Sei sulla pagina 1di 49

IL PRINCIPIO LIBERTÀ NELLO STATO COSTITUZIONALE

La storia dei diritti costituzionali ha avuto uno sviluppo complesso, caratterizzato da trasformazioni
radicali delle situazioni costituzionalmente protette, del quale si possono mettere in evidenza tre
stadi:

Rivoluzioni borghesi del XIII secolo e cataloghi dei diritti


Prima generazione dei diritti che comprendeva prevalentemente diritti negativi di difesa
dall’ingerenza dei poteri pubblici. Vi rientravano quelli a protezione dei beni individuali e basilari
(vita, libertà, proprietà). Quanto ai diritti positivi, rispecchiavano ancora uno stadio elitario della
partecipazione alla vita pubblica e comprendevano, essenzialmente, i diritti elettorali attivi e
passivi e i diritti di riunione e associazione, sebbene ancora soggetti a restrizioni.

Rivoluzione industriale e spinta del movimento dei lavoratori e del socialismo del XIX sec.
Seconda generazione dei diritti finalizzati soprattutto ad assicurare al proletario il
soddisfacimento dei bisogni economici essenziali. Troveranno compiuto assetto nelle costituzioni
del XX secolo e si dirameranno lungo due direttrici: da un lato gli asseti collettivistici e centralizzati
degli stati socialisti, dall’altro gli ordinamenti di democrazia pluralistica. Questi ultimi si
svilupperanno secondo diverse modalità: attraverso l’estensione della partecipazione alla vita
politica di ampi strati della popolazione con la valorizzazione dei diritti di riunione e associazione,
specie se politica e sindacale. In secondo luogo, nel tentativo di coniugare il riconoscimento delle
libertà economiche con meccanismi di ridistribuzione delle ricchezze e riequilibrio delle
disuguaglianze di fatto.

Seconda metà del XX secolo


Terza generazione dei diritti umani che trascende in misura crescente i confini delle sovranità
degli Stati. Abbiamo una estensione nel riconoscimento costituzionale dei diritti attraverso indirizzi
differenti: l’universalizzazione della protezione dei diritti che ha comportato un’ estensione della
cerchia dei diritti, ma anche uno spettro più ampio degli ambiti di tutela. Costituzioni e convenzioni
internazionali determinano lo sviluppo di questi diritti di terza generazione che rivelano una
attenzione crescente ai temi della protezione della qualità della vita, dell’ambiente, dell’integrità del
patrimonio naturale e genetico dell’umanità. L’obiettivo sembra quello di trasporre sul piano
giuridico l’etica della responsabilità verso le generazioni future.

Nello sviluppo storico dei diritti è possibile individuare diversi filoni fondamentali:
Fondamento giusnaturalistico dei diritti: i diritti che si delineano a partire dalla fine del XIII secolo
confluiscono nel processo di costituzionalizzazione dei diritti.
Ritroviamo, così, nelle carte costituzionali (anche le più recenti) tracce della sistemazione lockiana
dei diritti naturali alla vita, alla libertà, alla proprietà che nelle costituzioni finiscono col diventare i
beni primari tutelati. Alla base di tutto c’è il riferimento all’immagine dell’uomo che rimanda ad una
situazione pre-statuale, perché radicata nella natura dell’uomo che lo stato è chiamato a
rispettare. L’immagine dell’uomo è costruita su alcuni beni primari della vita, cui corrispondono
diritti universalmente riconosciuti in quanto meritevoli di tutela.
Fondamento dei diritti in un legislatore: il punto di partenza è comune a quello del filone
giusnaturalista, come sottolinea, infatti, Kant con il richiamo alla dignità dell’uomo e all’idea
dell’uomo come scopo di se stesso e non come mezzo del potere sovrano. Se ne distacca,
invece, per la concezione del diritto come mezzo, strumento che ha la funzione di garantire la
libertà, coordinando gli individui che sono naturalmente predisposti al conflitto. In questa cornice, il
diritto posto da un legislatore sovrano, assume un ruolo essenziale come condizione della
garanzia dell’autonomia del soggetto e della sua indipendenza dall’arbitrio degli altri.
Un terzo filone segue la divisione tra concezioni oppositive e concezioni integrative dei diritti, che
a partire dall’esperienza della Costituzione di Weimar segnerà la storia del costituzionalismo,
evidenziando antinomie che si riveleranno fondamentali.
Le concezioni oppositive muovono dalla premessa della collocazione esterna della società rispetto
all’apparato del potere.
Si sottolinea il carattere essenzialmente antagonistico dei diritti, intesi, dapprima, come
rivendicazioni corporative di ceti e ordini privilegiati contro un’autorità politica superiore;
successivamente, nella prima fase del liberalismo costituzionale, come situazioni soggettive
chiamate a presidiare il valore assoluto dell’individuo rispetto alla società politica. I diritti sono
considerati margine ultimo posto a tutela della libertà individuale. La tutela dei diritti, quindi, è vista
come la difesa dell’individuo agli attacchi portati dall’esterno alla sua sfera di libertà.
Nelle concezioni integrative (ordinamentali) prevale, invece, un approccio che intende i diritti come
elementi costitutivi dell’ordinamento e fattori qualificanti della forma di stato.
L’ordinamento esprime un sistema culturale che non è monolitico, ma che comprende valori
minoritari e compromessi. Secondo Rudolf Smend, le ragioni della crescita del rilievo sistematico
dei diritti fondamentali non risiede nella maggiore tutela delle minoranze contro i pericoli
dell’assolutismo della maggioranza parlamentare. I diritti fondamentali non sono l’oggetto di una
dimensione puramente antagonistica, ma sono venuti ad assumere nelle costituzioni la stessa
funzione costitutiva che, in passato, era assicurata dal principio monarchico. L’interpretazione
liberale dei diritti, intesi come mere limitazioni del potere statale, se appariva coerente con assetti
nei quali l’individualità dello Stato era simboleggiata anche della sua “pienezza” nei confronti della
società ,viene superata con il venir meno di questa compattezza e con l’ingresso prepotente della
società nella costituzione.
Rimane, tuttavia, l’esigenza di unità, cioè, di una comunità di popolo che, attraverso il diritto,
ritrova l’unità, identificandola nei valori materiali dell’integrazione.
Smend, finisce per riconoscere ai diritti fondamentali la funzione integrativa degli elementi
simbolici dello stato (inni, bandiere) con un valore, però, che trascende la mera rappresentazione
simbolica dell’unità, svelando una funzione integrativa e costitutiva dell’ordinamento nel suo
complesso.
Smend, concludendo, capovolge le concezioni oppositore e sostiene che i diritti non devono
essere considerati come limiti, bensì come fattori di rafforzamento del potere statale, i cui atti
danno a tale potere legittimazione effettiva.
Il quarto filone è quello del contrattualismo, teoria alla cui base vi è l’idea di un contratto sociale
quale giustificazione del legame che unisce gli individui nella comunità politica.
Nelle elaborazioni originarie, il contrattualismo aveva teorizzato una giustificazione razionale
dell’obbligazione politica, basata su una astratta concezione dell’accordo tra individui, immaginati
in una posizione di eguaglianza formale. In tal senso, il contrattualismo, ponendosi in totale
disaccordo con le fondazioni teoriche dei diritti elaborate dagli utilitaristi ( che si focalizzavano
sulla dimensione individuale dell’uomo, impegnato nel tentativo di massimizzare il proprio utile
incompatibilmente, però, con il pieno sviluppo della responsabilità sociale), sulla base di una
presupposta parità formale dei contraenti, è approdato alla completa divaricazione tra libertà ed
eguaglianza materiale.
Tuttavia, non può dirsi che l’approccio contrattualistico abbia rappresentato un impedimento al
tentativo di armonizzare le istanze della libertà con quello della giustizia. Ad esempio, Rawls, nel
tentativo di costruire una teoria della giustizia come “equità”, ha utilizzato proprio il paradigma del
contratto sociale per riformulare la concezione liberale dei diritti e delle libertà fondamentali,
all’interno della quale vengono collocati principi costitutivi della giustizia sociale che consentono
solo disuguaglianze di reddito e di ricchezza. In linea con il contrattualismo moderno, Rawls
sostiene che, alla base dei principi di giustizia c’è un accordo tra persone razionali che intendono
definire i termini fondamentali della loro associazione, in una posizione di eguaglianza.
La “posizione originaria”è uno stato di cose in cui le parti sono rappresentate come persone morali
ed in cui il risultato non è condizionato da contingenze arbitrarie. Per azzerare gli effetti delle
contingenze particolari, che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio
vantaggio le circostanze naturali e sociali, Rawls presuppone che ci sia un “velo di ignoranza”
dietro al quale si pongono le parti e che riguarda i fatti contingenti, ovvero, la conoscenza del
proprio posto nella società, la posizione di classe e dello status sociale, la fortuna nella
distribuzione delle doti e delle capacità naturali. In virtù di tale velo, le parti sono obbligate a
valutare i principi soltanto in base a considerazioni generali e ciò consente, in società altamente
differenziate, di produrre accordi giusti e di correggere l’arbitrarietà del mondo.
L’idea della parità dei contraenti protetta dal velo di ignoranza, trasferita sul terreno delle
istituzioni, si trasforma in una proposta di teoria costituzionale nella quale la priorità della libertà
sull’eguaglianza viene temperata da una seconda regola di priorità, quella della giustizia
sull’efficienza e sul benessere; mentre, il principio di eguaglianza delle opportunità ( secondo il
quale le ineguaglianze economiche e sociali devono essere ricollegate a cariche e posizioni che
sono aperte a tutti, in condizione di eguaglianza di opportunità), viene temperato dal principio di
differenza. Tale principio, essendo indirizzato ad accrescere le opportunità di coloro che ne hanno
di meno ed essendo strettamente connesso al conseguimento di un'equa giustizia distributiva,
afferma che le ineguaglianze economiche e sociali possono essere tollerate soltanto se
apporteranno dei vantaggi ai gruppi più svantaggiati.
Proprio il principio di differenza sembra giustificare le politiche di welfare state, indirizzando le
politiche pubbliche verso interventi retributivi con l’obbiettivo di ridurre le disuguaglianze sociali.
Rawls arriva, in ultimo a formulare una teoria della giustizia operante sui valori politici, quella del
“consenso per intersezione” che opera come fattore di riduzione del conflitto tra valori politici e non
politici. L’approdo alla teoria del consenso per intersezione dimostra la capacità di adattamento
del paradigma contrattualistico.

II. Le radici dello sviluppo storico dei diritti


Ripercorrendo le tappe principali dell'evoluzione storica dei diritti, si sa che, essa prende avvio con
le grandi rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo, avvenute in Inghilterra, America del Nord e
Francia. Tali rivoluzioni produssero, infatti, mutamenti totali degli ordinamenti, introducendo nuove
concezioni relative al rapporto tra individuo e potere sovrano. Momento cardine è stato,
indubbiamente, quello del riconoscimento delle carte dei diritti e dei documenti costituzionali,
avvenuto in Inghilterra alla fine delle rivoluzioni parlamentari del biennio 1688-1689; negli Stati
Uniti alla fine della guerra di indipendenza del 1776-1791; in Francia alla fine della rivoluzione del
1789. Da questo momento in poi, vengono positivizzati, in testi costituzionali, i diritti radicati
all'interno della tradizione giusnaturalistica. In particolare, in Europa, il riconoscimento dei diritti si
accompagna alla costruzione di un nuovo ordine politico, volto a riservare ampi spazi di libertà alla
borghesia e alla società civile, nel libero sviluppo delle sue energie. Si accomoagna, inoltre, alla
nascita di istituti di limitazione del potere sovrano del monarca, pensati per affermare le
prerogative delle assemblee parlamentari rappresentative della supremazia della legge
parlamentare. Appare, tuttavia, necessario riconoscere che alcuni temi trattati in maniera più
complessa con l’affermazione dei diritti costituzionali, in realtà sono ben più risalenti. Infatti, si può
negare che la storia del rapporto tra libertà umana e ordine sociale, seppur in forma embrionale,
già si ritrova nella tradizione romano- cristiana e che la vicenda storica dei diritti di libertà, affonda
le radici nell’ordine giuridico medioevale.

Tradizione greco- romana e stoicismo


Se la storia dei diritti costituzionali appare connessaalla genesi e ai principi ispiratori del
costituzionalismo moderno, la storia del rapporto tra libertà umana e ordine sociale è più antica.
Non si può disconoscere l’apporto dato dalla tradizione greco- romana e da quella cristiana che,
tuttavia, non sono giunte ad una affermazione di diritti fondamentali intesi come vero e proprio
fondamento dell’ordine sociale e politico. Costant, a tal proposito, ha distinto la libertà degli antichi
da quella dei moderni (affermatasi con il liberalismo). La libertà degli antichi si caratterizzava per
essere completamente assorbita nella dimensione istituzionale e pubblica della comunità politica e
per una sua estraneità al concetto di libertà del cittadino e protezione di una sfera di libertà.
Nell’esperienza della polis greca, l’istituto della schiavitù era uno dei pilastri della costituzione delle
città stato; l’idea della dignità e della libertà dell’uomo si poteva riferire solo ai cittadini, gli unici ai
quali era concesso di partecipare al governo della polis. Il tentativo di leggere le esperienze del
mondo antico attraverso la concezione liberale dei diritti di libertà, anche sulla base di queste
semplici considerazioni, diventa problematico. A partire dalla metà del V secolo a.C., con
Aristotele, acquista rilievo nel pensiero filosofico la riflessione sul rapporto tra conoscenza della
natura umana e ordinamento della società e, quindi, tra diritto naturale e leggi positive.
Con lo stoicismo, si afferma l’idea dell’eguaglianza degli uomini, basata sul presupposto del
possesso comune.
L’esperienza greco- romana può essere approfondita considerando 3 profili:
Il pensiero greco non fu legato ad un credo religioso unificante, ma rimase sempre libero di
orientarsi di fronte ai multiformi aspetti della realtà e dell’esistenza. Sfuggendo al monismo e
fondando sul pluralismo il reale, si andò ad affermare una concezione laica del sapere che, nella
filosofia politica, si tradusse ella tendenza costante alla moderazione dagli eccessi nell’idea che
diversità e unità andassero sempre armonizzati.
L’eredità del pensiero stoico, che ebbe un ruolo fondamentale nel costituzionalismo moderno,
lasciò tracce significative nelle successive elaborazioni teoriche sui diritti individuali. Si affermò
l’idea di una legge razionale ed universale in dotazione ad ogni uomo ed indipendente dalla sua
condizione sociale (eguaglianza della natura razionale dell’uomo). Il pensiero stoico, dal momento
che appare legato in maniera indissolubile a quella del dominio individuale dagli impulsi e dalle
passioni, scioglie il concetto di libertà dalla dimensione collettiva della polis, per collocarlo in quella
interiore dell’uomo saggio che orienta il suo destino nella società e nell’universo.
L'esperienza romana è il primo tentativo compiuto di dare rilevanza giuridica alle dinamiche
inclusione/esclusione. Il tema della libertà acquista una precisa dimensione giuridica. La libertà
diventa oggettiva, ed è solo uno dei benefici derivanti dal vivere sotto un governo ben strutturato.
L’esperienza romana ci lascia una pluralità di diritti, a partire dalla cittadinanza passando poi per il
diritto d’asilo, l’inviolabilità della casa, fino al diritto alla vita. In realtà, di diritti si può parlare solo
nell’ambito di una morale universalistica, di un sistema di doveri sociali che affida al legislatore la
funzione di ridurre e di rispecchiare l’ordine del mondo, racchiuso dallo ius naturale. L’uomo ha
diritti, in quanto fa parte di una comunità politica, diritti che si dispongono in cerchi concentrici ed è
solo in questi cerchi concentrici che esiste parità di trattamento.
Appare inadeguato l’approccio che restringe la discussione dei diritti nel mondo romano alla sfera
del diritto privato, quasi fosse ignoti il contesto costituzionale dei diritti. infatti, con l’esperienza
romana, la libertà individuale si oggettivizza: mentre nel liberalismo giuridico, la libertà si identifica
nell’assenza da impedimenti esterni, la concezione della libertà repubblicana è imperniata nella
forma di governo ed è da intendersi, innanzi tutto, come auto- governo dell’individuo e non
soggezione alla volontà di nessuno. Tale teoria della libertà penetrerà anche nel Seicento inglese
e nel pensiero costituzionale della rivoluzione americana.

2.Tradizione cristiana e carte medioevali


La concezione cristiana ha contribuito a far emergere l'idea della libertà e della dignità dell’uomo,
che venivano fatte discendere da Dio e venivano considerate doti legate alla creazione dell'uomo
a sua immagine e somiglianza. Tommaso d’Aquino, ad esempio, ha mosso i primi passi di quel
percorso della filosofia cristiana che arriverà poi a delineare una concezione compiuta e piena dei
diritti dell'uomo. Nel suo pensiero, la persona è ancora un concetto metafisico, costruito come
riflesso della dottrina della trinità e i diritti dell'uomo, a cui egli ha fatto riferimento, sono radicati
nell'ordine naturale e precostituito del creatore.
Con l'insorgere dei movimenti di riforma religiosa, il pensiero cristiano imbocca strade differenti,
rivelando non poche ambiguità. La Chiesa, infatti, si è posta in un atteggiamento di chiusura
rispetto alle concezioni di libertà affermato dalle costituzioni borghesi e solo negli ultimi anni del
XIX secolo ha intrapreso un cammino deciso nella difesa dei diritti umani.
Il rifiuto di concezioni individualistiche dei diritti (che, invece, rinverrebbero il proprio terreno di
sviluppo nella dimensione comunitaria delle formazioni sociali) e l’affermazione per la quale il
riconoscimento dei diritti rinverrebbe il proprio fondamento in un ordine supremo di valori sono i
tratti peculiari dell’approccio della Chiesa al tema dei diritti.
Per concludere il quadro dello sviluppo storico dei diritti costituzionali, non si può non fare
riferimento al pensiero medioevale. Più che di diritti e di libertà, in realtà, sarebbe più corretto
parlare di privilegi, che spettavano al singolo in virtù della sua appartenenza a cerchie particolari.
Le teorie medievali sul diritto naturale sono state influenzate grandemente dal pensiero cristiano e
riconobbero, infatti, un nucleo intangibile di diritti della persona. Il riconoscimento universale di tali
diritti, però, non fu in questo periodo pieno e totale, complici i particolarismi degli ordinamenti
giuridici e politici.
Le libertà e i diritti riconosciuti a ceti, corporazioni ed città, riflettevano un assetto ancora
caratterizzato dagli schemi feudali, con una società stratificata e gerarchizzata. Per questo, più
che di diritti è più corretto parlare di privilegi di cui il singolo godeva in qualità di appartenente ad
una delle categorie sociali: il valore universale non esisteva.
Questi tratti caratterizzeranno anche gli assetti dell'Ancien Regime, nei quali c'era la difesa dei ceti
e degli ordini dal rafforzamento del potere del monarca.
Nonostante tutto, i diritti di libertà del periodo medievale rappresentano un momento importante
nella storia dei diritti costituzionali e non si può sottovalutare l’eredità lasciataci dalle carte
medioevali. Un esempio fra tutte la Magna Charta Libertatum del 1215. Essa prevedeva garanzie
e tutele dagli abusi e dalle sopraffazioni del sovrano nel disporre arresti, nel sottoporre a giudizio e
nel levare tributi. Di certo, si trattava di diritti che erano totalmente privi del carattere universale e
che si configuravano, anzi, come privilegi, concessi solo a certe cerchie della società.
Tale documento, tuttavia, ha rappresentato un antecedente storico significativo. Prima di tutto,
perché ha isolato ed individuato un nucleo centrale e primario di diritti, l'Habeas Corpus, che i testi
successivi del costituzionalismo riprenderanno, ampliandolo ed estendendolo alla generalità degli
individui. In secondo luogo perché, con lo sviluppo della società mercantile e dell'economia delle
città, si è allargata la cerchia dei beneficiari, arrivando a comprendere non solo nobiltà e clero, ma
anche le corporazioni e gli abitanti delle città libere.
Infine, l'ultima novità è stato il fondamento pattizio dell'obbligazione politica tra il sovrano ed i ceti
sottoposti al suo potere. Quando, infatti, le basi particolaristiche dell'ordine sociale verranno
sovvertite dall'affermazione dell'individualismo, l'idea del contratto sociale verrà completamente
trasformata e piegata ad un ordine sociale basato sulla centralità del soggetto, aprendo la strada
ad una concezione completamente nuova dei diritti individuali.

III. Il costituzionalismo e i diritti


Nel cambiamento di prospettiva e di concezione dei diritti fondamentali, i conflitti e le guerre di
religione, che percorsero l’Europa a partire dal XVI secolo, giocarono senza dubbio un ruolo
fondamentale.
La Riforma protestante, con l’affermazione dei principi del libero esame delle Scritture, della
responsabilità individuale, di un ordinamento non gerarchizzato, contribuì ad intendere la
personalità individuale come valore autonomo e a plasmare quel clima spirituale nel quale sorsero
le dichiarazioni dei diritti nell’età del costituzionalismo.
Le guerre di religione furono un potente fattore di unificazione politica e favorirono la formazione di
un diritto uniforme di regolazione del fattore religioso. L’assolutismo monarchico, tendendo al
livellamento dei sudditi nella soggezione del potere sovrano, già muoveva nella direzione della
universalità delle situazioni soggettive e della eguaglianza nell’assoggettamento al diritto statale,
aspetti che, amplificati nella loro portata dal mutamento del titolo di legittimazione della sovranità,
si sarebbero rivelati centrali con l’affermazione delle rivoluzioni borghesi.
Le idee di emancipazione civile e politica che si sono sviluppate tra Sei e Settecento dalle lotti per
la libertà religiosa, riflettevano gli interessi della borghesia industriale e manifatturiera che
intravvedeva nelle discriminazioni religiose, nelle ideologie, nei pregiudizi religiosi tradizionali
ostacoli alla espansione dei traffici e del commercio.
Bisogna, d’altronde, sottolineare come dai movimenti di riforma religiosa siano state prodotte
anche chiese riformate, che si dimostrarono non meno intolleranti, in tema di libertà di coscienza,
di quella di Roma. Le guerre di religione, inoltre, non furono dirette soltanto all’affermarsi della
libertà di coscienza, ma si rivelarono veri e propri conflitti politici, attraverso cui si tentò di
ridimensionare la supremazia del potere imperiale o impedire l’affermazione dell’assolutismo
monarchico. La Riforma portò, poi, ad esiti diversi in relazione al potere politico, sfociando in
Germania in una dottrina politica di obbedienza passiva al potere secolare; nella Ginevra di
Calvino nella confusione tra chiesa e stato; in Inghilterra nell’identificazione del monarca a capo
della chiesa.
L’affermazione della libertà di coscienza e del libero esame delle Scritture fu una componente
essenziale dell’età moderna ed una conquista fondamentale nella formazione dell’identità culturale
e costituzionale europea. Essa risentì dell’atmosfera che contribuì al formarsi di quella concezione
razionalistica del mondo e della natura, fondamentale nella storia del costituzionalismo moderno.
L’idea della ragion di stato, che cancellava una concezione della storia fondata dell’intervento
continuo di Dio nelle cose umane, le lotte antiassolutistiche, la formazione di un ordinamento
accentrato, hanno dato vita ad esperienze politiche fondamentali che da questo scenario di
affermazione dell’individuo trassero ispirazione ed alimento e costituiscono ancora oggi un
bagaglio incancellabile del patrimonio costituzionale europeo.
Lo sviluppo dell’economia mercantile e l’ascesa della borghesia furono fattori decisivi di
trasformazione: i diritti costituzionali furono, in primo luogo, il prodotto della rivoluzione borghese.
Tra la lotta per l’affermazione dei diritti individuali nell’età del costituzionalismo e le nascenti teorie
del liberismo economico vi è un legame molto stretto: l’eguaglianza formale dei diritti, il cui
riconoscimento non era ancorato ad alcuno status sociale era, infatti, perfettamente coerente con
un modello di economia concorrenziale, che pretendeva una posizione di parità giuridica di tutti i
soggetti operanti nel mercato.
Nell’accezione prettamente storiografica, il termine costituzionalismo individua la dottrina politica
e costituzionale che fece da sfondo alle grandi rivoluzioni borghesi fra XVII e XVIII secolo e che
fondò, quali pilastri della radicale trasformazione degli ordinamenti politici in Europa e America del
Nord, i principi individuali e i principi di limitazione e divisione del potere.
Il costituzionalismo si sviluppò parallelamente al processo che condusse al superamento delle
forme tradizionali di dominio e all’affermazione dell’idea della limitazione del potere sovrano. Le
costituzioni che nacquero furono intese come fondative della legittimazione della sovranità ed
espressione della pretesa di validità universale nei confronti di tutti i consociati.
Il costituzionalismo trae origine, in età moderna, da un preciso intento di contrapposizione al
sistema di autorità preesistente attraverso graduali trasformazioni degli apparati istituzionali, delle
fonti del diritto, del ruolo dei tribunali e dell’interpretazione giudiziaria. Nelle varie espressioni del
costituzionalismo moderno, l’obiettivo di fondare gli aspetti politici su nuove basi di legittimazione
risulta inquadrato in una cornice di equilibri costituzionali, che facevano da argine all’assolutezza
del potere politico.
Il costituzionalismo abbraccia un periodo ampio, che va dalle prime lotte per l’affermazione del
regime parlamentare in Inghilterra fino al consolidamento degli assetti dello stato liberale. Questa
accezione è più comprensiva di quella che ancora oggi persiste in Germania. Qui, infatti, il termine
costituzionalismo designa il movimento di riforme costituzionali che si sviluppò durante la prima
metà dell’800 e che portò all’adozione di documenti costituzionali. Questo movimento ebbe
l’effetto di limitazione del potere monarchico muovendosi, tuttavia, nell’ambito della legittimazione
del potere piuttosto che della limitazione dello stesso. Nel XX secolo si è dissolto il legame, fino a
quel momento indissolubile, tra il complesso di congegni di garanzia e protezione contro il potere
sovrano e l’esigenza di fondare l’egemonia borghese e la costruzione del diritto pubblico dello
stato nazione. Ciò è accaduto nell’Europa continentale dopo la fine della Prima Guerra mondiale,
quando la società civile fece il suo ingresso nello scenario delle costituzioni europee. Da queste
profonde trasformazioni è derivata una dilatazione della categoria del costituzionalismo che oggi
viene sempre più adoperata per indicare le grandi scansioni storiche dell’ordinamento dei gruppi
sociali organizzati e i caratteri comuni delle esperienze costituzionali in determinate aree
geografiche. Gli elementi, senza dubbio, più caratterizzanti della teoria del costituzionalismo,
ricostruita su basi rigorose, si riconoscono nelle tematiche della limitazione del potere, della
superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini, della razionalità del diritto sul
potere. Se, il tema della soggezione del potere politico a limiti costituisce il perno del
costituzionalismo e se l’idea della limitazione ha assunto il valore di canone interpretativo basilare
delle rivoluzioni del 17° e 18° secolo, soltanto nell’età moderna tale teoria avrebbe determinato
trasformazioni profonde in seno agli ordinamenti politici che avrebbero portato all’inquadramento
della limitazione del potere all’interno di una cornice di legittimazione.

Costituzionalismo e giusnaturalismo
E’ innegabile che ci sia stato uno stretto legame tra il costituzionalismo e il giusnaturalismo di
matrice razionalista, il quale aveva fatto poggiare l’ordine politico su principi universali radicati
nella natura razionale dell’uomo e ricavati deduttivamente da un ordine razionale della condotta
umana, attraverso metodologie e criteri analoghi a quelli che si sono affermati nel campo delle
scienze fisiche.
Il giusnaturalismo ha, infatti, giocato un ruolo decisivo nell’impostare un nuovo metodo (piuttosto
che nuovi contenuti) nella fondazione di nuovi ordinamenti politici. Il giusnaturalismo, citando
Bobbio, ha giocato un ruolo fondamentale nella battaglia contro il principio di autorità che
dominava nello studio del diritto, fondando la scienza giuridica come scienza dimostrativa e non
più come insieme di regole date, storicamente condizionate e soggette solo all’attività
dell’interprete.
La teoria del giusnaturalismo del sei-settecento fu essenzialmente funzionale alla contestazione
del vecchio sistema di autorità (auctoritas) ed all'affermazione dell'ideologia borghese.
In Inghilterra, all’interno di un clima culturale meno affine all'astrattezza del giusnaturalismo, si era
più orientati al riconoscimento di diritti storici piuttosto che di diritti naturali. Qui il costituzionalismo
moderno si è fondato sulla supremazia del common law, frutto dell'osservazione dell'esperienza
concreta dei rapporti sociali.
Dopo la rivoluzione del 1688, con l'affermazione della supremazia del Parlamento, il legame tra
common law e giusnaturalismo si è incrinato. A studiare tale momento in maniera compiuta è
Locke. Egli, muovendo dalla premessa che c'è un fondamento contrattualistico dell'ordine politico,
mise in discussione sia il ruolo del common law che l'idea dell'esistenza di principi razionali, dotati
di valore universale e indipendenti dal consenso. Per Locke, la base contrattualista coinvolgeva
tanto il momento preliminare della fondazione della società politica quanto il momento successivo
dell'atto istitutivo del governo. Quindi, è difficile in questa prospettiva separare in maniera netta il
pensiero Lockiano dall'argomentazione giusnaturalista.
Locke tentò di conciliare la premessa giusnaturalista con l'approccio individualistico-
contrattualista. L'affermazione di un ordine politico, fondato sull’individualismo, ha dato rilevanza
speciale al valore costitutivo del consenso, derivante dall'incontro delle libertà individuali.
Risulta ambiguo, ad ogni modo, l'apporto del giusnaturalismo al costituzionalismo. Quest’ultimo,
infatti, si regge da una parte sul principio individualistico, per il quale il soggetto è elemento
basilare della natura razionale dell’uomo, dall’altra, sull'attuazione storica di tale principio, che si
basa su un patto che, a sua volta, si regge sul consenso. Proprio questa contraddizione ha fatto sì
che il giusnaturalismo abbia successivamente rappresentato la porta di ingresso del
giuspositivismo statualistico, ponendo le basi ad un ordine politico basato proprio sul consenso.

