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La storia dei diritti costituzionali ha avuto uno sviluppo complesso, caratterizzato da trasformazioni
radicali delle situazioni costituzionalmente protette, del quale si possono mettere in evidenza tre
stadi:
Rivoluzione industriale e spinta del movimento dei lavoratori e del socialismo del XIX sec.
Seconda generazione dei diritti finalizzati soprattutto ad assicurare al proletario il
soddisfacimento dei bisogni economici essenziali. Troveranno compiuto assetto nelle costituzioni
del XX secolo e si dirameranno lungo due direttrici: da un lato gli asseti collettivistici e centralizzati
degli stati socialisti, dall’altro gli ordinamenti di democrazia pluralistica. Questi ultimi si
svilupperanno secondo diverse modalità: attraverso l’estensione della partecipazione alla vita
politica di ampi strati della popolazione con la valorizzazione dei diritti di riunione e associazione,
specie se politica e sindacale. In secondo luogo, nel tentativo di coniugare il riconoscimento delle
libertà economiche con meccanismi di ridistribuzione delle ricchezze e riequilibrio delle
disuguaglianze di fatto.
Nello sviluppo storico dei diritti è possibile individuare diversi filoni fondamentali:
Fondamento giusnaturalistico dei diritti: i diritti che si delineano a partire dalla fine del XIII secolo
confluiscono nel processo di costituzionalizzazione dei diritti.
Ritroviamo, così, nelle carte costituzionali (anche le più recenti) tracce della sistemazione lockiana
dei diritti naturali alla vita, alla libertà, alla proprietà che nelle costituzioni finiscono col diventare i
beni primari tutelati. Alla base di tutto c’è il riferimento all’immagine dell’uomo che rimanda ad una
situazione pre-statuale, perché radicata nella natura dell’uomo che lo stato è chiamato a
rispettare. L’immagine dell’uomo è costruita su alcuni beni primari della vita, cui corrispondono
diritti universalmente riconosciuti in quanto meritevoli di tutela.
Fondamento dei diritti in un legislatore: il punto di partenza è comune a quello del filone
giusnaturalista, come sottolinea, infatti, Kant con il richiamo alla dignità dell’uomo e all’idea
dell’uomo come scopo di se stesso e non come mezzo del potere sovrano. Se ne distacca,
invece, per la concezione del diritto come mezzo, strumento che ha la funzione di garantire la
libertà, coordinando gli individui che sono naturalmente predisposti al conflitto. In questa cornice, il
diritto posto da un legislatore sovrano, assume un ruolo essenziale come condizione della
garanzia dell’autonomia del soggetto e della sua indipendenza dall’arbitrio degli altri.
Un terzo filone segue la divisione tra concezioni oppositive e concezioni integrative dei diritti, che
a partire dall’esperienza della Costituzione di Weimar segnerà la storia del costituzionalismo,
evidenziando antinomie che si riveleranno fondamentali.
Le concezioni oppositive muovono dalla premessa della collocazione esterna della società rispetto
all’apparato del potere.
Si sottolinea il carattere essenzialmente antagonistico dei diritti, intesi, dapprima, come
rivendicazioni corporative di ceti e ordini privilegiati contro un’autorità politica superiore;
successivamente, nella prima fase del liberalismo costituzionale, come situazioni soggettive
chiamate a presidiare il valore assoluto dell’individuo rispetto alla società politica. I diritti sono
considerati margine ultimo posto a tutela della libertà individuale. La tutela dei diritti, quindi, è vista
come la difesa dell’individuo agli attacchi portati dall’esterno alla sua sfera di libertà.
Nelle concezioni integrative (ordinamentali) prevale, invece, un approccio che intende i diritti come
elementi costitutivi dell’ordinamento e fattori qualificanti della forma di stato.
