pluralista. Lo Stato ha allargato il campo dei suoi interventi dal governo dell’economia alla realizzazione
di sistemi di sicurezza sociale, dalla promozione dei beni culturali alla tutela contro la disoccupazione ,

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ecc.; lo stesso processo di ridimensionamento dei servizi dello Stato sociale, di taglio della spesa pubblica
e valorizzazione del ruolo del mercato, si realizza sulla base di programmi politici che richiedono una
molteplicità di azioni dello Stato tra di loro coordinate. Quindi, l’esercizio delle funzioni dello Stato, il
più delle volte, presuppone una preventiva determinazione di obiettivi e fini politici, mentre i singoli atti
di esercizio della funzione legislativa e di quella esecutiva sono gli strumenti tecnici attraverso cui
realizzare tali obiettivi. Perciò, si afferma una quarta funzione, la funzione di indirizzo politico, che
consiste appunto nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della
politica interna ed esterna dello Stato e nella cura della loro coerente attuazione. Questa funzione assicura
una guida coerente delle altre funzioni che vengono tutte orientate per il raggiungimento di fini
predeterminati, come espressamente menzionato nell’art. 95 della Costituzione.
Questa funzione è venuta a condensarsi nell’organo del Governo: esso dispone della legittimità e
dell’organizzazione che gli consente di assumere il ruolo di guida del sistema. Sotto il profilo della
legittimazione esso è in collegamento diretto con i partiti e, in molti assetti costituzionali, anche con
l’elettorato, con i sindacati e le organizzazioni sociali, coi quali può instaurare rapporti diretti; lavora
trattenendo rapporti anche a livello internazionale con altri Stati e con l’UE. Da un punto di vista
organizzativo, la sua capacità decisionale è rapida e snella rispetto a quella macchinosa e relativamente
lenta del Parlamento e inoltre dispone di strutture tecniche e di un efficiente apparato amministrativo.
L’esecutivo, contrariamente al modello liberale, oggi non si limita appunto alla sola esecuzione, ma è un
potere che decide ai fini dell’azione politica, diventa un vero e proprio potere governante. Dopo la scelta
dell’indirizzo e la sua traduzione in atti normativi, gli apparati non si limitano a dare esecuzione alla
legge. Da un lato la legge fissa gli obiettivi (i sociologi del diritto lo definiscono un ‘programma di
scopo’), ma rimette all’amministrazione la scelta degli strumenti per la loro realizzazione; dall’altra,
esistono leggi che disciplinano l’operato dell’amministrazione ma non il contenuto, quindi, di fatto, la
scelta sostanziale non è operata dalla legge bensì dall’amministrazione. In genere, le decisioni
dell’amministrazione hanno un impatto sociale ed economico assai più forte di tante leggi del
Parlamento.
Altra tendenza è quella sviluppatasi in alcuni Stati, per la quale l’amministrazione non può più essere
considerata come un apparato dipendente dal Governo, ma come un’organizzazione unitaria. In
attuazione all’art. 97 della Costituzione è stato introdotta la separazione tra politica e amministrazione, tra
la sfera riservata al Governo e quella dell’amministrazione pubblica. Si crea distinzione tra i poteri di
indirizzo e i poteri di gestione amministrativa. L’amministrazione assume dunque una propria autonomia
giuridica rispetto al Governo, anche se resta collegata al suo indirizzo politico e amministrativo.
L’amministrazione si scompone in una pluralità di apparati tra loro più o meno indipendenti, ciascuno dei
quali ha affidata la cura di determinati interessi, che sono eterogenei e spesso conflittuali con quelli
facenti capo ad altri apparati. Né questi apparati sono solamente statali, vista la grande crescita di
amministrazioni diverse da quella statale, come le amministrazioni delle Regioni e degli enti locali: anche
i compiti sono diversi, tanto che certi apparati agiscono attraverso l’esercizio di potestà pubbliche e
provvedimenti amministrativi (Prefettura, amministrazione di Polizia), altri operano in parità con il
contraente privato ed impiegano i mezzi del diritto privato, altri ancora esercitano compiti consultivi e di
controllo oppure di regolamentazione di certi settori o di determinati mercati.
Le alterazioni rispetto al modello liberale sono ancora più marcate rispetto a quelle ora elencate.
- La funzione legislativa non si caratterizza solo per la produzione di leggi generali e astratte:
spesso assume i caratteri del concreto provvedere, ossia contiene prescrizioni che si riferiscono a
situazioni e soggetti determinati, sicchè si parla di legge provvedimento;
- l’attività interpretativa, propria del potere giurisdizionale assume tratti differenti rispetto al
modello liberale: 1) non è meramente dichiarativa di un diritto che preesiste all’opera
dell’interprete, ma è intrisa di scelte discrezionali. Tra norma generale e situazione particolare
non c’è rapporto logico- deduttivo, ma di integrazione discrezionale; 2) sugli ordinamenti
giurisdizionali ricadono le domande che non hanno avuto risposta nei tradizionali circuiti
rappresentativi, spingendo così i giudici a riconoscere e tutelare ‘nuovi diritti’; 3) la crisi della
legge causata dall’esigenza di compromesso nella produzione di leggi per le diverse categorie
sociali e forze politiche, ha creato norme ambigue e discrezionalmente interpretabili. Tutto ciò
accresce la discrezionalità dei giudici che, chiamati all’interpretazione della legge, in realtà ne
concorrono alla definizione;
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- va aggiunta una nuova funzione: quella della garanzia giurisdizionale della Costituzione,
realizzata nei confronti di tutti i poteri statali, compreso il legislativo. A partire dal XX secolo
questa funzione è divenuta prerogativa di tutti gli ordinamenti di democrazia pluralista, con la
rilevante eccezione del Regno Unito. In Italia essa è associata all’organo costituzionale del
Presidente della Repubblica, distinto e autonomo rispetto al Governo e con la funzione di
garantire gli equilibri costituzionali, senza partecipare all’indirizzo politico.
Cosa resta della separazione dei poteri in una democrazia pluralista, come quella italiana?
1. Rimane operante il principio che pone in essere più poteri tra loro indipendenti. L’assetto
costituzionale stesso tende ad impedire che un apparato organizzativo prevalga sugli altri: il
risultato è addirittura un assetto pluralistico accresciuto rispetto a quello del modello liberale: i
poteri principali non sono più i soli tradizionali (si aggiungono il Presidente della Repubblica e
la Corte Costituzionale). Alla divisione orizzontale del potere viene affiancata una divisione
verticale del potere, attuata dalla costituzione di Stati federali o, come in Italia, Stati regionali, in
cui l’autorità e l’autonomia politica territoriale riducono notevolmente la quota di potere politico
delle autorità centrali;
2. resta la possibilità di distinguere le tre tradizionali funzioni dello Stato, cui si aggiungono quella
di indirizzo politico e quella di garanzia giurisdizionale della Costituzione e, dove esiste, anche
la funzione presidenziale. I criteri di distinzione ed di individuazione delle funzioni si basano
non solo su criteri contenutistici, ma anche su criteri formali, con riferimento cioè alle modalità
con cui vengono esercitate. Perciò la funzione legislativa si distingue perché è esercitata
collettivamente dalle due Camere (art. 70 e artt. 71, 72 e 73 che ne disciplinano i procedimenti).
Invece, la funzione giurisdizionale è caratterizzata dalla posizione di indipendenza del giudice
nei confronti di ogni altro potere e la sua terzietà rispetto alle parti del processo;
3. discorso a parte va fatto per la funzione esecutiva o meglio amministrativa: esistono tante
funzioni attribuite ad amministrazioni pubbliche diverse, sicché è impossibile parlare di una
funzione amministrativa unitaria in senso oggettivo mentre può essere considerata tale solo in
senso soggettivo;
4. una trasformazione parallela è stata anche quella in senso politico oltre che giuridico. Si è creata
infatti una nuova tendenza, con conseguente riconoscimento costituzionale, che ha portato a
dividere il potere politico tra la maggioranza che governa e l’opposizione che controlla.
La regola di maggioranza
La regola di maggioranza che caratterizza il funzionamento dello Stato liberale e della democrazia
pluralistica, assume significati e funzioni diverse:
a) principio funzionale, ossia la tecnica attraverso cui il collegio può decidere;
b) principio di rappresentanza, ossia il mezzo attraverso cui si eleggono il Parlamento e le altre
Assemblee rappresentative;
c) principio di organizzazione politica, ossia il criterio attraverso cui si svolgono i rapporti tra i
partiti politici in Parlamento.
La regola di maggioranza è lo strumento attraverso cui ampie collettività e organi collegiali possono
adottare una decisione: è adottata la decisione che ottiene il numero più elevato di voti o di consensi a
seguito di una votazione. La regola opposta è quella dell’unanimità, che richiede il consenso di tutti i
membri del collegio e che se venisse usata per qualsiasi decisione, porterebbe alla paralisi decisionale del
collegio. Presupposto di questa regola è la sostanziale uguaglianza dei membri del collegio, sicché ogni
voto ha lo stesso valore. Ora, si tratta di un’arma a doppio taglio poiché, se da un lato si evita la
prevaricazione dei pochi sui tanti (eliminando i privilegi del Clero e dell’Aristocrazia nello Stato
liberale), dall’altro il rischio è quello della cosiddetta tirannia della maggioranza, ovvero che i tanti usino
il potere acquisito per eliminare i soggetti in minoranza. La vera distinzione è quella tra maggioranza
politica (cui aderiscono in modo continuativo partiti e parlamentari che intendono sostenere un
determinato indirizzo politico e che, grazie all’operare della regola maggioritaria, possono avere il
controllo del Parlamento) e minoranza politica, dotata anch’essa di stabilità e di persistenza nel tempo. La
regola della maggioranza non può essere applicata se non ci sono le tutele costituzionali necessarie alla
salvaguardia delle minoranze: la tirannia della maggioranza aprirebbe la strada al conflitto violento, alla
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delegittimazione dello stato e alla sua disgregazione. Al riguardo dell’ordinamento italiano le minoranze
vengono tutelate attraverso numerosi strumenti:
1) rigidità della costituzione. Riconosce certi diritti ai cittadini e limita il potere della funzione
legislativa garantendo un effettivo pluralismo;
2) attribuzione alla Corte Costituzionale della facoltà di giudicare sulla legittimità delle leggi;
3) la previsione che, per prendere determinate decisioni, non basta la maggioranza semplice o relativa
(numero più alto di voti espressi), ma occorrono quorum deliberativi più elevati: come la
maggioranza assoluta (metà + 1 dei membri del collegio) o la maggioranza qualificata
(corrispondente ad una porzione consistente dei membri del collegio, per esempio i 2/3). Prevedendo
quorum deliberativi o funzionali si rende in qualche modo la maggioranza incapace di decidere da
sola e la minoranza partecipe, seppure in misura ridotta, a determinate decisioni. La Costituzione
italiana stabilisce maggioranze speciali per: l’elezione del Presidente della Repubblica, per
l’elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare, per la funzione di revisione
costituzionale e per l’approvazione di leggi costituzionali (quorum aggravati), per l’approvazione
dei regolamenti interni concernenti le Camere;
4) la concessione di determinate facoltà alle minoranze che si traduce nell’attribuzione di poteri di
condizionamento procedurale a queste. Le minoranze, nell’ordinamento italiano, possono chiedere la
convocazione in via straordinaria della Camera, la votazione dell’intera Assemblea per un disegno di
legge assegnato in Commissione deliberante, che sia indetto il referendum sulle leggi costituzionali
e di revisione costituzionale approvate dal Parlamento;
5) la sottrazione dal circuito dell’indirizzo politico di certe decisioni e l’assegnazione di queste ad
organi decisionali neutrali rispetto alla politica e slegati dalla maggioranza e dalla minoranza,
generalmente per decisioni che richiedono competenze tecniche complesse (c.d. Autorità
amministrative indipendenti);
6) il decentramento politico, che si attua costituzionalmente attraverso l’istituzione di numerose
autorità territoriali. Ciò favorisce l’esistenza di maggioranze diverse per ogni livello di autorità
territoriale e consente alle minoranze di trovare protezione a livello locale ed elaborare indirizzi
politici diversi da quelli a livello statale.
Tuttavia la tutela della maggioranza e la garanzia del pluralismo sono direttamente dipendenti dalla
cultura politica e dalla dimensione dell’intervento pubblico nella società. Se la prima accetta i valori della
pluralità e della tolleranza allora sarà più facile che i soggetti politici adottino atteggiamenti rispettosi
delle minoranze. La seconda accezione di regola di maggioranza intesa come principio di rappresentanza
riguarda invece le modalità attraverso cui si forma il Parlamento e si determina la consistenza delle
maggioranze e delle minoranze in termini di seggi parlamentari. La regola di maggioranza diventa perciò
strumento attraverso il quale si elegge il Parlamento: di ogni collegio elettorale viene eletto il candidato
che ottiene la maggioranza semplice (o, più raramente, assoluta). La conseguenza è che solo i gruppi
politici più forti ottengono rappresentanza parlamentare: questo metodo è estremamente selettivo ed
opposto a quello proporzionale che tende a riconoscere a tutti i gruppi politici adeguata rappresentanza in
modo da rendere il Parlamento una fotografia del Paese reale.
Secondo la terza concezione, la regola di maggioranza come regola elettorale è particolarmente coerente
con una determinata concezione delle elezioni e del funzionamento della democrazia. Le elezioni hanno il
compito di assicurare la formazione di una maggioranza stabile e coesa e di un Governo autorevole in
grado di realizzare un indirizzo politico. Al corpo elettorale spetta il compito di scegliere una
maggioranza politica e alle successive elezioni, quello di sottoporla a giudizio di responsabilità politica
(confermandola o sostituendola). Questa concezione è perciò opposta a quella che figura il Parlamento
come riflesso del Paese reale, poiché le elezioni non sono mezzo per l’affermazione di questo modello,
ma semplice metro di misura del consenso di ogni gruppo politico. Sulla base del consenso si forma il
corpo parlamentare e non su una scelta effettiva di maggioranza e Governo da parte del popolo.
Democrazie maggioritarie e democrazie consociative
Più che la scelta di un sistema elettorale maggioritario o proporzionale, assume importanza un’altra
distinzione, che si basa sulle dinamiche del funzionamento dei diversi ordinamenti democratici. Occorre
distinguere tra democrazie maggioritarie e democrazie consociative. Nelle democrazie maggioritarie, la
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regola di maggioranza diventa ‘principio di organizzazione’: esse sono basate sulla contrapposizione tra
due partiti o tra due candidati alla carica di Capo del potere governante tra i quali gli elettori si trovano a
dover effettuare una scelta secca. La contrapposizione per la titolarità del potere esiste durante le elezioni
ma anche dopo le elezioni, quando, il partito sconfitto (la minoranza) assume la funzione di opposizione,
mentre quello vincitore (la maggioranza) costituisce il Governo ed il nuovo indirizzo politico.
Da un lato il Governo lavorerà per far perdurare il consenso, in modo da restare maggioranza in luogo
delle prossime elezioni, mentre, dall’altro la funzione dell’opposizione impedisce che si instauri la
tirannia della maggioranza attraverso la critica dell’operato del Governo e la proposta di un indirizzo
politico alternativo. In tali sistemi è realizzabile l’alternanza ciclica dei partiti nei ruoli di maggioranza o
opposizione.
Viceversa le democrazie consociative tendono a sfavorire il contrasto tra gli indirizzi e a favorire invece
l’accordo tra i principali partiti al fine di condividere il potere politico. Alle elezioni i partiti competono
per proprio conto, ma la differenza si attua dopo le elezioni, quando i partiti utilizzano il proprio potere
politico, il quale si evince dai risultati delle elezioni, per raggiungere il compromesso. Le minoranze sono
associate alla funzione di Governo poiché manca l’opposizione: ogni decisione è il risultato di una
mediazione attraverso la quale ogni parte ottiene qualcosa in cambio di una rinuncia su qualcos’altro.
Lo Stato e la società multiculturale Rapporti fra Stato e confessioni religiose
La nascita dello Stato moderno comporta il riconoscimento della laicità dello Stato, ovvero la neutralità
del primo rispetto alla questione religiosa, la separazione della sfera politica da quella della religione e il
conseguente riconoscimento della libertà religiosa come diritto fondamentale dei cittadini. E’ stata la
Rivoluzione francese del 1789 a perfezionare la creazione dello Stato moderno come unità politica
neutrale di fronte alle scelte religiose dei cittadini: essa introdusse l’idea del cittadino come essere
profano, emancipato da un destino inevitabilmente religioso. La Costituzione francese del 1791
riconosceva la libertà di fede e di religione: lo Stato diventava pienamente neutrale rispetto alla religione.
Forte è stata in Europa la tendenza a sottrarsi al processo di secolarizzazione della politica a partire dal
secolo XIX. All’emancipazione dello Stato dalla Chiesa venne opposta l’idea di uno ‘Stato Cristiano’: i
rapporti tra queste due istituzione iniziano il loro oscillare tra due poli opposti. Da un lato il regime
confessionale, che si basa sul fatto che la Chiesa è depositaria di una verità assoluta concernente tutti gli
uomini, e perciò la necessità è quella di uniformare etica pubblica e leggi con la morale religiosa.
Dall’altro, il regime della separazione tra Stato e chiesa, che riconosce ciascuna istituzione come
autonoma nel proprio campo d’azione. Al fine di prevedere i conflitti tra le due istituzioni la necessità è
quella di creare un regime concordatario, ovvero un regime in cui le competenze reciproche siano
disciplinate e definite da un accordo, che prende il nome appunto, di Concordato. La Costituzione italiana
ha scelto questa strada: l’art. 7 sancisce la separazione tra Stato e Chiesa stabilendo che entrambi sono,
nel proprio ordine, sovrani e indipendenti; in seguito riconosce tutela costituzionale al principio
concordatario affermando che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi (1929) e
questi possono essere mutati solo con l’accordo da entrambe le parti (principio concordatario). La
garanzia costituzionale del regime concordatario non esclude né la laicità dello Stato né il pluralismo
religioso. L’art. 3 stabilisce che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge senza distinzioni religiose;
l’art. 8.1 stabilisce che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere di fronte alla legge e hanno
diritto di organizzarsi con proprio statuto purché non contrasti con l’ordinamento italiano; l’art 8.3
disciplina i rapporti dello Stato con le religioni diverse dalla cattolica. Le intese hanno cominciato ad
essere stipulate solo dopo la riforma del Concordato e sinora solo alcune confessione hanno potuto
ottenerne una: dato che le intese sono fonte di grandi privilegi, soprattutto di agevolazioni finanziarie,
molte confessioni tradizionalmente ‘separatiste’ rispetto allo Stato le hanno richieste.
Il principio di laicità, accolto dallo Stato italiano, in sé è soggetto a diverse applicazioni, differenti
secondo la storia istituzionale e politica di ciascun paese. In Francia il principio è accolto con una
concezione assai rigida che fa si che lo Stato si basi sul cittadino come individuo, e considera lesiva
dell’uguaglianza ogni rilievo dato all’appartenenza di questo ad una confessione religiosa. In Italia,
invece, la laicità non esclude un rilievo positivo giuridico del fenomeno religioso, purchè questo non sia
causa di disparità nel trattamento.

Principio di laicità, libertà di coscienza e pluralismo religioso


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La laicità dello Stato Italiano adotta una prospettiva ‘positiva’, ciò significa che gli unici interventi
possibili sono quelli in senso ‘positivo’ ovvero atti a sostenere il libero svolgimento delle attività
religiose. Secondo la Corte il principio di laicità ‘implica non l’indifferenza dello Stato dinnanzi alle
religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di regime di pluralismo confessionale e
culturale’. Il principio di non discriminazione tuttavia ha conosciuto alcune deroghe: la Corte sembrava
ammettere differenze tra le diverse religioni, principalmente sulla base del criterio numerico (la religione
col maggior numero di adepti) e del criterio sociologico ( connessione tra la religione e la coscienza
sociale), ma la giurisprudenza moderna ha abbandonato questa tendenza a favore di un’applicazione più
rigorosa di tale principio. Aspetto che, nell’esperienza moderna, va di pari passo con questo discorso è
quello della libertà di coscienza, che si trova perfettamente applicato nell’insegnamento della religione
cattolica nelle scuole: esso è giudicato ammissibile se, e solo se, si garantisce parimenti la posizione degli
studenti che non vogliono avvalersi di tale insegnamento.
Materia a parte, e ampiamente dibattuta, è quella dell’esposizione di simboli religiosi in luogo pubblico.
Le reazioni all’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici hanno coinvolto giudici ordinari ed
amministrativi ma hanno prodotto esiti incoerenti:
a) il crocifisso deve essere rimosso poiché manifestazione della volontà dello Stato di porre il culto
cattolico al centro della dimensione pubblica ed educativa, in contrasto col principio di
pluralismo religioso (Tar dell’ Aquila, 2003);
b) il crocifisso è simbolo di un’evoluzione storica e culturale, di un sistema di valori condivisi e di
libertà, uguaglianza dignità umana e religiosa, la conseguenza è che esso finisce per
rappresentare il principio stesso della laicità dello Stato (Tar Veneto, 2005);
c) l’esposizione del crocifisso è espressione della cultura e della civiltà cristiana e perciò
patrimonio dell’umanità, simbolo di identità nazionale e patrimonio tradizionale d’Italia
(Tribunale Civile L’Aquila, 2005);
d) il crocifisso è atto ad esprimere l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto, di
valorizzazione personale, di affermazione dei diritti, di libertà, di autonomia di coscienza
morale, di rifiuto delle discriminazioni che connotano la civiltà italiana. Perciò è compatibile col
principio costituzionale della laicità dello Stato (Consulta di Stato,2006);
e) la questione è arrivata alla Corte EDU che in primo grado si è pronunciata per l’incompatibilità
tra principio di laicità ed esposizione del crocifisso nei locali scolastici, ma in appello la Grande
Chambre ha rovesciato la decisione, ritenendo che il crocifisso sia un simbolo passivo, non
associato a forme di insegnamento religioso obbligatorio o a pratiche religiose coercitive, e che
non impedisce agli alunni di altri culti di portare i simboli della propria diversa religione.
Fattispecie completamente opposta è quella dell’esibizione pubblica di un simbolo religioso da parte del
singolo individuo. In assetti costituzionali dove il principio di laicità è accolto in maniera tanto rigorosa
da evitare il rilevo pubblico della religione e l’affermazione di identità collettive differenziate sulla base
della religione, simili manifestazioni sono vietate. In Francia una legge del 2004 proibisce agli studenti di
indossare simboli o abiti attraverso i quali la loro affiliazione religiosa emerga in modo palese. Rientrano
nel divieto l’ostentazione di crocifissi, l’utilizzo di kippah ebraiche e turbanti sik e soprattutto i veli
islamici.
La tutela delle minoranze e la società multiculturale
Una società multiculturale deve far fronte al diritto di ciascun essere umano di crescere dentro una cultura
che sia la propria e non quella maggioritaria del contesto socio-politico dove si trova a vivere. In
quest’ambito occorre effettuare una distinzione tra minoranze storiche (ovvero presenti da sempre nei
confini nazionali) e minoranze nuove (risultato di flussi migratori o cambiamenti generazionali). La tutela
delle prime generalmente è già contemplata nelle Costituzioni: così nella Costituzione italiana si
riconoscono le minoranze linguistiche e il fondamento per il riconoscimento di diritti speciali (art. 6); la
legge 482 del 1999 addirittura consente ad alcune lingue individuate, di essere insegnate a scuola o
utilizzate nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Ma la sfida più grande sottoposta alle moderne
democrazie è quella derivante dalle nuove minoranze: queste richiedono non solo la redistribuzione della
ricchezza, ma anche una tutela dell’identità, risultato di un conflitto sociale non solo di tipo economico
ma anche di identità culturale. La richiesta è principalmente quella di trovare nel sistema giuridico gli

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strumenti per tutelare la loro alterità, definita sulla base di criteri di ordine etnico o religioso inizialmente,
poi anche su criteri di altro ordine (vedi le preferenze sessuali o l’appartenenza di genere). Al fine di
mantenere e garantire le identità culturali differenziate i sistemi giuridici hanno escogitato varie
soluzioni:
- diritto derogatorio, che si applica solo ai membri di determinate comunità riconosciute (diritto di
caccia per i nativi in Canada o diritto di esonero dalla pubblica istruzione per i bambini della
comunità Amish in USA);
- strumenti di promozione della cultura particolare (come la creazione di organismi specifici col
compito di promuovere e proteggere una determinata cultura);
- costruzione di luoghi di culto o edifici simbolici sul territorio nazionale (moschee, sinagoghe);
- estensione di istituti di garanzia previsti per chi segue comportamenti maggioritari anche alle
minoranze, in modo da riconoscerne l’identità e garantirne l’esistenza (unioni civili).
Si tratta di capire se la strada migliore per assicurare la coesione delle moderne società pluralistiche sia
quella di promuovere l’integrazione di tali minoranze ed incanalarne la cultura in quella maggioritaria
(limitando alla sfera privata l’espressione di quella particolare) o garantire e tutelare tali minoranze
tramite il riconoscimento giuridico delle differenze. Da un lato il rischio è quello di coartare
eccessivamente la libertà personale con tutto ciò che ne deriva, dall’altro invece si rischia un’eccessiva
frammentazione che romperebbe i vincoli unitari e, di conseguenza, metterebbe in discussione lo Stato
stesso.
Inoltre, è legittimo fornire strumenti di tutela anche a quelle comunità culturali che non solo sono aliene
al contesto maggioritario, ma sono anche attivamente ostili ai valori su cui si basa lo Stato di democrazia
pluralistica? Risultato della caduta di eterogeneità della cultura è la difficile facoltà di scelta sulle
decisioni di carattere etico: un relativismo etico mette in risalto la libertà di scelta del singolo individuo,
mentre chi parte dall’esistenza di un’etica assoluta e universale, tende a porre dei limiti alla libertà di
scelta dell’individuo in nome di principi etici superiori.
CONFLITTI ETICI: CASO WELBY E CASO ENGLARO
Nel 2006, Piergiorgio Welby, malato terminale affetto da una gravissima forma di sclerosi, chiede
espressamente al suo medico di sospendere il trattamento che lo manteneva in vita. Il medico,
somministrati dei sedativi, ha interrotto le pratiche suddette con la conseguenza che il paziente è deceduto
nella mezzora successiva. Il PM esclude che il medico sia accusato di ‘omicidio del consenziente’ e
chiede l’archiviazione: tra i due principi egualmente tutelati dall’ordinamento (art. 32 diritto al rifiuto del
trattamento e istanza di sostegno della vita) deve prevalere l’autodeterminazione del paziente rispetto alle
cure somministrate.
Può essere sostituita la volontà di un paziente incapace di esprimersi con quella del suo tutore in materia
di sospensione del trattamento? Il padre di Eluana Englaro fa ricorso al Tribunale di Lecco per chiedere la
sospensione dell’alimentazione forzata a sua figlia, in coma dal 1992 a seguito di un incidente. La
Cassazione si è pronunciata su questo caso a seguito di un iter processuale definendo che, nei casi
analoghi a quello della signora Englaro, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio di
alimentazione forzata unicamente in presenza dei seguenti presupposti: 1) lo stato comatoso deve essere,
a seguito di adeguato ed accurato apprezzamento medico, irreversibile e deve essere assente qualsiasi
possibilità di recupero, di ritorno alla percezione del mondo esterno o di recupero della coscienza,
secondo gli standard riconosciuti a livello internazionale; b) in base a segni di prova chiari, univoci e
convincenti, della voce del paziente, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità,
dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima della
caduta in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Nel caso in cui, uno solo dei due
presupposti non sussista, il giudice non può autorizzare indipendentemente dalle condizioni, dal grado di
autonomia e dalla capacità di intendere e di volere del paziente.
Stato unitario, Stato federale e Stato regionale
La separazione dei poteri e l’applicazione della regola di maggioranza può avvenire non solo a livello
orizzontale ma anche a livello verticale, ovvero tramite l’assegnazione di poteri ad enti territoriali. Si
distingue tra: 1) Stato unitario, nel quale il potere è attribuito al solo Stato o ad enti ad esso dipendenti (si
parla di decentramento amministrativo o burocratico, perché i soggetti periferici fanno parte
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dell’organizzazione statale); 2) Stato composto, nel quale il potere è distribuito tra lo Stato e gli enti
territoriali distinti, dotati di propria autonomia politica di indirizzo e della funzione legislativa e
amministrativa in determinate materie, ed agiscono mediante organi rappresentativi che sono espressione
delle popolazioni locali (decentramento politico). Lo Stato unitario ha caratterizzato a lungo l’esperienza
europea, ma da alcuni anni anche in Europa ha avuto successo lo Stato composto, nelle sue due varianti:
a) Stato federale, i cui caratteri tipici sono l’esistenza di un ordinamento statale federale, dotato di
una costituzione scritta e rigida, e di alcuni enti territoriali dotati di proprie Costituzioni; la
previsione della costituzione di una ripartizione di competenze tra Stato centrale e Stati membri
con riguardo alle tre tradizionali funzioni; l’esistenza di un Parlamento bilaterale nel quale esiste
una Camera rappresentativa degli Stati membri; la partecipazione degli Stati membri al
procedimento di revisione costituzionale, oltre che la presenza di una Corte costituzionale che
risolva i confini tra Stato federale e Stati membri;
b) Stato regionale, che è distinto dallo Stato federale per le seguenti caratteristiche: l’esistenza di
una Costituzione statale che riconosce e garantisce la autorità territoriali, dotate di propri statuti
ma non di Costituzioni; l’attribuzione di competenze amministrative e legislative alle Regioni,
una limitata partecipazione di queste ai processi di revisione costituzionale, la presenza di una
Corte costituzionale deputata a risolvere i conflitti fra Stato e Regioni che assicura preminenza
dell’interesse nazionale e l’assenza di una Camera rappresentativa delle Regioni.
In realtà la distinzione tra Stato federale e Stato regionale è difficile da tracciare: la distinzione
fondamentale resta quella tra Stato unitario e Stato composto e tra Stati a forte decentramento politico e
Stati a decentramento politico limitato.
L’Unione europea
Costituita a seguito del Trattato di Maastricht con una struttura istituzionale complessa, per descriverla si
è ricorso alla metafora del tempio greco che poggia su tre pilastri: il pilastro centrale era quello della
Comunità europea (CE), i due pilastri laterali erano costituiti dai nuovi ambiti della politica estera e di
sicurezza comune (PESC) e dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (CGAI)
La differenza tra i tre pilastri è principalmente nei processi decisionali: la CE aveva ottenuto una certa
omogeneità politica perciò consentiva decisioni anche senza il consenso di tutti: PESC e CGAI, invece,
necessitavano dell’unanimità. Con il trattato di Lisbona i tre pilastri sono stati condensati nell’UE.
L’organizzazione
L’organizzazione comunitaria si articola in diversi organi:
a) il Consiglio Europeo: è l’organo di impulso politico, definisce gli orientamenti politici generali
ma è privo di proprio potere normativo. È composto dal Capo di Governo o di Stato di ciascuno
Stato membro e dal Presidente della Commissione: egli è eletto a maggioranza qualificata e dura
in carica due anni e mezzo; il Trattato di Lisbona ha stabilito che non può essere il Capo di
Governo del Paese con presidenza semestrale dell’Unione;
b) il Consiglio: è l’organo che esercita, congiuntamente al Parlamento Europeo, la funzione
legislativa e di bilancio, coordina le politiche generali di tutti gli Stati membri. È formato da un
rappresentante di ogni Stato (membro del Governo), in relazione alla materia trattata, o, in alcuni
casi, dal Capo di Stato o di Governo ed è presieduto da ciascuno dei suoi membri a turno per 6
mesi. Le sue deliberazioni sono assunte a maggioranza qualificata (che tiene conto anche della
popolazione rappresentata), solo in casi specifici è richiesta l’unanimità. Il Comitato dei
Rappresentanti Permanenti (COREPER) coadiuva l’attività del Consiglio;
c) la Commissione Europea: è l’organo di propulsione dell’ordinamento comunitario, centro dei
processi di decisione. Dispone di poteri di iniziativa normativa per gli atti che il Consiglio
adotta; di decisione amministrativa e di regolamentazione; di controllo verso gli Stati membri
riguardo l’adempimento di obblighi comunitari, che possono sfociare in ricorso e condanna.
Inoltre la Commissione può esercitare un controllo ‘indiretto’ sugli Stati membri, attraverso le
segnalazioni di privati, creando un rapporto trilatero Commissione-amministrazioni nazionali-
privati; ha poteri di gestione dei finanziamenti comunitari. I componenti sono tanti quanti sono
gli Stati membri e sono scelti in base a competenze tecniche: durano in carica 5 anni e devono
essere confermati dal Presidente dopo essere stati designati dal Consiglio su proposta degli Stati.
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Il Presidente è eletto dal Parlamento su proposta del Consiglio: egli ha facoltà di approvare la
composizione della Commissione. Il Parlamento ha facoltà di censurare la Commissione e
costringerla alle dimissioni. Fa parte della Commissione, e anzi, ne è Vicepresidente, l’Alto
rappresentante per gli affari esteri, che rappresenta l’UE nella politica estera;
d) il Parlamento Europeo: è composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione eletti in ciascuno
Stato a suffragio universale e diretto, restano in carica 5 anni. Organo rappresentativo e dotato di
legittimazione democratica, che partecipa al processo di formazione degli atti normativi
attraverso la procedura legislativa ordinaria: in essa l’adozione degli atti normativi proposti dalla
Commissione richiede il consenso sia del PE che del Consiglio: un eventuale dissenso è
comunque risolto con l’intervento di un apposito Comitato di conciliazione chiamato a trovare
un accordo tra i due organi. Dispone inoltre di un potere di iniziativa legislativa indiretta,
esercitato tramite la Commissione e risponde alle petizioni dei cittadini nominando un
mediatore. È infine titolare di poteri di controllo verso la Commissione (facoltà di istituire
Commissioni temporanee di inchiesta ma soprattutto di votare la fiducia sul Presidente e sui
membri della Commissione, oltre alla possibilità di approvare una mozione di censura verso la
stessa e provocarne le dimissioni);
e) la Corte di Giustizia: è l’organo giurisdizionale europeo, chiamato ad assicurare il rispetto del
diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato. Ha facoltà di giudicare sulle
violazioni del diritto comunitario, sulla legittimità degli atti normativi e di interpretare il diritto
comunitario in via pregiudiziale. La Corte è coadiuvata dal Tribunale di primo grado, le cui
sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte stessa;
f) la Corte dei Conti: è l’organo di controllo contabile della Comunità, chiamato all’esame delle
entrate e delle uscite della stessa e degli organi da essa creati;
g) il Comitato economico e sociale: è l’organo consultivo del Consiglio, della commissione e del
PE. Composto dai rappresentanti delle diverse categorie economiche e sociali, esprime il suo
parere obbligatoriamente (quando previsto dal Trattato), su richiesta o di propria iniziativa;
h) il Comitato delle Regioni: anch’esso è un organo consultivo delle istituzioni UE. Composto dai
rappresentanti delle varie collettività regionali e locali, delle quali esprime le istanze a livello
comunitario, esprime il suo parere obbligatoriamente (quando previsto dal Trattato), su richiesta
o di propria iniziativa.
Costituzione Europea
Realizzata l’integrazione economica tra gli Stati membri (culminata nella realizzazione di un mercato
unico e di una moneta unica) si è dovuto affrontare il problema di realizzare un’integrazione politica tra
gli Stati europei. Gli aspetti rilevanti in questo senso sono stati due: a) in primo luogo il deficit
democratico, espressione che allude al fatto che i poteri normativi sono esercitati da organi comunitari
che non sono eletti dai cittadini. Manca inoltre una sfera pubblica europea, le politiche sembrano
piuttosto essere discusse da una burocrazia europea e da tecnici; b) in secondo luogo si pone la questione
se l’Europa debba avere un ruolo politico unitario rilevante a livello internazionale. A questi problemi si
sono aggiunti quelli scaturiti dall’allargamento dell’Unione.
L’ordinamento comunitario, istituito sulla base di 6 Paesi tendenzialmente omogenei sul piano politico,
sociale ed economico, rischia di provocare la paralisi istituzionale dato il suo complicato metodo
decisionale, in particolare ora che è stato esteso fino all’Europa dell’est. Al fine di semplificare i Trattati
europei e giungere ad un Trattato di base (la Costituzione Europea), è stata istituita la Convenzione
europea. Il testo modificato è stato adottato nel giugno 2004, salvo poi essere rifiutato dai referendum
dell’anno successivo in Francia e Olanda. Il successivo trattato di Lisbona ha eliminato tutta la
terminologia federalista dal Trattato costituzionale, ha reso più snello il metodo decisionale ed ha
modificato la composizione degli organi decisionali, adattandola alla crescita del numero degli Stati
membri.
Il principio di attribuzione fa si che le attribuzioni dell’UE siano solo quelle espressamente previste dai
Trattati, esse non hanno competenze generali ma specifiche e funzionali per il raggiungimento di obiettivi
prefissati. La tassatività delle attribuzioni è temperata in due casi:
 quando venga applicato il principio di autointegrazione, ovvero quando la UE può esercitare i

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poteri necessari per la realizzazione di scopi del Trattato anche se questo non lo prevede
espressamente;
 quando venga applicato il principio dei poteri impliciti, adottato dalla Corte di giustizia, per il
quale l’attribuzione di una competenza comporta anche quella del potere di adottare tutte le
misure necessarie per il suo esercizio efficace ed adeguato.
Si parla di principio di proporzionalità quando, all’UE, è imposto l’utilizzo di mezzi e strumenti adeguati,
proporzionali e non esagerati per il risultato da raggiungere. Si parla di principio di sussidiarietà quando,
nel caso di competenze congiunte, quelle assegnate all’UE possono essere applicate solo se si ritenga che
perseguano meglio la causa comunitaria e solo se ritenute di entità tale da trovare soluzione migliore
nell’intervento europeo. Si parla infine di principio di leale cooperazione per intendere il dovere di tutti
gli Stati membri a collaborare e a non interferire con l’operato delle istituzioni comunitarie, evitando
comportamenti che possono impedire la realizzazione degli scopi.
Il mercato, tra Stato e Unione europea
Stato liberale e Stato di democrazia pluralista sono stati associati all’esistenza di un’economia di mercato.
Lo Stato sociale, invece, è intervenuto correggendo e compensando il mercato, per raggiungere finalità
sociali o per contrastare le crisi economiche, dando luogo ad un’economia mista. Nell’esperienza italiana
gli interventi statali in economia sono stati:
- creazione di imprese pubbliche ovvero imprese gestite da un ente pubblico economico (che
svolge attività di produzione di beni e servizi e che perciò utilizza le regole del diritto privato) o
in altri casi di aziende autonome, ovvero collegate ad amministrazioni statali ma dotate di
autonomia di gestione;
- creazione di SPA in mano pubblica, società per azioni controllate da un’amministrazione
pubblica che attraverso essa svolge un’attività economica;
- finanziamenti agevolati ai privati, coi quali lo Stato ha sostenuto l’attività di alcune imprese
erogando ausili finanziari;
- la programmazione economica, l’adozione di atti di poteri pubblici contenenti un disegno
ordinato di condotte future, riguardanti più elementi: si estendono per un certo arco temporale e
riguardano l’intera materia economica;
- l’acquisto del monopolio sui servizi pubblici, ovvero quelli che si caratterizzano per soddisfare i
bisogni di interesse generale, col fine di sottrarre questi settori alla concorrenza e mantenere i
prezzi sotto controllo;
- il potere di conformazione verso le imprese private, per cui l’ingresso in certi mercati non è
libero ma sottoposto a vincoli e limiti e soggetto all’autorizzazione di determinate
amministrazioni pubbliche.
Attraverso l’insieme dei suddetti interventi si è affermato il cosiddetto dirigismo economico, ovvero la
tendenza secondo cui lo Stato interviene nell’economia, la orienta per il conseguimento dei suoi obiettivi
politici e sociali. Questa tendenza non è prevista dalla Costituzione e, ad oggi, entra in forte contrasto con
i principi dell’Unione europea. L’instaurazione di un mercato comune, caratterizzato dall’eliminazione
tra gli Stati membri di ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, è al centro
degli obiettivi dei Trattati istitutivi europei. Alla creazione di un mercato unico europeo si è giunti
utilizzando tre strumenti: 1) libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali (le
c.d. quattro libertà);
2) il divieto di aiuti finanziari; 3) la disciplina della concorrenza (gli Stati non possono impedire la
creazione di un mercato comune limitando la circolazione delle merci, ad esempio con l’introduzione di
tariffe doganali, o introdurre privilegi per le proprie imprese. Il diritto comunitario non si è limitato alla
semplice garanzia del mercato unico, basato sul principio della libera concorrenza, ma ha posto le
premesse giuridiche per la drastica riduzione dei monopoli pubblici legati a diritti di esclusiva. Quelle
attività tradizionalmente configurate come servizi pubblici devono essere sottoposte alle regole della
concorrenza, attraverso l’adozione di regolamenti e direttive, ma anche con specifiche azioni di
contrasto delle attività delle residue imprese pubbliche monopolistiche, sottoposte alle regole di
concorrenza.

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L’Unione monetaria e i parametri di Maastricht
Il mercato unico è stato completato (a partire dal trattato di Maastricht del 1993) dalla creazione di una
moneta unica: l’EURO e dalla definizione di una politica di monetaria e di cambio uniche gestite da
istituzioni comunitarie, il Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC). Prima della moneta unica gli stati
potevano servirsi di due strumenti di politica monetaria: il tasso di cambio, che definisce il prezzo
relativo tra due monete. La svalutazione di una moneta rispetto ad un'altra produce svantaggi per i
consumatori del Paese che ha svalutato, vantaggi per gli imprenditori del Paese che ha svalutato (è più
facile esportare) e svantaggio per le imprese stranere, schiacciate dalla concorrenza del Paese che ha
svalutato. Differente è la manovra del tasso di interesse: definisce il prezzo che si deve pagare sul denaro
preso in prestito. La maggioranza degli investimenti delle imprese è attuata tramite denaro preso in
prestito, più basso è il tasso, maggiori saranno gli investimenti; inversamente se il tasso è alto, calano gli
investimenti. Dunque la riduzione del tasso di interesse stimola la crescita economica ma, causando
l’aumento del denaro circolante, può creare l’inflazione. Lasciare questi strumenti agli Stati era di
ostacolo alla creazione di un mercato unico: con l’Unione monetaria questi ostacoli vengono meno,
spariscono le monete nazionali e la loro concorrenza; le decisioni sul tassi di interesse sono accentrate nel
SEBC. Tra gli obiettivi principali dell’UE vi è quello di mantenere la stabilità dei prezzi e quindi la lotta
all’inflazione.
Esiste una stretta correlazione tra mercato aperto, basato sulla libera concorrenza, moneta unica e stabilità
dei prezzi. La moneta unica e la politica monetaria consolidano il mercato comune, togliendo alla
disponibilità degli Stati membri quegli strumenti che utilizzavano per la tutela e la protezione delle
rispettive economie nazionali. Tuttavia l’instaurazione di una moneta unica impone una certa
convergenza tra le economie degli Stati dell’Unione. Questo si rende necessario poiché vi è il rischio che
l’inflazione sia esportata dai Paesi con economie più deboli verso quelli con economie forti che ne
risentirebbero: la necessità è che gli Stati aderenti all’UE abbiano condizioni finanziarie tali da ridurre i
pericoli di inflazione.
I parametri di Maastricht
L’Unione monetaria stabilisce una serie di vincoli alle politiche di bilancio dei Paesi membri. A questi
viene imposto il rispetto di finanze pubbliche sane. A questo proposito, due volte l’anno, gli Stati membri
devono sottoporre il proprio bilancio ad una procedura di esame con l’obiettivo di evitare disavanzi
eccessivi. Secondo il Trattato ed il Protocollo aggiuntivo un disavanzo è eccessivo se:
- il debito pubblico supera il 60% del PIL;
- il disavanzo supera il 3% del PIL.
Quando il debito di un paese risulta eccessivo la Commissione prepara un rapporto per il Consiglio,
questo può fare delle raccomandazioni al Paese in questione ed emettere sanzioni pecuniarie. Questa
particolare disciplina è stata completata dal Patto di stabilità e crescita concordato ad Amsterdam nel
1997, col quale i Paesi si impegnano a porsi obiettivi di bilancio nel medio termine.
La politica monetaria comunitaria è interamente gestita dal SEBC (organismo di tipo federale costituito
dalle banche centrali degli Stati membri e, in posizione sovraordinata, dalla Banca centrale europea). Nel
SEBC le banche nazionali svolgono principalmente due compiti:
- concorrono a determinare le decisioni del Consiglio direttivo BCE;
- danno piena attuazione di tali decisioni all’interno dei propri confini.
In questo contesto la funzione monetaria è stata completamente sottratta dalle autorità nazionali ed è
concepita come attività tecnica separata sia dai poteri politici nazionali che da quelli comunitari.
Attualmente aderiscono all’euro 18 dei 28 paesi dell’UE.
La crisi finanziaria in Europa e la nuova governance economica
Secondo il meccanismo concepito dal trattato di Maastricht le politica monetaria doveva essere condotta a
livello sovranazionale dalla BCE, mentre le politiche di bilancio restavano di competenza dei singoli
Stati. I fatti hanno tuttavia dimostrato che questo meccanismo non è riuscito ad imporre la riduzione del
debito pubblico né ad impedire che i forti squilibri macroeconomici di alcuni Paesi intaccassero
l’economia degli altri dell’Eurozona. La situazione del debito pubblico nel 2010 era drammatica per molti
Stati (fra cui l’Italia il cui disavanzo era del 118% del PIL) e ciò ha portato ad un vertiginoso aumento

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degli interessi. Si è innestato a questo punto un circolo vizioso: l’aumento degli interessi ha portato
all’aumento della spesa pubblica, che, a sua volta, è stata finanziata con altro debito pubblico. La
conseguenza è stata l’aggravarsi della crisi finanziaria. I mercati finanziari hanno dapprima colpito con la
richiesta di alti tassi uno Stato specifico, salvo poi estendere la loro richiesta speculativa a tutti gli Stati (il
c.d. contagio). Si evidenziano, così, i limiti istituzionali dell’Unione economica e monetaria: in caso di
crisi delle finanze pubbliche manca un meccanismo che garantisca la solvibilità del debito. Di norma
esiste un garante di ultima istanza rappresentato dalla Banca Centrale che stampa nuovo denaro (col
rischio di inflazione); ma questo non può avvenire per gli Stati dell’Eurozona, poiché la politica
monetaria è stata trasferita alla BCE (la quale ha come compito anche quello di evitare l’inflazione). I
meccanismi che assicurano che gli Stati perseguano l’obiettivo di finanze pubbliche sane sono troppo
deboli.
Per affrontare la grave crisi delle finanze degli Stati dell’Eurozona sono state introdotte importanti
riforme, che vanno nella direzione del rafforzamento dell’integrazione europea. La nuova governance
economica europea ha rafforzato il coordinamento europeo delle politiche economiche nazionali e reso
più efficace la sorveglianza delle politiche di bilancio di ogni Stato membro: rilievo particolare hanno nei
confronti degli Stati che rischiano l’insolvenza; essi vedono limitato il loro potere decisionale in materia e
sono obbligati a seguire le indicazioni europee. Fra 2010 e 2014 le principali innovazioni attuate sono
state le seguenti:
a) semestre europeo. Procedura finalizzata al coordinamento preventivo delle politiche economiche
e di bilancio degli stati membri, è così articolato:
i) Gennaio. La Commissione formula l’analisi annuale sulla crescita e fa proposte strategiche
per l’economia;
ii) Marzo. La Commissione predispone un rapporto sulla base del quale i Consiglio europeo
indica gli obiettivi economici e le strategie per raggiungerli;
iii) Aprile. Sulla base delle suddette indicazioni gli Stati membri comunicano i propri obiettivi di
medio termine e le riforme che intendono adottare;
iv) Giugno, Luglio. Sulla base dei documenti di ciascun Paese il Consiglio europeo e il
Consiglio dei Ministri finanziari forniscono indicazioni specifiche per ogni Paese;
v) Ottobre. Ogni stato invia un DPB (Documento programmatico di bilancio) che contiene
l’aggiornamento delle stime precedenti e i relativi provvedimenti da attuare;
vi) Novembre. Entro la fine del mese la Commissione valuta la conformità del DPB alle
prerogative e alle linee guida formulate nell’ambito del semestre europeo.
2) Nuova sorveglianza macroeconomica e finanziaria (six pack e two pack). Il six pack è un insieme di
sei regolamenti comunitari che, insieme al two pack ha modificato il Patto di stabilità e di crescita. È
stato introdotto un meccanismo di controllo sui dati macroeconomici di ciascun Paese per cui la
Commissione che ritenga ci siano degli squilibri può chiedere allo stato di intervenire per eliminarli;
3) Trattato sulla stabilità sulla governance e sul coordinamento dell’UE. La cui parte principale è il
fiscal compact, si tratta di un vero Trattato internazionale, esterno ai trattati UE che si caratterizza
per:
a) introduzione del divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5% del PIL (regola che deve
essere recepita dagli ordinamenti nazionali possibilmente con modifica costituzionale);
b) individuazione di un percorso di riduzione del debito pubblico sulla base del PIL;
4) meccanismo di solidarietà diretto agli Stati in difficoltà finanziarie. Nel 2010 è stato introdotto EFSF
dotato di risorse finanziarie messe a disposizione dagli stati membri: gli aiuti sono subordinati ad un
programma di riforme tese a migliorare i conti pubblici, la sua durata era limitata a 3 anni. Perciò
successivamente è stato istituito un meccanismo permanente di intervento diretto ad assicurare la
stabilità finanziaria nell’area euro: il Meccanismo europeo di stabilita (MES), dotato di maggiore
capitale;
5) Unione bancaria, diretta ad evitare i rischi di contagio tra sistema finanziario privato e economia
pubblica. Il contagio si è compiuto in due modi: 1) il salvataggio di banche entrate in crisi a causa di
operazioni finanziarie altamente speculative da parte di alcuni Stati costretti ad indebitarsi (Spagna,
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Cipro, Irlanda); 2) le banche hanno contribuito al risanamento acquistando i titoli di debito pubblico
del loro Paese, perdendo però la fiducia nelle proprie immobilizzazioni da parte dei mercati
finanziari. L’unione bancaria vera e propria si realizza solo per quei Paesi la cui moneta è l’euro e si
basa su 3 pilastri: a) un meccanismo di supervisione unico, che riguarda le principali banche
nazionali e la BCE; b) un meccanismo di risoluzione unico, il cui fondo è fornito dalle banche; c) la
garanzia per i depositari di somme fino a 100000€ in caso di fallimento.
Il risultato di questa crescita dell’integrazione europea è il rafforzamento del ruolo del Consiglio
Europeo. Ne è risultato un forte accrescimento del deficit democratico: le politiche europee appaiono
come scelte operate dai tecnici di Bruxelles e non dagli organi democraticamente eletti ed il pericolo che
si crea è quello della prevalenza della tecnocrazia sulla democrazia. Il deficit si è aggravato per effetto
delle innovazioni introdotte per rispondere alla crisi dei debiti sovrani. L’erogazione dell’aiuto è stata
subordinata all’attuazione di politiche di austerità decise al di fuori del circuito democratico nazionale e
da parte di istituzioni europee la cui volontà era dettata dagli Stati creditori. La nuova governance e il
fiscal compact hanno imposto politiche di austerity anche a Paesi (come l’Italia) la cui situazione non
richiedeva l’intervento del fondo ‘salvastati’.
Queste politiche sono un’arma a doppio taglio: da un lato sono ovviamente malviste dai cittadini dello
Stato in difficoltà, che devono fare molti sacrifici, dall’altro lo sono anche dai cittadini degli Stati
creditori che percepiscono di dover subire le conseguenze della cattiva gestione di altri Stati.
L’UE si trova di fronte ad un bivio: 1) restituire agli Stati una parte delle competenze perdute in materia
di politica monetaria; 2) procedere sulla strada dell’integrazione. Le elezioni per il rinnovo del
Parlamento europeo del 2014 hanno visto un preoccupante sostegno della prima tendenza, con la
conseguente elezione di rappresentanti di partiti populisti ed euroscettici. Un passo importante tuttavia è
stato fatto sulla strada della prevaricazione della democrazia sulla tecnocrazia: i partiti hanno promosso
direttamente agli elettori i candidati per la carica di Presidente della Commissione e il confronto è stato
tra le due principali correnti politiche europee: quella popolare (Junker) e quella socialdemocratica
(Schulz); il risultato non è stato favorevole a nessuno dei due candidati, si creata perciò una coalizione. Il
fatto è rilevante e può imprimere evoluzioni dell’assetto istituzionale europeo per 4 ragioni: a) un unico
candidato è stato sottoposto direttamente agli elettori europei, superando i particolarismi (e gli egoismi)
dei singoli Stati; b) Junker si è presentato con un preciso programma politico, rafforzando la prospettiva
politica transnazionale; c) si è avviata (anche se non ancora irreversibilmente) la tendenza ad un
evoluzione in senso parlamentare della forma di Governo europea; d) il programma di Junker è
spiccatamente diretto alla integrazione europea, in differenti settori a cominciare dall’economia.
La questione della crisi democratica è riesplosa nel 2015 con l’elezione in Grecia del partito di sinistra
radicale Syriza, che contestava l’austerity imposto dall’UE. Il Governo ha avviato un duro negoziato con
le istituzioni Ue al fine di ottenere aiuti finanziari e scongiurare il rischio di insolvenza. Il programma che
ne è derivato prevedeva importanti riforme strutturali e la continuazione del rigore finanziario, profili in
disaccordo con le promesse elettorali di Syriza. Il programma è stato bocciato al referendum. La non
adesione avrebbe comportato l’uscita dall’Eurozona e il conseguente ritorno alla moneta nazionale (la
dracma), con conseguenze descritte come catastrofiche dagli economisti. Tsipras ha scelto di non
ascoltare l’esito del referendum e proseguire col negoziato europeo per arrivare ad una soluzione non
drammatica per la finanza nazionale. Questa vicenda ha messo in evidenza l’esigenza di una doppia
fiducia dei Governi, rivolta agli elettori e al proprio Parlamento ma anche ai governi degli altri Stati
membri. Proprio quest’ultimo aspetto è utile per ottenere gli aiuti fiscali ma soprattutto, a quegli Stati che
necessitano di elasticità nei rapporti debito/PIL di avere maggiori margini di manovra.
Il principio democratico è sottoposto a forti tensioni nel sistema di Governo multilivello europeo. Da qui
si sviluppano due diverse tendenze:
 restituire agli Stati nazionali quote di sovranità e competenze attualmente attribuite all’UE.
Questa prospettiva si basa sul presupposto che il principio democratico può operare
esclusivamente a livello nazionale, dove gli elettori possono controllare i governanti;
 approfondire l’integrazione europea, dotare l’UE di un proprio indirizzo politico economico, con
la conseguenza di dover rafforzare il principio democratico, il ruolo del PE e i suoi rapporti coi
Parlamenti nazionali.

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CAPITOLO III – LA COSTITUZIONE
Significati di Costituzione
Il termine è utilizzato con significati notevolmente diversi:
a) con funzione descrittiva, indica gli elementi che caratterizzano un determinato sistema politico,
come esso è organizzato e funziona. In questo senso si può parlare di costituzione di qualsiasi
sistema politico o formazione sociale. Sono implicite in quest’accezione di costituzione
condizioni come la costanza dei meccanismi con cui si prendono le decisioni più importanti, una
certa prevedibilità nei comportamenti e la loro relativa immodificabilità;
b) con funzione di documento, ma prima come manifesto politico, frutto di richieste e concessioni a
furor di popolo e risultato di importanti riforme sociali conseguenze delle fratture provocate da
eventi storici come la Rivoluzione francese e i moti del ’48. Sono le lacrime e il sangue del
popolo che hanno cementato i muri maestri della Costituzione italiana. È un documento
fondamentale che segna il trionfo di un ideale, proiettato al futuro e pieno di promesse di
cambiamento, di programmi e speranze. La nostra Costituzione, a differenza di quella
americana, non contiene preamboli che ne definiscano gli intenti preventivamente, tuttavia è
piena di programmi ed enunciati di valore;
c) la Costituzione opera anzitutto come testo normativo, come fonte primaria del diritto, da essa
derivano diritti e doveri, attribuzioni di poteri e regole per il loro esercizio.
IL CASO:
Un professore di ginnastica in una scuola cattolica viene licenziato perché sposato con rito civile. Impugna il
licenziamento in tribunale e la questione arriva in Cassazione, dove gli viene data ragione. La cassazione utilizza la
Costituzione. Una legge ordinaria consente alle cosiddette organizzazioni di tendenza di licenziare i dipendenti
‘dissidenti’, si dice che ciò consente di tutelare l’identità particolare garantita dalla Costituzione stessa. Insomma di
fronte all’importanza costituzionale della tutela delle organizzazioni sociali, nei quali si attua il pluralismo si
possono ammettere deroghe al sacrosanto diritto al lavoro anch’esso garantito dalla Costituzione. La Cassazione ha
però interpretato la legge nel modo più conforme alla Costituzione, poiché ha ritenuto che la vita privata di un
professore di ginnastica non incida sulla linea educativa adottata nella scuola. Se l’interpretazione non avesse
consentito questa mediazione, l’unica strada possibile sarebbe stato il ricorso per incostituzionalità della legge sul
licenziamento per motivi ideologici nelle organizzazioni di tendenza alla Corte Costituzionale.
Il termine Costituzione è usato in senso descrittivo soprattutto dai sociologi e dai politologi: essi sono
interessati a come un sistema concretamente vive piuttosto che alle sue premesse normative. Alla
Costituzione come manifesto politico guardano soprattutto gli storici e i filosofi, che sono
particolarmente interessati a comprendere la genesi di un documento così significativo per la storia e il
pensiero politico: a loro interessa ricostruire gli eventi politici che hanno ispirato i ‘padri’ del testo
costituzionale, ambientarli nel loro contesto, seguirne l’evoluzione e i cambiamenti. I giuristi guardano
alla Costituzione come ad un testo normativo, per decidere se un determinato atto o comportamento può
essere qualificato come legittimo o meno. Per usare un testo come premessa di una decisione bisogna
prima interpretarlo e, nell’opera di interpretazione anche la descrizione del funzionamento concreto del
sistema e la ricostruzione della sua genesi storica forniscono informazioni molto utili. Si incorre in un
intollerabile confusione: tra ciò che è il sistema politico e ciò che il comportamento dei suoi attori deve
essere, tra la descrizione del sistema e la prescrizione costituzionale. Oppure tra ciò che oggettivamente
oggi esprime il testo costituzionale e ciò che chi ha concepito la costituzione intendeva che esprimesse.
Potere costituente e poteri costituiti
Se tutti i sistemi politici hanno una costituzione in senso descrittivo, non tutti hanno anche una
costituzione come documento scritto. La Costituzione come testo normativo è un fenomeno abbastanza
recente, frutto di un movimento filosofico chiamato “costituzionalismo”, che fa della Costituzione scritta
un obiettivo irrinunciabile, sinonimo di libertà. Costituzione come ‘manifesto politico’ e come
‘documento normativo’ nascono insieme: il ‘testo’ è la traduzione in regole giuridiche del ‘manifesto’.
Non tutti i Paesi moderni hanno una Costituzione scritta, anzi tra i Paesi privi di Costituzione scritta vi è
anche il Regno Unito, alla cui costituzione, paradossalmente, dichiara i ispirarsi il costituzionalismo
moderno. La straordinaria continuità della storia politica inglese ha dato luogo ad una stratificazione di
regole e consuetudini che ha stabilizzato l’assetto costituzionale del potere, senza che si sia creata
l’esigenza di emanare un atto specifico. Ciò nonostante non mancano in Inghilterra i testi costituzionali:
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la differenza con quelli tradizionali è che essi venivano emanati ogni qual volta, in momenti di crisi, si
riteneva ci fosse bisogno di una nuova regola costituzionale. È il caso della ‘Magna Charta’ , degli acts
sulla Unione con Scozia, sulle direttive parlamentari e sul diritto elettorale fino alla recente devolution
della Scozia.
Ora, mentre la Costituzione in senso descrittivo è il riflesso fisiologico di un sistema politico, la
Costituzione come documento, invece, è un consapevole atto di volontà, frutto di sconvolgimenti politici
(spesso vere e proprie rivoluzioni), attraverso il quale il sistema politico tende a consolidarsi ponendo in
essere un insieme di regole alle quali dovrà soggiogarsi. Solitamente è un sistema politico non ancora
consolidato, provvisorio, che vuole uscire da una condizione di precarietà ad emanare una Costituzione.
POTERE COSTITUENTE E POTERE COSTITUITO IN ITALIA
La fine del regime fascista, instauratosi con metodi formalmente legali, diede luogo ad una serie di eventi
visti come una rottura dell’ordinamento. Mussolini, sfiduciato da Gran Consiglio del Fascismo, viene
revocato dal suo incarico dal Re, al suo posto Vittorio Emanuele III pone a Capo del Governo il
maresciallo Badoglio. Badoglio, servendosi della decretazione d’urgenza, soppresse tutti gli organi
istituzionali del fascismo e annunciò l’elezione di una nuova Camera. L’intento era chiaramente quello di
ripristinare la forma parlamentare prefascista. Le forze del C.L.N. si opposero a questo tentativo e
chiesero, dopo l’armistizio, l’avvio di un nuovo processo costituente. Nel 1944 il C.L.N. e Badoglio
raggiungono un’intesa: col Patto di Salerno la questione istituzionale è rimandata e si decide di
convocare, finita la guerra, un’Assemblea costituente. Il Re nomina il figlio Umberto Luogotenente e si
ritira, subito dopo, nel secondo Governo Badoglio, entrano gli esponenti politici del C.L.N. Nel 1944 si
istituì un nuovo Governo,interamente formato da membri del C.L.N.: viene emanata una Costituzione
provvisoria che, annunciando l’elezione dell’assemblea costituente a suffragio universale e diretto,
dettava le regole per la produzione normativa successiva. Ne segue un periodo di instabilità politica
dovuta ai contrasti all’interno del C.L.N.: è rilevante l’istituzione dell’organo della Consulta Nazionale,
con compito consultivo del Governo i cui membri sono designati dai partiti maggiori. Dello stesso
periodo è la legislazione preparatoria del processo costituente (legge per l’elezione proporzionale dei
membri dell’assemblea costituente e la disciplina per il referendum istituzionale): l’assemblea assumeva
anche funzioni tipicamente parlamentari poiché fra l’altro, aveva anche facoltà di approvare le leggi del
Governo; inoltre si stabilì che la decisione sul nuovo assetto istituzionale spettasse all’elettorato e non più
all’assemblea costituente. Il 10 maggio 1946, il Re, contravvenendo ai patti e alla vigilia delle votazioni
per il referendum istituzionale, abdica in favore del figlio Umberto che gli succede facendo cadere la
luogotenenza: il tentativo disperato è quello di separare le proprie responsabilità per l’avvento del
fascismo da quelle della Corona. Il referendum vide vincitore l’assetto costituzionale repubblicano, ma i
monarchici contestarono a lungo il conteggio. Il Presidente del Consiglio De Gasperi assunse il ruolo di
capo di Stato temporaneamente.
Con la Costituzione si esaurisce il potere costituente ed inizia il potere costituito. Il potere costituente è
definito nel linguaggio giuridico come l’unico potere libero, perché nessuna regola preesistente lo
vincola, prima di esso c’è il caos. Esso si esercita in situazioni di fatto in cui non valgono né giudici, né
legalità, ma solo i rapporti di forza come nel caso di rivoluzioni, guerre civili, colpi di stato. Non sempre
però esso è del tutto privo di vincoli giuridici: il referendum in Italia del 1946 ad esempio, poneva un
limite preciso alle scelte che l’assemblea costituente poteva compiere; infatti, nella Costituzione del 1948
si vieta di utilizzare i mezzi della revisione costituzionale per modificare la forma repubblicana (art. 139).
Si può affermare, quindi, che l’Assemblea costituente, vincolata da una decisione del popolo a scrivere
una Costituzione repubblicana, non avrebbe potuto consentire che in seguito, gli organi del ‘potere
costituito modificassero quella decisione.
I condizionamenti di cui risente il potere costituente sono principalmente di natura politica: 1) il consenso
interno che è necessario, poiché nessun regime politico può durare a lungo solo grazie alla coercizione e
alla violenza. Le regole che si intendono introdurre nella Costituzione devono perciò essere condivise
dalla maggioranza delle forze politiche, sempre a condizione che queste forze politiche siano capaci di
rappresentare i valori e gli interessi della gran maggioranza della società; 2) il consenso esterno che si
esprime attraverso la pratica del riconoscimento internazionale. Attraverso il riconoscimento
internazionale lo Stato acquisisce l’approvazione degli altri Stati o quanto meno il suo riconoscimento
come Stato sovrano.

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Per Hans Kelsen un ordinamento giuridico, uno Stato, nasce e s’impone di fatto e le ragioni per cui esso
riesce a imporsi non sono spiegabili dal diritto. Perché le persone ubbidiscono alle norme di un
determinato ordinamento giuridico? Nessuna delle risposte che si possono dare a questa domanda è
esprimibile in termini di diritto. Egli la vede così: esiste una norma fondamentale (Grundnorm) che
afferma che le norme di quell’ordinamento devono essere rispettate, essa giustifica la validità di tutte le
altre, ma non è a sua volta giustificata. La dottrina di Kelsen è detta pura proprio perché prescinde da
tutte quelle valutazioni causali di ordine storico, sociologico, politico, ecc.,che si possono fare: essa è
contestata e discussa, ma di fatto accettata da larga parte dei giuristi anche perché si fonda ed applica ai
sistemi giuridici il teorema dell’incompiutezza di Gödel. Anche il diritto è un sistema formale in cui non
è possibile decidere sulla validità della totalità delle norme che lo formano senza sconfinare dal diritto
stesso e cercare risposta altrove.
Le Costituzioni sono il riflesso del passato storico che ha prodotto la rottura e la crisi del vecchio regime
e l’instaurazione del nuovo ordine. Riflettendo sulle diverse situazioni storiche si può comprendere la
tradizionale distinzione tra costituzioni flessibili e costituzioni rigide.
Costituzioni ‘flessibili’ e Costituzioni ‘rigide’
Sono flessibili quelle costituzioni che non prevedono un procedimento particolare per la loro modifica,
ma consentono che questa avvenga attraverso la normale attività legislativa; sono rigide, invece, quelle
costituzioni che dispongono di un procedimento particolare per la modificazione del testo costituzionale,
più gravoso di quello per le leggi ordinarie. Per le prime, laddove ci sia conflitto tra una norma ordinaria
e una costituzionale non è prevista alcuna garanzia che tuteli la Costituzione, perciò, in tal caso, è questa
a cedere. Per le seconde, invece, esiste un giudice apposito che ha il compito di verificare la compatibilità
delle leggi ordinarie rispetto a quelle costituzionali.
Le costituzioni flessibili sono tipiche dell’800, gentilmente concesse dal sovrano e tendenzialmente brevi;
quelle rigide sono invece tipiche del 900 e sono costituzioni lunghe, poiché non si limitano alla
definizione generale di norme riguardanti il potere pubblico, ma riguardano anche ambiti particolari e
disparati.
Tuttavia la differenza più marcata è quella di funzione, di scopo:
 sulla nozione di Costituzione ‘flessibile’. Le costituzioni dell’800 segnavano la fine del potere
assoluto ed avviavano il processo di condivisione della titolarità della sovranità tra Re e
Parlamento, così che il primo si sottoponesse alla legge e la società assumesse titolarità del
potere tramite i suoi rappresentanti in Parlamento. Il compito di queste costituzioni flessibili si
esauriva stabilito che, da quel momento, la legge ed il suo procedimento erano fonti legittime
dell’autorità. Tuttavia se, da un lato, diritti e libertà erano solennemente professati, dall’altro il
consenso congiunto di Re e Camera poteva plasmarli a piacimento.
Lo Statuto Albertino del 1848 è un tipico esempio di costituzione flessibile, col quale il Re rinunciava
“con decisione perpetua ed irrevocabile” ad essere un sovrano assoluto. Nessuna norma prevedeva la sua
revisione, nessun procedimento era prescritto per la sua modifica ma parve subito impossibile che lo
Statuto fosse immodificabile. Si diceva, anzi, che proprio nella modificabilità stesse la forza dello Statuto
che, al contrario delle costituzioni rigide, garantiva con la sua pieghevolezza la rinnovazione tacita e la
stabilità dell’ordinamento poiché una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni
future. Irrevocabile, come ebbe cura di chiarire Cavour pochi giorni dopo la promulgazione, era da
riferirsi allo stato di condivisione della sovranità fra Parlamento e Re. Infatti se il potere fosse passato
totalmente in mano del Re, vi sarebbe stata violazione costituzionale. Le continue oscillazioni verso un
sistema parlamentare e i continui colpi di mano del Re, atti a tornare allo Statuto, sino alla chiamata al
Governo di Mussolini e l’instaurazione di forme legali del fascismo sono il risultato di una Costituzione
ritenuta modificabile solo attraverso il consenso congiunto di Re e Parlamento.
Le Costituzioni di allora erano costituzioni che guardavano al passato, non al futuro. In esse l’aspetto
della costituzione come ‘manifesto politico’ prevaleva nettamente sulla Costituzione come ‘testo
normativo’: si proclamava l’irrevocabilità della concessione piuttosto che badare alle modifiche future.
L’idea che lo Statuto fosse interamente e liberamente modificabile non è stata mai prevalente. L’idea
dominante è che ciò potesse accadere, per via consuetudinaria o per legge, solo attraverso l’accordo
congiunto di Re e Camere: perciò, tutto si poteva modificare ad esclusione del principio secondo cui era

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necessario l’accordo delle Camere e del Re per legiferare. Tuttavia era pratica diffusa il raggiro, da parte
del Governo, del consenso parlamentare per mezzo di decretazioni d’urgenza, tendenza che incontrò la
fiera opposizione dei giudici che accusavano il Governo di usurpazione del potere legislativo ai danni
delle Camere. In molti casi proprio l’intervento parlamentare impedì la modifica strisciante dello Statuto.
 Sulla nozione di Costituzione ‘rigida’. Le Costituzioni rigide pretendono che tutte le loro
disposizioni abbiano forza regolativa e siano trattate come norme inderogabili. La rigidità
costituzionale può servire a scopi diversi: nel caso americano essa è conseguenza dell’origine
federale dello Stato unitario. Esso si forma attraverso un patto fra Stati sovrani che decidono di
trasferire la loro sovranità in capo ad uno Stato centrale: queste regole non possono mutare se
non attraverso una procedura complessa nella quale va espresso anche il consenso degli Stati
membri. Nelle costituzioni del ‘900 è comunque presente una componente di ‘patto’ anche
laddove esse non siano risultato di un processo di federalizzazione: non è un patto tra Stati ma
fra componenti religiose, politiche, sociale ecc., e ciò che vuole garantire è principalmente che la
componente che ottiene la temporanea maggioranza non prevalga sulle altre. Per il
raggiungimento di questo obiettivo la strada è opposta rispetto a quella delle costituzioni
flessibili: ogni costituzione rigida è frutto di un compromesso e deve essere necessariamente
essere garantita da un giudice a cui è attribuito il compito di assicurarlo.
Le garanzie della rigidità costituzionale
La Costituzione rigida è una Costituzione garantita: è garantita la prevalenza delle sue regole rispetto a
qualsiasi altra regola. Le garanzie sono di due tipi:
-procedimento di revisione costituzionale. Il procedimento è sempre più gravoso rispetto al normale
procedimento legislativo; per modificare la Costituzione occorrono maggioranze molto ampie: si devono
realizzare condizioni simili a quelle che hanno prodotto il compromesso iniziale, perciò il processo di
revisione è differente da Stato a Stato. Tuttavia non esiste una Costituzione così rigida da non ammetter
alcun cambiamento: essa sarebbe un invito alla rivoluzione alla rottura violenta dell’ordinamento. Ogni
costituzione trova un punto di equilibrio tra due esigenze contrastanti: quella della stabilità delle norme
costituzionali e quella dell’adeguamento delle regole ai problemi che l’esperienza pone.
Di tutte le Costituzioni moderne prese come termine di paragone, quella italiana è la più facile da
cambiare: in Germania, qualsiasi modifica deve ottenere il consenso di almeno 2/3 dei membri delle
Camere; in Portogallo e in Giappone, inoltre, è richiesta conferma popolare per mezzo di referendum; in
Belgio è prevista l’elezione di nuove Camere prima della votazione finale; in Norvegia, in Svezia e in
Danimarca il Parlamento che propone una modifica viene sciolto e viene rinviata alle nuove Camere la
decisione finale, spesso poi si ricorre al referendum popolare; in Grecia, allo stesso modo, sono previste
due delibere delle vecchie Camere e una di quella nuova e viene comunque imposto il raggiungimento
della maggioranza di 3/5 dei deputati; in Spagna, le riforme richiedono la maggioranza di almeno 3/5 dei
membri delle Camere, per le decisioni più importanti è imposto che le Camere votino a maggioranza dei
2/3, siano sciolte e le nuove Camere devono rivotare con la stessa maggioranza, in seguito la riforma è
sottoposta a referendum popolare. Negli USA le riforme devono passare attraverso due filtri: il Congresso
ed il Parlamento degli Stati membri, le maggioranze richieste variano tra proposta e approvazione. In
Francia è possibile modificare la Costituzione tramite la semplice maggioranza nelle due camere, il
referendum può essere evitato solo se le Camere approvano la proposta a maggioranza dei 3/5.
E in Italia? Il meccanismo di modifica è macchinoso ma paradossalmente semplice: la via principale è il
consenso di uno schieramento abbastanza vasto da ricreare le condizioni che avevano posto in essere la
Costituzione, per non rendere questo processo troppo complicato e per non regalare alle minoranze il
diritto di veto, si è previsto che la modifica sia voluta dalla sola maggioranza di Governo, salvo il ricorso
al corpo elettorale dell’opposizione.
L’introduzione di un processo gravoso di modifica della costituzione non avrebbe senso se non fosse
posta in essere un’autorità capace di verificare che tali procedure siano verificate e non siano aggirate. La
maggioranza delle istituzioni affida questo compito ad un giudice particolare che deve rispettare alcune
caratteristiche: è necessario che sia estraneo ai giochi politici, che non abbia carattere rappresentativo e
non risponda al principio di maggioranza.
Costituzione scritta e diritto costituzionale

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La Costituzione italiana conta 139 articoli: in essa sono stati trasfusi tutti gli interessi e i valori che le
diverse forze ritennero tanto importanti da porli al riparo dalle scelte del legislatore futuro. Fra questi si
distinguono alcuni principi, che non interessano singole materie, ma possono trovare applicazione in
qualsiasi campo.
Ciò significa che, potenzialmente, ognuno dei milioni di articoli delle leggi in vigore possono essere
imputati di fronte alla Corte Costituzionale affinché ne venga provata la legittimità. Sia l’articolo della
Costituzione che l’articolo della legge ordinaria vengono perciò confrontati: tuttavia sono norme molto
diverse. Cambia il grado di definizione, di dettaglio.
La Corte però non si occupa solo dei giudizi di compatibilità della legge ordinaria con la Costituzione,
poiché essa deve anche garantire la rigidità dell’intero assetto costituzionale dei poteri pubblici, ovvero
della forma di stato e della forma di governo. Ma come fa la Costituzione a fornire risposte a qualsiasi
caso particolare? Ad essere applicabile a qualsiasi caso particolare se la sua composizione è minima
rispetto alle infinite possibilità della prassi?
La Costituzione non galleggia nel nulla. Attorno ai suoi 139 articoli ci sono numerose componenti che
formano il diritto costituzionale: innanzitutto rilevante è il ruolo delle leggi costituzionali. Sono leggi
emanate per integrazione o modifica della Costituzione o previste dalla Costituzione stessa per questioni
specifiche. Dal 1948 al 2013 le leggi costituzionali sono state 38, di cui le prime cinque, approvate
dall’Assemblea costituente nel 1948. Vi è poi l’eredità della tradizione costituzionale: la storia
costituzionale moderna ha depositato le regole basilari di funzionamento delle istituzioni rappresentative
e delle garanzie delle libertà individuali oltre ad aver fornito modelli precisi, sistemi di regole i quali sono
sviluppati per garantire un determinato equilibrio degli interessi. La ricostruzione dei modelli di
riferimento, la ricomposizione del quadro di riferimento sono compiti principali della dottrina. Vi è, poi,
la giurisprudenza della Corte che è un lavoro di continua specificazione del significato delle disposizioni
costituzionali in reazione agli infiniti casi pratici quotidiani. Tale specificazione ovviamente mantiene un
certo grado di coerenza: la Corte si sforza di collocare in un sistema omogeneo le proprie affermazioni.
Ruolo non poco importante lo svolge anche la legislazione ordinaria almeno in due direzioni: 1) esiste
una massiccia legislazione complementare alla materia costituzionale (legislazione elettorale, regolamenti
parlamentari, disciplina del referendum, ordinamento giudiziario, ecc.): queste competenze sono delegate
alla legge ordinaria dalla Costituzione stessa per mezzo delle riserve di legge. Se, da un lato, la legge è
vincolata a seguire i principi cardine dettati dalla Costituzione, dall’altro sarà proprio la legge a dare una
configurazione concreta a questi tratti; 2) la Costituzione, soprattutto nella parte dedicata alle libertà e ai
diritti fondamentali, richiama nozioni che sono elaborate dalla legislazione di settore. Benché la norma
costituzionale rappresenti un limite per la legge ordinaria di settore, capita che la prima non possa essere
intesa se non in relazione alla seconda. Esiste una certa coerenza sistematica che lega la Costituzione alla
legislazione ordinaria.
Disposizioni, norme, regole, principi, valori, interessi
Valori e interessi sono concetti esterni e precedenti al mondo delle norme, sono gli obiettivi che muovono
il legislatore: essi entrano nel contesto normativo sotto forma di principi. I principi sono un tipo di norma
giuridica che si distingue dalle regole per un elevato grado di genericità e per non essere circostanziato.
Le regole rendono operativo il principio concretizzandone il senso. A loro volta principi e regole (che
insieme formano l’insieme delle norme giuridiche) sono costruzioni operate dagli interpreti al fine di dare
senso coerente agli enunciati dei legislatori: le disposizioni. Le disposizioni sono dunque parte del testo,
enunciati scritti dal legislatore; le norme giuridiche sono il significato che a tali disposizioni attribuiscono
gli interpreti. Nel linguaggio corrente è assai frequente la distinzione tra costituzione formale e
costituzione materiale: per costituzione formale si intende il complesso di disposizioni della Costituzione
e le norme che ne sono ricavate; per costituzione materiale si intende invece, l’assetto costituzionale
effettivo, frutto di interpretazioni, integrazioni e deroghe alla Costituzione. Nella prassi perciò la
Costituzione assume una fisionomia diversa da quella prevista dal testo. Se così fosse tutte le divergenze
tra costituzione formale e costituzione materiale dovrebbero essere dichiarate semplicemente illegittime.
L’introduzione del termine ‘materiale’ sembra voler giustificare quelle prassi contestabili e contestate.
La Costituzione italiana
La Costituzione Italiana entrò in vigore il 1 gennaio del 1948 e fu approvata dall’Assemblea Costituente
L’Assemblea costituente fu eletta il 2 giugno del 1946 per la prima volta a suffragio universale (anche
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femminile) e si componeva complessivamente di 556 membri proporzionalmente ripartiti. All’AC non
spettò solo il compito di scrivere una Costituzione, ma gli furono delegati altri compiti di competenza
prevalentemente parlamentare:
1) eleggere il capo provvisorio di Stato (Enrico de Nicola); 2)far valere la responsabilità politica del
Governo: approvare le leggi in materia costituzionale, elettorale e i Trattati internazionali (l’AC contestò
con forza la delega di funzioni legislative al Governo, si arrivò ad un accordo secondo cui l’AC aveva
facoltà di scegliere quali decreti potesse emanare il Governo e quali erano propria competenza). I lavori
furono molto più lunghi del previsto, nonostante la frattura che si era prodotta all’interno dell’AC tra le
forze politiche: il nuovo testo fu approvato il 22 dicembre del 1947 con una maggioranza del 90%.
Un tale accordo tra forze politiche contrastanti è stato possibile solo grazie al fatto che la Costituzione è:
 lunga poiché somma e non seleziona le istanze, gli interessi e i valori delle diverse componenti;
 aperta poiché lascia alla legislazione successiva la ricerca del punto di equilibrio tra i diversi
interessi che si limita ad elencare.
C’è da dire che il contesto di nascita della Costituzione fu unico e irripetibile: l’ignoranza da parte dei
partiti della loro futura sorte politica , eletti per la prima volta col voto delle donne dopo il ventennio
fascista, sono condizioni che non si verificheranno per chissà quanto tempo. Perciò è così difficile oggi
modificare la Costituzione. In tutte le componenti è stata maggiore la paura di soccombere rovinosamente
nelle nuove elezioni rispetto alla preoccupazione di imporsi sugli altri: da qui prende senso la
Costituzione stessa rivolta a scongiurare la prevalenza della maggioranza sulle minoranze e alla tutela di
queste ultime. Il risultato è che la Costituzione afferma valori opposti, spesso conflittuali senza dire quale
dovrà prevalere, è aperta, come si è detto, e ciò le conferisce al contempo stabilità e un’elevata
dinamicità, un’elevata capacità di adattarsi ai tempi. In questo senso molte sono state le critiche mosse: la
Costituzione sarebbe troppo vecchia e legata a un contesto anacronistico ed estremo, si preoccupa solo di
porre limiti e garanzie senza preoccuparsi dell’efficienza dell’intero meccanismo istituzionale. Ma per
definizione le Costituzioni hanno come obiettivo quello di scongiurare l’avverarsi di condizione analoghe
a quelle in cui sono nate e di porre limiti. È tendenza comune scaricare sulla Costituzione le conseguenze
delle incapacità delle istituzioni politiche allo stesso modo in cui un pilota incolpa il costruttore dell’auto
della sua cattiva conduzione.
Purtroppo il costituente qualche errore lo ha commesso. Il più grave forse è l’ingenuità commessa nel
progettare quei tipici meccanismi costituzionali che servono ad evitare la concentrazione del potere nelle
mani di pochi: i c.d. contropoteri. Il loro funzionamento è stato rinviato a delle leggi di attuazione della
Costituzione, la loro operatività è rimesta condizionata dalla legge, che è la più tipica espressione della
volontà della maggioranza stessa: il potere costituente ha affidato al potere costituito di porre in essere
organi che ne avrebbero dovuto limitare il potere. Il risultato è stato una lunga fase di inattuazione della
Costituzione: la Corte Costituzionale ha iniziato il suo lavoro otto anni dopo l’entrata in vigore della
Costituzione; il Consiglio Superio della Magistratura è rimasto privo di ordinamento per dieci anni dopo
l’entrata in vigore delle Costituzione; le leggi per il funzionamento delle Regioni ordinarie e del
referendum (abrogativo e di approvazione delle leggi costituzionali) sono state varate ben ventidue anni
dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
Contenuti
La Costituzione italiana del 1948 si compone di parti diverse. Inizia con i principi fondamentali: 12
articoli che contengono norme di principio, poste talvolta l’una in contrasto con l’altra, risultato del
complesso di premesse ideologiche e politiche che hanno trascritto i costituenti traendole dai loro
manifesti politici. Questi principi fondamentali assegnano al legislatore il compito di dare agli stessi
rilievo operativo: ciò non significa che, di per sé, essi non hanno rilievo giuridico; infatti il giudice può,
senza l’intervento del legislatore, agire in maniera negativa, ovvero impugnando l’incostituzionalità di
quelle norme che vanno in direzione opposta, che ostacolano l’operato del legislatore. Almeno questa
funzione ‘negativa’ può essere riconosciuta sul piano giuridico alle ‘norme programmatiche’ che sono
disseminate in più punti della Costituzione. L’avvento della Corte Costituzionale, e l’applicazione che
essa ha fatto di ogni norma costituzionale, ha fatto perdere di significato la distinzione, nelle norme
costituzionali, tra norme precettive e norme programmatiche, a seconda che potessero essere applicate dal
giudice direttamente o necessitassero dell’intervento del legislatore. La maggior parte delle norme era
dunque programmatica: non poteva essere applicata in tribunale senza l’intervento del legislatore
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ordinario, una minima parte invece era ‘pronta all’uso’. La Corte ha subito contestato questa tendenza
dichiarando che tutte le disposizioni costituzionali come fonti di legge direttamente applicabile. Le altre
disposizioni, come si diceva, sono il risultato del compromesso tra principi opposti:
i. l’art. 1, comma 2 pone il principio della sovranità popolare, ma subito ne limita la portata
affermando che essa si esercita nelle sole forme individuate dalla Costituzione, rimandando agli
artt. che riguardano la disciplina della democrazia cooperativa e della democrazia diretta;
ii. l’art. 2 afferma l’inviolabilità dei diritti umani, ma anche l’inderogabilità dei doveri di
solidarietà, cosicchè i primi possono venir meno in nome dei secondi (diritto di lavoro, diritto di
sciopero e assicurazione del funzionamento dei servizi pubblici essenziali);
iii. l’art. 3 afferma l’uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma anche il dovere
pubblico di rimuove le disuguaglianze di fatto; così se sono vietati i privilegi resta nella facoltà
del legislatore introdurre differenziazioni tra soggetti se rivolte a una migliore giustizia sociale.
Una seconda sezione (parte I - Diritti e Doveri dei Cittadini) pone le garanzie delle libertà individuali ed
economiche, nonché i modi di esercizio della sovranità da parte del popolo. Segue una terza sezione
(parte II - Ordinamento della Repubblica) dedicata all’organizzazione costituzionale dello Stato:
Parlamento, Presidente della Repubblica e Governo nei loro rapporti reciproci; disciplina della pubblica
amministrazione e della Magistratura, delle Regioni e delle autonomie locali, oltre alla disciplina degli
organi di garanzia e della revisione costituzionale.