Costituzionalismo e giuspositivismo statualistico


Due ordini di considerazioni che contraddicono la tesi per la quale costituzionalismo e positivismo
giuridico avrebbero una piena continuità.
Il problema centrale del costituzionalismo è quello del rapporto fra il diritto e la forza, ovvero il fatto
di poter configurare proprio il diritto e non la forza come fondamento e, al tempo stesso, come
limite del potere. Una delle più importanti acquisizioni del costituzionalismo, infatti, è stata l'idea
che le basi dell'ordine politico non si esauriscono in una mera autolimitazione razionalizzatrice e,
quindi, non si fondano solo sul concetto di forza. C'è stato quindi un periodo nel quale gli elementi
e gli ideali del costituzionalismo sono arrivati all'interno del giuspositivismo statualistico. In questo
clima però nasce anche l'equivoco di garanzie fondate esclusivamente sull'imposizione del diritto
da parte dello stato legislatore.

Il costituzionalismo come risposta alle sfide della storia


Per comprendere il significato profondo della esperienza del costituzionalismo, è necessario tener
conto della distanza che intercorre tra la fase della fondazione teoretica del costituzionalismo, che
si sviluppa nell’età moderna attraverso la preparazione alle rivoluzioni borghesi fino alla
Rivoluzione francese, e le esperienze della fondazione dello stato di diritto borghese e dello stato
nazionale in Europa.
Il costituzionalismo si configura come una dottrina costituzionale aperta a realtà differenti che, nel
corso del suo sviluppo, ha avuto bersagli ed obiettivi differenti. La lotta contro l’assolutismo
monarchico contrassegna la fase più risalente, che si è sviluppata in Inghilterra tra Cinque e
Seicento. Il costituzionalismo inglese si incanalò lungo il duplice binario della limitazione del potere
e della legittimazione della sovranità. La lotta contro l’assolutismo monarchico si reggeva sull’idea
che il re, sebbene non sottoposto ad alcun uomo, fosse comunque soggetto alla legge, la quale, a
sua volta, sotto il controllo dei tribunali e dei parlamenti, assicurava i diritti dei privati.
Sebbene le vicende del costituzionalismo inglese siano state molto rilevanti, non bisogna arrivare
a ritenere che, in questo frangente storico, i principi del costituzionalismo fossero validi solo per
l’Inghilterra.
Anche in Francia, infatti, tra il Quattrocento e il Seicento, l’opera dei legislatori e la resistenza dei
parlamenti contribuirono alla difesa dei principi costituzionali nell’Ancien Régime. Si fece strada
l’idea di una costituzione definita per legge, non alterabile dal governo e interpretata da un potere
giudiziario indipendente.
Fu Montesquieu a delineare il collegamento tra l’esperienza inglese del costituzionalismo e
l’esperienza dei parlamenti francesi nell’Ancien Régime: dal confronto, apprezzando vari aspetti
del costituzionalismo moderno, Montesquieu arrivò a scoprire i rischi del potere centralizzato
arbitrario e a considerarlo fonte di distruzione della libertà. Il contributo di Montesquieu alla
fondazione del costituzionalismo moderno, seppur fondata su una concezione della società basata
sui corpi intermedi e sui privilegi, non si fermò all’istituzionalizzazione dei limiti del potere politico
ed al bisogno di sottoporre le passioni umane sotto il giogo delle leggi, ma giunse ad una visione
complessiva della società, considerata come una realtà costituita da una molteplicità di fattori, ben
lontana, quindi, dalla semplificazione dell’assolutismo e del centralismo. Anche il costituzionalismo
di Montesquieu, quindi, appare irriducibile agli schemi delle tecniche di limitazione del potere,
poiché esso si sviluppa da una ricerca sulla convivenza umana e da una riflessione complessiva
sui fondamenti dell’ordine politico. Continuando lungo questo itinerario, si può affermare che la
Rivoluzione francese abbia segnato il momento culminante di questa prima stagione del
costituzionalismo, ma anche che, proprio tale Rivoluzione, abbia rappresentato il punto di inizio di
una svolta che avrebbe condizionato in modo decisivo gli sviluppi costituzionali dell’Europa
continentale. L’eredità del costituzionalismo del Sei- Settecento viene rielaborata dalla esperienza
della Francia rivoluzionaria e reinterpretata nel quadro di nuove esigenze che trovano la loro
massima espressione nella idea di una sovranità della nazione, intesa come insieme omogeneo
ed unanime dei cittadini che hanno recuperato i loro diritti.

Il costituzionalismo e le sfide dei totalitarismi


Le dottrine del costituzionalismo del Sei- Settecentesco sono state recepite negli ordinamenti
liberal- borghesi dell’Ottocento europeo, come pure, nell’esperienza statunitense.
Nell’esperienza costituzionale statunitense, infatti, l’ideologia del costituzionalismo cambia rispetto
ai precedenti europei e, il suo bersaglio diventa il principio maggioritario, di cui si ci si propose di
porre freno a possibili prevaricazioni. La lettura statunitense del costituzionalismo, sembra porre
l’accento, sin dall’inizio, sulla necessità di opporre alle passioni che dominano il governo degli
uomini, il freno della razionalità delle leggi, e la supremazia della costituzione. Non vi è alcun
dubbio circa il fatto che, uno dei fondamenti su cui si basa l’intero sistema americano del diritto
costituzionale si rintraccia proprio nell’antitesi tra l’impulso dell’umano governante e la razionalità
della legge e che essa abbia radici religiose profonde e legami con le più risalenti formulazioni del
diritto di natura fondato su basi razionali. Partendo da queste riflessioni, ben ci si spiega come
nella riflessione costituzionale statunitense del XX secolo, il costituzionalismo sia finito col
ricomprendere l’idea della necessità di contenere l’espansione del ruolo dei pubblici poteri nella
vita umana. Si spiega anche come, nel corso del Novecento, il pensiero costituzionale
statunitense sia divenuto inseparabile dall’idea del totalitarismo e dall’intento politico di enfatizzare
il modello della costituzione federale statunitense, proponendolo come paradigma contro il male
assoluto della politica del XX secolo, ossia, il potere incontrollato che deriva dallo stato totalitario.

L’eredità del costituzionalismo


Appare difficile ricondurre all’eredità del costituzionalismo i temi centrali che, a partire dal XX
secolo, occuperanno le riflessioni sullo stato costituzionale, ossia, la legittimazione del potere
politico fondata sul consenso, la funzione di integrazione di una costituzione, la politica come
tecnica professionale del governo degli uomini.
Le dottrine del costituzionalismo, infatti, avevano formulato un approccio prescrittivo della
definizione dei limiti del potere politico che, muovendosi sullo sfondo della società civile borghese,
comunque venisse formulato, aveva come base una visione oppositiva ed antagonistica del
rapporto tra l’individuo ed il potere sovrano.
Questo scenario appare, però, nelle esperienze della democrazia pluralistica del Novecento,
profondamente alterato da alcuni nuovi fattori: innanzitutto, dall’allargamento della base sociale su
cui le costituzioni si impiantano; dalla democratizzazione del processo politico; dalla effettività dei
diritti, che possono essere percepite come fonti di ulteriori antagonismi o risorse di integrazione.
Se l’affermazione del modello sociale borghese fondato sulla separazione tra Stato e società si
incentrava sull’autonomia dei sottosistemi sociali, funzionale al pieno dispiegamento della libertà
individuale, nella storia delle esperienze costituzionali del Novecento, centrale appare il tema della
compatibilità tra ordine sociale e ordine politico. Possiamo concludere dicendo che, il rapporto tra
il costituzionalismo e gli scenari costituzionali del Novecento sia stato caratterizzato da una
sostanziale discontinuità, avallata dagli elementi considerati.

Costituzionalismo e stato costituzionale


La questione del rapporto tra costituzionalismo e democrazia ha prodotto nel XX secolo due linee
di tendenza fondamentali. L’una si colloca in antagonismo col costituzionalismo e tenta di
applicare una concezione machiavelliana della politica alle dinamiche della democrazia (vedi.
Schmitt, vedi Weber). L’altra, invece, cerca di determinare congegni di razionalizzazione del
potere politico, con l’intento di calare i principi del costituzionalismo nella cornice della democrazia
di massa. Questo il filo rosso che idealmente congiunge le teorie del parlamentarismo
razionalizzato, la tematica della regolamentazione dei partiti, la teoria kelsiana della democrazia
procedurale, la fondazione teoretica della garanzia giurisdizionale della costituzione e di istituti di
controllo, intese quali condizioni fondamentali per l’esistenza di una democrazia.
Il rapporto travagliato tra il costituzionalismo ed il Novecento può essere valutato anche
guardando all’elaborazione teorica della categoria dello Stato costituzionale, che si sviluppa a
partire dal distacco dal pensiero giuspositivista. Se il pensiero giuspositivista statualistico è
strettamente connesso con gli assetti dello stato di diritto ottocentesco, con il dogma della
supremazia della legge e, soprattutto, con il dogma della impermeabilità del diritto da parte della
critica morale, il modello dello stato costituzionale è legato all’idea della superiorità della
costituzione, nonché, all’idea che la costituzione, sebbene positivizzata in un testo, possa essere
pienamente comprensibile solo alla luce di una concezione del diritto che non pretenda di
separare diritto e morale.

IV. L’esperienza dello stato liberale


L’affermazione dei diritti costituzionali si colloca a cavallo tra due importanti indirizzi teorici, il
contrattualismo e il giusnaturalismo, che hanno inquadrato un importante processo di
trasformazione sociale e politica. Quanto al contrattualismo, l’idea del contratto come fondamento
dell’obbligazione politica, che era stata ereditata dal contrattualismo medievale, era stata
trasformata nelle sue basi giustificatrici, dal momento che, al patto tra sovrano e soggetti
sottoposti al suo potere di impero si era sostituito il contratto tra liberi individui. Il contrattualismo
moderno, nelle sue molteplici declinazioni, ha delineato un modello di ordine politico integralmente
fondato sull’individuo. Le critiche a tali teorie sottolineavano, soprattutto, la mancata
consapevolezza della complessità sociale della genesi dei fenomeni politici (ad es. Montesquieu).
Quanto al giusnaturalismo, discende direttamente dalle teorie del giusnaturalismo razionalista
l’idea della universalità dei diritti. Il Bill of rights, le varie costituzioni, la dichiarazioni dei diritti
dell’uomo e del cittadino (vedi Inghilterra, Francia, Nord America) ribadiranno il principio per il
quale i diritti individuali sono il riflesso di libertà che discendono dalla natura razionale dell’uomo.

I fondamenti ideologici delle rivoluzioni borghesi


Nel panorama del giusnaturalismo, un ruolo fondamentale ha assunto il pensiero di John Locke, in
merito alla sistemazione dei diritti negli ordinamenti liberali.
Locke ha annoverato tra i diritti innati dell’individuo, la vita, la libertà ed il patrimonio, diritti che la
ragione impone di rispettare perché costituiscono la property peculiare dell’individuo e dal cui
bisogno di conservazione gli uomini sono spinti ad associarsi. Partendo da queste basi, Locke
avrebbe teorizzato, in consonanza con le istanze borghesi della rivoluzione parlamentare inglese,
un modello di governo basato sul presupposto che il potere può essere esercitato solo su
mandato fiduciario.
Nel pensiero di Locke, l’idea della property ha rappresentato la formula riassuntiva di tutti i diritti e
di tutte le libertà attraverso cui il soggetto può disporre della propria forza lavoro e della propria
capacità ed ha anticipato quel nesso inscindibile tra libertà e proprietà, fondamentale nello stato
liberale ottocentesco. L’elaborazione teorica di Locke, arrivò a postulare un modello di
individualismo possessivo che collegava i diritti al dominio del mondo esterno (chiaro riferimento
al modello del diritto di proprietà di derivazione romanistica, con l’assoggettamento dell’oggetto
del dominio e l’assolutezza del rapporto su di esso). Da qui, si hanno due conseguenze: la
proprietà appare come paradigma non solo dei diritti di natura patrimoniale, ma della generalità
dei diritti, che si conformano, tutti, al modello dell’assoggettamento della realtà esterna.
Il diritto privato assume una rilevanza funzionale ai bisogni della società civile borghese. Esso
diviene il terreno di sviluppo dei diritti e, in questa cornice, vengono riconosciute al contratto
particolari virtù. In esso, infatti, confluiscono tutti gli elementi costitutivi dell’individualismo
possessivo, precisamente, il carattere volontario del vincolo, l’indipendenza dei contraenti, la
relazione di scambio come scenario della libertà individuale.
Il modello dell’individualismo possessivo era un modello che rappresentava le grandi conquiste
della rivoluzione borghese e che, negli anni successivi della storia dei diritti costituzionali, avrebbe
lasciato un’impronta. Esso evidenziava, inoltre, quelli che erano i limiti nell’impianti dei diritti (e ai
quali le democrazie pluralistiche cercheranno di porre argine): in primis, una concezione della
società civile come luogo di rapporti di scambio tra soggetti proprietari; l’indifferenza alle
diseguaglianze esistenti nei rapporti di vita, una concezione dell’organizzazione costituzionale
come luogo di difesa del sistema del mercato e di un sistema di diritti confinato entro la sola
società civile borghese.

Il processo di costituzionalizzazione dei diritti


Le rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo si collocano sulla scia dell’elaborazione dei diritti
radicati nella natura razionale dell’uomo e segnano anche l’approdo alla costituzionalizzazione dei
diritti. Si arriva all’elaborazione di documenti costituzionali che contengono l’elencazione dei diritti
intangibili dell’individuo. Inoltre, il riconoscimento dei diritti diviene il fondamento dei limiti
costituzionali del potere politico: essi diventano elementi di legittimazione dell’ordine politico
stesso.
In Inghilterra, il processo di costituzionalizzazione dei diritti si sviluppa in linea con i tratti peculiari
della storia britannica, secondo un itinerario che coniuga storicismo, quindi, la continuità con i
diritti radicati nella storia e nella tradizione, e pluralismo, con la salvaguardia del particolarismo.
Questo spiega il legame più marcato dei documenti del primo costituzionalismo britannico con i
contenuti e le sensibilità tipiche delle costituzioni medievali. Siamo in presenza del primo nucleo di
diritti e tentativo di costituzionalizzazione, sebbene con modalità ed esiti diversi. In alcuni
documenti delle colonie inglesi in America, ad esempio, comincia ad intravedersi la tendenza
all’ampliamento del catalogo dei diritti. In altri testi come l’Habeas Corpus Act, invece, la
protezione della libertà viene ancora collegata a garanzie di natura meramente processuale, volte
a regolamentare gli arresti arbitrari. Il Bill of Rights del 1689 non conteneva, nonostante la sua
denominazione, alcun catalogo di diritti, ma solo un elenco di competenze del Parlamento e di
garanzie sul terreno giudiziario. La tutela dei diritti si muoveva parallelamente a modifiche
profonde della forma di governo e dell’organizzazione dei poteri e, soprattutto, all’affermarsi del
regime di governo parlamentare.
Negli Stati Uniti, il richiamo dei documenti costituzionali della rivoluzione americana ai principi del
giusnaturalismo è molto più accentuato. Nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, si affermò
solennemente che tutti gli uomini sono stati creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di certi
inalienabili diritti, tra i quali, quello alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità.
Tuttavia, l’ossequio ai temi e alle formule del giusnaturalismo non deve trarre in inganno. Come lo
stesso Jellinek ha intuito, i Bill of Rights degli stati americani sono il prodotto di un processo di
costituzionalizzazione che era indirizzato ad organizzare la convivenza di una pluralità di
componenti etniche e religiose della società e ad organizzare la politica sugli spazi estesi della
federazione. Si compie, pertanto, una emancipazione dall’idea del fondamento giusnaturalisico dei
diritti, la quale resta sullo sfondo come retaggio ideologico- culturale.
L’esperienza rivoluzionaria in Francia. La dichiarazione del 1789 e la sua eredità
Anche in Francia, il riconoscimento dei diritti, più che essere solo un omaggio alla tradizione
giusnaturalistica è, nel periodo rivoluzionario, il prodotto di un potere costituente. Sebbene l’art. 2
della Dichiarazione del 1789 faccia esplicito riferimento alla conservazione dei diritti naturali e
imprescindibili dell’uomo, saranno soltanto le costituenti rivoluzionarie successive a plasmare i
cataloghi dei diritti delle carte costituzionali degli anni della Rivoluzione, con un progressivo
allargamento dell’orizzonte dei diritti costituzionali ed una maggiore torsione in senso positivistico
del fondamento dei diritti. Le vicende dei cataloghi dei diritti, nelle costituzioni rivoluzionarie, hanno
rispecchiato fedelmente le varie fasi della Rivoluzione. Se nella Dichiarazione del 1789 il catalogo
si identifica, in buona sostanza, con i diritti di derivazione giusnaturalistica, per rispondere alle
esigenze delle forze moderate poste alla guida dei primi anni della Rivoluzione, nelle Costituzioni
successive si registra un allargamento del catalogo dei diritti che, a fianco di quelli di derivazione
giusnaturalista, va a ricomprendere anche diritti che costituiscono la precondizione per la
formazione di una sfera pubblica borghese, (pensiamo ai diritti di riunione, di associazione), ma
anche diritti che sottolineano una netta inclinazione in senso sociale ( il diritto al lavoro ed al
riposo, all’assistenza e all’istruzione pubblica, i diritti di partecipazione politica).
Non si deve comunque sottovalutare il rilievo che ha avuto la Dichiarazione del 1789 non soltanto
nella storia costituzionale francese, ma anche nello sviluppo storico dei diritti di tutta l’Europa.
Per quel che riguarda la Francia, la Dichiarazione è stata rimessa in vigore nel corso di regimi
costituzionali molto diversi tra di loro ed oggi, grazie al lavoro del Consiglio costituzionale, è
entrata a far parte del blocco costituzionale delle libertà fondamentali. Sul piano generale, la forte
influenza che la Dichiarazione ha avuto sugli sviluppi del costituzionalismo, ha ridimensionato
l’antica controversia sull’ispirazione di essa (cioè se essa sia stata il ridotto della filosofia dei lumi
o se siano state prevalenti le influenze dei Bills of Rights e della riforma protestante). In realtà, la
dichiarazione si colloca in un orizzonte più ampio, il quale , nel quadro dell’ascesa della borghesia,
riassume l’evoluzione della civiltà occidentale.
Lo spirito della Dichiarazione, inoltre, ha influenzato in maniera profonda gli ordinamenti di stampo
liberale sotto un duplice profilo, ossia, nel far assurgere la legge parlamentare a fulcro delle libertà
da esse riconosciute, nell’aver individuato nell’eguaglianza dinnanzi alla legge non un limite di
essa, ma la dimensione della sua peculiarità.

Il liberalismo giuridico
Il liberalismo ottocentesco si sviluppa dal tronco dell’illuminismo e sulla base di una fiducia
illimitata nelle capacità dell’individuo. Determinante, nello stabilire il raccordo tra il pensiero
illuminista e il liberalismo giuridico, il pensiero kantiano che ha concepito la libertà come supremo
imperativo etico e, cioè, come capacità del volere a determinarsi autonomamente e senza
costrizioni esterne. Nelle prime elaborazioni del liberalismo giuridico si è arrivati a concepire
l’individuo come base della società e delle sue forme organizzative. L’individualismo liberale,
originariamente, è approdato ad una visione antistatualista dell’ordine sociale: lo stato deve
astenersi da ogni cura per il benessere positivo dei cittadini e non compiere alcun passo che non
sia necessario alla loro sicurezza reciproca. Tale versione sarà, però, contraddetta nella fase
matura del liberalismo giuridico.
Nella prima metà dell’Ottocento, l’influenza del pensiero romantico ha fatto emergere nel pensiero
liberale una concezione della libertà che, affrancandosi dalle premesse giusrazionalistiche e
muovendo, invece, da una premessa storicistica, è pervenuta alla conclusione che la libertà non si
incarna più nella ragione astratta, ma negli istituti che l’uomo ha creato.
Da questo pensiero, derivano due filoni che corrispondono a contestualizzazioni storiche differenti
del liberalismo giuridico dell’ottocento: da un lato, l’ammirazione profonda per l’Inghilterra, per il
modo in cui essa aveva conservato libertà radicate nel passato storico del suo popolo; dall’altro
l’idea che lo sviluppo dell’umanità ed anche della libertà devono essere comprese come momenti
di una cosmogonia, trovando posto in una filosofia che voglia essere una spiegazione totale del
mondo e dell’uomo. Il rifiuto dell’astratto intellettualismo settecentesco fa posto, quindi, ad una
visione dinamica della società, che corrisponde alle esigenze della formazione dell’egemonia
borghese. Si sviluppa una concezione conflittuale della società che, come spiega Contant, è
legata al mondo dei commerci, caratterizzato dagli equilibri dei rapporti di scambio.
Questa risulta essere la base della fondazione teorica del moderno pluralismo. Su questo punto
un apporto determinante è stato dato da Tocquville e da Mill: il primo ispirato dall’osservazione
dell’esperienza rivoluzionaria in Francia e dei pericoli del despotismo democratico; il secondo,
invece dalle riforme elettorali e dallo sviluppo dell’organizzazione della società in Inghilterra.
Comune ad entrambi appare la riflessione sul rapporto tra democrazia e liberalismo, che a
quest’ultimo affida il compito di arginare gli eccessi del principio democratico. Secondo
Tocqueville, per porre argine alle nuove forme di dispotismo, non è necessaria la difesa dei
privilegi di classe, ma l’apertura della società, affinché in questa si radichino istituzioni id libertà
che siano in grado di proteggere contro i rischi cui la libertà politica va incontro nella società di
massa. Di qui, da un lato, l’intuizione che la libertà politica deve essere garantita anzitutto al livello
della società attraverso un assetto istituzionale che sia in grado di valorizzare lo spirito di
associazione e l’autogoverno locale; dall’altro, una valutazione positiva della mobilità e quindi dei
contrasti all’interno della società, che non devono essere intesi come fenomeno patologico
dell’ordine politico, ma come risorsa capace di costruire argini al dispotismo. Quanto a Mill, invece,
questi sosterrà che la forma di governo più idonea a sorreggere l’assetto della società in continua
crescita e continuo progresso sia quella del governo rappresentativo. Proprio sulla base
dell’intuizione di Mill, il quale ha sottolineato la necessità di un intervento del legislatore sulla
ridistribuzione della ricchezza, nasce il problema dell’intervento pubblico nell’economia.
Venuta meno l’idea di una società che si autoregola sulla base di un equilibrio naturale, la
concezione di uno stato che rimane indifferente ai conflitti sociali viene sostituita dalla convinzione
che lo stato, spinto da un interesse comunitario, debba ridurre le libertà di alcuni per rafforzare
quella dei soggetti più deboli della società.
Tra i caratteri basilari della sistemazione dei diritti di libertà nello stato liberale il primo aspetto da
considerare è quello del garantismo, ossia, della dottrina costituzionale che costruisce l’intera
organizzazione dei poteri in funzione della protezione delle libertà individuali. Nella prospettiva di
un ordine politico orientato sistematicamente sul principio di libertà, quale quello della prima metà
dell’Ottocento, il legame tra costituzionalismo e garantismo si rivela molto stretto: i diritti di libertà,
alla cui protezione lo stato piegava la propria forza ed i propri strumenti di azione, divenivano
fondamentali, in quanto fondanti la legittimazione dei poteri pubblici. Alla stregua del garantismo,
considerato proprio come dottrina costituzionale, lo stato non appariva quale fine che incarnava
valori giuridici alla cui realizzazione i diritti venivano indirizzati, ma, al contrario, un mezzo che si
legittimava sulla base del fine fondamentale di assicurare spazi di libertà privata. Le libertà
garantite, è bene precisarlo, erano le libertà dello stato monoclasse borghese e il sistema di
garanzie, poste a tutela delle stesse rispetto ad un potere che aspirava all’assolutezza, era a sua
volta funzionale al rafforzamento dell’egemonia borghese.

Libertà degli antichi e libertà dei moderni


Nella ricostruzione dei diritti e delle loro garanzie, per quanto essa appaia compatta, é necessario
cogliere gli elementi di contraddizione. In primo luogo, le teorie del garantismo non si sono sempre
identificate con una concezione esclusivamente negativa delle libertà.
Constant, ad esempio, ha confrontato, in un suo celebre scritto, la libertà degli antichi e quella dei
moderni. Secondo l’autore, la libertà degli antichi aveva la caratteristica primaria di essere
assorbita completamente nella dimensione istituzionale e pubblica della comunità politica e, in
questo modo, il cittadino della polis non godeva della protezione di una sua sfera di libertà privata;
la peculiarità della libertà dei moderni, invece, sta nel godimento di una sfera privata di benessere
e felicità, poste al riparo da ingerenze esterne. Nel costituzionalismo liberale, l'idea di libertà come
assenza di costrizioni ed impedimenti e l'idea di libertà come autonomia ed auto realizzazione del
soggetto sono state, sin dall'inizio, compresenti. Una commistione che ha consentito di innestare,
sul tronco della libertà negativa, la garanzia delle libertà politiche.
I teorici del garantismo liberale, pur tracciando la distinzione tra l'autodeterminazione individuale e
quella collettiva, non sono mai giunti a postulare la separatezza tra la libertà civile e la libertà
politica. Non si può trascurare, infatti, che anche nelle teorie del garantismo liberale i due aspetti
sono spesso connessi, entrambi sono finalizzati al consolidamento di un ordine politico, fondato
sull'egemonia borghese. Nel costituzionalismo liberale, quindi, è sempre presente l’idea dei diritti
negativi e della libertà come assenza e della libertà come assenza di costrizioni esterne.
Constant, nelle sue riflessioni, è arrivato a riconoscere l’inscindibilità tra le libertà civili e le libertà
politiche e, partendo dalla necessità di distinguere la libertà dalle sue garanzie, identifica la prima
con i diritti sociali, le seconde con le garanzie accordate dalle istituzioni ai godimenti privati,
ovvero, con la libertà politica. La libertà individuale é la vera libertà moderna, ma la libertà politica
é sua indispensabile garanzia. Si tratta di due aspetti complementari.
Constant ritiene che l'organizzazione del governo sia, dunque, una questione secondaria rispetto
alla limitazione dell'autorità sociale e che tale limitazione debba essere garantita nella società, in
primis dall’opinione, che è la forza che garantisce tutte le verità riconosciute. Le garanzie non si
configurano, perciò, come tecniche neutrali ma si radicano in quei principi che sono alla base
dell'ordine politico, divenendone il punto fisso.
Sempre nelle riflessioni del sistema liberale ottocentesco, si tocca un tema che verrà sviluppato
successivamente, a partire dalle esperienze costituzionali del secondo dopoguerra, che riguarda il
rapporto tra aspetto individuale ed aspetto istituzionale dei diritti costituzionali. Nell'esperienza
liberale, la prevalenza dell'aspetto individuale dei diritti dipende da ragioni storico- culturali
profonde che riportano alle idee della volontà dell'individuo e dell'autonomia come base della
stessa libertà individuale e all'impostazione oppositiva del rapporto tra individuo e stato e della
illimitatezza della sfera di libertà individuale, tipica degli ordinamenti liberali, appunto.
Nella riflessione del costituzionalismo liberale settecentesco, quindi, non risulta estranea la
considerazione dei diritti costituzionali come elementi costitutivi dell'ordinamento e della forma di
stato. È vero, infatti , che gli ordinamenti liberali, nel corso del XIX secolo, posti di fronte
all'emergere di forze e soggetti dalla società che che ne mettevano a rischio la stabilità, si sono
posti di fronte al problema del consolidamento del sistema di potere della borghesia e
l'introduzione di limiti dei diritti connessi alla protezione dell'ordine politico dello stato- nazione
borghese.