L’ordinamento esprime un sistema culturale che non è monolitico, ma che comprende valori
minoritari e compromessi. Secondo Rudolf Smend, le ragioni della crescita del rilievo sistematico
dei diritti fondamentali non risiede nella maggiore tutela delle minoranze contro i pericoli
dell’assolutismo della maggioranza parlamentare. I diritti fondamentali non sono l’oggetto di una
dimensione puramente antagonistica, ma sono venuti ad assumere nelle costituzioni la stessa
funzione costitutiva che, in passato, era assicurata dal principio monarchico. L’interpretazione
liberale dei diritti, intesi come mere limitazioni del potere statale, se appariva coerente con assetti
nei quali l’individualità dello Stato era simboleggiata anche della sua “pienezza” nei confronti della
società ,viene superata con il venir meno di questa compattezza e con l’ingresso prepotente della
società nella costituzione.
Rimane, tuttavia, l’esigenza di unità, cioè, di una comunità di popolo che, attraverso il diritto,
ritrova l’unità, identificandola nei valori materiali dell’integrazione.
Smend, finisce per riconoscere ai diritti fondamentali la funzione integrativa degli elementi
simbolici dello stato (inni, bandiere) con un valore, però, che trascende la mera rappresentazione
simbolica dell’unità, svelando una funzione integrativa e costitutiva dell’ordinamento nel suo
complesso.
Smend, concludendo, capovolge le concezioni oppositore e sostiene che i diritti non devono
essere considerati come limiti, bensì come fattori di rafforzamento del potere statale, i cui atti
danno a tale potere legittimazione effettiva.
Il quarto filone è quello del contrattualismo, teoria alla cui base vi è l’idea di un contratto sociale
quale giustificazione del legame che unisce gli individui nella comunità politica.
Nelle elaborazioni originarie, il contrattualismo aveva teorizzato una giustificazione razionale
dell’obbligazione politica, basata su una astratta concezione dell’accordo tra individui, immaginati
in una posizione di eguaglianza formale. In tal senso, il contrattualismo, ponendosi in totale
disaccordo con le fondazioni teoriche dei diritti elaborate dagli utilitaristi ( che si focalizzavano
sulla dimensione individuale dell’uomo, impegnato nel tentativo di massimizzare il proprio utile
incompatibilmente, però, con il pieno sviluppo della responsabilità sociale), sulla base di una
presupposta parità formale dei contraenti, è approdato alla completa divaricazione tra libertà ed
eguaglianza materiale.
Tuttavia, non può dirsi che l’approccio contrattualistico abbia rappresentato un impedimento al
tentativo di armonizzare le istanze della libertà con quello della giustizia. Ad esempio, Rawls, nel
tentativo di costruire una teoria della giustizia come “equità”, ha utilizzato proprio il paradigma del
contratto sociale per riformulare la concezione liberale dei diritti e delle libertà fondamentali,
all’interno della quale vengono collocati principi costitutivi della giustizia sociale che consentono
solo disuguaglianze di reddito e di ricchezza. In linea con il contrattualismo moderno, Rawls
sostiene che, alla base dei principi di giustizia c’è un accordo tra persone razionali che intendono
definire i termini fondamentali della loro associazione, in una posizione di eguaglianza.
La “posizione originaria”è uno stato di cose in cui le parti sono rappresentate come persone morali
ed in cui il risultato non è condizionato da contingenze arbitrarie. Per azzerare gli effetti delle
contingenze particolari, che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio
vantaggio le circostanze naturali e sociali, Rawls presuppone che ci sia un “velo di ignoranza”
dietro al quale si pongono le parti e che riguarda i fatti contingenti, ovvero, la conoscenza del
proprio posto nella società, la posizione di classe e dello status sociale, la fortuna nella
distribuzione delle doti e delle capacità naturali. In virtù di tale velo, le parti sono obbligate a
valutare i principi soltanto in base a considerazioni generali e ciò consente, in società altamente
differenziate, di produrre accordi giusti e di correggere l’arbitrarietà del mondo.
L’idea della parità dei contraenti protetta dal velo di ignoranza, trasferita sul terreno delle
istituzioni, si trasforma in una proposta di teoria costituzionale nella quale la priorità della libertà
sull’eguaglianza viene temperata da una seconda regola di priorità, quella della giustizia
sull’efficienza e sul benessere; mentre, il principio di eguaglianza delle opportunità ( secondo il
quale le ineguaglianze economiche e sociali devono essere ricollegate a cariche e posizioni che
sono aperte a tutti, in condizione di eguaglianza di opportunità), viene temperato dal principio di
differenza. Tale principio, essendo indirizzato ad accrescere le opportunità di coloro che ne hanno
di meno ed essendo strettamente connesso al conseguimento di un'equa giustizia distributiva,
afferma che le ineguaglianze economiche e sociali possono essere tollerate soltanto se
apporteranno dei vantaggi ai gruppi più svantaggiati.