CAPITOLO IV – FORME DI GOVERNO


Le forme di governo dello Stato liberale
Le forme di Governo conosciute dallo Stato Liberale sono la monarchia costituzionale e il Governo
parlamentare (negli Stati Uniti il Governo presidenziale).
La monarchia costituzionale è la forma di Governo intermedia nel passaggio da Stato assoluto a Stato
liberale: si caratterizza per la separazione netta dei poteri tra Re e Parlamento, titolari rispettivamente del
potere legislativo ed esecutivo. Il Re tuttavia, data la sua posizione al vertice dello Stato, ‘allungava le
mani’ anche su prerogative sia del potere legislativo (sanzionando le leggi del Parlamento) sia su quello
giurisdizionale (nominando i giudici e ministri e avendo la facoltà di concedere grazie e commutare
pene). Il Parlamento di contro, approvava le leggi limitative dei poteri e i tributi, coi quali lo Stato si
finanziava. La monarchia costituzionale si fondava perciò sull’equilibrio tra i due centri di poteri,
ciascuno dei quali si basava su un diverso principio di legittimazione politica e sull’appoggio di differenti
classi sociali: il Re era legittimato per il principio monarchico-ereditario e godeva dell’appoggio della
nobiltà, mentre il Parlamento era legittimato dal principio elettivo e godeva dell’appoggio seppure
limitato di cittadini abbienti ed istruiti. Il dualismo rifletteva un equilibrio sociale ed era destinato a
mutare col rafforzamento della classe borghese: proprio in questa prospettiva si spiega l’evoluzione della
monarchia costituzionale nella forma del governo parlamentare.
Tra il Re ed il Parlamento si inserisce un nuovo organo: il Governo, nominato dal Re, deve comunque
ottenere l’appoggio del Parlamento per mezzo del voto di fiducia. Ciò che caratterizza il governo
parlamentare è il rapporto di fiducia che lega Parlamento e Governo.
Lo strumento su cui il Parlamento inglese ha potuto far leva per imporre il rapporto di fiducia è stato
l’impeachment, ovvero la messa in stato di accusa dei ministri e la consecutiva decisione della Camera
Alta. Si affermò la responsabilità dei ministri per gli atti del Re che essi controfirmavano: in poco tempo
il Re iniziò a nominare come Ministri persone che godevano dell’ appoggio del Parlamento. La completa
affermazione dell’autonomia del Governo si ebbe quando le leggi sulla successione portarono al trono
Giorgio I Hannover: egli non conosceva l’inglese e non partecipava alle riunioni del Gabinetto. Ecco che
si era formato un terzo organo indipendente dal Re ma legato al Parlamento.
Parlamentarismo dualista e parlamentarismo monista
La forma di governo parlamentare si è affermata nello Stato liberale a seguito di un lungo processo
storico. Esso ha conosciuto due fasi distinte. Il sistema parlamentare delle origini era un parlamentarismo
dualista, dotato dei seguenti caratteri:
1. esecutivo bicefalo, ovvero il potere esecutivo ripartito tra Capo dello Stato e Governo;
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2. doppia fiducia al Governo, da parte del Re e del Parlamento;
3. a garanzia di equilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo, al Capo dello Stato era
riconosciuto il potere di scioglimento anticipato del Parlamento, che fungeva da contrappeso alla
responsabilità politica del Governo.
Il dualismo rifletteva ancora quell’equilibrio sociale che vedeva da un lato il Re (punto di riferimento
dell’aristocrazia) e dall’altro il Parlamento (rappresentativo degli interessi della borghesia). Questo
equilibrio si è progressivamente modificato a vantaggio della borghesia che ha avuto la forza politica di
circoscrivere notevolmente il ruolo del Re in favore del Parlamento, legando sempre di più il Governo a
quest’ultimo. Da qui lo sviluppo della seconda fase, l’affermazione del parlamentarismo monista, in cui il
Governo ha un rapporto di fiducia esclusivamente con il Parlamento ed il Capo dello Stato è relegato in
un ruolo di garanzia, assolutamente estraneo al circuito di decisione politica. Il principale strumento
attraverso cui si è realizzata questa trasformazione del ruolo del Capo dello Stato è la controfirma: essa in
origine era l’attestazione della volontà del sovrano da parte di un ministro; poi, ha assunto la funzione di
trasferire al Governo la responsabilità politica per gli atti del Capo dello Stato. Tuttavia ha comportato
anche l’assunzione del potere sostanziale di determinazione del contenuto dell’atto che resta, solo
formalmente, imputato al Capo dello Stato. Il parlamentarismo è diventato, così, monista, perché il potere
di direzione politica si è concentrato nel sistema Parlamento-Governo, intimamente legati attraverso il
rapporto di fiducia.
Lo Statuto Albertino prevedeva una monarchia costituzionale: il potere esecutivo era in capo al Re, i
ministri erano suoi semplici collaboratori e non esisteva un organo collegiale con autonomia propria. Tale
sistema si trasformò progressivamente fino a raggiungere un sistema di tipo parlamentare; ruolo
importante svolse in questa direzione l’esperienza di Cavour. Egli, grazie al ‘connubio’ con Rattanzi,
riuscì nell’intento di creare una maggioranza parlamentare capace di una forza politica che gli consentiva
relativa autonomia dal Re; sulla sua scia i suoi successori cercarono di mantenere tale autonomia, creando
una maggioranza capace di controbilanciare l’autorità monarchica. Il corpo elettorale non era nelle
condizioni di scegliere un partito maggioritario data la forte eterogeneità del panorama politico
dell’epoca, così non di rado si formavano coalizioni risultanti da elementi tratti da diversi gruppi politici.
Tutto ciò dava luogo ad esiti ambigui: da un lato si rafforzavano l’autonomia del Governo e la forza del
Presidente del Consiglio, dall’altro da maggioranze composite derivavano la fragilità e la precarietà della
base parlamentare del Governo. Perciò nei periodi in cui la maggioranza aveva una certa solidità, il ruolo
del Re restava circoscritto, mentre in fasi di maggiore precarietà il suo ruolo si espandeva. Per questi
motivi la parlamentarizzazione dello Statuto Albertino conservò sempre margini di ambiguità.
Le forme di governo nella democrazia pluralista ed il sistema dei partiti
Nello Stato di democrazia pluralista il funzionamento della forma di Governo è influenzato dalla
presenza di una pluralità di partiti e gruppi organizzati: essa designa la struttura formale dei meccanismi
di esercizio del potere politico ma è il concreto assetto del sistema politico a condizionare il
funzionamento di tali meccanismi. Allo stesso modo anche l’interpretazione delle disposizioni
costituzionali sulla forma di governo sono influenzate dal sistema dei partiti. La disciplina costituzionale
difficilmente può predisporre un disegno completo dell’assetto e del funzionamento della forma di
governo: si dice perciò che le norme costituzionali sulla forma di Governo sono a fattispecie aperta.
Con il termine sistema di partiti ci si riferisce essenzialmente al numero di partiti ed al loro rapporto
reciproco. La scienza politica ha classificato i sistemi politici tenendo conto dei partiti e dei possibili tipi
di raggruppamento che possono realizzarsi tra di essi, ossia del potenziale di coalizione e di
condizionamento di ciascun partito, che è connesso alla rispettiva ideologia: si dice polarizzato il sistema
politico caratterizzato da forti divisioni sociali interne che si riflettono in partiti politici con forti
divergenze ideologiche e fra i quali è pressoché impossibile il raggiungimento di un’ intesa. Fra questi
poi se ne distinguono alcuni che assumono posizioni talmente estreme che sono percepiti come dannosi
per l’intero ordinamento: i partiti antisistema. Il sistema funziona basandosi su una molteplicità di poli
politici, è un sistema multipolare. In questi casi sarebbe impossibile un’applicazione della regola di
maggioranza, poiché il partito maggioritario potrebbe porre fine alle radicali divergenze con gli altri,
servendosi dello Stato per eliminarli. Diversa è la situazione dei sistemi bipolari: anche se il sistema
nasce come multipolare, le divergenze tra i partiti sono di minima entità e questo conferisce un alto
potenziale di coalizione e da luogo ad un sistema imperniato su due poli. Il risultato è che dalle elezioni

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emerge con chiarezza la coalizione di maggioranza: questa poi non si servirà dello Stato come mezzo per
eliminare la concorrenza, perciò la regola di maggioranza potrà essere applicata. La conformazione finale
è del tutto simile a quella di un sistema bipartitico, in cui esistendo due soli partiti, le elezioni diventano
una competizione tra due forze alternative, ciascuna delle quali aspira a conquistare la maggioranza
parlamentare ed a fare sì che il proprio leader assume la guida del Governo.
Tuttavia, allo stesso modo in cui il sistema dei partiti condiziona il funzionamento della forma di
governo, la forma di governo influenza il sistema dei partiti in quanto fornisce la struttura formale attorno
alla quale questi si articolano e dalla quale non possono prescindere. Si dice che tra sistema politico e
forma di governo esiste un rapporto di condizionamento reciproco.
Il sistema parlamentare e le sue varianti
Forma di governo parlamentare e razionalizzazione del potere
La forma di Governo parlamentare si caratterizza per l’esistenza di un rapporto di fiducia tra Governo e
Parlamento: il primo costituisce emanazione permanente del secondo, il quale può costringerlo alle
dimissione votandogli contro la sfiducia. Se il Parlamento è bicamerale poi, occorre distingue fra quei
sistemi in cui la fiducia è facoltà di entrambe le Camere e quei sistemi in cui una sola Camera (quella
politica) ha questa facoltà.
Le Costituzioni del secondo dopoguerra hanno cercato di evitare l’eccessiva instabilità dei governi,
esposti costantemente al rischio di perdere la fiducia parlamentare. Dall’esigenza di contrastare tali
pericoli ha preso corpo la tendenza alla razionalizzazione del parlamentarismo, ovvero la tendenza a
tradurre in disposizioni costituzionali scritte le regole sul funzionamento del sistema parlamentare che si
erano già imposte in via di prassi. La razionalizzazione del parlamentarismo ha avuto come obiettivo
prevalente quello di garantire la stabilità del Governo e la sua capacità di realizzare l’indirizzo politico
prescelto, nell’ambito di un sistema costituzionale che comunque tutela le minoranze politiche. La
Costituzione italiana prevede una forma di governo parlamentare a debole razionalizzazione: la differenza
con gli schemi del razionalismo ottocentesco è la presenza di un Presidente della Repubblica con funzioni
autonome e di una Corte Costituzionale al cui sindacato è sottoposto l’esercizio della funzione legislativa.
L’esempio più significativo di razionalizzazione è offerto dalla Costituzione Tedesca del 1949. Essa
prevede un parlamentarismo che affibbia risalto particolare al Capo del Governo ovvero il Cancelliere,
che è eletto senza dibattito dal Bundestag su proposta del Presidente: qualora non ottenga la maggioranza
la Camera può eleggere a maggioranza assoluta un nuovo Cancelliere entro 14 gg; se, decorso questo
termine, il candidato non ha raggiunto tale maggioranza, il Capo dello Stato deve scegliere se nominarlo
ugualmente o sciogliere la Camera. Attraverso questa decisione si punta a raggiungere i seguenti
obiettivi: 1) creare un Governo in cui sia assicurata la preminenza del Cancelliere, legittimato
dall’elezione parlamentare; 2) consentire, anche se non si è raggiunta la maggioranza assoluta, la
creazione di un Governo, seppure minoritario, rimettendo al Capo dello Stato la decisione se sciogliere la
Camera o mantenerla in carica; 3) rendere il Cancelliere titolare di importanti poteri, tra cui quello di
determinare l’indirizzo politico del Governo. L’istituto più noto è quello della sfiducia costruttiva, in base
al quale il Parlamento può votare la sfiducia al Cancelliere esclusivamente se contestualmente elegge un
successore a maggioranza assoluta, con l’intento di evitare le cosiddette crisi al buio, cioè quelle crisi che
si aprono senza che le forze politiche abbiano scelto la soluzione da dare alla crisi.
Parlamentarismo maggioritario e parlamentarismo compromissorio
Il funzionamento del sistema deriva dall’interazione tra la disciplina costituzionale e le caratteristiche del
sistema politico. In questa prospettiva si distingue tra parlamentarismo maggioritario e compromissorio.
A. Parlamentarismo Maggioritario. Caratterizzato dalla presenza di un sistema politico bipolare,
con due partiti (o due poli) ciascuno alternativo all’altro. Le elezioni in questo modo danno vita
ad una maggioranza politica chiara, il cui leader gode di forte legittimazione politica (derivante
dall’investitura popolare) e in cui il Governo gode dell’appoggio del Parlamento
tendenzialmente per tutta la durata della legislatura (Governo di legislatura). L’elettore
formalmente non vota per il Primo Ministro, ma per i candidati del suo collegio elettorale:
tuttavia egli si comporta come se votasse direttamente per il Primo Ministro, poiché ciascuna
coalizione si presenta già con un candidato leader che assumerà il potere in caso di vittoria. Al
partito che costituisce la maggioranza si contrappone quello che costituisce la minoranza detto
opposizione parlamentare: essa esercita un controllo politico sulla maggioranza al fine di poterne
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prendere il posto a fine mandato. Si realizza così un’alternanza ciclica fra i partiti
all’opposizione e quelli alla maggioranza: la funzione di opposizione trova fondamento
normativo in regole dettate dalla consuetudine e in regolamenti parlamentari (in Inghilterra
Gabinetto Ombra).
Nel 1990 Margaret Thatcher dopo aver vinto le elezioni, non fu riconfermata leader del partito
conservatore e costretta alle dimissioni. Al suo posto subentrò un altro candidato: John Major, nominato
in seguito dalla Regina. Allo stesso modo nel 2007 il primo Ministro Tony Blair, persa la fiducia
popolare per l’intervento in Iraq, è costretto alle dimissioni e sostituito da Gordon Brown. Ma come si
conciliano questi episodi col principio del parlamentarismo maggioritario che vuole affidata al corpo
elettorale l’investitura del Primo Ministro? In realtà è proprio su questa tendenza che si basa la differenza
tra parlamentarismo maggioritario e presidenzialismo statunitense. Il parlamentarismo inglese è basato
sul ruolo dei partiti e non sulla figura del Primo Ministro, anzi la legittimazione di questo deriva proprio
dall’appoggio del partito di appartenenza, sicché è lo stesso partito che sarà giudicato in termini di
responsabilità politica dagli elettori alle elezioni successive. Al contrario nel presidenzialismo gli elettori
votano direttamente per le persone dei candidati: i partiti di appartenenza hanno quasi un ruolo di
semplice sostegno de candidato più che un potere effettivo.
Il Parlamentarismo Maggioritario può funzionare solo in presenza di una cultura politica omogenea.
Diversa è la situazione nelle società segnate da profonde divisioni sociali nelle quali si adotta, al fine di
evitare conflitti violenti, una forma di Governo diversa, che prende il nome di parlamentarismo a
prevalenza del Parlamento che può arrivare ad essere un parlamentarismo compromissorio.
B. Parlamentarismo a prevalenza del Parlamento. Opera in presenza di numerosi partiti tra i quali
esistono profonde differenze ideologiche. Le elezioni non consentono all’elettore di scegliere né
la maggioranza né il Governo; dopo di queste si rendono necessari accordi fra i partiti per
formare la maggioranza politica ed individuare la composizione del Governo e il primo Ministro.
Il Governo può contenere esponenti appartenenti a tutti i partiti della maggioranza (Governo di
coalizione), oppure godere dell’appoggio di partiti esterni. L’equilibrio di Governo si regge sugli
accordi fra partiti, ognuno dei quali ha potere di ricatto: per questo questa forma di Governo è
fondamentalmente debole ed instabile. Cresce, invece, il ruolo del Parlamento, perché il
Governo per mantenere la fiducia, è portato a contrattare con i gruppi presenti all’interno del
Parlamento il contenuto delle leggi;
C. in alcuni sistemi poi, la procedura parlamentare è formulata in modo da consentire il dialogo ed
il progressivo raggiungimento di accordi anche tra partiti in radicale opposizione ideologica. Il
sistema in questione può essere definito parlamentarismo compromissorio. Esso comporta la
garanzia del pluripartitismo e la competizione tra partiti durante la campagna elettorale: le
elezioni servono solo a individuare il consenso di ciascun partito e la proporzionale forza politica
di cui gode. Il compromesso tuttavia segna la mancanza di una vera e propria (più che altro
consistente e capace) opposizione.
Presidenzialismo
La forma di Governo presidenziale quella in cui il Capo dello Stato (Presidente):
1. è eletto dall’intero corpo elettorale nazionale;
2. non può essere sfiduciato dal Parlamento nel corso del suo mandato, che ha una durata
prestabilita;
3. presiede e dirige i governi da lui nominati.
L’esperienza storico-costituzionale dove questa forma di Governo ha avuto maggior successo è
certamente quella degli Stati Uniti. Il Presidente è eletto per un mandato di 4 anni (XXII emendamento
stabilisce l’ineleggibilità dopo due mandati) attraverso una procedura solo formalmente a doppio grado:
ogni Stato elegge uno degli ‘elettori presidenziali’ che formeranno l’organo collegiale che procede
all’elezione del Presidente. Tuttavia poiché i due grandi partiti maggioritari hanno preventivamente scelto
i loro candidati alla carica, gli elettori, di fatto, sanno già quale candidato voterà l’elettore presidenziale
designato. L’elettore in realtà esprime la sua preferenza per il candidato alla Presidenza. Il Presidente, che
gode di una forte legittimazione derivante dall’investitura popolare diretta, nomina i suoi collaboratori i
quali, una volta riuniti formano il Gabinetto; inoltre si ricordano le sue importanti funzioni in materia di
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politica estera e di comando delle forze armate. Di fronte al presidente si trova il Parlamento che prende il
nome di Congresso. Il Congresso ha struttura bicamerale, le due Camere sono: a) Senato, formato da due
rappresentanti per ogni Stato membro; b) Camera dei rappresentanti, formata su base nazionale in modo
proporzionale alla popolazione dei singoli Stati. Esso è titolare del potere legislativo, approva il bilancio
annuale e può mettere in stato di accusa (impeachment) il Presidente (il giudizio finale spetta al Senato).
Presidente e Congresso sono indipendenti l’uno dall’altro anche se esistono meccanismi di controllo:
- il Presidente ha potere di veto sospensivo sulle proposte del Congresso: esso può superare
l’impedimento solo con un’ulteriore deliberazione con maggioranza superiore ai 2/3;
- il Congresso ha potere di confermare le nomine presidenziali e di convocare funzionari
dell’amministrazione al fine di esercitare un controllo sull’operato presidenziale.
Il Presidente è separato dal sostegno parlamentare, visto che non esiste voto di sfiducia, e resta in carica
indipendentemente da tale consenso; di contro, il Presidente non ha facoltà di sciogliere anticipatamente
il Congresso. Si determina così un dualismo paritario tra Presidenza e Congresso; l’esatto opposto è il
monismo posto in essere dal rapporto di fiducia che lega Parlamento e Governo. In termini generali, fino
al XIX secolo prevaleva il potere del Congresso, mentre nel secolo successivo è emerso con maggiore
forza il ruolo del Presidente anche grazie al suo ruolo centrale nella politica mondiale.
Semipresidenzialismo
La forma di Governo semipresidenziale si caratterizza per i seguenti elementi costitutivi:
1. il Presidente è eletto dal corpo elettorale dell’intera nazione e resta in carica per un periodo
prestabilito;
2. il Presidente è indipendente dal Parlamento (non necessita di fiducia), ma non può governare da
solo, deve nominare un Governo;
3. il Governo deve avere la fiducia del Parlamento.
Si crea una struttura bicefala: le teste sono il Presidente e il Primo Ministro. Il primo trae la sua
legittimazione dall’investitura popolare, mentre il secondo è a capo di un Governo che deve avere la
fiducia del Parlamento. Questa struttura consente ampia oscillazione ed equilibrio tra le due figure, con la
conseguenza che si distingue tra forme di governo semipresidenziali a presidente forte e forme di governo
semipresidenziali a prevalenza del Governo. Nel primo caso possiamo considerare la Costituzione della
V Repubblica Francese: vediamo come il Presidente goda di poteri importanti esercitabili senza
controfirma del Governo. Tuttavia il ruolo di direzione politica del Presidente si è basato piuttosto che su
tali poteri, sull’investitura popolare e sulla legittimazione che ne deriva e sul controllo della maggioranza
parlamentare. Normalmente egli viene eletto dalla stessa coalizione di partiti che detiene la maggioranza
in Parlamento, cosicché egli può indirizzare sia il Governo, che è espressione della sua maggioranza, che
il Parlamento.
Si parla di coabitazione quando il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio sono
espressione di due indirizzi politici opposti. Tale situazione si è verificata in Francia data la differenza di
mandato che c’è tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio. Nel 2000 una riforma
costituzionale ha scongiurato il rischio di una paralisi decisionale parificando la durata di tali mandati.
Circostanza che ha portato il Presidente Sarkozy a godere di una forte maggioranza ed ha così avviato la
Francia verso una stagione di riforme costituzionali dirette a riequilibrare una forma di Governo sempre
più marcatamente presidenziale.
Nel secondo caso, in cui prevale la componente parlamentare, il ruolo del Presidente è ridotto a quello di
semplice garanzia. Ciò è dovuto in particolare: a) alla bipolarizzazione del sistema politico che pone in
essere due coalizioni alternative; b) alla coincidenza nella stessa persona del ruolo di Presidente del
Consiglio e leader della maggioranza; c) alla convenzione secondo la quale i candidati alla presidenza
sono personalità politiche di secondo piano. Chiamare questi sistemi ‘semipresidenziali’ è fuorviante:
l’elezione diretta del Presidente della Repubblica non comporta uno scostamento reale del regime
parlamentare.
Altre forme di governo contemporanee
Si ricordano poi altre forme che hanno avuto però applicazione particolarmente ridotta:
1. forma di Governo neoparlamentare, si caratterizza per: a) rapporto di fiducia fra Governo e
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Parlamento; b) elezione popolare diretta del Primo Ministro; c) elezione contestuale di Primo
Ministro e Parlamento; d) Governo di legislatura (le dimissioni di questo determinano anche lo
scioglimento del Parlamento). Quella neoparlamentare è una sorta di riproduzione tecnica di quei
risultati che nel Regno Unito si sono raggiunti con l’evoluzione storica (investitura popolare del
primo Ministro e stabilità del Governo);
2. forma di Governo direttoriale, si caratterizza per la presenza, accanto al Parlamento, di un
direttorio, formato da 7 membri ed eletto, ma non revocabile, dal primo. Questa forma di
Governo ha trovato attuazione solo in Svizzera, dove la pluralità di comunità etniche,
linguistiche e religiose ha imposto che Governo e Capo dello Stato avessero una struttura
collegiale.
Tendenza comune delle forme di governo delle democrazie pluraliste evidenziate finora è la
concentrazione del potere in mano alla persona che occupa il vertice del potere governante. L’investitura
popolare del Capo del Governo è sempre assicurata, seppure con modalità diverse: in base a procedure
prestabilite (USA, Francia), oppure a causa dell’interazione tra sistema politico e sistema elettorale
(Regno Unito, Germania). Si aggiunga poi che la disciplina costituzionale tende a accrescere gli
strumenti di cui il Governo si può avvalere per realizzare il suo indirizzo politico in ambito parlamentare.
Si ricorda, a questo proposito la costituzione della V repubblica in Francia: essa prevede il voto bloccato
e la questione di fiducia posta dal Governo (un decreto si ritiene approvato salvo la presentazione entro
24 ore di una mozione di sfiducia e l’ approvazione di questa dalla maggioranza dei componenti
dell’Assemblea). Secondo Duverger nelle democrazie occidentali si sarebbe affermata una monarchia
repubblicana. Gli ordinamenti mantengono caratteri propri della conformazione monarchica (come la
concentrazione di potere nelle mani di una sola persona) a fianco a caratteri propri dell’assetto
repubblicano (il capo del Governo deve sottoporsi periodicamente a giudizio dell’elettorato).
I sistemi elettorali e la legislazione di contorno La legislazione elettorale
Nella legislazione elettorale confluiscono tre componenti diversi:
a) le norme che definiscono i confini della cittadinanza politica, ovvero quelle che stabiliscono
quali soggetti godono dell’elettorato attivo;
b) la legislazione elettorale di contorno, formata da quelle norme che hanno la finalità principale di
garantire la lealtà della competizione elettorale e la parità tra i concorrenti;
c) le norme sul sistema elettorale, ovvero quelle che sanciscono i meccanismi attraverso cui i voti si
trasformano in seggi.
L’elettorato attivo e passivo
Per quanto riguarda il primo profilo l’art. 48 Cost. definisce il cosiddetto elettorato attivo, costituito da
tutti i cittadini (uomini e donne) che hanno raggiunto la maggiore età. Esso è subordinato ai requisiti
seguenti: 1) la cittadinanza italiana; 2) la maggiore età, fissata ai 18 anni di età, anche se la stessa
Costituzione innalza l’età utile a 25 per le elezioni al Senato. Anche i detenuti, che non siano incorsi in
una causa di incapacità elettorale, sono ammessi a votare nel luogo di detenzione, mentre i malati
possono votare negli ospedali e nelle case di cura.
Come si perde l’elettorato attivo?
La perdita del diritto di voto si attua in presenza di alcune condizioni, definite ai sensi dell’art. 48.4 della
Costituzione: a) per cause di incapacità civile (secondo il diritto privato sono incapaci i minori e gli
interdetti); b) per effetto di sentenze penali irrevocabili (sentenze pronunciate per delitti fascisti, altre
portano alla sola sospensione temporanea); c) per indegnità morale (riguarda temporaneamente coloro
che sono sottoposti a fermo di polizia e all’interdizione temporanea dei pubblici uffici). Il legislatore,
tuttavia, ha riconosciuto la capacità elettorale ai ricoverati in ospedale psichiatrico, agli interdetti e agli
inabilitati.
L’art. 48.2 pone alcuni principi caratteristici del diritto di voto:
 il voto è personale, con la conseguenza che si esclude il voto per procura;
 il voto è eguale, si esclude radicalmente secondo un principio democratico che ad alcuni soggetti
sia concesso voto plurimo;
 il voto è libero, la legge vieta e sanziona le coartazioni che possono derivare dall’esercizio di
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certe funzioni e considera reato l’elargizione di denaro e cibo nell’imminenza elettorale;
 il voto è segreto, laddove la segretezza serve a garantire l’effettiva libertà dello stesso (con
l’unica eccezione delle persone cieche che possono farsi accompagnare in cabina elettorale);
 il voto è un dovere civico, ma si tratta di una formula ambigua, anche perché non esistono
sanzioni nei confronti di chi non vota, è un dovere civico e non giuridico: l’astensionismo è da
ritenersi ammissibile e lecito.
Anche gli italiani residenti all’estero possono votare per l’elezione del Parlamento: la legge costituzionale
1/2000 ha introdotto il comma 3 dell’art. 48, che riconosce a questa categoria di cittadini il diritto di
elettorato attivo. Essi dovranno votare in un’apposita circoscrizione elettorale, la Circoscrizione estero,
nella quale vengono eletti dodici deputati e sei senatori.
Dall’elettorato attivo va distinto l’elettorato passivo, che consiste nella capacità di essere eletti . Principio
generale è che tutti i cittadini possono essere eletti, salvo restrizioni previste dalla Costituzione.
Quest’ultima pone una restrizione che concerne l’età: per l’elezione alla Camera dei deputati occorre aver
compiuto 25 anni, mentre per l’elezione al Senato occorre aver compiuto 40 anni. Per il resto si rinvia al
principio per cui se si perde l’elettorato attivo, si perde anche quello passivo. La Costituzione poi richiede
la mancanza di alcune condizioni negative che determinano invece la cosiddetta ineleggibilità.

Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità


L’ineleggibilità parlamentare consiste in un impedimento giuridico, precedente all’elezione, che
impedisce a chi si trova in questa condizione di essere eletto validamente. L’incompatibilità invece è la
condizione del soggetto che, validamente eletto, non può cumulare la funzione parlamentare acquisita con
un’altra. Alla base di queste due figure vi sono due fondamenti giuridici differenti: l’ineleggibilità mira
alla libertà di voto e alla parità di chances tra candidati, in modo che il procedimento elettorale si svolga
con correttezza senza indebite influenze sulla competizione; l’incompatibilità invece punta all’imparziale
esercizio delle funzioni elettive e a scongiurare la minaccia di conflitti di interesse. Sul piano degli effetti
le differenze sono cospicue: le cause dell’ineleggibilità hanno natura invalidante e determinano la nullità
dell’elezione; le cause dell’incompatibilità sono “caducanti” producono la decadenza del titolare dalla
carica a meno che questi non scelga tra una delle due, si dice che possono essere rimosse attraverso
l’opzione da parte dell’interessato fra le due cariche. Dalla ineleggibilità va distinta l’incapacità elettorale
passiva, essa discende dalle stesse cause che fanno venir meno l’elettorato attivo, che perciò ne diventa il
presupposto.
La norma costituzionale sulle ineleggibilità ed incompatibilità rimanda alla legge ordinaria la
determinazione delle relative cause (con riserva di legge assoluta). La Corte costituzionale ha sempre
affermato che l’ineleggibilità è l’eccezione e questo deve spingere il legislatore a tipizzare con estrema
chiarezza e precisione le singole ipotesi di ineleggibilità, per evitare situazione applicative
discriminatorie. Le causa di ineleggibilità possono essere ricondotte, a tre gruppi:
 il primo comprende titolari di cariche di governo degli enti locali, funzionari pubblici, alti
ufficiali che per la carica ricoperta potrebbero esercitare una captatio benevolentiae sull’elettore
o incidere sulla par condicio. Tali cause non hanno effetto se la carica è cessata 180 giorni prima
della scadenza quinquennale della Camera;
 il secondo gruppo riguarda i soggetti aventi rapporti di impiego con Governi esteri;
 il terzo gruppo riguarda quelle categorie di soggetti aventi peculiari rapporti economici con lo
Stato. Per le ultime due categorie la legge non prevede una scadenza utile entro la quale è
possibile abbandonare la carica per evitare di incorrere nella sanzione di ineleggibilità. Si ritiene
comunque che le dimissione debbano aver luogo comunque prima dell’atto di presentazione
della candidatura. A questi gruppi s deve aggiungere poi la categoria dei magistrati. Essi sono
ritenuti non eleggibili nelle circoscrizioni dove hanno svolto le loro funzioni nei 6 mesi
precedenti l’accettazione della domanda di candidatura.
Le cause di ineleggibilità che incorrono nel corso del mandato elettivo prendono il nome di ineleggibilità
sopraggiunte: se queste sono frutto di una nuova carica acquisita allora si trasformano in cause di
incompatibilità, che costringono l’interessato ad optare per una delle due cariche in questione.

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In questo contesto sono state introdotte alcune eccezioni. Con una delibera del 2 ottobre 2012 la Giunta
ha stabilito che è compatibile col mandato parlamentare la nomina a Sindaco di un Comune superiore ai
20000 abitanti sopravvenuta dopo l’elezione. Nella altre ipotesi di ineleggibilità sopravvenuta si
determina comunque la decadenza dalla carica parlamentare: ciò avviene anche se nel corso del mandato
si perde il diritto all’elettorato attivo o si è condannati per reati che prevedano la pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici. In ogni caso la decadenza non è automatica, richiede deliberazione
apposita dell’Assemblea parlamentare, derivante da proposta della Giunta dopo completa attività
istruttoria.
Tra le cause di incompatibilità parlamentare alcune sono previste dalla legislazione ordinaria, altre
direttamente dalla Costituzione. Fra le cause previste dalla Costituzione, incompatibilità fra: deputato e
senatore (art. 65.2); Presidente della Repubblica e qualsiasi altra carica (art. 84.2); Parlamentare e
membro del CSM (art. 104.7); Parlamentare e Consigliere regionale (art. 122.2); Parlamentare e giudice
della Corte costituzionale (art. 135.6). Tra le cause di incompatibilità designate dalla legge ordinaria, e in
particolare dalla legge 60/1953, si ricordano l’incompatibilità con: la titolarità di uffici pubblici o privati,
derivanti da nomina o designazione parlamentare (art. 1); con cariche in enti che gestiscono servizi per
conto dello Stato; per le cariche direttive ricoperte in istituti bancari o in spa con prevalente esercizio di
attività finanziarie.
Istituto differente è la cosiddetta incandidabilità. Inizialmente è stata introdotta con riguardo alle sole
cariche elettive di livello locale e regionale: essa prevede che il Presidente di Regione, se rimosso a
seguito di grave dissesto finanziario, è incandidabile alle cariche di deputato e senatore per un periodo di
10 anni. Ha conosciuto la sua massima estensione con l’approvazione della cosiddetta legge Severino
(legge 190/2012): essa reca il divieto per chi è colpito da sentenze definitive di condanna alla reclusione
superiore a due anni per reati gravi non colposi (nella fattispecie le 3 categorie di reati con finalità di
terrorismo e stampo mafioso, tratta delle persone e riduzione in schiavitù, prostituzione e sfruttamento,
delitti contro la pubblica amministrazione, peculato, corruzione, concussione). Se l’incandidabilità
sopraggiunge durante il mandato essa produce la decadenza della carica; se la sentenza di condanna non è
definitiva la carica viene sospesa fino alla sentenza definitiva.
Viva è la discussione sulla natura dell’incandidabilità: essa è una sanzione penale? Una sanzione
amministrativa? O una semplice variazione dello status dovuta a responsabilità penali? Dalla diversa
qualificazione giuridica discendono conseguenze diverse in ordine di portata retroattiva eventuale
dell’incandidabilità. Il problema si pone quando questa derivi da fatti avvenuti prima dell’approvazione
della legge Severino o da condanne precedenti la stessa data: se fosse una sanzione penale la retroattività
sarebbe costituzionalmente esclusa dall’articolo 25 della Costituzione; se fosse una sanzione
amministrativa allo stesso modo si escluderebbe la retroattività dato che la Corte Costituzionale ha
recentemente parificato le sanzioni amministrative con quelle penali in fatto di non retroattività (sent.
196/2010). Nella prassi applicativa tuttavia è prevalsa la terza tesi: l’incandidabilità è considerata come
una modifica di status, essa non ha perciò carattere sanzionatorio, ma consiste in una forma di esclusione
dall’elettorato passivo discendente dall’obbligo costituzionale di condurre le cariche pubbliche ‘con
disciplina e onore’ (art. 54). La Corte ha dichiarato perciò che la retroattività è perfettamente lecita e anzi
frutto di un giudizio che non è meramente oggettivo, ma ricollegato ad un principio di ‘indegnità morale’.
Il risultato è che sia ininfluente che fatti commessi e condanne penali siano antecedenti l’entrata in vigore
della Severino. Nel novembre 2013 il Senato dichiara decaduto l’on. Silvio Berlusconi: egli è dichiarato
colpevole con sentenza definitiva per fatti accaduti ben prima della legge Severino. La Giunta per le
elezioni e le immunità parlamentari ha respinto la tesi della non retroattività, ma il senatore Berlusconi ha
proposto ricorso di fronte alla Corte EDU che ancora non si è pronunciata. Caso più recente è quello
sollevato dal Tribunale di Napoli al riguardo della preventiva sospensione dalle cariche del sindaco De
Magistris e del Presidente delle Regione De Luca: essa sarebbe ritenuta illegittima in opposizione al
principio dell’accesso alle cariche pubbliche tutelato dall’art. 51.
L’incandidabilità si basa sull’indegnità morale del soggetto, che è ritenuto privo delle qualità personali
necessarie per mantenere il prestigio delle cariche pubbliche. Rispetto alle cause dell’ineleggibilità quelle
dell’incandidabilità non sono rimovibili per volontà dell’interessato, esse impediscono preventivamente
la partecipazione alla competizione elettorale. Le cause dell’ineleggibilità, invece, possono essere rimosse
per volontà dell’interessato: in ogni caso all’interessato è consentito partecipare alla competizione
elettorale, dato che la sua condizione, in questo caso verrà accertata a seguito dell’elezione.
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La questione della commistione tra interessi pubblici ed interessi privati è un problema che tutte le
democrazie devono affrontare. La complessità nel formulare un regolamento sul conflitto di interessi
risiede proprio nel trovare un equilibrio tra valori di rilievo costituzionale, quali la libertà di iniziativa
economica privata e il diritto di par condicio nella concorrenze a cariche elettive. In alcuni Paesi esistono
norme generali e settoriali molto stringenti: a) in Inghilterra un apposito atto esclude dalla titolarità di
concessioni televisive alcuni soggetti tra cui il Capo e i componenti del Governo, componenti
dell’opposizione ma anche altri soggetti non necessariamente politici; b) gli Usa possiedono la disciplina
più competente in materia. Tale sistema si fonda non sulla previsione di rimedi per determinate ipotesi di
conflitto, ma su una modulazione di tali provvedimenti sulla base di diversi casi concreti. I soggetti
interessati devono comunicare ad un’autorità competente lo stato patrimoniale che li riguarda, spetterà a
tale uffici esercitare i controlli necessari e decidere quali rimedi applicare. In Italia il Parlamento ha
approvato la legge 215/2004 che disciplina il conflitto di interessi: essa stabilisce che il Governo debba
occuparsi esclusivamente alla cura degli interessi pubblici, non possono quindi adottare atti o partecipare
a deliberazioni collegiali in situazioni di conflitto di interessi. Ciò si verifica quando il Governo adotta un
atto che ha un’incidenza specifica sul patrimonio di un membro del Governo o di un suo familiare,
nonché sulle sue imprese, e quando il provvedimento comporti un danno per l’interesse pubblico. I
membri del Governo sono incompatibili con cariche parlamentari e con compiti di gestione con scopi di
lucro e con attività imprenditoriali. Sull’osservanza vigila il Garante della concorrenze e del mercato che,
se accerta un vantaggio arrecato può multare l’impresa fino ad una somma pari al vantaggio ottenuto.
Disciplina delle campagne elettorali
In un sistema democratico, la libertà di scelta dell’elettore e la parità di chances dei candidati
costituiscono principi irrinunciabili: la Costituzione tutela espressamente la libertà di voto e il diritto di
tutti i cittadini di potere accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza. Una parte importante
della legislazione elettorale di contorno ha il compito di disciplinare la fase precedente alle elezioni e
assicurare che il voto sia espressione genuina della volontà degli elettori e di garantire l’eguaglianza di
opportunità dei candidati.
Con la legge 515/1993 trovano disciplina la parità di accesso ai mezzi di informazione, le forme di
propaganda elettorale, le spese elettorali e un sistema sanzionatorio per eventuali violazioni. Il primo
obiettivo era quello di garantire la parità tra i concorrenti, singoli o partiti che siano, nell’accesso ai mezzi
di informazione nei 30 giorni precedenti la data delle elezioni. Si predispongono a questo scopo idonei
spazi nelle emittenti radiovisive e si impone a tali emittente di rispettare i canoni della par condicio
definiti dalla legge. Tale disciplina è modificata dalla legge 28/2000: essa non si limita a regolare la
comunicazione politica solo nei periodi delle campagne elettorali ma anche nei periodi di fuori da questi.
Il legislatore ha previsto l’obbligatorietà dell’offerta di programmi di comunicazione politica da parte
delle emittenti secondo criteri che assicurino l’imparzialità e l’equità fra tutti i soggetti politici per
l’accesso a tali mezzi. Nel periodo elettorale (che va dalla convocazione dei comizi elettorali fino alla
chiusura delle operazioni di voto) la comunicazione politica è regolata attraverso una ripartizione equa
degli spazi tra i competitori secondo criteri di imparzialità, obiettività e completezza dell’informazione.
Inoltre, a differenza della precedente legge del 1993, la legge 28/2000 consente i messaggi autogestiti, e
anzi ne consente l’emissione gratuita solo nella concessione pubblica, che pertanto deve fornire i mezzi
necessari a tale attuazione.
La legge 28/2000 disciplina anche la diffusione dei sondaggi politici: questi non possono essere
pubblicati nell’imminenza (15 giorni prima) delle elezioni poiché potrebbero recare nocumento allo
svolgimento delle stesse; inoltre, se pubblicati in periodo non elettorale devono essere accompagnati da
apposita scheda tecnica illustrativa della qualità del sondaggio.
Allo stesso modo, le spese elettorali sono sottoposte ad un regime particolare, differente se sono riferite
ad un soggetto o ad un partito o movimento. Nel primo caso, il candidato deve nominare un mandatario
elettorale: egli diviene l’unico mezzo attraverso cui il candidato ottiene finanziamenti ed inoltre è garante
della regolarità di gestione e del rispetto dei limiti di spesa imposti. Il candidato ha poi l’obbligo di
presentare un rendiconto delle spese e dei fondi ricevuti alla Camera di appartenenza: tale rendiconto
verrà esaminato dal Collegio regionale di garanzia elettorale (un organo con poteri sanzionatori pecuniari
in caso di violazioni). I partiti invece presentano il proprio consuntivo ai Presidenti delle Camere: il
controllo viene effettuato da uno speciale organo istituito presso la Corte dei conti.

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Il finanziamento della politica
Il costo delle politica è in rapida crescita negli ultimi anni, spinto da un lato dalla complessità crescente
dei partiti, che necessitano di ingenti risorse; e dall’altro dal costo delle campagne elettorali che
richiedono le più moderne tecniche di comunicazione al fine di raggiungere il loro scopo. Da questa
situazione derivano esigenze diverse: occorre innanzitutto evitare che solo chi dispone di ingenti somme
di denaro acquisti il monopolio della comunicazione e quindi abbia effettiva possibilità di essere eletto.
Questo scopo si è raggiunto con l’introduzione di forme di finanziamento pubblico, che gravano cioè
sulle casse dello Stato, ma che garantiscono una tendenziale parità delle risorse. Se, da un lato, il
finanziamento pubblico è garanzia di parità, dall’altro rischia di trasformare i partiti in apparati
burocratici distanti dalle esigenze dei cittadini: a questa tendenza si è ovviato facendo discendere tale
finanziamento dalla volontà dei cittadini. Pertanto, ogni disciplina delle modalità di finanziamento della
politica deve bilanciare esigenze diverse, realizzando assetti molto complessi, spesso oggetto di veementi
critiche e, perciò, soggetti a rapido mutamento.
Il finanziamento pubblico dei partiti in Italia è stato oggetto di una massiccia legislazione. La legge
195/1974 prevedeva: un contributo annuale ai gruppi parlamentari per lo svolgimento delle loro normali
attività; un contributo alle spese elettorali sostenute dai partiti per le elezioni del Parlamento europeo, del
Parlamento nazionale e dei Consigli regionali; l’obbligo di presentare un bilancio annuale da sottoporre ai
Presidenti delle Camere; il divieto, con relative sanzioni penali, per il finanziamento di partiti o gruppi
parlamentari da parte di enti pubblici o della pubblica amministrazione o a partecipazione statale. A
seguito di un referendum, sulla spinta della reazione popolare, sono state abrogate le disposizioni
riguardanti il finanziamento pubblico dei partiti. Il risultato del referendum ha indotto il legislatore ad
orientare tale finanziamento alla scelta dell’elettore: la legge 2/1997 ha introdotto il contributo volontario
del 4 per mille. Nel 1999 venne reintrodotto il finanziamento pubblico sotto forma però di rimborso per le
spese elettorali. Una norma del 2002 riduceva dal 4 all’1% la soglia necessaria per godere di tali rimborsi,
sicché si garantiva la sopravvivenza finanziaria anche di quelle minoranze a bassissimo consenso
nazionale. Nel 2012 una nuova riforma ha innalzato la percentuale minima al 2% e ha ridotto il suddetto
finanziamento, inoltre ha sottoposto a controllo di garanzia l’uso effettivo dei fondi, data la tendenza ad
utilizzare per fini personali i fondi destinati ai gruppi parlamentari.
Si è arrivati, infine, al decreto legge 149/2013 (convertito con la legge 13/2014) che abolisce
definitivamente il finanziamento pubblico dei partiti e lo sostituisce con uno volontario del 2 per mille
della propria imposta, promuovendo tali erogazioni libere con detrazioni fiscali. Il nuovo sistema sarà
attivo a pieno regime solo dal 2017 e prevede per la prima volta la registrazione dei partiti e un tentativo
di disciplina della democrazia interna.
Un altro tipo di finanziamento è quello che riguarda i gruppi parlamentari. Essi ricevono un contributo
per lo svolgimento delle loro attività istituzionali, basato su due criteri: 1) le esigenze di base comuni a
tutti i partiti e 2) la consistenza numerica di ciascun partito. A seguito di una legge del 2012 ciascun
partito deve dotarsi di uno statuto che va reso pubblico poiché, sulla base di questo statuto, vengono
approvati bilanci e rendiconti. Tali contributi sono destinati esclusivamente alle esigenze fisiologiche dei
gruppi parlamentari, ai loro scopi istituzionali ed alle attività politiche ad esse connesse. Il rendiconto
viene poi sottoposto ad una società di revisione contabile, che ne verifica la regolarità.

I sistemi elettorali
Il sistema elettorale è il meccanismo attraverso cui i voti espressi dagli elettori si trasformano in seggi. Il
sistema elettorale si compone fondamentalmente di tre parti:
1. il tipo di scelta che spetta all’elettore. L’elettore può esprimere una scelta secca oppure un ordine
di preferenze (come nel cosiddetto voto trasferibile) con uno o più voti ausiliari al principale; se
il primo candidato ha raggiunto il numero dei voti necessari per essere eletto non si tiene più
conto del voto espresso in suo favore e, invece, si terrà conto del secondo candidato espresso
nella scheda;
2. le dimensioni del collegio. Ovvero l’ambito preso in considerazione per la ripartizione dei seggi
in base ai voti (se l’ambito è territoriale, si chiama anche circoscrizione elettorale). Si distingue:
il collegio unico, che si ha quando esiste un solo collegio che ripartisce ai candidati tutti i seggi

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in palio. Possono anche essere previsti più collegi ciascuno dei quali eleggerà un certo numero di
parlamentari. Bisogna ancora distinguere in base alle dimensioni del collegio (ovvero del
numero di parlamentari che viene eletto): 1) collegio uninominale, in cui risulta eletto un solo
candidato; 2) collegio plurinominale in cui risultano eletti più candidati. Nell’ambito dei collegi
plurinominali, corre una grossa differenza tra i collegi in cui si elegge un piccolo numero di
parlamentari e collegi in cui si elegge un numero elevato di parlamentari: nel primo caso solo i
partiti più grandi avranno effettiva possibilità di entrare in Parlamento, poiché i seggi da
distribuire sono pochi; nel secondo caso, invece, anche i partiti più piccoli avranno la possibilità
di ottenere qualche seggio;
3. la formula elettorale. Meccanismo attraverso cui si procede, sulla base dei voti espressi, alla
ripartizione dei seggi tra i soggetti che hanno partecipato alla competizione elettorale.
Tenendo conto della formula elettorale, i sistemi elettorali si distinguono in sistemi maggioritari e sistemi
proporzionali.
A. Nei sistemi maggioritari il seggio è attribuito a chi ottiene la maggioranza dei voti, occorre
ancora distinguere per tipo di maggioranza: 1) se è richiesta la maggioranza assoluta, occorre
avere ottenuto almeno la metà più uno dei voti totali e se nessun candidato la raggiunge si
procede ad un secondo turno di elezioni: questa volta il vincitore emerge tra i due candidati con
maggiori voti a maggioranza relativa; 2) se è richiesta la maggioranza relativa, è eletto
semplicemente chi ottiene più voti, anche se questi non raggiungono la metà più uno.
B. Nei sistemi proporzionali i seggi in palio vengono distribuiti proporzionalmente alla percentuale
di voti ottenuta da ciascuna lista in competizione. Si tiene conto, ai fini della ripartizione dei
seggi, di tutte le liste di candidati che abbiano ottenuto una quantità di voti almeno pari ad una
percentuale minima, che prende il nome di quoziente elettorale. Tutte le liste che raggiungono
questo livello minimo partecipano alla ripartizione dei seggi in rapporto al numero di voti
ottenuto da ciascuna. Attribuiti i seggi, si procede ad accertare i candidati eletti per ciascuna
lista. Si seguono due procedimenti: a) se gli elettori esprimono, oltre ad una preferenza per la
lista, una sul candidato, viene eletto quello col numero maggiore di voti; b) se manca tale
possibilità, si considera l’ordine della lista seguendo la priorità con metodo della cosiddetta lista
bloccata, che attribuisce grandi poteri ai dirigenti di partito. I metodi più utilizzati per la
ripartizione dei seggi nei sistemi elettorali sono principalmente due:
- il metodo d’Hondt (o delle divisioni successive). La cifra elettorale (ovvero il totale dei voti riportati da
ciascuna lista nel collegio) è divisa prima per 1, poi per 2, per 2 e per 4 fino alla concorrenza del numero
dei seggi da coprire. Quindi si scelgono tra i quozienti così ottenuti i più alti, in numero eguale a quello
dei deputati da eleggere, e si collocano in una graduatoria decrescente. Ad ogni lista sono attribuiti tanti
seggi quanti sono i quozienti della stessa graduatoria. Ad esempio, assumiamo che i seggi da ripartire
siano 6 e che le liste presenti siano tre (A, B, C). Poniamo la cifra elettorale di A = 1500, di B = 900 e di
C = 700: a questo punto ciascuna cifra elettorale sarà divisa per 1, 2, 3, 4, 5, 6 (essendo 6 i seggi da
ripartire). Con riferimento alla lista A avremo i seguenti quozienti: 1500, 750, 500, 375, 300, 250; con
riferimento alla lista B, i quozienti sono: 900, 450, 300, 225, 180, 150; con riferimento alla lista C i
quozienti sono: 700, 250, 233, 175, 146, 116. Si scelgono i sei quozienti più alti tra tutti quelli ottenuti,
ossia 1500 (A), 900 (B), 750 (C), 500 (A), 450 (B). A ciascuna lista ci sono tanti seggi quanti sono i
quozienti della stessa presenti nella graduatoria, quindi la lista A avrà tre seggi, la lista B ne avrà due e la
lista C ne avrà uno;
- il metodo del quoziente: si calcola la cifra elettorale generale (ovvero il totale dei voti validi espressi) e la
si divide per il numero dei seggi da coprire e si ottiene il quoziente elettorale. Si calcola la cifra elettorale
di ciascuna lista, che viene poi divisa per il quoziente elettorale e si ottiene il numero dei seggi che
spettano ad ogni lista. I risultati potrebbero non essere interi, per ovviare a questo problema ed assegnare
i seggi si seguono due strade: 1) il metodo dei più forti, attraverso il quale i seggi in disavanzo sono
assegnati alle liste con i resti più elevati; 2) il metodo del quoziente rettificato, attraverso il quale la cifra
elettorale generale si divide per il numero dei seggi aumentato di una o più unità. Ad esempio,
supponiamo che i seggi da ripartire siano 10, i voti 1000 (cifra elettorale generale) e le liste concorrenti
siano A, B e C. La cifra elettorale di A = 466, di B = 351, di C = 183. Il quoziente elettorale sarà dato da
1000: 10 = 100. Ciascuna cifra elettorale di lista è divisa per il quoziente elettorale, ottenendo i seguenti
risultati: A = 466: 100 = 4 + 66 resti; B = 351: 100 = 3 + 51 resti; C = 183: 100 = 1 + 83 resti. Due seggi
non sono stati attribuiti a causa dei resti, quindi: se ai fini della loro ripartizione si adottasse il metodo del

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più forte un seggio andrebbe alla lista C (83 resti) e uno alla lista A (66 resti). Se invece si applica il
metodo del quoziente rettificato, per ottenere il quoziente elettorale, la cifra generale elettorale non si
divide già per 10 (numero di seggi da ripartire), ma per 11 (numero di seggi da ripartire aumentato di
un’unità). Il quoziente elettorale sarà più basso, precisamente di 90,9. La cifra elettorale di ciascuna lista
andrà divisa per il quoziente elettorale ottenendo: A = 466: 90,9 = 5 seggi; B = 351: 90,9 = 3 seggi; C =
183: 90,9 = 2 seggi. Tutti i seggi in palio sono stati attribuiti alle liste in competizione.
I sistemi maggioritari sono per definizione selettivi, in quanto consentono l’accesso alle aule alle sole
forze politiche maggiori. Le forze politiche minori, pur avendo ottenuto un numero consistente di voti
non hanno rappresentanza parlamentare. I sistemi proporzionali invece consentono l’accesso in aula di
tutte le formazioni politiche, poiché fotografano la realtà politica del Paese ed hanno quindi effetto
proiettivo. Tuttavia la selettività del sistema non è dovuta solo alla formula elettorale: si è già visto come
la dimensione dei collegi influenzi i risultati in tal senso; inoltre, alcuni sistemi proporzionali mantengono
un certo grado di selettività grazie alla presenza di una clausola di sbarramento, in virtù della quale
accedono ai seggi le sole liste che superano una certa percentuale di consenso (in Germania il 5%). Altro
aspetto che coniuga sistema proporzionale e selettività è l’introduzione di premi di maggioranza per cui le
coalizioni che superano una certa percentuale hanno in premio un numero di seggi (il caso della legge
148/1953, ben presto denominata legge truffa e abrogata). In conclusione si può osservare come il
sistema elettorale influenzi l’assetto del sistema politico. Ciò spiega perché le tecniche elettorali
costituiscono il mezzo principale dell’attuazione della c.d. ingegneria istituzionale, ovvero l’orientamento
secondo cui, attraverso la modifica di regole legali, è possibile cambiare le caratteristiche del sistema
politico.
Il sistema elettorale del Parlamento in Italia
Sin dal 1993 in Italia le due Camere sono elette con sistema proporzionale: ciò si spiega in relazione alle
profonde fratture sociali e ad un sistema politico fortemente polarizzato. La legge elettorale proporzionale
assicurava a tutte le forze garanzia di rappresentanza, evitava la concentrazione di troppo potere nelle
mani delle forze maggioritarie e stimolava la ricerca dell’accordo e della mediazione.
Il sistema elettorale proporzionale è stato per molto tempo componente cardine del parlamentarismo
compromissorio italiano. Le trasformazione sociali in Italia hanno prodotto una spinta verso una
democrazia maggioritaria. Questa spinta ha avuto il suo apice nel referendum del 1993 col quale si
modificavano le norme dell’elezione in Senato: tali modificazioni, per motivi casuali, consentivano che
l’assetto di trasformasse in senso maggioritario-uninominale. Col referendum (che ebbe una delle
maggiori percentuali di sì della storia italiana: oltre l’80%) si evidenziava un chiaro indirizzo politico
rivolto in favore di una trasformazione del sistema; tuttavia, a causa di dissidi interni, il Parlamento
incontrò grosse difficoltà nell’approvare una riforma elettorale. Si preferì attuare il risultato del
referendum con due leggi che ponevano in essere un sistema elettorale sostanzialmente misto: il 70% dei
seggi era assegnato con metodo maggioritario-uninominale, mentre il restante 25% con metodo
proporzionale.
Il sistema maggioritario viene abbandonato nuovamente nel 2005 in favore della legge 270 rinominata
dal dibattito giornalistico Porcellum. Essa introduce sistema elettorale proporzionale con liste bloccate,
clausola di sbarramento e premio di maggioranza. Il Porcellum trova la sua prima applicazione nel 2006,
in seguito alle elezioni anticipate del 2008 (con esclusione di alcune liste a causa della clausola di
sbarramento). Ma la legge elettorale dà la peggiore prova di se nel 2013: la disciplina differente del
premio di maggioranza in Senato e alla Camera dà luogo a maggioranze diverse, sicché si è resa difficile
la formazione di un Governo: la difficile situazione politica assieme con le liste bloccate ha pesantemente
delegittimato il Parlamento, che è apparso più come nominato che come eletto. In questo panorama le
pesanti critiche di incostituzionalità della legge trovano un varco ed arrivano alla Corte, che ne ammette
solo alcuni aspetti.
La Corte si pronuncia nella sentenza 1/2014 e dichiara illegittimo: 1) l’eccessivo premio di maggioranza
assegnato nell’elezione alla Camera dei deputati; 2) il premio di maggioranza garantito all’elezione al
Senato, in ciascuna circoscrizione regionale, alla coalizione di lista o singola lista che ha ottenuto il
maggior numero di voti validi; 3) il sistema delle liste bloccate e la mancata previsione della facoltà di
preferenza. L’intera riforma elettorale è rimasta valida, abrogate le norme precise elencate, in quanto
‘idonea a garantire il rinnovo dell’organo costituzionale’.
Sotto il profilo sostanziale la Corte ha ribadito che non è costituzionalmente obbligatorio un sistema
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proporzionale, ma il legislatore gode di ampia discrezionalità in quando deve operare un bilanciamento
tra due esigenze di rilievo costituzionale: l’esigenza di rappresentanza e l’esigenza di governabilità.
Il sistema elettorale che risulta dalla pronuncia della Corte è quindi un sistema proporzionale con voto di
preferenza: in generale la Corte ha ribadito che il sistema non è costituzionalmente tenuto ad essere
proporzionale, ma anzi è tenuto ad operare un bilanciamento tra governabilità e rappresentatività. A
seguito di tale pronuncia, per superare il proporzionalismo puro che discendeva dalle abrogazioni, è stata
approvata nel 2015 una nuova legge elettorale (la legge 52/2015 o Italicum). Essa prevede un sistema
proporzionale, con premio di maggioranza, clausola di sbarramento e voto di preferenza. Il fine è ancora
una volta assicurare una maggioranza a sostegno del Governo, fine perseguito col premio di
maggioranza, meno intenso di quello della legge del 2005. Inoltre, e qui sta la differenza maggiore con la
legislazione precedente, il premio di maggioranza non viene assegnato alla coalizione che ha più voti, ma
alla lista più votata, sicché non vi è più incentivo a formare coalizioni. Nella medesima direzione si
muovono la previsione di una clausola di sbarramento e la previsione che l’attribuzione dei seggi avvenga
in collegi di piccole dimensioni, che eleggono da un minimo di tre ad un massimo di nove seggi. Il
sistema che ne deriva è proporzionale ma piuttosto selettivo: di fatto questi accorgimenti si muovono
nella direzione di rafforzare il Governo e semplificare il sistema politico (vedi nello specifico a pag. 180-
181). La nuova legge elettorale riguarda solamente le elezioni della Camera dei deputati, perché al
momento della sua approvazione era in corso il procedimento di revisione costituzionale del
bicameralismo paritario, con l’obiettivo di modificare ed escludere l’elezione diretta dei senatori.

Le elezioni del Parlamento europeo


Le elezioni del Parlamento europeo si svolgono sulla base di leggi differenti da Stato a Stato. In Italia tali
procedimenti sono disciplinati dalla legge 10/2009, che rappresenta l’unico esempio di sistema
esclusivamente proporzionale ancora operante (una legge successiva ha innalzato la soglia di sbarramento
al 4%). I seggi attribuiti all’Italia sono 72 e sono ripartiti nell’ambito di 5 grandi circoscrizioni, per
distribuirli si opera nel modo seguente: si ottiene il quoziente elettorale nazionale dividendo il totale dei
voti per il numero dei seggi da attribuire; si divide la cifra elettorale di ciascuna lista per il quoziente
elettorale nazionale e si ottiene il numero dei seggi che spetta a ciascuna lista. Eventuali seggi rimanenti
sono assegnati alla lista con maggiori resti e nel caso di parità dei resti alla lista con più voti. La fase
successiva è quella di attribuzione dei diversi seggi alle diverse circoscrizioni, si opera in questo modo: si
calcola il quoziente elettorale di lista (cifra elettorale diviso seggi assegnati); si calcola la cifra
circoscrizionale di lista (numero dei voti validi nelle singole circoscrizioni); si divide la cifra
circoscrizionale di lista per il quoziente elettorale di lista, il risultato indica il numero dei seggi da
attribuire alla circoscrizione presa in esame. Si ricorda che nelle elezioni parlamentari europee è possibile
esprimere il voto di preferenza plurimo per i candidati (fino a 3).
La verifica dei poteri e il contenzioso elettorale
Si chiama verifica dei poteri il procedimento specifico che ciascuna Camera adotta per verificare la
legittimità delle elezioni nonché eventuali incompatibilità o ineleggibilità dei candidati. La Giunta per le
elezioni decide se convalidare o meno le elezioni, affida la sua proposta all’Assemblea cui spetta la
decisione definitiva. La decisione dell’Assemblea è insindacabile, non ammette alcun ricorso. Per le
elezioni del Parlamento europeo le decisioni riguardanti la regolarità del processo elettorale sono affidate
al Tar del Lazio, mentre quelle in materia di ineleggibilità o incompatibilità sono assegnate alla Corte
d’appello.