I diritti nello “stato di legislazione”


Al contrario di quanto avvenne nei paesi anglosassoni, dove vi fu una sostanziale espansione dei
diritti, nell'Europa continentale, il profondo radicamento della società borghese, l'apertura alla
società che era presente in alcune elaborazioni del primo costituzionalismo liberale portò, invece,
ad una subordinazione dei diritti di libertà agli assetti istituzionali dell'ordine borghese.
Nelle esperienze continentali, la concezione garantista della costituzione, propria del primo
costituzionalismo liberale, si convertì nel positivismo giuridico, rimettendo contenuto e tutela dei
diritti enunciati dalle carte costituzionali al diritto posto dalle istituzioni della borghesia
politicamente attiva. L'intreccio tra diritti e legislazione accompagnò le vicende degli ordinamenti
liberal- borghesi, seguì itinerari diversi. Nella tradizione francese, l'idea della libertà rimane
prioritaria fino ad incardinarsi nella costituzione rappresentativa e nelle dinamiche del
parlamentarismo. Nella tradizione tedesca è lo stato, invece, il perno dell'assetto costituzionale,
mentre la libertà è il riflesso dei limiti opposti ai poteri pubblici dall'ordinamento. In Italia, l'impianto
dei diritti costruito nello Statuto Albertino risentiva inizialmente dell'influenza del modello francese,
pertanto, ampi spazi erano rimessi al potere legislativo circa la definizione del contenuto e dei
limiti dei diritti enunciati a livello costituzionale. Nel passaggio della forma di governo da un regime
parlamentare monista ad uno dualista, tra legislativo ed esecutivo monarchico la politica dei diritti,
complice l'elasticità dello statuto, ha rispecchiato di volta in volta le aperture o le tendenze
autoritarie della classe dirigente liberale. L'imporsi, infine, di una concezione formale del principio
di legalità, con il riconoscimento di poteri normativi all'esecutivo e all'amministrazione nell'ambito
dei diritti statutari, ha portato ad un ridimensionamento sensibile dell'impianto dei diritti fondato
sulla centralità della costituzione politica rappresentativa. A partire dall'età crispina, l'impianto dei
diritti ha risentito, quindi, dell'influenza del modello tedesco che appariva alla classe dirigente
come il più idoneo a fronteggiare lo sviluppo dei modelli socialisti, irredentisti ed anarchici. Come
testimonia l'evoluzione del codice penale, ciò ha aperto la strada a discipline dei diritti di libertà
orientate a salvaguardare la stabilità degli ordinamenti politici dal dissenso politico e sociale,
riservando spazi sempre più ampi ad intromissioni dell'autorità di polizia nella sfera delle libertà
statutarie. Una linea di sviluppo che culminerà, con l'avvento del regime fascista e l'emanazione
delle leggi razziali, al completo oblio del l'ispirazione liberale dello Statuto e al sovvertimento del
principio di eguaglianza dinnanzi alla legge.
La fondazione teorica dello statualismo
In Germania, dopo la Rivoluzione francese, il liberalismo tedesco appariva diviso tra coloro i quali
guardavano con simpatia alle esperienze rivoluzionarie e coloro i quali, invece, fedeli alla
tradizione organicistica radicata nella storia della cultura tedesca, portavano avanti l'idea della
prevalenza della dimensione comunitaria su quella individuale. Ciò portò ad un innesto delle
suggestioni del costituzionalismo liberale sul tronco di un ordinamento statale unitario, che
considerava il cittadino come parte di un organismo ad esso superiore e come subordinato al
tutto. Dopo l'unificazione tedesca, nel tentativo di elaborare un sistema del diritto pubblico che
riproducesse gli assetti costituzionali del Reich bismarkiano, il problema del rapporto tra il singolo
e la sovranità dello stato venne risolto attraverso l'elaborazione della categoria dei diritti pubblici
soggettivi. In essa confluirono problematicamente le tensioni tra componenti liberali e quelle
tardo- assolutistiche. In un primo momento, nell'elaborazione dei diritti pubblici soggettivi, le
componenti tardoassolutistiche appaiono nettamente prevalenti: i diritti pubblici vennero
configurati come diritti assolutamente negativi, diritti al riconoscimento del lato libero, cioè del lato
non statale della personalità. Essi erano, in sostanza, riflessi del ritrarsi del potere statuale dalla
sfera degli individui.
Muovendo dalla premessa della inammissibilità dei diritti individuali nel campo del diritto pubblico,
si è giunti gradualmente a negare il rilievo autonomo dei diritti soggettivi.
Verso la fine del XIX secolo, la teoria dei diritti pubblici soggettivi ha cercato, però, di armonizzare
il postulato liberale della priorità dei diritti con il dogma della sovranità statale e, così, i diritti
soggettivi sono stati configurati come il prodotto della autolimitazione dello stato nel mondo del
diritto. In tal modo, si è arrivati alla riscoperta della categoria del diritto soggettivo, ammettendone
la priorità nel campo del diritto pubblico pur fondandola sulla subordinazione del cittadino e
dell'amministrazione alla volontà superiore dello stato ordinamento.

La teoria dei “diritti pubblici soggettivi”


Le teorie dei diritti pubblici soggettivi hanno considerato il problema della libertà individuale sotto il
profilo delle sue garanzie, dando una definizione tecnicistica delle stesse: "accertamento e difesa
di un diritto privato del cittadino, che sia stato leso dall'azione dello stato”. La garanzia dei diritti è
intesa, quindi, come protezione giuridica del singolo nei confronti del potere statale ed è
essenzialmente circoscritta all'area dei rapporti con il potere esecutivo. La nozione della garanzia
dei diritti si connetteva alla fiducia illimitata nella legge e nella capacità regolatrice dei rapporti
sociali da parte della rappresentanza parlamentare.
Nel complesso, la teoria dei diritti pubblici soggettivi proponeva una ricostruzione delle garanzie
dei diritti pubblici che si poneva in sintonia con l'idea che il diritto costituzionale fosse indifferente
alle articolazioni del tessuto pluralistico della società e che, quindi, aveva una visione riduttiva del
ruolo svolto dall'opinione pubblica.
Si ha conferma di ciò quando si considera il tentativo di Jellinek di proporre una classificazione
dei diritti pubblici soggettivi, basata sulla distinzione di quattro status fondamentali del
cittadino, che riassumono la posizione giuridica del soggetto nei suoi rapporti con lo stato:
- status passivus, che esprime la condizione di subordinazione alla legge;
- status negativus, che descrive la sfera di libertà del cittadino dallo stato;
- status positivus, che può fondare pretese del cittadino a prestazioni da parte dello stato;
- status activus, che comprende i diritti di partecipazione politica nella vita dello stato
Nell'interpretazione della teoria di Jellinek non si può prescindere dal contesto politico-
costituzionale in cui fu elaborata. In primo luogo, essa configurò gli status del soggetto
(specialmente quello negativus) come accessori rispetto allo status passivus di soggezione al
potere statale, che, in linea di principio resta illimitato.
In secondo luogo, il soggetto titolare dello status negativus non è l'uomo o il cittadino, bensì
l’individuo, considerato in maniera astratta, al quale è riconosciuta una libertà che non può essere
riferita alle concrete condizioni sociali del soggetto, ma che si configura come una mera ed
astratta libertà da condizioni illegali.
La premessa fondamentale della dottrina degli status è quella della autolimitazione
dell'ordinamento giuridico e di un potere statale che si pone come soggetto di diritto distinto
dall'ordinamento.
È chiaro che il concetto di persona si riduce in questa elaborazione ad una dimensione
esclusivamente giuridico formale, giungendo alla completa astrazione rispetto ad una costruzione
della soggettività legata alle reali condizioni dell'individuo.

Il paradigma del DIRITTO DI DIFESA come filo conduttore dell'esperienza del liberalismo
giuridico
Il tema ricorrente nei classici del pensiero liberale del ‘700- ‘800 è l'idea che concepisce la difesa
da aggressioni esterne come la massima espressione della libertà giuridica ed i diritti individuali
come diritti che pongono il titolare al riparo da interferenze nella sua sfera privata provenienti
dall'esterno. Nell'elaborazione dei diritti di libertà come diritti di difesa da aggressioni esterne,
diritti, indirizzati contro le aggressioni esercitate dal potere statale, confluiscono 3 fattori costitutivi:
- lo sviluppo della concezione moderna dello stato;
- il concetto della libertà di agire dell'individuo connaturata con il diritto di natura;
- il tentativo di costruire una relazione dialettica tra sovranità statale e libertà naturale.
La configurazione liberale dei diritti di difesa presuppone, quindi, una concezione che vede lo
stato come l'antagonista per eccellenza della libertà individuale. Alla fondazione teorica della
categoria dei diritti di difesa hanno collaborato, in verità, diversi autori. Hobbes, ad esempio, ha
sostenuto che la libertà consiste nel l'assenza di impedimenti, intendendo questi ultimi come gli
"impedimenti esterni all'azione del soggetto”.
Nel pensiero hobbesiano, quindi, la libertà di agire è libertà da impedimenti alla realizzazione della
volontà individuale e la concezione negativa della libertà si configura come diritto di difesa.
Sopravvive nel liberalismo giuridico il riferimento ad uno stato naturale di libertà che deve essere
difeso da impedimenti esterni e l’idea che si possano certamente definire come tali le legature
sociali. A differenza di Hobbes, però, non c’è nel liberalismo giuridico solamente l’idea della libertà
naturale in chiave prestatuale. Infatti, in esso si innestano anche filoni del giusnaturalismo che
hanno tentato di mettere in correlazione una libertà, in linea di principio, illimitata ed un potere
sovrano, altrettanto assoluto. Una correlazione che, invece, l’opposizione hobbesiana tra libertà
naturale e sovranità aveva cercato di evitare.
Nell’esperienza liberale, il diritto di difesa smarrirà, progressivamente, la carica antagonistica nei
confronti del potere statuale che, inizialmente, costituì un connotato saliente, sebbene non
esclusivo, del liberalismo giuridico e subirà così una torsione in senso statualistico.

V. I diritti fondamentali negli ordinamenti di democrazia pluralistica La reazione all'ordine


liberal-borghese
A partire dal primo dopoguerra, in Europa abbiamo profondi cambiamenti che hanno interessato
l'ampiezza del catalogo dei diritti costituzionali, la struttura delle situazioni soggettive e i mezzi di
tutela. Eventi come l'allargamento del suffragio universale e l'irrompere delle masse sulla scena
politica, lo sviluppo dei partiti e dei movimenti sindacali, hanno fatto entrare in crisi i meccanismi
dello stato liberale, tesi a preservare l'assetto politico istituzionale caratterizzato dalla presenza di
una base sociale omogenea, ovvero, la borghesia.
Si è andata sviluppando la legislazione sociale, cosi come l'intervento dello Stato, teso a
correggere le diseguaglianze economiche.
Nei cataloghi dei diritti delle democrazie pluralistiche sono presenti molti elementi isolati durante il
periodo liberale, sebbene, all’epoca, fondati sull'egemonia monoclasse. Ad esempio, al pensiero
liberale non era del tutto sconosciuta l'idea della proprietà basata sul lavoro e sull'intraprendenza,
piuttosto che sulla rendita parassitaria.
Oltre ad indirizzarsi verso la neutralizzazione del patrimonio del liberalismo giuridico,
abbandonando gli assetti della classe borghese estendendo i diritti, le costituzioni pluralistiche
hanno assunto una posizione contrapposta rispetto alle costituzioni derivanti dall’esperienza
liberale. Di questa carica antagonistica si possono segnalare alcuni aspetti:
La prima spinta contraria ai modelli liberali viene dalla critica all'individualismo che
coinvolse sia la struttura dei diritti che l'immagine stessa dell'uomo nella società.
L'immagine che entra in crisi è quella dell’uomo, ripiegato sulla sua individualità, che considera
l’altro, e la socialità in genere, solo come il confine della propria libertà giuridica.
La critica del giovane Marx, a tal proposito, si è incentrata sull’immagine dell’uomo isolato nella
sua individualità e sulla concezione della libertà basata non sul rapporto dell’uomo con l’uomo, ma
sulla separatezza di ciascuno dall’altro.
La concezione del pluralismo, in reazione a tale visione, ha proposto un’immagine dell’uomo come
soggetto inserito in una rete di rapporti sociali, abbracciando la libertà di associazione, ostile,
invece, all’idea liberale. Quindi, prima conseguenza fu la riscoperta ed il rafforzamento del diritto di
associazione, soprattutto, visto l'emergere delle organizzazioni politico- sindacali.
La seconda spinta antagonista si ravvisa nel mutato rapporto fra libertà private e libertà politiche.
L’ideologia dei movimenti socialisti é grandemente influenzata dalla critica alla concezione
privatistica dei diritti. Primariamente in Marx, per il tramite di Rousseau, si teorizza la superiorità
della libertà politica su quella privata. Carattere funzionale e strumentale delle libertà politiche che
devono essere intese non come veicolo di una politicizzazione assorbente della società, ma come
vero strumento del pluralismo. Terza spinta importante è quella che vede la reazione al
formalismo della concezione liberale della libertà giuridica. L'individualismo normativo liberale
presupponeva che, dal momento che l'individuo per l'ordinamento non rilevava come membro
della comunità, bensì, come un soggetto isolato, libero ed autonomo, la libertà giuridica era una
sorta di lasciapassare necessario per usare a proprio piacimento la sfera di autonomia. L’impianto
era quello di una costruzione formalistica della libertà. Kant ne aveva tratteggiato le linee
principali, sostenendo, ad esempio, il concetto per cui nessuno può costringere l’altro ad essere
felice, perseguendo un percorso imposto in maniera estranea da esso stesso.
Ognuno deve ricercare la propria felicità, per la via che ciascuno sceglie, purché questo non
arrechi danno ad altri che stanno facendo lo stesso identico percorso.
Le costituzioni del pluralismo si sono allontanate da questo schema iper illuminista. Questo
perché, ad esempio, una concezione del genere non considerava i presupposti reali del soggetto,
come ad esempio, le condizioni di benessere, cosa che concorre ad avere situazioni come quelle
in cui il lavoratore è soggetto al potere forte e sbilanciato di un superiore (critica di Engels).
L'orientamento critico non si è tradotto nella realtà nei termini radicali di Marx ed Engels, ma ha
influenzato grandemente le costituzioni europee del XX secolo dotandole di una forte carica
eticaintrecciando la previsione di diritti inviolabili e doveri di solidarietà (v. art. 2 Cost. italiana). Il
contesto in cui queste costituzioni si sviluppano è molto importante per alcuni aspetti. La forte
carica identitaria ad esempio delle costituzioni poteva nascondere rischi di una concezione
paternalistica della società, con le grandi organizzazioni sociali della politica a svolgere un ruolo
assimilabile all'antica benevolenza dei sovrani. Sul tema Kant colse nel segno quando bollò
questo come il "peggior dispotismo, quello di un governo fondato sul principio di benevolenza
verso il popolo, un governo paternalistico in cui i sudditi, come figli minorenni sono costretti a
comportarsi passivamente per aspettare che il capo dello stato giudichi in qual modo essi devono
essere felici". Ultima spinta è quella che vede il mutamento della concezione della proprietà.
La proprietà nell'esperienza liberale aveva rappresentato molto di più che un semplice diritto
patrimoniale, configurandosi, infatti, come il fulcro del sistema dei diritti dal quale tutti gli altri diritti
riprendevano la struttura e le modalità di esplicazione. Locke, parlando di property, ha teorizzato
un ventaglio di diritti individuali, tutti strutturati secondo un unico schema e, riprendendo il concetto
cardine del liberalismo borghese, ovvero, il fatto che la posizione sociale dell’individuo sia
qualificata dalla proprietà, ha riconosciuto quali capisaldi del costituzionalismo liberale classico
proprio la libertà e la proprietà. La divisione in possidenti e non possidenti, derivata naturalmente
dalla centralità di tale diritto, ha fatto della proprietà il principio basilare della società e ha
rappresentato la base e la causa prima delle diseguaglianze.
Dalla fine del ‘700, con la prima rivoluzione industriale, ma, soprattutto, nella seconda metà
dell’800, inizia un percorso evolutivo della struttura giuridica del diritto di proprietà che culmina in
quello che si può definire come il passaggio “dalla proprietà alle proprietà”. Si arriva alla
consapevolezza che esistono e vanno applicate, a seconda dei beni oggetto di diritto, diverse
sfumature giuridiche di disciplina della proprietà. A partire dall’Ottocento, quindi, si hanno
temperamenti alla visione della proprietà appiattita sulle logiche dell'individualismo possessivo.
In primo luogo, lo sviluppo del capitalismo monopolistico, a scapito di quello concorrenziale, ha
fatto nascere l'esigenza di un intervento da parte dello Stato nell’economia, mirato a correggere gli
squilibri nell'allocazione del capitale.
In secondo luogo, la diffusione crescente delle forme dell'impresa e della gestione consorziata
delle attività economiche ha indebolito l'idea di un sistema fondato solo sulla contrapposizione di
interessi egoistici, dando rilevanza all'associazionismo nel mercato. Si pensi allo sviluppo delle
società di capitali e ai crescenti investimenti di capitali nell'esercizio dell'impresa, che hanno
ridimensionato l'idea liberale che alla proprietà sia riservata la facoltà di disporre in maniera
assoluta di un bene. Infine, la diffusione del benessere e l'accesso alla proprietà di strati più ampi
della popolazione hanno trasformato la proprietà in uno strumento molto duttile, capace di dare
veste giuridica a nuove opportunità di arricchimento o di speculazione.
La proprietà passa, quindi, da un modello monolitico ad un modello plurale e, con il passaggio dal
costituzionalismo liberale al costituzionalismo democratico, si passa da un concetto assoluto di
proprietà ad un concetto relativo e limitabile. Il diritto costituzionale non è rimasto indifferente a
questo mutamento del concetto di proprietà. Nelle costituzioni delle democrazie pluralistiche il
riconoscimento della proprietà privata è stato inquadrato in modo tale da permettere interventi del
legislatore ordinario finalizzati ad indirizzarne l’uso, oltre che nell'interesse dei privati, anche
nell’interesse collettivo o per assicurarne la funzione sociale.
A tal proposito, consideriamo la Costituzione di Weimar.
Vediamo, infatti, come l’art. 153 , in maniera esplicita, stabilisce che la proprietà è fonte di obblighi
(“La proprietà obbliga. Il suo uso oltre che privato, deve essere rivolto al bene comune”).
Non troviamo la locuzione classica delle Costituzioni liberali dell’800 secondo la quale la proprietà
è un diritto inviolabile. La proprietà diventa fonte di obblighi.
Da un lato, quindi, abbiamo la garanzia dell’istituto e il riconoscimento della proprietà attraverso la
garanzia di istituto. Dall’altra, la considerazione che la proprietà è fonte di obblighi. Da una parte,
quindi, si pone la garanzia costituzionale della proprietà, dall’altra si rimettono al potere di
conformazione del legislatore ampi spazi della stessa. Questa impostazione è lo specchio delle
tensioni esistenti all’epoca fra spinte di rivoluzione sociale e resistenze conservatrici. Si è trattato
di una soluzione di compromesso necessaria al fine di far coesistere, in un unico istituto giuridico,
la garanzia del diritto costituzionale e la salvaguardia delle esigenze dei poteri autoritativi. Per un
verso, la proprietà non può essere cancellata dal legislatore con un colpo di penna perché c’è la
garanzia costituzionale dell’istituto proprietario; dall’altro, però, a livello positivo e a livello
evolutivo, si riconosce che la proprietà, inviolabile nel suo contenuto essenziale e non
cancellabile, è fonte di obblighi.
Nel periodo secondo dopoguerra, con l’elaborazione della costituzione del 1949, si abbandonerà
lo schema della proprietà come garanzia di istituto, ritenta non più sufficiente. Ad essa si sostituirà
l’imposizione al legislatore di una riserva di conformità ai diritti fondamentali. La proprietà sarà
considerata come un diritto fondamentale, disancorata dalla legislazione ordinaria al fine di
riempirne il contenuto. Il ruolo di garanzia di istituto subirà, quindi, un capovolgimento di
prospettiva. Sul concetto di proprietà conformabile all’attuazione di obiettivi costituzionalmente
rilevanti e alla garanzia di tutela di altri diritti fondamentali, è interessante considerare la
Costituzione italiana. Al primo comma, l’ art. 42 afferma che, la proprietà può essere pubblica o
privata e, pur riconoscendo una pluralità di titolari (la proprietà può essere del privato o dello
Stato) inserisce una garanzia dell’istituto. Al secondo comma, troviamo, invece, una riserva di
legge sulla base della quale, la legge disciplina i modi di acquisto della proprietà al fine di
assicurarne la funzione sociale, ovvero, al fine di renderla accessibile a tutti.
Funzione sociale della proprietà, quindi, vuol dire che, da un lato si esce dal paradigma
individualistico; dall’altro, la proprietà può essere funzionalizzata dalla legge al perseguimento di
altri principi, di altri valori, di altri obiettivi costituzionalmente rilevanti.
Quindi, la proprietà, in sostanza, può essere funzionalizzata dalla legge alla garanzia dei diritti
altrui, ovvero, di quei soggetti che entrano in conflitto con il proprietario.
( Es fatto dal prof: Se sei proprietario di un appartamento in una città e vuoi darlo in locazione, sei
assoggettato alla disciplina sugli immobili urbani. In questo caso, la proprietà privata di chi è
proprietario di quell’appartamento, s’incrocia con il diritto di abitazione che è costituzionalmente
garantito all’art. 47 Cost. comma 2. Quindi, nel momento in cui tu decidi di dare in locazione
quell’appartamento, sottostai a tutta una serie di limiti che vanno dal canone a tutta la tutela del
conduttore -i procedimenti per finita locazione e per sfratto, la prevalenza della situazione di fatto
su quella di diritto, la presenza fisica nell’immobile che è tutelata.
Questo excursus è servito a dimostrare come il passaggio della proprietà da diritto assoluto a
situazione più complessa, così come la trasformazione della struttura giuridica del diritto di
proprietà, sono avvenute sulla base dei mutamenti storici, economici e culturali, nel quadro del
passaggio dal costituzionalismo liberale a quello democratico.

Ponderazione e bilanciamento dei diritti


Nelle costituzioni del pluralismo, un problema nodale è il rapporto fra principi sottostanti alla
disciplina dei diritti costituzionali. Tale problema viene risolto attraverso le operazioni di
ponderazione e bilanciamento, cui provvedono le corti costituzionali.
Il problema di queste operazioni è che, non esistendo una gerarchia fra i valori e i principi
coinvolti, la valutazione è sempre discrezionale. I principi che entrano in collisione, sono soggetti a
reciproco bilanciamento e hanno forza, soprattutto, sul piano dell'argomentazione più che su
quello della diretta regolazione dei comportamenti dei consociati.
La macro differenza è tra l’esperienza statunitense e l’esperienza costituzionale tedesca.
Nella prima le operazioni di “gestione” della relazione tra diritti e posizioni di conflitto tra i diritti è
fatta attraverso il ricorso alla ponderazione tra principi, al bilanciamento tra principi. C’è la regola
che attribuisce determinati diritti e c’è il principio alla luce del quale i diritti possono essere
bilanciati in via interpretativa. Nell’esperienza tedesca, invece, lo spazio lasciato all’interpretazione
è minore rispetto a quello dell’esperienza statunitense. Tutto avviene secondo criteri più rigidi,
secondo regole, e non principi, di bilanciamento e ponderazione. Si parla di limiti giuridici che
devono essere proporzionati, ovvero, nel rapporto tra diritti fondamentali in conflitto si appone un
limite che deve poter essere oggetto di controllo da parte del giudice, alla luce del principio di
proporzionalità che ispira la ponderazione. Lungo questa traiettoria si sono sviluppati i due filoni
principali: da una parte Dworkin con l'elaborazione della distinzione fra principi e regole; dall'altra
Alexy con la teoria dei principi come precetti di ottimizzazione.

Dworkin
Egli parte dalla critica del positivismo di Austin ed Hart. La critica ad Austin riguarda l’impostazione
secondo la quale il diritto si poteva risolvere in un gruppo di regole selezionate e capaci di fornire
un criterio di identificazione unico, rinviando ad una istituzione che ha il controllo finale di tutti gli
altri gruppi. Questa teoria, secondo Dworkin, sarebbe superata perché la società è ora complessa
e il controllo politico è pluralistico e mutevole.
Hart corregge parzialmente questa impostazione, introducendo la distinzione fra regole primarie,
che danno diritti ed obblighi ai consociati, e regole secondarie, che disciplinano i modi di
produzione e l'efficacia delle prime. La distinzione tra regole e principi è dunque molto importante:
se l'ordinamento esprime orientamenti diversi e configgenti, la regola può risolvere il conflitto solo
ribadendo l'orientamento che essa esprime, ma se sono i principi a configgere, il conflitto è
risolvibile solo con un lavoro di ragionevole contemperamento, non potendo sacrificare in toto uno
dei principi interessati nel caso di specie. Questa distinzione tra regole e principi è stata sviluppata
nel quadro della svolta della giurisprudenza della Corte suprema americana, che aveva portato
alla dottrina del clear and present danger e a quella del balancing test.

Alexy
La proposta di Alexy prende le mosse dalla distinzione tra regole e principi, che egli considera la
base della fondazione teorica dei diritti fondamentali. La valutazione, qui, non è in chiave
antipositivistica, come in Dworkin, ma si instaura nel quadro della transizione dalla dottrina dello
stato alla dottrina della costituzione. Le norme delle costituzioni pluralistiche fanno sorgere i cd
“precetti di ottimizzazione”, cioè, un vincolo giuridico a scegliere le soluzioni più idonee allo scopo
fissato dalle norme costituzionali. Queste norme di ottimizzazione non sono suscettibili di
ponderazione ed è questo l'assunto più importante elaborato da Alexy. Esse sarebbero, quindi,
una specie di metaregole, o regole di secondo grado, che indirizzano verso la soluzione dei
contrasti fra principi. Alexy concepisce i principi come argomenti narrativi: diversamente dai
precetti di ottimizzazione, i principi non sono forniti di una struttura logica (come, invece, le norme
precettive o permissive) ed esercitano la loro funzione pervasiva nell'ordinamento solo sul terreno
dell’argomentazione finalizzata, appunto, alla ponderazione.
Lo stato di diritto: rule of law, etat de droit, Rechtsstaat
La formula “stato di diritto” racchiude esperienze e varianti differenti.
L’ idea dell'uomo al centro della società e fine ultimo del diritto fa sorgere un complesso di
strumenti di garanzia finalizzati a contenere l'arbitrio del potere sovrano. In sintesi, l’idea alla base
del concetto di stato di diritto si fonda sul fatto che la libertà individuale pone in primo piano
esigenze di sicurezza e tutela che solo il primato del diritto può assicurare. E' il dominio del diritto.

Rule of law
Versione inglese del concetto di stato di diritto che si afferma nel XVII secolo durante le rivoluzioni
del 1688-89 contro l'assolutismo del sovrano.
Si stabilisce la soggezione del sovrano al diritto fatta valere dapprima dai giudici di Common law
e, poi, durante la rivoluzione del '68, sancita dall'ottenimento del principio per cui gli atti del potere
esecutivo devono trovare fondamento nell'autorità del parlamento. Il dominio del diritto è
determinato dal parlamento ma allo stesso tempo la stessa sovranità parlamentare deve
esercitarsi nel rispetto di un minimo di giustizia materiale oltre che formale.
Il divieto di legislazione discriminatoria e un robusto impianto di garanzie giudiziarie sono i pilastri
del rule of law. Nel panorama e nelle varianti dello stato di diritto, la rule of law riflette le peculiarità
delCommon law. Tale visione è, dunque, molto attinente alle dinamiche peculiari dello spirito
giuridico inglese e, pertanto, non è facilmente comprensibile dal giurista continentale. Si può,
infatti, rimanere sorpresi dall'assenza di riferimenti allo stato o ad un soggetto depositario del
potere sovrano e le difficoltà, in vero, hanno investito anche la traduzione stessa del termine come
regola di diritto o dominio del diritto.
La rule of law, nell’ordinamento di Common law e negli ordinamenti da esso influenzati, ha
seguito percorsi differenti: la rule of law inglese si confonde, soprattutto, con la rivoluzione
gloriosa, con la supremacy Of parliament, nell'assunto che il potere sovrano si identifichi con la
potestà di legiferare, alla quale tutti i poteri debbono conformarsi. Tuttavia, la forza della rule of
law non é ricondotta solo alla supremazia di un diritto soggetto a modifiche deliberate dal potere
legislativo: deriva, anzitutto, dalla supremazia del diritto, così come amministrato dalle corti, un
diritto del quale lo statute law e case law sono parti integranti complementari.
Altra peculiarità é la dottrina del precedente: le cause debbono essere decise secondo principi
induttivamente enucleati dall'esperienza giudiziaria del passato, non dedotti da norme
arbitrariamente stabilite dalla volontà del sovrano (la ragione, non la volontà arbitraria, deve
essere la causa ultima della sentenza). Oggi il panorama appare mutato, perché, innanzi tutto, il
Parlamento non é più in posizione di assoluta supremazia ed ai giudici é consentito dichiarare
invalido lo statute law (ricorrendo opportuni presupposti) contrastante con la rule of law.