Proprio il principio di differenza sembra giustificare le politiche di welfare state, indirizzando le
politiche pubbliche verso interventi retributivi con l’obbiettivo di ridurre le disuguaglianze sociali.
Rawls arriva, in ultimo a formulare una teoria della giustizia operante sui valori politici, quella del
“consenso per intersezione” che opera come fattore di riduzione del conflitto tra valori politici e non
politici. L’approdo alla teoria del consenso per intersezione dimostra la capacità di adattamento
del paradigma contrattualistico.
Costituzionalismo e giusnaturalismo
E’ innegabile che ci sia stato uno stretto legame tra il costituzionalismo e il giusnaturalismo di
matrice razionalista, il quale aveva fatto poggiare l’ordine politico su principi universali radicati
nella natura razionale dell’uomo e ricavati deduttivamente da un ordine razionale della condotta
umana, attraverso metodologie e criteri analoghi a quelli che si sono affermati nel campo delle
scienze fisiche.
Il giusnaturalismo ha, infatti, giocato un ruolo decisivo nell’impostare un nuovo metodo (piuttosto
che nuovi contenuti) nella fondazione di nuovi ordinamenti politici. Il giusnaturalismo, citando
Bobbio, ha giocato un ruolo fondamentale nella battaglia contro il principio di autorità che
dominava nello studio del diritto, fondando la scienza giuridica come scienza dimostrativa e non
più come insieme di regole date, storicamente condizionate e soggette solo all’attività
dell’interprete.
La teoria del giusnaturalismo del sei-settecento fu essenzialmente funzionale alla contestazione
del vecchio sistema di autorità (auctoritas) ed all'affermazione dell'ideologia borghese.
In Inghilterra, all’interno di un clima culturale meno affine all'astrattezza del giusnaturalismo, si era
più orientati al riconoscimento di diritti storici piuttosto che di diritti naturali. Qui il costituzionalismo
moderno si è fondato sulla supremazia del common law, frutto dell'osservazione dell'esperienza
concreta dei rapporti sociali.
Dopo la rivoluzione del 1688, con l'affermazione della supremazia del Parlamento, il legame tra
common law e giusnaturalismo si è incrinato. A studiare tale momento in maniera compiuta è
Locke. Egli, muovendo dalla premessa che c'è un fondamento contrattualistico dell'ordine politico,
mise in discussione sia il ruolo del common law che l'idea dell'esistenza di principi razionali, dotati
di valore universale e indipendenti dal consenso. Per Locke, la base contrattualista coinvolgeva
tanto il momento preliminare della fondazione della società politica quanto il momento successivo
dell'atto istitutivo del governo. Quindi, è difficile in questa prospettiva separare in maniera netta il
pensiero Lockiano dall'argomentazione giusnaturalista.
Locke tentò di conciliare la premessa giusnaturalista con l'approccio individualistico-
contrattualista. L'affermazione di un ordine politico, fondato sull’individualismo, ha dato rilevanza
speciale al valore costitutivo del consenso, derivante dall'incontro delle libertà individuali.
Risulta ambiguo, ad ogni modo, l'apporto del giusnaturalismo al costituzionalismo. Quest’ultimo,
infatti, si regge da una parte sul principio individualistico, per il quale il soggetto è elemento
basilare della natura razionale dell’uomo, dall’altra, sull'attuazione storica di tale principio, che si
basa su un patto che, a sua volta, si regge sul consenso. Proprio questa contraddizione ha fatto sì
che il giusnaturalismo abbia successivamente rappresentato la porta di ingresso del
giuspositivismo statualistico, ponendo le basi ad un ordine politico basato proprio sul consenso.