CAPITOLO V – L’ORGANIZZAZIONE COSTITUZIONALE IN ITALIA


La forma di governo in Italia: evoluzione e caratteri generali
Il dibattito costituente e la razionalizzazione del parlamentarismo
La forma di Governo in Italia è delineata dalla Costituzione ed è definibile come parlamentare a debole
razionalizzazione, in cui sono previsti solo limitati interventi del diritto costituzionale per assicurare la
stabilità del rapporto di fiducia e la capacità politica del Governo. In realtà coesistevano nell’Assemblea
Costituente orientamenti differenti che volevano da un lato una disciplina costituzionale che rafforzasse
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l’autorità e il potere del Governo, dall’altro si voleva dare una forte razionalizzazione del
parlamentarismo, con la convinzione che proprio la debolezza del potere legislativo avesse causato
l’avvento del Fascismo; inoltre vi era un’altra posizione, favorita dalle sinistre, che voleva un assetto
costituzionale aperto e flessibile, adattabile alle mutevoli circostanze. Il dibattito si produsse nel c.d.
ordine del giorno Perassi: esso conteneva l’opzione in favore di un Governo parlamentare disciplinato
con dispositivi costituzionali adatti a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le
degenerazioni del parlamentarismo. L’interpretazione successiva tuttavia fu restrittiva: la
razionalizzazione si manifestò in un Presidente della Repubblica relegato a semplice ruolo di garanzia e
di intermediazione politica, nella presenza di una Corte costituzionale dotata di rilevanti attribuzioni di
tutela della Costituzione e il rapporto di fiducia si mantenne affidato ad una disciplina essenziale
compatibile con assetti differenti della forma di Governo.
La disciplina del rapporto di fiducia e la maggioranza politica
Tale razionalizzazione del rapporto di fiducia è diretta anzitutto a garantire la stabilità del Governo,
rendendo difficoltosa l’approvazione di una mozione di sfiducia. La mozione di sfiducia (è l’atto con cui
il Parlamento rompe il rapporto di fiducia col Governo e lo costringe alle dimissioni) deve essere
motivata e votata per appello nominale (si impedisce il fenomeno dei cosiddetti franchi tiratori, quei
deputati che, dietro al voto segreto minano alla maggioranza), inoltre deve essere firmata da almeno 1/10
dei componenti della Camera e non può essere discussa prima di tre giorni dalla sua proposta (in questo
modo si scoraggiano i c.d. assalti alla diligenza). La Costituzione ha avuto anche cura di precisare che il
voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non comporta l’obbligo di
dimissioni (art. 91.4). La razionalizzazione della fiducia tuttavia non ha mai trovato applicazione poiché
tutte le crisi di Governo non sono state causate da sfiducia sopraggiunta ma da rotture interne alla
maggioranza.
Di maggior rilievo è l’altro aspetto della stessa disciplina costituzionale: la mozione di fiducia. È disposto
che il Governo si presenti alle Camere entro 10 giorni dalla sua formazione ed ottenga (o meno) una
mozione di fiducia: non è ammessa la cosiddetta fiducia negativa ovvero il tacito assenso delle Camere
che consente al Governo di reggersi. È necessario perciò che il Governo goda di una maggioranza politica
alle Camere, ovvero una maggioranza stabile che si aggrega intorno ad un determinato indirizzo politico
e che pertanto si impegna a realizzarlo. Questa definizione è appoggiata dalla disciplina costituzionale
dell’appello nominale con il quale i parlamentari si assumono la responsabilità di fronte agli elettori, e
della motivazione della mozione, che rende l’appoggio non generico ma effettivo. Il rapporto di fiducia si
realizza fra Governo e maggioranza, non con l’intero Parlamento, poiché questo non è un soggetto
unitario.
Ciò non esclude che, in condizioni particolari, i partiti non intendano impegnarsi in alleanze politiche. In
queste fasi si è fatto ricorso a Governi dall’identità politica sbiadita con funzione dichiaratamente
transitoria: i c.d. governi tecnici. Essi ricevono comunque un’investitura iniziale fiduciaria spesso
ottenuta con l’espediente dell’astensione in sede di votazione della fiducia.
Deriva dalla disciplina descritta la questione di fiducia. Essa è un espediente al quale ricorre il Governo
per ottenere l’approvazione parlamentare di un suo decreto. In sostanza il Governo utilizza il ‘ricatto’
delle dimissioni qualora il Parlamento non approvi la sua proposta: l’intento è sicuramente esortativo nei
confronti della maggioranza parlamentare per intimare di restare compatta ponendo l’alternanza secca tra
approvazione e crisi. Alla questione di fiducia si applicano i procedimenti della mozione di sfiducia: la
discussione è aggiornata, l’appello è nominale e viene bloccata la votazione degli emendamenti.
Il sistema politico italiano ha operato fino alla IX legislatura come multipartitismo esasperato, mentre in
seguito si affermata (in particolare alla XII) una tendenza in favore del parlamentarismo maggioritario.
I caratteri della società e del sistema politico
All’inizio della storia repubblicana la democrazia si trova a fare i conti con una società segnata da
profonde divisioni ideologiche, incentrate sulla contrapposizione tra l’ideologia marxista e l’ideologia
cattolica. Queste tendenze predominanti si sintetizzavano nei due principali partiti della democrazia: il
partito comunista e la Democrazia Cristiana. Tale realtà ha dato luogo ad un sistema multipartitico
esasperato (caratterizzato non solo dal grande numero di partiti, ma anche dalle profonde distanze
ideologiche tra gli stessi), accentuato dal fatto che le due forze politiche traevano legittimazione fuori
dalla società nazionale (il PCI in URSS e la DC nella Chiesa Cattolica) e dalla presenza di un partito
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socialista e di un partito di destra neofascista (MSI) considerate non utilizzabili per la formazione di un
Governo. Tali partiti erano tacitamente esclusi dall’area di Governo (conventio ad escludendum).
Multipartitismo esasperato e forma di governo
Le caratteristiche della società impedivano l’affermazione di una democrazia maggioritaria e
richiamavano i presupposti per una democrazia consociativa. Erano impraticabili sia la dinamica bipolare
(con la contrapposizione maggioranza-opposizione) sia l’investitura popolare diretta del Governo (a
causa della radicalizzazione del conflitto politico). La forma di Governo ha funzionato sulla base di
maggioranze post- elettorali (frutto di accordi tra i partiti dai quali inizialmente erano escluse le ali
estreme). La formazione post- elettorale della maggioranza ha consentito la progressiva attrazione
nell’area della coalizione di governo di partiti collocati alle ali estreme del sistema: in tal modo essi
hanno finito per essere integrati nella nostra democrazia pluralista. Il sistema politico condizionava la
forma di Governo orientandola verso quella del parlamentarismo compromissorio supportato dal sistema
proporzionale per l’elezione del Parlamento, dai regolamenti parlamentari che incentivavano l’accordo tra
maggioranze e minoranze e dall’assenza di strumenti di rafforzamento del Governo.
Le iniziali contrapposizioni si sono attenuate anche grazie alla capacità integrativa del sistema
costituzionale ma, nel frattempo la società si è complicata, è diventata sede di nuovi interessi,
difficilmente rappresentabili dai partiti tradizionali. La crisi delle ideologie e la laicizzazione della società
hanno accresciuto la difficoltà per i partiti italiani di adempiere la loro funzione tipica di realizzare
l’equilibrio tra la rappresentanza. È nata in consistenti settori della società italiana la spinta ad
abbandonare le pratiche della democrazia consociativa a favore di una democrazia maggioritaria, con
conseguente ricerca di un nuovo assetto della forma di governo. La manifestazione più vistosa si è avuta
con il c.d. referendum elettorale del 18 aprile 1993, che aveva come oggetto l’abrogazione del sistema
elettorale proporzionale a favore di un sistema elettorale maggioritario.
Quindi, si diffuse nell’opinione pubblica un atteggiamento ostile verso il parlamentarismo
compromissorio e verso i partiti che l’avevano realizzata e le indagini della magistratura sulla corruzione
dilagante danno il colpo di grazia ad un sistema politico già in crisi profonda.
Da un sistema politico multipolare ad un sistema a tendenza bipolare. I fattori di crisi del bipolarismo Si
aprì una lunga fase di ristrutturazione politica, facilitata dalla tendenza a votare sulla base delle proposte
politiche preferibili e non più dell’appartenenza stabile a determinati partiti. Di conseguenza le forze
politiche avviano una forte competizione per accaparrarsi i voti degli elettori mobili che contribuiscono
allo spostamento dei tradizionali equilibri. Nascono nuovi partiti, quelli tradizionali o scompaiono o si
trasformano in nuovi: il risultato è che il sistema è ancora più frammentato e che tale frammentazione si
riflette in Parlamento, venendo meno la centralità di un determinato partito. Tutti i partiti hanno accettato
i nuovi aspetti del pluralismo, perciò non esistono minoranze che non sono considerate in grado di far
parte della maggioranza: si crea la possibilità di un funzionamento bipolare del sistema, presupposto per
il parlamentarismo maggioritario. Si apre la strada ad una competizione politica bipolare ed alla pratica
dell’alternanza: la bipolarizzazione elimina in poco tempo tutte quelle minoranze ancora legate alle
grandi ideologie del 900, il sistema politico è notevolmente semplificato.
La formazione della coalizione
La formazione di una maggioranza politica costituisce una necessità istituzionale (art. 94 Cost.): in un
sistema pluripartitico la maggioranza sarà necessariamente formata da più partiti in accordo e prende il
nome di coalizione. A seconda delle modalità seguite per la formazione della coalizione vanno distinte:
 coalizioni annunciate di fronte al corpo elettorale. Il corpo elettorale può scegliere tra coalizioni
alternative; quella che vince le elezioni diventa la maggioranza e il leader diventa Primo
Ministro. La maggioranza gode in questo caso di elevata stabilità, derivante dal fatto che
un’eventuale rottura degli accordi e la formazione di una nuova maggioranza richiedono nuove
elezioni. Il sistema funziona in modo bipolare, con due poli politici alternativi, ciascuno formato
da più partiti;
 coalizioni formate in Parlamento, dopo le elezioni. Terminate le elezioni iniziano le negoziazioni
per la scelta della maggioranza di Governo; ciascun partito potrà, in questa sede, far valere la
forza derivante dal grado di consenso ottenuto. Le maggioranze si fanno e si cambiano in
Parlamento quindi, di norma, la rottura degli accordi e la formazione di una nuova maggioranza

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non richiedono nuove elezioni. Com’è ovvio la legittimazione delle coalizioni del primo tipo è
maggiore e diretta.
In Italia fino al 1994 le coalizioni sono sempre state formate in sede parlamentare dopo elezioni,
attraverso complesse trattative tra le forze politiche. A seguito della crisi del sistema politico e delle
spinte popolari verso una democrazia maggioritaria sono state abbandonate le regole convenzionali che
consentivano la formazioni di tale tipologia di coalizione e si è sviluppata la tendenza verso un sistema
basato sulla competizione tra due coalizioni annunciate agli elettori. Ciò nonostante esse hanno
continuato ad avere elementi di conflittualità e disomogeneità al loro interno, determinando una certa
instabilità. I processi di crisi del sistema politico già avvistati nel 2008, nel 2013 diventano ancora più
vistosi, mettendo in crisi sia la logica bipolare sia la coincidenza tra coalizione annunciata al corpo
elettorale e coalizione di governo. Nessuna delle due coalizioni ottiene la maggioranza alle elezioni, si
forma un Governo Letta basato su una grande coalizione in cui confluivano i partiti maggiori, insieme ad
altre forze minori. Dopo l’uscita del Pdl dalla maggioranza, e la permanenza entro il suo perimetro del
partito nato dalla scissione dello stesso Pdl, la presenza di una variegata opposizione parlamentare, ha
portato al superamento dell’esperienza della ‘grande coalizione’: ma è rimasto il dato di una coalizione
diversa da quella proposta al corpo elettorale e formata dopo le elezioni.
Breve storia delle crisi di Governo
La crisi di governo consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del
rapporto di fiducia tra il Governo e il Parlamento (o meglio, la maggioranza). Tradizionalmente si
distinguono le crisi di Governo in parlamentari o extraparlamentari. Le crisi parlamentari sono causate: a)
dall’approvazione di una mozione di sfiducia; b) da un voto contrario sulla fiducia posta dal Governo. In
nessun caso vi sono state crisi determinate da presentazione di mozioni di sfiducia, in due casi sono state
causate da voto parlamentare negativo sulla questione di fiducia e in quattro casi da una mancata
concessione della fiducia iniziale. Le crisi extraparlamentari invece sono frutto di dimissioni volontarie
del Governo o del solo Presidente del Consiglio: nella storia politica italiana sono state molto più
frequenti delle prime. Ciò è facilmente spiegabile se consideriamo che le coalizioni sono formate a
seguito di accordi conclusi tra partiti dopo le elezioni e che quindi il venir meno di tali accordi comporta
la crisi della maggioranza, con la conseguenza che il Governo si trova privo del sostegno parlamentare. È
possibile la pratica del cosiddetto rimpasto ministeriale anche senza che occorrano momenti di crisi: tale
procedimento è possibile se i partiti sono consenzienti e non richiede nuovo voto di fiducia.
Dal punto di vista del diritto costituzionale, le crisi extraparlamentari non costituiscono violazione
dell’art. 94 della Costituzione, tuttavia si pone il problema, in questi casi, di far conoscere le cause della
crisi ai cittadini in modo che questi possano valutare eventuali responsabilità dei partiti. Si è aperto, a
questo scopo, un percorso di parlamentarizzazione delle crisi: accorgimento concepito dal presidente
Pertini, consiste nella presentazione del Presidente del Consiglio dimissionario di fronte ad una delle
Camere per esporre le cause della crisi e su queste iniziare un dibattito. Il dibattito non serve tanto a far
rientrare la crisi, quanto a rendere pubbliche le cause della crisi medesima, nata all’interno dei rapporti tra
i partiti politici. La prassi, rivolta ad una maggiore trasparenza, è stata abbandonata in tempi recenti.
In alcuni casi poi, le crisi si risolvono con la pratica dei cosiddetti ribaltoni, ovvero con la formazione di
un nuovo Governo sostenuto da una maggioranza diversa da quella presentata al corpo elettorale. Le
norme costituzionali sulla forma di Governo sono compatibili con tale pratica, perciò non si può
affermare che tali episodi siano costituzionalmente inammissibili. È esclusivamente dalla convinta
adesione dei soggetti politici al parlamentarismo maggioritario che dovrebbe scaturire l’affermazione di
un corpo di regole convenzionali che impediscano che il mutamento di maggioranza avvenga senza
elezioni anticipate. Tali norme avrebbero forte funzione deterrente nei confronti di quei partiti che escono
dalla maggioranza politica poiché dopo la crisi sarebbero immediatamente sottoposti al giudizio
dell’elettorato.
La mancanza di prassi e convenzioni che assicurino un certo grado di durata delle coalizioni ha avuto
influenze sulle stabilità del Governo, cioè sul periodo che resta in carica. Di conseguenza si è resa
difficile l’esistenza di un indirizzo politico che assicuri efficienza decisionale e affronti i problemi
strutturali del paese.
Esistono anche casi di cosiddetta sfiducia individuale, nei confronti di un singolo ministro. I regolamenti
parlamentari hanno riconosciuto questa figura estendendo ad essa la disciplina già prevista dalla
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Costituzione riguardo la sfiducia all’intero Governo. Questo dopo la pronuncia della Corte che ha
dichiarato ammissibile costituzionalmente la sfiducia proposta dal Senato per il Ministro Mancuso ne
1995. Fino al caso Mancuso la sfiducia individuale era lo strumento attraverso cui l’opposizione metteva
in crisi in Governo, costringendolo di fatto a prendere le difese del Ministro i questione ed assumersi la
responsabilità dell’operato dello stesso. Nel 1995 però la situazione era particolare: il Governo Dini era
privo di fisionomia politica e prendendo le difese del Ministro avrebbe di fatto sostenuto una posizione
politica e perso la sua asserita neutralità; per questa ragione, per la prima volta il Governo non ha coperto
il Ministro e si è rimesso alle decisioni del Parlamento. Terreno fertile per la fiducia individuale è perciò
un Governo tecnico privo di specifiche caratterizzazioni politiche. Tuttavia questo strumento è caduto in
desuetudine: a seguito dell’acquisito assetto maggioritario del parlamentarismo, non avrebbe senso che si
sfiduci un membro della propria maggioranza.
Il Governo Definizione
Il Governo è un organo complesso, formato dal Presidente del Consiglio, dai Ministri e dall’organo
collegiale del Consiglio dei Ministri. Esso esercita una notevole quota dell’attività di indirizzo politico,
delle potestà pubbliche della funzione esecutiva e importanti poteri normativi: ma la dimensione effettiva
del suo potere politico dipende dagli equilibri della complessiva forma di governo e dal grado di
attuazione dei principi del decentramento politico e dell’economia di mercato. Il ruolo del Governo
italiano, le modalità della sua formazione e del suo funzionamento risentono degli equilibri assunti dalla
forma di governo la quale per lungo tempo opera come parlamentarismo compromissorio, poi si avvicina
alla conformazione del parlamentarismo maggioritario. Altri aspetti che hanno condizionato ruolo ed
operato del Governo sono: 1) maggiore decentramento politico, che ha affidato agli enti locali importanti
attribuzioni; 2) riduzione degli interventi in campo economico per favorire il mercato concorrenziale; 3)
integrazione europea.
Le regole giuridiche sul Governo
Il Governo gode di una notevole elasticità della disciplina costituzionale che lo riguarda: essa pone poche
e semplici regole e rinvia il resto alle regole della prassi, alle convenzioni e alle leggi ed agli atti di
autorganizzazione dello stesso. La sua formazione è disciplinata negli artt. 92.2, 93 e 94 Cost., che
consacrano le seguenti regole:
1. il Presidente della repubblica nomina il Presidente del Consiglio;
2. i Ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica ma sono proposti dal Presidente del
Consiglio;
3. i membri del Governo prima di entrare in carica devono giurare di fronte al Presidente delle
Repubblica;
4. il Governo formato deve presentarsi entro 10 gg per ottenere la fiducia parlamentare;
5. tale fiducia è accordata e revocata tramite appello nominale e motivata (art. 94.2).
In materia di struttura, ci riferiamo all’articolo 92.1 Cost., che cita gli organi governativi necessari: il
Presidente del Consiglio, i Ministri, che insieme formano l’organo del Consiglio dei ministri. Tali organi
sono sufficienti, la legge tuttavia non esclude che siano affiancati da altri che si rendano necessari
ammesso che non turbino le funzioni di questi, comunque tutelate dalla legge, che si definiscono organi
governativi non necessari. Per ciò che riguarda il suo funzionamento, l’art. 95 rinvia alla legge
sull’ordinamento delle Presidenza del Consiglio dei ministri (approvata nel 1998) e in attuazione della
stessa viene adottato il regolamento interno del Consiglio dei ministri. Ulteriori modifiche si sono avute
con la successiva legislazione del 1999, ma nelle legislature successive la disciplina è stata modificata più
volte per permettere l’aumento del numero dei ministeri. Per ciò che riguarda i rapporti con la pubblica
amministrazione le regole costituzionali sono fissate dagli artt. 95, 97, 98.
La legge 124/2008 prevede che i processi penali a carico di chi riveste la carica di Presidente della
Repubblica, Presidente del Consiglio e Presidente delle due Camere siano sospesi fino alla data di
cessazione della carica. Tale accorgimento è da un lato posto a tutela del regolare svolgimento delle
funzioni degli organi costituzionali, ponendolo al riparo da iniziative giudiziarie strumentali, dall’altro
però, come tutte le immunità costituisce una limitazione ai principi di legalità ed uguaglianza. La
democrazia pluralista deve operare un dovuto bilanciamento tra i due principi, escludendo qualsiasi
assolutismo. Alla Corte costituzionale parve irragionevole la disciplina posta dal c.d. lodo Maccanico-
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Schifani del 2003 cosicché si è resa necessaria una nuova legge: il lodo Alfano del 2008. Tale
legislazione prevede un più ragionevole bilanciamento dei principi in gioco, tuttavia la Corte dichiara
incostituzionale anche questa, affermando che una tale sottrazione di un soggetto dalla giurisdizione non
può essere disposta con legge ordinaria. Una successiva legge del 2010 stabilisce che per il Presidente del
Consiglio costituisca legittimo impedimento a partecipare a processi penali se ciò interferisce con
l’esercizio delle sue funzioni: tuttavia la norma è stata nuovamente dichiarata illegittima in quanto non
consente al giudice di valutare l’effettiva esistenza di tale impedimento. Il resto della legge è stato
abrogato con referendum nel 2011.
Unità ed omogeneità del Governo
Per quanto concerne i rapporti tra gli organi necessari del Governo l’art. 95 scarta tanto le proposte che
volevano incentrare il potere di direzione politica nel solo Presidente del Consiglio, quanto quelle che
volevano porre sullo stesso piano Presidente del Consiglio e Consiglio dei ministri. Tali proposte
miravano a costituire un organo unitario, responsabile politicamente nella sua unità per l’indirizzo
politico che segue e capace di dare attuazione coerente a tale indirizzo, sia nella sua attività che nei
rapporti con gli altri organi costituzionale. Ovviamente, ciò è più difficile nei governi di coalizione, dove
si pone il problema di ricondurre le diverse tendenze entro un indirizzo unitario.
L’esperienza storica dimostra che, per raggiungere tale obiettivo, si è fatto leva ora sul ruolo unificante
del Consiglio dei ministri, ora sulla prevalenza del Primo Ministro. Tuttavia le difficoltà nella formazione
di un parlamentarismo maggioritario e la diffidenza con cui si guardava ad un Governo forte, risultato
dell’applicazione pratica di tali proposte, impedirono che la Costituzione le accogliesse.
L’art. 95 si è limitato a prevedere che: a) il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del
Governo; b) il Presidente del Consiglio mantiene l’unità di indirizzo politico del Governo coordinando
l’attività dei ministri; c) i ministri rispondo collegialmente per gli atti del Consiglio ed individualmente
per quelli dei loro ministeri. Il Presidente del Consiglio quindi “dirige” e “mantiene” la politica del
Governo, ma tale politica è determinata da un altro organo cioè il Consiglio dei ministri. L’art. 95
consacra tre diversi principi che si sono affermati in momenti precisi della storia politica:
- principio della responsabilità politica di ciascun ministro, che per il nesso esistente tra
responsabilità e potere comporta il riconoscimento dell’autonomia di ciascun ministro nella
conduzione del suo ministero;
- principio della responsabilità politica collegiale, incentrata nel Consiglio dei ministri;
- principio della direzione politica monocratica del Presidente del Consiglio
Tutto ciò comporta che il concreto equilibrio fra questi organi non sia stabile e definito, ma oscilli a
seconda degli equilibri complessivi che interessano il sistema: dal grado di compattezza della
maggioranza, al prestigio del Primo Ministro. La storia del Governo italiano è caratterizzata da costanti
tentativi di disciplinare giuridicamente il ruolo del Presidente del Consiglio ed i suoi rapporti con gli altri
organi costituzionali.
La formazione del Governo
I metodi di formazione del Governo sono riconducibili a due modalità diverse:
a) democrazie mediate, in cui i partiti, dopo le elezioni, detengono il potere di decidere struttura e
programmi del Governo;
b) democrazie immediate, in cui esiste la sostanziale investitura popolare diretta del capo del
Governo Si prendano in esame in questo campo le modalità utilizzate in Inghilterra e Usa. Nel
Regno Unito la competizione avviene tra due partiti tra loro alternativi, di regola, il leader del
partito vincitore diventa Presidente del Consiglio. In questo tipo di ordinamento la struttura
formale del potere si basa sul rapporto di fiducia, l’elettore vota per i candidati ai seggi elettorali.
Negli Stati Uniti invece, la competizione si svolge tra due personalità contrapposte, i partiti sono
semplici macchine elettorali, e l’investitura popolare del vertice del potere esecutivo e prevista
dalle stesse regole costituzionali sulla forma di Governo.
La disciplina costituzionale italiana al riguardo è compatibile sia con le modalità di formazione del
Governo tipiche della democrazia mediata, che con quelle tipiche della democrazia immediata. Determina
l’evoluzione in uno o nell’altro senso le caratteristiche del sistema politico, le sue regole convenzionali e
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la legislazione elettorale. La Costituzione si limita a prevedere che il Presidente del Consiglio sia
nominato dal Presidente della Repubblica e nomini i suoi ministri. Tale soluzione poneva in essere un
Presidente del Consiglio autorevole, capace di formare personalmente la lista dei ministri, che ne avrebbe
rafforzato il ruolo.
Tale modalità di attuazione dell’art. 92 tuttavia si è resa impossibile per la presenza di maggioranze di
coalizione eterogenee: piuttosto tali accordi di coalizione comprendevano anche la scelta dei ministri e la
loro attribuzione ai ministeri. Perciò la prassi ha visto l’affermazione della figura dell’incarico preventivo
dei ministri, fortemente limitante per il Presidente del Consiglio. In presenza di coalizioni formate in sede
elettorale poi, il Capo dello Stato si limita a nominare Presidente del Consiglio il leader della coalizione
che ha vinto le elezioni. Ma se tale coalizione non c’è, o se chi ha vinto non è in grado di governare con
una maggioranza sicura, cresce la discrezionalità del Capo dello Stato. Tale discrezionalità si allarga nelle
fasi di crisi del sistema politico: in queste situazioni particolari il Capo dello Stato sceglie personalità
autorevoli, capaci di riunire attorno a sé quanti più soggetti possibili e con capacità tecniche precise . A
volte si rende necessaria l’attribuzione di tale carica a soggetti senza una precisa personalità politica ma
con spiccate capacità tecniche: è il caso dei governi tecnici.
Consultazioni e incarico per la formazione del Governo
Dopo l’apertura delle crisi di Governo (o dopo le elezioni) il Presidente della Repubblica procede alle
consultazioni, con cui si apre il procedimento di formazione del Governo.
Il capo dello Stato incontra i presidenti dei gruppi parlamentari, i Presidenti delle due camere e tutti i
soggetti che ritenga utile sentire al fine di venire a conoscenza delle posizioni anche reciproche dei partiti,
compresi gli accordi che fra di essi si stanno instaurando. Il Presidente della Repubblica, attraverso le
consultazioni poteva conosce ed apprezzare i contenuti del processo di coalizione post-elettorale, al fine
di scegliere un soggetto ritenuto idoneo a continuare la mediazione necessaria per giungere al
perfezionamento degli accordi di coalizione e alla definizione dei profili programmatici del Governo.
La prassi per cui il Capo dello Stato, alla fine delle consultazioni, conferisce l’incarico non è prevista
dalla Costituzione ed è stata giustificata alla stregua di una particolare interpretazione dell’art.92: secondo
questa il procedimento di formazione di Governo deve essere unitario. Si è parlato perciò di consuetudine
interpretativa, come di consuetudine si è parlato per la prassi delle consultazioni. Sul piano sostanziale
altro non è che la corrispondenza alle logiche di funzionamento della democrazia mediata, in cui scelta
del Presidente e dei ministri sono parte integrante degli accordi di coalizione.
L’incarico viene conferito oralmente al Presidente del Consiglio. Egli accetta di norma con riserva, che
sarà sciolta quando avrà compiuto con successo le sue attività. In particolare la nomina dei ministri e la
presentazione del programma di Governo al Parlamento.
In alcuni casi particolarmente delicati, al fine di non esporre troppo il soggetto designato, il Presidente
della Repubblica ha conferito dei preincarichi, un mandato esplorativo. Entrambi questi strumenti
servono al Presidente stesso per accrescere la sua conoscenza e nominare un Governo che potrà godere
della fiducia del Parlamento. Il mandato esplorativo è conferito ad un soggetto super partes che svolge
attività istruttoria di fianco a quella dello stesso Presidente delle Repubblica. Il preincarico invece viene
conferito allo stesso soggetto che il Capo dello Stato ha previsto di nominare Presidente.
Fino a quando la forma di Governo ha operato sulla base di coalizioni formate dopo le elezioni, il potere
dell’incaricato, ai sensi dell’art. 92 Cost. di proporre al Capo dello Stato la lista dei ministri è stato
svuotato di contenuto sostanziale: i partiti, per mezzo degli accordi di coalizione, sono stati i veri
formatori del Governo. Non sono mancate critiche alla prassi citata che tuttavia non hanno modificato la
prassi di formare la lista dei ministri attraverso un attento dosaggio dei ministeri fra i partiti e le loro
componenti. Dal punto di vista costituzionale non si può parlare di illegittimità della prassi: innanzitutto
perché la costituzione riconosce il ruolo costituzionale dei partiti, e poi poiché essa nulla specifica
riguardo alle modalità di formazione della proposta del Presidente del Consiglio. Le modalità adottate
hanno subito variazioni prima a seguito della crisi del sistema dei partiti, poiché si è resa possibile una
maggiore autonomia del Governo rispetto a questi; poi, con le coalizioni annunciate al corpo elettorale: la
legittimazione che ne deriva per il leader vincitore ne ha rafforzato notevolmente il ruolo di formazione
del programma e nomina dei ministri.
Formata la lista dei ministri il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e quindi, su

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proposta di quest’ultimo, i ministri. Dopo la nomina, Presidente del Consiglio e ministri prestano
giuramento in mano al Presidente della Repubblica: con tale giuramento il Governo termina il proprio
processo di formazione. Il primo incarico nel nuovo Presidente del Consiglio è la controfirma della sua
nomina e di quella dei ministri.
L’incarico di formazione del Governo è conferito oralmente. Questa prassi ha una motivazione precisa: se
l’incarico fosse conferito con atto scritto, questo dovrebbe essere controfirmato necessariamente dal
Presidente del Consiglio uscente che potrebbe, rifiutando di firmare, condizionare la scelta del suo
successore.
Il procedimento di formazione del Governo è collegato al successivo procedimento di votazione della
fiducia parlamentare, anche se costituisce un procedimento distinto e autonomo.
La posizione del Governo in attesa di fiducia sarebbe, per l’opinione prevalente, simile a quella del
Governo dimissionario: la sua attività si deve limitare a quella di ordinaria amministrazione. Tuttavia la
definizione di ordinaria amministrazione è molto elastica, sicché, dal punto di vista dello stretto diritto, è
difficile o quasi impossibile definire quali atti il Governo dimissionario o in attesa di fiducia possono o
non possono compiere.
Sostanzialmente, in questo campo, il Governo si pone degli autolimiti, consacrati, dal secondo Governo
Cossiga, da apposite direttive del Presidente del Consiglio.
Il Governo è nella pienezza dei sui poteri solo dopo l’approvazione del voto di fiducia. Il Presidente del
Consiglio presenta, entro 10 giorni dalla nomina, il programma di Governo autorizzato dal Consiglio dei
ministri. In ciascuna Camera i deputati di maggioranza presentano una mozione di fiducia motivata e
votata per appello nominale. La fiducia è accordata se tale mozione è approvata in entrambe le Camere (è
sufficiente la maggioranza relativa).
I rapporti tra gli organi del Governo
Al fine di garantire l’unitarietà dell’azione del Governo, la Costituzione punta sul principio collegiale,
ovvero la competenza del Consiglio dei ministri di determinare la politica generale del Governo e sul
principio monocratico, ovvero la competenza del Presidente del Consiglio ad indirizzare tale politica. In
altri termini questi principi servono a contrastare gli eccessi di autonomia dei ministri che potrebbero
minacciare l’unitarietà dell’attività di Governo (il coordinamento di cui parla l’art.95.1 è proprio l’attività
diretta a mantenere l’unità di azione del Governo, assicurando che le iniziative politiche ed
amministrative dei singoli ministri, siano attuazione del più generale indirizzo politico del Governo). È
necessario che questi due principi siano forniti degli strumenti giuridici per la loro applicazione. Dal testo
giuridico si ricavano:
a) il potere del Presidente del Consiglio di proporre la lista con i ministri da nominare;
b) il potere di indirizzare con direttive politiche e amministrative l’operato dei ministri, i quali
comunque, mantengono un certo grado di autonomia nell’ordine delle modalità di attuazione;
c) la competenza del Consiglio dei ministri di deliberare sulla politica generale del Governo, cioè
l’indirizzo che intende seguire.
Si è visto come, in governi di coalizione, il potere di formare la lista dei ministri è influenzato dalle
decisioni dei partiti. In tali situazioni i ministri si sono comportati più che come parti di un’istituzione
unitaria, come delegati dei rispettivi partiti all’interno del Governo. In questa circostanza politica è
consistita la radice del cosiddetto neofeudalesimo ministeriale. Con l’esperienza di coalizioni elettorali
con un candidato comune alla Presidenza del Consiglio, si è accresciuto il peso del Presidente nella scelta
dei ministri, è aumentata la sua legittimazione e autorevolezza. A ciò si è aggiunta un’altra circostanza:
l’aumento di vincoli comunitari e la perdita di capacità di sintesi politica dei partiti, i quali hanno fatto
acquisire al Governo notevole autonomia rispetto alle dinamiche della coalizione. Su di esso sono
ricadute esigenze della gestione di interessi generali del sistema Paese.Tale circostanza ha posto in essere
la distinzione costituzionale tra politica nazionale, affidata ai partiti e politica generale del Governo.
Nel parlamentarismo maggioritario il Primo Ministro è leader del partito di maggioranza. Tale
coincidenza tra leadership di partito e premiership non si è mai realizzata in Italia: esisteva una regola
convenzionale che riservava la carica di Primo Ministro ad un esponente DC, ma parimenti c’era un’altra
convenzione che escludeva la coincidenza tra carica di Presidente e di Segretario politico DC.
L’applicazione di tale regola si è interrotta con le presidenze laiche di Spadolini e Craxi, salvo poi essere
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ripresa quando si è avviata la fase delle coalizioni formate a livello elettorale. Tale tendenza indebolisce il
ruolo del Presidente del Consiglio e può trovare una duplice spiegazione: 1) pone il Governo al riparo
dalla conflittualità fra i partiti della coalizione; 2) esprime la difficoltà del sistema politico di trovare una
leadership autorevole.
Nel 2005-2006, al fine di rafforzare l’autorevolezza del candidato, il centro sinistra ha utilizzato la pratica
delle elezioni primarie: a differenza dell’esperienza nordamericana c’era un solo vero candidato, gli altri
soggetti si sono presentati solo per definire il rispettivo peso all’interno della coalizione. In questo modo
però, le primarie hanno suggellato le divergenze e la divisione interna alla coalizione e aumentato il
potere dei partiti di condizionare il Presidente del Consiglio. La riunificazione tra leadership e
premiership si è compiuta nel 2014 quando Matteo Renzi, neoeletto segretario del PD, ha assunto la
carica di Presidente del Consiglio.
Per far fronte a ministri con condotte particolarmente lesive nei confronti del Governo, esiste un potere di
revoca del ministro (oggetto di accese dispute dottrinali) che tuttavia nessun Presidente ha mai ritenuto di
poter utilizzare.
Il presidente Spadolini avvisò per primo la necessità di una prassi costituzionale per cui il Presidente del
Consiglio può proporre al Presidente della Repubblica la revoca dei ministri. Tuttavia fu lo stesso
Spadolini a rassegnare le dimissioni quando fu di fronte all’acceso contrasto fra due ministri della sua
coalizione di Governo. I limiti di applicazione di tale soluzione non sono tanto giuridici, quanto politici.
Da un punto di vista giuridico il potere di revoca dei ministri si potrebbe considerare come implicito in
quello di nomina, tuttavia politicamente parlando, tale accorgimento utilizzato all’interno di una
coalizione porterebbe inevitabilmente alla rottura degli equilibri che l’hanno resa possibile. Questo
rischio non si presenta nei casi in cui il ministro in questione abbia perso l’appoggio del suo partito,
oppure quando non è membro di uno dei partiti artefice dell’accordo di coalizione.
L’unità dell’indirizzo politico e amministrativo nella legge 400/1988
Al fine di mantenere l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo del Governo, oltre ai poteri
derivanti da norme costituzionali, esistono strumenti previsti da fonti di livello subordinato alla
Costituzione. Nel 1988 viene approvata la legge 400 che razionalizza gli strumenti per tale garanzia,
sostituendo di fatto il decreto Zanardelli che si muoveva si nella stessa direzione, ma risultava inutile
rispetto alle esigenze di un nuovo sistema politico. Le direttrici di tale legge sono state:
A. concentrazione delle decisioni riguardanti la politica generale di Governo nel Consiglio dei ministri.
Il Consiglio delibera in merito a: 1) indirizzo politico; 2) indirizzo generale dell’azione amministrativa; 3)
conflitti di attribuzione fra ministri; 4) iniziativa di porre la questione di fiducia; 5) i disegni di legge e le
proposte di ritiro degli stessi; 6) linee di indirizzo dei rapporti internazionali, accordi politici o militari; 7)
rapporti con la chiesa cattolica e con le altre confessioni; 8) nomine alla presidenza di istituti di carattere
nazionale.
B. Attribuzione al Presidente del Consiglio di poteri relativi al funzionamento del Consiglio dei
ministri. In particolare il Presidente del Consiglio lo convoca e ne forma l’ordine del giorno;
Il regolamento interno al consiglio inoltre, ha previsto che: Il ministro che intende inserire un nuovo
argomento all’ordine del giorno ne deve far richiesta al Presidente; 5 giorni prima della riunione del
Consiglio il Presidente dirama un documento con tutti i provvedimenti su cui il Consiglio può deliberare.
Tali provvedimenti sono preventivamente esaminati prima della loro delibera definitiva in sede di
Consiglio e nessuna questione può far parte dell’ordine del giorno se non è stata preventivamente
esaminata. Si conseguono due risultati: 1) si facilita la circolazione delle informazioni e, di conseguenza,
si facilita la risoluzione preventiva di problemi tra le diverse iniziative ministeriali; 2) si concentra nelle
mani del Presidente il coordinamento preventivo delle attività ministeriali.
C. Attribuzione al Presidente di poteri strumentali rispetto al coordinamento del Consiglio dei ministri.
Egli può:
- sospendere l’adozione di atti dei ministri per sottoporre la questione al Consiglio;
- adottare le direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del
Consiglio;
- adottare direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza

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dell’amministrazione pubblica;
- concordare coi ministri le dichiarazioni pubbliche;
- istituire Comitati di ministri per sottoporgli questioni particolari.
La Presidenza del Consiglio dei ministri
La Presidenza del consiglio dei ministri è la struttura amministrativa di supporto per lo svolgimento dei
compiti del Presidente. Gli uffici di diretta comunicazione del Presidente sono organizzati nel
Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri, cui è preposto un Segretario generale
nominato con d. P.C.M.
Il Segretariato è organizzato in singole strutture di due tipi:
- dipartimenti, comprensivi di una pluralità di uffici accomunati da omogeneità funzionale;
- uffici, strutture dotate di autonomia funzionale.
Tale autonomia di gestione è completata da una notevole autonomia contabile e di bilancio: la Presidenza
provvede autonomamente alla gestione delle sue spese. I compiti che tale struttura svolge sono peculiari e
differenti da quelli propri dei ministeri, sono attività di studio e di elaborazione politica, di raccolta dati
ed informazioni, di collegamento tra i diversi settori dell’amministrazione statale e locale. Il personale di
conseguenza è variegato: una parte è di ruolo (assicura continuità amministrativa), un’altra è di diversa
provenienza (assicura professionalità e competenze svariate e qualificate).
Gli organi governativi non necessari
Fra gli organi governativi non necessari la legge ha previsto:
1. Vice Presidente del Consiglio dei ministri: esso ha funzione di supplente del Presidente, di
norma si ricorre ala nomina di tale figura per dare risalto alla presenza nella coalizione di un
partito diverso da quello che esprime il Presidente del Consiglio;
2. il Consiglio di gabinetto, che in passato il Presidente ha istituito per riunire i ministri che
rappresentavano le diverse componenti politiche della coalizione;
3. Comitati interministeriali, possono essere di due tipi: a) istituiti per legge (che ne fissa
composizione e competenze); b) istituiti con decreto del Presidente del Consiglio, con compiti
provvisori per affrontare questioni definite. Tali organi dovevano avere principalmente la
funzione di decongestionare l’attività dei ministeri, esaminando questioni poco rilevanti per la
politica generale del Governo. La pratica tuttavia ha portato ad una vera e propria sostituzione di
tale organo con quello ministeriale per alcuni ed alla conseguente frammentazione dell’indirizzo
politico. Per ovviare a questa situazione si è agito in due modi: 1) i Comitati sono tenuti a dare
avviso preventivo delle loro riunioni, i ministri forniscono direttive alle quali i comitati devono
attenersi; 2) si è diminuito il numero di Comitati esistenti;
4. ministri senza portafoglio, ovvero che non sono preposti ad un ministero, la loro attività è dettata
dal Presidente del Consiglio;
5. sottosegretari di stato, ovvero collaboratori del ministro. In quanto tali non fanno parte del
Consiglio dei ministri e non concorrono alla determinazione dell’indirizzo politico di Governo.
Essi agiscono seguendo le direttive del ministro, la loro nomina avviene per decreto del
Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, in concerto col ministro
che il sottosegretario dovrà aiutare;
6. Viceministri, ovvero quei sottosegretari cui vengono conferite deleghe rispetto all’intera area di
competenza di strutture amministrative ministeriali. Possono partecipare alle sedute del
Consiglio per riferire su argomenti e questioni attinenti alle materie a loro delegate, senza diritto
di voto;
7. Commissari straordinari del Governo, che sono nominati per perseguire specifici obiettivi,
determinati in relazione a programmi o ad indirizzi deliberati dal Governo o dal Parlamento, o
per particolari esigenze di coordinamento operativo tra amministrazioni statali.
Gli strumenti per l’attuazione dell’indirizzo politico
Il Governo esercita una quota rilevante del potere di indirizzo politico. Le linee generali di tale indirizzo

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politico sono espresse nel programma di Governo che è alla base della concessione parlamentare della
fiducia.
Nell’attuazione di tale indirizzo il Governo ha a disposizione una molteplicità di strumenti giuridici e in
particolare: a) la direzione dell’amministrazione statale; b) poteri di condizionamento dell’attività
legislativa parlamentare; c) adozione di atti con forza di legge (decreti legislativi e decreti legge) e dei
regolamenti.
L’abuso della capacità di emanare decreti legge ha spinto la Corte a dichiarare l’incostituzionalità di tali
reiterazioni da parte del Governo. L’attività normativa del Governo si è notevolmente ridimensionata
dopo la sentenza del ’96, ma il Governo ha trovato comunque il modo di soddisfare le sue esigenze
legislative di realizzazione dell’indirizzo politico mediante decreti legislativi e regolamenti.
Settori della politica governativa
Alcuni settori dell’indirizzo politico formano discipline particolari in cui si sviluppano prassi che vedono
il Governo titolare del potere decisionale:
 la politica di bilancio e finanziaria. La legge attribuisce al Governo il compito di elaborare i
diversi documenti che definiscono il quadro finanziario; dopo che tali documenti sono stati
presentati al Parlamento per l’approvazione, il Governo si vede riconosciuto un ruolo di
direzione del processo decisionale: esso esercita importanti poteri di controllo della spesa
pubblica. L’insieme di questi poteri fa capo al ministero dell’economia e delle finanze;
 la politica estera. Che si sostanzia nella stipulazione di trattati internazionali, nella cura di
rapporti con altri Stati anche nell’ambito delle organizzazioni internazionali (ONU). Esistono
alcune categorie di trattati sui quali il Parlamento esercita un controllo con la legge di
autorizzazione alla ratifica, tuttavia sono molti i trattati, anche di importante rilievo politico, che
sfuggono al controllo parlamentare. La prassi internazionale ha visto crescere il numero dei
trattati in forma semplificata che pertanto rientrano nella sfera esclusiva del Governo attraverso
il ministro degli esteri. Esistono anche altre strade che portano all’esclusione da quest’ambito del
Parlamento. Una di queste consiste nell’applicazione dell’istituto dell’esecuzione provvisoria di
trattati che non hanno ancora ricevuto approvazione parlamentare, che consente, di fatto, di
scavalcare la ratifica. Altro aspetto rilevante è quello dell’approvazione di trattati all’interno
della NATO: in questo campo spesso si ricorre ad atti del Governo, spesso coperti dal segreto di
Stato;
 la politica europea. Concerne i rapporti con l’UE: in questo campo è il Governo a partecipare
alle decisioni più importanti, la sua azione è coordinata dal Presidente del Consiglio e dai
ministri. Esistono comunque correttivi istituzionali che rendono partecipi sia il Parlamento che le
Regioni;
 la politica militare. Settore il cui indirizzo politico è prevalentemente rimesso al Governo. Il
documento costituzionale ha disciplinato il regime di emergenza bellica (artt. 78 e 87)
dichiarando che: 1) le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri
necessari; 2) il Capo di Stato dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere; 3) il Capo dello
Stato ha il comando delle forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa, al Governo
spetta la direzione tecnico militare delle forze armate. La prassi si è allontanata notevolmente da
tali disposizioni: i regimi di emergenza bellica si instaurano ormai per mezzo di decreti-legge del
Governo che procede all’intervento militare e ad operazioni iniziate segue una delibera di testo
conforme del Parlamento (la conversione in legge dell’operato del Governo)
La decisione di avviare operazioni militari nella maggior parte dei casi è riconducibile a decisioni prese
nell’ambito di trattati internazionali a cui l’Italia partecipa. Tali operazioni si sono conformate negli anni
come azioni coercitive in caso di ‘minaccia alla pace, rottura della pace o atto di aggressione’, oppure sul
‘diritto di legittima difesa individuale e collettiva’: in questi casi la giustificazione è la difesa da un
attacco militare ingiusto, sia pure condotto al di fuori dei confini di Stato. Nell’ambito delle più recenti
trasformazioni dei rapporti internazionali ci sono stati interventi militari cosiddetti ‘di polizia
internazionale’ in Paesi dove erano eseguite violazioni gravi dei diritti umani. Come si conciliano tali
interventi con l’art. 11 della Costituzione secondo cui ‘l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’? L’Italia, in

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definitiva, si è conformata alla consuetudine internazionale che inserisce la tutela dei diritti umani tra i
principi fondamentali del diritto internazionale.
La trasformazione del concetto di guerra evidenzia l’inadeguatezza della disciplina costituzionale al
riguardo. Fin’ora però lo svuotamento della disciplina costituzionale si era accompagnato al consenso
univoco delle forze politiche. Il consenso bipartisan viene pericolosamente meno in occasione del
conflitto iracheno, rendendo debole la posizione del Governo.
L’attentato dell’11 settembre modifica ulteriormente il concetto di guerra: si è parlato di guerra globale.
Da un lato Al Qaida ha portato le operazioni belliche tragicamente all’interno dei confini dello Stato
nemico (altro aspetto della difficoltà di controllo entro i confini), dall’altra la risposta degli USA è stata
l’avvio di operazioni militari prima in Afghanistan poi in Iraq. Proprio su quest’ultimo si aprì la
spaccatura interna alla NATO: da un lato la Coalizione dei volenterosi che ha avviato le operazioni senza
l’avvallo del consiglio di sicurezza ONU, dall’altro i paesi fermamente oppositori. La legittimazione a
tale attacco fu il ‘diritto all’autodifesa con un’operazione preventiva’ volta a scongiurare l’uso di armi di
distruzione chimica, in presunto possesso del leader iracheno Saddam. La posizione assunta dall’Italia
nell’immediato fu di non-belligeranza, il contingente italiano forniva semplice ‘supporto logistico’ ad
Usa e Regno Unito. Il Governo annunciò in seguito il contributo alla ‘stabilità umanitaria’ e l’invio di un
numero considerevole di soldati. Il contingente italiano subisce gravi perdite umane.
Nel 2006 il nuovo Governo Prodi attua il progressivo ritiro delle truppe;
 politica informativa e di sicurezza. Ricade principalmente sotto la responsabilità del Presidente
del Consiglio: a lui fa capo la direzione dei servizi segreti e allo stesso si rimanda per la materia
del segreto di Stato. Anche se in democrazia la regola è la trasparenza, esistono esigenze
costituzionalmente rilevanti per le quali è possibile ammettere deroghe eccezionali alla regola
attraverso l’apposizione del segreto di Stato. La finalità unica di tale espediente è la tutela
dell’integrità della Repubblica. Per garantire coerenza nell’apposizione del segreto un decreto
del P.C.M. definisce i criteri di individuazione degli oggetti suscettibili di copertura segreta. Per
confermare il carattere di eccezionalità del segreto, tale accorgimento ha durata temporale
limitata nel tempo. Il segreto di Stato pone l’autorità giudiziaria in una situazione straordinaria di
inibizione delle sue facoltà di acquisizione e utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte
dal segreto. Il giudice, può comunque sollevare il conflitto di attribuzione di fronte alla Corte.
Il Governo e la pubblica amministrazione
Ciascun Ministro è preposto ad uno degli organi dell’amministrazione statale che prende il nome di
Ministero. I ministri hanno una doppia funzione istituzionale: da un lato contribuiscono a determinare
l’indirizzo politico, dall’altro sono posti al vertice del ministero, chiamato a realizzarlo. L’organizzazione
dei ministeri attualmente è basata sul principio di separazione tra politica ed amministrazione: agli organi
di Governo è assegnata l’esercizio della funzione di indirizzo politico, di determinazione degli obiettivi e
dei programmi da attuare, e la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli
indirizzi impartiti; ai dirigenti amministrativi invece, spetta l’adozione di atti e provvedimenti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno e l’organizzazione degli strumenti e del personale.
Il ministro, periodicamente, definisce priorità, obiettivi piani e programmi nelle direttive generali. Tali
direttive non possono contenere indicazioni concrete in quanto spetta ai dirigenti la gestione, della quale
risponderanno in caso di cattiva conduzione (responsabilità dirigenziale). Il ministro inoltre assegna a
ciascun ufficio le risorse necessarie per assolvere alle sue funzioni.
Tale rapporto politica-amministrazione pone importanti problemi di natura costituzionale:
- riconduzione dell’amministrazione all’interno di un sistema di controllo democratico;
- evitare che l’amministrazione operi in modo discriminatorio facendo favoritismi e favori
vendendo meno al principio di eguaglianza;
Il primo punto evoca una burocrazia privata, in grado di perseguire i propri interessi in spregio delle
esigenze collettive. Il secondo invece richiama l’immagine di una burocrazia strumento della lotta
politica, che opprime fortemente le minoranze. La soluzione al primo problema è basata sul principio di
responsabilità ministeriale di fronte al Governo: in questo modo l’amministrazione e la burocrazia sono
indirettamente ricondotte al circuito democratico. La soluzione del secondo problema è stata ricondotta al
principio di legalità in quanto l’amministrazione opera nei limiti della legge. Tuttavia queste soluzioni si
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sono rivelate poco efficaci, quindi l’ordinamento giuridico italiano ha proposto nuove soluzioni:
l’amministrazione è separata dal sistema di indirizzo politico, i dirigenti svolgono le loro attività di
gestione in conformità alla legge; c’è comunque comunicazione fra gli organi di Governo e quelli
dell’organizzazione: i primi stabiliscono gli obiettivi che i secondi devono attuare. I dirigenti sono
valutati nel loro operato ed incorrono nella responsabilità dirigenziale.
Il gran numero di ministeri, e quindi di ministri, rendeva l’organo collegiale disomogeneo e difficilmente
riconducibile ad un indirizzo unitario, le materie di competenza spesso erano frammentate tra più
ministeri e ciò rendeva difficile anche l’attuazione delle singole attività amministrative. La soluzione a
questo problema è stata una riduzione drastica del numero dei ministri.
I principi costituzionali sull’amministrazione
Esistono dei principi costituzionali comuni a tutte le amministrazioni:
I. Legalità della pubblica amministrazione e la riserva di legge in materia di organizzazione. Il
principio di legalità a quale sono sottoposte le amministrazioni può definirsi come la
sottoposizione dell’amministrazione alla legge, nel senso che l’amministrazione pubblica può
agire solo nei limiti imposti dalla legge e nel modo da essa indicato (contrariamente al soggetto
privato che agisce si nei limiti, ma nelle modalità che preferisce). Tuttavia l’amministrazione
non è totalmente obbligata: essa effettua delle scelte tra le diverse opzioni offerte dalla legge
rimandando al principio della discrezionalità amministrativa. Qualora poi si serva di strumenti
propri del diritto privato essa si imbatterà nei normali limiti legali che concernono appunto il
diritto privato. La Costituzione, in materia di organizzazione dei pubblici uffici, pone una riserva
di legge relativa. La tendenza è quella di ridurre l‘intervento legislativo in questo campo e
limitarlo alla fissazione di pochi principi organizzativi che rimandino a più puntuali regolamenti
di organizzazione.
II. Imparzialità della pubblica amministrazione. Vieta le discriminazioni tra soggetti non sorrette da
alcun fondamento razionale. L’imparzialità è l’applicazione sul piano amministrativo del
principio di eguaglianza.
III. Buon andamento della pubblica amministrazione. Richiede un’attività amministrativa efficace
(capace di operare il miglior rapporto mezzi utilizzati, risultati conseguiti) ed efficiente (capace
di raggiungere gli obiettivi fissati). Numerosi sono stati gli interventi legislativi per porre in
primo piano tale principio, inizialmente sottostimato. In particolare, in attuazione di tale
obiettivo si è approvata un’importante riforma con il fine di snellire e semplificare l’attività
amministrativa.
IV. Il principio del concorso pubblico. Utilizzato per l’accesso al rapporto di lavoro alle pubbliche
amministrazioni. Questo principio costituisce specificazione di quello di imparzialità e buon
andamento e pone il merito personale come criterio di selezione. Sentenze della Corte hanno
stabilito che i concorrenti vadano valutati da commissioni di esperti e che non sono ammesse
promozioni se non precedute da apposita fase concorsuale.
V. Dovere di fedeltà. Che riguarda tutti i cittadini indistintamente per l’art. 54, e che si specifica
nell’adempimento delle pubbliche funzioni con onore e disciplina, a seguito di giuramento
quando specificato dalla legge. La stessa Costituzione quindi, onde evitare il rischio di
un’amministrazione partigiana, consente di applicare limiti al diritto di iscrizione ai partiti per i
magistrati, i militari, i funzionari e gli agenti di polizia e i diplomatici (art. 98.3).
VI. Principio di separazione tra politica e Governo. Che divide il potere politico da quello
amministrativo sicché non esistano contaminazioni politiche all’interno dell’attività
amministrativa. L’autonomia amministrativa tuttavia non è totale: l’amministrazione è separata
dagli organi di Governo ma è funzionalmente collegata agli stessi in quanto tenuta ad attuarne
l’indirizzo amministrativo.
VII. Responsabilità personale dei dipendenti pubblici. Esclude ogni forma di immunità per gli atti
compiuti in violazione dei diritti. È una responsabilità diretta che il dipendente ha solidalmente
con lo Stato o con l’ente pubblico da cui dipende.
VIII. Principio di sussidiarietà. Che a seguito della riforma del titolo V impone che l’amministrazione
pubblica sia tendenzialmente locale.
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Nell’ordinamento italiano al principio della separazione tra politica ed amministrazione si è innestato
quello che affida agli organi politici il potere di nomina dei dirigenti degli organi amministrativi, i quali
ricevono una carica a termine fino alla fine del mandato di Governo. Il fenomeno che vede il ricambio ai
vertici amministrativi ad ogni cambio di Governo ha preso il nome di spoils system. Si pone però il
problema della sua compatibilità col principio costituzionale di imparzialità. La Corte ha, seppure
parzialmente, legittimato questa tendenza: ha riconosciuto che alcuni incarichi necessitino di essere
conferiti a personalità di fiducia per il Governo, in modo da rafforzare la coesione tra l’organo politico
regionale e l’organo al vertice dell’apparato burocratico; ha ribadito che tale meccanismo deve essere
rigorosamente circoscritto all’ambito della separazione dei poteri dell’amministrazione da quelli della
politica. Inoltre, ha censurato una legge regionale che consentiva alla Regione, in caso di illegittimità
dichiarata dei meccanismi di spoils system, di scegliere fra il reintegro nel ruolo o l’indennizzo. Ha poi
annullato una norma che imponeva la decadenza automatica dei revisori dei conti delle aziende sanitarie,
figura che necessita maggiormente di vedere tutelato il principio di imparzialità.
Gli organi ausiliari
Gli organi ausiliari sono organi con funzione di ausilio nei confronti di altri organi: tali compiti si
riassumono in compiti di iniziativa, di controllo e consultivi. Gli organi ausiliari previsti dalla
costituzione sono:
1. Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Composto di esperti e rappresentanti delle
diverse categorie produttive in proporzione alla loro importanza qualitativa e quantitativa, essi
sono nominati con decreto del PDR dopo deliberazione del Consiglio dei ministri e durano in
carica 5 anni. L’obiettivo dei costituenti era integrare alla componente politica una
rappresentanza diretta di interessi per operare un raccordo con la società. Tuttavia, nella pratica,
il CNEL ha avuto scarsissima incidenza sul potere decisionale politico, a causa dei continui
mutamenti sociali esso non ha mai potuto essere espressione reale degli interessi della comunità.
Col presupposto di rivitalizzarlo si è estesa la portata delle sue attribuzioni, gli sono stati
conferiti: a) consulenza nei confronti delle Camere; b) esercizio di iniziativa legislativa in
materia economica e sociale;
2. Consiglio di stato. Organo di consulenza giuridico amministrativa del Governo e organo di
appello giurisdizionale della giustizia amministrativa. Si articola in 7 sezioni (4 con funzione
consultiva e 3 con funzione giurisdizionale). I pareri che discendono dalla funzione consultiva
sono di diversi tipi, occorre distinguere fra quelli da esporre obbligatoriamente e quelli che
vengono resi su richiesta di un’amministrazione statale. I pareri obbligatori riguardano: 1)
regolamenti del Governo e dei ministri, nonché i testi unici; 2) i ricorsi al Presidente della
Repubblica; 3) gli schemi generali di contratti tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o
più ministeri;
3. Corte dei conti. Esercita:
- Controllo preventivo di legittimità su alcuni atti delle amministrazioni statali, tra cui i
provvedimenti a seguito di delibere del CDM, gli atti normativi a rilevanza esterna, gli atti di
programmazione comportanti spese e gli atti generali attuativi di norme UE. Ove la corte ravvisi
un contrasto con una norma di ordine superiore rinvia l’atto in questione al Governo esponendo i
motivi. Di regola il Governo segue le direttive ma può chiedere la registrazione dell’atto con
riserva se vuole adottarlo ugualmente. La Corte in questo caso invia i documenti registrati con
riserva al Parlamento che compie le necessarie valutazioni sull’operato del Governo.
- Controllo successivo della gestione del bilancio: valuta la corrispondenza tra le previsioni
finanziarie coi risultati della gestione finanziaria, riferisce al Parlamento con apposita relazione.
Inoltre, partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo stato contribuisce. La
Corte costituzionale ha chiarito che tale controllo permane anche sugli enti pubblici trasformati
in SPA;
- la funzione giurisdizionale in materia di responsabilità dei funzionari pubblici per il danno recato
alle amministrazioni pubbliche; di giudizi di conto, sui conti di coloro che maneggiano soldi o
beni pubblici; di giudizi in materia di pensioni (civili e militari).
Tale funzione è esercitata dalle sezioni, quelle regionali e quella centrale con funzione di Corte d’appello.

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Non gode di copertura costituzionale ma può essere annoverata tra gli organi ausiliari anche l’Avvocatura
dello Stato, che ha la funzione quella di tutelare le amministrazioni statali nei giudizi di cui sono parte.
Essa si articola in un’avvocatura generale con sede a Roma e le avvocature distrettuali le cui
circoscrizioni corrispondono a quelle delle Corti d’appello.
Il Parlamento
La struttura del Parlamento
La struttura dei parlamenti moderni può essere bicamerale o monocamerale. La Costituzione italiana ha
optato per la prima alternativa, perciò il Parlamento si compone di due camere: la Camera dei deputati e il
Senato della Repubblica.
La struttura bicamerale è giustificata, negli Stati federali, dall’esigenza di rappresentanza degli Stati
membri, mentre negli Stati non federali, dall’esigenza di maggiore ponderazione delle decisioni del
Parlamento. Di regola in questi ordinamenti esiste un bicameralismo imperfetto, le due Camere sono
composte diversamente ed assolvono a funzioni diverse: in alcuni Stati la seconda camera non può votare
la sfiducia al Governo; in materia finanziaria la prima camera è preponderante sulla seconda; per quanto
riguarda i casi di divergenza tra i due rami del Parlamento, nella maggior parte degli Stati vengono risolti
facendo prevalere la prima camera sulla seconda. Il monocameralismo invece si ricollega all’esigenza di
rafforzare il Parlamento.
La Costituzione ha optato per un bicameralismo perfetto (o paritario) per cui entrambe le Camere hanno
uguale funzione e lievissime differenze strutturali. Il Senato è agganciato al territorio nazionale, in quanto
è ‘eletto a base regionale’. Ciascuna Camera può deliberare la concessione o il ritiro della fiducia al
Governo, mentre la formazione delle leggi richiede che ciascuno dei due rami adotti deliberazioni con
uguale testo deliberativo dato che ‘la funzione legislativa è svolta collettivamente dalle Camere’ (art. 70).
Per ciò che riguarda le lievi differenziazioni strutturali: Camera e Senato hanno differente consistenza
numerica (630 deputati, 315 senatori) ed esclusivamente per il Senato è prevista la nomina presidenziale
di 5 ‘senatori a vita’. Sono stabilite età diverse sia per essere eletti nelle due Camere sia per votare per
l’elezione alle due Camere; inoltre, la legge ha stabilito che entrambe le Camere abbiano uguale durata
delle rispettive legislature (5 anni). Le leggi elettorali per le due Camere sono caratterizzate entrambe
dalle stesse regole di fondo, il che però non garantisce dal rischio che nelle due Camere vi siano
maggioranze politiche diverse con conseguente rischio di stallo decisionale.
Il risultato del bicameralismo paritario è tuttavia un eccessivo appesantimento dell’intero sistema
legislativo e del processo decisionale: prima che la legge si perfezioni è necessario che le due Camere
approvino il medesimo testo e se una vi apporta qualche modifica dopo l’approvazione dell’altra,
quest’ultima dovrà pronunciarsi una seconda volta. Per questi motivi il Governo Renzi ha inserito nel
proprio programma un’importante revisione del bicameralismo perfetto. La proposta in attesa di
approvazione tramite referendum, prevede che la Camera sia esclusiva titolare del rapporto di fiducia con
i Governi, eserciti la funzione di indirizzo politico, di controllo politico del Governo e la funzione
legislativa. Il Senato perde perciò la capacità di costringere il Governo alle dimissioni.
Il Senato dovrebbe trasformarsi in una Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali, composto da
senatori rappresentativi di tali istituzioni e 5 senatori a vita. I senatori dovrebbero essere eletti dai
Consigli regionali, scegliendo per metà fra i propri componenti e per metà tra i sindaci in carica. La
ripartizione dei seggi si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni (l’elezione diretta è esclusa
poiché la Camera deve essere espressione diretta dell’indirizzo politico, mentre il Senato delle autonomie
territoriali). Il Senato: 1) non avrebbe più funzioni legislative identiche a quelle della Camera; 2)
eserciterebbe funzioni di raccordo fra Stato, enti territoriali ed enti comunitari; 3) partecipa alla
formazione ed all’attuazione degli atti normativi dell’UE; 4) inoltre (sotto un profilo totalmente nuovo)
dovrebbe valutare e vigilare sulle politiche pubbliche, verificare l’attuazione delle leggi statali e, nei casi
previsti, esprimere pareri sulle nomine di competenza statale.
Il Parlamento in seduta comune
La Costituzione ha previsto anche il Parlamento in seduta comune, un organo collegiale formato da
senatori e deputati per lo svolgimento di funzioni particolari. Si definisce come collegio imperfetto
poiché non è padrone del proprio ordine ma viene convocato per questioni strettamente disciplinate dalla
Costituzione:

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- l’elezione del Presidente della Repubblica (cui partecipano anche i delegati delle Regioni);
- l’elezione dei cinque giudici costituzionali;
- l’elezione di 1/3 dei componenti del Consiglio superiore della magistratura;
- la votazione dell’elenco dei cittadini dal quale saranno sorteggiati i membri aggregati alla Corte
costituzionale per giudicare le accuse costituzionali;
- la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica.
Esso è presieduto dal Presidente della Camera dei deputati e per il suo funzionamento si applicano le
disposizioni del regolamento della Camera dei deputati.
I regolamenti del Parlamento
La Costituzione demanda ai regolamenti parlamentari la disciplina del funzionamento interno di ciascuna
Camera. Tali regolamenti necessitano di forte stabilità perciò, per la loro approvazione necessitano di
essere votati a maggioranza assoluta dei suoi membri. La disciplina contenuta nei vari regolamenti
parlamentari varia in funzione dei diversi equilibri della forma di governo che concorre a determinare.
Operando nei limiti costituzionali, hanno concorso alle definizione dei rapporti tra maggioranza e
minoranza e tra Governo e Parlamento.
I regolamenti parlamentari del ‘71 risentivano dell’evoluzione in direzione del parlamentarismo
compromissorio e perciò, introducevano la regola dell’accordo unanime tra i presidenti dei gruppi
parlamentari e riconoscevano numerosi poteri di condizionamento procedurale ai gruppi parlamentari.
Queste regole mostrarono i loro limiti soprattutto dopo l’introduzione di minoranze capaci, con gli
strumenti fornitigli dal regolamento stesso, di praticare un efficace ostruzionismo parlamentare e di
conseguenza, la paralisi decisionale.
Si è visto quindi un progressivo allontanamento dal principio di parità di tutti i gruppi politici. Si è
introdotta la regola del voto palese che rafforzava sia la posizione del Governo che il suo potere di
controllo: in questo modo si sbarrava la strada ai c.d. franchi tiratori. Il sistema tendeva ad allontanarsi
dai moduli funzionali del parlamentarismo compromissorio per avvicinarsi al riconoscimento alla
maggioranza di una posizione dominante nei lavori parlamentari.
L’organizzazione interna delle Camere: Presidenti e Uffici di Presidenza
Ciascun ramo del Parlamento ha un’organizzazione interna complessa, all’interno della quale agiscono:
presidenti d’assemblea, ufficio di presidenza, commissioni, gruppi parlamentari, conferenza dei
capigruppo. I Presidenti di assemblea rappresentano rispettivamente la Camera e il Senato, hanno il
compito di regolare l’attività di tutti i loro organi garantendo il rispetto dei regolamenti. Le differenze più
significative tra Presidente della Camera e Presidente del Senato sono:
- il Presidente della Camera presiede il Parlamento in seduta comune;
- il Presidente del Senato sostituisce il Presidente della Repubblica nelle ipotesi di impedimento.
Entrambi devono essere convocati dal Presidente della Repubblica prima di sciogliere
anticipatamente le Camere. La tradizione parlamentare italiana riconduce le funzione dei
Presidenti d’assemblea a una posizione di (tendenziale) imparzialità: per la loro elezione i
regolamenti prevedono la maggioranza qualificata al fine di ottenere una convergenza delle forze
politiche più ampia della maggioranza di Governo.
Alla Camera l’elezione avviene con scrutinio segreto con quorum che nella prima elezione è dei 2/3.
Dopo la terza elezione è sufficiente la maggioranza assoluta. Al Senato viene eletto Presidente chi ottiene
la maggioranza assoluta: se per due scrutini non si raggiunge tale maggioranza è sufficiente la
maggioranza dei presenti, se ancora non si è raggiunta tale maggioranza si procede al ballottaggio tra i
due senatori che hanno ottenuto più voti.
Le modificazioni degli equilibri di Governo, in accoglimento del principio maggioritario, spingono verso
una modifica dello stesso ruolo dei presidenti. La logica maggioritaria sembra ricondurre le dette cariche
alla sfera delle scelte operate dalla maggioranza. Se, a partire dalla XII legislatura i Presidenti sono stati
scelti tra personalità politiche appartenenti alla maggioranza (venendo meno alla consuetudine per cui
una presidenza si assegnava alla maggioranza e l’altra all’opposizione), non si può escludere che sia
destinato a perdere importanza il ruolo tradizionale di imparzialità dei Presidenti.

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Successivamente all’elezione dei Presidenti, le Camere provvedono all’elezione dei vicepresidenti, dei
deputati (o senatori) questori e dei segretari che costituiscono l’Ufficio di presidenza, il cui compito è
quello di coadiuvare il Presidente nell’esercizio delle sue funzioni.
I regolamenti stabiliscono che nell’Ufficio siano rappresentati tutti i gruppi parlamentari, in questo modo
si assicura la presenza di parlamentari riconducibili agli schieramenti di maggioranza e opposizione. Ma,
a seguito del rilievo che il fenomeno delle migrazioni dei parlamentari da un gruppo ad un altro ha
assunto nel corso della XIII legislatura, il regolamento del Senato ha definito che decada dall’incarico
ogni parlamentare che cambia schieramento durante la legislazione.
Il vicepresidente collabora col Presidente e lo sostituisce in caso di assenza o impedimento. I questori
provvedono al buon andamento dell’amministrazione di ciascuna Camera e svolgono alcune funzioni
riconducibili al funzionamento interno ed alle spese delle assemblee. I segretari sovrintendono alla
redazione del processo verbale ed assolvono a funzioni riconducibili al corretto esercizio delle funzioni
parlamentari.
I gruppi parlamentari
Con gruppi parlamentari si intendono le unioni dei membri di una Camera, espressione dello stesso
partito o movimento politico che costituiscono un’organizzazione stabile e una disciplina di gruppo.
La Costituzione non li nomina mai esplicitamente, si limita solo a definire che qualsiasi commissione
deve essere istituita in modo tale da tener conto della eterogeneità del Parlamento: da tale disposizione
discende l’importanza strutturale dei gruppi parlamentari. Le regolamentazioni parlamentari prevedono
che, entro pochi giorni dalla prima riunione, ogni parlamentare dichiari di quale gruppo fa parte: i
parlamentari che non lo fanno confluiscono nel cosiddetto gruppo misto. I gruppi parlamentari svolgono
una funzione importante nel funzionamento del Parlamento, essi definiscono la dimensione collettiva
sulla quale si basa.
I regolamenti parlamentari in questo modo intendono perseguire due obiettivi: a) infiltrare la società
organizzata politicamente nel tessuto parlamentare; b) salvaguardare l’efficienza decisionale del
Parlamento che potrebbe essere compromessa se il suo funzionamento dipendesse in termini rilevanti
dalle decisioni di singoli parlamentari.
In quest’ottica inquadriamo le previsioni regolamentari che attribuiscono significativi poteri ai Presidenti
dei gruppi parlamentari: i presidenti danno vita alla Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari,
che ha poteri determinanti sull’organizzazione dei lavori dell’assemblea. Inoltre, alla Camera i presidenti
dei gruppi hanno poteri procedurali particolari (ad esempio la presentazione di emendamenti e di
mozioni), che non richiedono la richiesta da parte di un certo numero di parlamentari. Infine, al gruppo si
attribuisce potere di designare i membri delle commissioni parlamentari. I presidenti dei gruppi
parlamentari hanno altresì rilievo esterno: vengono sentiti dal Capo dello Stato nel corso delle
consultazioni per la risoluzione della crisi di Governo. I partiti politici sono, sotto il profilo giuridico,
delle semplici associazioni private non riconosciute: non possono essere formalmente ascoltati dal
Presidente della Repubblica nella formazione dell’istituzione Governo ed è per questo che i gruppi
parlamentari diventano l’unica proiezione dei partiti sul piano delle istituzioni.
Le commissioni parlamentari e le Giunte
Le commissioni parlamentari sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei,
monocamerali o bicamerali. La loro costituzione deve avvenire in modo proporzionale ai vari gruppi
parlamentari.
 Le commissioni parlamentari temporanee assolvono a compiti specifici e sono istituite per un
tempo limitato all’adempimento della loro funzione;
 le commissioni permanenti sono invece organi stabili e necessari di ciascuna Camera, titolari di
ampi poteri nell’ambito del processo legislativo. Inoltre esse si riuniscono in sede consultiva per
esprimere pareri;
La funzione consultiva del Parlamento ha assunto grande rilievo dovuto principalmente alle profonde
trasformazioni che hanno riguardato il sistema delle fonti. Rispetto ai decreti legislativi e ai regolamenti
governativi, l’intervento parlamentare è collocato prima (con l’approvazione della legge delega) e dopo
(tutte le volte che è previsto che le commissioni debbano esprimere il loro parere sul processo di
legiferazione del Governo). Ciascuna commissione permanente ha competenza in una determinata
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materia.
 Le commissioni bicamerali sono formate in parte uguale da rappresentanti delle due Camere:
anche la loro formazione deve rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. La
Costituzione prevede espressamente l’esistenza di una sola commissione di questo tipo: quella
per le questioni regionali. Dalla legge sono invece state istituite: 1) Comitato per i servizi di
sicurezza, che ha un controllo politico-istituzionale sull’apposizione del segreto di Stato; 2)
Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, che
esercita poteri di controllo e di vigilanza finalizzati a far si che l’informazione da parte del
servizio pubblico si svolga in modo tale da garantire il corretto funzionamento del sistema
democratico.
Le Giunte sono invece organi collegiali previsti dai regolamenti parlamentari per l’esercizio di funzioni
diverse da quelle di controllo e legislative:
- per l’esercizio di compiti di garanzia dell’osservanza dei regolamenti e di elaborazione di
proposte di modifica degli stessi;
- per la verifica dell’assenza di cause di ineleggibilità o incompatibilità e garanzia delle
prerogative parlamentari.
Per definire l’insieme dei poteri attribuiti all’opposizione per svolgere la sua funzione di controllo critico
dell’operato del Governo si usa l’espressione statuto dell’opposizione. Alcune volte questa nozione è
confusa con quella di tutela delle minoranze contro la tirannia della maggioranza: questa confusione si è
introdotta dopo che il sistema politico tendenzialmente bipolare ha reso inadeguati i meccanismi di tutela
delle minoranze. Tuttavia, in senso proprio, lo statuto dell’opposizione ha come punto di riferimento
l’esperienza del Parlamento maggioritario inglese.
Qui l’opposizione ha una vera e propria funzione costituzionale e una propria organizzazione: un Capo
dell’opposizione che ne esprime le posizioni politiche ufficialmente e un Gabinetto Ombra che controlla
e critica le politiche settoriali del Governo. Per realizzare un effettivo statuto occorre innanzitutto che le
minoranze siano riunite sotto un unico fronte con un unico leader, e poi che a queste siano affidati
adeguati poteri: il riconoscimento del ruolo del Capo dell’opposizione in sede di stesura dell’ordine del
giorno, il potere di chiedere commissioni d’inchiesta, la possibilità che il Capo dell’opposizione possa
parlare nelle stesse sedute cui prende parte il Presidente del Consiglio.
Il funzionamento del Parlamento
Durata in carica del Parlamento e regole decisionali
La durata in carica delle due Camere è di 5 anni. La stessa Costituzione prevede chele funzioni delle
Camere possano essere esercitate anche al di là del termine di scadenza, nel caso della prorogatio (art.
61.2 Cost.) e della proroga (art. 60.2 Cost.).
I. Prorogatio , istituto in virtù del quale per assicurare la continuità funzionale le camere ‘scadute’
rimangono in carica fino all’elezione di nuovi organi che li sostituiscano. Questo regime cessa
con la ‘prima riunione delle nuove Camere’, ma va considerato che i neoeletti acquistano lo
status di parlamentare al momento della proclamazione.
II. Proroga con legge, disposta solo nel caso di guerra.
La Costituzione definisce i poteri delle Camere in prorogatio come esclusivamente attinenti alla ordinaria
amministrazione e pone solo l’impossibilità di procedere all’elezione del Capo dello Stato. Tuttavia è
difficile definire cosa sia l’ordinaria amministrazione: nella prassi intanto le Camere in prorogatio hanno
convertito decreti legge, approvato leggi di bilancio, discusso di rinvio presidenziale di leggi e perfino
approvato leggi costituzionali. Si ritiene così che rientrino nell’ordinaria amministrazione oltre agli atti
privi di rilievo politico, tutti quelli che risultano costituzionalmente indefettibili.
Altri aspetti del funzionamento del Parlamento riguardano la validità delle sedute e la modalità di voto
parlamentare.
Per la validità della seduta è richiesta la maggioranza dei componenti, ciò significa che il numero legale
(quorum strutturale) della seduta si raggiunge se sono presenti almeno la metà più uno dei componenti.
Tale quorum si considera raggiunto fino a che uno dei deputati o dei senatori non richiede una verifica: a
questo punto se il quorum non è raggiunto la seduta è rinviata o tolta. Per la validità delle deliberazioni è
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invece richiesta la maggioranza dei presenti o quorum funzionale. La pratica delle astensioni è
disciplinata dai regolamenti parlamentari. Astenuto è colui che, al momento della votazione, non si
esprime ne in modo favorevole ne in modo contrario. Alla Camera i deputati astenuti figurano nel
conteggio per l’accertamento del raggiungimento del quorum strutturale ma non in quello per il
raggiungimento del quorum funzionale. Al Senato, al contrario, chi è intenzionato ad astenersi deve
allontanarsi fisicamente dall’aula.
In ordine alle modalità di voto, la regola è che si proceda con voto palese, il voto segreto rappresenta
l’eccezione. Il voto segreto è concesso ogni qual volta le deliberazioni riguardino persone, diritti di
libertà, diritti della famiglia e della persona umana. Il voto è espresso per alzata di mano, per appello
nominale, con procedimento elettronico, per schede.
Per regola generale le sedute delle Camere sono pubbliche: il principio della pubblicità dei lavori
parlamentari si concretizza anche attraverso i resoconti sommari e stenografici delle discussioni che si
svolgono all’interno del Parlamento.
Come lavora il Parlamento
Le modifiche apportate ai regolamenti di Camera e Senato tra il ‘97 e il ‘99 sono ispirate all’esigenza di
assicurare tempi certi all’esame dei progetti inseriti nel programma e poi nel calendario: il tempo
disponibile per la discussione è stabilito preventivamente. La manovra di bilancio e le leggi comunitarie
hanno una corsia preferenziale.
Il metodo della maggioranza realizza l’equilibrio tra esigenze della maggioranza, che deve realizzare
l’indirizzo politico su cui si è accordata la fiducia al Governo, e la garanzia del ruolo delle opposizioni.
L’ordine dei lavori è basato sulla predisposizione del calendario, del programma e dell’ordine del giorno.
Il programma contiene l’elenco degli argomenti che la Camera intende esaminare e la loro priorità per un
periodo di tempo di almeno due mesi e di massimo tre mesi. Il calendario specifica quali materie saranno
trattate nel corso delle singole sedute previste, mentre l’ordine del giorno che organizza i lavori delle
singole sedute ed ha a questo punto funzione esecutiva. Programma e calendario riservano una parte del
tempo agli argomenti indicati dai gruppi diversi da quelli che sostengono la maggioranza: il regolamento
del Senato a tal proposito, stabilisce che ogni due mesi almeno quattro sedute sono destinate all’esame di
disegni di legge presentati dai gruppi parlamentari all’opposizione. Il tempo a disposizione per ciascun
gruppo è assegnato dai presidenti dei gruppi parlamentari riuniti nella Conferenza: a ciascun gruppo
spetta la stessa quota di tempo alla quale ne va aggiunta un’altra proporzionale alla consistenza del
gruppo stesso.
Le modificazioni del ‘97 e del ‘99 dunque riconoscono al Governo lo spazio procedurale per attuare il
suo programma (sul quale ha ottenuto la fiducia) e nello stesso tempo dà rilievo anche al ruolo delle
opposizioni, nello svolgimento dei poteri di informazione e di controllo.
Le prerogative parlamentari
Con l’espressione prerogative parlamentari si fa riferimento ad istituti che mirano a salvaguardare il
libero ed ordinato esercizio delle funzioni parlamentari, ponendole al riparo dai condizionamenti. In
particolare esse dovrebbero servire a tutelare la libertà d’ opinione dei parlamentari e a porli al riparo da
azioni della magistratura penale che siano pretestuose, ovvero infondate e dirette solo ad esercitare un
condizionamento sull’operato politico. L’art. 68 prevede due istituti separati:
- insindacabilità in qualsiasi sede delle opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio della funzione
parlamentare;
- immunità penale: il parlamentare non può essere sottoposto a misure restrittive della libertà
personale o domiciliare, né a limitazioni della libertà di corrispondenza e comunicazione senza
previa autorizzazione della Camera di appartenenza.
Le due prerogative hanno efficacia temporale differente: la prima copre l’attività del parlamentare anche
dopo che sia venuto a scadenza il mandato; la seconda ha come presupposto il fatto che il parlamentare
sia ancora in carica, ed è dunque limitata alla durata della legislatura.
Ora, la Corte ha precisato che nei casi di sindacabilità, l’autorità giudiziaria non è ‘carente di
giurisdizione’: sta al giudice decidere se l’imputato è insindacabile o meno, nel primo caso chiudendo il
procedimento e nel secondo comunicando tale decisione alla Camera di appartenenza. La Camera poi ha
potere di interrompere l’operato del giudice qualora, esaminata la deliberazione, ritenga che l’imputato
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sia insindacabile. Il giudice ha quindi il compito di adeguarsi alla valutazione della Camera, ‘a meno che’
dice la Corte ‘egli non ritenga che la Camera, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia
illegittimamente esercitato il suo potere, per vizi in procedendo, oppure perché mancano i presupposti di
tale dichiarazione’. Quindi, l’autorità giudiziaria ha la possibilità di sollevare conflitto di attribuzione,
ove ritenga che il potere parlamentare sia stato illegittimamente esercitato. Tale possibilità di contestare
l’insindacabilità deriva dal fatto che il parlamentare è coperto ogni qual volta egli agisca in termini di
opinioni espresse e voti riconducibili all’esercizio della funzione parlamentare. La delimitazione delle
opinioni parlamentari coperte da insindacabilità è sempre stata un problema. La giurisprudenza
costituzionale si limita a dire che “non si può ricondurre l’intera attività politica svolta dal deputato” alla
materia dell’insindacabilità, ma che l’opinione del parlamentare e l’esercizio della sua funzione non possa
ritenersi accertato solo quando il parlamentare si trovi ad esprimere l’opinione all’interno delle Camere.
Il legislatore ha cercato di difendere le proprie prerogative con la legge 140/2003. Tale legge ha
specificato che l’insindacabilità si applica oltre che per tutte le funzioni proprie dell’attività parlamentare
interne al Parlamento stesso, anche per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di
denuncia politica, connessa alla funzione parlamentare, anche al di fuori del Parlamento. La Corte ha dato
un’interpretazione adeguatrice per adattare la legge e renderla compatibile con l’art. 68.1, di fatto ha
portato le disposizioni in materia al punto di partenza. Vanificando il tentativo del legislatore.
Nell’espletazione di qualsiasi azione di competenza giudiziaria: dal fermo all’intercettazione, dalla
perquisizione alla misura cautelare coercitiva nei confronti di un parlamentare non è più richiesta
autorizzazione (come dal testo costituzionale originario art. 68.2) ma si deve richiedere autorizzazione
della Camera di appartenenza di tale soggetto. In attesa di questa il provvedimento resta sospeso.
L’autorizzazione non è necessaria in caso di flagranza di reato o nel caso dell’esecuzione di una sentenza
irrevocabile di condanna.
La previa autorizzazione parlamentare a procedere con l’intercettazione telefonica di un deputato è stata
più volte identificata come un istituto ipocrita ed inutile: se deve essere richiesta l’autorizzazione per
svolgere intercettazioni telefoniche su una linea a disposizione del parlamentare, è certo che questi, dal
momento della richiesta di autorizzazione, si guarderà bene dal riferire telefonicamente fatti o notizie che
possano aggravare la sua posizione processuale. Ma è sorto il problema dell’obbligo di autorizzazione per
le c.d. intercettazioni indirette, ovvero quelle effettuate su linee telefoniche non intestate al parlamentare.
In materia l’art. 68.3 è stato interpretato nel senso di ritenere necessaria l’autorizzazione ex post per
l’utilizzo processuale dell’intercettazione indiretta. La legge 140/2003 ha disciplinato la materia
prevedendo le seguenti ipotesi: a) il giudice può disporre la distruzione integrale delle prove o delle parti
che ritiene irrilevanti ai fini del processo; b) il giudice che ritenesse utile utilizzare le intercettazioni
richiede autorizzazione alla Camera di appartenenza, se questa nega è disposta la distruzione delle prove
Per tali autorizzazioni il processo parlamentare si articola in un esame della questione da parte di apposita
Giunta, presentazione da parte di questa di una proposta cui segue deliberazione della Camera di
appartenenza. L’autorizzazione è negata ogni volta che si ravvisa un intento persecutorio. Tale potere
esprime l’autonomia costituzionale affidata al Parlamento.
Gli interna corporis
Ogni camera è dotata di autonomia normativa, per quanto riguarda la disciplina delle proprie attività e
della propria organizzazione, di autonomia contabile per la gestione del proprio bilancio e autodichia,
ossia della giurisdizione esclusiva per ciò che riguarda i ricorsi relativi ai rapporti di lavoro con i
dipendenti. La medesima esigenza di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia sta alla base
dell’insindacabilità degli interna corporis acta, che consiste nella sottrazione all’autorità giudiziaria di atti
e procedimenti che si svolgono all’interno delle assemblee parlamentari.
Subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione una parte della dottrina ha sostenuto che anche gli
interna corporis dovessero essere oggetto di controllo da parte della Corte. Essa avrebbe potuto: 1)
sindacare l’osservanza delle norme costituzionali nel procedimento legislativo; 2) controllare
l’osservanza delle norme contenute nei regolamenti parlamentari; 3) verificare la conformità
costituzionale dei regolamenti parlamentari.
La Corte ha ritenuto di estendere il proprio controllo sull’osservanza delle norme costituzionali nel
processo legislativo, ma ha d’altro canto riconosciuto che i regolamenti parlamentari non rientrano fra gli
atti con forza di legge sindacabili. Tale posizione ha sollevato critiche poiché tali regolamenti possono
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essere considerati come norme interposte tra Costituzione e legge e, in caso di violazione, costituire
violazione della Costituzione stessa. Inoltre, essendo posti al di sotto della Costituzione come gli atti con
forza di legge potrebbero essere equiparati a questi.
Esistono tuttavia casi in cui l’attività parlamentare non è sfuggita del tutto al controllo della Corte: in
materia di deliberazioni parlamentari sull’insindacabilità, la Corte può effettuare un controllo, diretto ad
accertare l’eventuale arbitrarietà di tale esercizio di potere.
In Parlamento per il voto segreto si può utilizzare il sistema elettronico. Si è però diffusa la prassi assai
deprecabile di alcuni parlamentari che, utilizzando tessere magnetiche di colleghi assenti, compiono una
doppia votazione (i c.d. “pianisti”). Di fronte ad episodi in cui quest’uso era stato palese, il procuratore
della Repubblica del Tribunale di Roma ha ritenuto penalmente rilevanti e sottoponibili ad indagine
giudiziaria tali comportamenti. La Camera sollevò conflitto di attribuzione e la Corte ha escluso ‘che la
tutela del diritto di voto spetti all’autorità giudiziaria’, con la conseguenza che i pianisti si sottraggono ad
ogni rimedio diverso da quelli proposti dai regolamenti parlamentari.
Le funzioni del Parlamento
L’art. 70 Cost. afferma che ‘la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere’; gli
articoli che vanno dal 71 al 74 descrivono le modalità attraverso cui tale funzione è destinata a realizzarsi
nel nostro ordinamento.
La disciplina regolamentare del procedimento legislativo costituisce uno dei campi in cui si manifestano
le diverse modalità di funzionamento della forma di governo: nel Parlamento compromissorio, il
Parlamento si affermava come luogo nel quale le decisioni dovevano essere il prodotto del compromesso
tra maggioranza e minoranza. Con la riforma elettorale si è iniziata una delicata fase di transizione verso
assetti basati su principio maggioritario. Si è già accennato al ruolo della maggioranza e alle indicazioni
fornite dal Governo per il calendario, il programma e l’ordine del giorno del Parlamento. Bisogna
aggiungere che il Governo può porre la questione di fiducia: se la Camera si esprime con voto contrario,
il Governo, avendo messo in gioco la questione fiduciaria rassegnerà le proprie dimissioni. Nell’ipotesi
nella quale il Governo ponga la questione di fiducia su un articolo di un progetto di legge, se la Camera si
esprime favorevolmente, tale articolo è approvato e tutti gli emendamenti sono considerati respinti: la
questione di fiducia diventa un espediente per rendere più veloce il procedimento legislativo.
La funzione parlamentare di controllo si concretizza in singoli istituti diretti a far valere la responsabilità
politica del Governo nei confronti del Parlamento.
La funzione parlamentare di controllo
La funzione parlamentare di controllo si concretizza in singoli istituti di diritto parlamentare, il cui
comune denominatore è quello di essere diretti a far valere la responsabilità politica del Governo nei
confronti del Parlamento. Con l’affermazione dei partiti però, il Parlamento si trova diviso fra
maggioranza e minoranza. Nel parlamentarismo maggioritario, l’opposizione sottopone a critica l’operato
del Governo e, se è pressoché impossibile che ne ottenga la rimozione parlamentare, utilizza gli strumenti
di controllo per rendere più informata ed incisiva la sua attività di critica.
Gli istituti di questo tipo sono:
- l’interrogazione, che consiste in una domanda scritta che un parlamentare rivolge al Governo,
avente ad oggetto la veridicità o meno di un fatto determinato;
- l’interpellanza, per mezzo della quale l’interpellante chiede, sempre per iscritto, di conoscere le
intenzioni del Governo in relazione ad una determinata situazione o fatto.
All’interrogazione, il Governo può anche dichiarare di non poter rispondere, indicandone i motivi, o di
differire la risposta, indicando però la data precisa.
Successivamente è stato introdotto l’istituto delle interrogazioni a risposta immediata con cui si voleva
rivitalizzare il sindacato ispettivo: si tratta di interrogazioni aventi ad oggetto una sola domanda che fa
riferimento ad un argomento avente rilevanza generale, i cui tempi sono già fissati dai regolamenti
parlamentari, che dedicano a questo contraddittorio un apposito spazio (question time). I regolamenti
parlamentari prevedono pure lo svolgimento di interpellanze urgenti: queste possono essere presentate dal
presidente di un gruppo parlamentare a nome del gruppo o da un numero di deputati non inferiore a 30.
Tali interpellanze hanno anche un limite di applicazione, sancito dai regolamenti stessi.