Etat de droit
La versione francese ha peculiarità e contraddizioni che riportano alle idee costituzionali della
Rivoluzione, a seguito della quale si sono affermati il primato assoluto dei diritti dell'uomo e della
divisione dei poteri, la fiducia totale nella legge e nel mito della volontà generale e la profonda
sfiducia nel ruolo del giudice. Questo spiega perché, l'idea francese dello stato di diritto non
riconoscerà la preminenza dei diritti fondamentali e della costituzione fino al 1946 e alla forte
svolta nel 1971 con il bloc de constitutionnalite. Preminenza del potere legislativo che è guardiano
della costituzione e garante dei diritti e rifiuto dell'attività interpretativa del giudice che deve solo
procedere con ragionamenti sillogistici nell'applicazione della legge.
Secondo Carrè de Malberg, lo stato di diritto si contrappone e supera lo stato di polizia, durante il
quale l'apparato amministrativo può applicare ai cittadini tutte le misure che ritiene necessarie in
un dato momento. Con lo stato di diritto, invece, l'autorità amministrativa utilizza misure che sono
specificatamente previste dal diritto ed ai cittadini è data la possibilità di opporsi ad esse e di
ricorrere in giudizio. Questa impostazione risente della dottrina tedesca e, soprattutto, di Jellinek,
ma introduce un’appendice molto importante. Al concetto dell’etat de droit, infatti, affianca l’etat
legal, stato nel quale ogni atto del potere amministrativo presuppone una legge alla quale esso si
riconnette e della quale deve essere assicurata l’esecuzione.
N.B. mentre l’etat de droit è stabilito nel solo interesse della salvaguardia dei cittadini, l’etat legal si
spinge verso una concezione politica che conduce all’organizzazione fondamentale dei poteri.
Per Carré, nella concettualizzazione dell’etat legal prevale un profilo formale che si riallaccia alla
superiorità del corpo legislativo. Di qui la dicotomia tra questo e lo stato di diritto che rinvia ad una
sorta di profilo sostanziale che attiene alla protezione dei diritti fondamentali attraverso il ruolo dei
giudici. Lo stato legale, radicato nell’organizzazione dei poteri, non implica un vincolo del
legislatore ad un principio di rispetto del diritto individuale del singolo; al contrario, lo stato di
diritto, non può che implicare logicamente che la Costituzione, con la sua supremazia, determini
e garantisca ai cittadini quei diritti individuali che devono restare collocati al di sopra degli attentati
del legislatore. Si è tracciata, in tal modo, una strada anticipatrice dello stato costituzionale, ma, il
passaggio definitivo dallo stato di diritto allo stato costituzionale si avrà solo nel 1971, con il
ricorso al bloc nella giurisprudenza del consiglio costituzionale. In una storica decisione in tema di
libertà di associazione il Consiglio definisce il principio di costituzionalità, individuando un blocco
normativo molto eterogeneo e comprendente la Dichiarazione dei diritti del 1789, il preambolo alla
Costituzione del 1946, la Costituzione del 1958 e i principi fondamentali riconosciuti dalle leggi
della Repubblica. Tutte queste parti, è stato chiarito dal Consiglio, devono essere integrate
attraverso un processo di omogeneizzazione, poiché le antinomie sono ovviamente moltissime.

Reichstaat
La versione tedesca è la più recente, la cui formulazione si può collocare nel biennio 1848- 1849.
Al contrario della tradizione inglese che ha fondato tutto sul legame fondamentale tra libertà
individuale e libertà politica, l’esperienza costituzionale tedesca è attraversata dalla difficoltà di
coniugare gli aspetti formali e gli aspetti materiali dello stato di diritto.
Come osservato da Thoma, le contraddizioni dell'ordinamento facevano risultare insufficiente la
concezione meramente formale dello stato di diritto che era stata elaborata da Stahl, alla metà
dell’Ottocento, la quale prevedeva che lo stato è limitato nella sua azione dalla sfera di libertà dei
privati, ma questo non implica una protezione dei diritti individuali o una dovuta organizzazione dei
poteri amministrativi, ma semplicemente si definiscono solo i modi per realizzare gli obiettivi dello
stato. Questa impostazione avrebbe successivamente concesso estesi poteri normativi
all'esecutivo non soggetti alla legge. All'inizio del ‘900, nel clima mutato dalle riforme del Reich
Guglielmino, che avevano previsto l'entrata dei partiti di massa nel Reichstag, Thoma si
accorgeva dell'insufficienza della concezione formale dello stato di diritto: l’idea individualisti dello
stato di diritto aveva esaurito la sua funzione storica, sopraffatta da forse creatrici degli ideali
sociali e nazionali. Quell’idea era legata al periodo di emersione del terzo stato, ma ora l'avanzare
del quarto stato imponeva aiuti statali ed eguaglianza materiale e quindi giustizia sociale. Con la
costituzione di Weimar avremo la completa integrazione dell'idea dello stato di diritto con i principi
ed i diritti costituzionali nel superamento della concezione formale del rechstaat.
Dopo l’entrata in vigore della Legge fondamentale, la consapevolezza dell’intreccio tra il rechstaat
e la costituzione politica, diverrà il filo conduttore del dibattito dottrinale. Il vincolo dei poteri
pubblici all’osservanza della Costituzione sarà ritenuto espressivo di una trasformazione profonda
della legalità, che non consiste in un aggiornamento della concezione formale, ma
nell'accoglimento di una visione della direzione dello stato mirata al perseguimento di obiettivi di
giustizia materiale. Derivano da qui una concezione più ampia della legalità ed una concezione più
penetrante della discrezionalità dei pubblici poteri.
Collocato nella cornice di orientamento delle norme cost, il principio di legalità opera come argine
alla tirannia di un egualitarismo uniformante e lo stato di diritto rinviene negli scopi statali i
presupposti costituzionali che implicano il superamento della concezione formale di esso. Il
principio del rechsstaat deve, quindi, armonizzassi con i principi di struttura richiamati dall'art 20
GG ed in particolare con quello dello stato sociale, che non è più espressione di un individualismo
senza limiti.
Questo non comporta un arretramento della legalità, ma al contrario potenzia l'elemento
fondamentale dello stato di diritto: l'imposizione di limiti giuridici all'esercizio del potere, che si
estende, anche nel mutato quadro costituzionale, ai compiti di riequilibrio svolti dallo stato (quindi
una pretesa che va oltre il formale). Inteso in senso materiale, lo stato di diritto incorpora la
protezione delle libertà personale e politica del cittadino, che comprende anche una
conformazione equilibrata e giusta delle relazioni umane ed un criterio di moderazione e di
limitazione giuridica di ogni esercizio di pubblico potere.
Questo non vuol dire che la legge non conservi un ruolo centrale, ma solo che non é più misura
fissa, bensì, uno strumento di giustizia sociale e di riequilibrio delle diseguaglianze, in piena
coerenza con il nuovo ruolo dello stato di diritto, che non ha più dinanzi a sé solo individui
autonomi che tendono alla libertà, ma i condizionamenti ed i fattori di dipendenza dell'uomo
contemporaneo, tanto nei rapporti con i poteri pubblici quanto con quelli con le organizzazioni
private.

La riserva di legge e il principio di legalità


La storia dello stato di diritto si intreccia con quella della riserva di legge. Tale istituto, ricostruito
quale strumento di garanzia dei diritti, ha contribuito, senza alcun dubbio, al rafforzamento
dell’egemonia borghese. Ha assunto una funzione di protezione delle minoranze e della
rappresentanza parlamentare in genere, riservando a queste ampi spazi di manovra. È, inoltre, un
istituto che è potuto sopravvivere fino ad oggi grazie a numerose trasformazioni ed adattamenti
che gli hanno consentito di modellarsi sui cambiamenti delle idee dello stato costituzionale
moderno. La funzione della riserva di legge cambia perché cambia la rappresentatività del
Parlamento che adotta quella legge e cambia sullo sfondo la funzione della Costituzione, quando
si pone il problema di integrare il pluralismo politico, cioè quando si passa da un contesto
omogeneo (come era quello liberale) ad un contesto plurale che caratterizza le democrazie
costituzionali del XX secolo.
In epoca liberale, la riserva di legge serve solo per individuare il soggetto (la legge e quindi il
Parlamento) competente a porre limiti a diritti fondamentali. Si tratta di riserve di legge semplici.
Non sono necessarie ulteriori specificazioni, è sufficiente che ci sia la garanzia che la limitazione
del diritto provenga formalmente dal Parlamento attraverso la legge, perché il Parlamento,
omogeneo, è rappresentativo solo della classe dominante. È, quindi, sufficiente solo un legame di
tipo formalistico tra la riserva di legge e la limitazione del diritto.
Quando il Parlamento si comincia a confrontare con una rappresentanza frammentata e con
istanze diverse, che provengono dal corpo sociale e non riconducibili tutti ad un’unica classe o ad
un unico gruppo di interessi, cambia la funzione della Costituzione e di conseguenza della riserva
di legge. La tensione tra crisi della antica supremazia della legge parlamentare e valorizzazione
delle potenzialità di sviluppo dei diritti costituzionali ben risulta dal caso delle cd riserve rinforzate.
infatti, nel momento in cui la Costituzione si fa carico di definire un quadro di riferimento condiviso
della convivenza comune attraverso principi, valori, catalogo di diritti, capaci di integrare la
comunità politica, la riserva di legge si deve confrontare con quel quadro. Iniziano quindi a
comparire le riserve rinforzate, tutti quei casi in cui la Costituzione non solo dice che cosa deve
fare la legge ma come deve farlo, ancorandola ad una serie di obiettivi che sono ritenuti funzionali
a preservare il quadro costituzionale di riferimento e la convivenza.
Attraverso le riserve rinforzate, la Costituzione assicura la priorità dei diritti della persona sulle
dinamiche della democrazia procedurale ed individua ambiti rispetto ai quali le dinamiche del
processo politico si arrestano a fronte delle esigenze di tutela della persona (la Cost individua
garanzie irrinunciabili e, quindi, intoccabili dalle maggioranze).
La discussione sulla evoluzione della riserva è, quindi, molto importante e dimostra, in primo
luogo, che essa non può più essere considerata, come negli ordinamenti liberali, uno strumento di
legalità in senso formale; inoltre, con riferimento all'ordinamento italiano, va precisato che, l'aver
punteggiato la disciplina costituzionale dei diritti di precise e specifiche riserve di legge, in gran
parte rinforzate, vale a presidiare la forza normativa della Costituzione dal rischio che una riserva
generale del legislatore riguardo la conformazione dei diritti, sconfini nella ricezione della
configurazione dei diritti stessi a complessi normativi a fonte legislativa o a principio generale, che
a questi fanno riferimento.
Un altro nodo fondamentale riguarda il contenuto del principio di legalità.
Anche questo non può essere considerato solo in senso formale, considerando che oggi, nella
valutazione della situazione del soggetto, si analizza anche il contesto in cui egli è inserito. Non si
tratta di un semplice centro di prerogative, come nel periodo liberale giuspositivistico.
La concezione, quindi, deve essere sostanziale.
Questo si riflette anche sul principio di legalità dell'azione dei pubblici poteri.
La legge per assolvere al compito di veicolare i valori costituzionali, non può più essere
considerata come astratto titolo di legittimazione, ma deve predeterminare i contenuti dei poteri
pubblici che incidono sulle sfere di libertà del singolo individuo (Principio di legalità odierno
praticamente).
Ultimo rilievo è quello sul ruolo dei giudici nella tutela dei diritti costituzionali.
Già Schmitt aveva avvertito che il passaggio da un sistema basato sulla supremazia della legge
ad uno basato sulla superiorità della costituzione avrebbe comportato un radicale mutamento dello
stato di legislazione.
La crisi della supremazia della legge discenderebbe dalla posizione di importanti limiti al
legislatore, ma anche da un depotenziamento dei vincoli del potere giudiziario ed esecutivo alla
legge. Il primato della Costituzione si tradurrebbe in una sorta di presunzione di applicabilità
diretta della Costituzione stessa..
Per quanto riguarda il ruolo del giudice, la questione è complicata perché ha una posizione di
privilegio, ma anche ambigua, stretto tra il vincolo di soggezione alla legge e l'interpretazione della
Costituzione, portatore e garante del pluralismo.
Bisogna dire che, mentre nel sistema statunitense la preesistenza alla legge dei diritti di libertà si é
impostata essenzialmente sul terreno processuale (attraverso il progressivo affinamento dei
canoni della arbitrarietà e della irragionevolezza), nei contesti europei continentali il rendimento di
tecniche di neutralizzazione e di canoni argomentativi sembra condizionato dalla capacità della
legge di veicolare i valori costituzionali nell’ordinamento, attraverso una concezione sostanziale
della legalità.
Un'ulteriore variabile é costituita dai modelli di controllo di costituzionalità delle leggi.
Il judicial review, che si basa sulla diffusione di tecniche di neutralizzazione nel sistema giudiziario,
il controllo di costituzionalità, preordinato a contenere la portata tendenzialmente eversiva del
principio di soggezione del giudice alla legge, racchiusa nel principio di supremazia della Cost, ed
infine il sistema del ricorso diretto di costituzionalità, esprimono opzioni differenti, configurando
mediazioni di differente spessore rispetto al ruolo del giudice di protezione dei diritti costituzionali.
Quindi, risulta chiaro che, nonostante lo sforzo di collocare il principio di legalità nello stato
costituzionale e di piegarlo a strumento di una concezione sostanziale della legalità costituzionale,
la fisionomia che ha assunto negli ordinamenti dell'Europa continentale è stata sensibilmente
condizionata dalle modalità con cui l’affermazione della supremazia della legge é inserita in un
disegno di forte unificazione politica e, in particolare, si è intrecciata con il dogma della sovranità
dello stato.

I diritti costituzionali fra libertà uguaglianza


Dopo la fine della seconda guerra mondiale, le costituzioni che si sono ispirate ai principi di
democrazia pluralistica (Francia 1946, Italia 1947, GG 1949) hanno attinto a piene mani dalle
esperienze del costituzionalismo europeo del primo dopoguerra, anche per ampliare l'ambito dei
diritti fondamentali. Sulla base di quegli schemi si è proceduto ad elaborare costituzioni al cui
interno vi fossero anche il rifiuto dei totalitarismi, la cultura dell'antifascismo e l'idea dell'uomo
titolare di un nucleo un diritti inviolabili.

Effettività
Tratto comune alle Costituzioni del secondo dopoguerra è l’attenzione al profilo dell’effettività dei
diritti. Il sistema ha come chiave di volta il soggetto e, da qui, il rilievo al contesto socio-
economico ed alle legature sociali che condizionano lo sviluppo della persona. Un aspetto, questo,
che fa dell’impegno a rimuovere le disuguaglianze di fatto e ad arginare la formazione di poteri
privati un tratto caratterizzante della forma di stato di democrazia pluralistica.
Non bastano le libertà sociali ( la libertà di coscienza, la libertà di riunione, il diritto di voto) per
garantire la piena uguaglianza e la piena emancipazione del soggetto, per garantire che il
soggetto venga messo nelle condizioni effettive di poter realizzare se stesso, la propria vita, le
proprie aspirazioni. È necessario che lo stato si faccia carico, attraverso degli obblighi di
protezione, di assicurare una certa dignità delle condizioni di vita del soggetto, in chiave di
promozione dell’eguaglianza materiale.
Come viene assicurato questo obiettivo? Le Costituzioni hanno fatto fronte, generalmente, con la
previsione di obblighi positivi in capo ai pubblici poteri, con modalità e secondo approcci differenti:
la Costituzione italiana contempla un vero e proprio catalogo dei diritti sociali, di quei diritti, cioè, il
cui oggetto è una prestazione da parte dello Stato, che prende le mosse dalla qualificazione di
vere e proprie situazioni soggettive.
Diversamente, nella costituzione tedesca, non c’è un catalogo di diritti sociali, ma dottrina e
giurisprudenza hanno costruito, in via interpretativa, sulla clausola dello stato sociale prevista
dall’art 20, i diritti di prestazione, corrispondenti all’individuazione dei compiti pubblici, che hanno
lo stesso contenuto dei diritti sociali. L’impegno dei pubblici poteri alla rimozione degli squilibri e
delle disuguaglianze di fatto costituisce il risvolto istituzionale del principio di effettività dei diritti.
Tra le implicazioni più rilevanti che discendono dall’aver inquadrato la garanzia dei diritti
nell’ambito di un processo pubblico di integrazione vanno menzionate quelle che toccano il profilo
del rapporto tra libertà ed uguaglianza. Le democrazie pluralistiche hanno operato lo spostamento
della prospettiva del catalogo dei diritti dal terreno della difesa da ingerenze esterne a quello della
diffusione delle chances di realizzazione di identità molteplici e della possibilità.
In questa dilatazione dell’area delle libertà costituzionali verso la diffusione e l’effettività dei diritti
è racchiuso un potente fattore di trasformazione e mobilità sociale, che favorisce lo scaricamento
di abitudini correnti e ruoli sociali stratificati. Tale aspetto può essere ricondotto anch’esso ad una
lettura integrata del principio pluralista e del principio di uguaglianza, intesi come pilastri di una
società aperta, che rende possibile la realizzazione di identità molteplici.

Efficacia orizzontale dei diritti fondamentali


Efficacia dei diritti costituzionali nei rapporti tra privati.
In Italia tale efficacia deriverebbe direttamente dalla lettura combinata degli artt. 2 e 3 della
Costituzione: il godimento dei diritti, assicurato anche nei confronti di intromissioni o lesioni
provenienti da soggetti privati. Questo è un altro dei profili che segnano la discontinuità con
l'esperienza liberale. Esperienza nella quale esisteva la separazione fra diritto costituzionale,
riferito al cittadino e al potere statale, e il diritto civile chiamato, invece, a regolare i rapporti tra le
sole parti private. Questo non manifesta solo il superamento di una certa indifferenza delle
vecchie costituzioni rispetto alla società civile, ma dimostra anche l'attenzione delle nuove carte
verso la protezione dei soggetti più deboli e il riequilibrio dei rapporti interni (tipo redistribuzione
ricchezza e condizioni tra i cittadini). Protezione del privato da posizioni egemoni di altri privati, ad
esempio nel caso del lavoratore e datore di lavoro. Solo in alcuni casi comunque tale efficacia ha
un'operatività diretta, come ad esempio in tema di rapporti di lavoro o diritto alla salute, e il
cittadino può azionare direttamente pretese soggettive nei confronti di altro soggetto privato. Nella
maggior parte dei casi, invece, l'operatività è indiretta nel senso di vincolare il legislatore ad
attuare un certo principio in un certo ambito legislativo, di costruire un canone interpretativo per il
diritto civile e privato in generale o infine nel senso ancora di far discendere obblighi per lo stato di
protezione di beni privati costituzionalmente protetti.

Rapporto tra libertà e sicurezza e nuove teorie del contratto sociale


l tema del rapporto tra libertà e sicurezza ha avuto rilievo centrale nelle elaborazioni delle teorie
del contratto sociale. Queste, che fecero da base all'affermazione del processo di accentramento
della sovranità, risolvono il problema della sicurezza sociale su base contrattualistica, muovendo
dalla premessa della condizione naturale della libertà in cui l'individuo si trova e dall'assunto che la
libertà non sia inserita in un ordine della collettività al quale è funzionalizzata, ma costituisce, al
contrario, il fondamento e la e la giustificazione della disciplina entro della vita collettiva.
HOBBES - Il tema della protezione della vita dalle aggressioni costituisce il filo conduttore del suo
pensiero. Lo scopo della società politica e del contratto va ben al di là di una mera difesa della
sopravvivenza, radicandosi nelle aspirazioni essenziali di libertà dell'individuo. Il bisogno
individuale di sicurezza nasce da uno stato di natura in cui tutti sono egualmente liberi e non vi è
limite alcuno. La paura porta alla fondazione dello stato di diritto e delle relative regole.
Il contratto sociale assurge a fondamento della completa soggezione ad un sovrano ed a
giustificazione del monopolio del potere di coercizione che questi può esercitare.
Assegna al sovrano il compito di vegliare sul vivere bene e sui beni degli individui.
La volontà del sovrano é la sola legge che dispensa il diritto e la giustizia. La sicurezza prevale
sulla libertà.
LOCKE - La base è differente perché postula che, nello stato di natura, vi sia una legge naturale
che vincola tutti allo stesso modo e che, allo stesso tempo, impedisce lo stato di sopraffazione di
cui parla Hobbes. L'originario diritto di Hobbes si converte in uno spazio di libertà regolato dal
contratto sociale. Una premessa che costituisce il punto di appoggio fondamentale della
elaborazione di una teoria dei limiti del potere politico, non solo perché il sovrano di Locke è legato
dal contratto alla protezione dei beni essenziali degli individui, ma anche perché, il contrattualismo
di Locke approda ad un sostanziale riposizionamento dello stato che, con l'insieme dei suoi poteri,
è garante di pace e sicurezza e, allo stesso tempo, è un potenziale pericolo della libertà degli
individui, contro il quale il contratto sociale deve apprestare congegni di limitazione.
ROUSSEAU - Ravvisa nel contratto originario tra cittadini liberi e uguali l'unico rimedio contro la
violenza e la sopraffazione generata dalla conflittualità crescente dei processi di civilizzazione
dell’universo borghese. Con il contratto sociale, i cittadini rinunciano all’originario “diritto a tutto”
dello stato di natura, facendo confluire le loro libertà nella volontà generale. Per questa via, però, i
congegni di protezione della sicurezza vengono sottratti al rischio di neutralizzazione in un luogo
esterno alla collettività dei consociati e la democrazia assoluta alla volontà generale dissolve
l’antagonismo tra libertà e sicurezza, che rifluiscono insieme nell’atto di istituzione del popolo
come soggetto titolare della sovranità (che tutelerà la libertà, l’uguaglianza, il benessere dei
consociati)
KANT - Respinge sia la concezione per cui lo stato di natura si risolve nel principio del tutti contro
tutti, sia quella per cui esso consiste in una condizione di armonia prestabilita e pone al centro
della sua riflessione la questione della condizione di insicurezza derivante dalla indeterminatezza
delle sfere di azione degli individui. Per uscire da questa condizione naturale di insicurezza
teorizza la via dello stato civile, una condizione governata dal diritto degli uomini di costruirsi sotto
l’impero di leggi pubbliche coattive, per le quali possa essere ad ognuno riconosciuto il suo e
garantito contro ogni attentato da parte di altri. Kant teorizza la priorità della libertà sulla sicurezza,
sostenendo che la libertà reciproca costituisce l’unico diritto originario spettante a ciascuno.
Il prezzo di questa conclusione, però, è la neutralizzazione dei congegni di protezione della
sicurezza dei consociati e quello della sottomissione al diritto come potenza esterna.
Il pensiero kantiano ha tracciato una direttrice fondamentale, ovvero, il fatto che il liberalismo
giuridico avrebbe assunto come proprio ragione quello della priorità dell'uomo sullo stato, della
autonomia, della eteronomia e, quindi, della libertà sulla sicurezza (pensiero che influenzerà gli
ordinamenti liberali).

Il diritto alla sicurezza


Le esperienze liberali avrebbero segnato un nuovo rapporto tra libertà e sicurezza, consegnando
questa alla neutralità delle tecniche di garanzia e di limitazione dei diritti di libertà. E, tuttavia, il
discorso sembra farsi più complesso se si considera che la neutralizzazione poggiava sulla
omogeneità della base sociale e che la struttura monoclasse davvero contribuiva a collocare la
sicurezza in una forte relazione dialettica con il principio libertà, riassumendo essa la necessità di
misurarsi con l'altro ed il diverso, segnando i confini dell'universo borghese.
Se il tema della sicurezza ha assunto nello stato contemporaneo una fisionomia in parte nuova,
testimoniata dal risalto che ad esso è dato nelle carte internazionali e nell'ordinamento europeo,
ciò non dipende solo dal fatto che le risposte all'emergenza del terrorismo hanno trasformato
l'approccio profilando un nuovo paradigma del rapporto tra libertà e sicurezza.
Da alcuni decenni si avverte, anche per effetto dell'invasiva delle nuove tecnologie, una
dilatazione del bisogno di sicurezza, perché esso investe settori svariati, come quello della
medicina, dell’economia, dell’ambiente, della protezione della sfera privata. E, se il bisogno di
sicurezza chiede sempre più frequentemente risposte che superano i confini della sovranità
statale, non sembra in dubbio che esso si sia sviluppato parallelamente alla dilatazione degli
interessi che trovano riconoscimento nelle Costituzioni e nella crescita dei compiti pubblici di
prestazione. La sicurezza si pone sempre di più di fronte ad alternative di decisione ed alla
necessità di operare scelte che debbono trovare direttrici di orientamento nel quadro
costituzionale.
Il silenzio delle Costituzioni sul diritto alla sicurezza non sorprende, in definitiva, poiché, mentre il
principio di libertà ha progressivamente visto crescere i suoi spazi nelle Costituzioni, la sicurezza
resta solo sullo sfondo, quesi presupposto non esplicitato della obbligazione politica.
Peraltro, libertà e sicurezza esprimono istanze radicalmente differenti: se una è assenza di rischio,
l’altra causa e fa crescere situazioni di rischio; se la protezione della libertà favorisce lo
spostamento sugli individui delle decisioni, quella della sicurezza tende, invece, a spostare il fulcro
della decisione sulla dimensione collettiva. La libertà ha, infatti, una intrinseca attitudine ad
accrescere la complessità delle situazioni ambientali: se il principio di libertà é il motore della
competizione, del progresso tecnico, dell'innovazione sociale, esso sviluppa contestualmente
situazioni di rischio e riduce il tasso di sicurezza. La protezione della libertà implica che
l'ordinamento giuridico lasci il più possibile aperta ai singoli la scelta tra le alternative possibili,
anche rischiose. Quindi, vi é questo difficile equilibrio che si deve ricercare tra una situazione in
cui l'individuo é libero nelle scelte, che possono essere anche rischiose (e quindi è lui stesso
causa di insicurezza), senza fare in modo che il governo elimini le situazioni e le scelte che sa
essere rischiose, soffocando così però la libertà. Dell'estensione del concetto di sicurezza vanno
sottolineati alcuni aspetti salienti: la sicurezza si profila con una connotazione intrinsecamente
dinamica, cosa che impedisce di considerarla solo come repressiva dei corrispondenti compiti
pubblici di protezione. Prima, si considerava la sicurezza solo come garanzia dei beni giuridici
essenziali, nei confronti dei danni arrecati dai terzi. Questo iniziale profilo storico della sicurezza é
stato associato poi ad un profilo dinamico, che implica non solo una protezione dei beni esistenti,
fondata sulla relazione nei confronti dell'aggressione portata ad essi, ma, la garanzia della
continuità nel tempo del godimento di diritti e di aspettative future, attraverso la prevenzione dei
bisogni dell'esistenza. Questa dilatazione ha comportato una più ampia configurazione dei
corrispondenti compiti pubblici, che risp comprendono l'allocazione-distribuzione di risorse,
predisposizione di infrastrutture informative, creazione di centri di decisione collegati a
meccanismi di responsabilità (dimensione organizzativa-procedurale).
Tutto ciò, sempre sapendo che la nuova dilatazione della sicurezza non può avere come danno
collaterale una repressione della libertà. Sembrano qui giocare un ruolo fondamentale i canoni di
proporzionalità (solo le misure necessarie) e la temporaneità delle misure straordinarie.
Bisogna sempre ricordare che libertà e sicurezza non si pongono in un rapporto di antagonismo,
ma di compenetrazione. Seguendo la filosofia neocontrattualista, si può dire che la soluzione del
rapporto viene costruita sul presupposto che l'uguaglianza fra contraenti può condurre a
giustificare limitazioni della libertà solo per ampliare gli spazi di questa. Pertanto, la sicurezza,
secondo lo schema di Rawls, può essere solo correlata con il diritto di ciascuno ad un sistema
comprensivo di eguali libertà, compatibile con quello di cui beneficiano gli altri, in condizione di
parità. La sicurezza si connette con l’uguaglianza. Secondo l'approccio comunitarista il fatto che le
motivazioni dell'uomo non sono egoistiche, iperchè impiantate nella natura sociale dell'uomo e dei
suoi legami comunitari, implica una naturale attenzione all'interesse e alla libertà degli altri.
La sicurezza si connette con un quadro di responsabilità che é immanente alla libertà. Nella teoria
dei sistemi sociali, infine, muovendo dal presupposto che la dimensione individualistica rivela la
sua insufficienza non nello stato di natura ma nello stato della società, si disancora la sicurezza
dalla libertà, rischiando di piegarla alla ragion di stato. Il tentativo di costruire un diritto alla
sicurezza appare complessivamente fuorviante. Il diritto alla sicurezza é molto più che il risvolto
positivo di un obbligo di protezione dei diritti fondamentali da parte dello stato. Sembra difficile
costruire un diritto alla sicurezza sulla soggettivizzazione dei principi costituzionali.
L’applicazione ad esso dello schema dei diritti pubblici soggettivi, costringendo la tutela della
sicurezza all'interno della alternativa "tutto o niente" si contrappone a quella componente di
relatività che é essenziale affinché la sicurezza possa porsi in relazione dialettica con il principio di
libertà. Infine, resta problematica la questione dei destinatari di un diritto generale alla sicurezza.
Se fosse fatto coincidere con un generale obbligo di "non disturbo" da far gravare su tutti, ne
conseguirebbero effetti paralizzanti sotto il profilo della libertà; ma, se ad un diritto generale alla
sicurezza fosse fatto corrispondere un obbligo di protezione altrettanto comprensivo, interamente
gravante sui poteri pubblici, da ciò deriverebbero conseguenze ancora più problematiche: sarebbe
paradossale configurare sempre più ampie chances di libertà per i privati, e quindi postulare
ulteriori situazioni di rischio, con il mero controllo del rischio, in favore dei poteri pubblici.
Sembra, quindi, che la crescita delle domande di prevenzione nella società di rischio non comporti
come unico sbocco la deriva dello stato di prevenzione nel monopolio assorbente dello stato. I
sistemi recenti si sono diretti verso la realizzazione di una griglia teorica per la comprensione degli
strumenti e dei procedimenti di conoscenza e di gestione delle situazioni di rischio, da cui dipende
la realizzazione del bisogno di sicurezza, che vedono i privati e i poteri pubblici collocati sempre
più in relazione di cooperazione.
Nella gestione delle situazioni di rischio, infatti, i privati sono allo stesso tempo destinatari e
portatori di responsabilità, un intreccio che apre loro la via all'ingresso nella vita politica attiva, che
li vede partecipare alla gestione delle situazioni di rischio. Questo scenario comporta un sistema di
graduazione di responsabilità nella soddisfazione dei bisogni di sicurezza (multidimensionalita).