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Atti parlamentari di indirizzo
I regolamenti parlamentari prevedono alcuni atti che mirano ad indirizzare l’operato del Governo. Gli atti
parlamentari di indirizzo sono:
 mozione, che può essere presentata da un presidente dei gruppi parlamentari o da almeno 10
deputati alla camera e almeno 8 senatori al Senato. Il fine è quello di determinare una
discussione e la deliberazione della Camera su questioni riguardanti l’attività del Governo: il
Governo può porre la questione di fiducia;
 risoluzione, al contrario della mozione può essere esposta in commissione. Ha come obiettivo
quello di manifestare un orientamento o definire un indirizzo. La sua proponibilità consente da
un lato di accentuare il ruolo di controllo delle commissioni, dall’altro comporta il rischio di una
‘frantumazione settoriale’ dell’indirizzo governativo;
 l’ordine del giorno è un atto d’indirizzo rivolto al Governo che ha carattere accessorio (si
inserisce nella discussione di un altro atto e serve a dettare direttive su come questo deve essere
applicato). Il Governo può accettarlo o meno.
Le inchieste parlamentari: profili generali
La Costituzione attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire commissioni di inchiesta su materie di
pubblico interesse con i poteri e i limiti dell’autorità giudiziaria. Merita attenzione la questione delle
inchieste parlamentari che si svolgono parallelamente ad indagini giudiziarie. Il procedimento penale
mira all’accertamento di responsabilità giuridiche individuali, mentre l’inchiesta parlamentare può far
valere la responsabilità politica. I dati acquisiti dalla commissione d’inchiesta non possono essere
utilizzati come prove nel processo penale, tuttavia nella prassi, frequenti sono gli scambi di dati tra i due
livelli. Come si è detto, la commissione può utilizzare gli stessi poteri tipici dell’autorità giudiziaria ma il
fine è diverso: la sua attività non si conclude con una sentenza, atto tipico del giudizio, ma con una
relazione. La commissione resta organo parlamentare che gode di ampia libertà nello svolgimento della
sua attività: a sua discrezione essa potrà ricorrere agli strumenti formali del codice di procedura, e
ascoltare i testi con lo strumento della testimonianza, o utilizzare la libera audizione di tipo parlamentare.
Con la sentenza 231/1975, la Corte decide il conflitto di attribuzione tra commissione parlamentare
antimafia e tribunale di Torino e Milano, riconoscendo alla prima il potere di decidere se i documenti
raccolti debbano essere pubblici o privati e, allo stesso tempo, imponendole di trasmettere all’autorità
giudiziaria gli atti che non siano coperti da segreto di Stato. La Corte afferma lo ‘spirito di doverosa
collaborazione’ che deve valere anche tra gli organi di poteri distinti per ‘fini di giustizia’. Tale
collaborazione ha trovato nel sistema alcune regole fondamentali: a) il potere di inchiesta si esercita
evitando interferenze nell’azione degli organi giudiziari; b) non si ammette l’utilizzo di accertamenti
effettuati dalla commissione nel processo penale senza le garanzie del contraddittorio; c) l’autonomia
degli organi di garanzia condiziona l’esercizio del potere d’inchiesta
Tale obbligo di leale collaborazione si ripete nella più recente sent. 28/2008, dove viene negata alla
commissione parlamentare la possibilità di rifiutare all’autorità giudiziaria di compiere accertamenti sul
veicolo nel caso Ilaria Alpi, che si trova a sua disposizione.
Alla commissione è perciò conferito potere di apporre il segreto sulle risultanze acquisite dalle indagini e
la possibilità di potervi derogare quando non ne derivi danno per l’assolvimento del suo compito.
Compare nella giurisprudenza l’istituto del segreto funzionale, espressione dell’autonomia costituzionale
delle Camere.
Alcuni aspetti strutturali: la commissione di inchiesta è formata in modo da rispecchiare la proporzione
dei gruppi parlamentari. Il principio di proporzionalità tuttavia non comporta solo vantaggi: commissioni
parlamentari con 40 o 50 membri incontrano difficoltà operative considerevoli rispetto ad altre
numericamente ridotte (come l’agile comitato di controllo sui servizi segreti).
A chi giova il potere di inchiesta? Non convince la tesi che riconduce l’inchiesta alla funzione
parlamentare di controllo politico, volta a far valere la responsabilità del Governo di fronte al Parlamento.
Infatti, il funzionamento delle due grandi inchieste dell’ultimo quindicennio, quella sulla mafia e quella
sul terrorismo e le stragi, testimonia una gamma di accertamenti a tutto raggio. Per l’istituzione della
commissione d’inchiesta occorre in ciascuna Camera un voto a maggioranza; la relazione con cui essa
termina i suoi lavori è pure approvata a maggioranza. L’unico limite al potere della maggioranza, nella
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procedura parlamentare per istituire l’inchiesta, è il divieto di porre la questione di fiducia e
l’ammissibilità dello scrutinio segreto. Inoltre, nella prassi, vi è spesso la designazione del presidente
della commissione fra gli esponenti dell’opposizione.
Parlamento e Unione Europea
L’appartenenza italiana all’UE pone al Parlamento due esigenze:
- recepire le direttive UE in tempi ragionevoli, evitando la responsabilità dello Stato italiano per la
loro mancata immissione nell’ordinamento interno;
- avere cognizione degli indirizzi comunitari sui grandi temi in modo da intervenire in tempi utili
per incidere sulla posizione italiana a Bruxelles.
La legge La Pergola (legge 86/1989) ha introdotto uno strumento annuale: la legge comunitaria, sostituita
recentemente dalla legge di delegazione europea e dalla legge europea. Vengono disciplinate sia la fase
che precede l’adozione formale di atti dai competenti organi europei (fase ascendente), che la fase in cui
si tratta di dare attuazione delle direttive europee nell’ordinamento italiano (fase discendente). La
disciplina della fase ascendente ha come obiettivo quello di consentire la partecipazione del Parlamento
alla definizione dei contenuti degli atti dell’UE, che altrimenti sarebbero determinati solo dagli organi
europei e dai negoziati cui partecipa il Governo italiano con gli altri Esecutivi europei.
L’innovazione più significativa introdotta negli ultimi anni, al fine di evitare l’emarginazione del
Parlamento nella fase ascendente di formazione del diritto europeo, riguarda la cosiddetta riserva di
esame parlamentare: il Governo italiano, può apporre in sede di Consiglio dei ministri UE, una ‘riserva di
esame parlamentare’ sul testo o su una o più parti di esso. Il testo viene inviato alle Camere affinché su di
esso si esprimano i competenti organi parlamentari. Decorsi 30 gg dall’invio, il Governo può comunque
proseguire nelle sue attività nel Consiglio UE anche se le Camere non si sono pronunciate.
Alla fase ascendente tuttavia, non partecipa soltanto il Parlamento ma anche le Regioni e gli enti locali.
Questo a seguito della riforma del 2001 che ha ampliato le competenze delle Regioni prevedendo, tra
l’altro, che esse partecipino alla formazione degli atti normativi dell’UE e siano competenti in materia
della loro attuazione. La fase discendente riguarda l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi
comunitari, ed in particolare l’attuazione delle direttive UE. Lo strumento principale in attuazione della
fase ascendente sono le leggi comunitarie, approvate ogni anno su iniziativa del Governo.
Il processo di bilancio tra Governo e Parlamento La finanza pubblica nella Costituzione
L’esercizio dei compiti dello Stato richiede l’utilizzo di risorse finanziarie assai ingenti. I servizi forniti
(da quelli elementari a quelli tipici dello Stato sociale) hanno costi elevati, cosi come elevato è il costo
sopportato dallo Stato per pagare gli stipendi della burocrazia. Lo Stato, da un lato, deve imporre tributi
con cui ottenere risorse finanziarie necessarie per il suo funzionamento e, dall’altro deve erogare stipendi
grazie ai quali i suoi compiti vengono effettivamente esercitati. La disciplina delle entrate e quella della
spesa formano oggetto di un’essenziale disciplina costituzionale. Per ciò che riguarda le entrate sono
stabiliti due principi fondamentali: ’tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della
loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività’ (art. 53). Ciò
significa che tutti pagano imposte il cui ammontare è determinato sulla base del reddito: l’imposizione
fiscale però non è proporzionale, bensì ispirata al principio di progressività (il reddito prelevato cresce
con il crescere del reddito stesso: maggiore è il guadagno, maggiore è l’imposizione fiscale).
Se l’imposizione fiscale fosse proporzionale, il sistema tributario sarebbe assolutamente ‘neutrale’, non
realizzerebbe alcun equilibrio a favore dei meno abbienti. La funzione di redistribuzione sarebbe
realizzata esclusivamente sul fronte della spesa ma non su quelli dell’entrata. Il sistema progressivo
permette di esercitare maggiore pressione sui soggetti ricchi e minore sui soggetti poveri, in modo da
realizzare le finalità di riequilibrio sociale previste dall’art.3.2.
Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
L’imposizione tributaria è oggetto di una riserva di legge relativa.
Entrate e spese pubbliche nella Costituzione e nell’esperienza repubblicana
In materia di entrate e di spese la disciplina costituzionale è posta principalmente dall’art. 81. Il testo
originale stabiliva: 1) le Camere approvano ogni anno il bilancio e il rendiconto consuntivo presentandoli
al Governo; 2) l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi

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non superiori complessivamente a quattro mesi; 3) con la legge di approvazione di bilancio non possono
introdursi nuovi tributi e nuove spese; 4) ogni altra legge che introduca nuove o maggiori spese deve
indicare un mezzo per farvi fronte.
Questa disciplina fu considerata da alcuni espressione della tendenza al pareggio di bilancio, tipica dello
Stato liberale. Il 4 comma infatti impone l’obbligo di copertura delle leggi di spesa. In questo sistema la
legge di bilancio preventivo avrebbe avuto funzione meramente formale, sicché avrebbe esclusivamente
fotografato la legislazione già esistete e non avrebbe potuto rinnovare in alcun modo.
La gestione della finanza pubblica cambiò decisamente quando si affermarono le teorie di matrice
keynesiana, secondo cui un bilancio in disavanzo può servire, anche attraverso ampi programmi di
investimenti pubblici finanziati con l’indebitamento, a rilanciare l’economia ed a creare nuovi posti di
lavoro. In secondo luogo, aumentava la pressione degli interessi settoriali che rivendicavano benefici
particolaristici e ciò ha indotto la classe politica a concedere tali benefici per conquistare il loro consenso
finanziandoli con l’indebitamento. In terzo luogo, l’affermazione delle teorie favorevoli alla
programmazione economica richiedeva che in sede di approvazione di bilancio si potesse operare un
riesame delle decisioni di spesa e più in generale una programmazione della spesa pubblica, per adeguarla
ai più generali obiettivi di politica economica.
La dottrina costituzionalistica prospettò una nuova interpretazione dell’art. 81. È stato sostenuto che esso
non incorporasse il principio del pareggio di bilancio: sarebbe diretto piuttosto a permettere la gestione
statale della politica finanziaria condotta sulla base di un programma prestabilito. Il Governo avrebbe
dovuto formulare, ed il Parlamento approvare, un programma di politica finanziaria sulla base del quale
avrebbe presentato al Parlamento un disegno di legge di bilancio. Questo avrebbe potuto disporre nuovi
provvedimenti, condizionanti gli sviluppi della nuova finanza pubblica e prestabilire fondi speciali per
l’approvazione di leggi future.
Le leggi di spesa approvate avrebbero potuto trovare copertura nei fondi speciali, e solo per le leggi di
spesa che non rientrano nel fondo speciale si sarebbero dovute indicare le nuove entrate con cui effettuare
la copertura.
Nel mutato quadro politico e culturale degli anni ‘70 cresce la spesa pubblica, il debito pubblico e il
disavanzo in bilancio. Le spese in deficit vengono finanziate con l’emissione di nuova moneta e il
risultato è un aumento del tasso di inflazione. Un primo tentativo di mettere ordine nei conti pubblici è
avvenuto nel 1978, con una riforma della contabilità pubblica che ha introdotto l’istituto della legge
finanziaria: in questa prospettiva la decisione di bilancio doveva diventare la sede in cui procedere al
riassetto delle precedenti leggi di entrata e di spesa e inoltre avrebbe dovuto fissare il tetto del ricorso al
mercato per il finanziamento del debito pubblico. Ma era difficile conciliare questa scelta con l’art. 81.3
Cost., che pone il divieto alla legge di bilancio di stabilire nuovi tributi e nuove spese: la soluzione al
problema fu trovata nell’introduzione della legge finanziaria, che è una legge distinta da quella di
bilancio ma elaborata in parallelo e approvata ogni anni contestualmente con la legge di bilancio. La
legge finanziaria (sostituita nel 2009 dalla legge di stabilità), preceduta da un documento di
programmazione economico-finanziaria, doveva fissare, in armonia con esso, l’entità del disavanzo
voluto e il tetto del ricorso all’indebitamento; doveva inoltre riassestare la legislazione tributaria e di
spesa preesistente e fissare l’ammontare dei fondi speciali. La legge finanziaria doveva essere votata
immediatamente prima della legge di bilancio, che quindi avrebbe trasfuso in un documento contabile
tutti gli effetti delle disposizioni adottate con la legge finanziaria. Nella prassi, però, le cose andarono
diversamente: in sede di approvazione, venivano inserite le più disparate previsioni di spesa ricorrendo ad
una miriade di emendamenti parlamentari, col risultato che l’entità del disavanzo e del debito pubblico
venivano stabiliti solo alla fine di questo complicato processo decisionale. La conseguenza è stata la
crescita notevole del disavanzo e del debito pubblico. L’inversione delle tendenze si è avuta solamente
con la creazione dell’Unione economica monetaria, grazie ai rigidi vincoli imposti alle finanze degli Stati
membri.
Il Trattato UE ha posto in capo agli Stati membri l’obbligo fondamentale di evitare disavanzi di bilancio
eccessivi. Successivamente sono stati adottati dei regolamenti comunitari, che hanno stabilito complesse
procedure di sorveglianza sul rispetto da parte degli Stati membri di parametri finanziari, che prendono il
nome di Patto di stabilità e crescita. Tra le varie innovazioni introdotte a seguito della grave crisi
finanziaria del 2007-2010 c’è stata la riforma di tale patto e l’introduzione del semestre europeo (una

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procedura che si instaura nei primi 6 mesi dell’anno nella quale sono stabilite le politiche economiche
degli Stati membri). Perciò le politiche di bilancio nazionali risultano fortemente condizionate da tali
indirizzi europei.
All’attuazione interna di tali disposizioni europee si è provveduto con il c.d. Patto di stabilità interno, che
impone la concorrenza di Stato, Regioni e Province nella realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica,
impegnandosi a ridurre progressivamente il disavanzo ed a ridurre il rapporto tra il proprio debito e il
PIL, mediante il perseguimento di obiettivi di efficienza e di produttività nei servizi pubblici, il
contenimento della spesa corrente, il potenziamento dell’attività di accertamento dei tributi propri, ecc. Il
patto generalmente prevede sanzioni per gli enti che non raggiungono gli obiettivi fissati.
Questi interventi di razionalizzazione hanno favorito la progressiva riduzione del disavanzo in linea con
gli impegni europei, consentendo all’Italia di entrare a far parte dei Paesi dell’Eurozona; tuttavia il debito,
sommato agli interessi, ha imposto nuove e stringenti misure di razionalizzazione finanziaria.
La crisi delle finanze pubbliche in Europa ha colpito l’Italia. Il venir meno della fiducia dei mercati
finanziari internazionali ha comportato la crescita dei tassi di interesse. Si è innescato un circolo vizioso:
il debito elevato fa aumentare i tassi di interesse e, il pagamento di questi fa aumentare progressivamente
il debito.
La riforma costituzione del 2012 e l’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio
Per fronteggiare la grave crisi finanziaria del 2011 si è proceduto con la modifica dell’art. 81. La nuova
disciplina costituzionale è in sintonia con quanto disposto in sede europea dal c.d. fiscal compact,
sottoscritto dagli Stati nel marzo 2012, che impone agli loro di sancire il principio del pareggio di
bilancio a livello costituzionale. Dunque, il nuovo testo dell’art. 81 prevede che lo Stato assicura
l’equilibrio delle entrate e delle spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi
favorevoli del ciclo economico. Piuttosto che di ‘pareggio’ si è scelto di parlare di ‘equilibrio di bilancio’.
Allo stesso modo si è proceduti con la modifica dell’art. 97 definendo che le pubbliche amministrazioni,
in coerenza con le direttive europee, assicurano la stabilità del debito pubblico.
L’equilibrio di bilancio si misura in termini di saldo (differenza fra entrate e spese): tale saldo che si
rileva in sede europea è l’indebitamento netto strutturale. Questo significa che, nelle fasi negative del
ciclo, proprio per contrastarlo, si può finanziare la spesa col ricorso all’indebitamento, senza che tale
misura, pari alla componente ciclica, comporti un saldo negativo. Tuttavia, una volta superata la fase
negativa del ciclo, il bilancio va ricondotto verso il pareggio, non potendosi più far ricorso al debito.
Il nuovo testo dell’art. 81.2 stabilisce che, il ricorso all’indebitamento, è possibile al solo fine di
considerare gli effetti del ciclo economico e previa autorizzazione delle Camere, al verificarsi di eventi
eccezionali. Le limitazioni anzidette forniscono la vera garanzia dell’equilibrio di bilancio. Le nuove
regole di bilancio sono estese espressamente alle Regioni e agli enti locali: è stato modificato l’art. 119
Cost., prevedendo che essi hanno l’autonomia finanziaria nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento UE.
La riforma costituzionale prevede che il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i
criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del
complesso delle pubbliche amministrazioni siano stabiliti attraverso una legge approvata a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera.
La successiva legge 143/2013 definisce quali sono gli eventi straordinari in deroga dei quali ci si può
discostare dagli obiettivi stabiliti dai documenti di programmazione al fine di raggiungere il bilancio
economico: a) periodi di grave recessione economica; b) eventi straordinari al di fuori del controllo dello
Stato quali calamità naturali e gravi crisi finanziarie. La stessa legge ha istituito l’Ufficio parlamentare di
bilancio, che è un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e
per l’osservanza delle regole di bilancio. Immutata rispetto al vecchio testo dell’art. 81 resta la disciplina
dell’esercizio provvisorio.
Il ciclo di bilancio, tra vincoli europei e autonomie territoriali
Le disciplina relativa al processo di bilancio era già stata modificata precedentemente alla riforma
costituzionale col duplice obiettivo di: 1) contenere il disavanzo e l’indebitamento trasponendo anche sul
piano interno i vincoli del patto di stabilità; 2) evitare che in un sistema con diversi livelli territoriali di
Governo, la moltiplicazione dei centri di spesa comportasse condotte contrastanti coi vincoli europei.
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La riforma del processo di bilancio è stata introdotta con la legge 196/2009 recante i principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica: tali principi si estendono all’intero ambito della
pubblica amministrazione. In questa prospettiva il raccordo con le autonomie territoriali è soprattutto
assicurato dal patto di stabilità interno e dal patto di convergenza.
Il Governo è tenuto ad inviare entro il 15 luglio, le linee guida per la realizzazione degli obiettivi della
finanzia pubblica sulla base di quanto deciso in sede europea, alla Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica (in cui sono presenti i rappresentanti dei diversi livelli territoriali di
governo. Sulla base di questo, il Governo definisce, nell’ambito della Decisione di finanza pubblica, il
contenuto del Patto di stabilità interno, nonché di eventuali sanzioni a carico di enti locali inadempienti.
Da questo si distingue il Patto di convergenza, cui è riservato il compito di assicurare la convergenza di
costi e fabbisogni standard dei vari livelli di Governo. In questo caso il confronto con le autonomie
territoriali avviene in sede di Conferenza unificata. Il contenuto definitivo del patto è fissato nel
Documento di economia e finanza. La legge di bilancio successiva potrà introdurre eventualmente gli
strumenti per l’attuazione delle disposizioni del patto di stabilità interno e del patto di convergenza.
Come si è notato il ciclo di bilancio si articola in una serie di passaggi procedurali ciascuno dei quali vede
come protagonista un documento di programmazione finanziaria:
- Documento di economia e finanza (DEF) da presentare alle Camere entro il 10 aprile di ogni
anno, per conseguenti deliberazioni parlamentari, dopo aver consultato la Conferenza
permanente per la finanza pubblica. Il DEF è composto di 3 sezioni: 1)la prima contiene il
programma di stabilità e contiene tutto ciò che è richiesto dalle disposizioni europee, con
specifico riferimento agli obiettivi da conseguire per accelerare la riduzione del debito pubblico;
2) la seconda contiene informazioni sull’andamento della spesa pubblica, sulla pressione fiscale
e le previsioni sui flussi di entrata e di spesa; 3) la terza contiene lo schema del Programma
nazionale di riforma, in riferimento allo stato delle riforme richieste per rispettare i parametri
europei e quanto previsto nell’ambito del semestre europeo.
- Nota di aggiornamento del DEF, da presentare alle Camere entro il 20 settembre di ogni anno
per le deliberazioni;
- Il disegno di legge di bilancio, da presentare alle Camere entro il 15 ottobre di ogni anno;
- Il disegno di legge di assestamento, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni anno;
- Gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, da presentare alle
Camere entro il mese di gennaio di ogni anno.
La legge di bilancio contiene il bilancio di previsione, che costituisce la base per la gestione finanziaria
dello Stato. Essa è articolata in due sezioni:
 la prima contiene disposizioni in materia di entrata e di spesa aventi come oggetto misure
quantitative, funzionali a realizzare gli obiettivi indicati nei documenti di programmazione
(norme innovative che modificano la legislazione precedente) oltre al saldo al netto da
finanziare;
 la seconda contiene previsioni di entrata e di spesa formate sulla base della legislazione vigente.
Distinti articoli di questa sezione stabiliscono lo stato di previsione di entrata e di spesa e il
quadro generale riassuntivo. Con apposito articolo vien annualmente stabilito l’importo massimo
di emissione di titoli di stato.
A questo proposito va precisata la distinzione tra bilancio di previsione (quantifica l’entità prevista delle
entrate che le amministrazioni statali acquisiranno il diritto di percepire e l’entità prevista delle spese che
le amministrazioni assumeranno l’obbligo di effettuare) e bilancio di cassa (quantifica l’entità delle
entrate effettivamente incassate e delle spese effettivamente dovute). Una tiene conto del momento in cui
sorge il titolo giuridico dal quale deriva l’entrata, l’altro si riferisce al compimento di fatto delle
operazioni.
Il processo di bilancio: l’intreccio fra legge e regolamento parlamentare
Nella disciplina delle procedure finanziarie in Parlamento si verifica un intreccio fra le norme poste dalla
legge 468/1978ed i regolamenti parlamentari: da un lato il legislatore ordinario si è astenuto dal regolare
aspetti di stretta competenza parlamentare, dall’altra i regolamenti parlamentari rimandano alla
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legislazione vigente in materia di bilancio. La normativa parlamentare è segnata da 3 importanti direttrici:
- la concentrazione procedurale al fine di evitare dispersione e ritardi: la legge di bilancio deve
essere approvata in tempo utile al fine di evitare l’esercizio provvisorio, che è pure ammesso
dall’art. 81.2 Cost., nell’ipotesi di mancata approvazione di bilancio entro il 31 dicembre;
- la commissione di bilancio ha ruolo preminente rispetto alle altre commissioni, che vengono
comunque investite in sede consultiva per le parti di competenza;
- i tempo certi devono essere accompagnati dal rispetto dei limiti contenutistici della manovra di
bilancio. I Presidenti delle Camere devono vigilare sull’ammissibilità degli emendamenti.
Sono inammissibili emendamenti estranei all’oggetto del disegno di legge di bilancio e a quello dei
provvedimenti collegati: gli emendamenti non compensativi che sforerebbero i saldi-obiettivo. Si tratta
dunque di una procedura peculiare dove risulta limitata la tradizionale libertà delle assemblee nella
modifica dei testi trasmessi dalla commissione in sede referente
In realtà, per effetto dei vincoli concordati a livello europeo, il sistema tende a ridurre il ruolo del
Parlamento, sia sul piano dell’indirizzo che del controllo. La politica di bilancio (che condiziona tutte le
altre politiche) è saldamente nelle mani del Governo e più precisamente del ministro dell’economia.
La copertura finanziaria delle leggi
L’art. 81.4 stabilisce l’obbligo di copertura finanziaria per le leggi di spesa, che vale sia per le leggi
statali, ma anche per le leggi delle Regioni ordinarie e per quelle delle Regioni speciali. Quando in
Assemblea costituente Luigi Einaudi propose il testo di quello che sarebbe diventato l’art. 81, aveva in
mente di creare uno strumento che avrebbe assicurato il pareggio di bilancio. In realtà la possibilità, ben
presto costituzionalmente riconosciuta, di coprire la spesa pubblica con indebitamento ha determinato il
disavanzo strutturale del bilancio e la crescita della spesa pubblica. Al fine di razionalizzare il sistema
finanziario si è agito sulla manovra di bilancio, accentuando il rigore finanziario. In particolare, la
copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, ovvero minori entrate, è
determinata attraverso queste modalità:
1. mediante modificazioni legislative che comportino maggiori o minori entrate;
2. mediante riduzioni di precedenti autorizzazioni legislative di spesa;
3. mediante gli accantonamenti previsti nei fondi speciali, stabiliti dalla legge di bilancio.
La giurisprudenza costituzionale moderna ha precisato che qualsiasi legge comportante una spesa deve
specificarne l’entità per poter indicare relativa copertura. A tali fine è inoltre fatto obbligo di corredare
ogni disegno di legge oneroso di una relazione tecnica sulla quantificazione delle spese da esso previste.
È inoltre previsto un vero e proprio monitoraggio affidato alla Corte dei conti che deve trasmettere al
Parlamento ogni quattro mesi una relazione sulla tipologia delle coperture adottate dalle leggi e sulle
tecniche impiegate per quantificare gli oneri.
Presidente della Repubblica
Capo dello Stato e forma di governo
Il Capo dello Stato può assumere ruoli differenti, che oscillano tra i due estremi dell’organo di garanzia
costituzionale e di organo governante. Secondo la prima prospettiva, il Presidente della Repubblica
dovrebbe restare rigorosamente estraneo alle scelte che riguardano l’indirizzo politico: i suoi poteri
dovrebbero servire a garantire il corretto funzionamento del sistema costituzionale. La seconda
prospettiva invece, amplia la sfera di intervento del Presidente, il quale dovrebbe assumere il ruolo di
decisore politico di ultima istanza.
La diversità di ruolo è riconducibile alle differenze di disciplina costituzionale e ai caratteri del sistema
politico.
Il passaggio dal sistema monarchico al sistema parlamentare è avvenuto attraverso una progressiva
traslazione di potere politico dal Re al Governo. Nella prima fase di sviluppo del sistema parlamentare
l’esecutivo è rimasto bicefalo, con due titolari: il Re e il Governo che ha conquistato la titolarità del
potere esecutivo. Il Capo dello Stato è relegato ad un ruolo estraneo al circuito del’indirizzo politico. Nel
contesto del parlamentarismo europeo del XX secolo, con frequenti crisi di Governo, il Capo dello Stato
ha assunto una funzione ben diversa: esso si erge al di sopra del pluralismo e delle sue spinte disgregatrici

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e assicura, con l’esercizio dei suoi poteri, l’unità politica dello Stato. In questo senso è neutrale: non nel
senso che non esercita potere politico, ma nel senso che è un organo separato dal principio maggioritario.
In situazioni di crisi derivante dall’incapacità dei partiti di formare una maggioranza, il Capo dello Stato
può diventare autentica struttura governante.
La dottrina costituzionalistica nel ricostruire il ruolo del Presidente della Repubblica in Italia, ha oscillato
tra la sua configurazione quale organo di garanzia e la sua caratterizzazione quale reggitore dello Stato
nei momenti di crisi.
La razionalizzazione del parlamentarismo operata dalla Costituzione italiana ha previsto un Presidente
della Repubblica, distinto e autonomo dal Governo, dotato di poteri propri, che è il ‘Capo dello Stato e
rappresenta l’unità nazionale’ (art. 87.1). Ma la Costituzione non dice qual è il ruolo complessivo del
Presidente. Essa si limita a:
a) fissare l’ampia rappresentatività che deriva dalle modalità di elezione che lo sganciano dalla
maggioranza;
b) attribuirgli alcuni poteri (nominare il Presidente del Consiglio, sciogliere anticipatamente il
Parlamento, rinviare le leggi, nominare alcune cariche, ecc.);
c) porre limiti sicuri all’esercizio dei poteri, che consistono nell’obbligo che i suoi atti siano
controfirmati (art. 89) dal Governo, in modo che egli sia controllato e non agisca in totale
contrapposizione al Governo e alla maggioranza, e nella necessità che il Governo dopo la sua
nomina si presenti in Parlamento per ottenere la fiducia (art. 94), impedendo la formazione di
Governi presidenziali, nominati dal Capo dello Stato contro il Parlamento;
d) sancire e garantire la sua irresponsabilità politica (art. 89).
Determinati tali argini costituzionali, il ruolo concreto che egli può svolgere varia a seconda dei mutevoli
equilibri della forma di governo e del sistema politico. Più precisamente:
- se la coalizione si forma dopo le elezioni ed i rapporti fra i partiti sono instabili, il ruolo del
Presidente della Repubblica si espande e in capo a lui ricadono decisioni politiche assai
importanti (la scelta del Presidente del Consiglio o la decisione se sciogliere o meno il
Parlamento);
- se invece i rapporti fra i partiti sono stabili, il Capo dello Stato si limita ad esercitare i suoi poteri
per garantire il rispetto dei limiti costituzionali o al massimo per stimolare la conclusione di
accordi fra le forze politiche.
Perciò, i poteri del Capo dello Stato sono ‘a fisarmonica’, ossia si espandono in certe fasi politiche e si
contraggono in altre. Bisogna sottolineare, però, che le fasi in cui il Presidente allarga l’ambito dei propri
poteri a causa dell’instabilità dei partiti, sono fasi provvisorie: si accentua il ruolo politico di un organo
che è politicamente irresponsabile e privo di collegamento con il corpo elettorale.
L’elezione del Presidente della Repubblica
L’elezione del Presidente della Repubblica avviene in Parlamento in seduta comune, con la
partecipazione dei delegati regionali eletti dai rispettivi Consigli (tre per ogni Regione, ad eccezione della
Val d’Aosta che ne ha solo uno). La presenza dei delegati regionali dovrebbe rafforzare la
caratterizzazione del Presidente della Repubblica come rappresentante dell’unità nazionale.
I requisiti per essere eletto Presidente sono indicati dall’art. 84: esso prescrive, la cittadinanza italiana, il
compimento del cinquantesimo anno di età ed il godimento dei diritti civili e politici; quest’articolo
dispone anche l’incompatibilità di tale carica con qualsiasi altra. All’elezione si procede per iniziativa del
Presidente della Camera che, 30 giorni prima della scadenza del mandato presidenziale, convoca il
Parlamento in seduta comune integrato con i delegati regionali per l’elezione del nuovo Presidente (art.
85.2). Analoga iniziativa è assunta dal Presidente della Camera entro 15 giorni, nelle ipotesi di
impedimento permanente, di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica (art. 86.2). Nel caso in
cui le Camere siano sciolte, o se manchino meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione del Presidente
della Repubblica avverrà ad opera delle nuove Camere ed entro 15 giorni dalla loro riunione (art. 85.3).
In questa ipotesi, i poteri del Presidente della Repubblica scaduto sono prorogati fino all’elezione di
quello nuovo. L’elezione del Presidente della Repubblica avviene a scrutinio segreto e a maggioranza dei
2/3 dell’Assemblea; dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta, cioè il voto favorevole
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della metà più uno degli aventi diritto al voto. Il quorum elevato serve ad evitare che il Presidente sia
espressione della sola volontà della maggioranza.
Mai nella storia italiana si erano avuti casi di rielezione del Presidente della Repubblica, anzi, una certa
corrente della dottrina tende pure a dubitare che vi possa esser un secondo mandato. Sta di fatto che nella
fase di grave crisi del sistema politico seguita alle elezioni del 2013, le forze politiche non riuscivano
neppure a formare una maggioranza in grado di eleggere il Presidente della Repubblica e dopo 5 scrutini
in cui i candidati PD non ottenevano il quorum necessario, si è giunti ad un accordo tra le forze politiche
maggiori sulla rielezione del presidente Giorgio Napolitano. Questo, restando nell’alveo del suo ruolo
costituzionale, era riuscito ad evitare il collasso del sistema, in un periodo in cui la crisi politica si
sommava con una gravissima crisi economica e con la crisi dei debiti sovrani in Europa: aveva
conquistato autorevolezza sia verso l’opinione pubblica che verso la comunità internazionale . In questo
contesto eccezionale il Presidente Napolitano veniva rieletto con una larghissima maggioranza. Come
aveva preannunciato il Presidente, accertata la stabilità delle istituzioni ha rassegnato le dimissioni. Si è
poi proceduti con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Qualora la riforma costituzionale attualmente in attesa di referendum passasse, cambieranno anche le
regole per la elezione del Presidente della Repubblica. Innanzitutto il corpo elettorale sarà rappresentato
dal solo Parlamento in seduta comune (senza l’integrazione dei rappresentanti delle Regioni, che si
trovano già rappresentate all’interno del Senato). Per ciò che riguarda il profilo della maggioranza
necessaria invece, nulla cambia per le prime tre votazioni. A partire dalla quarta sarà invece sufficiente la
maggioranza dei 3/5 dell’Assemblea e dal settimo scrutinio la maggioranza dei 3/5 dei votanti.
Una volta eletto il Presidente presta giuramento di fedeltà di fronte al Parlamento in seduta comune,
accompagnato, per prassi da un discorso nel quale il neo-eletto espone quali saranno i principi ispiratori
del proprio operato. Il mandato presidenziale decorre dalla data di giuramento e ha una durata di 7 anni:
durante tale mandato egli dispone di un assegno personale e di una dotazione (che consiste
nell’attribuzione al patrimonio indisponibile dello Stato di alcuni beni immobili per la residenza del
Presidente della Repubblica e per gli uffici presidenziali). Alle dipendenze esclusive del Presidente è
posta una struttura amministrativa chiamata Segretariato generale della Presidenza della Repubblica.
La cessazione della carica presidenziale avviene per:
- conclusione del mandato;
- impedimento permanente;
- dimissioni;
- morte;
- decadenza per effetto di perdita di uno dei requisiti di eleggibilità;
- destituzione disposta per effetto di una condanna della Corte Costituzionale per i reati di alto
tradimento e di attentato alla Costituzione.
Nei primi tre casi il Presidente diviene per diritto senatore a vita, a meno che non vi rinunci (art. 59.1).
La controfirma ministeriale
La Costituzione stabilisce che ‘nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è
controfirmato dal ministri proponenti che ne assumono la responsabilità’ ed aggiunge che ‘gli atti che
hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del
Consiglio dei ministri’ (art. 89). La controfirma è la firma apposta da un membro del Governo sull’atto
adottato e sottoscritto dal Presidente: esso è requisito di validità dell’atto e la sua apposizione rende
irresponsabile il Presidente per l’atto adottato, trasferendo la relativa responsabilità in capo al Governo.
Agli albori della forma di governo parlamentare in Inghilterra, la controfirma degli atti del Capo dello
Stato era conseguenza di due fondamentali principi, che definivano la posizione del Re in
quell’ordinamento
costituzionale: il primo di questi diceva che il ‘Re non può sbagliare’; il secondo affermava che il ‘Re
non può agire da solo’, ma i suoi atti dovevano essere ricondotti alla responsabilità di un altro soggetto.
La controfirma del Governo doveva servire ad individuare formalmente un soggetto giuridicamente
responsabile per gli atti compiuti dal monarca.

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La controfirma garantisce l’irresponsabilità del Capo dello Stato. Ma nel sistema italiano essa adempie a
funzioni ulteriori. Tra gli atti formalmente emanati dal Presidente della Repubblica si possono distinguere
tre diverse categorie, che si differenziano per il soggetto che sostanzialmente decide il contenuto
dell’atto:
a) atti formalmente adottati dal Presidente della Repubblica, anche se il loro contenuto è deciso
sostanzialmente dal Governo (c.d. atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi);
b) gli atti che non solo sono adottati formalmente dal Presidente della Repubblica, ma i cui
contenuti sono decisi sostanzialmente dallo stesso Presidente (c.d. atti formalmente e
sostanzialmente presidenziali);
c) gli atti formalmente adottati del Presidente della Repubblica, il cui contenuto è determinato
dall’accordo tra Presidente della Repubblica e Governo (c.d. atti complessi eguali).
La controfirma, secondo la Costituzione, riguarda tutti gli atti presidenziali (si dice che ne siano esclusi
solo gli atti personalissimi, ossia le dimissioni), quale che sia il tipo a cui appartengono. Ma chi
controfirma? Il testo costituzionale fa riferimento al ministro proponente, usando una forma che va
benissimo per gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, dove esiste una proposta
ministeriale: in questo caso la controfirma attesta la sostanziale determinazione governativa del contenuto
dell’atto, che è emanato dal Presidente per consentirgli di vigilare sul rispetto da parte del Governo di
fondamentali principi costituzionali. In questi casi il Capo dello Stato può chiedere un riesame del
contenuto da parte del Governo ma, se questo non ne modifica la sostanza, non può rifiutarsi di adottarlo,
a meno che attraverso esso non incorra nell’ipotesi di responsabilità presidenziale previste dalla
Costituzione, ossia per alto tradimento e attentato alla Costituzione. Negli atti formalmente e
sostanzialmente presidenziali manca una proposta, perché chi decide del contenuto dell’atto è lo stesso
Presidente: una prassi consolidata affida la controfirma dell’atto al ministro competente in materia. La
controfirma in questo caso serve, oltre che a rendere irresponsabile il Presidente, ad evitare che
quest’ultimo eserciti i suoi poteri per imporre un proprio indirizzo politico, anche in contrasto con quello
della maggioranza. Infine, gli atti composti eguali (che sono la nomina del Presidente del Consiglio e lo
scioglimento anticipato delle Camere) sono controfirmate dallo stesso Presidente del Consiglio (c.d. atti
duumvirali), in rappresentanza del Governo complessivamente inteso.
L’irresponsabilità del Presidente
Il principio cardine che la Costituzione fissa è l’irresponsabilità del Presidente. Egli non può essere
chiamato a rispondere sul piano della responsabilità politica ma, come tutti i titolari di organi
costituzionali, può essere sottoposto a critica. Tale critica tuttavia, costituisce solo espressione di generale
libertà critica senza dare luogo ad alcuna possibilità che ne segua la rimozione del Presidente.
La critica, quando c’è, proviene dall’esterno del sistema costituzionale, cioè da quella che si è chiamata
sfera pubblica: mentre gli operatori costituzionali tendono a seguire una convenzione che vuole sottratto
il Capo dello Stato alla critica politica. Tuttavia occorre che il Capo dello Stato si comporti in modo da
apparire realmente come soggetto imparziale: un suo eventuale sbilanciamento comporterebbe non una
vera e propria assunzione di responsabilità, ma comunque una perdita di autorevolezza.
Per ciò che riguarda la responsabilità giuridica del Presidente occorre distinguere fra gli atti che egli
compie nell’esercizio della sua funzione costituzionale e quelli che compie come cittadino qualunque. Per
ciò che riguarda i primi la Costituzione prevede responsabilità penale per i reati di alto tradimento e
attentato alla Costituzione (art. 90); per i secondi invece il Capo dello Stato è penalmente responsabile
per i fatti commessi e qualificabili come reati estranei all’esercizio delle sue funzioni, anche se l’azione
penale è non-procedibile per tutta la durata del mandato. Il Presidente può essere chiamato a rispondere
delle opinioni espresse: la Corte costituzionale, infatti, ha affidato al giudice il compito di verificare il
nesso funzionale tra le ‘esternazioni’ e le funzioni di Presidente, negando comunque che si possa
‘configurare un’esenzione senza limiti dalla giurisdizione e un privilegio personale privo di fondamento
costituzionale’.
La soluzione delle crisi di Governo: nomina del Presidente del Consiglio
Per la soluzione delle crisi di Governo il Capo dello Stato dispone di due poteri: la nomina del Presidente
del Consiglio e la possibilità di sciogliere anticipatamente il Parlamento.
Nel parlamentarismo maggioritario entrambi questi atti costituiscono una semplice ratifica di decisioni
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prese da altri: nella prima ipotesi è il corpo elettorale che sceglie la maggioranza, nella seconda il
Governo propone lo scioglimento. Nei sistemi parlamentari in cui la maggioranza si forma dopo le
elezioni il ruolo che il Capo dello Stato assume è sensibilmente diverso, perché attraverso l’esercizio dei
suoi poteri può influenza la soluzione della crisi: in alcune esperienze costituzionali, il Capo dello Stato si
caratterizza come autentica struttura governante, mentre in altre esso ha compito di intermediazione
politica.
La funzione di intermediazione politica si basa su due pilastri:
 il primo è dato dal diritto costituzionale, che attribuisce la nomina del Presidente del Consiglio al
Presidente della Repubblica, ma obbliga il Governo ad ottenere la fiducia parlamentare, sicché la
decisione del Presidente della Repubblica non può essere in disaccordo col Parlamento;
 il secondo è prodotto dal sistema politico. Il sistema politico pluripartitico con coalizione post-
elettorali fa si che il Governo si formi dopo laboriose trattative e si regge su delicati equilibri. In
tale contesto il Presidente della Repubblica può usare strumenti serventi rispetto al potere di
nomina, come le consultazioni, il conferimento dell’incarico e il mandato esplorativo.
La soluzione delle crisi: lo scioglimento anticipato del Parlamento
I dati costituzionali e il sistema politico
Se ci limitiamo a leggere le disposizioni costituzionali sullo scioglimento anticipato (art. 88), vediamo
che:
a) il Capo dello Stato può sciogliere entrambe le Camere o una sola di esse;
b) prima di sciogliere le Camere deve sentire i loro Presidenti, che esprimono parere obbligatorio
ma non vincolante;
c) il potere di scioglimento anticipato non può essere esercitato negli ultimi sei mesi di mandato a
meno che questi non coincidano con gli ultimi delle Camere (si parla di semestre bianco)
Ma chi decide sullo scioglimento delle Camere? L’atto è sostanzialmente governativo, presidenziale o
duumvirale? In astratto sono possibili tutte e tre le letture, ma in concreto per determinare chi decide sullo
scioglimento delle Camere occorre soffermarsi sugli equilibri complessivi della forma di governo. Nel
parlamentarismo maggioritario la decisione sostanziale di sciogliere il Parlamento si è spostata in capo al
Governo.
In questo tipo di sistemi il potere sostanziale di scelta della maggioranza e del Governo è nelle mani del
corpo elettorale, di fronte al quale Premier e Governo sono responsabili politicamente. Il Capo dello stato
si limita nominare Presidente del Consiglio il leader dal partito o della coalizione che ha vinto le elezioni.
Poiché, a seguito di questo procedimento, tra maggioranza e corpo elettorale si instaura il rapporto di
responsabilità politica, è nelle mani del Governo la decisione sostanziale in ordine allo scioglimento
anticipato mediante apposito atto di richiesta al Capo dello Stato.
L’esperienza italiana
Nell’esperienza italiana il parlamentarismo ha operato con modalità diverse da quelle del
parlamentarismo maggioritario: ciò spiega perché lo scioglimento anticipato è stato considerato piuttosto
che come atto governativo, come atto complesso o duumvirale. Lo scioglimento è stato considerato come
una sorta di extrema ratio: solo se il Parlamento non è in grado di esprimere nessuna maggioranza e
nessun Governo si procede allo scioglimento. Lo scioglimento, in questo caso viene detto funzionale. Se
si escludono gli scioglimenti tecnici finalizzati a far svolgere contemporaneamente l’elezione delle due
Camere, i restanti scioglimenti anticipati furono tutti dovuti alle gravi difficoltà politiche che impedivano
ai partiti di trovare un accordo. Discorso a parte vale per lo scioglimento del 1994, disposto dal
Presidente Scalfaro dopo il referendum elettorale del 1993 e dopo l’approvazione della legge elettorale
maggioritaria: in questo caso non c’era stata una crisi del governo, tuttavia il Presidente ravvisò nell’esito
del referendum la perdita di fiducia del popolo nel Parlamento. In una situazione di gravissima crisi di
legittimità dei partiti, si è aggiunta una nuova causa di scioglimento: la perdita di rappresentatività del
Parlamento, cioè nel fatto che, a causa di importanti fatti politici, risulta chiara una forte perdita di fiducia
nel Parlamento, che perde il collegamento con la società Deciso lo scioglimento però, quale Governo
dovrà gestire le successive elezioni, quello dimissionario o uno nuovo, nominato appositamente dal Capo
dello Stato?

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La soluzione ritenuta preferibile è che, una volta appurata l’impossibilità della soluzione della crisi, il
decreto sia controfirmato dal Governo dimissionario (in modo da calibrare la volontà presidenziale che
potrebbe nominare un Governo ad hoc per ottenere la controfirma). Il Governo dimissionario resta in
carica per l’ordinaria amministrazione.
L’ordinaria amministrazione significa sbrigare gli affari correnti, compiere gli atti dovuti, quelli urgenti o
indifferibili. Tuttavia nella prassi, il Governo deve autolimitarsi sì, ma salvaguardare gli interessi del
paese.
Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali
Gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali sono i seguenti:
- gli atti di nomina, cioè quelli con il quale il Presidente della Repubblica nomina: a) cinque
senatori a vita (art. 59.2), cioè cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario. La disposizione costituzionale consente che
possano essere complessivamente nominati cinque senatori a vita, pur tuttavia una diversa
interpretazione è stata seguita dai presidenti Pertini e Cossiga, i quali hanno ritenuto che il limite
di cinque fosse riferibile al potere di nomina di ciascun Presidente; 2) un terzo dei giudici
costituzionali (art. 135.1). Il decreto di nomina dei giudici costituzionali è controfirmato dal
Presidente del Consiglio e la controfirma certifica la sola regolarità del procedimento seguito;
- il rinvio delle leggi. Il Presidente con un messaggio motivato e vincolato nel contenuto può
rinviare una legge alle Camere per una nuova deliberazione: tale messaggio deve contenere i
motivi del rinvio.
Nell’ipotesi in cui il Presidente abbia già disposto lo scioglimento delle Camere, si pone il problema di
stabilire se un rinvio presidenziale di leggi già approvate sia legittimo e se il Parlamento sciolto possa
riunirsi per deliberare. Ove si ritiene che le Camere sciolte non possano riunirsi per discutere, ciò
equivale di fatto a trasformare il potere di veto sospensivo presidenziale in veto assoluto. Era questa la
posizione assunta dal presidente Cossiga: tuttavia la tesi presidenziale fu contraddetta e la legge rinviata
fu, in quell’occasione, riapprovata.
- I messaggi presidenziali. Sono la via formale di comunicazione tra il Presidente e le Camere, essi
non sono vincolati nel senso che la Costituzione non ne disciplina il contenuto. La Costituzione
ne individua due tipi: 1) a contenuto vincolato, che accompagnano l’atto di rinvio delle leggi e
infatti il messaggio deve indicare i motivi di tale rinvio; 2) a contenuto libero, il cui contenuto è
scelto dal Presidente e questo è il modo formale con cui il presidente comunica con le Camere.
Tutti i messaggi hanno forma scritta e vanno controfirmati dal Presidente del Consiglio. L’invio
alla Camera del messaggio non necessariamente promuove un dibattito parlamentare sui suoi
contenuti. Secondo una valutazione largamente condivisa i messaggi non sono riusciti ad
incidere sul dibattito politico e le forze politiche si sono mostrate non particolarmente interessate
ai richiami presidenziali;
- le esternazioni atipiche. Le manifestazioni del pensiero presidenziale i cui destinatari sono
genericamente la pubblica opinione o il popolo. Tali esternazioni, per loro natura si sottraggono
alla controfirma. Grazie ad esse il Presidente si pone in rapporto diretto col corpo elettorale: il
ricorso a tale metodo di comunicazione è accentuato nei periodi di crisi della legittimazione del
sistema politico e inibito nei momenti di stabilità;
- la convocazione straordinaria delle Camere. Diretta a garantire il funzionamento delle istituzioni
costituzionali contro eventuali prevaricazioni della maggioranza.
Gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi
sono i seguenti:
 l’emanazione di atti governativi aventi valore di legge (decreti-legge, decreti legislativi e
regolamenti governativi) che assumono la forma del decreto presidenziale. È sicuramente il
Governo che determina il contenuto di questi atti e il Presidente della Repubblica lo emana,
tuttavia non si esclude che quest’ultimo entri nel procedimento, a seguito della proposta
governativa, esercitando un controllo di legittimità e di merito costituzionale sull’atto.
Nella prassi si trovano alcuni episodi in cui il Presidente ha operato in questo modo: 1) il Presidente

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Pertini che ottenne la modifica del decreto legge prima che il Governo lo adottasse; 2) il Presidente
Cossiga che negò l’emanazione; 3) il Presidente Napolitano che, comprese le intenzioni del Governo di
emanare un decreto-legge che paralizzasse il decreto della Corte di Appello di Milano con cui si
autorizzava l’interruzione del trattamento della Englaro, inviò una lettera al Governo, spiegando le
ragioni costituzionali che gli avrebbero impedito di autorizzare quell’atto. Il Governo tuttavia non
modificò ne ritirò il testo e il Presidente rifiutò di firmare un atto simile. Tali episodi confermano che,
quantomeno in assenza di requisiti di chiara necessità od urgenza, il Presidente può opporre un rifiuto
assoluto di emanazione.
 L’adozione con decreto presidenziale dei più importanti atti del Governo e in particolare la
nomina dei funzionari dello Stato, nei casi previsti dalla legge (art. 87). Di fronte alla enorme
quantità di atti che, immotivatamente, assumevano la forma del decreto presidenziale, la legge
13/1991 ridusse drasticamente il numero di tali atti e prevedendo per molti atti governativi la
forma di decreto del Presidente del Consiglio o dei ministri. Conservano la forma di decreto
presidenziale pochi atti governativi, come lo scioglimento anticipato di Consigli comunali e
provinciali, la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica e tutti gli atti per i
quali è intervenuta una deliberazione del Consiglio dei ministri. Quanto alle nomine sono state
successivamente ridotte a quelle per i massimi dirigenti statali.
 La promulgazione della legge è attribuita al Capo dello Stato che deve provvedervi entro un
mese dall’approvazione parlamentare seguendo la seguente formula di promulgazione: 1) accerta
che la legge sia stata approvata nel medesimo testo da entrambe le Camere; 2) manifesta la
volontà di promulgare la legge; 3) ne ordina la pubblicazione nella raccolta ufficiale degli atti
normativi della repubblica italiana; 4) obbliga chiunque ad osservarla e a farla osservare come
legge dello stato;
 la ratifica dei trattati internazionali, ed eventualmente autorizzati dal Parlamento, l’
accreditamento dei rappresentanti diplomatici all’estero (art. 87), la dichiarazione dello stato di
guerra previa deliberazione delle Camere, chiamate a conferire i poteri necessari al Governo (art.
78). In quest’ultimo contesto al Capo dello Stato è affidato anche il comando delle forze armate;
 la concessione della grazia e commutazione delle pene (art. 87) che si differenziano dall’amnistia
e dall’indulto perché si riferiscono a persone singole e consistono nel condono totale o nella
commutazione della pena irrogata. È stato controverso se la decisione di concedere la grazia
fosse del Presidente della Repubblica o del Governo. La ricostruzione prevalente configurava la
grazia come ‘atto complesso’ a cui dovevano concorrere Presidente e Governo. Coerentemente
con quest’evoluzione, la legislazione ordinaria conferiva al ministro di giustizia l’attività
istruttoria, mentre la prassi faceva precedere il decreto presidenziale di concessione della grazia
da una proposta ministeriale. Recentemente poi, la Corte costituzionale ha configurato la grazia
come atto formalmente e sostanzialmente presidenziale a seguito del cosiddetto ‘Caso Sofri’.
Di fronte alle richieste di larga parte dell’opinione pubblica di concedere la grazia a Sofri (ex leader della
sinistra estrema, condannato per terrorismo ritenuto estraneo ai fatti dall’opinione stessa e comunque
moralmente riabilitato), il Capo dello Stato ha deciso di concedere il provvedimento di clemenza
nonostante incontrasse la ferma opposizione del ministro. Questo, presupponendo che tale atto fosse solo
formalmente presidenziale e sostanzialmente governativo ha rifiutato di apporre la firma e il Presidente
ha sollevato conflitto di attribuzione di fronte alla Corte. Questa nella sentenza ha specificato che
l’esercizio del potere di grazia corrisponde alla manifestazione del senso di umanità costituzionalmente
riconosciuto, per tale motivo questa funzione richiede che il potere di concederla sia attribuito ad un
soggetto estraneo al circuito politico, cioè al Capo dello Stato.
 La Costituzione (art. 87) infine affida al Capo dello Stato i seguenti poteri: 1) autorizzare la
presentazione alle Camere dei disegni di legge; 2) indire le elezioni delle nuove Camere e indire
i referendum popolari; 3) conferire le onorificenze della Repubblica; 4) emanare il decreto di
scioglimento dei Consigli regionali e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano
compiuto gravi violazioni della legge.
Atti compiuti nella qualità di Presidente del Consiglio supremo di difesa e del Consiglio superiore della
magistratura
In talune fattispecie, il Capo dello Stato opera come Presidente di un organo collegiale e gli atti posti in
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essere in tale veste si fondono con la volontà del collegio.
Al Capo dello Stato è attribuita la presidenza del Consiglio supremo di difesa: un organo collegiale di cui
stabilmente fanno parte il Presidente del Consiglio, alcuni ministri e il Capo di stato maggiore della
difesa. In quest’ambito la titolarità sostanziale dei poteri militari e di difesa è del Governo, ma il
Presidente della Repubblica svolge alcuni poteri, connessi alla presidenza del Consiglio superiore di
difesa: poteri di convocazione, di formazione dell’ordine del giorno, di nomina e revoca del Segretario
del Consiglio.
Per ciò che concerne invece la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura si ritiene che
l’attività presidenziale si fonda con quella del collegio, con la conseguenza che si hanno atti del
Presidente del CSM e non atti del Presidente della Repubblica. In questo caso la prassi riconosce al Capo
dello Stato un generico potere di rinvio, ove ravvisi mere irregolarità nello svolgimento del procedimento
per il conferimento degli incarichi direttivi.
La supplenza del Presidente della Repubblica
La supplenza del Presidente della Repubblica è un istituto che si utilizza ogni qual volta in cui il
Presidente non può adempiere alle sue funzioni e , al suo posto subentra il Presidente del Senato. La
supplenza è un istituto che consente la continuità delle funzioni presidenziali, anche nell’ipotesi in cui il
Capo dello Stato non possa adempierle per impedimenti. Comunemente si ritiene che il supplente debba
limitarsi all’esercizio dell’attività di ordinaria amministrazione.
Gli impedimenti si distinguono in:
- temporanei. Il Presidente del Senato è legittimato ad assumere le funzioni presidenziali fino alla
cessazione dell’impedimento;
- permanenti (così pure per morte o dimissioni). Scatta sempre la supplenza ma
contemporaneamente anche il procedimento per l’elezione del nuovo Presidente della
Repubblica.
Nel primo caso l’accertamento di impedimento è dichiarato dallo stesso Presidente, e, in ragione di ciò, la
supplenza opera automaticamente senza l’obbligo per il Presidente del Senato di presta giuramento. Più
complicata è la situazione nel caso nell’accertamento di impedimento di un Presidente che non sia più in
grado di intendere e di volere. Nel ’64, a seguito della grave ed irreversibile malattia che colpì il
Presidente Segni, si diede vita ad una procedura particolare di accertamento che vide attivarsi il
Segretario generale della Presidenza della Repubblica, che ha ufficializzato un bollettino medico
dell’entourage di fiducia del Presidente al fine di legittimare la supplenza. Nel caso di viaggi all’estero,
non si tratta di una vera e propria supplenza: sarebbe preferibile parlare di alcune funzioni presidenziali
che, in circostanze che allontanino il Presidente dal territorio nazionale, vengono ad essere esercitate dal
Presidente del Senato.

CAPITOLO VI – REGIONI E GOVERNO LOCALE


Le Regioni nella storia istituzionale italiana
La Costituzione italiana del 1948 ha previsto un sistema di autonomie locali e regionali che affiancano lo
Stato. La Costituzione del 1948 aveva previsto uno Stato regionale e autonomista, basato su Regioni
dotate di:
 autonomia politica, capacità di darsi un proprio indirizzo politico sia pure diverso da quello dello
Stato;
 autonomia legislativa ed amministrativa, nelle materie espressamente indicate dalla
Costituzione;
 autonomia finanziaria, attraverso l’attribuzione di risorse finanziarie necessarie per esercitare le
loro competenze.
Le Regioni cui si doveva applicare tale disciplina erano 15, cui si aggiungevano altre 5 Regioni (Sicilia,
Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta) dotate di autonomia differenziata
più ampia delle altre Regioni, definita dallo statuto e approvata con legge costituzionale. Queste ultime
sono dette regioni speciali mentre le prime vengono dette regioni ordinarie. Condizioni di particolare

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autonomia sono state riconosciute pure alle Province autonome di Trento e Bolzano.
Lo stesso documento riconosceva l’autonomia di enti territoriali riguardanti un’area più piccola di quella
regionale: i Comuni e le Province. Mentre le Regioni però avevano capacità di fare leggi, gli enti locali
non hanno capacità legislativa, ma solo regolamentare: si stabiliva anche che l’autonomia di questi enti
locali doveva essere definita da leggi generali dello Stato, mentre quella regionale è definita dalla
Costituzione. Le regioni ordinarie sono state istituite solo nel ’70: in ogni caso l’esercizio effettivo delle
loro funzioni richiedeva che lo Stato, con legge apposita (c.d. decreti di trasferimento), trasferisse loro le
funzioni amministrative. Tale concreto trasferimento si effettuato prima nel ‘72 e poi nel ‘77, ma si è
trattato di un trasferimento parziale, poiché i ministeri hanno conservato numerose competenze
nell’ambito delle materie che la Costituzione affidava alle Regioni.
Una svolta nella ripartizione delle funzioni amministrative c’è stata con la legge 59/1997, la c.d. Legge
Bassanini , la quale introduceva il seguente principio: alle Regioni ed agli enti locali dovevano essere
attribuite tutte le funzioni ed i compiti amministrativi relativi alla cura ed alla promozione dello sviluppo
delle rispettive comunità, nonché i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori, con sola
eccezione dei compiti prerogative dello Stato. Con la riforma Bassanini si realizzava un’interpretazione
evolutiva del’art.118 con cui le funzioni amministrative venivano attribuite in linea di principio a Regioni
ed enti locali anche nelle materie in cui lo Stato aveva titolarità della funzione legislativa. Questo
processo fu avviato a Costituzione invariata, perciò potevano sollevarsi questioni riguardanti la sua
compatibilità costituzionale. Sulle spinte di correnti e forze politiche favorevoli ci si è avviati verso la
“Riforma del Titolo V”.
Nel 2001 il Parlamento ha approvato una legge costituzionale (l. cost. 3/2001) di riforma organica del
Titolo V della Parte II della Costituzione, che è entrata in vigore a seguito dell’esito positivo del
referendum costituzionale. La nuova disciplina costituzionale, introdotta dalla revisione del titolo V, ha
profondamente mutato l’assetto dei rapporti tra stato, regioni ed enti locali, realizzando un forte
decentramento politico.
Piuttosto che designare uno Stato Federale ha definito una Repubblica delle autonomie, articolata su più
livelli territoriali di governo, ciascuno dotato di autonomia costituzionalmente tutelata. La riforma
costituzionale del 2001 è stata preceduta da un’altra legge costituzionale (legge cost. 1/1999), che aveva
modificato la forma di governo regionale, introducendo l’elezione diretta del Presidente della Giunta e
ampliando l’autonomia statutaria in materia di forma di governo. La ripartizione di competenze tra Stato,
Regioni ed enti locali
La Costituzione ha previsto che la Repubblica sia articolata in Comuni, Province, Città metropolitane,
Regioni e Stato, tutti costituzionalmente dotati di autonomia. La scelta in favore della Repubblica delle
autonomie ha delle immediate conseguenze sul modo in cui sono ripartite le competenze tra Stato ed enti
territoriali. In un sistema in cui è prevista equordinazione (parità di rango) degli enti territoriali, lo Stato
ha perduto la potestà legislativa generale: esso può legiferare esclusivamente nelle materie individuate ed
al lui riservate dalla Costituzione. Legge statale e legge regionale sono sottoposte agli stessi limiti:
rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli accordi
internazionali. Anche sul piano regolamentare, la competenza dello Stato è limitata alle materia di
competenza legislativa esclusiva, mentre in ogni altra materia la potestà regolamentare è riservata alle
Regioni.
Secondo l’interpretazione prevalente del testo costituzionale originale, doveva operare il principio del
“parallelismo delle funzioni” (nelle materie di competenza legislativa delle Regioni queste esercitavano
anche le funzioni amministrative). Con la legge Bassanini e con la riforma costituzionale si è tentato di
superare questo principio con l’attribuzione ai Comuni della generalità delle funzioni amministrative, con
la sola eccezione di quelle che siano conferite a Città metropolitane, Province, Regioni e Stato sulla base
del principio di sussidiarietà (il livello governativo superiore interviene quando quello di livello inferiore
non possa assolvere al compito), di differenziazione (enti dello stesso livello possono avere competenze
diverse) e adeguatezza (funzioni assegnate ad enti con requisiti di efficienza). Pertanto, a seguito della
riforma costituzionale, tutte le funzioni dell’amministrazione pubblica dovrebbero essere tendenzialmente
assegnate ad un’amministrazione locale, salvo che non vi sia l’esigenza di unificarne l’esercizio a livello
più elevato.
Anche il nuovo testo costituzionale ha mantenuto le Regioni speciali, il cui ordinamento e le cui funzioni
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sono stabiliti dai rispettivi statuti, approvati con legge costituzionale.
I raccordi tra i diversi livelli territoriali di governo
Negli Stati federali, o a forte decentramento politico, si pone il problema dei raccordi, ossia gli strumenti
di coordinamento e di collegamento fra i diversi livelli territoriali di governo. In una società progredita ad
intenso mutamento ed a forte sviluppo tecnologico, le materie sono sempre interconnesse e qualsiasi
problema complesso richiede il coordinamento di tutti i centri di potere pubblico: anche per questo,
alcune competenze statali sono di tipo trasversale, tagliano cioè più materie. La riforma costituzionale del
2001 non ha previsto quel meccanismo di raccordo presente in numerosi Stati federali che è la Camera
delle Regioni. Attualmente pertanto, in attesa della riforma del Senato che dovrebbe assolvere a tale
funzione, i raccordi principali sono la Commissione Bilaterale integrata (che sarebbe abrogata se la
riforma venisse approvata) e il sistema delle conferenze.
La Commissione bicamerale integrata
La Commissione parlamentare per le questioni regionali è un organo bicamerale per svolgere compiti
consultivi. La nuova disciplina introdotta con la riforma costituzionale del 1999 prevede che, con decreto
motivato dal Presidente della Repubblica, sentita la commissione bicamerale, siano disposti: lo
scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta. Ma è stato l’art. 11 della
legge cost. 3/2001 a valorizzare la Commissione con l’attribuzione di funzioni di raccordo tra Stato e
Regioni:
a) i regolamenti parlamentari possono prevedere la partecipazione rappresentanti delle Regioni,
delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione bicamerale;
b) quando un progetto di legge riguardante le materie in regime di competenza legislativa
concorrente contenga disposizioni sulle quali la Commissione, come sopra integrata, abbia
espresso pareri contrari o favorevoli condizionato dall’introduzione di specificamente formulate,
e la Commissione che ha svolto l’esame in sede referente non vi si sia adeguata, queste parti del
progetto possono essere approvate solo se l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta.
La Conferenza Stato-Regioni e le altre Conferenze
Il sistema delle Conferenze è, ancora oggi, il principale strumento con cui si persegue la “leale
collaborazione” fra Stato, regioni ed enti locali. Il nucleo fondamentale è la Conferenza Stato-Regioni, a
cui è affiancata la Conferenza stato, Città e autonomie locali: per le materie ed i compiti di interesse
comune, le due Conferenze sono riunite insieme della Conferenza unificata. Tali conferenze sono
presiedute dal Presidente del consiglio e sono formate da alcuni ministri e dai Presidenti delle Regioni
(Conferenza Stato-Regioni), mentre per quanto riguarda la Conferenza delle autonomie locali, essa è
formata dai rappresentanti degli enti locali.
Esse sono sede di confronto tra Governo, Regioni ed autonomie locali, coinvolte nell’elaborazione di
taluni atti governativi che interessano le Regioni stesse. Il più delle volte ciò avviene attraverso la
previsione normativa secondo cui determinati atti del Governo devono essere preceduti dal parere di una
di tali Conferenze: questo parere, di regola, non è giuridicamente vincolante ma ha grande forza politica,
cosicché se le Regioni lo esprimono in modo unitario è difficile che il Governo se ne discosti. In altri casi
è previsto lo strumento dell’intesa, ossia del consenso delle Regioni che sono così chiamate alla
codecisione dell’atto.
Il principio di leale collaborazione
La giurisprudenza della Corte ritiene che il principio di “leale collaborazione” debba “governare i
rapporti tra Stato e Regioni nelle materie e in relazione alle attività in cui le rispettive competenze
concorrono o si intersechino imponendo un contemperamento dei rispettivi interessi”. Le leggi statali
hanno stabilito numerose forme di collaborazione, che vanno dalla previsione secondo cui determinati atti
devono essere adottati dallo Stato, previa intesa con la Regione, alla richiesta di pareri, all’istituzione di
organi misti, formati da rappresentanti dello Stato e rappresentanti delle Regioni, allo scambio di
informazioni, ecc.
Nella Costituzione del ‘48 era previsto che le leggi regionali incontrassero un limite politico
nell’interesse nazionale: il Governo poteva bloccarle e provocare una decisione dell’organo politico
nazionale di vertice, il Parlamento. Avendo tale potere di controllo sulle leggi regionali, il Governo
godeva di una posizione di supremazia rispetto alle Regioni. L’eliminazione nel 2001 di qualsiasi
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riferimento all’interesse nazionale e l’imporsi invece di una visione dei rapporti tra i diversi livelli di
governo che ‘obbedisce ad una concezione orizzontale-collegiale, più che ad una visione verticale-
gerarchica degli stessi’, hanno provocato un rafforzamento delle esigenze di cooperazione.
Altra esigenza di raccordo riguarda l’esercizio del potere estero delle Regioni ed i rapporti delle stesse
con l’UE: nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti
territoriali interni ad altri Stati. Ciò può avvenire solamente nei casi e con le forme disciplinati da leggi
dello Stato, che quindi deve prevedere meccanismi che assicurino il raccordo tra la politica estera dello
Stato e le attività di rilievo internazionale delle Regioni. Va infine evidenziato che il Governo può
esercitare potere sostitutivo nei confronti degli organi delle Regioni nel caso di mancato rispetto di norme
o trattati internazionali o della normativa UE o di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica,
ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economico o, in particolare, la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociale, emanando direttamente o
attraverso un commissario ad acta l’atto necessario.
La riforma costituzionale prevede che “lo Stato possa intervenire anche su materie non riservate alla
legislazione esclusiva quando lo richiedano il mantenimento dell’unità giuridica o economica dello Stato,
ovvero l’interesse nazionale”. Non è affatto detto che, come potrebbe sembrare, questo costituisca una
forte compressione delle competenze regionali: la nuova normativa pone in essere una legge tipica che il
Senato può proporre di modificare costringendo la Camera a superare le sue obiezioni con un voto a
maggioranza assoluta. In realtà è proprio tale tipicità ad impedire qualsiasi intrusione ingiustificata nella
sovranità regionale.
I rapporti tra le Regioni e gli enti locali
Un problema politico istituzionale che ha sempre accompagnato l’evoluzione dello Stato-regionale in
Italia, è stato quello dei rapporti fra Stato e Regione da un lato ed enti locali dall’altro. Il testo originale
della Costituzione stabiliva che “lo Stato riconosce e promuove le autonomie locali” (art. 5) e demandava
a “leggi generali” il compito di determinare i principi cui doveva ispirarsi l’autonomia degli enti locali
(art. 128).
Comuni e province hanno però dovuto fare i conti con un nuovo centralismo: quello di molte Regioni che
tendevano a non attribuire ai Comuni le funzioni amministrative nelle materie di loro competenza e
mantenevano una posizione di sopraordinazione.
L’avvio del cambiamento si è avuto con la legge 142/1990, che ha reso gli enti locali più efficienti
modificando il loro ordinamento; successivamente la riforma del 1993 ha introdotto l’elezione diretta sia
del Sindaco che del Presidente della Provincia. Più recentemente attraverso un processo riformativo
alquanto caotico, culminato con la c.d. legge Delrio si è rivisto l’ordinamento dell’ente intermedio (la
Provincia): esso diventa un ente di “secondo grado” i cui organi non sono eletti direttamente dai cittadini
ma dagli organi dei Comuni che ne fanno parte.
Il sistema degli enti locali, a questo puto si basa su:
i. il Comune, ente locale dotato di autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa,
nonché di autonomia impositiva e finanziaria nell’ambito delle leggi di coordinamento della
finanza pubblica. I suoi organi sono eletti direttamente dai cittadini;
ii. la Provincia, che è un ente intermedio tra Comune e Regione: i suoi organi sono eletti dai sindaci
e dai consiglieri dei comuni che vi sono compresi. Ha funzioni di “area vasta” di coordinamento
ma anche di gestione;
iii. la Città metropolitana, istituita dalla legge Delrio che la prevede solo per le città maggiori. In
linea di principio essa si sostituisce alla Provincia ed è governata da un sindaco metropolitano e
da un consiglio eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni compresi nella sua area e dalla
conferenza metropolitana che riunisce tutti i sindaci. La Città metropolitana si occupa soprattutto
dei piani territoriali, del coordinamento e della mobilità;
iv. le Unioni di Comuni, che sono enti locali costituiti da due o più comuni per l’esercizio associato
di funzioni o servizi di competenza.
La questione delle Province è da molto tempo dibattuta: già in sede di Assemblea Costituente si era
discusso dell’eventuale soppressione di quest’organo. La discussione è tornata ad accendersi a seguito
dell’esigenza del taglio delle spese e della soppressione degli enti inutili. La prima chiamata in causa è
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stata proprio la Provincia: essa è stata oggetto di una serie di provvedimenti legislativi volti alla sua
riduzione ad “organo di secondo grado” ed alla riduzione del numero di quelle esistenti. A questo scopo
tuttavia si è agito con lo strumento meno adatto: il decreto-legge; perciò la Corte lo ha bocciato,
affermando tra le righe che autonomia provinciale è costituzionalmente garantita.
Il Governo ha presentato una proposta di riforma che mira ad eliminare dal testo costituzionale qualsiasi
riferimento alle Province al fine di eliminare gli ostacoli costituzionali al conseguimento del suo scopo.
Prima della riforma costituzionale del 2001 l’autonomia degli enti locali risultava sostanzialmente
“decostituzionalizzata”, visto che le regole e gli strumenti della stessa erano rimandati al legislatore. Con
la riforma costituzionale l’autonomia di Comuni, Città metropolitane e Provincie ha trovato più ampia
garanzia costituzionale. Vi è quindi la garanzia dell’autonomia di ciascuno di tali enti del potere a darsi
autonomamente un proprio statuto, il quale stabilisca le norme fondamentali dell’organizzazione
dell’ente. L’innovazione più importante è tuttavia quella introdotta dalla riforma del 2011 che consiste
nella previsione costituzionale secondo cui l’amministrazione pubblica deve essere, in linea di principio,
una amministrazione locale.
Coerentemente con questa previsione si afferma che le autonomia locali sono titolari di funzioni proprie
oltre a quelle attribuitegli dallo Stato: questo conserva però potestà legislativa esclusiva per la
legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Provincie e Città
metropolitane. Per ciò che riguarda i raccordi fra Regione ed enti locali, la Costituzione prevede che in
ogni Regione lo statuto debba disciplinare il Consiglio delle autonomie locali che funziona come organo
con funzioni consultive.
Finanza regionale e finanza locale
Nei sistemi federali, l’autonomia degli enti territoriali riguarda anche il versante finanziario. Si usa
l’espressione federalismo fiscale per indicare un sistema di finanza pubblica che riconosce tanto
l’autonomia degli enti territoriali, quanto l’esistenza di interventi finanziari centrali, sotto forma di
trasferimenti, con cui realizzare obiettivi di politica economica e sociale non tutelati dagli enti territoriali.
L’art. 119 Cost., garantisce l’autonomia finanziaria a favore delle Regioni e degli enti locali. Ciò significa
che gli enti locali:
- devono avere entrate proprie ed il potere di determinarne composizione e quantità;
- devono poter stabilire liberamente come spendere le risorse che ricavano.
La Costituzione prevede che Regioni ed enti locali abbiano una finanza alimentata sia con tributi ed
entrate proprie, sia con compartecipazioni al gettito di tributi statali riferibili al loro territorio.
L’autonomia finanziaria attribuita alle Regioni ed agli enti locali comporta altresì che questi abbiano
autonomia di scelta sia in ordine di livello di imposizione tributaria, sia su come impiegare le risorse a
disposizione.
Lo Stato non ha perduto il potere di intervenire nella disciplina della finanza regionale: l’art. 117.3
prevede la materia ‘coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario’ tra le ‘potestà
legislative concorrenti’; lo Stato potrà dunque limitarsi ad introdurre principi fondamentali sui quali
dovrà articolarsi la legislazione territoriale. Regioni ed autonomie saranno dotate di risorse differenti in
relazione alla ricchezza del territorio: le Regioni più povere avranno meno mezzi e quelle più ricche
avranno più risorse su cui contare. Al fine però, di evitare che fra le diverse Regioni si creino delle
differenze di disponibilità finanziarie, si è previsto un fondo perequativo che ha la funzione di assegnare
agli enti territoriali più deboli delle risorse aggiuntive.
Il nuovo art. 119 è un testo che consente diverse soluzioni interpretative e lasciano ampia discrezionalità
al legislatore nell’individuare modalità per la realizzazione del “federalismo fiscale”. Tra i principi più
importanti segnalati dalla recente giurisprudenza costituzionale si segnalano i seguenti: 1) non è possibile
una piena esplicazione delle potestà regionali senza previa legge di coordinamento, con la conseguenza
che è precluso alle Regioni di legiferare in modo innovativo; 2) non è possibile configurare una materia
“sistema tributario degli enti locali” di competenza residuale delle Regioni; 3) non è più ammissibile
l’istituzione da parte dello Stato di fondi di finanziamento settoriali e vincolanti per finalità specifiche a
favore di enti locali; 4) la normativa statale può imporre oneri contrattuali per il pubblico impiego; 5) la
legge statale può imporre vincoli alla crescita della spesa corrente degli enti locali.
Il processo di attuazione dell’art. 119 avrebbe dovuto avere come momento centrale l’approvazione della
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legge di ‘attuazione del federalismo fiscale’ (legge 42/2009). L’idea portante è che venga istituita una
tendenziale correlazione tra responsabilità finanziaria e responsabilità amministrativa. In questo modo i
cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni di valutare il modo in cui sono utilizzate le risorse che
essi cedono ai poteri pubblici attraverso l’imposizione tributaria, il che dovrebbe favorire la
responsabilità politica degli eletti nei confronti degli elettori. Il principio della territorialità dei tributi
regionali fa si che i territori più ricchi produrranno gettito più elevato che va a finanziare i servizi di cui
gli stessi territori godranno.
Da questo sistema derivano almeno due problemi: 1) come assicurare che sia comunque attribuita
copertura finanziaria integrale delle funzioni che Regioni ed enti locali devono svolgere; 2) come
garantire un certo livello di solidarietà tra le diverse aree territoriali.
Al fine di quantificare il finanziamento necessario alle Regioni per garantire la copertura finanziaria delle
loro prestazioni, si individuano i costi standard di ciascuna prestazione, in modo che sia possibile
confrontare l’efficienza delle Regioni nell’erogazione dei servizi. È un’operazione assai complicata
perché le esigenze delle popolazioni delle singole Regioni sono diverse: è davvero difficile calcolare le
singole prestazioni ed è altrettanto complicato individuare quali concrete prestazioni vanno prese in
considerazione.
La forma di governo regionale
La c.d. ‘forma di governo transitoria’
La legge cost. 1/1999 ha modificato gli articoli da 121 a 126 della Costituzione, affidando a ciascuna
Regione il potere di scegliersi la propria forma di governo. La legge costituzionale ha previsto una forma
di governo transitoria, vigente fino a quando la Regione non approverà il nuovo statuto, caratterizzata
dall’elezione popolare diretta del Presidente della Regione. La forma di governo transitoria si basa su due
strutture egualmente legittimate dal corpo elettorale: da una parte c’è il Consiglio regionale, eletto dagli
elettori regionali, titolare della funzione legislativa, del potere di fare proposte alle Camere e delle altre
funzioni conferitegli dalla Costituzione. Egli gode della classica prerogative delle assemblee elettive, cioè
dell’insindacabilità dei suoi membri per le opinioni espresse e i voti dati. Dall’altra parte c’è il Presidente
della Regione eletto a suffragio universale, che rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta e ne
è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali, dirige le funzioni amministrative
delegate dallo Stato alla Regione. La Giunta regionale è l’organo esecutivo della Regione (titolare della
funzione amministrativa) ma è diretta politicamente dal Presidente eletto, cui la Costituzione affida il
potere di nominare componenti della Giunta, nonché il potere di revocarli.
Le relazioni tra il Consiglio regionale e il Presidente eletto e la Giunta sono riconducibili al modello della
forma di governo neoparlamentare: il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del
Presidente della Giunta mediante mozione motivata ed approvata a maggioranza assoluta per appello
nominale dei componenti. Ma l’approvazione della mozione di sfiducia determina le dimissioni della
Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale, con la conseguenza che si andrà a nuove elezioni per il
rinnovo di entrambi gli organi.
Sia la forma di governo transitoria stabilita dalla legge costituzionale, sia la forma di governo stabilita
dello statuto regionale, sono caratterizzate dal principio del “simul stabunt, simul cadent”. Si intende che
i due organi sono eletti contestualmente e che il venir meno di uno dei due determina la scadenza
anticipata del mandato dell’altro. In questo modo si intendono conseguire i seguenti risultati: 1) evitare
cambiamenti di maggioranze di governi in corso di legislatura, senza il pronunciamento del corpo
elettorale; 2) assicurare la stabilità dei governi regionali e la loro legittimazione; 3) assicurare la
contestualità delle elezioni del Presidente e del Consiglio, in modo da rendere più probabile che essi
appartengano alla stessa coalizione, evitando la “coabitazione”.
L’assetto descritto della forma di governo regionale è previsto dalla Costituzione che, però, affida allo
statuto di ciascuna Regione la competenza a determinare, in armonia con la disciplina costituzionale, la
forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (art. 123.1). Lo statuto
regionale può integrare e modificare il modello costituzionale e , in ultima istanza può anche escludere
l’elezione diretta del Presidente della Regione. La nuova disciplina costituzionale affida alla legge
regionale il compito di stabilire il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e incompatibilità del
Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali, nei limiti dei
principi fondamentali determinati con la legge della Repubblica, la quale fissa la durata degli organi
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elettivi.
I nuovi statuti delle Regioni hanno tutti optato per l’elezione diretta del Presidente, tuttavia ancora poche
Regioni si sono dotate di una propria legge elettorale. Nelle altre Regioni le elezioni sono rette dalla
disciplina transitoria: a) sono candidati alla presidenza della Regione i capilista delle liste regionali; b) è
eletto Presidente il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti; c) il Presidente della Regione fa
parte del Consiglio regionale; d) il Presidente della Regione nomina i componenti della Giunta. Se il
Consiglio approva una mozione di sfiducia, si procede entro tre mesi all’indizione di nuove elezioni del
Consiglio regionale e del Presidente della Regione.
Il margine delle scelte statutarie
La Costituzione attribuisce alla Regione la facoltà di discostarsi dalla disciplina transitoria prevista nel
disciplinare la forma di governo. La Costituzione fissa un criterio generale di elezione a suffragio
universale e diretto del Presidente della Regione: in questo contesto, il rapporto tra Presidente della
Regione e Consiglio regionale si basa sul principio del “simul stabunt simul cadent”. Il Consiglio
potrebbe votare una mozione di sfiducia contro il Presidente e questa possibilità non sarebbe derogabile
da parte dello statuto.
Le Regioni, nell’esercizio della loro potestà statutaria, potrebbero allontanarsi da tale modello e
prevedere diverse modalità di elezione del Presidente. Qualora la Regione scegliesse di confermare
l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente dovrebbe rispettare la disciplina dell’art.126
secondo cui: 1) il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia con mozione motivata ed approvata per
appello nominale da almeno la maggioranza assoluta dei sui componenti (detta mozione non può essere
messa in discussione prima di tre giorni dalla presentazione); 2) l’approvazione di tale mozione comporta
la rimozione del Presidente ed il contestuale scioglimento del Consiglio regionale; 3) gli stessi effetti
conseguono alla rimozione, all’impedimento permanente, alla morte o alle dimissioni del Presidente.
Ma quali sono gli spazi effettivi lasciati all’autonomia dello statuto nella disciplina della forma di
governo?
A seguito della riforma costituzionale i Consigli regionali hanno sostanzialmente perduto il potere “della
crisi”, infatti il Presidente può essere sfiduciato, ma in questo caso si scioglie anticipatamente anche il
Consiglio e si va a votare per il rinnovo dei due organi. La riforma ha voluto rafforzare la legittimazione
democratica e la stabilità del Presidente della Giunta, ma ha fatto perdere ai consiglieri regionali questo
importante potere.
Da qui la spinta a trovare fantasiose soluzioni di compromesso che salvino sia l’elezione diretta del
Presidente che la possibilità di sostituirlo senza decretare nuove elezioni: emblematico è il caso dello
Statuto regionale della Calabria dichiarato incostituzionale dalla Corte per violazione dell’art. 122. In
questo modo la Corte ha finito per consolidare la riforma della forma di governo regionale basata
sull’elezione diretta del Presidente della Regione, ponendo un consistente ostacolo ai tentativi di limitare
o temperare il ruolo del Presidente eletto.
La forma di governo degli enti locali
La forma di governo dei Comuni si basa sull’elezione popolare diretta del Sindaco. L’elezione dei
Consigli comunali prevede una combinazione di elementi maggioritari e proporzionali che si realizza con
modalità diverse per i comuni minori di 15000 abitanti e maggiori di 15000 abitanti. Nei Comuni fino a
15000 abitanti, ogni candidato a Sindaco deve essere collegato ad una lista di candidati a consigliere
comunale. È eletto Sindaco chi ottiene il maggior numero di voti (maggiorana relativa). La lista collegata
al candidato che risulta vincitore ottiene 2/3 dei seggi del Consiglio, i rimanenti sono distribuiti con
criterio proporzionale.
Nei comuni con oltre 15000 abitanti, il candidato a Sindaco deve essere collegato ad una o più liste di
candidati a consigliere comunale. L’elettore vota contestualmente per un candidato a Sindaco e per una
delle liste (contrariamente a quanto detto per i comuni minori, c’è possibilità di esprimere voto
disgiunto). È eletto sindaco chi ottiene la maggioranza assoluta; è prevista inoltre, nella distribuzione dei
seggi, l’attribuzione di un premio di maggioranza alla lista vincitrice oltre ad una clausola di sbarramento
atta a scoraggiare la frammentazione del sistema politico.
A parte alcune attribuzioni, assegnate dalla legge esclusivamente al Sindaco, che agisce in veste di
ufficiale del governo, il sindaco è l’organo monocratico posto al vertice del governo locale. Il consiglio è
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un organo di indirizzo e controllo politico, la cui competenza è circoscritta dalla legge: il numero dei
membri del consiglio varia in relazione alla popolazione. La giunta comunale è composta dal sindaco e da
un numero di assessori: essa collabora col Sindaco e compie ogni atto amministrativo non attribuito al
consiglio, al sindaco, al segretario o ai dirigenti comunali.
Tuttavia, in presenza del principio di separazione tra politica e amministrazione l’ambito delle
attribuzioni della Giunta si è ridotto considerevolmente. Sindaco e Giunta cessano dalla carica in caso di
approvazione di una mozione di sfiducia per appello nominale a maggioranza assoluta dei componenti
del Consiglio. Se la mozione viene approvata, oltre alla cessazione della carica del Sindaco e della Giunta
si determina lo scioglimento anticipato del Consiglio.

CAPITOLO VII – L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA


Giudici ordinari e giudici speciali
Il sistema giudiziario italiano si caratterizza per la contestuale presenza di più giurisdizioni: sono istituiti i
giudici ordinari, i giudici amministrativi, i giudici contabili, i giudici tributari, i giudici militari. La
competenza dei giudici appena richiamati è stabilita dalla legge, tenendo conto o della materia della
giurisdizione o della posizione giuridica occupata dal soggetto di diritto. I giudici ordinari, amministrano
la giustizia civile e penale attraverso organi giudicanti ed organi requirenti. Gli organi giudicanti civili si
dividono in organi di primo grado (giudice di pace e tribunale) e organi di secondo grado (corte
d’appello); le decisioni del giudice di pace si possono impugnare d’appello d’innanzi al tribunale; le
decisioni assunte dal tribunale in primo grado possono essere impugnate presso la corte d’appello. Anche
tra gli organi giudicanti penali, vi sono organi di primo grado (giudice di pace, tribunale, corte d’assise) e
organi di secondo grado (corte d’appello, corte d’assise d’appello, tribunale delle libertà). Gli organi
requirenti sono i Pubblici Ministeri che esercitano l’azione penale e agiscono nel processo a cura di
interessi pubblici. Il PM attiva, attraverso l’azione penale, la giurisdizione penale per l’accertamento di
eventuali reati e la condanna dei loro autori. Inoltre, agisce anche le processo civile, nei casi stabiliti dalla
legge a tutela degli interessi pubblici. La differenza tra questi due campi d’azione è notevole, perché
mentre il ruolo del PM nel processo civile è interamente rimesso alla legge, in campo penale nessuna
legge può cancellare l’obbligo da parte del PM di esercitare l’azione penale, in quanto tale obbligo è
stabilito dalla Costituzione. Obbligatorietà dell’azione penale significa che il PM non gode di
discrezionalità nell’avviare o meno l’azione penale ma deve intraprenderla sempre e comunque in
presenza di una notitia criminis dotata di fondamento. La Costituzione garantisce altresì l’indipendenza
del PM (art. 108.2) e che egli goda delle garanzie stabilite ai suoi riguardi nelle norme sull’ordinamento
giudiziario (art. 107.4).
Magistrati del PM e magistrati giudicanti fanno parte della Magistratura ordinaria ed il passaggio di un
magistrato da un organo giudicante ad un organo requirente può avvenire senza particolari difficoltà. Al
riguardo di questa pratica sono state mosse numerose critiche: infatti essa rende i magistrati giudicanti
troppo sensibili alle richieste dei magistrati requirenti visto che essi appartengono alla stessa categoria
professionale. Le funzioni giudicanti e quelle requirenti necessitano di diverse professionalità: per queste
ragioni si insiste sulla necessarietà di una separazione delle carriere. Già, a questo proposito, la legge
Castelli prevedeva che: 1) i candidati al concorso in Magistratura dovessero preventivamente indicare se
intendessero assumere le funzioni di un organo giudicante o requirente; 2) i passaggi di carriera
dovessero avvenire solo nell’ambito di una delle due funzioni; 3) tale mutamento doveva avvenire solo
per posti disponibili in uffici giudiziari aventi sedi in distretti diversi. Queste norme sono state riformate
dalla c.d. legge Mastella che stabilisce che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti può
essere richiesto dall’interessato per non più di 4 volte nell’arco dell’intera carriera, esso è disposto a
seguito di procedura concorsuale.
Gli uffici dei PM (le Procure della Repubblica) si rinvengono presso i tribunali, presso la Corte d’Appello
e presso la Corte di cassazione. Presso quest’ultima poi, si è istituita anche la Direzione nazionale
antimafia, con compiti di coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata ed in modo
particolare su quelle svolte dalla Direzione distrettuale antimafia, istituite presso gli uffici del PM nei
tribunali posti nei capoluoghi dei distretti giudiziari. La funzione giurisdizionale di primo grado nelle
controversie in cui sono coinvolgi soggetti con età inferiore ai 18 anni è esercitata dal Tribunale per i
minori, che è invece un organo collegiale formato da due magistrati professionali e due esperti. In sede
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penale esso assolve la funzione di giudicare in primo grado su tutti quei reati commessi da soggetti che, al
momenti del fatto, non erano ancora maggiorenni. In sede civile è competente a giudicare una serie di
casi, tassativamente definiti dalla legge, in cui agisce a tutela del minore.
I giudici amministrativi sono i tribunali amministrativi regionali, istituiti in ciascuna Regione ed
eventualmente articolati in sezioni, e il Consiglio di Stato. Alla giurisdizione amministrativa è affidata la
tutela degli interessi legittimi, che prevede la possibilità che siano annullati gli atti della pubblica
amministrazione (art. 113). Il criterio per distinguere fra la giurisdizione del giudice ordinario e quella dei
giudici amministrativi è costituito dalla natura della situazione giuridica da tutelare. Al giudice ordinario
spettano le controversie in materia di diritti soggettivi, mentre al giudice amministrativo quelle in materia
di interessi legittimi.
Secondo la nozione tradizionale, si ha un diritto soggettivo quando è garantito un bene della vita: il bene
garantito può essere il più vario, da una cosa a una determinata somma di denaro, oppure un servizio.
Invece, l’interesse legittimo può essere definito come quella situazione di vantaggio che si possiede di
fronte alla pubblica amministrazione e che si sostanzia nella garanzia della legittimità dell’atto
amministrativo, ma anche come diritto al risarcimento se l’attività legittima della pubblica
amministrazione ha provocato un danno al bene della vita di un privato. Di regola, si fanno valere i diritti
soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione davanti al giudice ordinario e gli interessi
legittimi davanti al giudice amministrativo; in altre parole si ha giurisdizione ordinaria quando la
pubblica amministrazione ha agito in carenza assoluta di un potere attribuitole, mentre si ha giurisdizione
amministrativa quando l’amministrazione ha agito legittimamente, male esercitando un potere attribuitole
dal diritto.
La Costituzione stessa ha riconosciuto la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. Si lascia
discrezionalità al legislatore nel concedere deroghe al principio generale di attribuzione, così già da
tempo il campo delle sanzioni amministrative pecuniarie sono affidate alla giurisdizione del giudice civile
, mentre altre materie, pur comprendendo problemi di tutela dei diritti soggettivi, sono affidate alla
cognizione del giudice amministrativo (si parla in tal caso di giurisdizione esclusiva).
La tendenza recente è quella di privilegiare, nella ripartizione della giurisdizione, criteri che fanno
riferimento alla materia rispetto a quello tradizionale di natura giuridica soggettiva della situazione. La
Corte ha messo un limite a tale tendenza, ribadendo che l’art. 103 non ha conferito al legislatore un
potere né assoluto né incondizionato e che questo deve considerare la natura soggettiva delle situazioni e
non fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo della materia.
Il Consiglio di Stato assomma a sè, oltre ai poteri giurisdizionali, anche poteri consultivi, che possono
essere attivati dal Governo dal momento che si tratta di un organo ausiliario al Governo stesso. La Corte
dei conti opera attraverso sezioni regionali in primo grado e sezioni centrali in secondo grado. Esercita
funzione giurisdizionale in tema di responsabilità dei pubblici amministratori, qualora questi abbiano
arrecato danno economico ai soggetti pubblici dai quali dipendono. I giudici tributari esercitano
giurisdizione nelle controversie fra privati e amministrazione finanziaria statale. I giudici militari che, in
tempo di guerra esercitano la giurisdizione secondo quanto stabilito dalla legge e, in tempo di pace
esercitano giurisdizione sui reati compiuti da appartenenti alle forze armate (art. 103.3)
Principi costituzionali in tema di giurisdizione Principio di precostituzione del giudice
La Costituzione pone alcuni principi fondamentali in tema di giurisdizione. In primo luogo il principio
della precostituzione del giudice, secondo cui nessuno può trovarsi ad essere giudicato da un giudice
appositamente costituito dopo la commissione di un fatto determinato. Infatti, l’art. 25 afferma che
‘nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge’. È posto inoltre, il divieto di
istituire giudici speciali, cioè organi formati fuori dall’ordinamento giudiziario, mentre è possibile
istituire sezioni specializzate presso i tribunali ordinari. Portata generale hanno le disposizione
costituzionali che vogliono che la giustizia sia amministrata in nome del popolo (art. 101), che
immaginano una partecipazione popolare alla stessa giurisdizione (art. 102.3), che impongono al giudice
la sola soggezione alla legge (art. 101.1), stabilendo che la disciplina dell’ordinamento giudiziario sia
rimessa alla competenza della legge, e che sempre la legge assicura l’indipendenza delle giurisdizioni
speciali e del pubblico ministero (art. 108). A ciò si aggiunge che secondo la Costituzione i
provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati e che contro le decisioni dei giudici ordinari è
ammesso il ricorso presso la Corte di cassazione, che rappresenta il più alto grado di giudizio. La Corte di
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cassazione si configura come giudice di legittimità: non si occupa di ricostruire i fatti, in questo senso gli
è affidata una funzione di “nomofilachia”, ovvero la soluzione delle questioni interpretative più
controverse. La Corte di cassazione, inoltre, risolve i conflitti di competenza insorti fra i giudici ordinari e
i conflitti di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice speciale.
Diritto di difesa e giusto processo
La Costituzione garantisce il diritto di agire in giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi e
afferma che la difesa è un “diritto inviolabile in ogni stato e grado di procedimento” (art. 24). La garanzia
del diritto di difesa, unitamente al principio del giudice naturale precostituito per legge, fondano la
necessità che il processo sia caratterizzato:
 per il contraddittorio fra le parti, che esige che ci sia confronto dialettico paritario fra le parti
processuali;
 per l’imparzialità e terzietà dei giudici, la cui decisione può essere accettata dalle parti e dalla
società in quanto provenga da un soggetto competente ad applicare ed interpretare il diritto in
modo imparziale e quindi autonomo rispetto ai contrapposti interessi delle parti.
Questi principi, a seguito della legge cost. 2/1999, ora si trovano chiaramente formulati nel nuovo testo
dell’art. 111 che ha consacrato la formula del giusto processo. Infatti, i primi due commi dell’art. 111
stabiliscono che: 1) la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge; 2) ogni
processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, di fronte ad un giudice terzo ed
imparziale.
Prima della riforma del 1999 l’organo della Corte costituzionale riteneva che all’organo dell’accusa,
l’ordinamento attribuisse una posizione di “vantaggio” rispetto alla difesa. Tale vantaggio si sostanziava
principalmente nella formazione delle prove processuali, dove si consentiva di acquisire come prove
anche le dichiarazioni di soggetti che poi avrebbero potuto avvalersi della facoltà di non rispondere di
fronte alle domande della difesa. Proprio per evitare questa disparità, il Parlamento ha approvato la legge
cost. di revisione dell’art. 111. Quest’ultimo, oltre ai principi menzionati comporta: 1) che nel processo
penale la persona accusata debba essere tempestivamente avvisata della natura dell’accusa e dei motivi di
questa; 2) che essa deve avere la disponibilità di tempo per avvalersi di una difesa, può interrogare le
persone che gli muovono l’accusa; 3) l’accusa non può essere confermata sulla base di dichiarazioni di
chi sceglie di sottrarsi dalle domande della difesa per il principio del contraddittorio; 4) la persona
accusata di reato deve essere assistita da interprete se non comprende o non parla l’italiano.
Il nuovo testo dell’art. 111 stabilisce che la legge deve assicurare, inoltre, la ragionevole durata del
processo: in attuazione di questo nuovo precetto si è stabilito che la Corte di appello ha la competenza di
definire l’equa riparazione in caso di eccessiva durata dei processi.
Lo status giuridico dei magistrati ordinari
L’accesso alla magistratura
La Costituzione stabilisce che la nomina a magistrato debba avvenire per concorso (art. 106.1). I requisiti
per l’accesso al concorso sono indicati dall’art. 3 della legge 111/2007.
Indipendenza, autonomia e inamovibilità della magistratura ordinaria
L’art. 104 della Costituzione afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo, indipendente
da qualsiasi altro potere”. Nel periodo precedente l’entrata in vigore della Costituzione, la magistratura si
configurava come organo amministrativo gerarchicamente organizzato su cui esercitava rilevanti funzioni
il Governo. Rompendo con questa esperienza l’Assemblea costituente ha voluto consacrare le garanzie
costituzionali di indipendenza del potere giudiziario. L’autonomia dell’ordine giudiziario fa si che
ciascun magistrato possa determinarsi autonomamente senza subire condizionamenti dagli altri
magistrati.
L’indipendenza dell’ordine giudiziario tutela ogni singolo magistrato dai condizionamenti che possono
provenire da poteri diversi da quello giudiziario.
L’art. 107 afferma che i magistrati sono inamovibili. L’ordinamento prevede che il magistrato possa
essere trasferito ad altra sede solo con provvedimento del CSM nei casi di incompatibilità previsti
dall’ordinamento e contempla anche l’eventualità che un giudice possa essere trasferito in un’altra sede
qualora non sia in grado di amministrare la giustizia nella sua sede nelle condizioni richieste dal prestigio
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dell’ordine giudiziario.

Il Consiglio superiore della magistratura


A garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura tutti i provvedimenti riguardanti la
carriera e in generale lo status dei magistrati ordinari devono essere adottati da un organo che è sganciato
dal Governo e dal circuito politico: il Consiglio Superiore della Magistratura. Il CSM è composto da (art.
104):
- tre membri di diritto: il Presidente della Repubblica, il rimo presidente della Cassazione e il
Procuratore generale della Corte di cassazione;
- di membri eletti dai magistrati che devono rappresentare i 2/3 del collegio (i c.d. membri togati);
- da membri eletti dal Parlamento in seduta comune fra avvocati che esercitano da almeno 15 anni
e professori ordinari di università (i c.d. membri laici).
La Costituzione non stabilisce quanti devono essere i componenti ma solo le proporzioni tra i membri
togati e i membri laici. La presenza di quest’ultimi vuole impedire che l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura si trasformi nella creazione di una specie di casta, separata da tutti i poteri dello Stato e
gelosa dei suoi privilegi. La stessa ragione ha spinto ad attribuire la presidenza del collegio al Presidente
della Repubblica, anche se tale presidenza ha prevalentemente carattere formale e simbolico, visto che il
CSM elegge un vicepresidente che svolge concretamente tutti i compiti connessi alla presidenza del
collegio.
L’elezione dei magistrati avviene nel seguente modo:
- un collegio unico nazionale elegge i 2 magistrati che esercitano le funzioni di legittimità
presso la Cassazione e la Procura generale presso la medesima corte;
- Un collegio unico nazionale elegge 4 magistrati che esercitano le funzioni di pubblico
ministero;
- un collegio unico nazionale per 10 magistrati che esercitano la funzione di giudice, sono
destinati alla corte suprema di cassazione.
Il CSM come si è detto è competente in materia di adozione di qualsiasi provvedimento che riguarda la
carriera e lo status dei magistrati.
Con riguardo ai provvedimenti disciplinari, per evitare l’eccessiva separatezza della magistratura e la sua
trasformazione in corporazione chiusa, la titolarità dell’azione disciplinare è stata attribuita al ministro
della giustizia (art. 107.2), anche se poi il potere di esercitare l’azione disciplinare è attribuito anche al
Procuratore generale presso la Corte di cassazione. La decisione, a seguito dell’avvio di un procedimento
disciplinare, spetta all’apposita sezione disciplinare istituita nel CSM e tale decisione viene poi sottoposta
al plenum. La sezione disciplinare può, secondo la Corte costituzionale, sollevare questioni di legittimità
costituzionale in via incidentale. Sempre la Corte costituzionale ha annullato quella norma legislativa che
limitava il diritto di difesa del magistrato. La responsabilità disciplinare opera in caso di violazioni dei
doveri connessi al corretto esercizio della funzione giurisdizionale che compromettano il prestigio
dell’ordine giudiziario stesso. La riforma della materia ha riformato gli illeciti disciplinari distinguendoli
in due grandi categorie: 1) quelli commessi nell’esercizio delle funzioni; 2) quelli commessi fuori
dall’esercizio delle funzioni.
I magistrati ordinari poi, oltre alla responsabilità disciplinare sono sottoposti a quella penale e civile: la
responsabilità civile del magistrato riguarda i danni subiti dal soggetto per effetto di privazione della
libertà personale conseguente a diniego di giustizia o ad atti e comportamenti assunti con dolo o con
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colpa grave che si manifesta in una violazione della legge o del diritto dell’Unione Europea. Il
danneggiato può chiedere il risarcimento allo Stato che si rivale sul magistrato.
Come già specificato tutti i provvedimenti del CSM assumono la veste di decreti del Presidente della
Repubblica e sono sottoposti al sindacato del giudice amministrativo ove vengano impugnati con
apposito ricorso giurisdizionale. Il giudice competente è il Tar del Lazio in primo grado e il Consiglio di
Stato in appello. Allo stesso modo, per tutelare l’indipendenza dei giudici speciali, si sono modellati altri
organi specifici sul modello del CSM come il Consiglio della magistratura militare e quello della
magistratura tributaria.
Il ministro della giustizia
La Costituzione del 1948 sposta in capo al CSM numerosi poteri. A seguito delle disposizioni
costituzionali in materia, il ministro della giustizia si limita a:
 curare l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia;
 promuovere l’azione disciplinare di fronte a sezione apposita del CSM;
 partecipare al procedimento di conferimento degli uffici direttivi: la legge prevede che tali
incarichi siano attribuiti con deliberazione del CSM, sulla base di una proposta formulata di
concerto fra un’apposita Commissione del CSM ed il ministro;
 esercitare poteri di sorveglianza ed eventuali attività ispettive nei confronti degli uffici giudiziari.

CAPITOLO VIII – FONTI: NOZIONI GENERALI


Fonti di produzione
Nel linguaggio giuridico la parola “fonte” indica gli strumenti per la produzione del diritto. La
definizione tradizionale è la seguente: dicasi fonte del diritto l’atto o il fatto abilitato dall’ordinamento
giuridico a produrre norme giuridiche, cioè ad innovare l’ordinamento stesso. La definizione è ciclica,
ricorsiva, ma come si è istituito inizialmente l’ordinamento giuridico?
Norme di riconoscimento
Per gli ordinamenti primitivi è probabile che si siano formati attraverso una lenta evoluzione dalle
tradizioni e dagli usi, da un diritto consuetudinario a un diritto basato sulla volontà di un soggetto
determinato. Con linguaggio tecnico si potrebbe parlare di evoluzione dalle fonti-fatto e alle fonti-fatto.
Negli ordinamenti moderni invece è la stessa Costituzione ad indicare gli atti che possono produrre il
diritto, cioè le fonti: non tutti perché in un ordinamento con struttura gerarchica, basta che la Costituzione
indichi le fonti ad essa immediatamente inferiori, dette anche fonti primarie; saranno poi queste a
regolare quelle di livello ancora inferiore: le fonti secondarie. La nostra Costituzione specifica tali aspetti
negli artt. dal 70 all’81. Le norme di un ordinamento giuridico che indicano le fonti abilitate ad innovare
l’ordinamento stesso si chiamano usualmente norme di riconoscimento oppure fonti sulla produzione
delle norme.
Fonti di cognizione: pubblicazione e ricerca degli atti normativi
Diverse dalle fonti di produzione sono le fonti di cognizione: esse sono gli strumenti attraverso i quali si
vengono a conoscere le fonti di produzione. In Italia esistono fonti di cognizione ufficiali e fonti di
cognizione private: la più importante fra le fonti ufficiali è la Gazzetta Ufficiale.
Tutti gli atti normativi dello Stato devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana ed inseriti nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica Italiana. Quest’ultima
viene stampata annualmente, mentre la GU è stampata giornalmente nei giorni non festivi, corredata da
alcune serie speciali che riguardano campi specifici.
Tutti gli atti normativi devono essere pubblicati in una fonte ufficiale perché sia i cittadini che gli organi
preposti le possano conoscere. Per consentire lo studio e la conoscenza dei nuovi atti questi non entrano
in vigore con la pubblicazione, ma decorre un periodo utile (15 gg), in cui gli effetti del nuovo atto sono
sospesi. Trascorso tale periodo il nuovo atto è pienamente obbligatorio. Vigono i principi di “ignoratia
legis non excusat” e di “iura novit curia”. Invece, le fonti non ufficiali possono essere fornite da soggetti
pubblici o privati, ed essere cartacee o informatiche.

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Fonti-fatto e fonti-atto Definizioni
Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: le fonti-atto (o atti normativi) e le fonti-fatto (o
fatti normativi). Le fonti-atto sono parte degli atti giuridici, che potremmo definire come i comportamenti
consapevoli e volontari che danno luogo ad effetti giuridici. Rispetto ai semplici atti giuridici, gli atti
normativi hanno due caratteristiche peculiari: a) quanto agli effetti giuridici, gli atti normativi hanno la
capacità di porre norme vincolanti per tutti (sono fonti del diritto); b) quanto ai comportamenti, le fonti-
atto implicano non solo un agire volontario, ma un agire con volontà da parte di un organo a ciò abilitato
da un ordinamento giuridico. La fonte-atto (o l’atto normativo) è l’espressione di volontà normativa di un
soggetto cui l’ordinamento attribuisce l’idoneità di porre in essere norme giuridiche: tale idoneità è
conferita da una norma di riconoscimento. Le fonti-fatto sono tutte le altre fonti che l’ordinamento
riconosce e di cui ordina o consente l’applicazione, non perché espressione di volontà, ma per il semplice
fatto di esistere. Appartengono alla categoria dei fatti giuridici, cioè a quegli eventi naturali produttivi di
conseguenze rilevanti per l’ordinamento: la differenza con questi è che dalle fonti-fatto l’ordinamento fa
discendere obblighi vincolanti per tutti.
Tipicità delle fonti-atto
Perché la volontà del soggetto possa produrre effetti normativi, bisogna che questa sia palese e
riconoscibile. Da qui l’esigenza che ogni atto normativo si manifesti esteriormente nei modi specifici che
l’ordinamento stesso determina: ogni tipo di fonte ha, a questo proposito, una sua forma essenziale, che i
singoli atti devono rispettare per essere riconoscibili come discendenti da quella fonte. La forma tipica
dell’atto è data da una serie di elementi quali l’intestazione all’autorità emanante, il nome proprio
dell’atto, il procedimento di formazione dell’atto stesso. Dal punto di vista redazionale, ogni atto è
suddiviso in articoli, e questi in commi; gli articoli, spesso correlati da una rubrica (ne indica
l’argomento), possono essere raccolti in capi, e questi ancora in titoli e parti.
Le consuetudini
Una volta si poteva dire che la fonte-fatto per eccellenza fosse la consuetudine. Questa discende da un
comportamento sociale ripetuto nel tempo, sino al punto che, dimenticata o da sempre ignorata la sua
origine, esso viene sentito come obbligatorio, giuridicamente vincolante (opinio juris seu necessitatis). La
consuetudine ebbe perciò importanza in tutti gli ordinamenti che si sono sviluppati lentamente, finché
hanno mantenuto una certa coesione sociale.
La Common Law è il sistema giuridico sviluppatosi in Inghilterra dopo la conquista normanna: essa
consisteva nel corpo di consuetudini locali riconosciuto dai conquistatori ed esteso alle colonie. Oggi non
si può certo dire che la Common Law sia un corpo di regole consuetudinarie: esso è invece un corpo di
regole giurisprudenziali, formatosi attraverso il consolidamento dei “precedenti giudiziari”, ovvero delle
autorevoli pronunce dei giudici che gli altri giudici sono tenuti a rispettare (principio dello stare decisis).
La consuetudine è oggi quasi scomparsa dagli ordinamenti moderni che si ispirano alla codificazione, ne
rimangono solo poche tracce:
1) la prima traccia si trova nelle c.d. Preleggi. L’art. 1 designando la gerarchia delle fonti del diritto
enumera, dopo la legge, i regolamenti, le norme corporative, anche gli usi; le consuetudini perciò
compaiono nel nostro ordinamento e sono poste come ultima fonte nella gerarchia. Ciò significa
che la consuetudine può operare in mancanza di fonti-atto in materia (c.d. consuetudine praeter
legem) o quando le fonti-atto presenti, rimandino esplicitamente ad essa (c.d. consuetudine
secundum legem); non può esistere, invece, una consuetudine contra legem, ovvero quella che
dispone in contrasto con le fonti-atto, poiché essa è semplicemente illegittima.
Al Codice civile, entrato in vigore nel ‘42, è premesso un corpo di 31 articoli intitolato “Disposizioni
sulla legge in generale” e diviso in due capi: 1) “delle fonti del diritto”; 2) “dell’applicazione della legge
in generale”. Esso non riguarda solo il diritto civile, ma l’intero ordinamento. Infatti, queste disposizioni
si occupano almeno in parte di argomenti che sono tipicamente costituzionali: anche per questa ragione fu
messa in dubbio la legittimità stessa di queste disposizioni, sia perché il Codice è stato emanato con
decreto-delegato, sia perché l’ordinamento fascista prevedeva che le leggi in materia costituzionale
fossero approvate a seguito del consenso del Gran Consiglio del Fascismo. Già allora prevalse l’idea che
le Preleggi non avessero carattere innovativo e fossero solo la riproduzione di norme già vigenti:
quest’argomento consentì di superare i dubbi di legittimità, ma al tempo stesso svalutò notevolmente la

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portata normativa delle disposizioni in questione.
Le norme sull’interpretazione e sull’applicazione del diritto hanno da sempre avuto l’obiettivo di
disciplinare, e limitare, l’attività degli interpreti e dei giudici in particolare: da qui la costante tendenza di
questi a svalutarne il valore. Queste disposizioni costituiscono pagine storiche per la divisione dei poteri.
L’importanza delle Preleggi oggi è senz’altro diminuita, a seguito dell’entrata in vigore della
Costituzione: prevale l’opinione che esse abbiano un’assai debole funzione normativa, rappresentando la
trascrizione di criteri operativi che da sempre presiedono l’attività di applicazione della legge.
2) La seconda traccia si trova sempre nel Codice civile. In alcune disposizioni sono esplicitamente
richiamati gli usi, a cui il Codice rinvia la disciplina del rapporto. Ciò vale soprattutto in materia
contrattuale: gli usi locali o quelli invalsi nelle singole categorie di operatori costituiscono
elementi integrativi del contratto. In alcuni casi poi, agli usi è consentito anche di disporre in
modo diverso dalla regola generale fissata dal codice, derogandola. La conoscenza di questi usi è
facilitata dalle raccolte provinciali tenute dalle Camere di Commercio;
3) La terza traccia è invece esclusivamente dottrinale. In dottrina si fa spesso riferimento alle
consuetudini e ciò accade in molti rami dell’ordinamento, specie nel diritto costituzionale.
Spesso si fa riferimento alle c.d. consuetudini interpretative (ovvero la costante interpretazione
di una disposizione di legge da parte degli interpreti). Queste, sono il frutto di un atteggiamento
stabile degli interpreti del diritto rispetto al significato di una certa disposizione. Tale fenomeno
si confonde con quello che la Corte chiama ‘diritto vivente’: una certa disposizione, benché dal
suo significato letterale si potrebbero autorizzare interpretazioni diverse, viene fatta vivere dalla
generalità degli interpreti, secondo un determinato significato. Da una determinata disposizione
gli interpreti ricavano sempre la stessa norma.
Nel diritto costituzionale, molti autori accennano alle cosiddette consuetudini facoltizzanti, cioè che
consentono comportamenti che le disposizioni scritte non negano. Nessuno si avventura a dire che questi
comportamenti sono diventati obbligatori, si dice semplicemente che il soggetto in questione ha facoltà di
tenere quel comportamento o meno.
E’ difficile quindi indicare una sola consuetudine costituzionale vigente in Italia. Il fatto che la dottrina ne
parli così spesso è il sintomo di un atteggiamento propenso a confondere ciò che nel diritto vale come
regola e ciò che esiste nei fatti come regolarità.
Le convenzioni costituzionali sono spesso confuse con le consuetudini perché disciplinano il modo in cui
devono essere applicate le norme della Costituzione. In primo luogo le convenzioni nascono da un
accordo tra i soggetti politico istituzionali, mentre le consuetudini traggono origine da comportamenti
spontanei. In secondo luogo, esse non pongono regole giuridiche, non sono fonti, mentre le consuetudini
si.
In Italia la Costituzione dà disposizioni molto scarne rispetto alla forma di governo e il gioco della
politica si è perciò svolto fissando regole di comportamento che si sono evolute o modificate nel tempo.
Molte delle prassi che la dottrina ha indicato come consuetudini possono essere derubricate a convenzioni
(si vuole indicare che esse appartengono alla regolarità e non alla regola). Dire che un certo
comportamento sia una convenzione, non ha precise conseguenze giuridiche: in senso più stringente, le
convenzioni costituzionali indicano veri e propri accordi tra i partiti o tra gli organi costituzionali.
4) Una quarta traccia si trova in Costituzione. L’art. 10.1 dice che “l’ordinamento italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”: si fa riferimento alle
consuetudini internazionali, cioè alle norme che non hanno origine da trattati, ma in regole non
scritte né poste da alcun soggetto determinato, e tuttavia considerate obbligatorie dalla generalità
degli Stati. L’adeguamento dell’ordinamento italiano alle consuetudini internazionali è
automatico (il giudice italiano, accertata l’esistenza di una norma di questo tipo, deve applicarla
immediatamente nel nostro ordinamento). Questo meccanismo di rinvio automatico
dell’ordinamento italiano alle norme prodotte da altri ordinamenti si chiama “rinvio mobile”.
Le altre fonti-fatto
Fonti-fatto per il nostro ordinamento sono anche tutte quelle fonti che producono norme richiamate dal
nostro ordinamento ma non prodotte dai nostri organi: vi sono due esempi macroscopici nel nostro
ordinamento, ossia le norme prodotte dall’Unione europea e le c.d. norme del diritto internazionale
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privato.
 Le norme prodotte dall’Unione europea. Le norme dell’UE non solo sono fonti volute, poste in
essere dall’Unione Europea: sono per l’ordinamento europeo delle fonti-atto. Tuttavia, essendo
prodotte da organi esterni sono considerati dal nostro ordinamento come meri fatti normativi.
 Le norme di diritto internazionale privato. Sono le norme che regolano l’applicazione della legge
quando i soggetti coinvolti sono collegati ad ordinamenti giuridici diversi. Queste fonti, che
sarebbero indubbiamente fonti-atto nel rispettivo ordinamento di appartenenza, sono invece
fonti-fatto per il nostro.
Il principio jura novit curia
Il giudice ha il potere ed il dovere di individuare e interpretare le fonti normative da applicare al giudizio
con i propri mezzi, senza cioè gravare sulle parti o dipendere dal loro apporto: è il principio jura novit
curia, che vale per tutte le fonti indistintamente; tuttavia difficoltà pratiche notevoli si possono porre per
le fonti fatto.
Per la consuetudine, l’inserimento nelle Raccolte generali non chiude affatto il problema
dell’accertamento, in quanto è ammessa la prova contraria; per il diritto internazionale privato l’art. 14
della nuova legge fa carico al giudice italiano di accertare la legge straniera, col supplemento di interpreti,
strutture ministeriali, esperti o dell’apporto delle parti, ma nel caso in cui ciò non sia comunque possibile
deve applicare la legge italiana. Per il diritto europeo, il giudice ha pieno obbligo di conoscere le fonti
che sono soggette a pubblicazione ufficiale. Il principio jura novit curia comporta anche il dovere-potere
del giudice di interpretare le disposizioni al fine di ricavare la norma da applicare al caso. Quanto alle
fonti-fatto, per le consuetudini il problema non si pone affatto, in quanto esse sono norme prive di
disposizioni, si tratta solo di accertare quale di queste si sia imposta nella prassi. Per il diritto
internazionale privato si dice che “la legge straniera è applicabile secondo i propri criteri di
interpretazione e di applicazione nel tempo”: naturalmente se una delle parti non è convinta del lavoro
interpretativo svolto dal giudice deve impugnare la sentenza davanti al giudice d’appello italiano, che
dovrà pronunciarsi sulla correttezza, rispetto all’ordinamento straniero, dei criteri interpretativi applicati
dal collega in primo grado. Diversa è la situazione per l’interpretazione del diritto europeo: qui vige una
riserva di interpretazione a favore del giudice comunitario, cioè della Corte di Giustizia UE; se il giudice
italiano ha un dubbio sul significato delle disposizioni, deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la
questione interpretativa alla Corte di giustizia.
Ultimo versante su cui si pone il principio iura novit curia è che il giudice deve preoccuparsi non solo
dell’esistenza di una norma ma anche della sua validità. Una norma è valida quando posta in conformità
delle norme di rango superiore: per quanto riguarda le fonti-atto, se esse presuppongono una norma di
riconoscimento che attribuisca ad un determinato organo la competenza a produrre un certo tipo di
norme, queste norme saranno valide solo se conformi alla norma di riconoscimento; se non sono valide il
giudice può provocarne la rimozione dall’ordinamento. Per le fonti-fatto, la consuetudine pone pochi
problemi: essa o si sviluppa praeter legem o si sviluppa secundum legem, dato che le consuetudini contra
legem non sono possibili. Diverso è il caso per il diritto internazionale privato: il giudice italiano può
valutare se la legge straniera sia ancora in vigore ma non ha gli strumenti per rilevarne eventuali contrasti
con le fonti superiori, cosa che può fare invece quando deve applicare il diritto comunitario.
In conclusione la distinzione tra fonti-atto e fonti-fatto è una distinzione importante ma non del tutto
soddisfacente, soprattutto perché la categoria delle fonti -fatto è troppo disomogenea.
Tecniche di rinvio ad altri ordinamenti
Il principio di esclusività è espressione della sovranità dello Stato, attribuisce a questo il potere esclusivo
di riconoscere le proprie fonti, cioè di indicare ‘fatti’ e ‘atti’ che possono produrre norme
nell’ordinamento. Le norme esterne, degli altri ordinamenti, possono valere all’interno dello Stato solo se
le disposizioni di questo lo consentono. Per consentire alle norme prodotte da fonti di altri ordinamenti di
operare all’interno dell’ordinamento statale si opera attraverso la tecnica del rinvio: il rinvio è lo
strumento con il quale lo Stato rende applicabili al proprio interno norme di altri ordinamenti. Si
distinguono solitamente due tecniche di rinvio: “fisso” o “mobile”.
A. Il rinvio fisso è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama un
determinato atto in vigore in un altro ordinamento, atto che di solito viene ‘allegato’. Le
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eventuali modifiche apportate all’atto a cui si rinvia sono indifferenti al nostro ordinamento, a
meno che non si aggiornino con apposto atto di recepimento.
B. Il rinvio mobile è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama una
fonte di un ordinamento esterno. Col rinvio mobile, l’ordinamento statale si adegua
automaticamente a tutte le modifiche che nell’altro ordinamento si producono nella normativa
posta dalla fonte richiamata. Un tipico esempio di rinvio mobile sono le disposizione del diritto
internazionale privato e il richiamo alle norme consuetudinarie internazionali contenuto nell’art.
10.1.
La funzione dell’interpretazione
L’atto normativo è un documento scritto, dotato di determinate caratteristiche formali: attraverso di esso
il legislatore esprime la sua volontà di disciplinare una determinata materia. Come tutti i testi scritti, l’atto
normativo è articolato in enunciati, che rappresentano l’unità minima portatrice di un significato
completo. Tramite gli enunciati il legislatore cerca di esprimere la sua volontà normativa: per questa loro
caratteristica imperativa, gli enunciati degli atti normativi si chiamano disposizioni. È probabile che chi
scrive intenda dare un senso preciso ai suoi enunciati, ma questi sono ‘segni’ che sta al lettore
interpretare. In una democrazia rappresentativa come la nostra, il legislatore è un organo politico
collegiale: egli persegue obiettivi politici che ovviamente variano nel tempo ed è per questo che non ci si
può aspettare che la produzione legislativa sia caratterizzata da coerenza e univocità dei significati.
Quindi, il compito di riportare coerenza ed unicità al sistema delle disposizioni è affidato all’interprete.
In primo luogo occorre distinguere tra interpretazione ed applicazione del diritto. Usualmente si dice che
l’applicazione del diritto consiste nell’applicazione di una norma generale e astratta, ad un caso
particolare e concreto. Questo è lo schema del c.d. sillogismo giudiziale:
premessa maggiore (la norma), premessa minore (il fatto): conclusione (applicazione della norma al fatto)
La norma è il frutto dell’interpretazione delle disposizioni, il loro significato, quello che esse ci possono
dire in relazione al caso specifico; e anche il fatto è frutto di interpretazione, va costruito, qualificando i
singoli eventi e comportamenti secondo le categorie normative. Per quanto una disposizione sia scritta
chiaramente e con precisione il suo significato non è mai scontato. Il legislatore può cercare di risolvere
certi gravi dubbi interpretativi o di “forzare” l’interpretazione dei giudici, aggiungendo nuove
disposizioni alle vecchie o cercando di precisarne il significato: è la cosiddetta interpretazione autentica.
Ma il legislatore non può sostituirsi agli interpreti, ciò gli è vietato dal principio di separazione dei poteri,
il cui nucleo più rigido è proprio la contrapposizione fra legis-actio e legis-executio.
La casa editrice Rizzoli fu coinvolta in un complicato giro di trasferimenti azionari: da più parti si
sollevarono questioni riguardanti il rischio di eccessiva concentrazione della stampa quotidiana in mano
ai gruppi finanziari che acquistavano la Rizzoli. Il giudice di primo grado rigettò il ricorso. La questione
aveva però assunto importante rilievo politico, tant’è che il Parlamento votò una nuova legge che dettava
criteri più restrittivi, presentandola come interpretazione autentica.
Tali norme hanno una particolarità: operano retroattivamente, perciò le nuove disposizioni avrebbero
dovuto essere applicate anche al caso Rizzoli, giunto nel frattempo in appello. La Corte dichiarò
illegittima la pretesa di conferire efficacia retroattiva ad una norma innovativa semplicemente
dichiarandola interpretativa.
Le antinomie e le tecniche di risoluzione
Che cosa fa l’interprete di fronte a disposizione che esprimono significati contrastanti? Le antinomie sono
i contrasti tra norme. Si hanno antinomie quando le disposizioni esprimono significati tra loro
incompatibili, ossia quando qualificano lo stesso comportamento in maniera contrastante. In questi casi il
compito dell’interprete è risolvere le antinomie, individuando la norma applicabile al caso. Talvolta ciò è
possibile con l’espediente della c.d. interpretazione sistematica, ossia attribuendo alle disposizioni in
gioco un significato che le renda reciprocamente compatibili. Ma questo non è sempre possibile e allora
bisogna scegliere sulla base di criteri definiti. I criteri elaborati dalla scienza giuridica per scegliere la
norma da applicare sono stati codificati dalle Preleggi e sono quattro: il criterio cronologico, il criterio
gerarchico, il criterio della specialità, il criterio della competenza.

Il criterio cronologico e l’abrogazione


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Il criterio cronologico afferma che, in caso di contrasto fra due norme, si deve preferire quella più recente
a quella più antica (lex posterior derogat priori). Tale prevalenza della nuova norma sulla vecchia si
esprime attraverso la abrogazione. L’abrogazione è appunto l’effetto che la nuova norma produce sulla
vecchia: ovvero la cessazione dell’efficacia della norma giuridica precedente.

L’efficacia delle norme e il principio di irretroattività delle leggi


L’efficacia è una figura generale del diritto e consiste nell’idoneità di un fatto o di un atto a produrre
effetti giuridici, cioè a costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche. La norma diventa efficace
quando la disposizione da cui è tratta entra in vigore. Vige il principio di irretroattività degli atti
normativi: essi dispongono solo per il futuro e non hanno effetti per il passato. Questo principio è
codificato dall’art.11 delle Preleggi: “la legge non dispone che per l’avvenire, essa non ha effetto
retroattivo”. La Costituzione non ha recepito tale principio e vieta soltanto la retroattività delle norme
penali incriminatrici (‘nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso’).
Il principio di irretroattività vale anche per l’abrogazione: se questa è un effetto prodotto dal nuovo atto
sulle norme precedenti, esso opera, in mancanza di disposizioni contrarie, solo per il futuro. La vecchia
norma perde efficacia dal giorno in cui entra in vigore il nuovo atto; la vecchia norma, purché abrogata,
può essere applicata dal giudice nei vecchi rapporti, quelli sorti prima dell’abrogazione di questa. In
gergo di dice che l’abrogazione opera ex nunc (da ora).
Tipi di abrogazione
L’effetto abrogativo può essere prodotto da fenomeni diversi. L’art. 15 delle Preleggi elenca tre ipotesi di
abrogazione: 1) per dichiarazione espressa dal legislatore (c.d. abrogazione espressa); 2) per
incompatibilità tra le nuove disposizioni e le vecchie (c.d. abrogazione tacita); 3) perché la nuova legge
regola l’intera materia già regolamentata dalla legge anteriore (c.d. abrogazione implicita).
L’abrogazione espressa è il contenuto di una disposizione: di solito si tratta di uno degli articoli finali
della legge in cui si scrive “sono abrogate le seguenti leggi...”, ciò che in questa sede è disposto dal
legislatore vale erga omnes. Diverso è il caso dell’abrogazione tacita: in questo caso il legislatore non si è
preoccupato, emanando disposizioni nuove, di eliminare quelle vecchie e quindi è l’interprete a dover
fare pulizia poiché è di fronte ad un’antinomia. Egli deve ritenere che prevalga quella più recente in forza
del principio che vuole che la volontà di un Parlamento non possa vincolare la volontà dei Parlamenti
futuri: a questo proposito il giudice non può eliminare le disposizioni ma deve limitarsi ad agire sul piano
dell’interpretazione, preferendo la norma più recente e considerando la vecchia come abrogata.
Gli effetti temporali dell’abrogazione tacita sono identici a quelli dell’abrogazione esplicita: entrambe
operano ex nunc, ma ciò non vale per gli effetti spaziali, perché mentre le disposizioni del legislatore
valgono sempre erga omnes, le operazioni intellettuali del giudice valgono nel singolo giudizio (inter
partes) e non vincolano gli altri giudici. Ciò significa che, quando non è il legislatore a fare pulizia nei
testi normativi, le opinioni dei giudici rispetto a quale norma sia in vigore e quale sia abrogata possono
diversificarsi e restare a lungo diversificate.
Spesso il legislatore conclude le leggi con una disposizione che dice “sono abrogate le disposizioni
incompatibili con la presente legge”. Questa forma è tuttavia inutile, poiché l’incompatibilità eventuale
nasce nelle norme e non nelle disposizioni: se l’interprete incontra antinomie, procede con l’abrogazione
tacita senza bisogno che il legislatore lo autorizzi ogni volta. Altra disposizione inutile è quella con cui il
legislatore impone che la propria legge possa essere abrogata solo in modo esplicito.
L’abrogazione implicita è del tutto simile a quella tacita. Allo stesso modo non esiste una dichiarazione
abrogante del legislatore, è l’interprete a dover ritenere che il legislatore, avendo riformato l’intera
materia, avesse intenzione di riformare ciò che precedentemente è stato detto. Anche questo tipo di
abrogazione opera sul piano dell’interpretazione e non su quello della legislazione. La differenza tra
abrogazione tacita ed abrogazione implicita è quindi essenzialmente di strategie argomentative seguite
dall’interprete; inoltre, mentre la prima, basandosi su un contrasto tra singole norme, porta di solito a
ritenere abrogata una o più disposizioni, la seconda, basandosi sul fatto che la disciplina della materia sia
stata riformata, porta a ritenere abrogate una o più leggi.
L’attività di abrogazione espressa del legislatore non sempre elenca in modo esaustivo tutte le
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disposizioni soggette ad abrogazione. L’interprete potrà pur sempre trovarsi di fronte ad un’antinomia e
ritenere tacitamente abrogata la norma che non è già stata dichiarata tale dal legislatore.
Diventa difficile comprendere qual è la legislazione vigente, in particolare in contesti di frequente
ricambio legislativo. Il legislatore stesso, certe volte, interviene per mettere ordine, selezionando le norme
rimaste in vigore e riunendole in appositi “testi unici”.
Abrogazione, deroga e sospensione
Differente dall’abrogazione è la deroga. Essa nasce da un contrasto fra norme di tipo diverso, nel senso
che una (la norma derogata) è una norma generale, l’altra (la norma derogante) è una norma particolare,
un’eccezione alla regola.
La differenza fra abrogazione e deroga sta essenzialmente nel fatto che la norma abrogata perde efficacia
per il futuro e può riprendere a produrre effetti solo nel caso della c.d. riviviscenza della norma abrogata;
la norma derogata, invece, non perde di efficacia ma vede soltanto una riduzione del suo campo di
applicazione (se dovesse essere abrogata la norma derogante, la norma derogata riespande il proprio
ambito di applicazione). Simile alla droga è la sospensione dell’applicazione di una norma: essa è limitata
ad un certo periodo e spesso vale per singole categorie o zone geografiche.
Il criterio gerarchico e l’annullamento
Il criterio gerarchico invece dice che, in caso di contrasto fra due norme, si deve preferire quella che nella
gerarchia delle fonti occupa la posizione più elevata (lex superior derogat legis inferiori). La
Costituzione, disponendo che la Corte costituzionale giudichi della “legittimità costituzionale delle leggi
e degli atti aventi forza di legge”(art. 134), disegna implicitamente una gerarchia, per cui in caso di
contrasto con la Costituzione prevale sulla legge e sugli atti a questa equiparati.
La prevalenza della norma di grado superiore su quella di grado inferiore si esprime attraverso
l’annullamento: l’annullamento è l’effetto di una dichiarazione di illegittimità che un giudice (non
qualsiasi interprete) pronuncia nei confronti di un atto, di una disposizione o di una norma che perdono
validità. La validità consiste nella conformità di un atto o di un negozio giuridico rispetto alle norme che
lo disciplinano. L’atto invalido è un atto ‘viziato’: mentre l’abrogazione -espressione del criterio
cronologico- opera nel ricambio fisiologico dell’ordinamento, l’annullamento -espressione del criterio
gerarchico- colpisce situazioni patologiche che si verificano in esso.
I vizi di legittimità possono essere di due tipi: vizi formali e vizi sostanziali. I primi, riguardano la forma
dell’atto; i secondi, riguardano i contenuti normativi di una disposizione, cioè le norme (la disposizione
sarà viziata perché produce un’antinomia, un contrasto con norme tratte da disposizioni di rango
superiore.
Effetti dell’annullamento
In linea generale, quando un giudice dichiara l’illegittimità di un atto normativo, questa dichiarazione ha
effetti erga omnes: l’atto annullato non può essere più applicato a nessun rapporto giuridico, anche se
sorto in precedenza all’annullamento. Contrariamente all’abrogazione, l’annullamento non opera solo per
il futuro ma anche per il passato (ex tunc). Ma attenzione, perché gli effetti dell’annullamento si
avvertono solo per quei rapporti giuridici che l’interessato possa sottoporre ad un giudice, che siano
ancora cioè ‘azionabili’: questi si dicono ‘rapporti aperti’ o ‘pendenti’, in contrapposizione ai rapporti
‘chiusi’ o ‘esauriti’, i quali non possono più essere dedotti davanti al giudice. I rapporti giuridici si
chiudono. Come si chiudano i rapporti è stabilito dai singoli ordinamenti: in genere, essi si chiudono per
prescrizione (decorso del tempo), per decadenza (perdita della possibilità di esercitare il diritto) oppure
per acquiescenza (per volontà dell’interessato), od ancora per giudicato (il rapporto è stato definito con
sentenza definitiva) .
Rapporti tra criterio cronologico e criterio gerarchico
È pacifico che, se una norma posteriore di grado inferiore contraddice una norma precedente di grado
superiore, viene annullata la norma inferiore anche se posteriore. Quindi, il criterio gerarchico prevale su
quello cronologico.
Cosa accade se una norma posteriore di grado superiore contraddice una norma precedente di grado
inferiore? Occorre considerare se le due norme in questione sono omogenee o meno. Si dicono omogenee
due norme che sono o entrambe “di principio” o entrambe “di dettaglio”: se sono omogenee prevale il

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criterio cronologico, ossia la norma successiva superiore abroga direttamente quella precedente inferiore.
Se sono disomogenee c’è abrogazione solo: 1) se la norma successiva superiore è di dettaglio; 2) se la
norma successiva superiore non è di dettaglio, ma di principio allora non si ha abrogazione, ma deve
intervenire il giudice a dichiarare l’illegittimità della norma precedente inferiore e di dettaglio.
Una norma di principio non è costruita attorno ad una fattispecie precisa, ma dichiara in termini assoluti
un favor per un determinato interesse o valore. Una norma di dettaglio ha invece fattispecie e
conseguenze giuridiche definite. Nella prima sentenza della sua storia, sent. 1/1956 la Corte
Costituzionale ha dovuto affrontare il problema di definire se le disposizioni in materia di sicurezza,
risalenti al fascismo, che sottoponevano a controllo amministrativo tutta una serie di attività di
propaganda politica, fossero o meno state abrogate dall’art.21 Cost. In quegli anni era molto discusso se,
nei frequenti casi in cui le leggi anteriori erano in stridente contrasto con le norme costituzionali
posteriori, le prime dovessero considerarsi abrogate automaticamente o dovessero essere impugnate di
fronte alla Corte per dichiararne l’annullamento.
La Corte si pronunciò dichiarando che entrambe le soluzioni erano possibili e dipendevano dalla
configurazione del contrasto. Ne caso specifico ha ritenuto che c’era evidente contrasto con le norme
costituzionali ma non sussistevano i requisiti per l’abrogazione, perciò ha dichiarato illegittime le
disposizioni impugnate.
Il criterio di specialità
Il criterio della specialità dice che, in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma speciale a
quella generale, anche se questa è successiva. Va considerato che spesso cosa sia ‘genere’ e cosa sia
‘specie’ è questione di opinioni. Inoltre non sono chiarissimi gli effetti dell’applicazione del criterio di
specialità ed è complesso il rapporto tra criterio di specialità ed altri criteri.
La preferenza per la norma speciale non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (come per
l’abrogazione), né con riferimento alla sua validità (come per l’annullamento). Le norme in conflitto
rimangono entrambe efficaci e valide, semplicemente una non viene applicata nel caso specifico. La
prevalenza della norma speciale non è affatto distinguibile dalla deroga: si può affermare anzi, che
proprio la deroga sia l’effetto tipico della prevalenza della norma speciale su quella generale.
Il rapporto tra il criterio di specialità e gli altri criteri è definito da una sorta di ordine gerarchico dei
criteri che vede al primo posto il criterio gerarchico, al secondo posto il criterio di specialità, al terzo
posto il criterio cronologico. Per cui alla valutazione del grado di specialità di una norma rispetto ad
un’altra per definire quale applicare, si ricorre esclusivamente quando le due norme in questione si
trovino in condizione di “parità gerarchica” delle fonti e qualunque sia la loro data di entrata in vigore.
Regola ed eccezione: problemi di interpretazione
Il criterio della specialità opera esclusivamente tra norme, cioè sul piano dell’interpretazione (inter
partes). Ciò non esclude che sia direttamente il legislatore ad indicare la prevalenza di una norma
sull’altra: è il caso di quelle disposizioni in cui la regola è accompagnata dalla clausola di esclusione di
alcune ipotesi, cioè dall’eccezione. L’eccezione (e quindi la disposizione speciale derogatoria) può essere
disciplinata dalla stessa disposizione che pone la regola, oppure può essere prevista con una clausola di
rinvio indeterminato. Ma in questi casi più che di applicazione di criterio di specialità, bisogna far
riferimento ad una tecnica di redazione dei testi normativi, un modo con cui il legislatore delimita,
ovviamente con effetti erga omnes, l’ambito di applicazione delle sue disposizioni. L’impiego di questa
tecnica legislativa, però, esercita a sua volta un’influenza importante sulle tecniche di interpretazione: le
eccezioni non possono essere interpretate in senso estensivo a tutte le fattispecie analoghe ma
esclusivamente a quella prescritta dal legislatore.
La giurisprudenza tende a distinguere l’interpretazione per analogia dall’interpretazione estensiva.
L’analogia sarebbe la soluzione di un caso non previsto da alcuna disposizione applicando la norma che
si ricava da disposizioni riguardanti casi o materie analoghe. Questo procedimento di produzione di
norme è prescritto dalle stesse Preleggi al fine di evitare che il giudice neghi giustizia accampando
l’assenza di una disposizione specifica. L’interpretazione estensiva consiste invece nell’attribuire a un
termine della disposizione un significato più ampio del significato letterale di esso. In effetti la
distinzione fra analogia ed interpretazione estensiva è labilissima, poiché in entrambi i casi il
procedimento interpretativo ha lo stesso punto di partenza e lo stesso punto di arrivo, l’esito è assai

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simile: si applica una norma ad un fatto non incluso fra quelli dichiarati dalla disposizione interpretata.
Il criterio di competenza
Il criterio della competenza non si presta, come i criteri precedenti, a una definizione stringente in forma
di regola per l’interprete, perché non è un criterio prescrittivo, ma un criterio esplicativo: serve cioè a
spiegare come è organizzato attualmente il sistema delle fonti e non ad indicare all’interprete come
risolvere le antinomie. L’esigenza di questo criterio nasce con l’affermazione di una Costituzione rigida
che pone, a fianco della legge formale, altri atti equiparati o altre leggi con competenze particolari.
La gerarchia delle fonti non basta più a darci il quadro esatto del sistema: all’interno dello stesso grado
gerarchico vi sono suddivisioni non spiegabili in termini appunto di gerarchia (cioè di forza), ma di
competenza.
Effetti dell’applicazione del criterio di competenza
Se dovessimo utilizzare il criterio di competenza come regola con cui risolvere i conflitti tra norme,
dovremmo dire che esso prescrive di dare preferenza alla norma competente. Benché il criterio di
competenza, in quanto prescrizione diretta all’interprete, non abbia una propria consistenza, rifacendosi
agli altri criteri, esso è assunto come criterio guida dai giudici in alcune situazioni: nei rapporti tra atti
normativi statali e regionali o ancora tra le norme italiane e quelle europee.
Riserve di legge e principio di legalità
La riserva di legge è lo strumento con cui la Costituzione regola il concorso delle fonti nella disciplina di
una materia determinata. L’obiettivo è di evitare che in materie particolarmente delicate, manchi una
disciplina legislativa capace di vincolare il comportamento degli organi del potere esecutivo. Essa
impone al legislatore di disciplinare una materia determinata, impedendogli di lasciare che essa sia
disciplinata in tutto o in parte da atti gerarchicamente inferiori alla legge. La riserva di legge assume
significato preciso solo dove esiste una Costituzione rigida, perché solo in questo caso i limiti posti dalla
Costituzione alla funzione legislativa possono imporsi al legislatore e, se violati, causare l’illegittimità
della legge prodotta.
Diverso significato ha l’introduzione del principio di legalità, che affonda le sue radici nello Stato di
diritto: esso prescrive che l’esercizio di qualsiasi potere pubblico sia preventivamente attribuito da
apposita norma all’organo che lo esercita. La sua ratio e di assicurare un uso controllato, regolato e non
arbitrario del potere.
Si distinguono due concetti di legalità: formale e sostanziale. Il principio di legalità formale richiede
soltanto che l’esercizio di un potere pubblico si basi su una previa norma di attribuzione della
competenza. Invece, il principio di legalità sostanziale richiede che tale esercizio del potere sia limitato e
diretto da specifiche norme di legge, tali da restringere la discrezionalità dell’autorità agente.
L’introduzione della Costituzione rigida ha comportato l’estensione del principio di legalità anche a
quelle attività in cui, più direttamente, si esprime la sovranità. La riserva di legge è appunto una delle
regole limitative del potere legislativo poste dalla Costituzione: essa si presenta perciò come un risultato
dell’estensione alla stessa attività legislativa della legalità.
Tipologie
Il meccanismo della riserva opera in modi diversi. Bisogna infatti distinguere tra:
a) riserva di legge e riserve ad altri atti;
b) all’interno delle riserve di legge, tra le riserve alla legge formale ordinaria e le riserve alle fonti
primarie (cioè alla legge ordinaria e alle fonti equiparate);
c) infine, tra le riserve alle fonti primarie si possono distinguere le diverse tipologie di riserve
(assolute, relative, rinforzate, ecc.)
a) le riserve a favore di atti diversi dalla legge sono rare. Si tratta di: 1) riserve a favore della legge
costituzionale (art. 138); 2) riserve a favore dei regolamenti parlamentari; 3) riserve a favore dei
decreti di attuazione degli Statuti speciali.
b) La riserva di legge formale ordinaria impone che sulla materia intervenga esclusivamente l’atto
prodotto attraverso il procedimento parlamentare. La ratio è semplice: sono riservate ad
approvazione parlamentare tutte quelle leggi che rappresentano strumenti attraverso i quali il
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Parlamento controlla l’operato del Governo. Oggetto della riserva formale non è una materia ma
alcuni atti specifici, per i quali il Parlamento esprime con la legge la sua partecipazione ad un
processo decisionale che ha il Governo come protagonista. In alcuni casi la riserva di legge
formale si evince dalla previsione di una maggioranza specifica o di un procedimento particolare
per l’approvazione della legge.
c) Le semplici riserve di legge prescrivono che la materia sia disciplinata dalla legge ordinaria,
escludendo o limitando l’intervento di atti di livello gerarchico inferiore alla legge stessa, cioè i
regolamenti amministrativi. La ratio è assicurare che la disciplina di materie particolarmente
delicate venga decisa con la garanzia tipica insita nel procedimento parlamentare. È vero che
essa ammette non solo la legge formale ma anche gli atti con forza di legge, ma è anche vero che
l’emanazione dell’atto con forza di legge da parte del Governo è sempre preceduta o seguita da
una legge formale. A seconda dei rapporti tra regolamento e legge si distinguono due tipo di
riserve di legge:
- La riserva assoluta esclude l’intervento di fonti sub legislative dalla disciplina della
materia, che pertanto dovrà integralmente essere regolata dalla legge formale ordinaria o
da atti ad essa equiparati. Riserve di questo tipo si trovano in Costituzione nella parte
dedicata alle libertà fondamentali: l’art. 13.2 consente che la libertà sia limitata “nei soli
casi e modi previsti dalla legge”. La ratio è abbastanza intuibile: le libertà fondamentali
sono rivendicate contro il potere pubblico, contro lo Stato e il suo potere coercitivo,
detenuto dal Governo e dalle strutture dei pubblici poteri che dipendono da esso. Ecco
perché le limitazioni di queste libertà devono essere decise con le garanzie della legge e
sono esclusi i regolamenti dell’esecutivo. Siccome poi, la legge lascia comunque un certo
margine di discrezionalità, per vincolare ulteriormente i poteri pubblici in questa materia
si è introdotta una riserva di giurisdizione integrativa che prevede che ogni atto che
incida sulla libertà debba essere previsto in astratto dalla legge e autorizzato da un
giudice (“per atto motivato dall’autorità giudiziaria”) ;
- La riserva relativa non esclude che, alla disciplina della materia, concorra anche il
regolamento amministrativo, ma richiede che la legge disciplini preventivamente i
principi a cui tale regolamento deve attenersi. Ponendo la riserva relativa di legge, la
Costituzione pone sia un vincolo al legislatore (imponendogli di dettare almeno la
disciplina generale della materia) sia un vincolo all’esecutivo (i cui atti devono essere
sottoposti al principio di legalità sostanziale);
d) Le riserve rinforzate sono un meccanismo con cui la Costituzione non si limita a riservare la
disciplina di una materia alla legge, ma pone vincoli ulteriori al legislatore. Si possono
distinguere in:
 Le riserve rinforzate per contenuto: nei casi in cui la Costituzione prevede che una
determinata regolazione possa essere fatta dalla legge ordinaria soltanto con particolari
contenuti. La ratio di queste riserve è di limitare il potere del legislatore, in modo che le
leggi che intendessero di comprimere la sfera di libertà degli individui potranno essere
considerate legittime soltanto a condizione che siano razionalmente giustificabili in
relazione ai fini indicati dalla Costituzione, oppure che non siano ispirati a intenti
discriminatori;
 Le riserve rinforzate per procedimento: prevedono che la disciplina di una determinata
materia debba seguire un procedimento aggravato (o rinforzato) rispetto al normale
procedimento legislativo (es. art. 7 che prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica
possono essere modificati solo previo accordo da entrambe le parti). La ratio di queste
riserve di legge è di limitare il potere della maggioranza politica nei confronti delle
minoranze, siano esse comunità religiose o comunità locali: la maggioranza può fare la
legge solo al costo di ottenere il consenso dei soggetti che rappresentano la comunità
minoritaria interessata.
Paradossale è il caso della riserva rinforzata introdotta nella Costituzione dalla modifica dell’art.79 :
questo articolo disciplina due atti di clemenza generale, l’amnistia (che è un provvedimento che estingue
i reati) e l’indulto (che è un provvedimento che concede uno “sconto” sulle pene già irrogate). Prima
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della riforma questi provvedimenti erano emanati dal Presidente della Repubblica, ma siccome negli anni
se ne era abusato in un momento di moralismo generale (ironicamente alla vigilia di Tangentopoli) il
Parlamento ha votato una riforma drastica. Amnistia ed indulto possono essere concessi solo con legge
formale, è necessaria la maggioranza dei 2/3 non solo per la votazione finale, ma per l’approvazione di
ogni singolo articolo. È più difficile fare una legge di amnistia o di indulto piuttosto che modificare la
Costituzione.

CAPITOLO IX – LE FONTI DELL’ORDINAMENTO ITALIANO: STATO


Costituzione e leggi costituzionali
La Costituzione del 1948 rappresenta il vertice della gerarchia delle fonti dell’ordinamento italiano. Essa
è quindi il fondamento di validità delle fonti primarie di cui detta la disciplina. È una costituzione rigida,
la cui revisione è soggetta ad un processo particolare; lo stesso procedimento è usato per l’approvazione
delle ’altre’ leggi costituzionali che la Costituzione stessa prevede per la sua integrazione.
Leggi costituzionali: procedimento
Il processo di formazione della legge costituzionale è una variazione di quello per l’approvazione per le
leggi ordinarie. Mentre questo prevede semplicemente una sola deliberazione a maggioranza relativa di
ciascuna Camera sullo stesso testo, seguita dalla promulgazione da parte del Presidente della Repubblica,
il procedimento di formazione delle leggi costituzionali richiede:
- Due deliberazioni successive per ciascuna Camera;
- la prima è a maggioranza relativa: in questa fase le Camere possono apportare tutti gli
emendamenti necessari al fine di trovare un accordo comune;
- la seconda si può effettuare solo dopo che è trascorso un intervallo di tre mesi dalla prima, a
questo punto non si possono apportare emendamenti. Si aprono, quindi vie: 1) se il consenso è
tale da far riscontrare una maggioranza qualificata dei 2/3 dei membri di essa (maggioranza
qualificata), la legge è fatta e ne segue promulgazione del Presidente della Repubblica;
- se ciò non avviene basta che la legge sia approvata a maggioranza assoluta (metà più uno dei
membri di ciascuna Camera). In questo caso però non si tratta di un’approvazione definitiva: il
testo, pubblicato in Gazzetta Ufficiale con titolo apposito, entro tre mesi può essere chiesto un
referendum costituzionale, in modo da sottoporre il testo all’approvazione popolare. Lo possono
richiedere le minoranze elettorali (con la raccolta di 500mila firme), le minoranze territoriali
(cinque consigli regionali) e le minoranze politiche (bastano le firme di 1/5 dei membri di una
Camera). Se nel referendum i consensi superano i voti favorevoli, dato che non è richiesto un
quorum, la legge viene promulgata, altrimenti viene vanificata la volontà della maggioranza.
Questo doppio binario, tracciato dall’art. 138 della Costituzione, è frutto di grande saggezza. La via
principale per modificare la Costituzione è il consenso di uno schieramento di forze politiche così vasto
da riprodurre le condizioni che hanno permesso alla stessa Costituzione di nascere. Si è prevista poi la
modifica voluta dalla sola maggioranza di Governo, salvo la possibilità per le opposizioni di ricorrere al
corpo elettorale.
L’appello al popolo è un passaggio solo eventuale: rappresenta una sorta di veto che il corpo elettorale
può esercitare su sollecitazione delle minoranze. In Italia, contrariamente a ciò che avviene in altri Paesi,
quando ci si trova di fronte ad una maggioranza che sta cercando di cambiare le regole del gioco politico
per soverchiare le minoranze, non si indicono nuove elezioni, ma si sottopone al popolo un quesito unico
di approvazione o respinta. In questo caso non è richiesto, affinché il referendum sia valido, un quorum
minimo, basta anche una minoranza a vanificare il procedimento di revisione costituzionale, se la
maggioranza si disinteressa della questione e decide di non partecipare al voto per difendere la riforma.
In Italia, a differenza di altri Paesi europei, non esiste inoltre una procedura differenziata fra piccole
modifiche del testo costituzionale e per le riforme di grande rilievo: il procedimento è lo stesso. Se come
più volte si è ripetuto negli ultimi anni, occorresse modificare intere parti del testo costituzionale, si
dovrebbe comunque procedere attraverso il meccanismo ordinario, con l’eventualità di dover poi
sottoporre un testo così complesso all’approvazione popolare. Per ovviare a questi inconvenienti, per ben
due volte negli ultimi anni si sono varate leggi costituzionali di deroga alle procedure stabilite dall’art.