Diritti fondamentali e status activus processualis


Il rapporto fra libertà e sicurezza, così come delineato, dimostra che, per assicurare il godimento
effettivo dei diritti costituzionali, lo stato deve farsi carico di oneri ingenti, predisponendo specifici
apparati pubblici. Tale problema si pone soprattutto quando l'esercizio dei diritti è condizionato
dall'attivazione di procedimenti a cui i privati sono chiamati a partecipare.
La realizzazione di questo obbiettivo ha fatto emergere un profilo organizzativo dei diritti che
sembra trascendere l'ambito dei diritti di prestazione.
É stato spesso rilevato che la pienezza dei tradizionali diritti di libertà é condizionata dall'efficienza
di fattori organizzativi: l’effettività dei diritti alla libertà personale o quello di azione in giudizio, ad
esempio, é condizionata dal funzionamento dell’amministrazione della giustizia e del sistema
processuale. La creazione di strutture organizzative, quindi, é il presupposto per la
concretizzazione di sfere di libertà proprio perché l'esercizio dei diritti è condizionato
dall'attivazione di procedimenti a cui i privati sono chiamati a partecipare. Si pensi ,ad esempio,
alla libertà sindacale, alla trasparenza nel procedimento amministrativo.
Alla luce di questo sviluppo del profilo di organizzazione dei diritti, é stato prospettato il dubbio
che la classica dicotomia tra libertà negativa e libertà positiva possa essere riprodotta rispetto ai
diritti e che i diritti includano un profilo positivo che può attivare compiti ed erogazioni da parte dei
soggetti pubblici.
Questo profilo quasi inedito della garanzia dei diritti, assicurata per tramite del procedimento, apre
nuove strade in tema di parità delle possibilità nell'esercizio delle libertà costituzionali e si
configurerebbe come contrappeso all'espansione del poteri pubblici.
Quindi, si teorizza questa dimensione organizzativo procedurale, che viene fatta ricondurre allo
stato activus di Jellinek, che prevede comunque un obbligo positivo dello stato, come per i diritti di
prestazione, anche se non proprio la disposizione di un diritto nuovo, ma l'effettivo godimento di
un diritto già esistente, con l'erogazione delle misure per il suo godimento e che consentano la
partecipazione dell'individuo alla vita politica

VI. Interpretazione e multidimensionalità dei diritti costituzionali


Quando parliamo di multidimensionalità, non parliamo di fasi o di sostituzione di una dimensione
dei diritti fondamentali ad un’altra, ma parliamo di una di una stratificazione. “Multidimensionalità
dei diritti” è un modo di interpretare, di leggere, di costruire i diritti fondamentali nello sviluppo
storico del costituzionalismo, avuto riguardo alle diverse declinazioni che la funzione dei diritti
fondamentali assume nelle diverse fasi storiche del costituzionalismo.
Tendenzialmente, c’è la corrispondenza di una dimensione dei diritti ad una fase storica dello
sviluppo del costituzionalismo.
Esempio: nella fase liberale dello sviluppo storico del costituzionalismo (XIX secolo), la
dimensione prevalente dei diritti fondamentali o delle libertà individuali dell’epoca era la
dimensione individuale. Dimensione individuale dei diritti e delle libertà fondamentali significa che
le relative libertà fondamentali sono delle posizioni soggettive che la Costituzione riconosce a
singolo in quanto tale. Perché accade questo? Perché il costituzionalismo liberale si ispira ad una
tipologia di rapporto tra l’individuo e lo Stato e ha un’immagine del soggetto che, in qualche
misura, è funzionale rispetto ad una costruzione di questo tipo dei diritti. Perché? Perché il
rapporto tra individuo e Stato è declinato in termini di separazione, di opposizione;
I diritti individuali sono dei dispositivi di difesa del singolo rispetto allo Stato, corrispondono ad
un’idea di libertà negativa, quindi, il loro contenuto giuridico è la pretesa di astensione da parte
dello Stato dalle ingerenze nella sfera soggettiva del singolo. Ecco, allora, che la dimensione
prevalente dei diritti è quella individuale, cioè delle posizioni individuali, delle posizioni di difesa
dell’individuo rispetto al potere, delle posizioni di garanzia della libertà negativa rispetto alle
ingerenze del potere pubblico nella sfera giuridica del singolo.
Nel passaggio dal costituzionalismo liberale al costituzionalismo democratico, storicamente cosa
avviene? L’allargamento della base sociale dello Stato, l’ingresso delle masse nella scena
politica, la frammentazione della rappresentanza politica, la complessificazione del quadro
pluralistico, la moltiplicazione dei compiti dello Stato rispetto al singolo, cioè, alla tradizionale idea
liberale, secondo cui il contenuto minimo dei diritti fondamentali era la garanzia di una sfera di
libertà negativa dell’individuo, si affianca l’idea che l’effettività, l’effettiva garanzia dei diritti
fondamentali dell’individuo comporti la necessità dell’assunzione di compiti positivi da parte dello
Stato. Dunque, accanto ad una dimensione individuale si affianca una dimensione istituzionale o
sociale dei diritti. A questa, a sua volta, si affianca una dimensione collettiva, solidaristica. Il diritto
fondamentale non è più vissuto come una monade, come un qualcosa che spetta al singolo in
quanto prerogativa, indipendentemente dal tipo di relazione nella quale l’individuo sia immerso,
ma si capisce che ad ogni diritto fondamentale possono corrispondere delle posizioni di
soggezione di altri, ma, soprattutto degli obblighi di solidarietà verso altri. Si pensi,
paradigmaticamente, all’evoluzione della concezione della proprietà che da diritto individuale
assoluto diventa un obbligo di solidarietà rispetto ad altri, sviluppa una funzione sociale.
Quindi, dimensione individuale, dimensione istituzionale, dimensione sociale, dimensione
solidaristica, garanzia di istituto ( una tecnica specifica di protezione dei diritti fondamentali, che
consiste nel riconoscimento costituzionale dell’istituto attraverso cui quel diritto fondamentale si
esplica – caso tipico è la proprietà) fino ad arrivare, nell’attualità, alla dimensione procedimentale,
allo status activus processualis di cui parla Hegel: dal tronco dei diritti sociali o dei diritti di
prestazione, si sviluppa la consapevolezza che il procedimento che porta all’erogazione della
prestazione pubblica funzionale alla protezione del diritto richieda, imponga la partecipazione del
singolo a quel procedimento.
Qui, dietro a questo sviluppo della multidimensionalità dei diritti fondamentali, si nasconde un
profondo cambiamento nelle concezioni del rapporto tra lo Stato e l’individuo, per esempio.
Cioè, da un rapporto di separazione- opposizione, tipico del costituzionalismo liberale si passa ad
un rapporto di cooperazione e di co-dipendenza, addirittura, tra lo Stato e l’individuo.
Il tema delle dimensioni dei diritti fondamentali affianca quello delle generazioni: è una prospettiva
che si è consolidata, soprattutto, nel contesto tedesco e, a partire dalla fine degli anni 70, ha
trovato spazio anche in Italia. Esso si riferisce prevalentemente al contesto delle costituzioni del
pluralismo, ma ha radici anche in epoche precedenti.
Che cosa sono queste dimensioni dei diritti fondamentali? Si distinguono 2 dimensioni principali, e
la seconda di questa può, a sua volta, suddividersi in una serie di sottogruppi:
- la prima è la dimensione individuale e soggettiva dei diritti. Fa riferimento alla titolarità dei diritti
fondamentali in capo ai singoli, ed evidenzia soprattutto l'aspetto di difesa che il diritto offre
rispetto ad interferenze da parte dello Stato. (Questa è la dimensione più intuitiva del diritto: una
specie di barriera che si frappone per proteggere la sfera di libertà del singolo rispetto ad
interferenze esterne - soprattutto quelle dei poteri pubblici).
- la seconda dimensione (forse meno intuitiva, ma nel contesto delle costituzioni pluralistiche
sempre più importante) è la dimenzione istituzionale-ordinamentale. Qui cambia la prospettiva:
mentre nella dimensione individuale la prospettiva di partenza è quella del singolo che si difende
da interferenze istituzionale esterne, qui, nella dimensione istituzionale-ordinamentale (o anche
oggettiva) la prospettiva è quella oggettiva dell'ordinamento complessivo).
Questo, sia per quanto riguarda l'insieme generale dei diritti che compongono il catalogo
costituzionale, sia per quanto riguarda i singoli diritti. Sinteticamente, questa seconda dimensione
istituzionale-ordinamentale fa riferimento sia alla funzione fondativa dei diritti per tutto
l'ordinamento (quindi, una funzione di legittimazione che i diritti offrono all'ordinamento
complessivo) sia anche ad una funzione di promozione della tutela e di sviluppo nel tempo; una
proiezione verso il futuro.
[Mentre, ripetiamo, la dimensione soggettiva evidenzia, piuttosto, la barriera che il diritto frappone
all'intervento esterno).In realtà, questa 2 dimensione ricomprende, a sua volta, diverse
sottocategorie, evidenziate dalla dottrina negli ultimi decenni. Tutto questo è un preambolo per
illustrare il significato più generale delle due dimensioni

Libertà negativa e libertà positiva


La sistemazione secondo gli status non è oggi più attuale. Nelle democrazie pluralistiche, infatti, ci
sono più dimensioni dei diritti. La componente difensiva dei diritti che, come abbiamo visto prima,
implica che esiste un nucleo di diritti e libertà protetti da interferenze esterne, resta un aspetto
primario, ancora oggi, nonostante la sua derivazione liberale Ottocentesca.
Tale derivazione ha comportato il dover adattare il concetto all'assetto delle costituzioni
pluralistiche. Il fatto, però, di prevedere uno spazio di libertà, libero dalle ingerenze pubbliche, è un
carattere che interessa la maggior parte delle moderne norme costituzionali sui diritti, spazi in cui il
singolo é libero di autodeterminarsi e autorealizzarsi. E' una sfera esterna allo stato che, nel corso
degli anni, ha superato i confini dello stato liberale. Si fonda sul concetto della capacità di
autoregolazione dell'individuo della filosofia pratica di Kant.
La libertà di stampo liberale aveva due concezioni insite: da una parte l’assenza di impedimento,
dall’altra l’autodeterminazione e l’autonomia del soggetto.

Dimensione istituzionale e le garanzie di istituto


La dimensione istituzionale, detta anche ordinamentale, è una dimensione, individuata dalla
dottrina, che configura i diritti non solo come situazioni individuali che fondano pretese verso lo
stato, ma anche come elementi costitutivi dell'intero ordinamento costituzionale.
La premessa dei fautori di questa linea è che la libertà individuale può risultare astratta se non la
si considera all'interno del sistema o dell’ordinamento istituzionale in cui è inserita. Complessi
normativi danno una direzione e sicurezza alle libertà costituzionali.
Tale concezione istituzionale ha trovato applicazione con riferimento alle cd garanzie di istituto,
con lo scopo di ricostruire la natura di norme costituzionali come queste che, pur non formulate
secondo lo schema classico delle situazioni soggettive individuali, fissano principi ed orientamenti
per disciplinare determinati ambiti della vita e dei rapporti sociali, come la famiglia, la proprietà le
religioni ecc. Tali garanzie di istituto riflettono la tendenza delle costituzioni contemporanee ad
invadere campi mai battuti prima.
Questa categoria ha origine nella letteratura giuridica weimerina e venne elaborata con il preciso
scopo di arginare i pericoli di eversione che potevano determinarsi dal conflitto politico.
Si arrivò, così, ad intrecciare differenti diritti individuali ed interessi metaindividuali. Molto
importante qui è la riflessione di Carl Schmitt: nodale per lui è il fatto che tali garanzie assicurino
una speciale protezione a certi ambiti, con il preciso scopo di impedire al legislatore la rimozione
di istituti che diventano, così, qualcosa di circoscritto e delimitato rispetto ai diritti di libertà veri e
propri. I diritti di libertà, per Schmitt, avevano un forte valore di assolutezza perché elementi di
antagonismo verso il potere statale. Diversamente dalle garanzie di istituto, essi esistono non per
delle leggi che li prevedono, ma come margine infinito della libertà individuale.
Per Schmitt, quindi, tali garanzie sono ambivalenti: da un lato rappresentano una svolta perché da
quel momento in poi non ci sono più ambiti della società civile irrilevanti; dall’altro lato, a differenza
dei diritti veri e propri, sarebbero sostanzialmente residuali, destinate a riacquistare forza solo
nelle situazioni di rischio o pericolo e, cioè, quando il legislatore attacca gli istituti giuridici, le
organizzazioni sociali o sfere di autonomia privata radicate fortemente nella società.
La concezione schmittiana non prevede che ci sia conciliabilità fra la aspetto individuale ed
istituzionale. Ma il dibattito che, invece, si è sviluppato, ad esempio, in Germania a partire dagli
anni ’70, ha delineato un quadro in cui le garanzie di istituto non avrebbero solo una derivazione
dimensionale istituzionale e costituirebbero, quindi, una forma specifica di garanzia costituzionale
che, pur difendendo da possibili attacchi del legislatore, deve comunque trovare una
giustificazione costituzionale nella protezione di una sfera soggettiva. Il dibattito su tale garanzia,
ormai risalente nel tempo, ci permette di definire l'aspetto istituzionale dei diritti come una formula
riassuntiva per esprimere la funzione sistemica dei diritti costituzionali e l'ampliamento del raggio
d'azione di questi, superando lo schema tradizionale del rapporto tra individuo e poteri pubblici.
La dimensione istituzionale ha contribuito a definire ed isolare un corpo di diritti fondamentali, non
tangibile da nessuno, rientrando, quindi, in questo schema anche l'efficacia orizzontale e la libertà
negativa di cui prima.

I diritti come espressione un sistema di valori (Teoria dell’integrazione di R. Smend) Alla


concezione istituzionale dei diritti spesso si affianca una dimensione dei diritti come espressione di
sistemi di valori. Questo approccio interpretativo prende le mosse dalla teoria dell'integrazione di
Rudolf Smend. Questa prevede che vi sia una dimensione dei diritti, appunto, intesa come
espressione di valori, dove lo stato si configura come un permanente processo di integrazione che
dà vita ad una comunità di valori e i diritti fondamentali non sono altro che fattori di questo
processo e strumenti stessi dell'edificazione dello stato.
La sfera di libertà riconosciuta dallo stato non preesiste a questo ma è incastonata nello stato
stesso e rappresenta un ordinamento di valori. Anche qui abbiamo, dunque, diritti che sono
elementi dell'ordinamento complessivo e, rispetto alla concezione istituzionale, sono
maggiormente dinamici, in quanto si attualizzano di continuo ai mutevoli valori presenti nella
comunità (la cost. italiana cambia orientamenti a seconda del periodo storico).

La dimensione democratico- partecipativa


Anche qualora si parta da una dimensione democratico-partecipativa, si perviene al carattere
ordinamentale dei diritti fondamentali. Questo filone analizza il fatto che certi diritti hanno visto
accresciuta la loro funzione politica e pubblica. Libertà di manifestazione del pensiero, di riunione,
le garanzie sindacali, sono strumenti di partecipazione politica. Anche qui abbiamo tratti comuni
con la teoria dell’integrazione: al centro vi è infatti il cittadino partecipe e non un individuo chiuso
nel bozzolo di una sua sfera prestatuale, visione a-politica della libertà borghese.

Dimensione sociale
Negli ordinamenti di democrazia pluralistica, la sfera pubblica non coincide più con quella statuale
e questo perché il processo politico si svolge, almeno in parte, all'interno della società. Un
processo politico che si svolge liberamente è condizione di una democrazia che favorisce la
partecipazione ad esso del maggior numero possibile di voci, in modo che così emerga tra tutte
non una verità superiore e assoluta sopra l'interesse dei gruppi, bensì un compromesso. Un
ordine di problemi si pone, però, sotto alcuni aspetti. Ad esempio, il ruolo che la nostra
costituzione riserva ai partiti rispetto alle altre espressioni dell'associazionismo comporta che essi
ricoprano una posizione egemone e olistica all'interno del processo politico. Si tratterebbe di una
dimensione eccessivamente funzionale, i diritti sarebbero plasmati sulla funzione superiore
Interessata (in questo caso l'organizzazione politica) e potrebbero determinarsi effetti di
cementificazione della partecipazione politica.
Di contro l'aver ancorato la posizione dei partiti a quella delle associazioni ha permesso di avere
competizione fra soggetti diversi del pluralismo e facilità di ricambio nel sistema politico.
In conclusione il prof. ci dice che è sbagliato assolutizzare, anche solo una delle dimensioni
descritte, ma bisogna invece di volta in volta considerarle nell'insieme anche se questo comporta
fare delle sintesi tra dimensioni.

VII. La dignità dell’uomo e il principio libertà nella cultura costituzionale europea


La dignità dell’uomo è un presupposto antropologico o l’oggetto di una pretesa? Da dove proviene
all’uomo tale dignità? Ed ancora , In quale misura l’idea della dignità dell’uomo è inseparabile dal
riconoscimento dei diritti? La difficoltà di orientarsi tra questi interrogativi derivano dal fatto che lo
spettro di significati della dignità dell’uomo si è progressivamente dilatato nella storia.
Nel MONDO ROMANO la dignitas esprime un concetto essenzialmente politico, ciò che Cicerone
fece risalire all’esempio della democrazia ateniese: un marchio essenzialmente profano derivante
per lo più dall’appartenenza ad elites politiche, piuttosto che un carattere inerente alla natura
dell’uomo.Una dignitas quella romana, la quale appare anzitutto come il risultato di prestazioni del
soggetto nella sfera politica e che pertanto deve essere continuamente messa a alla prova e
meritata ;
Richiede poi larghezza di vedute giacchè solo chi si proietta verso grandi cose può ritenersi degno
di esse, ed infine è riposta solo laddove l’uomo è illuminato dalla conoscenza di se e degli altri.
La dignitas nel mondo romano ha dunque un significato essenzialmente pubblico.
Nella TRADIZIONE CRISTIANA delle origini, la dignitas smarrisce il riferimento alla dimensione
esteriore e acquista in significato più profondo correlato alla collocazione ed al destino dell’uomo
nell’ordine trascendente.
Occorre aggiungere inoltre che in Cipriano, Ambrogio, in Apponio la dignità dell’uomo acquista
pregnante significato in relazione al martirio, concepito come l’espressione più alta di essa.
Si delinea già nel pensiero dei primi padri della chiesa quello che può essere considerato l’apporto
più innovativo del pensiero cristiano alla elaborazione della dignità dell’uomo e precisamente l’idea
che essa spetti ad ogni uomo.
L’uomo del pensiero cristiano si colloca, e sta qua il fondamento della su dignità, nella posizione
più elevata nel mondo terreno per il marchio indelebile che gli deriva dall’essere fatto ad immagine
del suo Creatore: nella filosofia cristiana medievale può dirsi infatti prevalente l’idea che l’uomo
trovi giustificazione nel legame con Dio, non perchè egli abbia acquisito meriti e grazia a questi,
una propria dignità, bensì per grazia concessagli dal suo creatore. La dignità dell’uomo è una
qualità innata, una dote.
Essa ha un significato anteriore che prescinde dall’honor che il mondo esterno attribuisce e
tuttavia non di meno essa esige il riconoscimento esterno come un carattere che deve essere
tutelato in ogni istruzione ed in ogni frangente nei quali può essere distrutto.
Collocata all’interno di un ordo dignitatis di tutte le specie viventi , la dignità dell’uomo partecipa di
un nesso indissolubile con la vita, ciò che induce Alberto Magno a qualificare per converso la
morte come il rovescio della dignità, il che comporta altresì che i frangenti del vivere e del morire
sfuggono alla disponibilità della libertà umana perché incastonati nell’ordine naturale del creato.
E pertanto l’ Imago Dei conferisce all’uomo un plusvalore di particolare intensità, identificato nella
capacità di poter esistere nel mondo, attraverso la congiunzione dell’anima e del corpo, e nel
mondo terreno di esser posti nella condizione di costruire e conformare la realtà circostante . In
questa capacità di conformare il mondo è racchiusa la dignità che caratterizza l’immagine
dell’uomo, ed in ciò risiede altresì il nucleo centrale della dottrina medievale della imago dei.
L’uomo invero costruisce con il suo corpo e il suo patrimonio spirituale , al cui sommo si pone
l’intelletto, un microcosmo che riproduce il macrocosmo del quale dio è causa prima.
A partire dal XIII sec e soprattutto nella TEOLOGIA SCOLASTICA, muovendo dall’assunto che
l’intelletto costituisca il fulcro dell’assimilazione dell’uomo alla imago dei, comincia ad assumere un
rilievo centrale nella riflessione sulla dignità dell’uomo il nesso tra questa e le facoltà intellettive.
E tuttavia la riflessione della filosofia scolastica sul rapporto tra la dignità dell’uomo ed intelletto
sembra individuare il punto cruciale nella controversia sulle origini della vita.
Proprio muovendo dall’assunto che l’uomo è un’ anima rationalis, gli scolastici avvertono che il
processo naturale del Concepimento non può esaurire il venire ad esistenza della dignità
dell’uomo, e che essa sia radicata in un atto di creazione che trascende e prosegue oltre il
momento naturalistico del concepimento.
Rifacendosi all’insegnamento aristotelico, il pensiero della Scolastica tende a collocare la
questione della origine della vita dell’uomo su di un piano che supera il momento dello sviluppo
organico, il quale non appare perciò da solo come costitutivo della dignità dell’uomo.
Con l’avvento della modernità e la scoperta di fondamenti nuovi della soggettività, la riflessione
sulla dignità dell’uomo si affranca dalle strettoie dell’alternativa fra la dignitas romana, racchiusa
entro l’orizzonte mondano del rango acquisito nella società, e l’imago dei, la quale rinvia invece ad
una dimensione trascendente i frangenti dell’esistenza e si concerta sulla questione del rapporto
tra dignità e libertà. Ed invero nel pensiero di TOMMASO D’AQUINO il tema dominante della
Imago Dei non viene abbandonato e, però, coniugato con una immagine dell’uomo fondata sul
libero arbitrio e incentrato nella capacità di scegliere tra il bene e il male.
Tale capacità è quella che ne definisce la qualità stessa di soggetto e che allo stesso tempo lo
avvicina al suo creatore. Con la filosofia tomistica, pertanto, la dignità dell’uomo rinviene il suo
fulcro nella vis electiva di questi e nella libertà del volere, attraverso al quale si profila solo, per
cosi dire, un’impronta negativa della dignità dell’uomo, che tuttavia già include l’idea che questi sia
causa dei frangenti dell’esistenza.
Sarà però il pensiero dell’ Umanesimo e del Rinascimento a segnare una svolta decisiva nella
direzione di una concezione radicalmente nuova della dignità dell’uomo , la quale avrebbe aperto
la strada agli approdi della filosofia della modernità.
Nel discorso De Dignitate Hominis di PICO DELLA MIRANDOLA del 1486, prendendo le distanze
dalla filosofia medievale, egli si proietta nel futuro delineando un progetto sulla posizione
dell’uomo nel mondo.
Non meraviglia che il discorso abbia ricevuto una dura condanna dalla chiesa : il motivo risiede in
ciò, in quanto Pico costruisce la distinzione tra mondo naturale e mondo spirituale muovendo dal
presupposto che nel secondo le possibilità dell’uomo risiedono interamente nel suo potere. In ciò
è riposto il significato profondo della dignità dell’uomo, quel che ad esso conferisce il privilegio
della somma ammirazione.
L’uomo di Pico viene a collocarsi al centro del Mondo, e nel discorso, è Dio stesso a riconoscergli
una collocazione centrale in virtù di leggi prestabilite : per avere egli creato l’uomo come un’entità
ne celeste ne terrena, ma come un essere completamente libero di dare forma alla propria
esistenza. Rispetto al pensiero medievale, l’uomo di Pico possiede già nelle sue mani il proprio
destino, del quale è unica artefice la sua libera volontà.
Egli non agisce più in una sfera di libertà relativa, in quello spazio riservato che gli è stato donato
dal suo creatore e ne traccia peraltro limiti prestabiliti, cosicchè la prospettiva del pensiero
medievale viene capovolta e la dottrina dell’ imago dei risulta già sostanzialmente avviata al
superamento attraverso una visione dell’uomo che, proprio perché fatto ad immagine del suo
creatore, è divenuto”Signore” del suo mondo.
A partire da queste penetranti intuizioni, le concezioni della dignità dell’uomo proposte dal
pensiero della modernità europea si caratterizzano sotto il duplice profilo :
- per il graduale abbandono della dottrina dell’imago dei;
- per il riconoscimento del valore universale della dignità dell’uomo.
Merita di essere qui menzionato soprattutto l’apporto del pensiero di PUFENDORF.
In esso la concezione della dignità dell’uomo recide completamente il legame con la dottrina della
imago dei giacchè non in relazione a questa, ma nella natura razionale dell’uomo trova
fondamento la sua libertà.
Di qui una concezione del tutto secolarizzata della dignità dell’uomo, costruita a misura delle
potenzialità di questi nell’esistenza quotidiana e non più con uno sguardo rivolto ad uno stato
originario di perfezione, una visione molto empirica dell’uomo guidata dalla considerazione degli
scopi che esso persegue nella realtà, ed una concezione sulla dignità radicata nella condizione
sociale e nel riconoscimento che da essa deriva.
Il pensiero di Pufendorf inaugura una stagione nuova della discussione filosofica sulla dignità,
dominata, come poi la filosofia kantiana si farà carico di elaborare in modo compiuto, dall’idea che
non l’ Imago Dei costituisca il paradigma della dignità dell’uomo, ma la capacità di questi di
essere”Scopo in se stesso” , in quanto essere capace di conoscere la realtà che lo circonda, di
discernere le proprie azioni e di determinarsi sulla base della sua libertà di volere.
La dignità, che da tutto ciò consegue, cosi come l’eguale dignità che agli uomini deve essere
riconosciuta, non sono pertanto il frutto di un ordine prestabilito da creatore, ma dalla libertà di
perseguire gli scopi della propria esistenza in un tessuto di relazioni con gli altri uomini.
Nella Ragion Pratica KANTIANA, il significato universale della dignità dell’uomo subisce, rispetto
al giusnaturalismo sei-settecentesco, un’ulteriore trasformazione in quanto il pensiero kantiano si
sforza di sollevare il valore della dignità dell’uomo sul piano razionale astratto rispetto al carattere
più empirico che il filone giusnaturalista faceva derivare dalla matrice contrattualistica.
La Wurde si manifesta come il valore intrinseco dell’uomo, come un qualcosa la cui “esistenza in
se stessa” ha un valore assoluto, che , quale scopo in se stesso può essere a fondamento di
determinate leggi e può pertanto costituire ” il fondamento di un possibile imperativo categorico”.
La Concezione kantiana della dignità dell’uomo muove dalla premessa che : l’uomo, e in genere
ogni ente razionale, esiste come scopo in se stesso, non soltanto come mezzo da usarsi a proprio
piacimento per questa o quella volontà , ma in tutte le sue azioni, deve essere sempre e
necessariamente considerato insieme come scopo.
A differenza degli enti la cui esistenza poggia non sulla nostra volontà ma sulla natura,gli enti
razionali sono dette persone, poiché la loro natura li distingue come scopi in se stessi, ossia come
qualcosa che non è lecito usare solo come mezzo, ed è oggetto del rispetto.
Discende da questo il valore assoluto della Menschenwurde in quanto non si tratta di scopi
meramente soggettivi, ma di Scopi Obbiettivi, ossia di cose la cui esistenza sia scopo in se stessa,
e precisamente come scopo tale da non poter essere sostituito da nessun altro scopo di cui esse
dovessero stare al servizio, quali semplici mezzi, poiché senza di esso non si incontrerebbe da
nessuna parte proprio nulla “dotato” di valore assoluto.
“La natura razionale esiste quale scopo in se”; da ciò Kant fa discendere un ulteriore corollario del
valore universale della Menschenwurde. Poiché invero tale principio comporta nel suo riflesso sul
terreno soggettivo (come principio soggettivo delle azioni umane) che ogni altro ente razionale si
rappresenta la sua esistenza, proprio in conseguenza del medesimo fondamento razionale che
vale anche per me, ne deriva che il suo carattere universale (di imperativo categorico)consiste
anzitutto nell’assunto della “Eguale dignità di tutti gli esseri umani”.
Un Imperativo categorico che Kant riassume nel precetto: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia
nella tua persona che nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, ne mai come
semplice mezzo”.
Si comprende perché muovendo da queste premesse Kant sia giunto ad assegnare al principio
della eguale dignità di ogni uomo una collocazione centrale nella sua filosofia pratica, ed in virtù di
un fondamento di imperativo a priori piuttosto che di matrice contrattualistica. Nel “Regno dei Fini”
kant distingue pertanto ciò che ha un prezzo, che può esser sostituito da qualcosa equivalente, da
ciò che non ha alcun prezzo, che non consente alcun equivalente, che invece ha una dignità. Il
rango supremo riconosciuto alla dignità dell’uomo nella filosofia Kantiana è il risultato , in
definitiva, di un apprezzamento che consente di riconoscere, quale dignità , il valore che la colloca
al di sopra di ogni prezzo, con cui non si può affatto paragonarla e calcolarla, senza attentare per
cosi dire alla sua sanità.
Nella storia dei concetti della dignità dell’uomo nella modernità europea la FILOSOFIA
HEGELIANA segna di questa l’apogeo in quanto perviene ad una formulazione sistematica della
Teoria Della Soggettività.
Hegel prende le distanze dalla concezione razionale.astratta della dignità dell’uomo come
Selbstzwech,e si propone con ciò di superare i limiti della costruzione Kantiana attraverso un
approccio che privilegia la concreta storicità del problema della soggettività, inseparabile dalla
situazione nella quale l’individuo si trova.
Hegel concepisce la dignità dell’uomo come possibilità di realizzare questa libertà corrispondente
alla sua natura, sforzandosi di accentuare della libertà il senso di un orientamento positivo verso la
moralità attraverso il superamento della separazione tra sfera pratica e sfera teoretica, ed in
particolare attraverso la configurazione della volontà come una modalità del pensiero, un pensiero
che si traduce in esistenza.
All’essenza della libertà umana appartiene pertanto l’identità tra i due momenti, quello puramente
teoretico, che postula la assoluta e astratta possibilità di ogni determinazione, e quello puramente
pratico che si pone dinnanzi ad un oggetto determinato e postula al contrario, la finitezza e la
particolarità dell’io, nel momento in cui questo viene a contatto con il reale esistente nella sua
complessità.
Se pertanto al concetto di soggettività la libertà del volere si connette in modo in estrinsecabile, in
quanto, attraverso di essa l’uomo entra in un movimento circolare di conciliazione tra soggetto e
oggetto che dalla realtà lo riconduce dentro se stesso, al contrario lo scopo fondamentale della
soggettività è quello di appropriarsi del mondo, di applicarsi al pensiero, e di costruire la realtà
secondo i dettami di esso.
In tal modo lo spirito acquista il dominio della realtà, conferendo ad essa razionalità e stabilità, : la
dignità dell’uomo è in breve, inseparabile da una pretesa di trasformazione della realtà.
Lo Spirito è inteso da hegel come “unità di vita e di realtà “, che nella sua essenza è svolgimento
non in senso naturalistico, ma già nel senso di un ideale svolgimento di categorie logiche del
pensiero espresse nella successione temporale dei fenomeni storici; epperò la storia del
progressivo emanciparsi dello spirito è concepita come un movimento ascendente verso i “gradi
più alti del sapere assoluto” , il quale si riflette sulle istituzioni giuridiche e sociali.
La stessa immagine hegeliana dell’uomo si riannoda a queste premesse ed è perfettamente
coerente con l’impianto del sistema in quanto essa vede la Sfera Politica non come una unione
meccanica di individui egualmente sovrani, ma come unità organica di classi e di funzioni sotto il
principio dell’universalità, e parallelamente l’intera vita sociale è intesa anch’essa in senso
organico, non come insieme di individui indifferenziati, concepiti astrattamente nell’uniformità della
loro natura sensibile e razionale.