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138 in vista di un ambizioso progetto di revisione dell’intera Parte II della Costituzione (tentativo
vanificato nei primi due casi già in fase parlamentare a causa delle divisioni politiche e nell’ultimo caso a
seguito del referendum popolare).
I limiti della revisione costituzionale
Non tutta la Costituzione è modificabile, vi è almeno un limite esplicito alla revisione, posto dall’art. 139:
“la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione”. È prevalsa una interpretazione estensiva di
questa disposizione tale da comprendere nella forma repubblicana, non soltanto il carattere elettivo e non
ereditario del Capo dello Stato, ma anche il principio della sovranità popolare di cui l’elezione del Capo
dello Stato è solo un’applicazione. L’art. 139 viene quindi connesso con l’art. 1, cioè la forma
repubblicana che è considerata inscindibile dal carattere democratico della Repubblica e
dall’appartenenza della sovranità al popolo.
In quest’ottica il limite esplicito alla riforma costituzionale si allarga e si arricchisce poiché si pongono al
riparo anche quei principi che sembrano indispensabili per poter definire “democratico” un ordinamento
politico. Un’altra via per l’estensione e l’arricchimento dei limiti della revisione costituzionale è stata
elaborata sulla base dell’interpretazione di altre disposizioni costituzionali: l’art. 2, che dichiara
‘inviolabili’ i diritti dell’uomo, porrebbe al riparo dalla revisione anche tutte quelle libertà elencate
dall’art. 13 e ss.; la Corte costituzionale ha avallato questa tesi, distinguendo in seno alle norme
costituzionali dei ‘principi supremi’ che resisterebbero alla revisione costituzionale.
I ‘principi supremi’ della Costituzione
La Corte ha affermato che le norme di altri ordinamenti, che vengono immesse nel nostro tramite rinvii,
non possono violare i ‘principi supremi’ dell’ordinamento costituzionale. Nel 1982 giunse a dichiarare
l’illegittimità di una legge di esecuzione dei Patti lateranensi per violazione del principio sancito dall’art.
24, cioè il diritto di difesa.
Secondo il Concordato, sono i tribunali ecclesiastici a pronunciarsi sulla nullità dei matrimoni celebrati
con rito religioso e poi trascritti nei registri statali, conseguendo effetti civili. Dopo poco tempo, la sposa
si rivolge al Pontefice, chiedendo di determinare lo scioglimento del matrimonio perche questo “non si è
consumato”. Per il diritto canonico, la “non consumazione” è una delle giuste cause di scioglimento del
matrimonio: è previsto quindi un procedimento di accertamento che ha natura amministrativa e non
giurisdizionale. Alla fine di tale procedimento, la sposa ottiene un provvedimento amministrativo, la
dispensa di scioglimento del vincolo matrimoniale. Tramite questa, si rivolge al giudice italiano per
rendere esecutivo agli effetti civili tale provvedimento.
Lo sposo però impugna la causa davanti alla Corte d’appello e reclama una violazione dei suoi diritti di
difesa. Il giudice impugna a sua volta le disposizioni del Concordato Stato-Chiesa dinnanzi alla Corte
costituzionale e la Corte gli da ragione. Per la Corte, è illegittimo che procedimenti svolti in ambito
amministrativo, come sono stati gli accertamenti in questione, condotti con la discrezionalità tipica
dell’amministrazione, producano effetti civili nell’ordinamento italiano. Tali procedimenti violano il
principio fondamentale dell’ordinamento per cui per ogni controversia è assicurato un giudizio dinnanzi
ad un giudice.
Di recente poi la Corte ha negato l’accesso di alcune norme consuetudinarie internazionali per
incompatibilità col nostro ordinamento.
A proposito invece dell’ingresso nel nostro ordinamento delle norme europee in via diretta, la Corte ha
affermato la non derogabilità dei “principi supremi” con due conseguenze:
a) la non compatibilità dei principi fondamentali e delle norme UE deve comportare la non
applicabilità in Italia delle norme europee con essi contrastanti;
b) nell’ambito delle norme costituzionali, data l’esistenza di principi fondamentali, si deve
presupporre l’esistenza di una gerarchia materiale. Infatti, sotto ai principi fondamentali, vi sono
norme costituzionali “di dettaglio” che si devono ritenere derogabili. Un ulteriore ed inevitabile
passo che ha fatto la Corte è stato affermare che i principi fondamentali, non solo sono
inderogabili dalle norme provenienti da ordinamenti esterni, ma anche non abrogabili con legge
costituzionale. In quest’ambito, la difficile decisione su cosa sia principio e cosa sia dettaglio è
affidata alle valutazioni della Corte.
Legge formale ordinaria e atti con forza di legge
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La legge formale è l’atto normativo prodotto dalla deliberazione delle Camere e promulgato dal
Presidente della Repubblica. È fonte del diritto per eccellenza, sino al punto di arrivare ad essere
sinonimo di ‘diritto’. La forma di tale legge è conferita dal particolare procedimento prescritto dalla
Costituzione per la sua formazione. Attraverso tale procedimento sono formate sia le leggi ordinarie, sia
le leggi costituzionali (con una variante.
Con l’espressione “legge formale” si indica sia la legge che occupa, nella gerarchia delle fonti, lo stesso
gradino della Costituzione (la legge costituzionale), sia la legge che occupa il gradino immediatamente
inferiore (legge formare ordinaria). Gli atti con forza di legge sono invece atti normativi che non hanno lo
stesso metodo di produzione della legge formale ordinaria ma ad essa sono equiparati (perché il
Parlamento partecipa alla loro formazione): occupano la sua stessa posizione nella scala gerarchica, e
perciò possono validamente abrogarla (hanno la stessa forza attiva della legge ordinaria) ed essere da essa
e solo da essa abrogati (hanno la stessa forza passiva). Sono leggi che possono sostituirsi alla legge,
almeno laddove la Costituzione non applichi una riserva di legge formale. Leggi formali ordinarie e atti
con forza di legge costituiscono insieme le fonti primarie: a queste si contrappone la categoria delle fonti
secondarie, costituita dai regolamenti amministrativi.
Tipicità e tassatività delle fonti primarie
L’art. 70 della Costituzione afferma che ‘la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle Camere
e gli articoli immediatamente successivi (71-74 dettano la disciplina del procedimento di formazione
della legge formale. Rispetto alla regola che attribuisce alle Camere la funzione legislativa, gli atti con
forza di legge sono l’’eccezione: rappresentano i casi in cui la funzione legislativa non è svolta nella
forma tradizionale. Come deroga alla regola costituzionale, essi non possono essere previsti da fonti che
non abbiano il rango costituzionale. Sono gli stessi articoli successivi della Costituzione a indicare le
eccezioni, cioè gli atti con forza di legge, che sono: referendum abrogativo delle leggi (art. 75); il decreto
legislativo delegato (art. 76); il decreto-legge (art. 77); i decreti governativi in caso di guerra (art. 78). A
questi atti, le leggi costituzionali di approvazione degli Statuti delle Regioni, hanno aggiunto il decreto di
attuazione dello statuto.
Eventuali innovazioni all’elenco possono essere introdotte solo con legge costituzionale. Questo principio
si traduce nel divieto alla legge di creare fonti con essa concorrenziali.
Procedimento legislativo
Il procedimento è una serie coordinata di atti rivolti allo stesso risultato finale: il risultato del
procedimento legislativo è la legge formale. Gli atti di cui si compone il procedimento legislativo sono: a)
l’iniziativa legislativa; b) la deliberazione legislativa delle Camere; c) la promulgazione.
L’iniziativa legislativa
L’iniziativa legislativa consiste nella presentazione di un progetto di legge ad una Camera. Nel
linguaggio tecnico i progetti di legge si chiamano disegni di legge se presentati dal Governo o proposte di
legge negli altri casi. Un progetto di legge consta di due parti:
- il testo dell’articolato che il proponente sottopone all’esame della Camera nella speranza che
diventi legge;
- la relazione che accompagna l’articolato e ne illustra caratteristiche e scopi.
L’iniziativa è riservata ad alcuni soggetti individuati dalla Costituzione (o da altre leggi costituzionali):
1) l’iniziativa governativa. Il Governo è l’unico organo che ha potere di iniziativa su tutte le
materie, nei casi espressamente indicati dalla Costituzione che anzi, pone un obbligo di iniziativa
a carico di quest’organo: la c.d. iniziativa doverosa. La formazione del disegno di legge è
anch’essa sottoposta ad un procedimento che si articola in: iniziativa di uno o più ministri,
deliberazione del Consiglio dei ministri, autorizzazione del Presidente della Repubblica e
culmina con la presentazione alla Camera.
A quale Camera presentare un disegno di legge è una scelta che spetta al Governo. In mancanza di
disposizioni precise è invalsa la prassi di iniziare procedimenti relativi ad alcune leggi ricorrenti
alternativamente alla Camera e al Senato. Questa prassi, che vale anche per il procedimento relativo al
voto di fiducia, ha come risultato consapevole il rafforzamento del “bicameralismo perfetto” ben oltre
quanto sia richiesto dalla Costituzione la quale non dispone che le due Camere siano disposte sullo stesso

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piano.
2) L’iniziativa parlamentare. Ogni deputato o senatore può presentare progetti di legge alla Camera
di appartenenza per ogni materia, salvo quelle riservate alla sola iniziativa del Governo. Nella
prassi è frequente che le proposte siano collettive, cioè sottoscritte da più parlamentari;
3) L’iniziativa popolare. Da porsi in essere attraverso la raccolta di almeno 50.000 firme. Non vi
sono limiti per tale iniziativa, tranne quelli che concernono le materie di esclusiva iniziativa
parlamentare.
4) L’iniziativa regionale. La Costituzione riconosce ai Consigli regionali il potere di presentare
progetti di legge alle Camere. Per questa iniziativa non è indicato alcun limite particolare. Lo
stesso vale per le Regioni a Statuto speciale, la loro attività di proposta deve limitarsi alle
materie di “interesse regionale” ma tale definizione è talmente elastica che non rappresenta un
limite effettivo.
5) Iniziativa del CNEL.
Diversi sono quindi i soggetti che possono proporre le leggi, tuttavia diverso è anche il peso delle
rispettive iniziative. Del tutto marginale è l’iniziativa popolare, regionale e del CNEL, mentre la
stragrande maggioranza delle proposte proviene dal Governo e dal Parlamento. Il Governo dispone della
maggioranza, riuscirà quindi più facilmente a vedere approvate le se proposte.
Il Parlamento allo stesso modo assume peso determinante in particolare quando le sue proposte sono
distanti dall’orientamento governativo. Molte leggi approvate in Italia nel campo dei diritti civili sono
state proposte da parlamentari (divorzio, aborto, obiezione di coscienza, ecc.).
L’iniziativa legislativa non crea mai in capo alla Camera l’obbligo di deliberare: il fatto che la
discussione del disegno proposto sia inserita nell’ordine del giorno dipende dalla Conferenza dei
capigruppo cui spetta il compito di selezionare gli argomenti da trattare. Il c.d. insabbiamento quindi non
è un fatto patologico del funzionamento parlamentare ma una sua fisiologia.
L’approvazione delle leggi
L’art. 72 vieta che un progetto di legge sia discusso direttamente dalla Camera: questo dev’essere prima
esaminato dalla commissione permanente competente. Le funzioni che la commissione è chiamata a
svolgere sono diverse a seconda della ‘sede’ in cui è chiamata ad esaminare il progetto: in relazione alle
diverse funzioni svolte dalla commissione e dall’aula si distinguono tre tipi di procedimento.
 procedimento ordinario (per commissione referente): il Presidente della Camera individua la
commissione competente in materia e risolve eventuali conflitti di attribuzione fra commissioni.
Il presidente della commissione o un relatore espone le linee generali della proposta provocando
una discussione generale su di esse, si passa poi alla discussione articolo per articolo e alla
votazione degli eventuali emendamenti. In questa fase si può procedere alla nomina di un
comitato ristretto (per una migliore formulazione dell’articolato, per superare contrasti politici o
per riunire in un unico esame più progetti di legge). Alla fine il testo viene approvato assieme ad
una relazione finale, nella quale viene esposta l’attività svolta e gli orientamenti emersi durante i
lavori. In aula la discussione procede con tre letture che rispecchiano le fasi della discussione in
commissione. La prima “lettura” è introdotta dai relatori e consiste nella discussione generale
(può chiudersi con un voto di “ordine del giorno di non passaggio degli articoli” e concludersi
negativamente), altrimenti si passa alla seconda lettura che prevede la discussione dei singoli
articoli, degli eventuali emendamenti e la votazione del testo definitivo di ogni articolo. In
questa fase si procede prima alla votazione degli emendamenti che più si allontanano dal disegno
originale, come gli emendamenti soppressivi dell’articolo, poi quelli modificativi ed infine quelli
aggiuntivi. Terminata questa fase si procede con la terza lettura, che consiste nell’approvazione
finale dell’intero testo di legge. Per le votazioni valgono le regole generali: si procede per voto
palese, il quorum richiesto è di maggioranza semplice o relativa.
 Procedimento per commissione deliberante (o legislativa). Consente alla commissione di
assorbire tutte le fasi del procedimento di approvazione, sostituendo l’aula: la commissione
esaurisce tutte e tre le letture senza che il progetto di legge sia votato o discusso dall’Assemblea.
Molte sono le garanzie di cui è circondato tale procedimento: infatti, alcune materie sono escluse
da questo tipo di processo (leggi in materia elettorale, di delegazione legislativa, di approvazione
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dei bilanci, ecc.); per queste materie si dice che esiste una riserva di assemblea. Per la
composizione della commissione deliberante, la Costituzione dispone che si deve seguire il
criterio rappresentativo proporzionale fra tutti i gruppi parlamentari. L’assegnazione della
proposta alla commissione, in Senato spetta al Presidente e non è opponibile; alla Camera, il
regolamento prevede che il Presidente abbia potere di proposta, che si considera accettata finché
nessun deputato chiede che sia sottoposta al voto dell’Assemblea.
Il procedimento per commissione deliberante presenta luci ed ombre. Il decentramento legislativo in
commissione consente di produrre velocemente quelle leggi poco importanti, o comunque marginali, che
altrimenti aggraverebbero il lavoro delle assemblee. Dall’altro lato le commissioni deliberanti hanno due
caratteristiche: lavorano con un tasso ridottissimo di pubblicità e, per la loro stessa composizione, hanno
sensibilità spiccata per gli interessi di categoria. Tutto ciò attenua il conflitto politico tra maggioranza ed
opposizioni ma di contro ne soffre l’interesse generale poiché in commissione gli interessi particolari non
hanno trovato un argine valido.
 Procedimento per commissione redigente. Questo procedimento è anche detto “misto” poiché è
una combinazione tra i due precedenti. Serve sostanzialmente a sgravare l’Assemblea dalla
discussione e dall’approvazione degli emendamenti, decentrandoli in commissione e riservando
all’aula l’approvazione finale. Valgono per questo procedimento le stesse garanzie che
circondano il procedimento per commissione deliberante.
Nella Camera dei deputati è l’assemblea, alla fine della discussione generale del progetto, che può
decidere se deferire alla commissione la formulazione degli articoli riservandosi la votazione degli
articoli e la votazione finale. Nello stesso ambito può essere la commissione a proporsi, ma è comunque
richiesto un consenso relativamente vasto dei membri dell’assemblea. Il fatto che sia indirettamente o
direttamente l’Assemblea stessa a decidere per il deferimento rende questo procedimento ben poco utile.
In Senato invece, il procedimento è più razionale ed ha trovato maggiore applicazione. Il Presidente può
richiedere il deferimento così come può chiederlo l’assemblea se si esprime all’unanimità: l’aula può poi
discrezionalmente votare un ordine del giorno che detti i criteri informatori cui la commissione dovrà
ispirarsi. A seguito dell’approvazione finale, all’assemblea resta solo il compito di approvare con
dichiarazione di voto.
Oltre ai procedimenti descritti, i regolamenti parlamentari prevedono delle procedure abbreviate per i
disegni di legge ritenuti urgenti. Esauriti i lavori in una Camera il progetto viene trasmesso all’altra
Camera: questa inizia il progetto di approvazione dall’inizio ed è libera di apportare qualsiasi
emendamento al testo approvato dalla prima Camera con la conseguenza che questa dovrà esaminare
nuovamente il testo del progetto (l’esame articolo per articolo è limitato alle sole parti soggette a
modifica); il ripetuto tragitto che ne deriva si chiama in gergo navette e procede finchè entrambe le
Camere non avranno approvato il medesimo testo.
La riforma costituzionale prevede che il Senato non abbia più le stesse funzioni della Camera per quanto
riguarda il procedimento legislativo. Semplificando, sono previste tre tipologie di leggi: nella stragrande
maggioranza dei casi il testo di legge è approvato dalla Camera, tuttavia il disegno di legge può essere
inviato al Senato che, entro 10 giorni, può chiedere di esaminarlo. Nei successivi 30 giorni può proporre
modifiche al testo che la Camera deve votare a maggioranza relativa. Se il senato non si avvale di tale
potere la legge è approvata semplicemente a seguito del processo ultimato dalla sola Camera. Esiste un
nucleo molto ristretto di leggi soggette ad approvazione bicamerale. Queste leggi devono essere
approvate nel medesimo testo da Camera e Senato e sono specificatamente elencate (tipiche). Le leggi di
questa categoria devono essere sempre presentate all’esame del Senato, con una variante: le leggi di
bilancio e rendiconto, se vengono proposte modifiche da parte del Senato (entro 15gg) possono essere
riapprovate dalla Camera senza procedimenti gravosi.
Infine è previsto che il Senato possa esercitare, deliberando a maggioranza assoluta, l’iniziativa
legislativa nei confronti della Camera.
La promulgazione della legge
Conclusa la fase dell’approvazione la legge è perfetta ma non efficace. L’efficacia è conferita dalla
promulgazione del Presidente della Repubblica: la sua funzione è integrativa dell’efficacia. Il Presidente
della Repubblica svolge un controllo formale sul testo (il testo approvato dalle sue Camere deve essere

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identico) e sostanziale: egli ha il potere di rinviare la legge alle Camere con messaggio motivato. È però
da considerare che: Sia l’atto di promulgazione che l’eventuale messaggio di rinvio devono essere
controfirmati dal Governo. Il rinvio può essere compiuto una sola volta: tale potere si configura non come
un potere di veto, ma come una forma di controllo con richiesta di riesame, superabile dal Parlamento con
la riapprovazione della legge stessa (con processo ordinario). Alla promulgazione segue la pubblicazione
su Gazzetta Ufficiale.

Leggi rinforzate e fonti atipiche


Non tutte le leggi sono uguali, la Costituzione riconosce tali differenze attraverso il meccanismo della
riserva di legge. Alcune leggi si discostano dalla legge formale per certi connotati formali-
procedimentali: è il caso di quelle concepite col meccanismo della riserva di legge rinforzata per
procedimento, le c.d. leggi rinforzate.
Altre leggi invece si allontanano dal modello formale per alcune peculiarità legate alla loro forza attiva o
passiva: sono le c.d. leggi atipiche. Se passa la riforma costituzionale attualmente in attesa di referendum
le leggi atipiche accresceranno la loro importanza: le leggi “bicamerali” dovranno avere oggetto specifico
e potranno essere modificate, abrogate o derogate solo in forma espressa e con lo stesso procedimento
adottato per l’approvazione.
Per lo più le leggi rinforzate sono tali non solo perché sia rafforzato il procedimento parlamentare
prescritto per la loro formazione, ma perché è reso più completo dell’ordinario il procedimento di
formazione del progetto di legge. Il particolare metodo con cui deve formarsi il progetto di legge
influenza anche il successivo procedimento parlamentare. La fase di approvazione della legge non potrà
compiersi senza il rispetto di quegli accordi che rappresentavano il presupposto per l’iniziativa.
Il rafforzamento del procedimento legislativo può essere disposto esclusivamente da una norma
costituzionale o equiparata. Se fosse una legge ordinaria a disporre che per l’emanazione di una
successiva legge ordinaria serva un procedimento parlamentare particolare questa rischierebbe di essere
inutile (perché qualsiasi atto dotato di eguale forza può derogarla o abrogarla) e illegittima (perché la
legge in questione invaderebbe una materia che almeno in parte è posta dalla costituzione). La legge
ordinaria non può porre limiti a legislatore ordinario futuro. Diverso è il caso si una legge che imponesse
al Governo di seguire una procedura particolare per la presentazione di un disegno di legge: in questo
caso la violazione del vincolo posto dal legislatore ordinario si considererebbe sanata dalla approvazione
finale della legge ordinaria.
Le riforme costituzionali degli ultimi anni manifestano la tendenza ad introdurre ulteriori ipotesi di leggi
rinforzate nel procedimento di formazione della legge. Il primo esempio è dato dal particolare
procedimento introdotto per l’amnistia e l’indulto. La riforma del titolo V, introduce due ipotesi di
rafforzamento: l’art. 116 afferma che particolari condizioni di autonomia delle Regioni possano essere
riconosciute da una legge che, già rafforzato il procedimento di formazione del disegno di legge, sia
approvata dalla maggioranza assoluta; allo stesso modo, vanno approvate a maggioranza assoluta tutte le
disposizioni che, istituita la Commissione bicamerale dei rappresentanti delle Regioni, si discostino dal
parere espresso dalla commissione stessa.
Tutti i procedimenti rinforzati, sono procedimenti specializzati seguiti per leggi anch’esse specializzate.
Sono atti con competenza riservata e limitata (quegli atti che si è cercato di spiegare con l’introduzione
del criterio della competenza), che si distinguono dalle leggi comuni sia per forza attiva (possono
abrogare solo le leggi con quello specifico contenuto) che per forza passiva (possono essere abrogate solo
dalle leggi che hanno subito quello specifico procedimento di formazione).
Fonti atipiche
Per fonti atipiche si intendono quegli atti che, pur avendo la stessa forma della legge ordinaria, non
rientrano pienamente in questa categoria perché hanno posizione diversa nella gerarchia delle fonti per
quanto riguarda la loro forza. Due sono le tipologie che si delineano sulla base delle disposizioni
costituzionali:
A. sono atipiche perché dotate di forza passiva rinforzata, le norme che l’art. 75 esclude dal
referendum abrogativo;
B. sono atipiche anche le c.d. norme meramente formali. Con questa denominazione vengono
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indicati quegli atti che necessariamente hanno la forma della legge ma non ne hanno il
contenuto, nel senso che non sono introduttive di nuove norme nell’ordinamento capaci di
produrre effetti giuridici. Gli esempi classici sono le leggi di approvazione del bilancio e la legge
di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Sono approvati con legge sia il
rendiconto consuntivo che il bilancio di previsione. La legge di approvazione del rendiconto
consuntivo è una legge priva di contenuti normativi: con quest’atto semplicemente il Parlamento
esercita il controllo su di un documento contabile; più complesso è il motivo per cui anche la
legge di approvazione del bilancio di previsione è riconducibile alla categoria degli atti con
forma di legge ma senza effetti giuridici: il problema se essa fosse o meno una legge meramente
formale è stato lungamente dibattuto, tuttavia la disputa non era esclusivamente accademica
poiché, la diversa definizione della natura di questa legge avrebbe avuto importanti effetti sui
rapporti Parlamento-Governo. Il problema oggi non si pone, poiché la Costituzione rigida pone
dei limiti che la legge di bilancio non può assolutamente aggirare. L’art. 81 vietava che con la
legge di bilancio venissero stabili “nuovi tributi e nuove spese” e l’atipicità del bilancio di
previsione è proprio questa: la legge che lo approva non può stabilire nuovi effetti giuridici,
innovare l’ordinamento. La sua forza attiva è azzerata. Tuttavia i contenuti della legge di
bilancio si sono ridefiniti dopo la riforma costituzionale, riconoscendo ad essa una funzione
“innovativa”. La legge di bilancio è atipica anche per la sua forza passiva: ha un’efficacia
temporale limitata all’anno cui si riferisce; nel corso dell’anno possono essere apportate
modifiche necessarie previste da apposite leggi, ma essa non è totalmente abrogabile da una
legge ordinaria successiva e, se si aggiunge che non lo è neanche per referendum, risulta un certo
potenziamento della forza passiva di questa legge.
È autorizzata con legge formale anche la ratifica dei trattati internazionali, il Parlamento partecipa
indirettamente alla forma dei trattati attraverso la legge di autorizzazione alla ratifica. Gli effetti giuridici
che comporta quest’atto, si compiono senza conseguenze giuridiche dirette per l’ordinamento. Per questa
ragione la legge di autorizzazione alla ratifica è atipica: perché non ha forza attiva. Allo stesso modo
questa legge è atipica dal lato passivo: può essere abrogata la norma che autorizza il compimento dell’atto
quando l’atto stesso è stato compiuto? Particolare importante è però che, all’autorizzazione di ratifica
segue sempre l’ordine all’esecuzione, che serve a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento. A
questo punto non vi sarebbero ragioni per definire quest’atto come atipico e sottrarlo al regime ordinario
delle leggi. Va precisato però che si è compiuta per mezzo della giurisprudenza e della prassi
parlamentare, una certa assimilazione dell’autorizzazione di ratifica e dell’ordine di esecuzione. La Corte
costituzionale ha esteso all’ordine di esecuzione due regole: a) la riserva di assemblea; b) l’esclusione dal
referendum abrogativo.
Le Camere hanno esteso all’ordine di esecuzione la regola della non emendabilità: questa norma ha senso
per la norme di autorizzazione proprio per il suo carattere meramente formale, non avrebbe senso per
l’ordine di esecuzione che andrebbe visto come disposizione di legge sostanziale.
Legge di delega e decreto legislativo delegato
La legge di delega è la legge con cui le Camere possono attribuire al Governo l’esercizio del proprio
potere legislativo. Il decreto legislativo è il conseguente atto con forza di legge, emanato dal Governo in
esercizio della delega conferitagli dalla legge.
La delega di funzioni legislative al Governo è un’eccezione alla regola generale, stabilita dall’art. 70
Cost. La stessa costituzione poi, fissa alcuni vincoli precisi alla legge di delegazione il cui mancato
rispetto costituisce vizio di illegittimità. Innanzitutto la delega può essere conferita esclusivamente con
legge formale: si tratta cioè di una materia coperta con riserva di legge formale; per di più è una legge che
deve essere approvata con il procedimento ordinario (vige la riserva di assemblea). In secondo luogo, la
delega può essere conferita soltanto al Governo inteso nella sua collegialità e non ai singoli organi che lo
compongono. In terzo luogo, l’art. 76 prescrive che la legge di delega contenga indicazioni minime (c.d.
contenuti necessari):
- deve restringere l’ambito tematico della funzione delegata indicando un oggetto specifico. La
delega non può essere generale, ma deve essere circoscritta a determinati argomenti. Spesso la
stessa legge contiene più disposizioni di delega al Governo, quindi il Parlamento si limita a
tracciare la cornice normativa del nuovo assetto legislativo della materia, affidando al Governo il

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compito di precisare il dettaglio delle singole parti del disegno;
- deve restringere l’ambito temporale della funzione delegata, indicando un tempo limitato entro il
quale il decreto deve essere emanato. La legge 400/1988 si limita a fissare la regola procedurale
secondo cui se il termine previsto per la delega eccede due anni, il Governo è tenuto a sottoporre
lo schema di decreto delegato al parere delle Commissioni permanenti delle due Camere;
- deve restringere l’ambito della discrezionalità del Governo, indicando i principi e i criteri
direttivi che servono da guide per l’esercizio del potere delegato. La Corte ha più volte ribadito
che la legge di delega che mancasse di definire i principi e i criteri direttivi sarebbe illegittima,
ma ha sempre lasciato al Parlamento la valutazione circa la scelta del grado di precisione e
analiticità. Tuttavia difficilmente una legge di delega potrà essere dichiarata illegittima perché
troppo scarse ed inutili sono le disposizioni che essa offre.
Nella prassi, tale carenza di norme sostanziali che valgano come criteri direttivi è spesso equilibrata
dall’introduzione di norme procedurali che obbligano il Governo investito della funzione legislativa a
sottoporre lo schema del decreto delegato al parere di organi determinati. La Corte ha sostenuto questa
tendenza, affermando che la violazione di questi “vincoli ulteriori” (a quelli posti dall’art. 76)
produrrebbe l’illegittimità del decreto delegato.

Il decreto legislativo delegato


Il potere esecutivo esercita le proprie funzioni attraverso la forma del decreto. Decreti sono anche gli atti
che il Governo emana nell’esercizio delle funzioni legislative che gli sono attribuite dalla Costituzione.
Quanto ai decreti emanati in forza della legge di delega (i c.d. decreti delegati), la loro formazione segue
il procedimento seguente: 1) proposta del ministro competente; 2) delibera del Consiglio dei ministri; 3)
eventuali adempimenti ulteriori se prescritti dalla legge di delega; 4) eventuale deliberazione definitiva
del Consiglio dei ministri a seguito dei pareri espressi dai soggetti consultati; 5) emanazione da parte del
Presidente della Repubblica. Di tutte le fasi del procedimento deve essere data indicazione nella premessa
del decreto.
La legge 400/1988 introduce per decreti delegati che essi vengano pubblicati in Gazzetta Ufficiale col
nomen juris di “decreto legislativo” (d.lgs.): in precedenza essi venivano emanati con la forma di decreto
del Presidente della Repubblica (d. P.R.) col rischio di confonderli con atti che occupano posizione
diversa nella gerarchia delle fonti. Lo stesso articolo 14 della stessa legge risolve un dubbio
interpretativo, cioè se per evitare la scadenza della delega basti che il Consiglio dei ministri deliberi o
occorre l’emanazione del decreto in questione dal Presidente della Repubblica: prescrive che il decreto
sia presentato alla firma del Capo dello Stato 20 giorni prima della scadenza della delega. In questo modo
si persegue il duplice obiettivo di concedere al Presidente della Repubblica tempo utile per l’esame del
decreto e di consentire al Governo di riesaminare il decreto in caso di rinvio del Presidente prima della
scadenza del decreto stesso.
Spesso si afferma che l’esercizio della delega sia caratterizzato dall’obbligatorietà e dalla necessità.
Quanto alla prima, non si può parlare di un obbligo giuridico di esercizio della delega, in quanto, di fatto
non esistono gli strumenti giuridici con cui sanzionare un’eventuale inerzia del Governo. L’obbligo sarà
semmai di tipo politico, tant’è che le deleghe inattuate sono tutt’altro che infrequenti. Si deve concludere
che il carattere obbligatorio di tale istituto è frutto di un equivoco: piuttosto è stato la scusa per il
Governo dimissionario di affrettarsi ad emanare il decreto delegato perché necessario ed
improcrastinabile.
Differente è la questione dell’istantaneità. Il problema che si è posto è se la delega si consideri scaduta
all’emanazione del decreto o se essa si perpetui fino alla scadenza fissata dalla legge, con la conseguenza
che il Governo possa emanare ulteriori emendamenti integrativi e modificativi. A questo proposito si è
ormai diffusa la prassi legislativa di prevedere una sorta di doppia delega con scadenza differenziata che
consenta al Governo di far seguire, al decreto emanato in un primo tempo altri decreti “correttivi” ed
anche “integrativi”.
Deleghe accessorie e testi unici
Spesso la delega legislativa non costituisce il principale contenuto della legge approvata dal Parlamento,
ma un suo completamento. Capita, cioè che nelle norme finali di una legge, il Parlamento deleghi al
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Governo di emanare norme di attuazione, di coordinamento o transitorie. La particolarità di queste
deleghe è che per lo più in esse manca un’espressa indicazione dei ‘principi e criteri direttivi’: ciò
significa che il potere normativo delegato del Governo risulterà assai ridotto, non potendo portare
innovazioni che tocchino i principi stabiliti dalle precedenti leggi. Un particolare caso di delega
accessoria è quella che autorizza il Governo a coordinare le leggi esistenti in una certa materia,
raccogliendole in un testo unico. Il Governo può procedere alla selezione delle norme vigenti, abrogando
esplicitamente quelle che ritiene superflue o tacitamente abrogate.
Il termine testo unico, così come il termine codice, non designa un tipo di fonte ma un particolare tipo di
tecnica legislativa. Con “testo unico” si indicano gli atti che, pur svolgendo la medesima funzione di
raccolta, selezione e coordinamento della legislazione vigente sono però di natura completamente diversa.
Si distinguono due categorie di TU: quelli innovativi e quelli di compilazione. I primi sono vere e proprie
fonti del diritto, sono cioè dei decreti-delegati che per la loro funzione vengono detti testi unici. Gli altri, i
TU di mera compilazione sono più che altro delle raccolte della normativa vigente compilata per
comodità degli uffici amministrativi. Essi non sono fonti di produzione ma fonti di cognizione, rispetto a
queste però la loro particolarità è quella di inserirsi nel rapporto di direzione, per cui ciò che il superiore
gerarchico dice essere disciplina costituisce una direttiva vincolante per i sottoposti che applicano la
normativa vigente così come individuata ed interpretata dall’autorità sovrapposta.
Decreto-legge e legge di conversione
Il decreto-legge è un atto con forza di legge che il Governo può adottare ‘in caso di straordinaria
necessità ed urgenza’: entra in vigore immediatamente dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale,
tuttavia gli effetti prodotti sono provvisori: i decreti-legge ‘perdono efficacia sin dall’inizio’ se il
Parlamento non li ‘converte in legge entro 60 gg dalla pubblicazione’. La legge precisa che il decreto
legge non può essere emanato nelle materie con riserva di assemblea e non può conferire deleghe
legislative.
La necessità è fonte del diritto? Buona parte della dottrina ha risposto di si, ma tale domanda è fatale
poiché dietro essa si nasconde la giustificazione del fatto che il Governo, senza autorizzazione del
Parlamento, emanasse con decreto norme con forza di legge che, non avendo norme costituzionali con
grado gerarchico superiore, avrebbero potuto essere derogatorie o soppressive anche delle garanzie
costituzionali. In assenza di una specifica previsione costituzionale, la prassi della decretazione d’urgenza
s’impose nei casi di eventi naturali catastrofici; allo stesso modo si impose la prassi della presentazione
del decreto legge al Parlamento perché questo la converta in legge e sani lo strappo della legalità che ha
prodotto.
Lo stato di necessità si limitava ai soli casi naturali o valeva anche in occasione dei gravi conflitti
politici?
Tale prassi della decretazione d’urgenza, divenuta frequentissima nell’Italia post-bellica, è sempre stata
considerata come un evento necessario ma illegale: pur essendo escluso qualsiasi sindacato sulla
legittimità di queste leggi, le Corti di livello più elevato potevano sanzionare con la nullità i decreti legge.
All’assenza di una disciplina degli effetti del decreto-legge, si provvide con una regolamentazione assai
permissiva: il decreto-legge doveva essere presentato, a pena di decadenza, entro 60 gg al Parlamento e
perdeva efficacia ex nunc (era abrogato) se il Parlamento si rifiutava di convertirlo o in caso di inerzia
alla scadenza dei 2 anni dalla pubblicazione.
Procedimento
Il decreto-legge deve essere deliberato dal Consiglio dei ministri, emanato dal Presidente della
Repubblica ed immediatamente pubblicato in Gazzetta Ufficiale. L’art. 15 della legge 400/1988 prescrive
che esso sia pubblicato “ con la denominazione di decreto legge e con l’indicazione nel preambolo delle
circostanze straordinarie di necessità che ne giustificano l’adozione, nonché dell’avvenuta deliberazione
del Consiglio dei ministri” inoltre, “deve contenere la clausola di presentazione al Parlamento per la
conversione in legge”.
Lo stesso decreto-legge stabilisce il momento della sua entrata in vigore. Il giorno stesso della sua
pubblicazione deve essere presentato alle Camere anche se sciolte, e si riuniscono entro cinque giorni (la
conversione del decreto di legge rientra tra le competenze delle Camere in regime di prorogatio).
Il Governo chiede al Parlamento di produrre una legge di conversione per cui il decreto-legge viene
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presentato come allegato di un disegno di legge, il cui contenuto si risolve in un’unica disposizione ‘è
convertito in legge il decreto-legge XY, concernente ecc.’. si dà così avvio ad un procedimento
legislativo che deve concludersi, promulgazione compresa, entro il termine tassativo di 60 giorni. Le
variazioni del procedimento di conversione rispetto a quello ordinario sono dettate dall’esigenza di
assicurare tempi certi e brevi di approvazione del disegno di legge.
Il potere di adottare decreti-legge può essere esercitato solo quando ricorrano tre presupposti fissati dalla
Costituzione: “casi straordinari”, “di necessità”, “d’urgenza”. Queste le tre condizioni poste dalla
Costituzione affinché sia possibile derogare alla fondamentale regola della separazione dei poteri,
consentendo al Governo di esercitare il potere legislativo riservato al Parlamento. Chi giudica la
sussistenza concreta di questi presupposti? Come ipotesi astratta sia il Presidente della Repubblica in via
preventiva che la Corte costituzionale in via successiva potrebbero trovarsi nella posizione per svolgere
questo controllo. La Corte ha stabilito che ”straordinarietà, necessità ed urgenza costituiscono un
requisito di validità costituzionale dell’adozione del decreto-legge in modo che l’evidente mancanza di
uno dei presupposti configuri tanto il vizio di legittimità costituzionale del decreto legge, quanto il vizio
della stessa legge di conversione che ha erroneamente valutato tali presupposti”. Questa sentenza ha
avuto un seguito di altre che hanno per la prima volta hanno:
- dichiarato l’illegittimità della legge di conversione di un decreto legge emanato in evidente
assenza dei requisiti;
- dichiarato illegittima la legge di conversione nella parte in cui convertiva un decreto-legge
incongruo rispetto alle motivazioni in esso contenute;
- ritenuto incostituzionale la disposizione introdotta in sede di conversione perché estranea
all’oggetto del decreto legge: il Parlamento non può approvare qualsiasi tipo di emendamento,
ma solo quelli che sono omogenei rispetto all’oggetto ed alle finalità del decreto legge.
Il regolamento del Senato prevede ancora il parere obbligatorio espresso preliminarmente dalla
Commissione affari costituzionali sulla sussistenza dei requisiti della necessarietà ed urgenza. Alla
Camera invece il parere preventivo è stato sostituito con un “filtro” ben più complesso: nella relazione di
Governo, che accompagna il disegno di legge di conversione deve essere dato conto dei presupposti di
necessarietà e d’urgenza che pongono in essere il decreto-legge, inoltre devono essere descritti gli effetti
attesi dalla sua attuazione e le conseguenze sull’ordinamento. La Commissione referente può chiedere al
Governo di integrare gli elementi forniti nella relazione, anche con riferimento a singole disposizioni del
decreto legge. Il disegno di legge è sottoposto al Comitato per la legislazione: la legge prescrive che il
decreto-legge debba “contenere misure di immediata applicazione e il contenuto di queste deve essere
specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”
La riforma attualmente in attesa di referendum contiene importanti modifiche per la disciplina del decreto
legge. La presentazione del disegno di legge dovrà essere presentata alla Camera anche quando riguarda
materie di competenza bicamerale. In caso di rinvio presidenziale della legge di conversione, il termine
della stessa è differito di trenta giorni. Inoltre, il Governo non può reiterare disposizioni adottate con
decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi. I decreti
devono contenere misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente
al titolo e la legge di conversione non può contenere disposizioni estranee all’oggetto e alle finalità del
decreto.
Decadenza del decreto non convertito
I decreti legge, se non convertiti in legge entro 60 giorni, ‘perdono efficacia sin dall’inizio’. Della
mancata conversione per decorrenza del termine o del rifiuto di conversione da parte del Parlamento,
viene data notizia immediata in Gazzetta Ufficiale. La perdita di efficacia del decreto-legge è detta
decadenza, essa travolge tutti gli effetti prodotti dal decreto-legge, probabilmente anche lo stesso
giudicato. Quando il decreto entra in vigore esso è pienamente efficace, ma se decade, tutto ciò che si è
compiuto in forza di esso è come se fosse stato compiuto senza base legale. Gli effetti prodotti vanno
eliminati perché costituiscono degli illeciti. Va ripristinata la situazione precedente.
È evidente che la situazione che si crea a seguito della decadenza è, in molti casi, insostenibile, quindi
l’art. 77 della Costituzione appresta due strumenti per trovare una soluzione:
1. la c.d. legge di sanatoria degli effetti del decreto legge decaduto. Si tratta di una legge riservata

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alle Camere con cui si possono regolare i rapporti giuridici sorti sulla base di decreti non
convertiti. Vanno considerai due aspetti: il Parlamento non è affatto tenuto ad approvare una
legge di sanatoria. Si tratta di una decisione politica e, come tale, libera; inoltre, non è sempre,
per motivi pratici e logistici, una soluzione praticabile sempre e comunque.
2. L’altro strumento è individuabile nell’inciso dell’articolo 77 in cui si afferma che il Governo
adotta sotto sua responsabilità, provvedimenti provvisori. La responsabilità di cui si parla non è
solo quella politica ma si tratta invece di responsabilità giuridica.
a) Responsabilità penale: dei ministri che rispondono singolarmente di eventuali reati commessi in
attuazione del decreto-legge; è ovvio che poiché di reato deve trattarsi, esso deve essere
corredato dallo specifico aspetto psicologico (il dolo, cioè la volontà dell’evento e la colpa cioè
la connessione causale tra l’evento e la negligenza, l’imprudenza o l’imperizia dell’agente), il
che rende difficile l’innescarsi di questo tipo di responsabilità. Difficile ma non impossibile,
sicché la sua previsione ha un debole, seppur efficace effetto deterrente.
b) Responsabilità civile: i ministri rispondono solidalmente degli eventuali danni prodotti ai terzi.
Tuttavia la c.d. responsabilità aquiliana, è applicata in senso estensivo: essa estende la
responsabilità civile, oltre che al soggetto specifico, anche all’ente a cui esso appartiene. Ciò
rappresenta indubbiamente una garanzia per il cittadino poiché l’ente pubblico assicura, di
norma, la solvibilità. Inoltre mentre le responsabilità civili del singolo, limitano la responsabilità
al dolo ed alla colpa, la responsabilità dell’ente si estende anche alla colpa lieve.
c) Responsabilità amministrativa-contabile: i ministri che hanno espresso voto favorevole al
decreto- legge rispondono solidalmente degli eventuali danni prodotti allo Stato in senso di
risarcimenti al cittadino (c.d. danno ereriale.)
Tali strumenti sono efficaci dal punto di vista della garanzia degli interessi patrimoniali del singolo, ma
molto meno, se considerati sotto il profilo dell’interesse pubblico e, più in generale degli interessi non
patrimoniali. Uso e abuso del decreto-legge
Se i decreti-legge fossero emanati soltanto per le situazioni di calamità, per quelle ‘necessità’
straordinarie di fronte alle quali non è possibile provvedere con i tempi del procedimento legislativo,
assai poca rilevanza pratica avrebbero i problemi teorici che la precarietà del decreto-legge solleva. Nella
pratica si è ricorso (e si ricorre) ai decreti-legge per ragioni di opportunità, ben lontane da quelle che
avevano fatto pensare alla necessità come fonte. Si è innescato, in questo modo, un circolo vizioso
inarrestabile:
 il decreto-legge, mosso dall’esigenza di anticipare gli effetti del provvedimento senza attendere i
tempi del procedimento parlamentare ha provocato il rafforzamento della sua causa: ha fatto
ulteriormente estendere i tempi dell’iter parlamentare. La legge di conversione ha precedenza
nell’ordine dei lavori delle Camere e provoca l’allungarsi dei tempi di attesa dei progetti di legge
in coda. Più si allungano i tempi dell’iter parlamentare più si fa necessario adottare i
provvedimenti urgenti con decreto-legge e viceversa. L’aumento del ricorso al decreto legge
aumenta inesorabilmente il ricorso al decreto legge.
 Se il decreto legge è mosso dall’esigenza di varare una legge complessa e urgente, il cui iter
processuale ordinario, sarebbe troppo lungo, è assai improbabile che il termine dei 60 gg basti
all’esame parlamentare. Così si è diffusa la prassi della reiterazione del decreto legge: alla
scadenza dei 60 gg , il Governo emana un nuovo decreto-legge che riproduce senza o con
minime variazioni quello precedente, ormai scaduto. Si formano così “catene” di decreti-legge
composte da un numero di anelli non prevedibile. Il risultato è che ogni Governo si trova con le
mani legate: o reiterare per l’ennesima volta il decreto-legge o provocare un terremoto giuridico
nelle situazioni giuridiche che, nel lungo periodo, si sono create e consolidate sulla base del
decreto reiterato. Come è facile comprendere, se il decreto viene reiterato molte volte, la
probabilità che esso produca effetti irreversibili è maggiore. Tale prassi concorre ancora alla
creazione di un circolo vizioso che aumenta sempre di più la decretazione d’urgenza intasando il
sistema legislativo.
A tal proposito la Corte è intervenuta con una sentenza coraggiosa del 360/1996 che ha posto un argine
quasi definitivo a questa pratica.

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“Il decreto legge reiterato o iterato lede la previsione costituzionale sotto più profili: altera la natura
provvisoria della decretazione d’urgenza procrastinando il termine invalicabile previsto dalla
Costituzione-, inoltre toglie valore al carattere “straordinario” dei requisiti della necessità e dell’urgenza e
attenua la sanzione della perdita di retroattiva efficacia del decreto non convertito.
Su di un piano più generale la prassi della reiterazione viene ad incidere sugli equilibri istituzionali,
alterando i caratteri della stessa forma di governo e l’attribuzione della funzione legislativa ordinaria al
Parlamento. Questa prassi se diffusa e prolungata finisce inoltre per intaccare la certezza del diritto nei
rapporti tra soggetti”.
Giudicata assolutamente incompatibile con la disciplina costituzionale del decreto-legge, la reiterazione è
ammissibile solo quando il nuovo decreto “risulti fondato su autonomi motivi di necessità ed urgenza,
motivi che, in ogni caso, non sono riconducibili al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata
conversione del precedente decreto. L’intervento del Governo dunque, potrà comunque verificarsi, ma
“non potrà porsi in un rapporto di continuità sostanziale con il decreto non convertito, ma dovrà, in ogni
caso, risultare caratterizzato da contenuti normativi sostanzialmente diversi, ovvero da presupposti
giustificativi nuovi, di natura straordinaria”.
La legge di conversione e gli effetti degli emendamenti
Il colpo di scure inferto dalla sentenza 360/1996 ha in una certa misura drammatizzato anche l’altro grave
problema che la prassi della decretazione d’urgenza ha prodotto: il problema degli emendamenti in sede
di conversione.
È ovvio quindi, che più ci si allontana dall’utilizzo tipico del decreto-legge, trasformandolo in una sorta
di iniziativa “raccomandata”, più è probabile che il parlamento recuperi parte delle proprie funzioni
legislative attraverso la modificazione del testo originale del decreto.
Bloccata la prassi della reiterazione del decreto legge, la prassi ha fornito al Governo un altro
stratagemma per imporre le proprie scelte legislative: il maxi emendamento. La legge di conversione è
formata da un articolo unico, il Parlamento inizia a discutere gli emendamenti all’articolo unico. Quando
tale discussione è arrivata ad un certo punto il Governo interviene con una proposta di emendamento che
sostituisce l’intero allegato e pone la fiducia sulla sua approvazione. A questo punto la questione di
fiducia blocca la discussione degli emendamenti e viene posta in votazione prima di tutto il resto. Segue
un appello nominale, maggioranza compatta, fine della discussione e approvazione del testo voluto dal
Governo.
Come agiscono gli emendamenti rispetto ai rapporti insorti in forza del decreto-legge? La legge 400/1988
ha offerto al problema una risposta univoca ‘le modifiche eventualmente apportate in sede di conversione
hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione delle legge di conversione, salvo che
quest’ultima non disponga diversamente’. Tuttavia si tratta di una disposizione inutile, in quanto ripete il
generale principio di irretroattività delle leggi posto dall’art. 11 delle Preleggi. Esso è un principio
flessibile, derogabile, poiché come ha affermato la Corte di cassazione, l’efficacia temporale degli
emendamenti è legata alla natura degli emendamenti stessi: è una questione di interpretazione, quindi di
norme. Il quadro riassuntivo di tutte le possibilità può essere così delineato:
a) una disposizione è convertita senza emendamenti: in questo caso si ha novazione della fonte, le
norme del decreto vengono sostituite da quelle della legge di conversione, i cui effetti
retroagiscono al momento dell’entrata in vigore del decreto;
b) una disposizione del decreto legge è soppressa dalla legge di conversione (emendamenti
soppressivi): la disposizione non convertita decade ex tunc. Lo stesso accade se la disposizione
originale è sostituita in toto dalla disposizione della legge di conversione (emendamenti
sostitutivi). Almeno questa è la posizione della Cassazione ma la dottrina è di avviso contrario,
cioè che si considererebbe sostituzione sempre solo la sostituzione totale della disposizione con
l’effetto che, se la legge di conversione dice espressamente che una certa disposizione non è
convertita si ha decadenza, altrimenti la disposizione si dà per convertita e, semmai, si ha
abrogazione, causata dalla contraria disposizione della legge di conversione (con gli effetti che
ne derivano);
c) viene aggiunta una disposizione nuova: l’emendamento aggiuntivo opererà solo pro futuro, cioè
nel modo in cui solitamente opera il principio di irretroattività.
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d) Una disposizione del decreto legge viene parzialmente modificata (emendamenti modificativi):
spetta all’interprete stabilire gli effetti temporali, considerando anche il generale principio
dell’irretroattività. In ogni caso esiste un limite preciso all’emendabilità: non sono ammessi
emendamenti estranei all’oggetto del decreto-legge. Vale anche per i decreti che ab origine
hanno contenuto plurimo: ogni ulteriore disposizione introdotta deve avere ad oggetto almeno
uno dei contenuti già disciplinati dal decreto legge.
Altri decreti con forza di legge
Sebbene il decreto-legge e il decreto legislativo delegato siano i due principali atti con forza di legge,
esistono nel nostro ordinamento altri due decreti che occupano quella posizione gerarchica nelle fonti.
 I decreti emanati dal Governo in caso di guerra. Come dispone l’art. 78 della Cost. “ le Camere
deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.
La Costituzione “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo
di soluzione delle controversie internazionali” (art. 11), ma malgrado ciò, la guerra di difesa resta una
prospettiva possibile. La Costituzione ha diverse previsioni specifiche in caso di guerra: da un lato
delinea un particolare diritto di guerra, con l’applicazione delle leggi militari di guerra; dall’altro cerca di
mantenere il fenomeno della guerra all’interno del regolare funzionamento delle istituzioni costituzionali:
da qui la regola per cui sono le Camere a decidere lo stato di guerra e la possibilità eccezionale di
prorogare con legge la durata delle Camere stesse. Tuttavia sorgono dei problemi circa la compatibilità
con la Costituzione della legislazione militare introdotta nell’ 1938 che prevede che i comandanti militari
possano emanare provvedimenti con forza di legge che sembrano in netto contrasto con l’art. 78.
La dottrina ritiene che tra i poteri conferiti all’esecutivo vi possa essere anche una sorta di delega
anomala al Governo, cui deve essere concesso il potere di emanare norme con forza di legge, derogando
alle procedure legislative ordinarie. Questi atti potrebbero forse essere autorizzati anche a sospendere
determinate libertà costituzionali: si tratta di atti extra ordinem, dietro i quali si profila nuovamente la
necessità come superfonte del diritto.
 I decreti legislativi di attuazione degli Statuti speciali. Questi statuti, che sono leggi
costituzionali, prevedono che all’attuazione dello statuto stesso si provveda con un particolare
tipo di decreto legislativo, emanato dal Presidente della Repubblica previa autorizzazione del
Consiglio dei ministri e su proposta di un’apposita Commissione paritetica. Sono atti con forza
di legge cui è attribuita una competenza specifica e riservata: la loro emanazione avviene senza
delega legislativa del Parlamento.

Regolamenti parlamentari (e di altri organi costituzionali)


Il regolamento parlamentare è l’atto con cui l’art. 64 riserva la disciplina dell’organizzazione e del
funzionamento di ciascuna Camera, con particolare riferimento al procedimento legislativo. Esso è
approvato a maggioranza assoluta dalla camera e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. I regolamenti sono
fonti primarie, inferiori soltanto alla Costituzione e dotati di un ambito di competenza riservato:
attraverso essi si manifesta l’autonomia e l’indipendenza delle Camere.
I regolamenti parlamentari nel sistema delle fonti
Ma questi regolamenti parlamentari hanno forza di legge? La definizione della “forza di legge” si
riferisce alla qualità di determinati atti con riferimento al tipo di relazioni (forza attiva, cioè capacità di
abrogare e forza passiva, cioè capacità di resistere all’abrogazione) che essi hanno con la legge formale
ordinaria. I regolamenti parlamentari tuttavia non hanno relazioni con altri atti, se non quella di reciproca
esclusione. In questa prospettiva si spiega la posizione assunta dalla Corte Costituzionale a proposito
della sindacabilità dei regolamenti parlamentari: la Corte ha stabilito di non poter sindacare la legittimità
dei regolamenti parlamentari, poiché questi sono espressione dell’indipendenza garantita al Parlamento,
indipendenza anche dalla Corte costituzionale e dal giudizio di legittimità che ad essa compete.
- La Corte dichiara di non poter sindacare sulle questioni della c.d. autodichia nei confronti del
personale dipendente, le cui controversie di lavoro sono risolte dagli organi della Camera stessa;
- la Corte ha però dichiarato di poter invece giudicare delle leggi anche per ciò che riguarda il
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procedimento seguito per la loro formazione; con riferimento al rispetto delle norme della
Costituzione da parte dei regolamenti parlamentari;
- la Corte ha inoltre ammesso, con riferimento al regolamento del Consiglio regionale, che il
regolamento possa essere oggetto di conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni
Il regolamento parlamentare seppure non è come atto sindacabile dalla Corte è pur sempre soggetto alla
Costituzione: la prevalenza della Costituzione va comunque assicurata.
Regolamenti degli altri organi costituzionali
Anche gli altri organi costituzionali sono dotati della stessa autonomia riconosciuta alle Camere?
 Il Governo sicuramente no, perché l’art. 95.3 pone una riserva di legge per l’ordinamento della
Presidenza del Consiglio e per l’organizzazione dei ministeri. Il regolamento interno del
Consiglio dei Ministri non può essere considerato una fonte primaria: il suo fondamento -e
limite- è costituito dalla legge ordinaria e non dalla Costituzione.
 Anche il Presidente della Repubblica per disciplinare i servizi della presidenza, adottando dei
regolamenti: ma non si tratta di fonti del diritto dell’ordinamento generale ma di semplici
strumenti di gestione amministrativa degli uffici e dei servizi di un organo cui deve essere
garantita l’indipendenza dagli altri poteri.
 Per i regolamenti della Corte costituzionale non esiste una vera e propria previsione
costituzionale. La Costituzione anzi, pone una riserva di legge costituzionale per la disciplina
della proposizione dei giudizi di legittimità costituzionale e delle garanzie di indipendenza della
Corte; ed una riserva di legge ordinaria per la costruzione ed il funzionamento di essa. È proprio
la legge ordinaria del resto a prevedere che la Corte possa “disciplinare l’esercizio delle sue
funzioni con regolamento approvato dalla maggioranza dei suoi componenti pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale” e che il regolamento possa stabilire norme integrative di procedura. Tali
norme però -come ha avuto modo di confermare la Corte- non hanno forza di legge.
Il referendum abrogativo come fonte
Il referendum è la richiesta fatta al corpo elettorale di esprimersi direttamente su una determinata
questione. Esso è dunque lo strumento di eccellenza per la democrazia diretta, una delle forme con cui la
Costituzione prevede che il popolo eserciti la sua sovranità, senza l’interposizione di rappresentanti.
Il referendum tuttavia appare come una deroga alla rappresentanza elettiva che, per sua stessa natura,
genera una situazione di concorrenza e di conflitto col sistema rappresentativo: imprudente è stato il
costituente che ha affidato la concreta operatività di uno strumento antagonista alla rappresentanza
politica alla legge, espressione tipica del sistema rappresentativo stesso (il risultato è stato che
all’emanazione della legge ordinaria si è giunti soltanto nel 1970).
La Costituzione prevede soltanto quattro tipi di referendum: nell’ambito delle fonti statali, accanto a
quello costituzionale e a quello previsto da alcune fonti rinforzate, un ruolo effettivamente normativo è
svolto dal referendum abrogativo.
Il referendum abrogativo è lo strumento con cui il corpo elettorale può incidere direttamente
sull’ordinamento giuridico per mezzo dell’abrogazione di leggi o di singole disposizioni contenute in
esse. Come la Corte costituzionale ha affermato esso è un atto-fonte dell’ordinamento dello stesso rango
della legge ordinaria. Come spesso si dice si tratta di una forma “negativa” di legislazione, nel senso che
serve solo a togliere o abrogare le disposizioni di legge. Questo è in parte vero, tuttavia non toglie al
referendum abrogativo la possibilità di essere uno strumento di creazione di nuove norme: esso interviene
appunto sulle disposizioni e ciò permette, tramite la manipolazione del testo normativo, la creazione di
nuove norme. La riprova più vistosa della potenziale capacità del referendum manipolativo di produrre
nuove norme si è avuta nel caso del c.d. referendum elettorale: attraverso l’eliminazione di singoli
articoli, commi, proposizioni o parti di esse, i promotori sono riusciti a trasformare diametralmente il
sistema elettorale che vigeva in Senato.
Procedimento
L’art. 75 Cost., prevede che esso possa essere richiesto o da 500mila elettori o da cinque Consigli
regionali. Il procedimento che pone in essere il referendum abrogativo si differenzia per un primo tratto
in ragione di chi richiede il referendum.
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I. Richiesta popolare: l’iniziativa da parte dei promotori (un gruppo di almeno dieci cittadini iscritti
nelle liste elettorali) che depositano presso la cancelleria della cassazione il quesito che
intendono sottoporre a referendum, di cui viene data immediata notizia in Gazzetta Ufficiale.
Entro tre mesi devono essere raccolte su appositi fogli vidimati le 500.000 firme che devono
essere anch’esse depositate presso la cancelleria della cassazione.
II. Richiesta regionale: i Consigli di almeno cinque Regioni devono approvare la richiesta a
maggioranza assoluta e depositarla in cancelleria.
Presso la cassazione si istituisce l’Ufficio centrale per il referendum che esamina le richieste per
giudicarne la conformità alla legge. Il suo parametro di valutazione è appunto la legge ordinaria. I quesiti
che passano questa fase vengono dichiarati legittimi e trasmessi alla Corte costituzionale che opera
sempre un esame dei quesiti, giudicandone però l’ammissibilità costituzionale. Si ricorda che la
Costituzione prevede che alcune materie siano escluse dal referendum (leggi tributarie e di bilancio, leggi
di amnistia e indulto, legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali). Se la Corte dichiara il
referendum ammissibile, il Presidente della Repubblica deve fissare il giorno della votazione tra il 15
aprile e il 15 giugno. L’Ufficio centrale accerta che al referendum abbia preso parte la maggioranza degli
aventi diritto al voto. A questo punto se i ‘no’ superano i ‘si’ lo stesso quesito non può essere riproposto
prima che trascorrano 5 anni.
Se il risultato è favorevole all’abrogazione, il Presidente della Repubblica con proprio decreto, dichiara
abrogata la disposizione in questione. L’abrogazione ha effetto dal giorno successivo la pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale, ma il Presidente su proposta del Governo, può prorogare la data di entrata in vigore
per un termine non superiore ai 60 giorni dalla data di pubblicazione.
Il legislatore può ripristinare la norma abrogata? La Corte costituzionale è intervenuta di recente ed ha
affermato che il decreto legge che sostanzialmente ripristina la norma abrogata con referendum è
illegittimo per violazione dell’art. 75 della Costituzione. Ciò è possibile esclusivamente se “sussistono le
condizioni tali da giustificare il superamento del predetto divieto di ripristino”, insomma il vincolo c’è
ma la sua durata è incerta.
In due casi possono interrompersi le procedure che pongono in essere il referendum abrogativo:
- quando sia disposto lo scioglimento delle camere: il procedimento è automaticamente sospeso e
riprende un anno dopo l’elezione;
- nel caso in cui prima dello svolgimento del referendum la legge vien abrogata.
Spesso l’iniziativa referendaria è vista con fastidio e preoccupazione della maggioranza che siede in
Parlamento. Per evitarlo si ha uno strumento: cambiare la legge. Si utilizza spesso quest’espediente: con
decreto si apportano modifiche insignificanti ai fini dell’ordinamento alla legge in questione, in questo
modo si aggira il referendum. Proprio a seguito di questa tendenza la Corte si è pronunciata consentendo
ai promotori di sollevare il conflitto di attribuzione quando le modifiche apportate non modifichino “né i
principi ispiratori, né i contenuti normativi essenziali” della legge in questione. In questo caso non si
blocca
il referendum, ma l’Ufficio centrale provvede a “spostare” il referendum sulla nuova legge.
Regolamenti dell’esecutivo
Con il termine regolamento si designano atti normativi difficilmente riconducibili a tipologie unitarie. I
regolamenti sono emanati da un’infinità di organismi pubblici e privati. In alcuni casi però il regolamento
designa atti tipici, fonti dell’ordinamento giuridico generale: questo è il caso dei regolamenti
amministrativi, categoria in cui rientrano i regolamenti dell’esecutivo (a loro volta divisi in regolamenti
ministeriali o interministeriali e regolamenti governativi), i regolamenti degli enti locali e i regolamenti
regionali.
I regolamenti amministrativi sono atti sostanzialmente legislativi ma formalmente amministrativi. I
regolamenti dell’esecutivo sono atti normativi spesso complessi, come le leggi suddivisi in articoli,
commi, capi ecc., ma emanati dagli organi dell’esecutivo attraverso un procedimento che non ha le
garanzie di controllo parlamentare che caratterizzano le leggi e gli atti con forza di legge (infatti hanno
sempre la forma del decreto). Quale spazio normativo possa occupare il regolamento dell’esecutivo
dipende dalla legge: questo perché i regolamenti, in quanto fonti secondarie sono sottoposti
gerarchicamente sia alla legge che agli atti con forza di legge.
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Fondamento normativo
La riforma del Titolo V ha introdotto un’importante innovazione in questo senso: ha stabilito il
parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di
emanare regolamenti alle sole materie sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva. Oggi, i
regolamenti del Governo sono fonti a competenza limitata dalla Costituzione.
Il fondamento dei regolamenti va ricercato nella legge ordinaria, così come le condizioni per la loro
validità. Da qui derivano conseguenze importanti: 1) mentre per le fonti primarie il sistema è chiuso,
essendo sottoposte alla Costituzione, lo stesso non vale per le fonti secondarie, che sono modellabili dalla
legislazione ordinaria; 2) mentre esiste un spazio costituzionalmente garantito per le leggi o gli atti
equiparati o concorrenti, non esiste uno spazio riservato ai regolamenti dell’esecutivo, anzi le numerose
riserve di legge contribuiscono a limitarne il raggio d’azione; 3) mentre le leggi possono disporre,
seppure eccezionalmente, retroattivamente, questa possibilità è preclusa ai regolamenti.
La disciplina generale del potere regolamentare dell’esecutivo è contenuta:
- nelle Preleggi, che dedicano ai regolamenti due articoli: uno che dispone che il potere
regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale, mentre il potere
regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle competenze rispettive e in conformità
delle leggi particolari; l’altro che colloca i regolamenti nella struttura gerarchica del sistema
normativo disponendo che i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle
disposizioni della legge, mentre i regolamenti della altre autorità devono essere conformi anche
coi regolamenti governativi.
- Nella legge 400/1988, che riprende fedelmente la disciplina delle preleggi, ripetendo la
distinzione tra i regolamenti del governo e i regolamenti di altre autorità dell’esecutivo. Tale
distinzione si riflette sul fondamento legale dei regolamenti: mentre per i regolamenti
governativi il fondamento è costituto dallo stesso articolo che disciplina la materia nella legge
400, per i regolamenti ministeriali occorre che il potere di emanare sia esplicitamente conferito
da apposita disposizione di legge (sono sottoposti al principio di legalità in senso sostanziale).
Lo stesso articolo in questione ripete la graduazione gerarchica interna ai regolamenti
dell’esecutivo: si tratta di una gerarchia stabilita da legge ordinaria, per cui la legge che prevede
il regolamento ministeriale può facilmente scalzarla. Ciò vale per l’intera disciplina
regolamentare, come conseguenza dell’assenza di norme costituzionali che gli conferiscano
fondamento, essendo disciplinata dalle Preleggi ed essendo appunto, generale, è destinata a
cedere a tutte le norme speciali poste in essere da legge ordinaria.
In assenza di norme di legge derogatorie vale la disciplina dettata dalle Preleggi: qualsiasi regolamento
ministeriale che la violasse sarebbe illegittimo.
Procedimento
Il procedimento di emanazione dei regolamenti governativi è diverso da quello per l’emanazione dei
regolamenti ministeriali.
I primi vengono deliberati dal Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio di stato: tale parere è
obbligatorio ma non vincolante. Il regolamento viene poi emanato dal Presidente della Repubblica con
proprio decreto. L’atto è a questo punto perfetto ma non ancora efficace: deve passare il controllo di
legittimità della Corte dei conti, infine viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
I regolamenti ministeriali sono invece emanati dal ministro, sempre previo parere del Consiglio di Stato,
prima della emanazione devono essere sottoposti al Presidente del Consiglio dei ministri che può
facoltativamente bloccare l’adozione e provocare una deliberazione del Consiglio dei ministri. Anche essi
sono soggetti al controllo aggiuntivo della Corte dei conti a cui segue la pubblicazione in Gazzetta.
Tipologia
L’art. 17.1 della legge 400/1988 distingue diverse tipologie di regolamento governativo. Tale distinzione
si basa sul diverso rapporto che il regolamento avrebbe con la legge, con la riserva di legge e con le
competenze legislative delle Regioni. Ma la stessa legge non è affatto esauriente nella spiegazione delle
diverse tipologie, che spesso vengono confuse nell’uso corrente.
A. Regolamenti di esecuzione delle leggi. Regolamenti che il Governo adotta, anche senza specifica

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autorizzazione legislativa, quando avverte la necessità di emanare norme che assicurino
l’operatività della legge e dei decreti con forza di legge. Possono avere una funzione
interpretativa oppure disciplinare le modalità procedurali per l’applicazione della legge in
oggetto: incontrano un limite costituzionale laddove sia prevista una riserva assoluta di legge.
Tuttavia è ammesso che i regolamenti di stretta esecuzione possano essere emanati anche in
materia coperta da riserva assoluta: a condizione che essi non integrino la fattispecie legislativa,
non servano cioè a precisare e integrare le norme poste dalla legge; la loro funzione deve
limitarsi a predisporre gli strumenti amministrativi e procedurali necessari a rendere operativa la
legge.
B. Regolamenti d’attuazione. Sono emanati per l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti
legislativi recanti norme di principio. La legge deve rispettare almeno i principi della materia,
lasciando ai regolamenti la disciplina di dettaglio. Il potere regolamentare si basa quindi su
un’esplicita previsione della legge da attuare.
C. Regolamenti indipendenti. Sono emanati nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di
leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie con riserva di legge
assoluta. Si tratta perciò di una figura il cui campo d’azione è estremamente limitato.
D. Regolamenti di organizzazione. La materia di organizzazione dei pubblici uffici è coperta da
riserva di legge relativa, per cui, di fatto, questi regolamenti non sono diversi da quelli di
esecuzione o di attuazione.
I regolamenti ministeriali invece, non pongono problemi di classificazione: essi sono posti in essere
esclusivamente da una legge che conferisce il potere di emanarli. Nella prassi tuttavia, talvolta non è una
legge ma un regolamento governativo a prevederli, questa è una tipica espressione della tendenza del
Governo ad abusare dei poteri normativi sottraendosi ai limiti posti dalla legge.
La riserva di legge serva ad escludere o a limitare il ricorso al regolamento amministrativo, imponendo al
legislatore di provvedere direttamente a disciplinare la materia.
Ma perché la legge rappresenta una garanzia per i cittadini più del regolamento? Il regolamento proviene
da un organo che è, forse più del Parlamento, espressione dell’investitura diretta del popolo. Il
procedimento legislativo (del Parlamento) è dominato dalla pubblicità: in questo modo è resa efficace la
partecipazione delle opposizioni alle decisioni; cosa che non accade per il procedimento decisionale del
governo che è invece caratterizzato dalla riservatezza. È quindi la partecipazione dell’opposizione alla
decisione che segna la differenza e giustifica la riserva di legge come istituto di garanzia.
I regolamenti c.d. delegati e la delegificazione
L’art. 17.2 della legge 400/1988 disciplina anche un fenomeno che ha già fatto molto discutere: quello
dei c.d. regolamenti delegati o autorizzati. La particolarità di questi regolamenti è che essi provocano un
apparente effetto abrogativo delle leggi precedenti. La loro funzione, infatti, è di provocare la cosiddetta
delegificazione, ovvero la sostituzione della precedente disciplina di livello legislativo con una di livello
regolamentare.
La delegificazione si propone quindi, come rimedio alla espansione ipertrofica della legislazione
ordinaria, rimedio che opera declassando la disciplina della materia dalla legge al regolamento.
La delegificazione punta quindi ad un abbassamento del livello della disciplina normativa, nella
convinzione che, in questo modo, essa sia resa pi malleabile e si adatti alla realtà in maniera più agile e
veloce. La deregolamentazione punta, invece, alla drastica riduzione dell’insieme delle regole che
imbrigliano l’attività dei privati in un certo settore, in modo da consentire l’espansione dell’iniziativa
privata e del mercato. La semplificazione, intende invece eliminare il peso e i costi degli asfissianti
procedimento burocratici attorno ad una materia, che opprimono inutilmente la vita dei privati e delle
imprese.
Se ne ricava che “delegificare” non significa affatto ridurre il numero delle norme, anzi spesso la
disciplina regolamentare è molto dettagliata: non è detto che la delegificazione influisca positivamente
sulla semplificazione. In comune i programmi impliciti in questi termini hanno soltanto il fatto di tendere
tutti ad adeguare l’apparato statale al mercato, alla sua dinamica, al suo bisogno di libertà.
Il regolamento amministrativo non può produrre l’abrogazione delle leggi ne tantomeno può essere
autorizzato a farlo da una legge ordinaria, perché questo violerebbe il principio di tipicità e tassatività
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delle fonti primarie. La dottrina ha sviluppato un sistema che la legge 400/1988 riprende senza
modifiche: in sostanza l’effetto abrogativo scaturisce da una legge ordinaria che fa decorrere l’effetto di
tale abrogazione alla data di entrata in vigore del regolamento del quale autorizza l’emanazione. Si tratta
di un regolamento governativo di attuazione che non può essere previsto in materie coperte da riserve di
legge assoluta.
Le leggi Bassanini: “con effetto dalla entrata in vigore delle norme regolamentari , sono abrogate le
disposizioni vigenti con esse incompatibili la cui ricognizione spetta al regolamento stesso”. Questa
norma autorizza il Governo ad adottare misure per la semplificazione delle norme con documentazione
amministrativa, emanando norme regolamentari alla cui entrata in vigore sono abrogate le disposizioni
vigenti, con esse incompatibili, anche di legge.
Davvero in questi casi l’effetto abrogante delle leggi è conferito alla legge e non ai regolamenti stessi?
Che dire poi dei drastici meccanismi introdotti dalla “legge di semplificazione” del 2005 attraverso le c.d.
leggi taglia- legge. Si designava un procedimento complesso in cui il Governo era delegato ad
individuare le leggi attualmente vigenti e poi ad individuare le leggi che meritano di essere salvate da una
generale automatica abrogazione disposta dalla legge stessa. A seguito della selezione con due decreti-
legge ed un decreto legislativo sono state abrogate migliaia di leggi, spesso anche precedenti alla
Repubblica e considerate già tacitamente abrogate.
Ma leggi e regolamenti esauriscono le fonti normative dello Stato? Il principio di tipicità delle fonti-atto
richiede che l’ordinamento determini con esattezza i procedimenti e le forma con cui possono essere
prodotte le norme generali e astratte a cui tutti dobbiamo attenerci e che i giudici e gli apparati
amministrativi devono applicare. La tipicità risponde ad esigenze di certezza e legalità, però, mentre tale
principio è tassativo per le fonti primarie, non è così per quelle sub-primarie, poiché la loro disciplina è
affidata alla legge ordinaria.
In linea di principio però l’attribuzione di un atto alla categoria dei regolamenti segue criteri sostanziali e
non formali: quale che sia la denominazione impiegata, se l’atto contiene norme generali e astratte che
innovano l’ordinamento giuridico si tratta di un regolamento amministrativo, altrimenti se non rispetta
requisiti formali posti dalla Costituzione o dalla legge, sarà un regolamento amministrativo illegittimo. Ci
sono zone d’ombra in cui è difficile veder chiaro, create da processi in corso nella società che spingono
verso la proliferazione di atti regolativi autonomi. Uno è il venir meno dei poteri di direzione politica
dell’economia, che ha aperto la strada al sorgere di autorità amministrative indipendenti; un altro è
l’attenuazione dell’autonomia dello Stato rispetto al sistema delle autonomie locali che hanno favorito la
produzione di regole generali ed astratte che sono prodotte da autorità indipendenti, non attraverso le
normali procedure di produzione della legge, ma piuttosto attraverso un processo negoziale tra autorità
pubblica ed operatori privati.
Tale fenomeno è ben noto all’ordinamento europeo, addirittura gli è stato conferito un nome proprio:
“soft law” che ben poco chiarisce in merito a ciò che diritto è e ciò che diritto non è.
Altro problema è quello dei c.d. atti amministrativi generali. I requisiti di generalità ed astrattezza sono
tipici delle norme giuridiche mentre singolari e concrete sono le sentenza del giudice e delle attività
amministrativa in applicazione al caso concreto. Ci sono però alcuni atti che sembrano sfidare questo
principio della divisione dei poteri: i più dibattuti sono le ordinanze amministrative che, in base a
specifiche previsioni di legge, possono essere emanate in caso di urgenza e necessità, anche in deroga alle
disposizioni di legge per fronteggiare situazioni eccezionali a termine. Esse, pertanto, dovrebbero
produrre effetti nei limiti delle circostanze che ne legittimano l’adozione, ma non hanno contenuto
predeterminabile per via legislativa.
La Corte costituzionale ha precisato che le ordinanze di necessità ed urgenza non sono da ricomprendere
tra le fonti del nostro ordinamento giuridico, poiché sono autorizzate, non a modificare, ma solo a
derogare il diritto vigente, inoltre, l’autorizzazione ad emanarla deve essere disposta da una legge che ne
delimiti il contenuto.
Ancora diversa è la categoria dei cosiddetti “atti interni” della pubblica amministrazione, quelli con scopo
organizzativo che servono nelle strutture complesse per regolarne le attività. Possono valere come fonte
dell’ordinamento particolare a cui si riferiscono ma non hanno alcuna efficacia nell’ordinamento
generale. Un esempio sono le circolari: queste sono fondamentali nell’attività degli uffici amministrativi.
Il pubblico impiegato non applica la teoria delle fonti, non da precedenza ne alla Costituzione ne alla
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legge formale, deve solo attenersi a ciò che gli prescrive la circolare.

CAPITOLO X – LE FONTI DELLE AUTONOMIE


Sono fonti dell’ordinamento regionale: lo Statuto, la legge regionale e il regolamento regionale.
Ogni regione ha uno statuto ma gli statuti sono di tipo diverso: sulla base di questa diversità si
distinguono Regioni a statuto speciale e Regioni a statuto ordinario. Gli Statuti delle Regioni speciali
servono a disciplinare i loro poteri, oltre alla loro organizzazione. Mentre le Regioni ordinarie sono
sottoposte alla stessa disciplina comune, dettata dal Titolo V, le cinque Regioni a statuto speciale hanno
ciascuna una propria disciplina derogatoria rispetto a quella costituzionale. Gli statuti conferiscono nel
caso delle Regioni speciali il fondamento stesso dell’autonomia: essi sono adottati con legge
costituzionale (art. 116).
Differente è la funzione degli Statuti ordinari: mentre in precedenza era la stessa Costituzione a
determinare i tratti fondamentali della forma di governo, ora tale competenza è demandata integralmente
agli statuti. In seguito, con la legge 2/2001, anche alle Regioni speciali è stata concessa una certa
autonomia nello scegliersi la forma di governo: un’unica legge costituzionale ha determinato una
modifica in ogni singolo statuto speciale, stabilendo che la Regione possa dotarsi di una propria legge
statutaria che ridisegni la forma di governo e il sistema elettorale. Si tratta di una legge regionale
rinforzata poiché deve essere approvata a maggioranza assoluta e può essere sottoposta a referendum
approvativo se lo richiede una frazione del corpo elettorale o dell’assemblea regionale.
Procedimento di formazione
Lo Statuto delle Regioni speciali è, dopo la riforma, una legge costituzionale particolare:
- parte delle sue disposizioni è derogabile attraverso una legge regionale rinforzata: lo Statuto
subisce un depotenziamento determinato dal processo di “decostituzionalizzazione”, ossia il
declassamento del livello della Costituzione a quello della legislazione ordinaria;
- anche il procedimento di revisione degli Statuti è semplificato: la legge cost. prevede che future
modifiche degli Statuti speciali, non siano sottoposte a referendum costituzionale.
Già prima della riforma, in tutte le Regioni a statuto speciale (esclusa la Sicilia) era previsto che le
disposizioni attinenti alle finanze regionali potessero essere mutate con una legge statale ordinaria; lo
Statuto di alcune Regioni speciali poi, permetteva già l’adozione di una propria disciplina statutaria in
alcune materie definite. Va ricordato, inoltre che l’adozione degli Statuti speciali risale, in alcuni casi, ad
un’epoca anteriore alla Costituzione stessa e che, l’Assemblea costituente non ebbe il tempo materiale per
armonizzare gli Statuti con la nuova Costituzione. I problemi di coordinamento fra i due ordinamenti
furono perciò notevoli fin dall’inizio.
Anche lo Statuto delle Regioni ordinarie ha subito una riforma, che riguarda per lo più la procedura di
formazione:
Prima della legge costituzionale 1/1999 lo Statuto regionale era approvato e modificato con legge
ordinaria rinforzata. La proposta nasceva in Regione e doveva essere approvata dal Consiglio regionale a
maggioranza assoluta, quindi veniva trasmessa al Governo, che la trasformava in vera e propria iniziativa
legislativa, senza intervenire nel merito. Alle Camere spettava l’approvazione e al Presidente della
Repubblica la promulgazione, cui seguiva pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Tuttavia, grazie a questo
procedimento, le commissioni parlamentari intervennero pesantemente nelle scelte compiute dai Consigli
regionali, chiedendo e ottenendo da essi rilevanti modifiche dei testi originari, creando una serie di Statuti
per lo più omogenei.
Il ‘nuovo’ art. 123 ha stabilito che lo Statuto sia approvato (e modificato) dal Consiglio regionale con
legge approvata dalla maggioranza dei suoi membri, con due deliberazioni successive adottate con
intervallo di almeno due mesi. Il Governo ha la possibilità di impugnarlo direttamente davanti alla Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione. Entro 3 mesi dall’avvenuta pubblicazione, 1/50
degli elettori della Regione, o 1/5 dei componenti del Consiglio, può proporre un referendum
approvativo. La stessa Corte costituzionale ha confermato che la pubblicazione che avviene dopo le due
sedute consecutive da parte del Consiglio, non ha effetto ufficiale, ma solamente notiziale. Decorso il
tempo utile per il referendum o per l’impugnazione seguirà la promulgazione da parte del Presidente della

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Repubblica e, solo allora verrà pubblicata in Bollettino ufficiale regionale.
Natura e funzione degli statuti ordinari
Gli Statuti delle Regioni ordinarie si presentano dunque come leggi regionali rinforzate. Si è conferito
molto spazio di scelta alle Regioni: prima della riforma lo statuto doveva restare nell’ambito dei principi
fissati dalla legislazione statale, ora gli unici limiti sono quelli derivanti dal puntuale rispetto di ogni
disposizione della Costituzione. Lo Statuto quindi funge da limite sia per le leggi dello Stato (che non
possono regolarne gli ambiti di competenza), sia per le leggi regionali, rispetto alle quali sono
sovraordinate gerarchicamente.
Leggi regionali
La legge regionale è una legge ordinaria formale. La forma della legge le è data dal procedimento, che
rispecchia il procedimento di formazione delle leggi statali. La sua collocazione fra le fonti primarie è
giustificata sia perché la competenza della legge regionale è garantita dalla stessa Costituzione, sia perché
la Costituzione la pone su un piano di concorrenza e di separazione di competenza con la legge statale.
Il procedimento di formazione della legge regionale è disciplinato in minima parte dalla Costituzione, in
parte dallo Statuto e il resto è rimandato al regolamento interno del Consiglio regionale. Queste le fasi
essenziali del procedimento:
- Iniziativa, che spetta, oltre che alla Giunta ed ai Consiglieri regionali, ad altri soggetti individuati
dagli Statuti;
- Approvazione in Consiglio regionale, approvata a maggioranza relativa; ma gli Statuti possono
prevedere quorum più alti. Ad essi spetta anche il compito di definire come ed in che misura
all’approvazione può partecipare l’organo collegiale del Consiglio delle autonomie.
- Promulgazione del Presidente della Regione e pubblicazione sul B.U.R.
Allo Stato è consentito solo di impugnare le leggi regionali successivamente alla loro pubblicazione, cioè
quando esse sono già in vigore, senza poter esercitare un veto preventivo, come accadeva prima della
riforma costituzionale del 2001.
Prima della riforma del Titolo V la delibera legislativa veniva trasmessa al Governo che autorizzava la
legge o ne disponeva il rinvio al Consiglio regionale. A seguito del rinvio il Consiglio poteva riapprovare
la stessa legge a maggioranza assoluta: il Governo poteva, in questo caso impugnare la legge di fronte
alla Corte costituzionale per vizi di legittimità. Ora che il meccanismo del controllo preventivo è stato
eliminato e negli Statuti regionali prevale la soluzione di affidare il controllo agli organi interni al
Consiglio stesso. La Corte ha però specificato che i compiti di questi organi devono essere
esclusivamente preventivi e svolgersi durante il processo di formazione della legge, poiché la valutazione
di legittimità successiva alla promulgazione è prerogativa della Corte stessa.
L’estensione della potestà legislativa regionale
La riforma del titolo V ha completamente cambiato l’autonomia legislativa delle Regioni.
Prima della riforma, nell’esercizio della loro potestà legislativa, le Regioni incontravano limiti di vario
tipo. Innanzitutto si distingueva il limite di legittimità ed il limite di merito: i primi potevano essere fatti
valere dal Governo davanti alla Corte costituzionale e i secondi di fronte alle Camere. Poi, i limiti di
legittimità erano in parte generali e in parte specifici. I primi erano comuni a tutte le Regioni perché di
fatto connessi alla natura della legge stessa come fonte primaria e all’ente regionale stesso inteso come
ente derivato, territoriale a competenza limitata. I limiti specifici invece portavano a distinguere tra la
potestà primaria o esclusiva, riservata alle sole Regioni speciali, la potestà ricorrente o tripartita e la
potestà attuativa legata al completo rispetto della legge statale.
Mentre lo Stato federale si forma mediante Stati sovrani che cedono parte dei loro poteri ad un’unità
centrale, lo Stato regionale segue il processo inverso: uno Stato unitario “devolve” parte dei sui poteri ad
entità periferiche. Il testo precedente dell’articolo 117 prima della riforma del Titolo V elencava le
materie in cui le Regioni ordinarie avevano potestà legislativa, aggiungendo che le leggi ordinarie
dovevano delegare ulteriori competenze alle Regioni. Ora, invece il nuovo art. 117 stabilisce:
 un elenco di materie in cui la potestà legislativa è esclusiva dello Stato;
 un elenco di materie su cui le Regioni hanno potestà legislativa concorrente: la legislazione

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statale determina i principi fondamentali, e il resto della disciplina compete alle Regioni;
 una clausola residuale per cui tutte su tutte le materie non comprese nei suddetti elenchi la
potestà legislativa spetta alle Regioni (potestà legislativa residuale delle Regioni)
Uno degli aspetti più importanti della riforma è la cancellazione delle materie concorrenti. Cambiamenti
sostanziali si hanno anche per ciò che riguarda le materie residuali delle Regioni: il nuovo testo dell’art.
117 prevede un elenco delle materie di competenza esclusiva regionale che dovrebbe ridare spazio
all’autonomia territoriale che la giurisprudenza ha ridotto negli anni sensibilmente.
Tuttavia sono da considerare fattori ulteriori, ancora in fase di messa a punto attraverso la prassi e la
giurisprudenza della Corte costituzionale:
- gli obblighi internazionali. Per ciò che riguarda gli obblighi internazionali, mentre prima era solo
la legislazione regionale ad essere tenuta al rispetto di questi obblighi contratti dallo Stato, dopo
la riforma dell’art. 117, la posizione del legislatore regionale e quella di quello statale è
parificata: entrambi sono vincolati al rispetto oltre che delle disposizioni UE anche degli
obblighi internazionali. Anche la legge statale è illegittima se in contrasto con i trattati
internazionali, interpretazione confermata di recente anche dalla Corte costituzionale. Inoltre,
viene consentito alle Regioni di stipulare accordi con enti territoriali interni ad altri Stati (art.
117.9), rinviando alla legge statale la definizione dei casi e delle forme con cui questa facoltà
può essere esercitata;
- le interferenze statali nelle materie regionali. Molte materie esclusive dello stato non hanno
ambito circoscrivibile, poiché rappresentano piuttosto dei valori o degli obiettivi. Esse “tagliano”
le materie di competenza regionale (la Corte le ha chiamate materie trasversali) nel senso che le
leggi statali che perseguono tali obiettivi possono incidere anche in materie riservate alle
Regioni.
Le materie trasversali, perseguono obiettivi che spingono il legislatore a dettare norme che
inevitabilmente ricadono su materie tipicamente regionali. Naturalmente ciò provoca una frequente
sovrapposizione tra le leggi dello Stato e quelle delle Regioni. La Corte ha affermato che, in questi casi,
lo Stato deve cercare l’intesa con le Regioni e che le norme statali vincoleranno quelle regionali solo
come principi. Questa situazione rende assai incerto il confine tra competenze dei due enti. La Corte
costituzionale cerca di risolverlo valutando, di volta in volta, quale sia l’interesse prevalente e quando
invece l’intreccio sia così stretto da rendere indispensabile la collaborazione tra i due enti.
Inoltre anche tra le materie di legislazione concorrente ve ne sono alcune per loro natura trasversali . Sono
porte che consentono allo Stato di imporre scelte uniformi sul piano nazionale, e costituiscono perciò aree
di forte conflittualità tra Stato e Regioni.
Una delle materie che si sono rivelate chiave nel sistema dei rapporti tra Stato e Regioni è la tutela della
concorrenza. Tale materia, ha affermato la Corte costituzionale, viene letta come lo strumento per
unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese
e consente allo Stato di disporre interventi di natura macroeconomica mentre alle Regioni lascia la
possibilità di predisporre interventi sintonizzanti sulla realtà produttiva regionale tali da non creare
ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni e da non limitare l’esercizio del
diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
- la sussidiarietà. L’art. 118 cost. introduce il concetto di sussidiarietà come criterio di
distribuzione delle funzioni amministrative. La sussidiarietà comporta che alcune competenze
vengano attratte verso l’alto perché non possono convenientemente essere esercitate in basso o
perché richiedono coordinamento centrale. La sussidiarietà finisce col consentire talvolta uno
sconfinamento dello Stato dalle sue materie: in questi casi la Corte richiede che sia sempre
rispettato il principio di leale collaborazione, ossia che le Regioni siano coinvolte nelle decisioni;
- la successione delle leggi nel tempo. Resta in dubbio come lo Stato possa imporre alle Regioni il
rispetto delle proprie leggi, specie delle nuove leggi, che fissano principi fondamentali nelle
materie di competenza concorrente (c.d. legge cornice), in presenza di leggi regionali precedenti
contrastanti.
Trattandosi di fonti dello stesso livello, dovrebbe applicarsi il criterio cronologico, per cui le norme della
legge cornice dovrebbero abrogare le precedenti regionali. Tuttavia, dato che la legge cornice deve
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contenere norme di principio, intercorre una relazione tra genere e specie, con la conseguente
applicazione del criterio di specialità, che comporta che lo Stato, emanando i nuovi principi della legge
cornice, non abbia alcuno strumento per imporli alle Regioni, che possono di fatto mantenere in vita la
loro legislazione precedente. La situazione è paradossale: il Governo può attuare provvedimenti solo nei
confronti della Regione che si premura di aggiornare la legge ai nuovi principi (sbagliando, per il
Governo) e non quella che lascia inapplicata del tutto la legge cornice. La prassi ha risolto il problema
corredando di leggi di dettaglio la legge cornice in modo da consentire a queste di abrogare le leggi
regionali precedenti.
Il nuovo Titolo V tuttavia lascia il problema in sospeso: le prime indicazioni della Corte hanno restaurato
la clausola di cedevolezza, la regola per cui le norme legislative di dettaglio emanate dallo Stato nelle
materie di competenza regionale sostituiscono quelle regionali in vigore e cedono, in seguito, di fronte
alle nuove leggi regionali.
- La potestà legislativa delle Regioni speciali. I vecchi Statuti speciali restano formalmente in
vigore; essi sono ancora legati alla vecchia logica per cui si elencano le materie attribuite alle
Regioni e i diversi elenchi sono divisi secondo il livello di potestà regionale: 1) potestà
esclusiva, prerogativa delle Regioni speciali, caratterizzata da un legame con la legislazione
statale rappresentato da due limiti specifici: a) limite dei principi generali dell’ordinamento
specifico, sono per lo più norme non scritte ricavabili non dalle singole leggi ma dall’insieme
della legislazione; b) limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, ovvero lo
strumento con cui lo Stato dispone per imporre a tutte le Regioni i principi innovativi di ogni
legge di riforma; 2) potestà concorrente; 3) potestà integrativa o attuativa, che consente alla
Regione speciale di emanare norme per adeguare la legislazione dello Stato alle particolari
esigenze regionali.
Cosa resta dell’assetto previsto dagli Statuti speciali dopo che la riforma del Titolo V ha completamente
mutato la logica di ripartizione delle funzioni tra Stato e Regione? La riforma non a risolto il problema,
ma si è limitata ad introdurre la clausola del ‘maggior favore’ per cui sino all’adeguamento dei rispettivi
statuti, le presenti disposizioni si applicano anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome
di Trento e Bolzano per le parti che prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già
attribuite.
Regolamenti regionali
Le riforme costituzionali hanno fortemente inciso sulla funzione regolamentare delle Regioni, sia per ciò
che riguarda la competenza degli organi, sia per l’estensione del potere.
La Costituzione, prima della riforma introdotta dalla legge 1/1999, dettava una norma che aveva risvolti
considerevoli sui regolamenti regionali: il potere regolamentare era attribuito al Consiglio regionale,
anziché alla Giunta. Questo valeva per le sole Regioni ad ordinamento comune, poiché nelle Regioni
speciali era lo statuto a disciplinare l’argomento.
La principale conseguenza era che le Regioni ricorrevano pochissimo al regolamento. Il procedimento di
formazione di questo non si differenziava da quello della legge (contrariamente a quanto accade per il
Governo, che ricorre al regolamento per evitare di dover subire i tempi e le mediazioni del procedimento
legislativo parlamentare); inoltre, il regolamento come ogni atto amministrativo, potrebbe essere
impugnato sia dal Governo per conflitto di attribuzione, sia dai privati di fronte al Tribunale
amministrativo regionale; mentre la legge regionale sarebbe comunque soggetta soltanto
all’impugnazione di fronte alla Corte costituzionale.
La riforma costituzionale del Titolo V ha introdotto il principio di parallelismo tra le funzioni legislative
e le funzioni regolamentari, limitando la potestà del governo di emanare regolamenti alle sole materie in
cui lo Stato ha potestà legislativa esclusiva. L’art. 117 del testo riformato prevede anche che, sempre
nelle materie di sua competenza legislativa, lo Stato possa delegare le Regioni. Quindi è del tutto logico
che sia la Regione a disciplinare (con regolamento o legge, a seconda del proprio Statuto) lo svolgimento
delle funzioni che è chiamata ad esercitare; neppure in questo caso quindi, è ammesso che il regolamento
statale vincoli le Regioni. Nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento regionale, ovviamente, i
regolamenti sono sottoposti alla legge: ma questa è sottoposta allo Statuto. Spetta quindi allo Statuto
decidere se le leggi possano liberamente disporre della funzione regolamentare o se vi siano oggetti che
sono di competenza riservata ai regolamenti oppure ancora se l’esecutivo possa dare attuazione
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direttamente con regolamento. Buona parte della disciplina della potestà regolamentare dipende dallo
Statuto regionale e può dunque differenziarsi notevolmente da Regione a Regione.
Fonti degli enti locali
La riforma del titolo V ha modificato anche la posizione costituzionale degli enti locali: essa attribuisce
rilevanza costituzionale agli Statuti degli enti locali, riconosce ad essi la potestà regolamentare in ordine
alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni a loro attribuite. Se gli enti locali
ritrovano nella Costituzione il fondamento della loro autonomia, è la legge a determinare le competenze e
le modalità di esercizio: quindi l’autonomia normativa degli enti locali si svolge tutta con atti subordinati
alla legge, a quella statale come a quella regionale. La Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva
del legislatore statale la disciplina della legislazione elettorale degli enti locali. Spetta poi alla legge
statale o a quella regionale conferire agli enti locali le altre funzioni.
La legge 142/1990, assorbita poi nel T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali prevede che i
Comuni si dotino di Statuti approvati dal Consiglio con maggioranze particolari, che devono dettare
norme fondamentali sull’organizzazione dell’ente. Quanto alle Province e alle Città metropolitane, i loro
Statuti sono regolati dalla legge Delrio. Il T.U. è precedente alla riforma costituzionale: eventuali conflitti
fra statuti e legislazione vigente sono risolti da una sentenza della Corte che ha affermato che ferma
restando la disciplina di principio degli organi di governo dettata dal T.U., gli Statuti degli enti locali
hanno una loro “competenza riservata” e non sono vincolanti alle disposizioni di dettaglio contenute nella
legislazione vigente.
Il regolamento è lo strumento normativo tipico degli enti locali. Serve all’organizzazione dell’ente ma
anche a disciplinare le materie che sono di sua competenza. Il nuovo art. 117 concede un inedito
riconoscimento costituzionale all’autonomia regolamentare degli enti locali; su questo punto qualche
chiarimento è offerto dagli Statuti regionali, nel senso di dettare una disciplina delle leggi regionali che
sia rispettosa dell’autonomia regolamentare degli enti locali. La Corte costituzionale ha affermato che il
legislatore regionale non può comunque limitare la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle
Province in riferimento all’organizzazione ed all’esercizio delle funzioni loro affidate dalla Regione.