Dal liberismo giuridico al costituzionalismo del xx secolo


Grazie a THOMAS HOBBES, nel clima delle guerre di religione, venne teorizzata la distinzione tra
una “Sfera Interna” della soggettività, coincidente con la libertà di coscienza, ed una “Sfera
Esterna”, assoggettata alla costrizione del potere statale, necessaria per assicurare la pacifica
convivenza dei consociati. Le divisioni religiose, pertanto , da un lato hanno dato risalto ad una
sfera di libertà interiore del soggetto, dall’altra hanno contribuito a tracciare i confini del potere di
costrizione dello stato che è chiamato a garantirla senza fare distinzione tra ortodossia e eresia.
D’altra parte con il consolidamento dell’egemonia borghese, il riconoscimento di una sfera
prestatuale di libertà, contrapposta alla “esteriorità” dell’ordinamento giuridico, è andata soggetta
ad una vera e propria metamorfosi.
Essa invero, ha posto le basi, per un verso della separazione fra la sfera della morale e quella del
diritto, per altro verso ha fatto assurgere la legge esteriore a strumento tecnico di una decisione
sovrana neutrale con il conseguente trapasso da un sistema fondato sulla valenza di un diritto
divino, naturale ad un sistema di legalità basato sulla preminenza del diritto positivo.
L’antica sfera di libertà prestatuale, ed in particolare l’idea del soggetto/ente razionale capace di
dare leggi a se stesso, coessenziale all’ a priori Kantiano della dignità dell’uomo, si converte qui in
un complesso di garanzie apprestate da un ente sovrano esterno alla sfera della soggettività : lo
stato di diritto si esauriva in un principio neutrale di attribuzione di poteri pubblici, e i diritti
dell’individuo venivano fatti rampollare dalla speculare soggettività giuridica dello stato.
In conclusione sembra davvero che il tema della dignità dell’uomo, nell’epoca dello stato liberale di
diritto, sia rimasto in definitiva solo sullo sfondo e quasi impigliato nella costruzione del sistema
della legalità formale.
La “Rinascita” del tema della dignità dell’uomo, dopo la parziale eclisse nel secolo borghese si
profila con chiarezza nel XX sec sotto la pressione di fattori diversi.
Anzitutto la reazione all’eco dei crimini del colonialismo ed il trauma delle guerre mondiale,
contribuirono a porre il problema del rispetto della persona umana sotto una luce nuova, ed a
riferire la dignità dell’uomo al genere umano ed alla preservazione di un patrimonio irretrattabile
dell’umanità, prima che all’individualità della persona.
Muove da queste premesse , a partire dalla Dichiarazione Universale dell’ ONU del 1948, lo sforzo
di porre la dignità dell’uomo sotto la tutela di convenzioni internazionali e regionali dei diritti umani
e di apprestare uno scudo protettivo sovranazionale all’ispirazione delle costituzioni statali. D’altra
parte, la crisi dell’ordine sociale borghese, suscitò nuove domande di libertà e di costruzione di
modi di vita diversi anche al di fuori di schemi e consuetudini tramandate dall’universo sociale
borghese, ponendo con forza ,al centro del dibattito costituzionale, il diritto di essere se stessi.
In tal modo accanto a una concezione assoluta, carica di valore della dignità, intesa come
patrimonio del genere umano, si sono racchiusi spazi al profilarsi di una dimensione ulteriore di
essa, più strettamente embriatica in domande di libertà e pertanto intrinsecamente neutrale
rispetto alla varietà delle concezioni del mondo.
Va osservato inoltre che il tema della dignità dell’uomo fa il suo ingresso nelle costituzioni europee
della prima metà del XX sec anche in conseguenza della “Questione Sociale”
L’obiettivo di caricare le costituzioni di principi in grado di offrire delle risposte alle domande di
giustizia(di liberazione prima e oltre che di libertà) che essa aveva posto, tende a collocare
l’attenzione al tema della dignità anzitutto nel quadro dei rapporti economici, secondo il principio
formulato emblematicamente nell’art 151 della costituzione di Weimar, che :
“l’ordinamento della vita economica deve garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo”.
Il risalto del tema delle dignità dell’uomo nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra
costituì l’espressione più manifesta della ripulsa delle mortificanti esperienze dei totalitarismi del
XX sec, e del genocidio e degli stermini di massa che ad esse si accompagnarono.
Interrogandosi sulle origini e sul fondamento del “ Male Radicale “ dei totalitarismi del XX sec,
HANNAH AREBNDT pose l’accento sul carattere di una “sua assoluta e logica coerenza”, che lo
distinguerebbe dalle esperienze, già note alla, storia dalla malvagità di un sovrano, e che
consisterebbe nel rendere superfluo l’uomo, mantenendo il genere umano, di cui in qualsiasi
momento si possono eliminare le parti.
Muovendo da questa premessa Arendt ha finito per mettere in discussione radicalmente il
paradigma Kantiano della Menschenwurde, fondato sulla contrapposizione dell’uomo come mezzo
e come fine. Viene segnalata proprio qui l’aporia della Menschenwurde Kantiana giacchè “la
considerazione e il rispetto della dignità umana è come un saluto imponente aldilà dell’abisso”.
Il male in Kant consiste nell’essere incapaci di questo saluto imponente dalla distanza assoluta, e
per questo, cioè per la volontà di realizzare sconsideratamente i fini, per la rivolta contro al propria
impotenza, nel trascinare l’altro nell’abisso dei mezzi, nel mondanizzarlo, nel farne un oggetto
della volontà. E’ difficile negare dunque che il pensiero Kantiano abbia rappresentato uno dei
riferimenti più significativi nel dibattito costituzionale novecentesco sulla Menschenwurde.

Il dibattito costituzionale tedesco


Nel panorama delle Costituzioni Europee del secondo dopoguerra spicca in particolare il
Grundgesetz Tedesco del 1949 che si apre con la solenne proclamazione della “ Intangibilità Della
Dignità Dell’uomo “ (art 1 Abs).
Si trattava di una norma di apertura destinata a sorreggere l’intero impianto costituzionale, alla
quale era affidato il ruolo di scolpire il superamento dell’esperienza della dittatura
nazionalsocialista, con tutto ciò che essa aveva comportato nella strumentalizzazione totalizzante
dell’individuo.
La sovrapposizione della forza di impatto sistematico della dignità dell’uomo, in quanto norma di
grado non solo superiore ma assolutamente preminente, alle molteplici puntuali applicazioni di
essa in una costellazione di casi e situazioni particolari ha invero rappresentato sotto più di un
aspetto un nodo problematico e fonte di controversie interpretative.
Ciò non solo per il rischio di un uso inflazionato del richiamo alla norma costituzionale, ma perché
in primo luogo tale costellazione di concrete situazioni di rischio per la dignità dell’uomo ha
continuamente proposto tensioni e conflitti con alcuni diritti fondamentali e perché, in secondo
luogo nel contesto di società nella quali convivono molteplici concezioni del mondo, il livello di
astrazione della norma può risolversi in un varco indiscriminato di concezioni etiche particolari, o
al contrario in un fattore frenante della neutralità etica dello stato.
Il tentativo più compiuto di offrire una ricostruzione del principio della intangibilità della dignità
umana si deve a GUNTHER DURIG.
Egli mosse dalla premessa che, la forza vincolante di una costituzione si radica in un sistema di
valori, e che fra questa assume una collocazione prioritaria quello della dignità dell’uomo.
Attraverso il suo recepimento nella Costituzione , tale valore si è trasferito dal piano etico, su
quello del diritto costituzionale positivo. Tale imprescindibile radicamento in un retroterra di
carattere etico fa si che il principio debba essere apprezzato altresì nella sua portata oggettiva. Da
questa concezione oggettiva e assoluta della intangibilità della dignità dell’uomo deriva in primo
luogo che essa costituisce il fondamento non soltanto del sistema dei Grundrechte, ma dell’intero
ordinamento dei valori sui quali poggia la legge fondamentale; ed in II luogo che la protezione
assoluta che tale principio rivendica ha ad oggetto non il singolo, concreto individuo, ma l’uomo
nella sua dimensione antropologica. Il principio rinvia pertanto non ad una tutela individualizzata e
concreta, ma ad una complessiva immagine dell’uomo, che la norma costituzionale intende
preservare in modo assoluto : quella in ragione della quale ogni uomo è tale in forza degli attributi
propri della sua spiritualità, che lo sollevano rispetto alle altre creature, lo rendono capace di
decidere autonomamente e di autodeterminazione, di essere consapevole delle proprie azioni e di
conformare l’ambiente che lo circonda. Il riferimento alla libertà di autodeterminazione, pertanto
lungi dal circoscrivere la protezione della dignità dell’uomo solo al campo di una dignitas di cui
l’individuo diviene meritevole attraverso le prestazioni della propria soggettività, contribuisce
invece a rimarcare che LA DIGNITÀ È WURDE: essa è, invero, una qualità che si acquisisce per
natura ed indipendentemente dalla libera determinazione dell’individuo e ciò contribuisce a dare
più forte evidenza al marchio della sua dimensione antropologica.
Nei successivi sviluppi del dibattito costituzionale la Concezione “Assoluta” della intangibilità della
Menschenwurde, è stata contrastata da altre ricostruzioni teoriche.
Merita di essere ricordata la “TEORIA DELLA PRESTAZIONE” /Leistungstheorie”, che ha
ravvisato l’essenza della dignità dell’uomo nella costruzione di una propria autonoma identità e di
un profilo della personalità incentrato sull’autodeterminazione.
Secondo questo indirizzo la dignità sarebbe il prodotto di una conquista di ogni uomo, il risultato di
una prestazione della soggettività e di un itinerario di formazione dell’identità.
Più di recente , anche sotto l’influenza della formulazione della clausola della Menschenwurde in
alcune nuove costituzioni dei Lander orientali, le quali hanno posto l’accento sul significato di essa
come principio basilare di un tessuto di relazioni sociali, è stata proposta la c.d. TEORIA DELLA
COMUNICAZIONE. Essa suggerisce di costruire il principio della intangibilità della dignità
dell’uomo sul rispetto reciproco nella sfera relazionale e comunicativa e sulla pretesa di
riconoscimento del valore sociale di ogni individuo. Su queste basi il precetto costituzionale,
apparirebbe, oltre che come norma, come “promessa” fondativa di una comunità.
In queste posizioni, che hanno innovato profondamente la discussione sul tema della dignità
dell’uomo, coesistono approcci differenti: quello che tende a valorizzare le capacità di integrazione
della clausola sulla dignità dell’uomo, e quello che tende a risalire dalla giustificazione di essa in
un contesto ordinato in relazioni sociali alla ricerca di ancoraggi e standard normativi più sicuri di
quelli offerti dalla concezioni assolute.
E tuttavia va ascritto a merito di questi nuovi indirizzi ricostruttivi non solo di aver dato risalto ad un
profilo dinamico della dignità dell’uomo, ma di aver contribuito a spostare il focus della discussione
su singole questioni controverse, prima fra tutte quella della “ Estensione della operatività del
precetto costituzionale alla fase prenatale e a quella successiva alla morte “ .
E’infatti chiaro che , sia muovendo dalla premessa della dignità come conquista derivante da un
processo di autorealizzazione, che risolvendola in un tessuto di relazioni comunitarie di
riconoscimento , si preclude in definitiva la possibilità di utilizzare il precetto stesso con riferimento
all’embrione o al nascituro. In definitiva il ripensamento critico delle concezioni assolute della
dignità dell’uomo è stato suscitato proprio dalla difficoltà di governare adeguatamente, il
passaggio dal piano generale del fondamento antropologico delle costituzioni a quello della
soluzione di questioni particolari: dalla questione dell’aborto, all’inseminazione artificiale, dalla
coltura degli embrioni alle manipolazioni genetiche dei processi riproduttivi. Questioni molto
differenti, che fanno venire allo scoperto un nodo problematico comune, in quanto un bene
costituzionale postulato come oggetto di una tutela assoluta venga invocato per la soluzione di
problemi che coinvolgono diritti fondamentali( diritto alla vita, diritto all’identità personale, diritto
alla libertà morale). Nel dibattito sulla intangibilità della dignità dell’uomo, il punto cruciale è
rappresentato dalla questione del rapporto con i diritti fondamentali e dalla possibilità che essa sia
coinvolta in un gioco di ponderazioni con altri diritti e beni costituzionali protetti, ciò che
comporterebbe l’abbandono di una prospettiva di assolutezza ed una differenziazione della tutela
di essa in singole situazioni attraverso una scala graduata di variabilità.
Nelle CONCEZIONI ASSOLUTE della dignità dell’uomo, invero, la inammissibilità di operazioni
con altri diritti è stata fatta discendere coerentemente dalla premessa che : la Menschenwurde
non è contenuto di un diritto e che essa riveste un significato cosi straordinario nella Wertordnung
della Legge fondamentale da far si che il principio sfugga ai canoni interpretativi dei diritti
fondamentali, ed in particolare che l’art 1Abs IGG non lasci spazio in materia all’istituto della
riserva di legge, ma soprattutto dal carattere assoluto della Menschenwurde discende che in caso
di collisione con altri beni costituzionali, essa non risulti cedevole nei confronti di alcun altro valore.
La dignità dell’uomo non costituirebbe pertanto un bene giuridico che possa essere paragonato o
ponderato ad altri.
In breve in un ordinamento pluralistico, dove tutti i valori sono relativi, la dignità dell’uomo si
porrebbe come l’unico valore realmente assoluto.
Sull’altro versante, ha peraltro avuto sviluppo in Germania, da alcuni anni a questa parte,
un’ipotesi ricostruttiva differente, la quale opta per l’ancoraggio della INTERPRETAZIONE DELLA’
ART 1ABS IGG della dogmatica dei Grundrechte, cosi come essa si è evoluta nel quadro della
Guterabwagung elaborata dal tribunale costituzionale.
In questa cornice l’intangibilità della dignità dell’uomo è stata ricondotta entro lo schema proprio di
un diritto fondamentale , il quale può entrare in rapporto con altri diritti e dunque in una dinamica
di ponderazioni e di applicazioni flessibili.
La garanzia della Menschenwurde diverrebbe pertanto mobile in relazione ad una scala di
situazioni che possono comportare graduazioni nella intensità della tutela.
Il problema centrale diviene quello degli eventuali casi di collisione tra l’art 1Abs I GG ed altri diritti
fondamentali, ciò che costituisce peraltro una difficile sfida metodologica alla dogmatica tedesca
dei diritti fondamentali, costruita sull’idea base della costituzione come un ordinamento di valori, in
quanto il coordinamento tra il rango prioritario della Menschenwurdegarantie e i diritti fondamentali
entrati in collisione con questa non riguarda più “zone di confine”, e perché inoltre, tale
coordinamento, in quanto giocato per intero sul terreno dei diritti fondamentali, non può operare
che su di un piano di reciprocità: ciò implica che: per un verso i singoli diritti fondamentali sono
elementi di un profilo costituzionale unitario ispirato ai valori di libertà e di eguaglianza e
sintetizzato dal concetto della dignità dell’uomo, e che, per altro verso, lo standard di protezione di
questa acquista contorni puntuali anzitutto attraverso la disciplina degli altri speciali diritti
fondamentali. Si perviene cosi alla questione decisiva che riguarda i margini di flessibilità della
garanzia della dignità dell’uomo e l’apertura a scenari di ponderazione.
Lo sforzo più elaborato di delineare, un itinerario di concretizzazione della garanzia attraverso un
bilanciamento valutativo, muove dalla distinzione di 2 profili differenti.
Il primo è quello relativo all’oggetto o più precisamente alla Natura del Comportamento lesivo della
dignità dell’uomo.
Esso identifica il nucleo duro dell’intangibilità, ma conserverebbe a questa carattere assoluto,
facendo cioè astrazione dalle circostanze che possono determinare la lesione, solo in casi di
estrema gravità, quali sono quelli che riconducono alla ispirazione storica della norma, come rifiuto
dei regimi totalitari. Il secondo profilo ha carattere finalistico , nel senso che il vulnus della dignità
dell’uomo in questo caso non è riconducibile all’oggetto del comportamento ma alla finalità lesiva
che attraverso di esso si intende perseguire.
I giochi della ponderazione restano invero aperti solo in quelle zone , periferiche rispetto al nucleo
duro del profilo oggettivo della garanzia, nelle quali si dischiudono spazi per un “apprezzamento
bilanciato del mondo e delle finalità della lesione” e questa dovrà essere ritenuta sussistente solo
nei casi di atti di deliberata umiliazione della dignità, di gravi maltrattamenti corporali e di
discriminazione etnica e razziale.

La dignità dell’uomo nel diritto costituzionale europeo : alcuni passaggi giurisprudenziali


I testi costituzionali Europei offrono declinazioni differenti del tema della dignità dell’uomo. Dalla
lettura dei testi costituzionali emerge pertanto un panorama assai differenziato, il quale sembra
peraltro ricomporsi nell’opera della giurisprudenza, organizzandosi intorno ad alcuno temi nodali i
quali lasciano intravvedere prime tracce di un diritto comune europeo.
Il tema del rispetto della dignità dell’uomo risuona con accenti molto forti in una decisione del
CONSEIL D’ETAT FRANCESE del 1995, con la quale venne accolto il ricorso presentato da un
comune contro l’annullamento di un provvedimento del sindaco, che aveva vietato per motivi di
ordine pubblico, lo svolgimento, nel corso di uno spettacolo in una discoteca, della’attrazione del
c.d “Lancio Dei Nani” (consiste nell’utilizzare come proiettile, durante un spettacolo, una persona
affetta da un handicap fisico).
Muovendo dall’assunto che rientri tra i poteri delle autorità investite della polizia municipale
prendere tutte le misure idonee a prevenire un attentato all’ordine pubblico, il Conseil ritenne che il
rispetto della dignità della persona umana sia una delle componenti dell’ordre public, con la
conseguenza che l’autorità possa vietare uno spettacolo lesivo anche in assenza di circostanze
locali particolari.
E il lancio dei nani costituirebbe una violazione dell’ordine pubblico, per l’oggetto stesso
dell’attrazione, indipendentemente da particolari circostanze ambientali di pericolo per l’ordine
pubblico materiale e indipendentemente che la persona impiegata nel lancio si sia
volontariamente prestata.
La decisione appare rilevante sotto 2 aspetti:
Il primo riguarda il recupero di una nozione molto ampia di Ordre Public, la quale ha trovato
accoglienza nella giurisprudenza del Conseil d’Etat, attraverso il richiamo ad un fondamento
morale dell’ordre public, consistente in un “Minimo Etico Comune condiviso dalla società”.
Il secondo profilo invece sottolinea che resta in sostanza indifferente la libera autodeterminazione
del soggetti. Sembra invece innovativa e sicuramente coraggiosa la giurisprudenza della Corte Di
Giustizia Europea in tema di dignità dell’uomo.
Di particolare importanza, in materia di dignità, è la SENTENZA OMEGA DEL 2004.
Si trattava della compatibilità con il diritto comunitario,e in particolare con la libertà di prestazione
dei servizi, di un provvedimento dell’autorità amministrativa tedesca che aveva vietato la
commercializzazione dei giochi laser prodotti nel Regno Unito, nello svolgimento dei quali era
possibile al giocatore simulare atti omicidi.
La Corte, accogliendo la requisitoria dell’avvocato generale, ritenne in questa occasione che
l’ordine giuridico comunitario tende innegabilmente ad assicurare il rispetto della dignità dell’uomo
in quanto parte integrante di quei principi generali che si ispirano alle tradizioni comuni agli stati
membri. Per giungere a questa conclusione, non è necessario,sottolinea la corte, fare riferimento
alla circostanza che la protezione della dignità dell’uomo abbia avuto un riconoscimento
costituzionale cosi elevato nella costituzione dello stato nel quale ha avuto origine la controversia,
ne occorre un’indagine diretta ad accertare che il principio medesimo abbia trovato accoglienza in
tutti gli ordinamenti costituzionali degli stati membri. Sono quelli ricavabili dalla tradizioni comuni,
indicatori che la corte utilizza secondo criteri molto duttili. Merita di essere menzionato il passaggio
della motivazione nel quale la corte ricorda che “non è necessario ad essa accertare che la misura
restrittiva adottata dallo stato membro corrisponda a concezioni condivise nell’insieme degli stati
membri”.
E’ un passaggio decisivo allo scopo di cogliere il significato del richiamo alla dignità dell’uomo in
questa giurisprudenza.
Se, invero, chiarisce la Corte, il rispetto dei diritti fondamentali costituisce un interesse legittimo di
spessore tale da giustificare una restrizione dei vincoli nascenti dalle libertà economiche dei
trattati, le misure restrittive di queste ultime adottate dagli stati soggiacciono comunque ad uno
scrutinio di proporzionalità volto a verificare che esse siano necessarie per la protezione
dell’interesse considerato prioritario (la protezione della dignità dell’uomo) e che tale obbiettivo
non possa essere perseguito con misure meno restrittive.
Nel panorama della giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht meritano di essere menzionate
3 decisioni.
– Nel GROBER LAUSCHANGRIFF-URTEIL del 2004 il tribunale era stato chiamato a pronunciarsi
sulla costituzionalità, in rapporto alla Menschenwurdegarantie dell’art 1GG, di una legge di
revisione costituzionale che, come misura di contrasto contro la criminalità organizzata, aveva
ammesso l’impiego di strumenti tecnici di sorveglianza in abitazione e luoghi di privata dimora.
Nella decisione il Tribunale ribadisce il rango prioritario della dignità dell’uomo, il quale comporta
non solo che tale garanzia si estenda a tutte le norme della legge fondamentale ed alle revisioni di
essa, ma altresi una limitazione generale delle misure di sorveglianza acustica, nel senso
precisamente di imporre una interpretazione restrittiva della Nueve Fassung dell’art 13 GG,
orientata al rispetto della dignità dell’uomo. Ed alla protezione intangibile di questa viene
ricondotta altresi la inviolabilità di domicilio, in quanto essa comprende il rispetto di una sfera
spaziale privata”personalissima” destinata alla comunicazione confidenziale. Ovviamente non ogni
misura di sorveglianza acustica lede la dignità dell’uomo e la libertà di un nucleo privatissimo della
personalità, ma il controllo della legittimità di tali intrusioni deve essere tanto più stringente quanto
più alto è in concreto il rischio di colpire il nucleo della comunicazione personalissima.
Per valutare la legittimità di tali misure è necessario allora individuare un punto di appoggio sicuro,
il quale deve ritenersi sussistente non solo quando la natura confidenziale delle comunicazioni
oggetto dell’ascolto risulti dal carattere dei confidenti dell’incolpato, ma anche quando risultino
altresì indizi che il contenuto di questi colloqui faccia venir meno il fondamento di una protezione
assoluta.
Muovendo da questo approccio, non stupisce come il tribunale sia pervenuto a respingere le
censure di costituzionalità della revisione costituzionale del 1998 in quanto non idonea di per se a
concretizzare una violazione della dignità dell’uomo.
– Con la II delle sentenze, il LUFTSICHERUNGSGESETZ-URTEIL del 2006 il Tribunale
costituzionale sembra muoversi in apparenza in una linea di continuità con le ricostruzioni della
Menschenwurdwgarantie più condizionate dalle concezioni assolute di essa.
Al centro della parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’ art 14 della legge federale sulla
sicurezza dei voli, che dopo gli attentati dell’11 dicembre, aveva autorizzato le forze armate ad
abbattere un aeromobile che un’azione terroristica stava indirizzando verso obiettivi di distruzione
e di sterminio a terra, sta invero ancora la tradizionale Objektformel
E’ invero il nucleo di significato forte della Menschenwurdegarantie, che impone in modo assoluto
di non ridurre l’uomo ad oggetto ed a strumento dell’azione dello stato, ad escludere che i
passeggeri e l’equipaggio dell’aereo possano essere sacrificati al salvataggio di vite umane a
terra. Nell’impianto complessivo della motivazione, la Objektformel impone, una tutela assoluta e
non differenziabile attraverso il confronto di situazioni differenti, precludendo con ciò la via del
bilanciamento tra diritto alla vita degli uomini a bordo dell’aereo e quello degli uomini a terra.
Su queste premesse il tribunale ha costruito una decisione di complesso tenore.
Esso ha prescelto un itinerario il quale muove dall’assunto che sul rispetto della dignità dell’uomo,
e sulla “eguale dignità” di tutti gli uomini , non sia lecito configurare eccezioni : l’uccisione dei
passeggeri e dell’equipaggio si profilerebbe come la negazione di un valore irrinunciabile per
l’uomo sul fondamento di una autorizzazione legislativa, la quale avrebbe come conseguenza
l’uccisione premeditata di uomini innocenti. E, tuttavia, nella sentenza si coglie dell’altro, e
precisamente anzitutto, il risalto che, nella articolazione della decisione, assume il nesso tra
dignità e autodeterminazione. Esso gioca, su due piani differenti: nell’escludere il sacrificio dei
passeggeri e dell’equipaggio; nel consentire invece l’abbattimento dell’aereo sul quale si trovi il
solo comando dei terroristi, i quali hanno esercitato, sebbene per un obiettivo criminale, la propria
libertà di autodeterminazione. Corrisponde invero, aggiunge il tribunale, alla “Condizione Di
Soggetto” dei terroristi a bordo l’aver messo nel conto le conseguenze che derivano da un
comportamento voluto e che di ciò essi portino la responsabilità. Il Principio di Responsabilità
comporta infatti la prevalenza dell’obiettivo di salvare altre vite umane e può giustificare pertanto
la incisione massima del diritto alla vita dei colpevoli. Ed invero il richiamo al profilo della
responsabilità appare interno al contenuto irriducibile della dignità dell’uomo.
– Nell’ultima delle sentenze del Bundesverfassungsgericht, L’ HARTZ IV GESETZ-URTEIL del
2010, il tribunale, chiamato a pronunciarsi su modifiche del Sozialgesetzbuch che avevano
introdotto un sistema unitario di prestazioni sociali a sostegno di lavoratori in condizione di
bisogno e dei familiari conviventi che condividono questo stato di bisogno, ha ritenuto che questo
sistema non soddisfi pienamente la “ pretesa costituzionale/verfassungsrechtlicher Anspruch” alla
garanzia di un minimo esistenziale Menschenwurrdig.
Il nucleo irriducibile della garanzia della dignità dell’uomo come base di tutti i diritti fondamentali,
vieni qui decisamente intaccato, in quanto l’art 1 Abs IGG fonda esso stesso un diritto
fondamentale, quello alla garanzia di uno standard minimo di condizioni di vita, tuttavia ciò
comporta l’immissione del diritto al minimo esistenziale nel gioco delle compatibilità con gli
apprezzamenti discrezionali del legislatore e con le esigenze della finanza pubblica.
Ed invero il diritto in parola esprime da un lato le potenzialità della garanzia della dignità
dell’uomo, in quanto assicura ad ogni soggetto in stato di bisogno le condizioni materiali
imprescindibili per la sua esistenza. Ed ancora un diritto indisponibile, il quale richiede di essere
però messo in pratica nella cornice del principio dello stato sociale, il che vuol dire che esso
necessita di un’opera di concretizzazione e attuazione permanente affidata al legislatore.
Su questo terreno infatti, precisa il Tribunale, riconoscere uno spazio di gioco al legislatore è
imprescindibile, dal momento che le norme costituzionali non sono in grado di offrire indicazioni
dirette, riferite allo stato di bisogno ed ai mezzi necessari per farvi fronte.
Nonostante l’importante affermazione del legame indissolubile fra dignità dell’uomo e stato
sociale, e. sebbene il controllo della corte si sia esercitato, nel caso di specie, attraverso una
puntuale valutazione delle differenti situazioni di disagio coinvolte L’ Hartz IV Gesetz-Urteil
rappresenta la svolta più radicale nella giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht in materia,
poiché essa immette l’intangibilità della dignità dell’uomo nel complesso gioco di equilibri tra
discrezionalità del legislatore e controllo di costituzionalità.
VIII. Spazio pubblico
Sulla base della contaminazione delle originarie varianti semantiche, nel concetto di pubblico è
confluita una pluralità di significati,che hanno accompagnato la transizione dello stato liberale agli
assetti delle democrazie.
Il primo significato è quello della apertura della sfera pubblica con funzioni politiche e della
accessibilità dei luoghi nei quali si forma l’opinione pubblica e gli interessi della collettività vengono
dibattuti. La diffusione delle libertà di opinione, di pensiero, di associazione in un pubblico più
esteso, trasformano la libertà in strumenti dell’agire collettivo, e la pubblicità si comunica peraltro
all’assetto dei poteri statali divenendone principio informatore.
Il Principio di Pubblicità assurge dunque ad “ elemento essenziale della libertà dei popoli divenuti
adulti”.
Un filone di pensiero , fatto risalire a Milton e Kant, ha infatti posto l’accento sul tema della
pubblicità come veicolo e garanzia della verità, della onestà e della giustizia dei risultati ai quali si
perviene attraverso la discussione in un processo pubblico.
La seconda variante semantica sposta l’accento sulla pubblicità come “Carattere stabile
dell’organizzazione sociale “: il principio di pubblicità è capace di dispiegare le sue virtualità
anzitutto sulla struttura di una collettività organizzata, la quale in quanto artefice della propria vita
costituisce un “Publikum” che si pone come personificazione dello spazio pubblico.
Di qui la conclusione che una democrazia vive di pubblicità.
Secondo questo approccio teorico rappresentato da SMEND, il principio di pubblicità non è solo
principio fondativo dell’organizzazione dei poteri, ma tale principio ha invero anche un significato
di integrazione del gruppo sociale, il quale, nelle democrazie, nello spazio pubblico anzitutto si
realizza ed impara ad essere consapevole del proprio compito.
Smend avverte che per la variante semantica di derivazione tedesca (Offentlich) può risultare più
arduo il suo trasferimento dal piano fattuale dell’ “ essere aperto” su quello normativo.
In ciò risiedono la differenza rispetto alla storia della variante di derivazione romana e
anglosassone, che ha avuto una più spiccata valenza ordinamentale, ma anche il motivo del
fraintendimento che nell’elaborazione della dottrine tedesca del XIX secolo, ha condotto a
declinare progressivamente il concetto di pubblico nel quadro della unità del sistema giuridico ed a
concepire il diritto pubblico con riferimento non a ciò che esiste, attraverso il popolo e secondo la
volontà di questo, ma in funzione dell’unità di un ordinamento a livello superiore.
Una lettura questa che tende ad oscurare la portata rivoluzionaria del principio di pubblicità nella
storia del costituzionalismo e che trascura in particolar modo il fatto che il principio di pubblicità ha
significato sostanziale, che rinvia ad un’idea di Res Publica come spazio di confronto in continuo
svolgimento fra la collettività e l’apparato di governo.
Occorre avvertire peraltro che gli sviluppi del dibattito sulla sfera pubblica non hanno sempre
valorizzato l’impostazione decisamente antiformalistica che Smend aveva delineato nel suo scritto
del 1955. In particolare mi riferisco (il prof) alle Teorie della democrazia come “ Processo
Pubblico”.Esse muovono dalla premesse e della filosofia pratica di KANT e dal legame fra
pubblicità e autonomia. Su queste basi il potere legislativo può spettare solo alla volontà collettiva
del popolo perché solo questo garantisce l’assoluta impossibilità di recare ingiustizia a qualcuno
con le sue leggi; e dunque soltanto la volontà generale collettiva del popolo può essere
legislatrice. Nella concezione Kantiana della legislazione in definitiva lo spazio pubblico non si
riduce alla positività del diritto, ma rinvia ad uno strato essenzialmente normativo di razionalità in
quanto l’uso della ragione nello spazio pubblico è fattore di rischiarimento. E, tuttavia, nonostante
questa precisazione resta problematico fondare su tali basi una democrazia deliberativa, poiché di
esse sono venute meno le premesse, dal momento che il sostrato sociale di uno spazio pubblico
unitario e lo stato nazionale come sua forma politica, hanno ceduto il passo ad un assetto
pluralistico di interessi e conflitti, sempre più condizionato dalle direttive imposte dalla
globalizzazione dell’economia, della scienza e della tecnica.
In questa cornice assume rilievo la concezione politica discorsiva elaborata da JURGEN
HABERMAS . Esso muove dalla premessa che la democrazia è espressione tipica della
modernità, la quale ha portato una rottura con la tradizione e affermato una concezione politica
fondata sull’autodeterminazione e sulla fiducia delle risorse del discorso razionale attraverso il
quale ogni forma di potere politico devo legittimarsi.
Il diritto delle società pluralistiche non può più trovare fondamento in un diritto naturale fondato su
basi religiose, ma rinviene la sua legittimazione nell’autodeterminazione dei cittadini, i quali si
sentono , per il tramite della partecipazione al processo democratico ,gli artefici del diritto al quale
sono sottoposti. Ne consegue che possono pretendere legittimità soltanto quelle leggi che
scaturiscono da un “processo legislativo discorsivo” il quale rinviene la sua fonte di legittimazione
nei presupposti comunicativi e procedurali della formazione dell’opinione pubblica. Il nucleo
essenziale di questa concezione della democrazia risiede in questo ovvero
nell’Istituzionalizzazione di procedure discorsive e di forme comunicative, le quali fondano una
presunzione di razionalità dei risultati raggiunti in modo conforme al procedimento.
La complessità delle società pluralistiche configura pertanto lo spazio pubblico come un intreccio
di sfere formali ed informali, organizzate secondo uno schema centro- periferia. All’interno di tale
schema il Centro è occupato dai complessi istituzionali, contornati da una periferia di associazioni
e gruppi sociali i quali agendo come interlocutori dei parlamentari, della amministrazione e della
giurisdizione articolano interessi e bisogni cercando di immetterli nel processo legislativo.
In questo scenario, le competenze di decisione restano riservate a livello istituzionale, e
acquistano legittimazione solo quando siano guidate da flussi comunicativi che provengono dalla
periferia e transitino nelle istituzioni attraverso il varco di procedure democratiche.
Ne risulta una rete di relazioni ad elevato livello di complessità e di differenziazione, la quale
assicura la “Porosità” dello spazio pubblico, ma richiede allo stesso tempo una strutturazione
discorsiva delle arene pubbliche, nelle quali cerchie comunicative si svincolano dal piano elle
mere interazioni per organizzarsi in un processo di decisone democraticamente legittimato.
“Il principio della garanzia di spazi pubblici autonomi e quello della concorrenza fra i partiti
esauriscono insieme al principio parlamentare il contenuto della sovranità parlamentare”.
L’etica del discorso Habermasiana ha sicuramente impresso una svolta comunicativa
all’individualismo Kantiano giacchè l’individuo che partecipa al discorso pubblico è un essere
socializzato e razionale che attraverso di esso si manifesta, è un fenomeno social e comunicativo;
ma ciò nonostante non sono mancate delle critiche a tale concezione le quali hanno seguito
itinerari differenti. Fra i primi, merita di essere menzionata la critica secondo la quale Habermas
avrebbe costruito in termini troppo rigidi il rapporto tra spazio pubblico istituzionalizzato e non
istituzionalizzato. La spaccatura dello spazio pubblico in due aree distinte( centro e periferia)
trascurerebbe non solo che anche quella non istituzionalizzata riesce a trasferire razionalità
comunicativa sulle istituzioni del sistema politico- sociale, ma soprattutto che nelle società
occidentali l’una e l’altra operano spesso a stretto contatto, compenetrandosi reciprocamente.
Per converso, costruire il rapporto tra le 2 aree tenendo distinta quella periferica,priva di poteri
decisionali,da un centro nel quale transitano, attraverso i varchi delle procedure democratiche i
poteri decisionali trascurerebbe che elementi di spontaneità si cristallizzano anche a livello delle
istituzioni. Si osserva pertanto che uno spazio pubblico con funzioni politiche è costituito da un
intreccio di prassi comunicative istituzionalizzate e non , di istanze autonome e non, di
articolazioni investite di poteri e societarie che sarebbe dato intervenire sia nelle istituzioni che
negli intermediari sociali, e che lo stesso sistema istituzionale non sarebbe costituito solo da
strutture dotate di potere, ma conterebbe in se elementi discorsivi.
Al contrario il modello Habermasiano della politica deliberativa, riporterebbe l’idea di democrazia
nell’alveo della tradizione liberale rappresentativa, riproponendo in sostanza un rapporto di
contrapposizione tra uno spazio pubblico immerso nella spontaneismo sociale e quello
centralizzato delle istituzioni della politica. Un secondo filone si è invece sviluppato ispirandosi alla
teoria dei sistemi sociali elaborata da NIKLAS LUHMANN.
All’approccio Habermasiano dell’agire comunicativo è stato contestato di rivelarsi inadeguato alla
comprensione della complessità sociale. Concependo il mondo vitale come scenario della
costruzione della intersoggettività, Habermas sarebbe indotto a sopravvalutare la forza dei legami
consensuali, trascurando che la intersoggettività costruita nel mondo vitale può sfociare
nell’accordo o nella discussione, può produrre dissenso come consenso.
L’intersoggettività costruita su procedure discorsive si affermerebbe mediante l’emersione e il
riconoscimento delle divergenze, cosicchè una convivenza fondata su queste basi e non
strutturata sistematicamente potrebbe essere sostenuta soltanto da una morale imperniata sul
dissenso.
Paradossalmente la concezione della democrazia discorsiva postulerebbe il raggiungimento del
consenso, ma l’unico consenso sostenibile sarebbe quello riguardante i principi che rendono
possibili interazioni fondate sul dissenso.
Su queste premesse sarebbe difficile evitare che il rischio di un dissenso permanete non
pregiudichi il conseguimento di un risultato consensuale fondato su basi razionali, in quanto solo
principi di un’etica incentrata sull’accesso a procedure discorsive possono pretendere carattere
universalistico e dispiegare potenzialità di inclusione, ma non anche possedere valore realmente
costitutivo di coesione sociale.
La critica di matrice sistematica, secondo la quale la concezione della democrazia discorsiva non
riesce a farsi carico in modo adeguato delle prestazioni di coesione sociale richieste dallo spazio
pubblico nelle società complesse, viene completamente capovolta dagli indirizzi del Pensiero
Neoliberali, che nella sopravvalutazione di una Offentlichkeit intermedia fra i privati e i poteri
pubblici hanno scorto il tentativo di imbrigliare lo spontaneismo dei processi di autoorganizzazione
della società ed una concezione essenzialmente paternalistica dei legami sociali.
Centrale è dunque l’obiezione al tentativo di costruire lo spazio sociale come trascendimento della
sfera privata, concepita come il luogo dell’egoismo individualistico piuttosto che come quello della
autogovernazione della società che alimenta le stesse prassi discorsive dello spazio pubblico.
Il punto di dissenzo della concezione Habermasiana della Offentlichkeit tocca in I luogo il principio
della libertà, che gli indirizzi neoliberali considerano come strumento di creazione di legature
sociali. Da ciò discende che lo spazio pubblico viene configurato proprio a partire dalla rete di
relazioni che si costituisce nella società, e che la capacità di coesione che esso dispiega deriva
dalle ricadute collettive delle regole che vengono generate e riformulate a livello sociale.
Pertanto lo spazio pubblico è costituito dalla coordinazione della produzione di regole da parte dei
privati, e non si configura come un momento esterno e più alto, frutto di una moralità e di una
razionalità superiori alla sfera privata.

La res publica come società aperta degli interpreti della costituzione : Peter Haberle
Nella dottrina costituzionalistica si deve a Konrad Hesse e a Peter Haberle il merito di aver
raccolto l’insegnamento di Smend sul concetto di pubblico e di averlo collocato nel quadro di una
riflessione a tutto tondo sulle trasformazioni del contenuto e del ruolo delle costituzioni nelle
democrazie pluralistiche.
Muovendo dalla critica delle concezioni organistiche della posizione costituzionale del partito
politico, all’epoca dominanti nella dottrina e nella giurisprudenza tedesche, HESSE imputava la
difficoltà di definire il concetto di pubblico in modo coerente con gli assetti delle democrazie
pluralistiche all’influenza del positivismo giuridico.
Al contrario tale concetto non andrebbe definito ne in chiave decisionistica e neppure tracciando
una completa cesura fra il normativo e il fattuale, ma prendendo atto che esso va riferito al
sistema dei valori che ispirano la costituzione e al mutamento delle condizioni storiche in cui è
operante. Le trasformazioni subite dalla costituzione si riflettono dunque sulla definizione della
sfera pubblica, all’interno della quale operano soggetti, come i partiti, non riconducibili all’
archetipo del diritto privato; soggetti che comunque svolgono la funzione fondamentale di
sostenere il processo di integrazione nel quale la giuridicità della costituzione confluisce.
Da questa premessa deriva che questi soggetti posseggono altresì uno Status che è pubblico in
quanto si esso si traduca nell’aver parte alla edificazione dei principi di legittimazione dell’assetto
costituzionale. Il passaggio successivo di questo itinerario culturale sarebbe consistito
nell’estendere il campo di osservazione sul “pubblico” e sullo “spazio pubblico” dalle dinamiche
dello svolgimento del processo politico alle stesse dinamiche della costituzione e della sua
interpretazione. Si colloca in questa prospettiva l’articolata elaborazione teorica della costituzione
come processo pubblico avviata da HABERLE a partire dagli anni settanta.
L’approccio di Haberle non rifiuta la teoria dei limiti del potere politico ma propone una rilettura
del costituzionalismo più coerente con le domande di integrazione poste dalle società pluralistiche
nelle quali la costituzione si pone come stimolo e limite , come norma e compito da svolgere.
Nella prospettiva di una concezione della Costituzione come conquista evolutiva il ruolo dello
“Spazio Pubblico” nell’interpretazione costituzionale assume un rilievo centrale in quanto tale
concezione dinamica rinvia a chi in concreto plasma la realtà costituzionale.
Lo spazio pubblico assurge a Geltungschanse e condizione stessa della vigenza di una
costituzionale, la cui capacità di normazione è legata indissolubilmente alla coscienza sociale e al
consenso diffuso tra i consociati. Non sorprende che muovendo da questa premessa Haberle sia
pervenuto successivamente a costruire sulle fondamenta della “ Società Aperta degli Interpreti”
una nuova concezione della Res Publica nella quale le originarie suggestioni dello spazio pubblico
di ascendenza smendiana confluiscono.
Tale nesso deriva dal rifiuto di concezioni della democrazia legate al pensiero identitario, alle quali
viene contrapposta l’idea che la democrazia è essenzialmente “ organizzazione della società di
interessi antagonistici e del conflitto”. L’Offentlichkeit è per l’appunto lo spazio in cui la società si
organizza democraticamente; uno spazio che non è solo quello dell’agorà ma è comprensivo di
piani molteplici e differenti forme attraverso le quali esso prende corpo giuridicamente. Cosicchè in
definitiva, la pubblicità concorre si a dare configurazione giuridica all’aspirazione democratica della
costituzione, ma non soltanto sul piano formale delle procedure della comunicazione, poiché
grazie ad essa la democrazia si risolve anzitutto nella concretizzazione di contenuti radicati nella
comunità politica. Ne deriva una concezione della Res Publica che si fonda sulla triade
Privato/Pubblico/Statale, i cui termini sono differenziati nella loro identità ma non sono scorrelati,
perché interagiscono in un foro di interdipendenze che non si risolve in un insieme di regole
procedurali del discorso pubblico, ma attinge muovendosi sul terreno sostanziale, al significato
profondo del bene comune, che in una società pluralistica non è monopolio dello stato, ma si
alimenta da una società organizzata in uno spazio pubblico.

IX. Diritti fondamentali e “integrazione” costituzionale in Europa.


Nonostante importanti sviluppi, culminati di recente con il completamento delle procedure di
ratifica del Trattato di Lisbona, si può obiettare invero che , tale processo non potrebbe dirsi
esaurito, almeno per chi muova dall’assunto che ciò richieda l’approdo ad un compiuto sistema di
statualità federale. Si aggiunge, spingendo lo sguardo all’Europa “allargata” dall’area della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che i vincoli nascenti da questa sarebbero pur sempre
quelli derivanti da un trattato fra stati sovrani, e che dunque neppure il sistema Cedu sarebbe
ancora in grado di sostenere un itinerario di integrazione fra gli stati contraenti.
Queste obiezioni peccano nel proporre una accezione troppo statica, e perciò stesso, in conflitto
con il fenomeno dell’integrazione. Il dibattito in corso da anni, il quale ha visto emergere, con
riferimento all’UE, un ventaglio innovativo di opzioni ricostruttive, dimostra con evidenza
l’insufficienza di schemi concettuali consolidati e la necessità di opzioni adeguate alla
comprensione della realtà in trasformazione. Né è casuale che questo dibattito sia stato in larga
misura suscitato dalla reazione all’approccio emblematicamente espresso da Maastricht-Urteil del
Bundesverfassungsgericht del 1993. In definitiva le incertezza manifestatasi in sede storica,
almeno dopo Maastricht circa la qualificazione del processo di costituzionalizzazione dei trattati
sono assai indicative, giacchè ne gli apparati ricostruttivi elaborati dal diritto delle organizzazioni
internazionali, né quelli giocati sulla distinzione fra confederazioni di stati e stati federali, risultano
più adeguati. Una inadeguatezza che è storica piuttosto che dogmatica, poiché l’assetto delle
Comunità Europee prime e dell’Unione Europea poi si riflette in I luogo in una inedita dimensione
della statualità sconosciuta dalla Staatslehre tradizionale, in quanto non più incentrata sulla
pienezza della sovranità ma organizzata su “Limitazioni della Sovranità”. Sebbene la risposta alle
sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate in Europa fino alla conclusione della seconda
guerra mondiale abbia trovato sviluppo, anche nel caso della Cedu, attraverso documenti dotati
della forza vincolante propria dei trattati internazionali, è affermazione largamente condivisa che la
Convenzione presenti caratteri peculiari, non integralmente riconducibili agli schemi consolidati del
diritto internazionale pattizio. In primo luogo non sembra convincente restringere il campo di
giudizio sulla natura della Convenzione al profilo dell’accordo fra gli Satti contraenti, poiché questa
visione unilaterale trascura di dare un adeguato risalto ad un obiettivo di trascendimento della
statualità che fa comune ai documenti internazionali e regionali di protezione dei diritti umani
coevi; In secondo luogo soprattutto a seguito del Protocollo n.11, che ha introdotto il “Ricorso
Individuale” dinnanzi alla Corte Europea, la peculiarità del sistema di protezione assicurato dalla
convenzione esce ulteriormente rafforzata anche in confronto alle altre convenzioni regionali sui
diritti.
Il protocollo infatti ha dato forte risalto al ruolo della Corte europea, ponendo al centro del sistema
di protezione un’istanza giurisdizionale chiamata a garantire il rispetto degli obblighi derivanti dalla
Convenzione. La circostanza che la Corte sia divenuta l’Herzstuck del sistema Cedu ha
comportato non soltanto un potenziamento degli obblighi degli stati membri, ma ha dato peculiare
risalto al rapporto tra la Corte europea ed i giudici nazionali, contribuendo ad alimentare fra l’una e
gli altri circuiti di comunicazione assai attivi, benché non adeguatamente strutturai.
Alla luce di ciò, non sembra azzardato inquadrare anche il sistema Cedu all’interno di dinamiche di
integrazione. Attraverso un complesso gioco di influenze e di recezioni negli ordinamenti
costituzionali degli stai contraenti, si è delineato un intreccio molto stretto fra il diritto
convenzionale, le costituzioni nazionali e il diritto dell’UE, con la conseguenza che oggi si può
sostenere che le garanzie dei diritti fondamentali sono elemento essenziale e irrinunciabile della
struttura costituzionale europea, pur essendo distribuite tra sistemi giuridici diversi.
E’ importante sottolineare la responsabilità degli Organi Costituzionali, e dei corpi legislativi in
particolare, nel concorrere alla realizzazione del “Programma di Integrazione”.
Nel quadro di questa responsabilità infatti, agli organi costituzionali degli stati membri spetta il
compito permanente/dauerhafte Aufgabe di fare argine al rischio che il trasferimento di
competenze all’Unione si compia attraverso autorizzazioni in bianco/Blankettermachtigung, con il
pericolo di causare un vulnus nella identità costituzionale/Verfassungsidentitat degli stati membri,
che è doppiamente massa al sicuro dalle costituzioni nazionali e dal trattato e risulta in questo
modo incastonata nel processo di integrazione. Sembra che il Tribunale Tedesco abbia allargato
la prospettiva aldilà dei processi di integrazione dell’UE, suggerendo un approccio dinamico nella
considerazione delle esperienze della cooperazione fra organizzazioni operanti su piani territoriali
diversi. Tutto ciò non può svolgersi in modo da trascurare i limiti nascenti dalle costituzioni degli
stati membri, ma è altrettanto vero che la responsabilità degli organi costituzionali degli stati si
muove sul terreno della condivisione della fiducia nella forza costruttiva dei meccanismi
dell’integrazione. Gli organi costituzionali degli stati membri, proprio perché forti di una
legittimazione democratica, non svolgono il ruolo di cani da guardia della statualità, ma quello di
partecipi attivi di un compito di integrazione in un processo dinamico di attualizzazione della
tensione dialettica fra statualità e sovrastatualità. La comprensione dell’assetto costituzionale dei
diritti fondamentali in Europa non può prescindere dalla consapevolezza del gioco molteplice di
intrecci e di interdipendenze e dalla varietà di attori che prendono parte alla sua attualizzazione.

I Diritti Fondamentali Come Prodotto Della “Modernità” Europea. Libertà E Dignità


Dell’uomo Nella Prima “Modernità” Europea.
I diritti radicati nella cultura giuridica e politica europea ne sono elemento costitutivo, considerando
come essa si è sviluppata storicamente in una secolare tradizione di pensiero. I diritti in quanto
pilastro delle tradizioni costituzionali comuni europee, sono radicati nelle conquiste del pensiero
filosofico occidentale e nell’idea di fondo che, sia nel mondo umano che nell’universo fisico non vi
sia posto per il dominio del caso. Tutto l’itinerario della formazione di un patrimonio costituzionale
europeo in tema di diritti è inseparabile dalla premessa che anche nel mondo umano, così come in
quello della natura, sia rintracciabile un ordine derivante da un processo di razionalizzazione.
Se si vogliono cogliere in profondità i caratteri del patrimonio europeo dei diritti fondamentali
occorre scavare in quel poderoso processo di trasformazione della società che va sotto il nome di
Modernità Europea. In queste vicende sono confluite, è innegabile, le influenze dalla tradizione
greco-romana e giudaico- cristiana; ma è altrettanto indubbio che con l’affermarsi della modernità,
risalenti suggestioni siano state rielaborate e ripensate filosoficamente nel quadro di una visione
nuova ed essenzialmente antropocentrica del mondo.
In questa cornice è giocoforza riconoscere che il discorso sui diritti nella cultura europea ha preso
le mosse dalla riflessione sull’uomo e sulla dignità umana nel pensiero dell’Umanesimo e del
Rinascimento. Chi ripercorre tale pensiero non ha difficoltà a rintracciarvi non solo un’immagine
dell’uomo sorretta da una concezione elevata della sua dignità, ma un’attenzione puntuale e
profonda per tutto l’ampio spettro delle espressioni della personalità e un inventario di motivi
ispiratori che faranno molta strada nel discorso europeo dei diritti e nelle più tarde elaborazioni di
esso a partire dall’età del costituzionalismo.
Grazie all’opera di Machiavelli trovò sviluppo quella valorizzazione del mondano e dell’umano che
aveva caratterizzato sin dalle origini il pensiero umanistico-rinascimentale.
Da questo la riflessione Maciavelliana derivo non soltanto l’aderenza alla concretezza
dell’esperienza umana e l’adesione ad una visione razionale della realtà politica, ma soprattutto la
fiducia nelle capacità dell’uomo di far fronte all’imprevedibile con le proprie capacità di ragione e di
decisone. Il nesso tra dignità e libertà trova significative anticipazioni in queste lontane
elaborazioni del pensiero italiano degli albori della modernità.