CAPITOLO XI – FONTI EUROPEE


Il sistema delle fonti europee
Per definire il sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico europeo, la distinzione principale è quella
fra: diritto convenzionale e diritto derivato. Le fonti del diritto convenzionale consistono nei trattati, con
cui l’UE è stata istituita e successivamente sviluppata e modificata. Nei trattati sono definiti gli organi
dell’Unione e i loro poteri normativi: questi si esprimono attraverso atti normativi che costituiscono il
diritto derivato.
Non di rado i trattati vengono definiti come la Costituzione europea, effettivamente essi costituiscono una
fonte gerarchicamente superiore al diritto derivato, e tale supremazia è garantita da un organo apposito di
garanzia: la corte di giustizia dell’Unione Europea. La Corte ha giurisdizione esclusiva per ciò che
riguarda l’interpretazione del trattato e del diritto derivato, nonché del giudizio di legittimità sul diritto
derivato.
Inoltre, il carattere costituzionale del Trattato è rafforzato dall’introduzione in esso, col Trattato di
Maastricht, di un richiamo esplicito a diritti fondamentali: con ciò si conferisce alla Corte un compito
tipico degli organi di garanzia costituzionale, ovvero il controllo sul rispetto dei diritti costituzionali da
parte del diritto derivato.
Diritto derivato: tipologia delle fonti europee
Le fonti del diritto derivato si distinguono in atti vincolanti e atti non vincolanti.
Gli atti non vincolanti sono le raccomandazioni UE (inviti rivolti agli Stati a conformarsi ad un certo
comportamento) e i pareri che ogni organo dell’UE può emanare (che esprimono il punto di vista di un
organo su un determinato oggetto): questi atti non esprimono norme in senso tradizionale, sanzionabili e
vincolanti. Sono invece atti pienamente normativi gli atti vincolanti, essi si distinguono in tre tipologie:
I. Regolamenti UE: hanno le caratteristiche che sono tipiche della legge. Hanno portata generale,
pongono norme generali ed astratte, sono obbligatori in tutti i loro elementi, non possono essere
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applicati parzialmente nei singoli Stati membri. Inoltre, “il regolamento UE è direttamente
applicabile in ogni Stato membro”: la diretta applicabilità significa che non è necessario che un
atto dello Stato ne ordini l’immissione nell’ordinamento nazionale, perché il regolamento si
impone per forza propria, e la sua applicazione è obbligatoria per tutti, compresi i giudici e la
pubblica amministrazione degli Stati membri.
II. Direttive UE: sono atti normativi destinati agli Stati membri che li vincolano al raggiungimento
di un obiettivo, rimandando alla competenza nazionale in merito alla forma ed ai mezzi. Lo Stato
ha un obbligo di risultato che deve raggiungere nel tempo utile, mentre ha discrezionalità per ciò
che riguarda la scelta delle forme e dei mezzi. Ciò significa che lo Stato può scegliere, in
applicazione del proprio ordinamento, se dare attuazione alle direttive con regolamento, legge o
anche solo con comportamenti dell’amministrazione pubblica. Nella prassi capita spesso che la
direttiva non si limiti a fissare “obiettivi”, ma detti discipline assai particolareggiate (c.d.
direttive dettagliate) che limitino la discrezionalità in modo da ottenere risultati uniformi.
III. Decisioni UE: hanno caratteristiche che sono tipiche del provvedimento amministrativo, sono
direttamente applicabili ma, a differenza e dei regolamenti UE hanno portata particolare. Sono
atti in cui le istituzioni UE applicano norme generali ed astratte poste da fonti normative
comunitarie alle fattispecie particolari e concrete. Le decisioni Ue quindi non rientrano nel
nostro concetto di fonte del diritto.
Non è definibile un rapporto di gerarchia tra le fonti derivate; spesso anzi, è lo stesso Trattato ad
individuare con quale atto le istituzioni europee possono intervenire in una determinata materia. È chiaro
che tra l’atto delegato e l’atto delegante si crei inevitabilmente un rapporto di gerarchia.
‘Diretta applicabilità’ ed ‘effetto diretto’
La ‘diretta applicabilità’ è una qualità di determinati atti europei che producono immediatamente i loro
effetti giuridici nell’ordinamento nazionale, senza l’interposizione di un atto normativo nazionale. Questa
qualità è una caratteristica tipica dei regolamenti UE, che li differenzia dalle direttive UE. Essi sforano la
membrana della sovranità (che si oppone alle direttive) e s’impongono per forza propria nell’ordinamento
nazionale, senza che lo Stato debba frapporre un proprio atto di intermediazione.
Diversamente la nozione di “effetto diretto” che non riguarda gli atti, ma le norme: è perciò una nozione
non definita dal legislatore ma dall’interprete (Corte di giustizia europea), che riconosce le norme che
hanno effetto diretto, ossia che sono applicabili senza l’intermediazione di atti ulteriori (c.d. norme self-
executing). La nozione di effetto diretto è stata introdotta per garantire la prevalenza del diritto europeo
sul diritto interno anche nei casi in cui lo Stato membro, chiamato ad attuare una disposizione senza
immediata applicabilità, ritardi l’emanazione delle norme interne, paralizzando l’operatività della norma
europea nel proprio territorio. Il singolo che ne abbia interesse (se può basare su quella norma una
legittima pretesa) potrà invocare la norme europea e lo Stato non potrà opporvisi. Come si vede
nell’effetto diretto vi è una componente sanzionatoria nei confronti dello Stato negligente che non
provveda all’attuazione degli impegni posti dalle fonti europee, nonché una componente di garanzia per i
singoli.
Nella sentenza Van Gend & Loos la Corte di giustizia aveva affermato l’efficacia diretta dell’art. 25 Tr.
CE per cui “gli Stati membri devono astenersi dall’introdurre nuovi dazi doganali all’importazione o
all’esportazione o tasse di effetto equivalente”, spiegando che “il diritto europeo attribuisce diritti ai
singoli nello stesso modo in cui impone loro doveri, indipendentemente dalle norme degli Stati membri”
e che gli Stati membri “hanno riconosciuto al diritto comunitario un’autorità tale da poter essere fatto
valere dai loro giudici davanti ai giudici nazionali”. Proprio da questa sentenza si è sviluppata la dottrina
dell’efficacia diretta.
Le stesse premesse si ripropongono 30 anni dopo nella sentenza Francovich. La Corte è giunta ad
affermare che “sarebbe lesa la piena efficacia delle norme comunitarie se, i singoli che hanno subito un
danno da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro, non ricevessero un
risarcimento”: la violazione in questione, compiuta dall’Italia, era la conseguenza della mancata
attuazione di una norma cui non era possibile attribuire efficacia diretta. Per la prima volta, in forza del
diritto europeo, si è affacciato nel nostro ordinamento il principio di una forma di responsabilità derivante
dall’omissione legislativa.

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Se si incrociano il principio astratto della diretta applicabilità con il principio concreto delle’efficacia
diretta, si hanno quattro possibilità: 1) norme self-executing espresse da atti direttamente applicabili, con
l’entrata in vigore dell’atto si producono effetti giuridici da esso previsti senza alcuna interposizione; 2)
norme non direttamente efficaci espresse da atti direttamente applicabili, il caso di alcuni regolamenti UE
che definiscono un quadro normativo che deve essere attuato o da altri regolamenti UE o da norme
nazionali; 3) norme self- executing espresse da atti non direttamente applicabili, le ipotesi più frequenti
sono i divieti posti dagli stessi trattati o dalle direttive, così come interpretati dalla Corte di giustizia; 4)
norme non direttamente efficaci espresse da atti non direttamente applicabili, Sono le norme che, di
regola, derivano dalle direttive UE, lo Stato inadempiente può essere chiamato a risarcire il danno
prodotto dalla sua inerzia.

Rapporti tra norme europee e norme interne La limitazione di sovranità e il deficit normativo
Aderendo all’UE, l’Italia ha accettato che le leggi europee entrassero direttamente nel proprio
ordinamento, senza l’intermediazione del legislatore nazionale. La Corte di giustizia ha precisato che
l’effetto diretto comporta la prevalenza del diritto europeo su quello interno.
Se la legge è l’espressione tipica della sovranità, tale atteggiamento segna un cedimento della sovranità
nazionale: la progressiva estensione dell’area di competenza della Comunità ha segnato un’estensione
impressionante della limitazione di sovranità subita dagli Stati membri.
È vero che la Comunità era nata per eliminare le barriere che impedivano la circolazione delle merci e,
per tale scopo era fornita di due meccanismi che consentono agli organi della Comunità di emanare
direttive che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune e
di adottare le disposizioni appropriate per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati senza che questi
ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine. Sono clausole di flessibilità che consentono
un continuo allargamento dell’attività normativa.
In quasi tutti gli Stati europei, l’adesione alla Comunità europea, prima, e l’accettazione delle sue
trasformazioni più salienti, poi, sono state accompagnate da riforme costituzionali, avvenute spesso tra
forti polemiche; in Italia questo non è avvenuto. Le uniche fonti che disciplinano l’adesione dell’Italia
sono la legge di autorizzazione alla ratifica del trattato di Roma e l’ordine di esecuzione in essa
contenuta. Sono fonti primarie sub-costituzionali: bastano a disporre una cessione di sovranità?
La Corte costituzionale ha risposto di si, interpretando in maniera estensiva la disposizione dell’art. 11
della Costituzione che sostiene che “l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (che come è facile intuire si riferiva alla
partecipazione dell’Italia alla Società delle nazioni). La Corte ha potuto leggere così nell’art. 11
l’autorizzazione a cedere parte della sovranità per aderire, in condizioni di parità, all’Unione europea. Il
risultato tuttavia è che manca una vera e propria disciplina dei rapporti tra l’ordinamento italiano e quello
dell’Unione europea. Ciò ha comportato che l’intera disciplina sia stata elaborata dalla giurisprudenza
costituzionale.
Le tappe del cammino comunitario della Corte costituzionale
Che accade se una norma interna è in contrasto con una norma europea? A questa domanda fondamentale
la Corte costituzionale, chiamata più volte a decidere sul contrasto tra le leggi ordinarie ed i regolamenti
UE, ha dato nel tempo risposte differenti, applicando in successione i diversi criteri di risoluzione delle
antinomie.
In un primo tempo, la Corte ha applicato il criterio cronologico: i conflitti tra le leggi italiane e le ‘leggi
europee’ si sarebbero dovuti risolvere secondo le regole della successione della legge nel tempo, le norme
più recenti abrogando quelle meno recenti senza dar luogo a questioni di costituzionalità. Ma questa
soluzione non era affatto gradita alla Corte di giustizia dell’UE, impegnata a garantire sempre e
comunque la prevalenza del diritto europeo. Sicché la Corte costituzionale cercò di adeguare la propria
giurisprudenza adottando il criterio gerarchico: le leggi italiane che contrastassero con un regolamento
precedente UE dovevano essere impugnate davanti alla Corte costituzionale stessa per violazione
indiretta dell’art. 11, cioè degli impegni e delle limitazioni che l’Italia aveva assunto ratificando il
Trattato in attuazione dell’art. 11 stesso. Ma anche questa soluzione non era priva di inconvenienti: la
Corte costituzionale, impegnata nel primo ed unico processo penale a carico di alcuni ministri coinvolti
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nello scandalo Lockhead, accumulò un arretrato consistente: ciò significa che il regolamento UE è
rimasto violato per anni senza rimedio.
È emblematica la vicenda Granital, da cui la Corte costituzionale trarrà l’occasione per modificare
ulteriormente la sua giurisprudenza.
Un’impresa italiana, la Granital, ha una complicata vertenza con la dogana italiana in merito all’imposta
da pagare per l’importazione di orzo canadese. È un’intricata questione d’interpretazione della normativa
europea sui dazi, ulteriormente complicata dall’emanazione nelle “more del giudizio” di una norma
nazionale che dispone diversamente dall’interpretazione che la Corte di giustizia ha dato alla disciplina
europea.
Il tribunale impugna la legge italiana di fronte alla Corte costituzionale: siamo nel 1979, la Corte
costituzionale è impegnata nel processo penale nel caso Lockheed, i ricorsi contro le leggi si accumulano.
La Corte risponderà alla questione Granital solo nel 1984, dodici anni dopo l’episodio che l’ha fatta
nascere.
Per tutti gli anni che passano dall’entrata in vigore della norme europea, all’impugnazione della legge
italiana contrastante di fronte alla Corte e, infine, alla sentenza di illegittimità, la norma europea è di fatto
disattesa.
Il caso Granital offre alla Corte costituzionale l’occasione di una modifica radicale nel sistema dei
rapporti tra diritto europeo e diritto interno. A cambiare è essenzialmente il criterio di risoluzione delle
antinomie: per farlo la Corte deve elaborare impegnative premesse teoriche. La sentenza 170/1984, nota
come Granital o La Pergola, sviluppa il suo ragionamento attraverso i punti seguenti:
- l’ordinamento europeo e l’ordinamento italiano sono due sistemi distinti, autonomi e separati,
ognun col proprio sistema di fonti. È la c.d. teoria dualistica.
- La normativa europea ‘non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta
al regime disposto per le leggi (e gli atti con forza di legge) dello Stato’. Non esiste neanche un
vero e proprio conflitto fra fonti europee e nazionali: ognuna è valida ed efficace nel proprio
ordinamento, secondo le condizioni poste dall’ordinamento stesso.
- Con la ratifica e l’ordine di esecuzione del Trattato, il legislatore italiano ha riconosciuto che le
istituzioni dell’Unione abbiano competenza nell’emanare norme che si impongano direttamente
nell’ordinamento italiano, non perché abbiano forza di legge ma per la forza che gli attribuisce il
Trattato. Quindi, è il Trattato a segnare la ripartizione di competenza tra i due ordinamenti e il
regime giuridico delle fonti europee.
- I conflitti che eventualmente sorgano, vanno risolti dal giudice italiano applicando il criterio di
competenza. Il giudice deve accertare se, in base al Trattato, sia competente l’ordinamento
italiano o quello europeo ed applicare di conseguenza la norma competente. La norma interna
eventualmente non applicata non viene ne abrogata ne dichiarata illegittima ma semplicemente
non-applicata. Resta valida ed applicabile eventualmente in un altro caso.
Se il giudice invece trova una legge in contrasto con la Costituzione, non può disapplicare la prima ed
applicare la seconda, ma deve investire della questione la Corte costituzionale (giudizio incidentale di
legittimità costituzionale). Nessuna legge può essere disapplicata dal giudice, neppure se si tratta di
applicare una regola precisa della Costituzione, ma come mai questo principio si sovverte se ad essere
lesa dalla legge non è la Costituzione ma una legge europea? La disapplicazione è un effetto che evoca un
vizio dell’atto: il giudice ad esempio può disapplicare il regolamento che ritenesse illegittimo (mentre
solo il giudice amministrativo potrebbe annullarlo). L’ipotesi di disapplicazione implicherebbe un
giudizio sulla validità della legge in questione; la non-applicazione invece è frutto di una scelta della
norma competente a disciplinare la materia sulla base del riparto di attribuzioni tracciato dal Trattato,
senza alcun giudizio sulla validità della legge.
La disapplicazione può apparire come un accertamento di illegittimità con giudizio inter partes, mentre la
non applicazione implica solo la definizione dell’ambito di applicazione di norme che si suppongo tutte
valide ed efficaci. La Corte europea non può accertare che in uno Stato membro siano ritenute valide e
restino in vigore leggi contrarie alle norme europee.
Contrasto tra norme interne e norme europee: il quadro attuale

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Dalla sentenza Granital (sent. 170/1984) e dalle successive, si ricava il seguente quadro dei rapporti tra
legislazione europea e nazionale:
a) Contrasto fra legge ordinaria e norme UE self-executing: va applicata la legge europea e la legge
italiana non va applicata. Attenzione a due aspetti: questa regola vale solo e per tutte le norme
europee munite di effetto diretto, quindi non solo le norme dei regolamenti UE, ma tutte le
norme europee self-executing comportano la non applicazione della legge italiana contrastante;
inoltre, questa regola è rivolta a tutti i soggetti di applicazione del diritto.
Mettiamo che Herr Müller, cittadino tedesco, decida di trasferire la sua attività in Italia e cerchi casa.
Müller prova a chiedere un mutuo agevolato per la prima casa, ma all’ufficio comunale gli rispondo
picche: la legge regionale richiede la cittadinanza italiana per ottenere le agevolazioni. Müller non ci sta e
denuncia il fatto alla Commissione, questa porta l’Italia di fronte alla Corte di giustizia accusandola di
aver violato la libera circolazione dei lavoratori introducendo norme discriminatorie basate sulla
nazionalità. La Corte dà ragione alla Commissione in quanto ritiene che la norme italiana sia un modo per
ostacolare l’eguaglianza di opportunità e concorrenza dei lavoratori italiani e quelli di altri Paesi. Il
Governo italiano invia alle Regioni un atto con cui le invita a conformarsi alle sentenze della Corte di
giustizia. Una Regione impugna l’atto per conflitto di attribuzione ma la Corte costituzionale le da torto:
l’atto impugnato ha solo titolo informativo, è chiaro quindi che le amministrazioni hanno l’obbligo di
applicare la norma europea per la forza che essa stessa ha (e non in conseguenza dell’atto del Governo),
in questo caso la norma self-executing l’ha creata la Corte di giustizia.
b) Contrasto fra legge ordinaria italiana e norme UE non self-executing: se la norma europea non
può avere effetto diretto significa che non possiede quelle caratteristiche che la rendono
immediatamente operativa nell’ordinamento, cioè applicabile in sostituzione di quelle interne. Il
principio di prevalenza dell’ordinamento europeo impedisce al giudice di continuare ad applicare
la norma in contrasto con esso, per cui se al giudice pare che una norma contrasti con la norma
europea non self-executing, dovrà sollevare la questione di legittimità costituzionale di fronte
alla Corte costituzionale, lamentando l’indiretta lesione dell’art. 11.
c) Contrasto fra norme sub-legislative e norme UE: il regolamento o il provvedimento che contrasti
con una norma europea è illegittimo, per violazione dell’ordine di esecuzione. Il contrasto è
risolto con l’applicazione del criterio di gerarchia che si pone tra il regolamento amministrativo e
l’ordine di esecuzione.
d) Contrasto fra norme costituzionali e norme europee: la Corte costituzionale ha ammesso che le
norme europee possono comportare deroghe alle norme costituzionali di dettaglio ma non ai
principi fondamentali della Costituzione (c.d. teoria dei controlimiti). Il vero problema è cosa
accade se la norma europea lede un principio fondamentale della Costituzione. Va ricordato che,
gli atti normativi dell’Unione europea, sono ancora concepiti, nel nostro ordinamento, come
fatti-normativi e non come atti. Se una norma europea lede un principio costituzionale, la sola
via possibile è di impugnare l’unica disposizione con forza di legge del nostro ordinamento,
ovvero l’ordine di esecuzione del Trattato. È una formula vuota che potrà essere impugnata nella
parte in cui essa consente l’ingresso nel nostro ordinamento di quella specifica norma europea
incompatibile con la nostra Costituzione.
I giudici di fronte al diritto europeo
La teoria dualistica che la Corte costituzionale ha assunto come premessa per intendere i rapporti tra
ordinamento europeo ed ordinamento nazionale affonda le sue radici in una concezione tradizionale
dell’Unione europea, come un’organizzazione comune creata da Stati sovrani con strumenti di diritto
internazionale. Nella prassi essa si è conformata piuttosto come un’organizzazione che ha elaborato
strumenti propri degli Stati federali. La teoria dualistica sembra inadeguata a descrivere i rapporti che
intercorrono tra i due ordinamenti proprio perché la conformazione che si è venuta a creare è una via di
mezzo fra le due.
Tutta la ricostruzione fatta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale si basa su una premessa: che vi
sia una separazione netta tra le competenze dell’UE e dello Stato. Ma non è così. Si è visto come, le
competenze europee sono espresse in forma di obiettivi, i c.d. poteri impliciti perciò, hanno una forza di
espansione dei compiti europei assolutamente incontenibile.

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Il principio di sussidiarietà non fissa un reparto di competenza, ma anzi annuncia che tale divisione non
c’è più come assetto rigido e preventivamente determinato: è l’opportunità, non il diritto a dire chi fa che
cosa.
L’aspetto più paradossale della concezione dualistica è che abbiamo due ordinamenti “autonomi e
distinti”, per ciò che riguarda la legislazione, ma uniti per ciò che riguarda l’applicazione del diritto. I
giudici sono, in quest’ottica, servitori di due padroni, gravati del compito di riportare ad unità i due
ordinamenti.
Il giudice, quando si trova di fronte ad un contrasto tra norma interna e norma europea:
- deve innanzitutto decidere se la materia è di competenza statale o comunitaria. Ma se l’Unione
ha emanato la norma si suppone che ne abbia il potere: se il giudice ritiene il contrario può
comunque impugnare l’atto europeo di fronte alla Corte di giustizia europea (rinvio pregiudiziale
di validità).
- deve poi stabilire se la norma europea abbia o meno effetto diretto. In caso di dubbio può
sospendere il giudizio e sollevare una questione pregiudiziale di interpretazione di fronte alla
Corte di giustizia.
- quando la norma europea non sia self executing, il giudice può essere in dubbio sulla
compatibilità della legge italiana con essa. Deve risolvere questo dubbio ancora sollevando una
questione pregiudiziale di interpretazione di fronte alla Corte di giustizia. Può accadere che la
norma, che la Corte di giustizia ricava dall’interpretazione delle disposizioni, abbia le
caratteristiche ad entrare direttamente a far parte dell’ordinamento. Il giudice, che era partito
maneggiando una norma di principio, ora si ritrova con una norma self-executing e procede
quindi, applicandola e disapplicando di conseguenza la norma interna (caso Herr Müller).
- se il giudice accerta ce la legge europea non è self-executing, impugna la legge italiana davanti
alla Corte costituzionale. Invece, se il giudice dubita della compatibilità della norma europea con
i principi fondamentali della Costituzione, impugna davanti alla Corte costituzionale, l’ordine di
esecuzione del Trattato.
Alcune considerazioni sul comportamento della Corte costituzionale in merito alle questioni che sorgono
sulla compatibilità delle leggi italiane e di quelle europee.
 Se il giudice impugna la norma europea di fronte alla Corte, che questa sia self-executing o no,
la Corte dichiarerà la questione inammissibile : il giudice ordinario deve preliminarmente
accertare la diretta applicabilità della norma europea.
 La Corte ritiene invece di poter sindacare sulle compatibilità di qualsiasi legge europea anche se
self- executing, se la questione le è prospettata in via principale. La Corte, come qualsiasi
giudice, deve assicurare nel suo giudizio la prevalenza del diritto europeo su quello interno, se
non lo facesse, farebbe quello che nessun giudice può fare: negare l’applicazione al diritto
europeo.
In passato la Corte aveva negato di essere un giudice nazionale, e quindi di dover attivare il meccanismo
del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Se la Corte costituzionale si rivolgesse alla Corte di
giustizia chiedendo se il contrasto sussista o se la norma europea sia valida, il suo giudizio perderebbe
qualsiasi autonomia. Per questo la Corte chiede al giudice di svolgere l’attività istruttoria necessaria e,
eventualmente, di investire lui la Corte di giustizia, pena l’inammissibilità della questione.
Nel giudizio in via principale questo filtro non esiste: se la Corte accetta di sindacare il contrasto tra la
legge italiana e le norme europee non può chiudere il suo giudizio ignorando il diritto europeo, appare
evidente che essa deve considerarsi un giudice nazionale. Recentemente, la Corte costituzionale, ha per la
prima volta investito direttamente la Corte di giustizia e, in seguito, ha sollevato la questione
pregiudiziale nel corso di un giudizio promosso in via incidentale, dichiarando l’interpretazioni della
Corte di giustizia necessaria al fine di definire l’esatto significato della normativa comunitaria. Di fatto,
senza ulteriori spiegazioni, la Corte si è dichiarata giudice nazionale anche nei giudizi incidentali.
L’Italia ha detenuto per anni il record negativo dell’attuazione delle norme europee. Per ovviare a questa
situazione fu varata la legge La Pergola (legge 86/1989) che, oltre alla partecipazione del Parlamento e
delle Regioni al processo decisionale europeo, disciplina l’esecuzione degli obblighi comunitari.

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Quando la Commissione rileva che uno Stato non ha adempiuto correttamente ad un obbligo derivante
dal diritto UE avvia un procedimento di infrazione. La fase precontenziosa inizia con una lettera di messa
in mora, con cui la Commissione invita lo Stato a comunicare entro un termine prefissato le sue
considerazioni sul problema riscontrato. La Commissione spiega i motivi che fanno ritenere lo stato
inadempiente, emanando un parere motivato, e fissa un termine entro cui porre rimedio all’infrazione.
Se si riscontra permanenza nell’inadempimento, la Commissione apre la fase contenziosa presentando
ricorso alla corte di giustizia dell’UE. Qualora la Corte riconosca l’inadempimento, condanna lo Stato ad
adempiere. Sull’adempimento vigila ancora la Commissione che, in caso di inadempienza reiterata può
presentare un nuovo ricorso alla Corte che deciderà per un’eventuale pena pecuniaria da infliggere allo
Stato.
Il Parlamento approva ogni anno la legge di delegazione europea, che contiene una delega al Governo per
il recepimento delle direttive e di altri atti dell’UE. Ogni anno viene approvata anche la legge europea
allo scopo di interrompere le procedure d’infrazione promosse dalla Commissione UE contro l’Italia.
L’attuazione delle norme europee ricade sulle Regioni nelle materie affidate alla loro competenza
legislativa: se vi è inerzia da parte delle Regioni e delle Province autonome nell’attuazione delle norme
europee, lo Stato può adottare le disposizioni necessarie per la loro attuazione. Allo Stato è riconosciuto il
c.d. diritto di rivalsa sulla Regione.

CAPITOLO XII – GIUSTIZIA COSTITUZIONALE


Per giustizia costituzionale, si intende un sistema di controllo giurisdizionale sul rispetto della
Costituzione. La giustizia costituzionale è la principale garanzia della rigidità della Costituzione stessa:
consente di reagire a determinate infrazioni in determinati modi e rivolgendosi ad un determinato giudice.
La scelta del sistema di giustizia costituzionale dipende dall’origine della Costituzione: emblematica è la
Costituzione degli Stati Uniti che in origine affidava alla Corte Suprema giurisdizione esclusiva nei
conflitti in cui gli Stati siano parti in causa fra loro o con lo Stato federale. Proprio la storia degli USA
dimostra come sia fisiologico che uno Stato a Costituzione rigida sviluppi anche un controllo sulla
legittimità costituzionale delle leggi.
Attraverso una storica sentenza del 1803 (caso’Marbury vs. Madison) il sindacato di legittimità si
impose, quasi come una necessità intrinseca nel sistema costituzionale “rigido”.
IL CASO
Dopo anni di governo dei federalisti una svolta elettorale porta alla presidenza il repubblicano Jefferson.
Adams, il Presidente uscente, pensa bene di sistemare i propri compagni di partito nelle corti federali
periferiche, a nomina presidenziale. 16 nuovi giudici furono nominati da Adams allo scadere del suo
mandato. Ma, nella confusione dell’ultimo minuto, la nomina del nuovo giudice Malbury non viene
trasmessa all’interessato dal Segretario di Stato uscente. Il nuovo segretario, il repubblicano Madison,
rifiuta di farlo così Malbury ricorre alla Corte Suprema per ottenere la sua carica. La situazione ce si crea
è molto imbarazzante: la nomina della Corte Suprema è vitalizia e la maggior parte dei suoi membri è
ancora legata ad ambienti federali, una pronuncia in favore di Malbury esporrebbe la Corte stessa
politicamente, screditandola.
Il caso rischiava di diventare un trabocchetto politico: la Corte aggira il rischio riconoscendo che sì la
nomina di Malbuy era valida ed efficace, ma dichiarò incostituzionale la legge che attribuiva alla Corte
Suprema la competenza a decidere del caso.
Se non fosse possibile agire di fronte ad un giudice per denunciare la legge in contrasto con la
Costituzione, questa perderebbe il suo significato giuridico e a nulla servirebbero le norme che
prescrivono particolari procedure per la sua revisione: perderebbe in sostanza la sua prevalenza
gerarchica di fronte alle altre fonti. Modelli di sindacato di legittimità sulle leggi
I modelli di controllo delle leggi si dividono in grandi famiglie.
- La prima distinzione è fra sindacato preventivo e sindacato successivo rispetto all’entrata in
vigore della legge. Tipico esempio di sindacato preventivo è la Costituzione francese del 1958
che ha introdotto un organo, il Conseil Constitutionel, con la funzione di garantire la divisione
delle competenze fra Governo e Parlamento, fra i quali è divisa la potestà normativa. Ogni

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disposizione che sia dichiarata incostituzionale non potrà entrare in vigore. Nel 2008 è stata
approvata una riforma costituzionale che attribuisce al Conseil anche la facoltà di controllo a
posteriori sulla legittimità delle leggi già in vigore.
- Nell’ambito poi, dei sistemi a sindacato successivo, un’ulteriore distinzione si può operare tra i
sistemi a sindacato diffuso e i sistemi a sindacato accentrato. Nei primi ogni giudice può
verificare la compatibilità della legge con la Costituzione, traendone le conclusioni che crede;
nei secondi invece, un unico organo: la Corte costituzionale, può compiere questo compito.
Dove il sindacato è diffuso, i giudizi di illegittimità avranno ovviamente valore inter partes, limitato alle
sole parti che hanno preso parte al contraddittorio: l’effetto è la disapplicazione della legge in questione
nel caso singolo. Questo sistema funziona esclusivamente nei sistemi che sono regolati dalla regola dello
stare decisis, ossia del precedente giudiziario, regola che è tipica dei sistemi di Common Law. Nei sistemi
di Civil Law la regola del precedente vincolante non è sentita ne applicata con la stessa forza. Per questa
ragione, in questi sistemi si adotta la soluzione del sindacato accentrato.
- Nell’ambito dei sistemi a sindacato accentrato un’ulteriore divisione di può operare a seconda
della via d’accesso al giudizio: il giudizio in via diretta e quello in via incidentale. Il giudizio in
via diretta nasce da un ricorso che il cittadino o determinati organi possono presentare
direttamente alla Corte costituzionale. Esso è di regola ammesso come strumento sussidiario
residuale, esperibile solo quando non siano praticabili altre vie per la rivendicazione di un diritto.
In questi termini si configurano il ricorso costituzionale in Germania e il ricorso di difesa
costituzionale in Spagna, il cui esercizio deve costituire una risorsa estrema.
Il giudizio in via incidentale si presenta invece per lo più come un incidente di percorso durante un
normale giudizio: il giudice che sospetti che la legge che sta applicando sia illegittima, non potendo ne
violare la Costituzione ne disapplicare la legge, sospende il giudizio ed investe della questione la Corte
costituzionale. Il giudice di merito, compie la selezione delle questioni su cui la Corte è chiamata a
pronunciarsi.
Il modello italiano è ormai orientato verso un giudizio successivo, accentrato ad accesso indiretto.
Prevalentemente però, non esclusivamente.
 Esiste ancora una forma di sindacato preventivo: prima della riforma del Titolo V si riferiva alle
leggi regionali, impugnate dal Governo a seguito della riapprovazione della legge
precedentemente rinviata. Ad oggi è rimasto solo il sindacato preventivo degli Statuti regionali e
della legge statutaria delle Regioni speciali. Altri esempi di sindacato preventivo esistono per i
regolamenti amministrativi governativi o ministeriali, che devono essere sottoposti
preventivamente alla Corte dei conti.
 Il sindacato diffuso è presente per le nostre leggi solo come strumento sussidiario che si attiva
nelle condizioni limite in caso di non funzionamento della Corte costituzionale. Si deve notare
che la struttura e le modalità del giudizio incidentale fanno si che i giudici svolgano, in modo
diffuso, una funzione di prima valutazione della legittimità costituzionale, filtrando le sole
questioni che appaiono più serie, cioè non manifestamente infondate.
 Il giudizio in via diretta è previsto dalla nostra Costituzione ma come strumento riservato
esclusivamente allo Stato e alla Regione. Vi è poi il caso del tutto particolare che riguarda il
Trentino- Alto Adige e la Provincia autonoma di Bolzano: lo Statuto speciale consente che la
maggioranza dei consiglieri appartenenti ad uno dei tre gruppi linguistici possa chiedere che una
legge determinata venga votata per gruppi appunto. Se la richiesta è respinta o la legge approvata
nonostante il voto contrario di 2/3 del gruppo linguistico che l’ha presentata, questa può
impugnare la legge direttamente davanti alla Corte Costituzionale.
La riforma costituzionale in attesa referendaria introduce una nuova fattispecie di giudizio di legittimità
delle leggi. Le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati o del Senato della
repubblica potranno essere sottoposte a giudizio di legittimità in via diretta su ricorso presentato da
almeno ¼ dei membri della Camera o da almeno 1/3 dei membri del Senato. Questa misura sarebbe assai
opportuna in quanto permetterebbe alla Corte di risolvere prima dell’applicazione questioni inerenti la
legge elettorale.
L’estensione del principio di legalità ai conflitti ‘politici’
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Il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi è uno strumento attraverso il quale viene estesa
l’applicazione del principio di legalità anche alla funzione legislativa. Quasi sempre le Costituzioni
moderne estendono l’ambito di applicazione del principio di legalità sottoponendo ad una regola
(costituzionale) e ad un giudice (giudice costituzionale), quindi al diritto altre questioni che
precedentemente erano lasciate alla politica.
Già si è detto che nei sistemi federali è normale che sia affidato alla giustizia costituzionale il compito di
dirimere i conflitti che insorgono tra Stati federali e tra questi e lo Stato centrale. Non meno frequente è
che alla giustizia costituzionale sia affidato il compito di risolvere i conflitti fra gli organi costituzionali
ed e evitare che la forma di governo venga a subire trasformazioni che l’allontanino dall’assetto tracciato
dalla Costituzione. Infine agli organi di giustizia costituzionale è affidato il compito di giudicare sui reati
commessi dal Capo dello Stato e dai membri del Governo. Si tratta di una giustizia penale particolare,
circoscritta a reati imputabili ai titolari di questi organi solo per il compimento delle loro funzioni
politico-istituzionali.
Quanto all’Italia, l’art. 134 della Cost., elencando le funzioni riservate alla Corte costituzionale, enumera
le seguenti. La Corte è competente a giudicare:
1. ‘sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di
legge, dello Stato e delle Regioni’. L’art. 137, inoltre, pone una riserva di legge per stabilire le
condizioni, le forme e i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale;
2. ‘sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato’;
3. i conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni stesse;
4. ‘sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica a norma della Costituzione, cioè
per le uniche due ipotesi di responsabilità presidenziale -alto tradimento e attentato alla
Costituzione’;
5. giudizio di ammissibilità del referendum (aggiunto con legge costituzionale successivamente).
La Corte costituzionale
Se la Costituzione rigida ha come principale obiettivo quello di porre certi valori e certe istituzioni fuori
del gioco politico, allora l’organo chiamato a difendere la legalità costituzionale, la Corte Costituzionale,
non può essere espressione della maggioranza, cioè non deve essere rappresentativo. Come raggiungere
questa neutralità è il problema con cui devono misurarsi tutte le Costituzioni moderne. Ma neutralità
rispetto a che cosa?
- Innanzitutto rispetto alla politica: ai giudici chiamati a comporre l’organo di giustizia
costituzionale sono richieste competenze tecniche specifiche, è proprio in queste qualità tecnico-
giuridiche che si fonda la legittimazione dei giudici costituzionali;
- la neutralità deve essere assicurata rispetto alle “parti”; nei sistemi a struttura federale a
quest’esigenza si risponde costituendo il giudice costituzionale con le stesse modalità con cui
due parti nominerebbero un giudice per un’eventuale lite. In Italia l’organizzazione regionale
della Repubblica (contrariamente a ciò che succede in Germania e USA), non si riflette in alcun
modo sulla composizione della Corte. La composizione della Corte riflette invece la natura
“pattizia” della Costituzione italiana, il delicato equilibrio tra maggioranza e minoranza. A tal
fine sono i poteri dello Stato a ripartirsi la nomina dei quindici giudici costituzionali:
a) cinque eletti dal Parlamento in seduta comune, a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 2/3
dell’Assemblea (dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei 3/5);
b) cinque nominati dal Presidente della Repubblica, per convenzione la nomina non segue ad
alcuna proposta governativa e la controfirma apposta dal Presidente del Consiglio esprime solo
un semplice controllo esterno;
c) cinque nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa: tre dai magistrati di
Cassazione, uno dai magistrati del Consiglio di Stato e uno dai magistrati della Corte dei Conti.
Con la riforma in attesa di approvazione referendaria cambierà anche la composizione della Corte
costituzionale. I giudici di nomina parlamentare saranno eletti, con le maggioranze previste adesso, tre
dalla camera e due dal senato. Proprio tale differenziazione permetterebbe alla realtà regionale dello Stato
di insinuarsi nel tessuto della corte stessa.
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- Infine neutralità rispetto agli interessi politici e privati; obiettivo perseguito sancendo che la
carica di giudice della Corte Suprema sia vitalizia negli USA. In Italia la carica dura solo 9 anni
e non è rinnovabile. Inoltre vige un severo regime di incompatibilità, oltre al divieto assoluto per
i giudici costituzionali di svolgere attività inerenti ad un’associazione o ad un partito politico
durante il loro mandato.
Status del giudice costituzionale e prerogative della Corte
Il sistema attraverso cui le leggi e la Costituzione assicurano la neutralità della Corte costituzionale e i
suoi giudici è ricco e complesso.
1. Immunità ed improcedibilità. I giudici non sono sindacabili ne possono essere perseguiti per le
opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni; godono inoltre, della stessa immunità
personale che l’art. 68 accorda ai parlamentari.
2. Inamovibilità. Non possono essere rimossi ne sospesi dal loro ufficio se non a seguito di
deliberazione della Corte stessa e solo per sopravvenuta incapacità fisica o civile o per gravi
mancanze nell’esercizio della loro funzione. Però il giudice decade dalla carica se non esercita la
sua funzione per sei mesi.
3. Convalida delle nomine. Spetta alla stessa Corte costituzionale; a seguito della convalida i
giudici prestano giuramento, e dalla data di tale giuramento decorre la il loro mandato.
4. Trattamento economico. I giudici della Corte costituzionale hanno un trattamento economico
garantito non inferiore a quello di un giudice ordinario investito delle più alte cariche. Alla
scadenza del mandato è garantito il reinserimento nelle precedenti attività professionali.
5. Autonomia finanziaria e normativa. La Corte amministra il proprio bilancio ed ha un proprio
regolamento contabile.
6. Autodìchia. Anche la Corte costituzionale come le Camere gode di competenza esclusiva per
giudicare i ricorsi in materia di impiego dei propri dipendenti.
Funzionamento
I giudici della Corte come si è detto, durano in carica 9 anni, ma il rinnovo della composizione della
Corte è graduale: i giudici non scadono tutti insieme, ma uno alla volta. Ai giudici costituzionali non si
applica il regime della prorogatio, regola che crea diversi problemi al funzionamento della Corte stessa.
La corte può funzionare anche se non sono presenti tutti i suoi membri, tuttavia è richiesto un quorum
minimo di 11 giudici, che scende a nove per le deliberazioni non giurisdizionali. Le deliberazioni della
Corte devono essere deliberate dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio.
Significa che la Corte può funzionare mediante collegi diversi, ma a patto che non subentrino mai nuovi
componenti.
Tuttavia vi è una pericolosa lacuna creata dall’esclusione della prorogatio dei giudici costituzionali. Che
accadrebbe se il Parlamento decide di paralizzare la Corte non sostituendo i giudici di sua nomina che
scadono? Al fine di evitare paralisi decisionali la legge costituzionale 2/1967 prescrive che la sostituzione
avvenga entro un mese: ma il mancano rispetto di tale termine non è sanzionabile, il che significa che
ognuno dei tre poteri che partecipano alla composizione della Corte, potrebbero, in ipotesi, impedire alla
stessa di funzionare, facendo mancare il quorum. L’unica reazione prevedibile sarebbe che la Corte
potesse sollevare conflitto di attribuzione contro il potere che, non esercitando il potere-dovere di
nomina, le impedisce di funzionare, con l’imbarazzante conseguenza che la Corte si troverebbe ad essere,
ad un tempo, parte e giudice dello stesso giudizio.
Per i soli giudizi d’accusa è previsto il regime di prorogatio fino all’esaurimento del giudizio: ‘i giudici
ordinari o aggregati che costituiscono il collegio giudicante continuano a farne parte sino all’esaurimento
del giudizio, anche se sia sopravvenuta la scadenza del mandato’.

Il Presidente
Il Presidente della Corte Costituzionale è un giudice della Corte, eletto dalla Corte stessa a scrutinio
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segreto e a maggioranza assoluta. Il suo mandato è triennale ed è rinnovabile: a parte le consuete funzioni
di rappresentanza esterna e la direzione amministrativa degli uffici della Corte, spettano al Presidente le
funzioni tipiche di chi presiede un organo collegiale. In particolare: fissa il ruolo delle udienze e convoca
la Corte; designa il giudice incaricato dell’istruzione della causa; designa il giudice incaricato di redigere
il progetto di motivazione della decisione; presiede il collegio giudicante e ne dirige i lavori, regola la
discussione e può determinare i punti più importanti sui quali deve svolgersi; vota per ultimo ed esprime
il voto decisivo in caso di parità di voti.
Procedure
Le procedure sono diverse a seconda del tipo di giudizio, vi sono però alcuni tratti comuni.
La Corte ha poteri istruttori: essi consistono nell’accertamento di dati e fatti anche attraverso l’audizione
di testimoni. La Corte con ordinanza può disporre i mezzi di prova che ritiene necessari e fissa i termini
per la loro esecuzione, avvertendo le parti dieci giorni prima di quello fissato per l’assunzione delle prove
orali. La Corte si riunisce in udienza pubblica o in camera di consiglio quando le parti non siano
costituite, oppure quando il Presidente, sentito il giudice istruttore, ipotizzi una decisione di manifesta
infondatezza o inammissibilità. La regola è che ci sia un dibattito pubblico in cui le parti sono
rappresentate dai rispettivi avvocati. Il giudice relatore espone le questioni della causa e poi i difensori
delle parti sono invitati ad intervenire. La decisione è assunta a maggioranza assoluta dei votanti.
Quello che la camera di consiglio vota è solo il dispositivo della decisione. Il Presidente di solito incarica
un giudice di redigere una bozza di motivazione che verrà approvato collegialmente in una seduta
successiva della camera di consiglio. La decisione è firmata dal Presidente e dal giudice redattore e viene
quindi pubblicata sull’apposito supplemento della Gazzetta Ufficiale . Vi sono tre date rilevanti che si
riferiscono alla decisione della Corte: 1) quella della decisione finale in camera di consiglio; 2) quella del
deposito in cancelleria; 3) quella della pubblicazione in Gazzetta ufficiale (a questo punto si ritiene che
l’ignoranza della decisione della Corte avrebbe, sul piano delle responsabilità, le stesse conseguenze
dell’ignoranza della legge). Le decisioni della Corte
Le decisioni che la Corte costituzionale emana sono di due tipi: sentenze e ordinanze. In generale “la
Corte costituzionale giudica in via definitiva con sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua
competenza sono adottati con ordinanza”.
La sentenza definisce il giudizio, ossia è l’atto con cui il giudice chiude il processo; mentre l’ordinanza è
uno strumento interlocutorio che non esaurisce il rapporto processuale. Con ordinanza per esempio si
assumono provvedimenti cautelari, si ordinano attività istruttorie, si sollevano questioni incidentali, quali
la questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia UE o la questione di legittimità costituzionale
(nei giudizi sulla legittimità delle leggi la Corte ha sviluppato un uso delle ordinanze più ampio).
Come avviene di fronte agli altri giudici, le sentenze devono essere esaurientemente motivate, mentre per
le ordinanze è sufficiente che siano “succintamente motivate”. Ma le decisioni della Corte hanno una
particolarità: non possono essere mai impugnate, come stabilito dalla Costituzione (art. 137.3). l’obbligo
di motivazione non è per la Corte sanzionabile attraverso l’impugnazione, ma è il modo in cui
quest’ultima rende conto dei propri processi interpretativi e argomentativi, legittimando le proprie
conclusioni.
Il controllo di costituzionalità delle leggi Atti sindacabili
La Corte costituzionale giudica sulle “ controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e
degli atti, aventi forza di legge dello Stato e delle regioni” (art. 134.1). Questa disposizione ha posto
alcuni problemi interpretativi.
- È da chiarire che cosa si intenda per “legge”: con questo termine si intendono solo gli atti che
hanno la forma delle legge e il grado gerarchico delle fonti primarie comprese le leggi
costituzionali. Al giudizio di legittimità costituzionale, che potrà estendersi non soltanto ai “vizi
formali” - derivati dalla violazione delle regole procedurali- ma anche ai vizi materiali - derivati
dalla violazione dei limiti posti dalla Costituzione. L’unica legge costituzionale che la Corte ha
fin’ora dichiarato illegittima è la legge di approvazione dello Statuto della regione Sicilia. Se non
vi fosse la possibilità di provocare un giudizio di legittimità sulle leggi di revisione, il rispetto
dei limiti posti nella Costituzione resterebbe affidato solo alla buona volontà delle forze
politiche, perdendo il suo più stringente significato giuridico.
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- Un problema storico è se le leggi impugnabili di fronte alla Corte per incostituzionalità siano
solo quelle successive all’entrata in vigore della Costituzione stessa. Occorre considerare che
l’entrata in vigore della Costituzione nell’ 1948 non ha prodotto una rottura nell’ordinamento
giuridico: sono rimaste in vigore tutte le norme precedenti, con eccezione di quelle abrogate
esplicitamente dalla Costituzione. Ovviamente le leggi “anteriori” alla Costituzione possono
essere impugnate solo per vizi materiali e non per i vizi formali. Diverso è il problema se la
Corte possa sindacare gli atti anteriori alla Costituzione rispetto ai parametri dell’epoca: la
risposta è ancora una volta negativa, poiché la legge impone che i parametri di giudizio siano le
disposizioni della Costituzione o le leggi costituzionali.
- Sono escluse dal sindacato di legittimità le fonti-fatto. Quindi non solo le consuetudini ma anche
le norme provenienti da altri ordinamenti come quello europeo.
- Che gli atti sindacabili debbano avere forza di legge significa che la tipologia sindacabile è
chiusa. Sono esclusi i regolamenti dell’esecutivo e gli altri regolamenti amministrativi: il giudice
competente è il giudice amministrativo.
Molti ritengono che i regolamenti, essendo atti normativi del tutto simili, in quanto a contenuto, alle
leggi, richiedano lo stesso giudice e lo stesso tipo di giudizio che la Costituzione ha istituito per le leggi.
Occorre considerare che se il regolamento è incostituzionale, il vizio deriva in primo luogo dalla
violazione della legge stessa che lo disciplina; se invece questo è fedele alla legge, significa che è proprio
la legge, ancor prima del regolamento ad essere incostituzionale : allora, impugnato il regolamento
davanti al giudice lo si inviterà a presentare la questione di legittimità anche per la legge.
La Corte non giudica delle disposizioni legislative in astratto, ma nel significato normativo che esse
concretamente hanno assunto nella prassi interpretativa e attuativa.
Qualche problema pratico si pone per l’impugnazione dei decreti-legge. Se il decreto-legge non viene
convertito in tempo, la sua decadenza ha effetto su tutti i rapporti sorti sulla sua base: venendo meno
l’oggetto dell’impugnazione la Corte dovrebbe dichiarare l’inammissibilità della questione. Se il decreto-
legge viene invece convertito in tempo, si ha novazione della fonte: la Corte ha specificato che in questo
caso la questione si trasferisce direttamente sulla legge.
Le ipotesi in cui il decreto-legge viene giudicato concretamente dalla Corte sono solo due:
1) se viene impugnato e giudicato dalla Corte nei 60 giorni di vigenza provvisoria;
2) se il decreto legge viene reiterato contro quanto stabilito dalla stessa Corte.
Per il referendum abrogativo, è difficile che venga impugnato a posteriori, è invece possibile che venga
impugnata la normativa di risulta, ossia le norme così come si presentano a seguito dell’abrogazione di
quelle sottoposte a referendum. In questo caso però, oggetto dell’impugnazione sono le norme rimaste in
vigore, non già il referendum in se. Le leggi regionali sono ovviamente equiparate a quelle dello Stato,
mentre la Corte ha negato di poter sindacare i regolamenti interni dei Consigli regionali. Le leggi
regionali che approvano gli Statuti delle regioni ordinarie sono soggette ad una particolare forma di
impugnazione preventiva da parte del Governo.
I vizi della legge
I vizi formali riguardano il procedimento di formazione dell’atto legislativo; in linea generale essi
colpiscono l’intero atto ma, in certi casi, è possibile che colpiscano singole disposizioni. I vizi materiali
riguardano invece i contenuti normativi dell’atto legislativo. Essi colpiscono non l’atto ma le singole
disposizioni che risulteranno viziate perché il loro contenuto normativo risulta in contrasto con le norme
ricavabili dalle disposizioni costituzionali.
Il parametro di giudizio
Per parametro di giudizio si intende il termine di paragone impiegato nel giudicare la legittimità degli atti
legislativi. Il parametro è dato in primo luogo dalle disposizioni costituzionali e dalle leggi costituzionali.
La stessa Costituzione prevede in certi casi che le leggi o gli atti con forza di legge siano vincolati da
fonti sub- costituzionali. Il decreto legislativo delegato deve ad esempio, rispettare le norme della legge di
delega; la legge regionale concorrente deve rispettare i principi fondamentali posti dalla legge dello Stato.
In questi casi si parla di parametro interposto, la cui violazione delle leggi comporta un’indiretta
violazione delle norme costituzionali.

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Giudizio incidentale
L’instaurazione del giudizio in via incidentale è regolata dall’art. 1 della legge cost. 1/1948 e dagli artt.
23 ss. della legge 87/1953. Nel giudizio in via incidentale la questione di legittimità si presenta nel corso
di un procedimento giudiziario (che viene detto giudizio principale o a quo), che comporta la sospensione
del suddetto e la remissione della questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale. La
legge prevede che la questione di legittimità costituzionale debba essere sollevata nel corso di un giudizio
e dinanzi ad un’autorità giurisdizionale. È un giudizio successivo e concreto, perché la legge viene in
rilievo al momento della sua applicazione; è indispensabile in quanto il giudice, se sussistono i
presupposti, è tenuto a sollevare la questione dinanzi alla Corte e le parti non possono opporsi.
Al fine di ampliare la possibilità di eliminare leggi incostituzionali, è stata ritenuta “giurisdizionale”
anche l’attività di organi che sono investiti di funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge.
I requisiti ritenuti necessari dalla giurisprudenza costituzionale perché un organo possa considerarsi
legittimato a sollevare la questione di costituzionalità sono:
 Requisito oggettivo: l’essere investito di funzioni giudicanti, cioè di applicazione obiettiva.
Proprio in ciò sta la differenza fra un giudice, che è interessato all’applicazione obiettiva della
legge, e un organo della pubblica amministrazione che, invece, è preposto al perseguimento di
un determinato interesse pubblico
 Requisito soggettivo: la posizione di terzietà, indipendenza ed imparzialità dell’organo, oltre
all’esistenza di un procedimento fondato sul contraddittorio.
La questione di costituzionalità può essere sollevata da una delle parti, o dal giudice stesso al cospetto del
quale si svolge il processo. Le parti non possono adire direttamente la Corte, ma devono presentare una
istanza al giudice. L’atto introduttivo del giudizio incidentale fa quindi inevitabilmente capo al giudice a
quo. I poteri di quest’ultimo sono importanti e delicati: a lui compete la valutazione primaria circa la
sussistenza delle condizioni di proponibilità della questione di legittimità. Egli deve verificare la presenza
di due requisiti:
- che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso. La rilevanza consiste in un
legame di strumentalità tra la questione di legittimità costituzionale e il giudizio a quo. Ciò che
importa non è l’astratta possibilità che una legge sia incostituzionale, ma che il giudizio non
possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità. Quindi
non è sufficiente che la legge di cui si sospetta l’incostituzionalità sia applicabile al giudizio in
corso, ma è condizione fondamentale che il giudizio costituzionale sia in grado di incidere sul
processo a quo.
- Che non sia manifestamente infondata: occorre verificare che la questione, prima facie, abbia un
minimo fondamento giuridico. Per poter rimettere la questione alla Corte, è sufficiente anche
avere un minimo dubbio sulla costituzionalità della legge o dell’atto avente forza di legge da
applicare al giudizio in corso.
Tali condizioni di proponibilità svolgono ruoli diversi a seconda che l’iniziativa sia del giudice o delle
parti: nel primo caso costituiscono una sorta di filtro per le questioni irrilevanti e pretestuose che il
giudice non farà giungere alla Corte. Nel secondo caso, costituiscono elementi positivi dai quali deriva il
dovere del giudice di proporre la questione. Nel caso in cui una delle suddette condizioni non sussista, il
giudice provvederà a respingere l’istanza con ordinanza motivata. Alle due parti è comunque consentito
di riproporre la questione nei gradi di giudizio successivi. Qualora il giudice invece, valutasse la
questione come rilevante, emette una ordinanza di rinvio che produce l’effetto di introdurre il giudizio
costituzionale e di sospendere il giudizio a quo, fino alla pronuncia della Corte.
Tale ordinanza deve contenere gli elementi necessari ad individuare la questione di legittimità
costituzionale:
A. l’indicazione dell’oggetto e del parametro di giudizio;
B. la motivazione della rilevanza e i motivi che hanno portato a dichiarare la non manifesta
infondatezza;
C. i profili della questione di legittimità in base ai quali si è verificata la violazione con la
descrizione della fattispecie concreta oggetto della controversia.

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Nell’ordinanza deve quindi emergere con chiarezza il “richiesto”, che costituisce anche il limite entro il
quale la decisione della Corte può venire in ossequio al principio della corrispondenza tra il chiesto ed il
pronunciato.
Eccezionalmente i limiti potrebbero essere superati nel caso della c.d. illegittimità costituzionale
consequenziale, quando dalla decisione adottata deriva l’illegittimità di altre disposizioni collegate a
quella dichiarata incostituzionale.
Con la sent. 29/1979 la Corte ha dichiarato illegittima la norma del codice penale militare che prevedeva
la pena dell’ergastolo per il militare colpevole di tentato omicidio di un superiore. Il legislatore, a detta
della Corte, ha compiuto un bilanciamento di interessi irragionevole, anteponendo la disciplina militare
allo stesso diritto alla vita. La Corte perciò non si è limitata a dichiarare illegittima soltanto la norma
riguardante il tentato omicidio di un superiore, ma ha esteso l’illegittimità alla norma che riguarda
l’omicidio preterintenzionale e a quella che riguarda le lesioni ad un superiore.
La legge prevede che l’ordinanza di remissione venga notificata, a cura della cancelleria del giudice a
quo, alle parti in causa e al Pubblico Ministero, al Presidente del Consiglio. Lo scopo di tale notifica è
quello di consentire ai soggetti abilitati di costituirsi e intervenire nel giudizio costituzionale. L’ordinanza
di rinvio, una volta giunta alla Corte costituzionale viene pubblicata nella GU: tale forma di pubblicità
mira a far conoscere a tutti che, su una disposizione legislativa, pende un giudizio di costituzionalità.
Entro 20 gg dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza con cui si instaura il giudizio costituzionale, le
parti del giudizio a quo possono costituirsi mediante deposito in cancelleria delle deduzioni . La loro
partecipazione è puramente facoltativa: si tratta di un giudizio a parti eventuali. Il processo ha carattere
oggettivo: persegue primariamente l’obiettivo di stabilire la legittimità costituzionale delle leggi ed
eventualmente quello di tutelare le situazioni giuridiche soggettive nel giudizio a quo.
La giurisprudenza costituzionale degli anni ’90 ha ampliato la portata del concetto di “parte”. Abilitati ad
intervenire, non sono solo le parti costituitesi nel giudizio a quo, ma anche quei soggetti che hanno un
interesse personale e diretto connesso alla questione di legittimità. Non vi è dubbio che le parti siano
portatrici anzitutto di interessi concreti e specifici e che concorrano a rappresentare alla Corte l’assetto
degli interessi generali, ma è chiaro che resta una rappresentazione abbastanza “parziale”.
L’individuazione delle parti che possono intervenire è sempre legata ad un interesse, ma nei confronti di
una disposizione di legge non c’è mai un interesse specifico, ma sempre un interesse generale. Le parti
sono considerate le più idonee a rappresentare innanzi alla Corte costituzionale gli aspetti concreti della
fattispecie in cui la questione costituzionale è sorta. Ma, da un lato, la decisione sulla legittimità di una
legge, che può avere ripercussioni importanti sulla generalità dell’ordinamento, non può dipendere ne
dall’iniziativa, né dalla capacità di stare in giudizio delle parti private; dall’altro, qualsiasi ulteriore
estensione del contraddittorio, aprirebbe una falla non arginabile dalla Corte, non essendovi alcun limite
agli interessi coinvolti. In quest’ottica la restrizione del contraddittorio alle sole parti del processo
principale e la presenza solo eventuale di esse nel giudizio sono caratteristiche ben comprensibili e
difficilmente superabili.
Il PM, anche se destinatario dell’ordinanza di rinvio, non è abilitato a partecipare e ad intervenire nel
processo costituzionale: la disciplina vigente non gli consente di assimilare il suo ruolo a quello delle
parti. La legge prevede che il Governo venga rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, la giurisprudenza
costituzionale ha infatti escluso che il Governo possa considerarsi parte in senso tecnico. Qualora le parti
non si costituiscano neanche l’Avvocatura dello stato può intervenire e si procede lo stesso in camera di
consiglio. La prassi dimostra che nella quasi totalità dei casi il Governo interviene a difesa della
legittimità della legge, esso rappresenta il punto di vista delle istituzioni.
Il giudizio in via principale
Nel giudizio in via principale la questione viene proposta direttamente con una procedura ad hoc e non
nell’ambito e nel corso di un giudizio, così come già visto per l’instaurazione in via incidentale; è astratto
in quanto e leggi impugnate vengono in rilievo indipendentemente dalla loro applicazione ed è
disponibile dato che i soggetti legittimati non sono tenuti ad instaurarlo.
Dopo la riforma del Titolo V le differenze tra il ricorso statale ed il ricorso regionale si sono attenuate di
molto. È sparita la più evidente, cioè la natura preventiva del ricorso del Governo, che ora può agire solo
successivamente, contro leggi regionali già in vigore. L’impugnazione statale contro leggi regionali può