“Modernità” europea, costituzionalismo e statalismo: alle radici delle “tradizioni


costituzionali comuni”.
Il pensiero Umanistico -Rinascimentale apriva scenari nuovi e introduceva ad una vera e propria
svoltaCopernicana nella concezione dell’uomo nell’universo e delineava una proiezione del
destino dell’uomo verso il futuro che ha costituito il tratto caratteristico del passaggio della cultura
europea alla modernità. Ed infatti, il percorso verso la modernità avrebbe prodotto quella
profanizzazione della cultura occidentale evocata da Max Weber. Si tratterà di progressi graduali e
la modernità europea si profilerà con caratteri ben definiti solo nei secoli XVII e XVIII.
Ma già nel Cinquecento sono riconducibili i tratti di questo imponente processo di trasformazione,
e la scoperta del nuovo mondo, Il rinascimento e la Riforma segneranno la soglia epocale del
passaggio alla Modernità Europea. La transizione alla modernità europea si accompagna
all’acquisizione diffusa di un’autocoscienza della posizione nuova dell’uomo nell’universo.
E’ merito dei HEGEL aver elevato la coscienza temporale della modernità, nel suo significato
intrinsecamente “Autoriflessivo” a criterio di interpretazione storica della fondazione del principio
della soggettività. Nella Fenomenologia dello spirito e poi nelle Vorlesungen sulla filosofia della
storia Hegel ha scolpito i tratti essenziali e la direzione di senso della modernità europea,
facendone coincidere la nascita con un processo di autocoscienza sull’inizio di un’età nuova, che
rompe la continuità con il Medioevo cristiano. Al progresso dell’Autocoscienza” concorrono diversi
elementi, il fiorire delle industrie, la rivoluzione scientifica, le invenzioni della stampa e della
polvere sa sparo, le scoperte geografiche, il sorgere della libertà nelle città, il sorgere delle classi
come articolazioni che sono in rapporto con le condizioni di vita, ma acquistano rilevanza giuridica
anche come determinazioni del potere dello stato. Si deve a Reinhard KOSELLECK il tentativo più
approfondito di riformulare il concetto hegeliano della modernità. La ricostruzione di Koselleck si
muove tra i 2 poli delle categorie storiche dello spazio di esperienza e dell’orizzonte di aspettativa,
ritenute idonee a tematizzare il tempo storico in quanto intrecciano tra loro il passato e il futuro.
Secondo la sua ricostruzione, la divaricazione tra esperienza e aspettativa nell’età moderna è
progressivamente aumentata, ed essa può essere concepita come un tempo nuovo in quanto le
aspettative si sono progressivamente allontanate da tutte le esperienze fatte finora.
Poiché l’orizzonte di aspettativa ha assunto un coefficiente di cambiamento che progredisce con il
tempo, l’intera storia cominciò ad essere concepita come un processo di perfezionamento
continuo e crescente, che deve essere pianificato e realizzato dagli uomini stessi: l’individuo ha
dunque un ruolo attivo di trasformazione in questo mondo.
Appunto in questa cornice è accaduto che ai confini dello “Spazio di Esperienza” e quelli
dell'“Orizzonte di Aspettativa” abbiano cominciato a divergere., con la conseguente propensione
dell’uomo verso un futuro concepito come in principio diverso dal passato e migliore.
Sebbene il dibattito si sia arricchito dei nuovi filoni interpretativi derivanti dagli apporti
dell’evoluzionismo, dello storicismo, del materialismo storico, del surrealismo, della teoria critica,
non può negarsi che la filosofia hegeliana abbia fissato alcuni punti fermi per l’interpretazione dei
percorsi costituzionali europei della modernità. L’aver individuato nella Soggettività il principio
cardine della modernità anche nel suo significato di autofondazione del divenire storico suggerisce
almeno 2 percorsi interpretativi della collocazione di un patrimonio comune di diritti negli itinerari
della integrazione costituzionale in Europa: non solo in quanto il principio della soggettività, così
inteso nella sua proiezione dinamica, costituisce una chiave di lettura della evoluzione delle tavole
dei valori sottese alle esperienze delcostituzionalismo europeo; ma soprattutto in quanto spinge a
considerare i diritti fondamentali europei non come un catasto di documenti costituzionali
stratificatisi nello spazio e nel tempo, né come un monumento della storia o un patrimonio,
prigioniero del suo passato, ma come un inventario aperto al futuro.
E per quanto riguarda i diritti fondamentali europei, questo approccio ha due ordini di implicazioni:
da un lato la proiezione dei diritti europei verso nuovi orizzonti di aspettativa, dall’altro la
consapevolezza che tutto ciò postuli di affidare la funzione di integrazione dei diritti europei a
congegni inclusivi e flessibili, quali non sono soltanto quelli della codificazione di cataloghi, del law
in the books, ma, soprattutto quelli di un law in action, di un diritto vivente attraverso una
molteplicità di attori e richieda la necessità di itinerari argomentativi del giurista adeguati a questa
realtà.

Retaggi storici, identità culturale e pluralismo inclusivo nell’integrazione costituzionale in


europa.
Per comprendere perché i diritti fondamentali sono sempre più al centro dell’integrazione
costituzionale in Europa, ma perché siano divenuti terreno di contrasto nel campo di tempi più
disparati, è necessario aver presente che lo sviluppo storico dei diritti fondamentali in Europa
segna un itinerario complesso, proceduto tra universalismo e particolarismo. L’Europa appare
come il : “luogo di confluenza ed il campo di insediamento di culture formatesi fuori dal continente,
ma allo stesso tempo come il terreno di elaborazione di fenomeni di omologazione e di egemonie
culturali”. E’ significativo che le contraddizioni che hanno accompagnato l’identità culturale
europea siano presenti proprio nella cultura dell’illuminismo, come testimonia, una delle
espressioni più alte, Le Lettres Persanes di Montesquieu: il lungo viaggio del protagonista è un
travagliato itinerario di formazione alla inedita scoperta di un paese di eretici e della molteplicità
delle concezioni del mondo. Questo travagliato itinerario, indica che la storia dei diritti
fondamentali in Europa riflette, per un verso gli elementi di “Unità” che nella cultura giuridica
europea sono stati mediati dall’affermazione dell’immagine dell’uomo coessenziale alla Modernità
europea, e per altro verso essa disegna un tracciato frastagliato, dal momento che la “Pluralità dei
diritti nazionali è parte dell’identità e della cultura giuridica europea”.
La tensione fra unità e pluralità spiega perché lo sviluppo dei diritti fondamentali in Europa non
abbi seguito né un percorso lineare né sia giunto all’approdo di una europaische Offentlichkeit
pacificata dei diritti; ed ancora piega perchè nel dibattito sui diritti nell'integrazione costituzionale
europea non sia stato difficile ritrovare le dicotomie che il pensiero giuridico ha elaborato in un
lungo arco di tempo: quella fra “Valenza Oppositiva e Valenza integrativa” dei diritti, fra “potenziale
difensivo e potenziale di Liberazione”. Questo spiega infine perché la formazione di un sistema
europeo di diritti fondamentali non possa che svilupparsi in modo flessibile.
L’esperienza europea dell’integrazione sopranazionale ha messo capo alla formazione di un diritto
comune destinato a svilupparsi sul piano dei principi: un diritto strutturato per principi che mette in
comune solo quel che è davvero fondamentale. A questo diritto sussidiario non si addicono né
l’idea di un diritto imposto dall’alto né quella di un sistema gerarchicamente ordinato.
Ciò perché, la formazione di un nuovo diritto comune europeo consiglia un approccio che superi
trasversalmente i confini dei diritti nazionali, e richiede che le sue prestazioni di unità si svolgano
in modo aperto e flessibile.

Ordinamento europeo dei diritti e valori fondativi del diritto costituzionale europeo.
L’ordinamento europeo non si presenta appiattito da una dimensione di assoluto relativismo,
indifferente alle molteplici componenti culturali che si intersecano nella società europea.
È neutrale rispetto alla molteplicità di concezioni del mondo, ma non rispetto ai contenuti di valore
che lo alimentano. Il riferimento a valori fondativi di un’identità comune rappresenta una via
obbligata per conferire ad esso una propria autonoma forza.
La tendenza a costruire tale ordinamento come un mero riflesso delle limitazioni della sovranità
degli stati denota non soltanto una visione assai riduttiva delle sue potenzialità, ma altresì un
marcato e persistente pregiudizio di stampo giuspositivistico che tende a sacrificarne il carattere
aperto e pluralistico. Nella storia culturale europea lo Spazio Di Esperienza è intessuto di valori
fondativi che ne hanno accompagnato lo sviluppo per un lungo periodo, esempi sono il valore
della libertà, quello dell’autodeterminazione e del dominio dell’uomo sulla vita quotidiana..
E, tuttavia, se lo spazio di esperienza è popolato di valori immersi nella storia, l’orizzonte
dell’aspettativa non smarrisce per ciò stesso il carattere della proiezione al futuro.
Il rapporto tra valori dell’ “Identità costituzionale europea” e “Storia” si profila problematico anche
sotto un altro profilo.
Uno sguardo sulla storia europea dimostra che il susseguirsi di profonde trasformazioni ha
rappresentato il Sonderweg alla costruzione di una identità della cultura europea.
Mi riferisco alle grandi rotture della storia di questa, come le guerre di religione, la rivoluzione
scientifica, la rivoluzione industriale.
Un itinerario che ha fatto emergere conflitti laceranti più che momenti di ricomposizione unitaria,
con ricadute decisive sulle esperienze culturali: conflitti religiosi; tensione tra rivoluzione e principio
di nazionalità; tra sviluppo capitalistico e antagonismo di classe.
Chi si arresti a considerare la stori europea solo come un itinerario di irrisolte fratture, riesce
difficile immaginare in che modo una pluralità disomogenea di valori emersi da una storia di
tensioni e conflitti abbia potuto alimentare un0identità comune.
Il punto è che: per un verso i due grandi poli ispiratori della cultura europea, quello greco-romano
e giudaico- cristiano, si sono formati prima che l’Europa si delineasse, e per altro verso dalla
rottura dell’unità originaria della cultura europea alimentata dal medioevo cristiano sono derivate
divisioni e fratture identitarie profonde che sono parte integrante della storia della modernità. Il
punto decisivo sta nelle capacità di integrazione dispiegate nel discorso europeo dei diritti
dall’autocomprensione fondata su valori che non è statica, ma evolutiva.

Il costituzionalismo multilivello, le ragioni dell’integrazione, le risorse della comparazione.


La sovranità degli stati non riveste più i connotati di un’ assoluta supremazia, ma si misura con gli
spazi di gioco di frammenti di sovranità di altre istituzioni che concorrono con essa. Quello dei
diritti fondamentali è stato il terreno privilegiato di processi di scambio, di migrazioni, di recezioni
incrociate che hanno assicurato in modo dinamico l’equilibrio tra la formazione di un diritto
costituzionale comune e la preservazione di di un profilo identitario plurale.
In questa cornice quello dei diritti fondamentali è stato il terreno privilegiato di processi di scambio,
di migrazioni, di recezioni incrociate che hanno assicurato in modo dinamico l’equilibrio tra la
formazione di un diritto costituzionale comune e la preservazione di un profilo identitario plurale.
Si comprende allora perché il diritto europeo si presenti come un : “laboratorio paradigmatico della
comparazione giuridica e come banco di prova della potenzialità del metodo comparativo”.
È merito di Peter Haberle e Pierre Legrand aver avviato un rinnovamento del metodo comparativo,
il quale muove dalla premessa del carattere intrinsecamente culturale della comparazione
giuridica. Secondo HEBERLE, poiché il mutamento culturale colora l’interpretazione
costituzionale, l’approccio ad essa non può che tener conto del fatto che i testi acquistano nelle
diverse culture giuridiche, nello spazio e nel tempo, contenuti e significati differenti.
Proprio per la collocazione centrale che Haberl attribuisce alla comparazione, negli itinerari
dell’interpretazione e della scienza giuridica in generale il metodo comparativo non può arrestarsi
alla costruzione di schemi, di famiglie, poiché la comparazione si alimenta della tensione dialettica
fra l’uno e il diverso.
La riflessione di Haberle sulla comparazione giuridica ha offerto 2 indicazioni di metodo:
la prima è una comparazione che opera su Bilder. Haberle suggerisce che il giurista debba
operare su Leit-bilder, allo scopo di ordinare il diritto utilizzando metafore per elaborare principi.
La seconda indicazione di metodo si condensa nella formula del Textsufenparadigma, cioè
sull’analisi dei livelli testuali, finalizzata alla comprensione degli itinerari di sviluppo dello stato
costituzionale.
L’analisi dei livelli testuali ha sì una finalità tipologica, ma non statica, perchè si svolge nella
dimensione storico-evolutiva di una Zeitachse.
La scelta di far intervenire nell’analisi comparativa una pluralità di approcci riesce a collocare la
comparazione direttamente sul terreno ermeneutico, contribuendo ad attivare in questa sfera
processi di precomprensione idonei ad indirizzare la relazione dialettica con l’alterità nello studio
dell’esperienza giuridica.
Occorre prendere atto che la compenetrazione fra i diritti nazionali che i processi di integrazione
hanno determinato non ha prodotto un sistema giuridico assolutamente uniforme. Essi hanno
prodotto l’effetto di mettere in comunicazione fra loro sistemi giuridici differenti in un quadro
sorretto da sfere di competenza prefissate, ma ispirato a criteri di flessibili e sussidiari.
Lo spazio e il tempo dei diritti fondamentali europei: identità culturale e integrazione
sociale. I caratteri di un ordinamento europeo dei diritti, la formazione di un diritto per principi,
hanno fatto perdere i connotati di compattezza di un ” Diritto Posto” per configurarlo come un
“Diritto In Processu”, espresso non da un assetto ordinato di legislatori, ma da Fora discorsivi,
giurisdizionali e non, di comunicazione pubblica.
Di tale ordinamento è necessario anzitutto delineare le dinamiche di funzionamento. Occorre
considerare in primo luogo gli “Strati Temporali” attraverso i quali si sono formati i vari “livelli” della
articolazione di un sistema europeo dei diritti fondamentali.
La molteplicità degli strati temporali che sono confluiti nell'ordinamento europeo dei diritti si
distende su uno spazio esteso, sul quale si dispone il livello delle Costituzioni Nazionali. Esso
compre l’area dell’Unione Europea e quella dell’Europa allargata alla Cedu e all’OSCE e su di
esso insistono i testi costituzionali risalenti ad epoche diverse.
Convivono costituzioni collocate all’interno di esperienze di diritto codificato ed assetti
costituzionali sviluppatisi all’interno di esperienze di common law; costituzioni le quali poggiano su
una Wertordnung finalizzata a realizzare un vigoroso disegno di coesione sociale e costituzioni di
recente generazione.Occorre aggiungere che negli ordinamenti decentrati i cataloghi nazionali dei
diritti vanno coordinati con quelli compresi nelle costituzioni degli stati membri o negli statuti di
autonomia delle regioni.
E, tuttavia, esperienze europee pur profondamente differenti sembrano dimostrare la tendenza
alla formazione di processi di integrazione e di completamento.
Emblematica la vicenda della riforma degli statuti delle comunità autonome in Spagna, profilatisi
come un importante laboratorio di sperimentazione in materia di diritti.
Non può tacersi peraltro che il ruolo dei cataloghi statali o regionali risulti oggi ridimensionato,
avendo contribuito a ciò trasformazioni strutturali degli assetti decentrati derivanti dalla espansione
dei compiti pubblici che ha determinato una tendenza alla centralizzazione della disciplina di
questi. Tuttavia, l’esperienza della relazione fra costituzioni federali/statali e statali/regionali
conduce alla tensione fra funzione di preservazione identitaria e funzione di coesione economico-
sociale dei cataloghi dei diritti. Ma se le società nelle quali i legami di appartenenza tendono a
differenziarsi ed articolarsi ed il territorio riflette questa disarticolazione non sarebbe più possibile
predicare l’eguaglianza in chiave di assolutezza o di universalismo, secondo lo schema risalente
all’eredità rivoluzionaria in Francia, ciò comporta che anche l’eguaglianza si connetta
indissolubilmente alla convivenza di identità molteplici.

Verso un sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali?


La Convenzione Europea del 1950 si prefigge la salvaguardia di uno standard minimo di tutela dei
diritti nell’area degli stati contraenti. Essa crea un sistema non statico, ma progressivamente
evolutosi un senso giurisdizionale attraverso riforme progressive, come quelle degli anni Novanta,
le quali sono intervenute in modo incisivo sulla razionalizzazione delle procedure, sui sistemi di
accesso e sulla struttura del giudizio. Ne è risultato un livello di protezione reso assai incisivo dalla
pervasività delle pronunce della Corte, idonee a colpire uno spettro amplissimo di manifestazioni
della sovranità degli stati contraenti.
Quanto al livello di protezione assicurato dal diritto dell’Unione Europea, anche esso non va
considerato nel suo sviluppo come separato dagli altri con i quali si è misurato in un fitto scambio
di interdipendenze e di contaminazioni.
In un itinerario al quale ha contribuito in modo rilevante la giurisprudenza creatrice della Corte di
giustizia, in un confronto serrato non soltanto con le altre corti europee, ma altresì con le istituzioni
comunitarie e con gli stessi organi costituzionali degli stati.
Si è delineato cosi un itinerario sviluppatosi lungo 2 direttrici:
- quella, essenzialmente Giurisprudenziale, della comparazione selettiva della Cedu e delle
tradizioni costituzionali comuni alla luce delle finalità istituzionali dell’Unione, codificata dopo
Maastricht dall’art.6 TUE;
- quella della Crescente Significanza Valoriale dei diritti europei, testimoniata dalla struttura della
Carta di Nizza, la quale ha avuto poi più di un’eco significativa anche nella giurisprudenza
comunitaria.
Non va certo trascurato il quadro risultante dal nuovo testo dell’art.6 del TUE dopo le riforme di
Lisbona , il quale ha attribuito alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE il medesimo valore
giuridico dei trattati e ha previsto l’adesione dell’Unione alla Cedu.
Il nuovo testo inserisce la codificazione di alcune opzioni politico-costituzionali in materia di diritti
in un quadro di sostanziale continuità storica e di coerenza con i caratteri peculiari dell’assetto
costituzionale dell’UE. Fra i livelli nazionali e quelli sovrastatuali dell’ordinamento europeo dei
diritti intercorrono rapporti complessi. Nella dimensione diacronica, anzitutto, dal momento che lo
sviluppo dei “sistemi” si è collocato a cavallo delle svolte nodali del costituzionalismo europeo del
Novecento. Ciò ha favorito un flusso di relazioni incrociate, in quanto il sistema della Convenzione
ha rispettato acquisizioni già saldamente radicate nell’esperienza costituzionale europea
occidentale e attraverso le riforme successive si è progressivamente adattato agli sviluppi di essa.
Per altro verso, fra le costituzioni europee più recenti è riscontrabile la tendenza a costruire un
impianto dei diritti fondamentali modellandolo sulle acquisizioni del sistema convenzionale.
Va evidenziato inoltre che l’ordinamento europeo dei diritti fondamentali, sebbene irriducibile ad
un sistema unitario e gerarchizzato, negli spazi di gioco tra i diversi livelli trova una sua coerenza
pluralistica. Clausole di protezione del contenuto essenziale, tecniche di bilanciamento tra diritti,
canoni di proporzionalità, sono tutte formule ormai entrate a fare parte delle dinamiche
dell’ordinamento europeo dei diritti attraverso svariate migrazioni da un ordinamento all’altro e da
un livello all’altro. La Tutela Del Multilivello Dei Diritti contribuisce a scardinare ulteriormente lo
schema edificato sulla difesa della sfera di libertà privata da attacchi di un soggetto investito di
esclusivi poteri sovrani.
La tutela multilivello delinea infatti uno scenario nel quale i titolari dei diritti hanno interlocutori
differenti, nessuno dei quali si trova peraltro nella condizione di avere l’ultima parola.
Con la formazione di un ordinamento Europeo dei diritti non soltanto si è allargato, grazie ad un
assetto di armonizzatori flessibili tra i diversi livelli, il ventaglio delle opportunità nella protezione di
nuovi spazi di libertà, ma soprattutto si è precostituito uno schieramento di “Cani di Guardia” dei
diritti Europei, tanto più necessario in quanto gli attori nazionali sono armai palesemente
inadeguati da soli a far fronte ai rischi aumentati di lesione e violazione dei diritti umani provenienti
da attori “privati” transnazionali. Deve dirsi però ancora lontana una fase di stabilizzazione.
Un primo nodo controverso riguarda i Rapporti tra la Cedu e gli Ordinamenti Nazionali.
Un assetto multilivello rifugge da schemi omologati i quali rischierebbero di imbrigliare le culture
giuridiche differenti che hanno condizionato la varietà delle soluzioni riscontrabili: l’incorporazione
della Convenzione nel livello costituzionale come, in Austria; la non incorporazione, ma con il
contestuale riconoscimento in via perentoria che essa ha rango di diritto costituzionale non scritto,
come in Svizzera; la incorporazione nell’ordinamento interno, come nel Regno Unito per effetto
della Human Rights Act del 1998, ma sotto la riserva della parliamentary sovereignty e dunque al
di fuori di prospettive di tipo gerarchico; la collocazione intermedia fra la costituzione e la legge
ordinaria con esiti diversi in Spagna, in Francia; la soluzione dualistica che riconosce alla
Convenzione il rango della leggere ordinaria che la immette nell’ordinamento nazionale, soluzione
condivisa dall’ordinamento tedesco e da quello italiano. In Germania la soluzione dualistica ha
trovato le sue applicazioni più fertili sul terreno della integrazione materiale e della armonizzazione
interpretativa dei contenuti anziché su quello della disposizione gerarchica delle fonti.
Diversamente la Giurisprudenza Costituzionale Italiana, pur muovendosi come quella tedesca in
una cornice di tipo dualistico, ha evidenziato persistenti rigidità nella gestione del rapporto fra
Costituzione e ordinamento convenzionale. Dopo un itinerario tormentato, le sentenze n.348 e 349
del 2007 sembrano aver delineato il primo tentativo di dare soluzione organica al problema
dell’efficacia della Convenzione delle pronunce della Corte europea.
Nelle due sentenze si sono intersecati invero diversi piani dell’argomentazione: la presa d’atto del
monopolio della Corte Europea nell’interpretazione della Convenzione; il richiamo al rango
legislativo dell’atto esecutivo interno della convenzione, che sono il nuovo testo dell’art 117, 1,
avrebbe elaborato a rango di norma interposta nel giudizio di costituzionalità delle leggi interne
con essa configgenti, con la conseguente chiusura di ogni possibile varco alla disapplicazione
diretta di questa da parte dei giudici nazionali. L’assunzione in via esclusiva del parametro dell’art
117, che ha messo fuori gioco altri parametri pure fondatamente invocabili, come l’art 2 cost o l’art
11. Ne è derivato un indirizzo non privo di incertezze argomentative.
Più di recente la giurisprudenza del 2007 ha incontrato qualche temperamento, e l Corte sembra
riconoscere che il controllo di costituzionalità della legge nazionale per contrasto con il parametro
convenzionale interposto venga a configurarsi come l’ultima e del tutto eventuale opzione al
termine di un complesso circuito ermeneutico che vede come protagonisti il giudice a quo,
chiamato a valutare se il contrasto non possa essere risolto per via interpretativa, e la stessa
Corte costituzionale, alla quale viene riconosciuta una funzione interpretativa bifronte, sul versante
dell’apprezzamento che il contrasto risulti insanabile alla luce di unìinterpretazione plausibile
anche sistematica della norma interna rispetto alla norma convenzionale nella lettura datane dalla
Corte di Strasburgo, e sul versante della valutazione di un contrasto insanabile della norma
convenzionale con la Costituzione, che precluderebbe alla prima di assurgere a parametro
interposto.
In una pronuncia appena successiva, nella SENTENZA N.317 DEL 2009, il distacco dalla
giurisprudenza del 2007 sembra netto. La questione del rango della Convenzione nella cornice
dell’art.117 1°co. Cost. Resta sullo sfondo, ed il significato della norma costituzionale viene
ricostruito all’interno di una prospettiva di integrazione materiale tra ordinamenti in un assetto
multilivello. Un secondo nodo controverso riguarda la Dottrina dei controlimiti, la cui elaborazione
da parte delle corti costituzionali italiana e tedesca ha in origine contribuito ad attivare il processo
di riavvicinamento dell’ordinamento comunitario ai contenuti e agli standard di tutela dei diritti
fondamentali negli ordinamenti nazionali, ma rischia di concorrere in futuro ad irrigidire le relazioni
fra i vari livelli. Nelle giurisprudenze degli ultimi anni, segnali di abbandono della dottrina dei
controliminti in favore di criteri più elastici convivono con indicazioni di segno diverso.
Vanno segnalate quelle che denotano la tendenza a trasferire la dottrina dal piano della
intangibilità di un nucleo forte degli ordinamenti costituzionali degli stati membri a quello della
salvaguardia di un nucleo costituzionale di controlimiti propri di livelli sovrastatuali. Mi riferisco alla
SENTENZA BOSPHORUS della Corte di Strasburgo, che ha affrontato una questione nella quale
si fronteggiavano la garanzia della proprietà riconosciuta nel Protocollo n.1 della Convenzione e
norme comunitarie attuative di convenzioni internazionali sul trasporto aereo: la Corte europea ha
risolto la questione individuando una soluzione nel bilanciato equilibrio fra diritti fondamentali
convenzionali e diritti fondamentali comunitari.
Un approccio differente sembra ispirare la SENTENZA KADI della Corte di giustizia del 2008, con
la quale è stato annullato un regolamento comunitario in esecuzione di una risoluzione del
Consiglio di sicurezza dell’Onu.
La Corte ha affermato che gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere
l’effetto di compromettere principi fondamentali dei trattati, fra i quali vi è il principio secondo cui gli
atti comunitari devono rispettare i diritti fondamentali. L’intera vicenda del rapporto tra diritti
fondamentali comunitari e diritti fondamentali nazionali dimostra come l’elaborazione della dottrina
dei controlimiti abbia costituito un fattore di rigidità nella risoluzione di un rapporto ben altrimenti
complesso. Un terzo nodo problematico riguarda il Catalogo dei diritti fondamentali dell’UE.
L’ordinamento europeo dei diritti fondamentali appare oscillante fra la neutralizzazione delle
istanze di libertà provenienti da una società complessa e la costruzione di un assetto ordinato
intorno a tavole di valori. Nella prima stagione della giurisprudenza comunitarie le aperture sul
fronte dei diritti furono costruite sull’uso giurisprudenziale dei canoni di un mercato aperto e in
concorrenza e dei divieti di discriminazione. In una seconda stagione, avviatasi con l’art.6 TUE nel
testo formulato a Maastricht e proseguita con la carta di Nizza e le disposizioni di principio del
progetto di trattato costituzionale, in gran parte confluite nel Trattato di Lisbona, sembra
consolidarsi lo sforzo di costruire una assiologia dei diritti europei. Questa tendenza non è stata
priva di ricadute nella giurisprudenza comunitaria; ne costituisce un esempio la SENTENZA
OMEGA della Corte di giustizia del 2004. La Corte ha incentrato la sentenza sul riconoscimento
della intangibilità della dignità dell’uomo come principio derivante dalle tradizioni costituzionali
comuni e non solo come fondamento costituzionale interno di misure restrittive della libertà
comunitaria di prestazione di servizi adottate dalla Germani per motivi di ordine pubblico.
Una tensione della quale la Corte di giustizia sembra farsi carico, assegnando alla dignità
dell’uomo la preferenza nella ponderazione con le libertà economiche.
L’Europa ha posto e pone, in quanto scenario di migrazioni e di scambi, sfide inedite, che
investono ad un tempo le basi dei diritti fondamentali e i meccanismi dell’integrazione sociale.

Potrebbero piacerti anche