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essere disposta dal Governo quando ritiene che una legge regionale violi qualsiasi disposizione
costituzionale anche diversa da quelle attributive di competenza legislativa. Lo Stato non deve dimostrare
il proprio interesse ad agire a tutela di un proprio diritto leso dalla Regione, agendo a tutela dell’interesse
generale alla legalità. Al contrario, il ricorso della Regione nei confronti della legge statale può effettuarsi
solo se fondato sulla lesione della sfera dei poteri regionali attribuiti dalla costituzione: la Regione deve
cioè dimostrare di avere interesse concreto nel ricorso. L’atto introduttivo del giudizio in via principale è
il ricorso. Esso deve essere deliberato dal Consiglio dei ministri se agisce lo Stato o dalla Giunta
regionale se ad agire è la Regione.
Nel Trentino-Alto Adige il controllo sulle leggi regionali presenta delle particolarità rispetto a quanto
stabilito dalla costituzione. Lo statuto prevede che la legge regionale possa essere impugnata dal Governo
per violazione della Costituzione, dello Statuto o del principio di parità dei gruppi linguistici. Inoltre
prevede che possano ricorrere alla Corte costituzionale la maggioranza di un gruppo linguistico nel
Consiglio regionale o provinciale nei confronti di una legge “ritenuta lesiva della parità dei diritti fra
cittadini dei diversi gruppi linguistici”
Quanto al giudizio, la legge 131/2003 introduce due importanti novità: in considerazione della particolare
urgenza del giudizio è predisposto un diritto di precedenza rispetto ai giudizi in via incidentale (entro 90
giorni dal deposito dello stesso). Qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato possa
ledere all’interesse pubblico, può sospendere l’esecuzione di tale atto. Ciò comporta una ulteriore
‘velocizzazione’ del giudizio
Tipologia delle decisione della Corte
Le decisioni della corte, siano esse promosse in via incidentale o diretta, possono essere suddivise in tre
grandi categorie: decisioni di inammissibilità, decisioni di rigetto, decisioni di accoglimento. La prassi ha
portato la Corte a creare una tipologia di decisioni molto ricca, che rende complessa e differenziata
ognuna di queste famiglie.
Decisioni di inammissibilità
La corte pronuncia l’inammissibilità della questione quando manchino i presupposti per procedere ad un
giudizio di merito, ovvero quando:
- manchino i requisiti soggettivi e oggettivi per la legittimazione a sollevare la questione di
legittimità costituzionale, ossia quando la questione sia stata promossa da un organo non
qualificabile come giudice o al di fuori di un procedimento qualificabile come giudizio;
- quando sia carente l’oggetto del giudizio, tale difetto può essere macroscopico: in questo caso la
manifesta inammissibilità sarà decisa in camera di consiglio, senza procedere all’udienza
pubblica e dichiarata con ordinanza. In altri casi invece la carenza della forza di legge può essere
la conclusione di una valutazione difficile. In questi casi la inammissibilità sarà dichiarata con
sentenza nella prima occasione, poi ribadito in ordinanze successive.
- quando manchi il requisito della rilevanza, le ipotesi possono essere diverse: se vi è semplice
carenza di motivazione, la Corte ordinerà la riconsegna degli atti al giudice perché egli ne
rivaluti il contenuto. Altrettanto accade se la disposizione è stata già abrogata dal legislatore
dopo che il giudice ha sollevato la questione. Ma vi possono essere casi in cui l’irrilevanza è
macroscopica, oppure essa risulta solo da un’attenta valutazione del merito. Nel primo caso la
Corte chiuderà il giudizio in limine litis con una manifesta inammissibilità, nel secondo tale
inammissibilità sarà dichiarata a seguito di dibattimento, con sentenza.
- quando l’ordinanza di remissione o il ricorso manchi di elementi sufficienti ad individuarne il
thema decidendum;
- quando siano stati compiuti errori meramente procedurali;
- quando la questione sottoposta alla Corte comporti una valutazione di natura politica o un
sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento. La Corte ricorre, in questo caso,
all’inammissibilità per liberarsi di questioni la cui complessità degli interessi rende impossibile
un intervento se non del legislatore stesso.
Sentenze di rigetto (e ordinanze di ‘manifesta infondatezza’)
Con la sentenza di rigetto la Corte dichiara “non fondata” la questione prospettata nell’ordinanza di
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remissione. È importante notare che la Corte non dichiara che la legge impugnata è legittima, ma si limita
a respingere la questione sollevata dal giudice a quo. La Corte, nulla dice al riguardo della legittimità
della legge in astratto, ma si pronuncia sulla fondatezza della costruzione prospettata dal giudice. Per
questa ragione la sentenza di rigetto non ha effetti erga omnes. Nulla però impedisce al giudice, letta la
sentenza di rigetto, di risollevare una questione diversa: quella stessa disposizione può apparirgli di
dubbia legittimità rispetto a più parametri, oppure dalla stessa disposizione può trarre norme diverse.
Quello che è vietato al giudice è proporre nuovamente la stessa questione; al contrario nessuna
preclusione subiscono gli altri giudici: la preclusione opera solo inter partes.
Sentenze di accoglimento
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione
impugnata. Tale sentenza opera erga omnes, con effetto assimilabile a quello dell’annullamento perché
nasce dall’accertamento di un vizio della legge, che causa ‘invalidità della legge in questione’. I rapporti
sorti in precedenza sulla base di quella legge non cadono ipso iure, altrettanto si può dire degli atti
amministrativi emanati sulla base della legge impugnata. Essi possono essere a loro volta annullati a
seguito di impugnazione. Gli effetti della sentenza di accoglimento non riguardano solo i rapporti
giuridici che sorgono in futuro ma anche quelli passati, esclusi quelli ormai esauriti. Il principio generale
per l’esaurimento di un rapporto giuridico è che il passare del tempo ne comporta il consolidamento,
rendendoli non più azionabili di fronte ad un giudice. Ciò può avvenire attraverso i meccanismi della
prescrizione , della decadenza. Quando poi il rapporto abbia già raggiunto lo stato patologico della lite
giudiziaria, allora può essere definitivamente chiuso con sentenza passata in giudicato. L’effetto della
dichiarazione di illegittimità è di vietare l’applicazione della norma invalidata: può trattarsi di rapporti
nati anni prima della dichiarazione di illegittimità, perciò si suole dire che le sentenze di accoglimento
hanno effetti ‘retroattivi’ che riguardano anche le sentenze sorte in passato, pur aggiungendo che esse
possono influenzare solo i rapporti ancora pendenti. Un’eccezione, forse solo apparente, alla regola per
cui la sentenza di accoglimento non travolge il giudicato è prevista dall’art. 30 della legge 87/1953:
“quando in applicazione di una disposizione dichiarata illegittima sono state pronunciate sentenze
irrevocabili di condanna, ne cessano sia l’esecuzione che tutti gli effetti penali”.
Sentenze ‘interpretative’ di rigetto
Categoria a parte occupano poi le sentenze interpretative di rigetto, esse sono le decisioni con cui la Corte
dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale, non perché il dubbio di legittimità non sia
giustificato, ma perché questo si basa su una cattiva interpretazione della disposizione impugnata. Le
sentenze interpretative di rigetto sono le sentenze con cui la Corte dichiara infondata la questione di
legittimità non perché non sia giustificato il dubbio sollevato dal giudice, ma perché tale dubbio si basa
su un’erronea interpretazione della disposizione impugnata.
Nel caso in cui una disposizione sia soggetta a possibili interpretazioni diverse, l’interprete deve scegliere
l’interpretazione conforme alla Costituzione. Sostanzialmente si tratta di una variazione del criterio
dell’interpretazione sistematica attraverso il quale si risolvono già in via di interpretazione le eventuali
antinomie.
Il vecchio codice penale presumeva che, in taluni casi si procedesse attraverso l’istruzione sommaria,
affidata non al giudice istruttore, ma al procuratore della repubblica (parte attiva dell’accusa). Si
prevedeva che in questo tipo di procedimento si osservassero le norme di quello ordinario, in quanto
compatibili; tale compatibilità, nell’interpretazione comune era interpretata in senso molto restrittivo: si
escludeva che all’imputato fossero concesse le garanzie del diritto di difesa del rito normale, in questo
modo, poteva capitare che l’imputato si trovasse a subire un interrogatorio senza il suo avvocato. In
questa occasione la Corte emise una sentenza interpretativa di rigetto nella quale affermava la propria
autonomia interpretativa rispetto all’opinione dei giudici, e nulla consentiva di ritenere le garanzie di
difesa ordinarie escluse dal procedimento sommario perché incompatibili.
Il limite di questo tipo di sentenze deriva dal fatto che esse sono pur sempre “di rigetto”: i loro effetti si
esauriscono perciò inter partes, l’unico a subirne le conseguenze è il giudice a quo che, nel riprendere il
processo che aveva sospeso non potrà insistere nella sua precedente interpretazione.
Nelle sue pronunce la Corte si esprime sempre in relazione al diritto vivente: non cerca di cambiare le
interpretazioni consolidate nella disposizione impugnata, ma si limita a conformarsi alla interpretazione
prevalente. Se poi l’interpretazione prevalente risulta contro la Costituzione, la Corte ne dichiarerà
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l’illegittimità, vietando di fatto erga omnes di ricavare tale norma dalla disposizione in questione.
La Corte si ritrova, quattro mesi dopo la prima pronuncia, a doversi esprimere nuovamente
sull’esclusione del diritto di difesa dal procedimento sommario. Il giudice che impugna la disposizione
sottolinea come manchi l’adeguamento dei giudici alla precedente sentenza della Corte; la Corte è
costretta a cambiare atteggiamento e strategia: dichiara illegittima la disposizione nella parte in cui
l’inciso ‘in quanto applicabili’, rende possibile non applicare l’istruzione sommaria delle disposizioni.
La dottrina del diritto vivente induce la Corte a non opporsi ai giudici ordinari nell’interpretazione delle
leggi. Per cui ad oggi l’uso di sentenze interpretative di rigetto è notevolmente diminuito, ad esse si
ricorre principalmente per far valere l’interpretazione giurisprudenziale prevalente contro quelle difformi
dei giudici (sentenze correttive) o anche per forzare verso interpretazioni conformi a Costituzione le
norme su cui il diritto vivente non si è ancora affermato (sentenze adeguatrici).
Sentenze ‘manipolative’ di accoglimento
Le sentenze di accoglimento sono dette manipolative quando il loro dispositivo non si limita alla
semplice dichiarazione di illegittimità della legge o delle singole sue disposizioni, ma la illegittimità è
dichiarata ‘nella parte in cui’ la disposizione significa o non significa qualcosa, ossia per la norma che
essa esprime.
- Sentenze di accoglimento parziale, con esse la Corte dichiara illegittima una disposizione per
una parte del suo testo. È il modo in cui è scritta la disposizioni a spingere la Corte a pronunciare
questo tipo di sentenze: è un’applicazione del più generale principio di economicità.
- Sentenze additive, con cui la Corte dichiara illegittima la disposizione nella parte in cui non
prevede ciò che sarebbe costituzionalmente necessario prevedere. È una norma omessa dal
legislatore, aggiunta dalla Corte.
Va osservato che la Corte non è libera di inventare la norma da aggiungere al significato normativo della
disposizione; la Corte procede per ‘rime obbligate’: integra il testo legislativo completando il verso
scritto dal legislatore aggiungendo quella parola che, sola, può far tornare il calcolo delle rime, cioè
mantiene la coerenza sistematica dell’ordinamento. Mentre con le sentenze di accoglimento parziale, la
Corte compie un’operazione di ablazione, di eliminazione di parte delle disposizioni, con le sentenze
additive, la Corte compie una vistosa produzione normativa, aggiungendo alla disposizione una o più
norme. Questa opera creativa della corte è stata ampiamente criticata in quanto la produzione di norme
spetta, di regola, al legislatore e non al giudice. Tuttavia occorre considerare che, nell’impossibilità di
ricorrere alla sentenza additiva, e dovendo ristabilire la legalità costituzionale, la Corte avrebbe la sola
possibilità di dichiarare illegittima l’intera disposizione, creando notevoli vuoti normativi.
- Sentenze sostitutive, ovvero le sentenze con cui la Corte dichiara l’illegittimità di una
disposizione “nella parte in cui prevede X anziché Y”; ad esse la Corte ricorre per adeguare un
errore materiale del legislatore, per adeguare norme precostituzionali alle competenze
costituzionali degli organi, per sostituire la formula scorretta di una legge con una,
costituzionalmente corretta di un’altra, per tramutare una norma programmatica in una
precettiva. Anche in questo caso si opera seguendo due direttrici: da un lato la Corte procede per
rime obbligate, dall’altro vale sempre il principio di economicità.
Il problema degli effetti dell’accoglimento e i tentativi di regolarli
Le sentenze interpretative sono una soluzione elaborata dalla Corte per ovviare alla scarsità di strumenti
di cui la disciplina legislativa l’ha fornita. Se la Corte non potesse emanare sentenza interpretative di
rigetto sarebbe costretta a dichiarare l’illegittimità della disposizione ogni qual volta il giudice ne
proponesse un’interpretazione sbagliata ; se non potesse emanare sentenza manipolative, la disposizione
dovrebbe essere annullata per ogni errore facilmente rimediabile con un’estensione o una riduzione del
suo significato normativo. In assenza di un intervento del legislatore per arricchire la tipologia delle
decisioni della Corte, le sentenze restano di due tipi: di rigetto e di accoglimento. Le conseguenze delle
decisioni della Corte sfuggono al controllo della Corte stessa. Questa situazione diventa particolarmente
grave per le sentenze di accoglimento che comportano il divieto di applicazione della norma con effetti
retroattivi, dove e quando la sentenza produca effetti sfuggenti al controllo della Corte. Essa non sa
quanto costi, in termini di bilancio pubblico, l’estensione di una prestazione particolare ad una categoria
specifica (c.d. additive di prestazione), né quanti processi cadranno, dichiarata illegittima una regola
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processuale.
Questa condizione ineliminabile ha portato la Corte a cercare di limitare l’impatto delle sue sentenze,
elaborandone ulteriori tipologie:
- Sentenze monitorie o esortative, sono sentenze di rigetto nella cui motivazione la Corte rivolge
un invito al legislatore ad intervenire per rendere la disciplina adeguata alla Costituzione. Ma
perché la Corte non dichiara illegittima una disposizione che pure denuncia, in motivazione,
come non conforme a Costituzione? In alcuni casi la complessità della materia impedisce di
conformarla a colpi di sentenza: la riforma richiede valutazioni politiche da lasciare alla
discrezionalità del legislatore. In altri casi la Corte non può individuare il verso nel quale
procedere con una sentenza additiva, ciò accade in particolare per le sentenze che vertano su
un’insufficiente attuazione dei diritti di prestazione.
- Sentenze di legittimità provvisoria, ovvero quelle sentenze di rigetto il cui monito è
particolarmente forte e legato alla dichiarazione, ma contenuto solo nella motivazione, della
sicura incompatibilità della disciplina vigente con la Costituzione. La legge impugnata viene
perciò fatta salva in considerazione del fatto che essa è transitoria.
- Sentenze di accoglimento che autolimitano la retroattività dei propri effetti, in alcuni casi viene
indicato un evento del passato recente che ha provocato, ma solo da quella data, l’illegittimità
della legge in questione; in atri casi si è semplicemente dichiarato che la dichiarazione di
illegittimità opera solo pro futuro;
- Sentenze additiva di principio, ovvero sentenze di accoglimento in cui la dichiarazione di
illegittimità è accompagnata dall’indicazione dell’esigenza che il legislatore introduca i
meccanismi legislativi necessari alla piena operatività della sentenza stessa.
Tutte queste tipologie di decisione fanno emergere il problema di fondo: il legislatore è assai poco
sensibile alle indicazioni, agli inviti, ai moniti della Corte, manca cioè un seguito legislativo delle
sentenze della Corte. La Corte è spesso accusata di invadere la discrezionalità del legislatore, ma è
l’inerzia di questi a costringerla ad assumerne la supplenza. D’altra parte la Corte non ha alcun potere di
imporre ai giudici regole circa l’applicazione delle sue sentenze, e questi hanno sempre opposto alla
Corte la propria autonomia nel valutare le regole generali poste dalla legge e dalla costituzione.
I conflitti di attribuzioni tra i poteri dello Stato
I conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato, sono lo strumento con cui un “potere dello Stato” può
agire davanti alla Corte per difendere le proprie attribuzioni costituzionali compromesse dal
comportamento di un altro potere. Se la Costituzione rigida è un modo per porre limiti alle decisioni che
la maggioranza politica può assumere liberamente, questi limiti riguardano anche le regole che
presiedono ai rapporti tra gli organi costituzionali e gli fra gli organi costituzionali ed il corpo elettorale.
Il conflitto di attribuzione è lo strumento predisposto dalla Costituzione per affrontare la violazione di
queste regole e, per trasformare in giuridici i conflitti che in precedenza venivano trattati solo come
politici.
L’assetto della nostra forma di governo è complesso. In essa i poteri non sono solo i tre tradizionali, ma
ad essi si aggiungono numerosi altri soggetti che partecipano ai procedimenti decisionali e che non sono
riconducibili ai tre poteri tradizionali. L’esperienza ha dimostrato che conflitti di attribuzione possono
sorgere anche all’interno dei tre poteri tradizionali.
Il Ministro Mancuso compie una serie di atti pertinenti alla sua carica che suscitano forti polemiche. Il
Governo si dissocia dal suo operato e, il Senato, non per gli atti compiuti in quanto ministro, ma per
l’insanabile contrasto sorto fra lui e il Governo, vota una mozione di sfiducia individuale con la quel lo
impegna a rassegnare le dimissioni. Mancuso solleva conflitto di attribuzione contro il Senato,
contestando il potere delle Camere di sfiduciare singolarmente i ministri. Il Presidente del Consiglio si
reca dal Presidente della Repubblica e insieme confezionano un decreto con cui al primo è assegnato
l’incarico ad interim di ministro della giustizia. Mancuso ricorre alla Corte anche contro questo atto, la
Corte però dà torto tre volte a Mancuso: 1) considerando legittima la sfiducia al singolo ministro, come
strumento di controllo politico; 2) considerando atto dovuto le dimissioni a seguito di mozione di
sfiducia; 3) considerando un adempimento delle funzioni di garante della Costituzione l’atto con cui il
Presidente della Repubblica “solleva” dal suo incarico un ministro.
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Non sempre è facile distinguere i conflitti di attribuzione dai conflitti di competenza: al contrario dei
primi, i secondi sorgono tra organi che appartengono allo stesso “potere”, e devono essere risolti non
dalla Corte, ma da organi predisposti all’interno del “potere “ stesso.
Oggetto del conflitto
Il conflitto può sorgere sia da un atto di usurpazione del potere, sia dal comportamento di un organo che
intralci il corretto esercizio delle competenze altrui. Nel primo caso, il conflitto consiste in una vindicatio
potestatis; nella seconda ipotesi, non esiste rivendicazione di un potere usurpato, ma semplicemente la
contestazione del modo in cui un soggetto ha esercitato attribuzione che però sono incontestabilmente
sue. In quest’ultimo caso come si è detto il conflitto non sorge necessariamente da un atto ma da un
semplice comportamento, anche omissivo. L’unico ostacolo che sembra emergere con chiarezza dalla
giurisprudenza costituzionale è che non vi deve essere altro strumento di tutela giurisdizionale per la
difesa dell’attribuzione lesa: il conflitto di attribuzione ha una funzione tipicamente “residuale”.
Legittimazione processuale
Vi sono poteri tipicamente costituiti da un unico organo per i quali non si pone il problema di individuare
il soggetto con legittimazione processuale, mentre esistono poteri costituiti da più organi per i quali si
pone il problema di chi sia legittimato a stare in giudizio. Il problema è risolto dalla legge per la quale “il
conflitto sorge tra organi competenti a dichiarare la volontà finale dei poteri cui appartengono”. Quale sia
l’organo competente a dichiarare pare dipendere dalla struttura del complesso di organi.
Si contrappongono due modelli diversi: 1) il potere esecutivo, strutturato in modo gerarchico, nel quale è
abilitato a stare in giudizio il vertice della piramide, ovvero il Presidente del Consiglio; 2) il potere
giurisdizionale nel quale non esistono ne vertici ne gerarchia: qualsiasi giudice può essere parte attiva o
passiva del conflitto.
Aspetti processuali
Il giudizio vien introdotto dal ricorso presentato dalla parte che si ritiene lesa direttamente alla Corte
costituzionale: tale ricorso deve contenere “l’esposizione sommaria delle ragioni del conflitto e
l’indicazione delle norme costituzionale che regolano la materia”.
Questo conflitto è particolare poiché inizia da una valutazione della Corte circa l’ammissibilità del
conflitto. La Corte decide tramite ordinanza se il ricorso abbia presupposti oggettivi e soggettivi per
essere giudicato nel merito. Si tratta di una semplice delibazione: un giudizio sommario che in nessun
modo condiziona la successiva inammissibilità rilevata entrando nel merito del giudizio. Nel caso in cui il
ricorso venga giudicato ammissibile la Corte dispone che le parti controinteressate vengano notificate
entro un termine prestabilito. Se il ricorrente rinuncia al ricorso e se la rinuncia è accettata dalle parti, la
Corte dichiara “estinto” il processo; se le parti lasciano intendere il superamento del conflitto, la Corte
dichiara “cessata la materia del contendere”.
La sentenza che decide il conflitto dichiara a chi spetta la competenza con conseguente eventuale
annullamento dell’atto che ha generato il conflitto. Quando il conflitto sia stato generato dal modo in cui
il potere è stato esercitato, la formula del dispositivo fissa anche una vera e propria regola di esercizio
della competenza. In linea di principio la sentenza non dovrebbe avere effetti che per le parti.
I conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni
Se la decisione della Corte in un conflitto promosso da una Regione contro lo Stato è favorevole alla
regione, allora anche le altre Regioni beneficiano della sentenza, ossia dell’interpretazione espansiva
delle loro competenza data dalla Corte. Mentre se la decisione è favorevole allo Stato, le Regioni che non
erano parti nel giudizio non subiscono l’effetto giuridico della decisione.
Il conflitto tra Stato e Regioni nasce di solito dall’impugnazione di un atto, anche perché la Corte richiede
che la lesione della competenza sia concreta e attuale: ma il motivo dell’impugnazione è sempre la
menomazione della competenza. Essa può derivare sia dall’invasione della sfera di attribuzioni, sia dalla
menomazione o interferenza, ossia dall’aver provocato un impedimento all’esercizio delle attribuzioni
dell’ente. Il conflitto è introdotto da un ricorso, quindi il ricorrente deve dimostrare di aver subito una
lesione attuale e concreta della sua competenza.
Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo
Il giudizio di ammissibilità del referendum è introdotto con ordinanza dell’Ufficio centrale per il
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referendum che dichiara la legittimità della richiesta di tale istituto. Viene data comunicazione ai delegati
dei Consigli regionali o ai presentatori delle 500mila firme, nonché al Presidente del consiglio dei
ministri: essi possono presentare memorie e prendere parte alla discussione orale in camera di consiglio;
la Corte ha poi ammesso in via di prassi, che altri soggetti che vi abbiano interesse presentino memorie e
possano essere sentiti in camera di consiglio.
La Costituzione non ha previsto un controllo sulla legittimità del referendum, esso è stato introdotto con
legge costituzionale, la quale rinvia la disciplina procedurale alla legge ordinaria che regola il
referendum.
Il referendum non è ammesso per: leggi tributarie, leggi di bilancio, leggi di amnistia ed indulto e leggi di
autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali. La Corte però ha progressivamente allargato il suo
giudizio in varie direzioni, gli ulteriori motivi di inammissibilità sono i seguenti:
1) sono sottratti a referendum la Costituzione e le leggi costituzionali, ma anche le leggi con forza
passiva peculiare ovvero le leggi rinforzate;
2) sono sottratte a referendum anche le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, cioè quelle
il cui nucleo normativo non può essere alterato senza pregiudizio per i principi costituzionali,
oppure quelle che disciplinano il funzionamento di organi essenziali, solo quando l’ eventuale
abrogazione a seguito di referendum comporterebbe l’impossibilità di funzionamento
dell’organo;
Inoltre, i limiti posti dalla legge vanno interpretati estensivamente, per cui, si considerano inammissibili a
referendum non solo le sole leggi di approvazione del bilancio, ma anche le leggi che attengono alla
manovra finanziaria; non solo le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati, ma anche quelle che
servono alla loro esecuzione
3) Sono inammissibili i referendum il cui quesito non abbia una matrice razionale unitaria, cioè non
sia omogeneo: il quesito deve interessare disposizioni ricollegabili ad un comune principio, e
questo deve emergere con chiarezza.
Impressione generale è dunque che il giudizio di inammissibilità abbia perso contorni precisi ed
andamenti prevedibili, ciò espone la Corte a critiche inevitabili.
La giustizia politica
Con l’espressione giustizia politica si fa riferimento alle funzioni che la Corte costituzionale esercita nel
giudicare le accuse mosse contro il Presidente della Repubblica. L’art. 134 cost. prevede che la Corte
possa essere attivata per giudicare i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione compiuti dal
Presidente della repubblica nell’esercizio delle sue funzioni. In questo caso a metterlo in stato d’accusa è
il Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta e, a giudicarlo è la Corte in seduta integrata da 16
cittadini estratti dalle liste dei candidabili al Senato compilate ogni 9 anni (i giudici aggregati godono
dello stesso status dei membri ordinari della Corte). Nell’ordinamento odierno le uniche ipotesi di
responsabilità penale del Presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni sono, come si è
detto, l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione. Tali formule sono interpretate in senso restrittivo:
solo quei fatti incostituzionali caratterizzati da dolo specifico sono imputabili; inoltre, buona parte
dell’opinione ritiene che queste due figurae criminis siano in realtà un’ unica complessa figura, in quanto
appare difficile immaginare un attentato alla Costituzione che non sia anche alto tradimento e viceversa.
Il procedimento di giudizio si compone si due fasi: la prima fase, si svolge davanti al Parlamento in
seduta comune, competente a deliberare la messa in stato d’accusa; tale deliberazione è preceduta da
un’attività di indagine svolta da un Comitato che dispone di 5 mesi per acquisire e valutare materiale
probatorio per la notitia criminis. Possono esser disposte intercettazioni telefoniche, perquisizioni
personali e domiciliari, nonché provvedimenti cautelari limitativi della libertà personale degli inquisiti: i
poteri del sopraddetto comitato sono ampissimi. Al termine di tale attività di indagine il comitato può:
ritenere palesemente infondata l’accusa e procedere all’archiviazione; presentare una relazione sula
messa in stato d’accusa; dichiarare la propria incompetenza nel caso in cui il reato non rientri tra quelli
previsti dall’art. 90 cost.
Sulla base delle conclusioni del comitato il Parlamento procede alle votazioni, la messa in stato d’accusa
deve essere approvata a maggioranza assoluta. In attesa di giudizio il Presidente della Repubblica può
essere sospeso dalla carica, in via cautelare, con ordinanza della corte costituzionale. La seconda fase,
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solo eventuale si svolge dinnanzi alla Corte costituzionale. Per i reati così gravi possono essere
comminate le sanzioni penali nei limiti di quanto stabilito nelle leggi vigenti al momento del fatto,
nonché le sanzioni costituzionali, amministrative e civili adeguate al fatto.
Rientravano nella giustizia politica, prima della modifica con legge costituzionale anche i c.d. reati
ministeriali. Originariamente la costituzione prevedeva la messa in stato d’accusa anche per il Presidente
del Consiglio e i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, il relativo giudizio si
svolgeva davanti alla Corte costituzionale. A seguito di referendum popolare con cui vengono abrogate le
disposizioni relative alla c.d. “commissione inquirente”, la legge costituzionale ha modificato la
Costituzione, investendo la magistratura ordinaria della competenza a giudicare i reati ministeriali.
Competente a svolgere le indagini sui reati in oggetto è uno speciale collegio giudiziario: il Tribunale dei
ministri, per ciò che riguarda l’individuazione dei reati ministeriali si può affermare che essi concernono
solo i fatti commessi nell’esercizio delle funzioni di governo.
Il Ministro Mattioli viene sottoposto a procedimento penale per rivelazioni di segreto d’ufficio e
favoreggiamento: il Tribunale dei ministri di Firenze ritiene che il reato non abbia natura “ministeriale” e
trasmette gli atti alla procura del tribunale ordinario. La Camera nel frattempo, solleva conflitto di
attribuzione nei confronti del Tribunale ordinario e di quello dei ministri in quanto, non avevano
consentito alla Camera di esercitare le proprie attribuzioni in merito all’autorizzazione a procedere.
La Corte da ragione alla ricorrente, ritenendo che né il tribunale dei ministri né quello ordinario possano
decidere della ministerialità dei reati senza prima aver investito il Parlamento delle sue funzioni. Diverso
esito hanno recentemente avuto il “caso Ruby” e il “caso Mastella” nei quali la Corte ha ritenuto che non
sia necessario investire la Camera di appartenenza quando sia palese che il reato non abbia i caratteri
della ministerialità.
A seguito della dichiarazione di incostituzionalità del c.d. Lodo Alfano ogni membro del Governo incorre
in responsabilità pari a quelle di qualsiasi cittadino, salvo la possibilità di poter ricorrere al legittimo
impedimento per i soli reati “comuni” non anche per quelli “ministeriali”.

CAPITOLO XIII – DIRITTI E LIBERTA’


Il principio di eguaglianza
L’art. 3 della Costituzione enuncia il principio di eguaglianza. Nel primo comma esso esprime il principio
di eguaglianza formale e una serie di divieti specifici di discriminazione (nucleo forte dell’eguaglianza);
nel secondo comma esprime il principio dell’eguaglianza sostanziale.
La formulazione tradizionale del principio di eguaglianza formale prescrive che si trattino in modo
uguale situazioni uguali ed in modo diverso situazioni diverse. Tale principio ha portata astratta.
Le prime istanze di eguaglianza giuridica formale sono state avvertite per il bisogno di superare il
particolarismo giuridico. Il diritto era frammentato su base locale e su base personale, con complesse
sovrapposizioni tra legislazione statale, statuti e consuetudini locali, diritto romano impiegato come
diritto comune e complesse differenziazioni basate sullo status sociale delle persone. Per superarlo si
avviarono, nelle monarchie illuminate dell’Europa centrale, i primi tentativi di codificazione, ossia di
riunificazione del diritto in un unico testo. Restava tuttavia il problema delle differenziazioni personali.
L’unificazione dei soggetti fu possibile grazie all’apposizione alle persone fisiche della “maschera” della
persona giuridica.
A chi si rivolgono tali prescrizioni? Essenzialmente al legislatore, cui la Costituzione vieta di creare
privilegi o discriminazioni ingiustificate. Il diritto si occupa di uomini e situazioni che fra loro si creano,
essendo gli uomini diversi anche le situazioni che si vengono a creare fra loro devono essere
necessariamente diverse e, come tali, valutabili in senso di somiglianza o dissomiglianza. Dire che due
cose si assomigliano significa che fra loro sono più significative le affinità piuttosto che le diversità,
perciò il giudizio di eguaglianza formale non è “formale” ma rinvia alla giustificazione delle differenze
inevitabili.
Il nucleo forte del principio di eguaglianza vieta distinzioni di “sesso, razza, lingua, religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali” ma le vieta in modo assoluto? No. Esso vieta esclusivamente
di introdurre differenziazioni che siano motivo di una discriminazione nel godimento dei diritti e delle
libertà, mentre ammette la legislazione positiva nella misura in cui essa sia necessaria ad impedire che
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esistano elementi di una discriminazione di fatto.
Nella lotta alle discriminazioni, accanto al principio di eguaglianza contenuto nell’art. 3, si è sviluppata
nella più recente legislazione una tutela antidiscriminatoria che ha l’obiettivo di combattere gli effetti di
pratiche discriminatorie provenienti da soggetti pubblici o privati. Chi subisce tali discriminazioni può
agire di fronte al giudice senza alcuna formalità ed ottenere un provvedimento che ordini la cessazione
del comportamento pregiudizievole.
Il principio di eguaglianza sostanziale mira esattamente alla rimozione degli ostacoli di carattere
economico e sociale, che impediscono l’eguale godimento dei diritti e delle libertà. Questo compito può
essere assolto soltanto derogando al principio di eguaglianza formale: la legislazione ‘positiva’ non può
che travolgere esclusivamente singole categorie di individui, escludendo dai benefici gli altri. Mentre il
principio di eguaglianza formale sembra promettere leggi più generali ed astratte possibili, il principio di
eguaglianza sostanziale vuole l’opposto: leggi che provvedano alle singole situazioni di svantaggio.
Tale apparente contrasto fra i due principi è stato spesso enfatizzato quale inconciliabile contrasto fra lo
Stato liberale (basato sull’eguaglianza formale) e lo Stato sociale (rivolto all’eguaglianza sostanziale).
Come si vede i due principi si limitano e si completano a vicenda: quello sostanziale stempera la dura lex
che non ammette eccezioni in nome della giustizia, mentre quello dell’uguaglianza formale impedisce
alle azioni positive di diventare a loro volta fonte di ingiustizia.
Il principio di ragionevolezza
Il principio di ragionevolezza alla base di gran parte delle decisioni della Corte costituzionale. Esso non si
forma su una norma costituzionale precisa, ma trova riscontro in tutte le norme che richiamano
direttamente l’eguaglianza. Il giudizio di ragionevolezza ha una struttura complessa: in sostanza esso
pone a confronto la norma impugnata e la norma assunta a confronto, in gergo il tertium comparationis. Il
giudizio non può compiersi se la Corte non individua la ratio della norma assunta a tertium
comparationis. A questo punto si configura una struttura triangolare: che vede alla base la norma
impugnata e la norma tertium comparationis e, al vertice la ratio legis. Il triangolo si chiude solo se la
ratio del tertium comparationis è la stessa della norme impugnata.
L’intero ragionamento lungo cui si svolge il giudizio di ragionevolezza è contento nel confronto fra le
regole poste a confronto e il principio di cui esse sono espressione. Il principio di eguaglianza non è
direttamente coinvolto ma resta sullo sfondo come regola di coerenza dell’ordinamento giuridico.
La coerenza non è certo un elemento proprio dell’ordinamento, ma un compito del giurista come
interprete delle leggi. Quando il giudice si imbatte in una legge che gli impedisce di ricavarne norme
coerenti col resto del sistema può ricorrere alla Corte: in questo modo si espande immediatamente
l’ambito di applicazione di una importante strumento che ha l’interprete per superare le antinomie, il
criterio gerarchico.
In generale, tanto più un giudice riesce a fotografare nel petitium il caso che gli è sottoposto e ad
evidenziarne le qualità che lo rendendo assimilabile o meno al tertium comparationis, tanto più probabile
sarà che la norma accolga la questione.
La regola di coerenza, implicita nel principio di eguaglianza, può essere espressa così: il legislatore è
libero di scegliere le finalità, il programma , il principio da sviluppare con le sue disposizioni ma, nel
farlo, non può escludere dalla fattispecie situazioni in essa sussumibili, deve svilupparlo con coerenza. La
Corte può essere chiamata a ripristinare la coerenza e in genere si esprimerà con pronunce che avranno
per lo più la forma della sentenza interpretativa di accoglimento creando, di fatto una nuova norma. La
nuova norma può tuttavia essere a sua volta successivamente assunta come tertium comparationis e dar
luogo ad una serie di pronunce volte a riportare coerenza all’interno di un determinato segmento
dell’ordinamento.
Le leggi prevedono da tempo che le lavoratrici madri possano astenersi in certi casi dal lavoro per
assistere i figli. La legge è chiara a questo proposito: i benefici possono essere accordati solo alle madri;
se un padre avesse necessità di beneficiare di tale concessione non potrebbe farlo. Non gli resta che
rivolgersi alla Corte denunciando l’illegittimità della legge per violazione del principio di uguaglianza.
Madre e padre non sono per ovvie ragioni uguali nella procreazione, ma tuttavia la ratio dell’astensione
dal lavoro non orbita attorno alla procreazione stessa ma riguarda la tutela del minore. In quest’ambito le
attribuzioni del padre e della madre sono identiche. Per questo motivo la Corte ha esteso, in casi
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particolari, l’astensione dal lavoro anche per i padri che ne necessitano per la cura dei figli.
Successivamente, allo stesso modo, si ricorre alla Corte per la concessione dei riposi giornalieri e i
permessi lavorativi per l’allattamento. Tali permessi non sono concessi secondo la riflessione della Corte
per la tutela della salute della madre, bensì anche per quella del figlio. Ancora una volta la Corte compie
un passo successivo e estende questi diritti anche al padre, che, sempre in situazioni particolari, debba
badare al figlio. La Corte ha creato di fatto un nuovo principio. Sulla scia di queste aperture un padre
detenuto chiede ed ottiene di poter godere delle stesse concessioni che avrebbe, nella sua condizione, una
madre. Non passa neppure un anno e la Corte deve accettare un’ulteriore applicazione estensiva della sua
norma: non si può escludere dal beneficio di astensione dal lavoro obbligatoria il padre non più nel solo
caso di impedimento della madre. La legge viene perciò nuovamente dichiarata illegittima “nella parte in
cui essa non estende in via generale e in ogni ipotesi al padre lavoratore, in alternativa alla madre
lavoratrice consenziente, il diritto ai riposi giornalieri”
Libertà e diritti costituzionalmente garantiti
Una delle componenti essenziali presente in tutte le Costituzioni moderne è la disciplina dei diritti e delle
libertà. Essa costituisce anzi un elemento fondante della stessa forma di stato e, come tale a risentito
enormemente dei cambiamenti della forma di stato stessa.
Si parla di situazioni giuridiche soggettive per riferirsi genericamente a posizioni attive e posizioni
passive. Le posizioni giuridiche attive si distinguono in diritti e libertà: il termine libertà sottolinea l’
aspetto negativo di non costrizione da parte di terzi, il termine diritto invece evidenzia l’aspetto positivo
di pretesa. Aspetto negativo e positivo sono strettamente legati in ogni libertà e in ogni diritto. Entrambi,
diritti e libertà sono “costosi”, cioè necessitano di un’organizzazione pubblica
Altra distinzione comune è quella fra diritti assoluti e diritti relativi: i diritti assoluti sono quei diritti che
si possono far valere verso tutti, erga omnes; possono essere diritti della persona o diritti reali ma hanno
comunque per contenuto una libertà il cui esercizio non richiede prestazioni ma la semplice non
interferenza. I diritti relativi sono quei diritti valevoli sono nei confronti dei soggetti determinati, ai quali
è richiesta una prestazione. Tutti i diritti relativi o assoluti necessitano si regole che fissino i modi
differenti con cui essi possono essere limitati e il punto di equilibri fra chi li vanta e gli interessi degli
altri soggetti. In ogni caso si tratta di diritti tutelati dalla Costituzione per cui, una legge che non mi
assicuri determinate prestazioni dovute o che non mi garantisca da pregiudizi arrecatimi da terzi potrebbe
essere dichiarata illegittima.
Notevole credito ha avuto anche la distinzione fra diritti individuali e diritti funzionali. I diritti individuali
sono attribuiti alla persona in quanto tale, per un suo vantaggio personale e per finalità che il singolo è
libero di scegliere ed apprezzare. Mentre i diritti funzionali sono attribuiti al singolo per il perseguimento
di finalità predeterminate a vantaggio della comunità.
Questa distinzione si è resa utile nell’ambito dell’interpretazione dell’art. 21 che disciplina la libertà di
pensiero. Negli USA la stretta connessione fra democrazia e libertà di espressione ha posto in essere un
sistema sanzionatorio per quale espressioni di pensiero dannose per ,la democrazia stessa. In Germania
addirittura la Costituzione federale sanziona con la perdita dei diritti fondamentali, chi “abusi della libertà
di pensiero per combattere contro i principi liberal-democratici dell’ordinamento”. Tali disposizioni si
basano su un’idea di democrazia “combattente” che si deve difendere dai suoi nemici.
Oggi questa distinzione è superata, tutti i diritti, individuali o funzionali che siano devono conciliarsi fra
loro e subiscono la concorrenza di altri interessi: il bilanciamento degli interessi è la regola
dell’applicabilità di ogni diritto di cui determina i limiti.
Di antica trazione è la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, essa può avere rilievo anche a
proposito dei diritti fondamentali nel senso che incerte situazioni alcuni diritti soggettivi possono
degradare ad interesse legittimo. Ciò avviene in particolare quando la Costituzione prevede che
l’esercizio di alcuni diritti possa essere limitato da comportamenti della pubblica amministrazione, ad
esempio attraverso provvedimenti amministrativi o divieti. Così la libertà di riunione in luogo pubblico,
sancita dall’articolo 17 della Costituzione, è degradata ad interesse legittimo quando “per comprovati
motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” il questore la vieti.
Tutte le distinzioni tra libertà che tutelano l’individuo, libertà che tutelano le formazioni sociali, i c.d.
diritti sociali e i diritti politici sono distinzioni che non separano fenomeni totalmente diversi, piuttosto
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segnano il diverso grado di tutela che gli conferisce la Costituzione: è ovvio che la tutela sarà più
stringente laddove riguarda la libertà fisica della persona e si va allentando dirigendosi verso i punti più
lontani della sfera d’azione dell’individuo.
Strumenti di tutela
Ma la vera novità delle Costituzioni rigide è non solo di aver allargato il catalogo delle libertà e dei diritti
alle esigenze proprie dello Stato sociale, ma di aver potenziato gli strumenti di garanzia anche dei ‘vecchi
diritti’. I congegni di protezione delle libertà sono ovviamente diversi e diverse sono le modalità con cui
operano.
Eccone i principali:
- La riserva di legge. Alla legge è riservata la disciplina dei casi e dei modi con cui le libertà
possono essere limitate, con la maggiore o la minore intensità delle tutele di legge varia anche
l’intensità della riserva di legge: le libertà che tutelano l’individuo sono sempre corredate da
riserve assolute di legge, se non addirittura da riserve rinforzate per contenuto, mentre nel campo
delle libertà economiche predominano le riserve relative.
- La riserva di giurisdizione. Solitamente rafforza ulteriormente la riserva di legge poiché è un
meccanismo che riduce ancora lo spazio di valutazione discrezionale dell’autorità pubblica. Essa
condiziona ogni intervento restrittivo delle libertà individuali ad una previa autorizzazione da
parte del giudice.
- La tutela giurisdizionale. “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed
interessi legittimi” (art. 24.1 Cost.): tale disposizione garantisce a chiunque la possibilità di
ricorrere al giudice ogni qual volta venga violato un suo diritto, sia da parte di una pubblica
amministrazione sia da parte di un privato. Il diritto alla difesa è un completamento
indispensabile delle norme che riconoscono i diritti e le libertà, il ricorso al giudice costituisce
una garanzia solo se il giudice e il processo sono organi organizzati secondo precise regole di
garanzia.
Può agire davanti al giudice civile o amministrativo soltanto chi dimostri di avere un interesse concreto,
ovvero chi rischi di subire un danno ingiusto e che sussista al momento del giudizio ma non può farlo chi
agisce in nome di un interesse comune. Solo ed esclusivamente se le azioni in corso realizzano un’ipotesi
di reato allora questi potrà segnalare il fatto alla procura della repubblica perché questa inizi un’indagine
penale. Ciò spiega il ricorso massiccio all’esposto penale per far valere gli interessi diffusi e spiega
l’estensione dell’area del penalmente illecito. Anche per questa ragione la legislazione recente va nella
direzione di riconoscere capacità di agire, per la protezione degli interessi collettivi, alle associazioni che
di questi interessi si fanno protettrici (ad esempio in materia di ambiente).
- La responsabilità del funzionario. La Costituzione stabilisce la responsabilità diretta del
funzionario o dei dipendenti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti. Anche se il
significato di tale disposizione è tutt’ora poco chiaro e alquanto ridotto, l’esistenza di tali
responsabilità civile ed amministrative costituiscono indubbiamente una garanzia per i diritti
soggettivi avendo valore deterrente e assicurazione di risarcimento.
Allo stesso modo rispondono i magistrati. Se un giudice fosse esente dalla responsabilità per i sui atti, la
tutela delle libertà risulterebbe fortemente sminuita. La precedente legislazione limitava la responsabilità
civile del giudice ai soli casi di dolo, di frode e concussione, nonché di diniego di giustizia. Questa
limitazione della responsabilità è stata molto criticata soprattutto quando la Corte ha esteso anche agli atti
compiuti dai giudici la responsabilità solidale dello Stato che di fatto ha stemperato la possibilità di una
responsabilità personale del giudice.
All’abrogazione di questa legge a seguito di referendum seguì una nuova legislazione che limitava la
responsabilità per danno ingiusto provocato da organi giudiziari alla colpa grave ed al dolo, prevedendo
che l’azione risarcitoria venga esercitata contro lo Stato che poi può rifarsi sul giudice in questione, anche
questa legge è oggetto di contestazioni, in quanto è accusata di aver ripristinato una legislazione
garantistica per i magistrati. Si aggiunga poi che recentemente la Corte si è espressa in occasione della
sent. Traghetti del Mediterraneo affermando che l’errore di un giudice può innescare la responsabilità
dello Stato per infrazione del diritto UE e, perciò, la responsabilità del magistrato non può essere limitata
al solo dolo o colpa grave.
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- Il sindacato di legittimità costituzionale. Che riveste un’importanza decisiva per la tutela dei
diritti fondamentali; la Corte costituzionale infatti è chiamata a controllare che la legislazione
ordinaria non comprima le garanzie fino ad annullarle. Non è quindi un eccesso di realismo
affermare che diritti fondamentali sono quelli che la Corte dice essere tali.
L’applicazione delle garanzie costituzionali
La giurisprudenza ha inciso per ogni profilo della tutela costituzionale dei diritti: sia per quanto riguarda
l’ambito soggettivo, sia per quanto riguarda l’ambito oggettivo, sia infine per ciò che riguarda i rapporti
tra i diversi diritti, per il loro bilanciamento.
Ambito soggettivo Cittadini e stranieri
In alcuni casi la Costituzione riconosce a tutti la tutela dei diritti, in altri casi solo ai cittadini. Si pone il
problema di in quale misura i diritti riservati ai cittadini possano essere estesi anche agli stranieri: tale
estensione non può ritenersi automatica sulla base del solo principio di uguaglianza, dato che l’art. 3 si
riferisce esplicitamente ai soli cittadini. Va considerato anzitutto l’art. 10 che per lo status giuridico dello
straniero pone una riserva di legge rinforzata: “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla
legge in conformità con i trattati internazionali”.
Due esempi: in base ai trattati si è sancita per i cittadini di altri Stati europei la possibilità dell’elettorato
attivo e passivo per le elezioni del Parlamento europeo e per le elezioni comunali, la legge che ha
autorizzato la ratifica della Convenzione di Strasburgo poi ha esteso agli stranieri anche il diritto di
espressione, di riunione e di aggregazione politica. La CEDU che riconosce a tutti i diritti fondamentali,
seppure formulandoli in modo diverso dalla nostra Costituzione, e garantisce uno standard minimo di
tutela anche agli stranieri.
La Corte però ha intrapreso anche un’altra strada al fine di estendere i diritti agli stranieri: essa fa perno
sull’art. 2 che sancisce il riconoscimento e la garanzia dei diritti fondamentali e lo ricollega agli art. 13 e
seguenti che configurano invece una serie di diritti inviolabili, con la conseguenza che essi appartengono
all’uomo come essere libero, senza discriminazioni a danno degli stranieri. La Corte è giunta ad
affermare il principio dell’estensione dei diritti inviolabili anche agli stranieri aggregando art. 2 e artt. 13
e seguenti da un lato e dall’altro applicando le garanzie riconosciute agli stranieri sulla base dei trattati
internazionali.
Occorre osservare che: l’estensione opera sulla sola base dei diritti ritenuti esplicitamente ‘inviolabili’
dalla Costituzione, per gli altri vige la regola fissata dall’art. 16 delle Preleggi alla quale sembra essersi
sovrapposta la legge 40/1998 che prevede: ‘allo straniero anche se clandestino, sono riconosciuti i diritti
fondamentali della persona previsti dalle regole interne. Egli è in condizione di parità di trattamento col
cittadino per ciò che riguarda la tutela giurisdizionale e dei diritti degli interessi legittimi, nei rapporti con
la pubblicazione nei modi previsti dalla legge. Lo straniero regolare gode dei diritti civili del cittadino
salvo che le Convenzioni internazionali e la legge presente dispongano diversamente. Sempre se regolare,
lo straniero partecipa alla vita pubblica locale’. L’ambito di applicazione dell’art. 16 appare assai
limitato, riguarda i soli stranieri non regolari e per questioni che non attengano ai diritti fondamentali.
In secondo luogo l’eguaglianza dello straniero nei diritti inviolabili non è una regola ma un principio e,
come tale non è tassativo. Non è vietato al legislatore di prevedere oneri o limitazioni particolari per gli
stranieri purché essi siano giustificabili sulla base della loro condizione. La condizione di straniero può
essere la ratio distinguendi che giustifica la ragionevolezza di differenze fra la disciplina dello straniero e
quella del cittadino. In quest’ottica sono previsti per gli stranieri limiti di tempo e particolari
autorizzazioni per il soggiorno in Italia, la possibilità di espulsione ed estradizione.
Agli stranieri la Costituzione riserva dei diritti particolari riconducibili all’etichetta del diritto di asilo. Il
diritto di asilo è il diritto soggettivo riconosciuto allo straniero al quale sia impedito nel suo Paese
l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite in Italia. Il riconoscimento dello status di
rifugiato ha importanti conseguenze perché chi lo consegue non può essere né sottoposto a estradizione,
né sottoposto a espulsione. L’estradizione è la consegna di una persona ad uno Stato straniero perché
questa venga sottoposta a giudizio (la Corte ha negato che si possa estradare per reati puniti con la pena
di morte nel Paese richiedente). L’espulsione è invece l’atto con cui lo stato allontana dal proprio
territorio lo straniero (questo non può essere riconsegnato ad un Paese nel quale sarebbe vittima di
persecuzione).

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La Drittwirkung dei diritti costituzionali
Altro problema che si pone è se i diritti soggettivi possano essere fatti valere solo nei confronti
dell’autorità pubblica o anche nei rapporti tra privati. La Corte ha più volte sancito l’efficacia erga omnes
di singoli diritti di libertà, come la libertà di manifestare il pensiero, il diritto di avere una casa, il diritto
alla salute ed il divieto di discriminazione.
Un’impresa di vigilantes licenzia una dipendente donna poiché nessun cliente vuole farsi difendere da
un’appartenente al sesso debole. La questione va davanti al pretore che solleva la questione di legittimità
della legge nella parte in cui la legge non prevede che sia giustificabile il licenziamento di una dipendente
donna se un terzo rifiuta di risolvere il contratto con l’impresa per i motivi di sopra. La Corte ovviamente
rigetta la questione, e afferma che il principio di uguaglianza fra uomo e donna ha efficacia per tutti i
cittadini che devono rispettarlo, pertanto non solo il datore di lavoro non può licenziare la dipendente
donna per i motivi sopra, ma anche il cliente non può risolvere il contratto per le stesse ragioni.
Ambito oggettivo
Tutte le disposizioni costituzionali impiegano termini tecnici che hanno bisogno di definizione. La Corte
ha sistematicamente respinto l’idea che le nozioni costituzionali siano “pietrificate” ed ha invece
accreditato la tesi che le nozioni evolvano così come evolve la coscienza sociale, la legislazione, la
giurisprudenza e la tecnologia. Le definizioni dei termini giuridici presentano, attorno ad un nucleo
centrale storicamente consolidato, una vasta area che va sfumando man mano che ci si allontana dal
nucleo iniziale e rispetto alla quale si pongono di continuo problemi di definizione.
I termini, le nozioni, le regole, possono subire un’interpretazione evolutiva. Nell’interpretazione del testo,
ciò che conta è la sua ratio, il principio che oggettivamente esprime e non l’intentio del legislatore. Perciò
la disposizione può evolvere i suoi significati, ricomprendervi fenomeni del tutto nuovi e talvolta anche
contrari a quello che il legislatore ha immaginato. Questo fenomeno è noto con la locuzione di
eterogenesi dei fini.
Attraverso proprio l’interpretazione evolutiva la Corte è riuscita a fornire garanzia costituzionale ai c.d.
nuovi diritti.
La definizione dei termini costituzionali non è statica ma ha uno sviluppo dinamico. L’arbitro di questo
sviluppo è la Corte costituzionale. Il fenomeno dell’anacronismo legislativo fa si che una norma un
tempo compatibile con la costituzione, risulti, in un secondo momento con essa incompatibile.
L’anacronismo può essere causato da: 1) il mutamento dei costumi sociali che può rendere un giorno
incompatibile con la costituzione un determinata norma che in precedenza era tollerabile. L’anacronismo
di queste norme ne causa l’illegittimità;
2) l’evoluzione tecnologica che crea l’esigenza di ridefinire le nozioni costituzionale per adattarle alle
nuove fattispecie;
3) anche l’evoluzione della stessa legislazione ordinaria può essere causa di anacronismo.
Quando la disciplina normativa di una certa materia viene riformata, nell’ordinamento restano i residui
della vecchia legislazione. La Corte dichiara illegittime le norme “rimaste indietro” applicando il
principio di ragionevolezza: l’argomento dell’anacronismo viene utilizzato per rendere più armonico il
sistema normativo - la disposizione anacronistica è dichiarata illegittima non perché stona con un
principio costituzionale ma perché è obsoleta rispetto ad una norma presa a tertium comparationis.
L’evoluzione indotta dal diritto internazionale
Sempre più spesso la Corte ricorre alle convenzioni internazionali per aggiornare il significato delle
disposizioni costituzionali. Le norme di un trattato internazionale non possono costituire un parametro di
validità della legge ordinaria in quanto non sono superiori ad esse nella gerarchia delle fonti. Questa
situazione ha reso particolarmente problematica l’attuazione delle convenzioni internazionali che tutelano
i diritti dell’uomo e, in particolare, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La CEDU ha una particolarità: funziona con strumenti tipici del diritto positivo, ha un giudice e delle
sanzioni. Stati ed individui possono ricorrere direttamente alla Corte, esaurite le vie del ricorso interne,
contro violazioni dei diritti e delle libertà sanciti dalla CEDU. La corte di Strasburgo concorre, con la sua
giurisprudenza, a ridefinire i contenuti della CEDU ed ha il potere di dichiarare, nel caso specifico, se
sussista o meno la violazione e di disporre un equo indennizzo alla parte lesa che il governo colpevole
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deve pagare.
L’Italia è costantemente condannata per i tempi biblici della sua giustizia, dato che una norma CEDU
stabilisce che il processo debba svolgersi pubblicamente ed entro un termine ragionevole.
Per molto tempo la Corte costituzionale ha dimostrato un atteggiamento di scarsa apertura verso il CEDU
, tuttavia lo ha impiegato molte volte per interpretare le norme costituzionali sui diritti di libertà
concorrendo, di fatto, alla sua integrazione con l’ordinamento nazionale. La Corte ha inoltre stabilito che
tutti i trattati internazionali si pongono come limite per la legislazione ordinaria e quindi come limite
interposto nei giudizi di legittimità sulle leggi italiane.
Bilanciamento dei diritti
Il bilanciamento dei diritti è una tecnica impiegata dalle corti costituzionali per risolvere le questioni di
costituzionalità concernenti un contrasto fra diritti o interessi diversi. Diritti e libertà sono espressi come
principi, sono dotati di un elevato grado di genericità e non sono circostanziati. Per questo motivo,
considerati in astratto, i principi non collidono mai, ma nella applicazione concreta i conflitti fra essi si
verificano sistematicamente. In pochi casi la stessa Costituzione indica in nome di quali interessi un
diritto costituzionale può essere limitato, in questo modo il costituente ha cercato di indicare il limite oltre
il quale la garanzia del diritto cessa del tutto o subisce un’eccezione.
Ipotesi di conflitto tra interessi (o diritti)
Si possono individuare almeno tre tipologie di conflitti tra interessi:
1) concorrenza tra soggetti diversi nel godimento dello stesso diritto: le risorse sono limitate e
quindi c’è un problema di regolazione della concorrenza;
2) concorrenza tra interessi individuali non omogenei;
La pronuncia della Corte sull’aborto è una delle sentenze più celebri in cui opera un bilanciamento di
interessi. Essa, interrogata sul problema, dà una risposta parziale: dichiara illegittima la disposizione
“nella parte in cui non prevede che a gravidanza possa essere interrotta quando un’ulteriore gestazione
provochi danno, pericolo grave non altrimenti evitabile per la madre”. Riconosce la “tutela del concepito”
come costituzionale. Nascere sarebbe dunque un diritto inviolabile allo stesso modo in cui lo è il diritto
alla salute della madre. La Corte ritiene che in questo caso debba essere privilegiato il diritto della madre
poiché non esiste equivalenza fra la salvaguardia della vita e della salute di chi già è in vita e la tutela di
chi non lo è ancora. Tuttavia la preferenza non è assoluta, la corte richiede che siano rispettati alcuni
limiti: che la minaccia per la madre sia accertata medicalmente e non altrimenti risolvibile, che tutto il
possibile sia fatto per salvare la vita del feto.
3) Concorrenza fra interessi individuali ed interessi collettivi.
Schema del giudizio di bilanciamento
Quando la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del compromesso tra interessi configgenti
fissato dalla legge, non può basarsi su considerazioni astratte ne può compiere giudizi astratti, ma deve
procedere con valutazioni che in parte ricordano e in parte si sovrappongono a quelle tipiche del giudizio
di ragionevolezza. Innanzitutto la Corte deve individuare la ratio legis e valutare la legittimità del fine in
questione. Qualora il fine stesso fosse illegittimo, il giudizio si chiuderebbe immediatamente con un
giudizio di illegittimità. Poi la Corte valuta la congruità del mezzo rispetto al fine, se non vi fosse
congruità vi sarebbe difetto di ragionevolezza e conseguente pronuncia di illegittimità. La Corte procede
quindi ad un giudizio basato sul principio di proporzionalità: valuta il “costo” della tutela accordata ad un
interesse, non costo in termini finanziari, ma costo in termini di compressione dell’altro interesse
coinvolto nel bilanciamento. È questo il nucleo essenziale del giudizio di bilanciamento. Le domande che
la Corte si pone sono due: 1) per raggiungere il suo obiettivo, il legislatore disponeva di uno strumento
meno “costoso” in termini di compressione dell’altro interesse? 2) Il sacrificio imposto all’interesse
concorrente è totale o consente comunque un sufficiente esercizio di quel diritto?
Il legislatore può ragionevolmente comprimere la tutela di un interesse ma non può giungere al punto di
annullarlo, di violare il suo contenuto essenziale. Il giudizio di bilanciamento è qualcosa che si basa su
criteri di ragionevolezza e di buon senso più che sulla rigorosa interpretazione della Costituzione, perciò
è sempre stato visto dalla dottrina con sospetto, tuttavia l’infinità varietà dei casi e delle ipotesi di
conflitto, non consente, a nessuna Corte costituzionale, di sottrarsi a questo compito ne di assolverlo con

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modalità diverse.
I ‘nuovi diritti’
La tecnica del bilanciamento degli interessi consente alla Corte di prendere in considerazione anche
interessi che non hanno specifico rilievo in Costituzione: sono i c.d. nuovi diritti. La Corte ha talvolta
affermato l’esistenza di un diritto fondamentale dell’abitazione, riconosciuto il diritto all’identità
sessuale, il diritto alla vita e la libertà di coscienza, tutti diritti che non trovano un ‘ancoraggio’ in
Costituzione.
Anche il diritto alla procreazione è entrato nei ‘nuovi diritti’; come spesso avviene è il progresso
tecnologico e scientifico ad apre la porta ai nuovi diritti: in questo caso in materia di riproduzione
assistita i timori di abusi hanno prevalso ed hanno portato all’approvazione molto restrittiva, soprattutto
per ciò che riguarda la ricerca delle cellule staminali. Il tema è stato oggetto di un dibattito molto acceso,
culminato con il referendum abrogativo della legge 40, senza alcun risultato per mancato raggiungimento
del quorum. È stata la Corte ad eliminare una dopo l’altra le norme più restrittive, allargando l’esercizio
del diritto alla procreazione.
Parte della dottrina ha riconosciuto che tali diritti abbiano riscontro nell’art. 2. La disposizione “la
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” è stata letta come un catalogo aperto dei
diritti, che consente di importare nella nostra Costituzione tutti quei diritti che l’evoluzione sociale ha
posto in essere. Tutti i diritti preesistono al diritto; è compito di questo riconoscerli adattando le leggi ad
essi. La Corte costituzionale ha sostenuto invece la teoria del catalogo chiuso dei diritti, ritenendo che i
diritti dell’art. 2 siano quelli che gli artt. successivi trattano in modo distinto. Ciò non gli ha impedito
però di riconoscere nel bilanciamento anche nuovi interessi, l’art. 2 in quest’ottica è servito come
argomentazione aggiuntiva per giustificare tale bilanciamento.
I diritti nella sfera individuale
La classificazione dei diritti individuali usata nella Costituzione segue una logica precisa:
- Gli artt. 13-16 diritti legati all’individuo, alla sua sfera più intima;
- Gli artt. 17-21 diritti legati all’attività pubblica dell’individuo;
- Gli artt. 29-34 diritti legati alla solidarietà sociale;
- Gli artt. 35-47 definiscono le c.d. libertà economiche;
- Gli artt. 48-51 definiscono le c.d. libertà politiche
I diritti legati alla sfera individuale sono a loro volta costruiti con una tecnica “a spirale”, che inizia con
l’habeas corpus, cioè col bene più fisicamente connesso all’individuo, si estende all’ambito
immediatamente circostante all’individuo e poi ancora si estende alla comunicazione tra le persone e alla
circolazione.
La libertà personale
La libertà personale nella sua accezione più ristretta e storica coincide con la libertà dagli arresti, ossia
con l’habeas corpus. Il nucleo fondamentale della libertà personale è la disponibilità della propria
persona. Solo lo Stato può limitare, a condizione che rispetti le norme poste dall’art. 13, la libertà della
persona. Al contempo lo Stato si fa garante contro le limitazioni illecite della libertà da parte di terzi, che
costituiscono un illecito penale. Nella prassi tuttavia l’ambito della nozione di libertà personale ha subito
un notevole ampliamento: l’art. 13 elenca la detenzione, la perquisizione personale e l’ispezione e chiude
l’elenco con una locuzione aperta “qualsiasi altra restrizione delle libertà personali”.
La Corte nell’includere o escludere varie ipotesi di limitazione delle libertà ha utilizzato un metro di tipo
‘quantitativo’: così, nel merito dei rilievi segnaletici che la pubblica sicurezza può compiere, la Corte ha
distinto fra quelli invasivi delle libertà personali e quelli esterni, che non comportano un’invasione
significativa della sfera privata perché lievi e momentanee. Il metro quantitativo è però coordinato da un
elemento qualitativo che porta a comprendere nella tutela delle libertà personale anche il divieto di
violenza fisica o morale in qualsiasi coercizione. Seguendo questa linea di interpretazione la Corte ha
incluso, tra le misure lesive della libertà personale, anche provvedimenti in cui non v’è traccia di
coercizione fisica, come l’ammonizione, il soggiorno cautelare e l’obbligo di comparire in questura.
Nella definizione di libertà personale, l’elemento determinante pare essere proprio il grado di
degradazione giuridica che la coercizione stessa comporta: se è fisica è probabile che la coercizione
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ricada sotto la garanzia della libertà personale.
Le misure di prevenzione sono provvedimenti adottati non a seguito della commissione di un reato, ma in
base ad indizi o sospetti che possano essere commessi in futuro. In questo si distinguono dalle misure
cautelari, che sono provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria nel corso di indagini o del processo, e
dalle misure di sicurezza, che seguono alla condanna. Le misure di prevenzione possono avere carattere
patrimoniale o personale: il problema specifico che queste misure sollevano che esse si basano su una
‘fattispecie di sospetto’ che colpisce coloro per i quali l’apparato giudiziario non riesce a trovare prove
sufficienti per provare che hanno commesso un reato.
Oggi la legge prevede ipotesi più sensate di soggetti sottoponibili a misura di prevenzione, mentre, prima
dell’intervento della Corte questo provvedimento era esercitabile verso oziosi e vagabondi anche senza
motivo apparente. Resta diffusa l’idea che provvedimenti fortemente limitativi delle libertà costituzionali
non possano essere giustificati sulla base di un mero sospetto.
Gli strumenti a tutela della libertà personale sono i più forti che la Costituzione preveda per limitare la
discrezionalità dell’autorità pubblica: riserva assoluta di legge e riserva di giurisdizione.
Inoltre, l’art. 111 prevede che contro tutti questi provvedimenti sia ammesso ricorso di fronte alla
Cassazione. L’art. 13 prevede per la limitazione delle libertà personali una riserva di legge rinforzata: “in
casi eccezionali di necessità ed urgenza, tassativamente disciplinati dalla legge”. In questi casi l’autorità
di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori che devono essere comunicati all’autorità
giudiziaria, se non vengono convalidati entro il termine prescritto (48 ore), si intendono revocati e restano
privi di ogni effetto.
Rientrano tra i casi eccezionali l’arresto in flagranza di reato e a seguito di inseguimento. Anche in questi
casi la garanzia della riserva di giurisdizione non superabile: il codice di procedura penale dispone che
l’arrestato sia consegnato al PM e venga interrogato da questo solo in presenza di un avvocato difensore.
Se Tizio viene tratto in arresto per uno scambio di persona e la sua estraneità ai fatti emerge solo dopo
che è stato processato ed ha trascorso un periodo in carcere ha diritto ad un’equa riparazione per la
custodia cautelare subita ingiustamente. Se invece viene sì dichiarato colpevole, ma di un reato la cui
pena era o di molto minore a quella effettivamente scontata o che non prevedeva affatto la carcerazione
preventiva, la Corte ha stabilito che in linea col principio sopra, è comunque dovuta una riparazione equa
alla parte di custodia cautelare in sovrabbondanza rispetto a quella effettivamente da scontare.
Restrizioni e pene
La riserva di legge dell’art. 13.2 opera anche per l’individuazione del tipo di restrizione cui può essere
sottoposta la libertà personale.
a) Divieto di ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione;
b) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato (in quest’ottica la Corte ha dichiarato legittima l’introduzione di
premi in termini di sconto di pena anche per i colpevoli di delitti gravi che dimostrino
partecipazione e buoni risultati nei programmi rieducativi);
c) L’esclusione della pena di morte (anche per reati militari di guerra dopo il 1994);
d) Giudizio di ragionevolezza esteso anche alla misura delle pene: deve esistere proporzione tra
gravità della pena e gravità del reato.
Tizio ha un incidente in auto, in uno scatto d’ira rivolge espressioni poco gentili ai carabinieri intervenuti.
Parte la denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale e per tizio la situazione non è delle migliori: questo
reato, prima dell’intervento della Corte, prevedeva la reclusione da un minimo di 6 mesi ad un massimo
di due anni, aumentabile fino al triplo per la pluralità delle persone coinvolte. La Corte avvisa la
sproporzione tra la gravità del reato e la pena assegnata e pronuncia una sentenza nella quale dichiara
illegittima la legge nella parte in cui prevede un minimo di pena troppo elevato per la gravità del fatto,
prevalendo sul principio secondo cui la determinazione della qualità e della quantità della pena è riservata
alla discrezionalità del legislatore. Con questa sentenza la Corte ha ridotto a 15 giorni il minimo edittale
per tale norma.
I trattamenti sanitari obbligatori
Per Trattamento Sanitario Obbligatorio si intende ogni tipo di attività diagnostica o terapeutica imposta
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all’individuo. Se il trattamento è rivolto alla ricerca di una prova della commissione di un reato (ad
esempio un prelievo di sangue) allora si ricade nella tutela tipica dell’art. 13. Se invece il trattamento è
ispirato a finalità sanitarie si ricade nella tutela della salute. La tutela della salute, accordata dall’art. 32 si
limita alla riserva di legge relativa. Non c’è riserva di giurisdizione: i principali TSO sono disposti dalla
autorità sanitaria che dispone delle competenze tecniche in materia. L’obbligo di sottoporsi a trattamento
medico deve essere motivato esclusivamente da esigenze di tutela della salute pubblica e non della
propria salute individuale.
Ognuno gode della libertà di rifiutare un trattamento sanitario, ciò accade molto spesso e coinvolge intere
categorie di cittadini. I Testimoni di Geova per motivi religiosi non possono accettare trasfusioni di
sangue. Ora, alcun problema si pone per un adulto consenziente e capace di intendere e di volere, se non
in termini di accertamento della capacità: diventa invece drammatico quando due genitori rifiutino
l’autorizzazione a praticare la trasfusione al figlio minorenne. Nel caso specifico occorre valutare fino a
che punto la tutela della libertà religiosa possa prevalere su quella della vita del figlio.
La Corte di cassazione ha risposto in maniera chiara: la professione religiosa non può essere presa come
causa dell’incapacità dei genitori che determini la sostituzione dell’apparato statale nelle funzioni
genitoriali. Si è fuori dall’esercizio della libertà religiosa quando si tengano comportamenti contrari ad
obblighi e divieti che in una società civile sono necessari: i genitori che, negando il permesso, causarono
la morte del figlio sono stati giudicati colpevoli di omicidio colposo.
La libertà di domicilio
La libertà di domicilio è vicina alla libertà personale. Secondo una definizione classica, il domicilio è la
proiezione spaziale della persona, per questo l’articolo 14 estende al domicilio le garanzie prescritte per la
libertà personale.
Nell’ordinamento sono presenti almeno altre due definizioni di domicilio: per il codice civile il domicilio
è luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi, la residenza è il luogo
dove la persona ha dimora abituale. Domicilio e residenza possono perciò non coincidere, entrambi
hanno però la caratteristica dell’unicità. Dimora indica una realtà di fatto, il luogo dove la persona
soggiorna occasionalmente. Invece, per il diritto penale, domicilio è l’abitazione ed ogni altro luogo di
privata dimora. Come si vede la nozione penalistica di ‘domicilio’ è più ampia rispetto a quella civilistica
e copre spazi che non potrebbero essere fatti rientrare neppure nella nozione civilistica di dimora.
Sentenza interessante è quella della Corte che estendendo la nozione costituzionale di domicilio, accredita
la tesi che vi sia continuità tra la tutela della libertà personale e la tutela del domicilio. L’elemento che per
la Corte connota il domicilio è l’esistenza di una barriera che protegga la riservatezza personale
escludendo il luogo dalla vista di altri, così la corte ha ritenuto che il comportamento tenuto sul davanzale
della finestra di un’abitazione, che è un punto riconducibile alla nozione di domicilio, possa essere
considerato tale solo se avviene in modo da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi.
Come la libertà personale anche la libertà di domicilio è inviolabile, ad essa si estendono le tutele previste
per la prima. La riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione per gli atti di ispezione
perquisizione e sequestro: l’ispezione serve ad accertare le tracce e gli effetti materiali del reato; la
perquisizione serve alla ricerca del corpo del reato o di cose pertinenti con esso ed è preordinata al
sequestro.
Anche per il domicilio è prevista la possibilità per la polizia di procedere in casi eccezionali a ispezione,
perquisizione e sequestro senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria. A differenza di ciò che avviene
per l’arresto, per la perquisizione, sia che ciò avvenga per la persona che per il domicilio, la convalida del
provvedimento è di competenza del PM.
L’art. 14 ammette eccezioni alla disciplina descritta sopra, ma esse sono soggette a limiti di oggetto e
sono scoperte da una riserva di legge rinforzata per contenuto: la legge può consentirle solo per finalità
economiche o fiscali o per motivi di sanità ed incolumità pubblica. Con questi limiti, quando lo conceda
la legge, l’autorità pubblica può accedere nel domicilio senza la previa autorizzazione del giudice.
La libertà di corrispondenza e comunicazione
La libertà di corrispondenza e comunicazione è tutelata dall’art. 15 cost.: al contrario della libertà di
manifestare il pensiero, il diritto di corrispondenza è posto proprio a tutela del pensiero che
intenzionalmente non è manifesto. Libertà e segretezza nella comunicazione privata sono assicurati a tutte
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le forme della comunicazione: determinante perché vi sia tutela della comunicazione è che lo strumento
utilizzato sia idoneo a garantire la segretezza del messaggio. La libertà e la segretezza sono tutelate
attraverso il solito doppio meccanismo della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Il codice di
procedura penale detta norme piuttosto severe sia per il sequestro della corrispondenza sia per
l’intercettazione delle comunicazioni.
Per le intercettazioni telefoniche ad esempio, il PM deve chiedere l’autorizzazione al giudice che può
accordarle solo per un tempo limitato, ma la garanzia principale sta nel fatto che se le intercettazioni sono
effettuate illecitamente, il loro contenuto non può essere oggetto di prova in processo e deve essere
distrutto.
Libertà di domicilio e libertà di comunicazione sono i due perni su cui si fonda il diritto alla riservatezza
o privacy. Il diritto di riservatezza comporta, da un lato una forte limitazione del diritto di cronaca,
dall’altro una tutela particolare dei dati personali. Di fronte al potenziamento delle tecnologie
informatiche sia il legislatore UE che quello nazionale hanno sottoposto a tutela e a controllo ogni attività
pubblica o privata di raccolta e di trattamento dei dati personali. In particolare, la legge ha istituito
un’autorità garante chiamata a vigilare sull’uso dei dati, ponendo sotto una disciplina particolarmente
restrittiva i c.d. dati sensibili.
La libertà di circolazione
La libertà di circolazione è molto vicina alla libertà personale. La differenza tra due libertà sta
principalmente nel carattere coercitivo che caratterizza le limitazioni della libertà personale e che invece è
assente nelle limitazioni della libertà di circolazione: infatti la legge può disporre limitazioni alla libertà
di circolazione soltanto in via generale e per motivi di sanità o di sicurezza.
La libertà di circolazione comprende anche la libertà di emigrazione. L’art. 16 sottopone la libertà di
espatrio ad obblighi di legge (come munirsi di documenti validi quali la carta d’identità e il passaporto).
Ma ottenere un passaporto è un diritto soggettivo, l’autorità amministrativa lo deve concedere sulla base
di accertamenti che siano rispettati gli obblighi di legge. La libertà di scelta del luogo dove stabilizzare le
proprie attività economiche è ormai rafforzata ed estesa dai principi di liberalizzazione del trattato a tutto
il territorio UE.
La libertà di circolazione è garantita ai cittadini da una riserva di legge rafforzata per contenuto ma non
da riserva di giurisdizione. Le limitazioni alla circolazione devono essere stabilite dalla legge “in via
generale per i motivi di sanità o sicurezza” . La Corte ha fornito anche un’interpretazione estensiva del
termine ‘sicurezza’: essa non indicherebbe solo l’incolumità fisica delle persone (c.d. ordine pubblico in
senso materiale) ma anche l’ordinato vivere civile, comprensivo della pubblica moralità (il c.d. ordine
pubblico in senso ideale).
I provvedimenti tipici che rientrano nelle limitazioni consentite dall’art. 16 sono ad esempio i cordoni
sanitari, istituiti per evitare l’espandersi di un’epidemia o per evitare il contagio in zone colpite da gravi
incidenti ambientali.
I diritti nella sfera pubblica
I diritti che attengono alla sfera pubblica sono posti a tutela della dimensione sociale della persona. Essa
si esprime in due direzioni, da un lato nella libertà di esprimersi, dall’altro nella libertà di riunirsi ed
associarsi dando luogo a formazioni sociali in cui, si svolge la personalità dell’individuo.
Con l’espressione formazione sociale ci si riferisce a qualsiasi tipo do organizzazione o di comunità che
si frappone fra l’individuo e lo stato. Nella Costituzione norme particolari si riferiscono a formazioni
sociali determinate. Esistono tuttavia formazioni prive di riconoscimento che rientrano comunque in
questa categoria come le famiglie di fatto e le società commerciali o le fondazioni.
Va osservato che, benché anche durante i lavori della costituente si sia parlato di formazioni sociali, l’art.
2 si esprime in modo totalmente diverso: il centro di imputazione di tutti i ‘diritti inviolabili’ è sempre
l’individuo, è all’uomo che tali diritti sono riconosciuti anche nell’ambito delle formazioni sociali in cui
si trova, formazioni che non hanno il diritto di opprimere l’individuo.
Queste libertà sono strettamente legate all’iniziativa politica delle persone, o meglio è l’iniziativa politica
che si svolge mediante riunioni, associazioni eccetera. La tutela di queste libertà assume quindi il doppio
significato di garantire la sfera degli interessi sociali e il corretto funzionamento del dibattito
democratico. C’è da aggiungere che i meccanismi repressivi dell’esercizio delle libertà della sfera
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pubblica spesso servono a proteggere altri interessi della collettività: taluni meccanismi escogitati dalla
legislazione fascista possono sopravvivere se volti alla protezione di altri interessi sociali (eterogenesi dei
fini).
La libertà di riunione
Per riunione si intende la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo. La condizione che la
Costituzione pone all’esercizio di questo diritto è che la riunione si svolga ‘pacificamente e senza armi’,
l’interesse che la Costituzione vuole tutelare è l’ordine pubblico in senso materiale.
Il fatto che solo alcuno dei partecipanti sia armato non è di per se causa dello scioglimento della riunione,
ma semmai dell’allontanamento dei soggetti in questione. Problematica invece la definizione di arma,
perché la legge la estende alle c.d. armi improprie precisando che costituiscono arma impropria tutti gli
strumenti chiaramente utilizzabili per l’offesa alla persona. La legislazione penale d’emergenza risalente
al periodo del terrorismo vieta inoltre l’utilizzo di caschi protettivi e di qualsiasi dispositivo che renda
difficoltoso il riconoscimento della persona.
Le riunioni si distinguono in riunioni il luogo privato, riunioni in luogo aperto al pubblico e riunioni in
luogo pubblico. Per ciò che riguarda i luoghi pubblici ovvero quelli dove tutti possono transitare
liberamente, la libertà di riunione potrebbe entrare in conflitto con la libertà di circolare (quando ad
esempio la manifestazione si attui per mezzo di un blocco stradale). La Costituzione prevede per le sole
riunioni in luogo pubblico l’obbligo di preavviso - da consegnare almeno 3 gg prima della manifestazione
al questore dove devono essere indicati il luogo, la data e l’ora della riunione. Il preavviso è posto a
carico dei promotori ma non è condizione sufficiente per l’autorizzazione. La ratio del preavviso è
mettere le autorità nella condizione di adottare le misure necessarie alla tutela della sicurezza e
dell’incolumità pubblica, nonché a risolvere i problemi di circolazione. Il questore può vietare la riunione
per comprovati motivi di sicurezza ed incolumità.
Il Tar Brescia ha annullato l’ordinanza del sindaco di un comune lombardo che prevedeva per le riunioni
a sfondo religioso in luogo pubblico un preavviso di 30 gg e disponeva che tali manifestazioni si
svolgessero in lingua italiana. Il Tar ricorda che le garanzie e i limiti della libertà di riunione sono posti in
Costituzione e non nei decreti-legge, nelle circolari e nelle ordinanze. Le disposizioni inoltre non sono
soggette ad alcuna interpretazione estensiva, pena lo sconfino del sindaco dalle sue prerogative.
Il divieto deve essere quindi debitamente motivato e può comunque essere impugnato di fronte al giudice.
Di fronte all’impossibilità di vedersi riconosciuti i propri diritti costituzionali non resta che ricorrere alla
CEDU. La quale ha già stabilito che deve essere assicurata ai promotori di una manifestazione la
possibilità di impugnare il divieto e che la pronuncia deve comunque essere emessa in tempi utili allo
svolgimento della manifestazione.
La libertà di associazione
Per associazione si intendono quelle formazioni sociali che hanno base volontaria e un nucleo di
organizzazione e di tendenziale stabilità. La Costituzione detta disposizioni specifiche per alcuni tipi di
associazione: le associazioni a carattere religioso, i sindacati e i partiti politici.
L’art. 18 pone 3 garanzie alla libertà di associazione: l’adesione all’associazione deve essere libera. Ad
essere protetta è innanzitutto la libertà negativa, il diritto di non associarsi. La stessa Corte ha però
dichiarato legittima tutta una serie di associazioni obbligatorie al fine di svolgere determinate attività
quali l’iscrizione agli ordini professionali, alle federazioni sportive ed alcune forme di consorzio
obbligatorio fra produttori e proprietari. La Corte ha disposto che l’adesione ad una associazione sia
obbligatorio, quando in questo modo si persegue un interesse pubblico rilevante.
La seconda garanzia riguarda l’istituzione dell’associazione che può avvenire senza autorizzazione.
La terza garanzia è costituita da una riserva di legge rinforzata: in quest’ottica si legge la locuzione ‘per
fini che non sono vietati al singolo dalla legge penale’. Essa pone una garanzia assai importante per la
libertà di associazione: le associazioni possono fare tutto ciò che è concesso ai singoli, per ciò sono
vietate tutte quelle associazioni che abbiano come obiettivo la commissione di reati, solo se questi siano
previsti per i singoli.
Alle associazioni è altresì permesso di essere ‘sovversive’ ovvero di perseguire come obiettivo il
cambiamento radicale dell’ordinamento a patto che ciò avvenga senza manifestazioni violente.

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Questo a seguito della pronuncia della Corte che ha affermato che la valutazione del carattere eversivo
dell’associazione sia da rimandare al giudice. L’illegittimità di tali tipologie di associazioni è stata
ricavata dalla Corte rifacendosi ad una norma fascistissima che prevedeva la propaganda nazionale come
reato del singolo.
L’art. 18 vieta solo sue tipi di associazione: l’associazione segreta e l’associazione paramilitare.
Segrete sono le associazioni “che occultano la loro esistenza tenendo segrete le loro attività e finalità
sociali nonché i soci, e svolgono attività dirette a interferire sull’esercizio degli organi dello Stato”.
Questa definizione è contenuta nella sentenza P2 che da un’interpretazione restrittiva di segretezza,
collegandola ad un’attività di interferenza illecita sulle istituzioni pubbliche.
La massoneria non rientra fra le associazioni segrete, tutte le logge, a parte quelle deviate come la P2
hanno sempre pubblicato sia i propri fini che i propri adepti. L’appartenenza alla massoneria è stata però
dichiarata incompatibile dal CSM con la carica di magistrato. Si è ritenuto che gli impegni presi con il
giuramento di fedeltà alla massoneria siano incompatibili con quelli presi in qualità di magistrato.
Tuttavia l’Italia vien sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che dichiara i provvedimenti
presi dal CSM presi in violazione della riserva di legge. Il problema viene risolto con decreto legislativo,
che inserisce fra gli illeciti disciplinari dei magistrati anche l’appartenenza ad associazioni segrete i cui
vincoli siano incompatibili con l’esercizio delle attività giudiziarie.
La legge P2 sanziona penalmente l’appartenenza ad associazioni segrete e risolve il problema di come si
deve procedere allo scioglimento: a seguito della sentenza irrevocabile che accerti l’esistenza
dell’associazione segue un decreto del Presidente del consiglio che ne ordina lo scioglimento e la
confisca dei beni. Di fatto il legislatore si è comportato come se nell’art. 18 fosse contenuta una doppia
riserva: di giurisdizione per iniziare il processo di scioglimento e di legge assoluta per la definizione
dell’associazione segreta.
Le associazioni paramilitari sono quelle associazioni che perseguono anche indirettamente scopi politici
mediante organizzazioni di carattere militare. Due condizioni devono coesistere perché si verifichi la
possibilità di divieto costituzionale: 1) la persecuzione di uno scopo perfettamente lecito di per sé come
l’attività politica;
2) la struttura organizzativa di carattere militare anch’essa lecita di per sé.
Si deve notare che per organizzazione militare non si intende necessariamente una struttura armata, ma
corredata di gerarchia, gradi, divise ed uniformi e dal compimento di atti di minaccia e violenza per il
perseguimento dei suoi obiettivi.
La libertà religiosa e di coscienza
La libertà di coscienza è la libertà di coltivare profonde convinzioni interiori e di agire di conseguenza.
Ciò che interessa alla Costituzione non sono i fenomeni interiori, ma la disciplina delle manifestazioni
esteriori.
In certi casi è il diritto stesso a consentire all’individuo si superare il limite posto dalla legge e, nel
conflitto fra quanto prescrive la legge e ciò che la sua coscienza gli suggerisce, preferire il secondo: sono
i casi di obiezione di coscienza. Libertà di coscienza e libertà di religione sono tutelate attraverso
molteplici strumenti:
 Divieto di discriminazione per opinioni religiose che costituisce il c.d. nucleo forte del principio
di eguaglianza;
 Eguaglianza tra le confessioni religiose, secondo quanto prescrive la Costituzione che
inizialmente fu interpretata in senso restrittivo, come garanzia di eguale libertà ma non di eguale
trattamento. A seguito della riforma del Concordato ci si è allontanati da questa concezione e si
riconosce a tutte le religioni uguale trattamento. Le stesse intese con le confessioni non
cattoliche hanno esteso anche alle altre religioni privilegi di carattere fiscale, finanziario e
pastorale prima accordati alla sola religione cattolica.
 Libertà di culto tutelata dall’art. 19 della Costituzione. L’aspetto negativo di manifesta su due
versanti diversi: da un lato la libertà di non svolgere alcuna attività di culto, dall’altro la pari
tutela della libertà di coloro che non professano alcuna fede religiosa. L’unico limite che
incontra la libertà di culto è il buon costume.
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 Obiezione di coscienza. Ovvero la possibilità per l’individuo di rifiutare di compiere atti, che
l’ordinamento gli prescrive, ma che sono contrari alle sue convinzioni, è lo stesso diritto a
prevedere i casi in cui si può obiettare.
Libertà di manifestazione del pensiero
Consiste nella possibilità di esprimere le proprie idee e divulgarle ad un numero indeterminato di
destinatari. Siccome la circolazione delle idee è il presupposto per la democrazia, la libertà di
manifestazione del pensiero è da sempre considerata la pietra angolare del sistema democratico. Non è
possibile compiere alcuna selezione delle idee in base a contenuti, scopi o circostanze, in quanto tutte
indistintamente trovano nell’art. 21 la loro garanzia. L’unico limite che l’art. 21 della Costituzione pone
all’espressione delle idee è il buon costume che, come già visto viene inteso come pudore sessuale. I
concetti come buon costume sono fatti apposta per consentire all’ordinamento di evolvere con la
coscienza sociale: le leggi che rimangono indietro sono destinate ad essere colpite da anacronismo.
Nella legge penale vi sono varie fattispecie di reato che si realizzano attraverso forme di espressione del
pensiero, punendo ciò che l’art. 21 invece tutela. Molti di questi reati di opinione perciò sono stati
sottoposti al giudizio della Corte che in molti casi li ha fatti salvi muovendosi principalmente su due
direttrici:
1) distinzione fra ciò che è espressione del pensiero e ciò che è già principio di azione. Questa distinzione
vale per i reati come l’istigazione l’apologia di reato e la diffusione di notizie false o tendenziose. La
Corte ha ritenuto che sia punibile l’espressione del pensiero quando essa sia idonea a determinare
direttamente l’azione pericolosa per la sicurezza pubblica; 2) pensiero e offese, in quanto la libertà di
manifestare il proprio pensiero non può giungere fino al punto di offendere l’onore degli altri: da qui la
legittimità di delitti contro l’onore quali l’ingiuria e la diffamazione insieme con i reati di vilipendio alla
religione e alle istituzioni e di oltraggio. Anche in questo caso le difficili valutazioni di carattere pratico
sono rimandate al giudice.
La libertà di espressione è garantita a tutti, tutti possono esprimere il loro pensiero con tutti i mezzi di
diffusione consoni. Il problema si pone in quanto alla disponibilità di tali mezzi, quelli più efficaci
incontrano due ordini di fattori limitanti: fattori di ordine economico e fattori di ordine fisico.
La libertà di manifestazione si intreccia quindi necessariamente con la libertà di iniziativa economica.
Non c’è da stupirsi che in Italia le prime leggi contro la formazione di oligopoli si siano riferite
soprattutto alle imprese che operano nel campo della comunicazione.
Non c’è dubbio che la libertà di informazione comprenda anche un profilo negativo che si pone intessere
nel diritto di essere informato, tale diritto è effettivo solo se qualificato e caratterizzato dalla pluralità
delle fonti da cui attingere. Fra i mass-media la Costituzione disciplina soltanto la stampa. Il regime di
stampa è caratterizzato dal divieto di sottoporre la stampa a controlli preventivi, in modo da ostacolare la
diffusione del pensiero. È ammesso invece il sequestro postumo alla pubblicazione, regolamentato da
garanzie molto rigide:
a) riserva di legge assoluta, che rende il sequestro possibile solo in due ipotesi:
- nel caso dei delitti per i quali la legge sulla stampa lo autorizzi esplicitamente. Il sequestro in
generale preordinato alla tutela del buoncostume. A questa ipotesi se ne affianca un’altra
prevista dalla legge Scelba che reprime ogni tentativo di ricostituzione del partito fascista
prevedendo il sequestro delle pubblicazioni attraverso di cui si compia il reato di apologia
del Fascismo;
- nel caso di violazione delle norme che la legge prescrive per l’individuazione dei
responsabili. La legge infatti prescrive che sia indicato sugli stampati il direttore responsabile
che risponde di eventuali illeciti dell’articolo dovendo effettuare, prima della pubblicazione,
un controllo di legittimità.
b) Riserva di giurisdizione. Valgono per il sequestro norme analoghe a quelle che disciplinano la
libertà personale: il sequestro deve essere disposto dal giudice e solo in casi di urgenza attuato
dalla polizia che provvederà a darne notifica al giudice che convaliderà o meno il sequestro.

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