Il liberalismo giuridico
Il liberalismo ottocentesco si sviluppa dal tronco dell’illuminismo e sulla base di una fiducia
illimitata nelle capacità dell’individuo. Determinante, nello stabilire il raccordo tra il pensiero
illuminista e il liberalismo giuridico, il pensiero kantiano che ha concepito la libertà come supremo
imperativo etico e, cioè, come capacità del volere a determinarsi autonomamente e senza
costrizioni esterne. Nelle prime elaborazioni del liberalismo giuridico si è arrivati a concepire
l’individuo come base della società e delle sue forme organizzative. L’individualismo liberale,
originariamente, è approdato ad una visione antistatualista dell’ordine sociale: lo stato deve
astenersi da ogni cura per il benessere positivo dei cittadini e non compiere alcun passo che non
sia necessario alla loro sicurezza reciproca. Tale versione sarà, però, contraddetta nella fase
matura del liberalismo giuridico.
Nella prima metà dell’Ottocento, l’influenza del pensiero romantico ha fatto emergere nel pensiero
liberale una concezione della libertà che, affrancandosi dalle premesse giusrazionalistiche e
muovendo, invece, da una premessa storicistica, è pervenuta alla conclusione che la libertà non si
incarna più nella ragione astratta, ma negli istituti che l’uomo ha creato.
Da questo pensiero, derivano due filoni che corrispondono a contestualizzazioni storiche differenti
del liberalismo giuridico dell’ottocento: da un lato, l’ammirazione profonda per l’Inghilterra, per il
modo in cui essa aveva conservato libertà radicate nel passato storico del suo popolo; dall’altro
l’idea che lo sviluppo dell’umanità ed anche della libertà devono essere comprese come momenti
di una cosmogonia, trovando posto in una filosofia che voglia essere una spiegazione totale del
mondo e dell’uomo. Il rifiuto dell’astratto intellettualismo settecentesco fa posto, quindi, ad una
visione dinamica della società, che corrisponde alle esigenze della formazione dell’egemonia
borghese. Si sviluppa una concezione conflittuale della società che, come spiega Contant, è
legata al mondo dei commerci, caratterizzato dagli equilibri dei rapporti di scambio.
Questa risulta essere la base della fondazione teorica del moderno pluralismo. Su questo punto
un apporto determinante è stato dato da Tocquville e da Mill: il primo ispirato dall’osservazione
dell’esperienza rivoluzionaria in Francia e dei pericoli del despotismo democratico; il secondo,
invece dalle riforme elettorali e dallo sviluppo dell’organizzazione della società in Inghilterra.
Comune ad entrambi appare la riflessione sul rapporto tra democrazia e liberalismo, che a
quest’ultimo affida il compito di arginare gli eccessi del principio democratico. Secondo
Tocqueville, per porre argine alle nuove forme di dispotismo, non è necessaria la difesa dei
privilegi di classe, ma l’apertura della società, affinché in questa si radichino istituzioni id libertà
che siano in grado di proteggere contro i rischi cui la libertà politica va incontro nella società di
massa. Di qui, da un lato, l’intuizione che la libertà politica deve essere garantita anzitutto al livello
della società attraverso un assetto istituzionale che sia in grado di valorizzare lo spirito di
associazione e l’autogoverno locale; dall’altro, una valutazione positiva della mobilità e quindi dei
contrasti all’interno della società, che non devono essere intesi come fenomeno patologico
dell’ordine politico, ma come risorsa capace di costruire argini al dispotismo. Quanto a Mill, invece,
questi sosterrà che la forma di governo più idonea a sorreggere l’assetto della società in continua
crescita e continuo progresso sia quella del governo rappresentativo. Proprio sulla base
dell’intuizione di Mill, il quale ha sottolineato la necessità di un intervento del legislatore sulla
ridistribuzione della ricchezza, nasce il problema dell’intervento pubblico nell’economia.
Venuta meno l’idea di una società che si autoregola sulla base di un equilibrio naturale, la
concezione di uno stato che rimane indifferente ai conflitti sociali viene sostituita dalla convinzione
che lo stato, spinto da un interesse comunitario, debba ridurre le libertà di alcuni per rafforzare
quella dei soggetti più deboli della società.
Tra i caratteri basilari della sistemazione dei diritti di libertà nello stato liberale il primo aspetto da
considerare è quello del garantismo, ossia, della dottrina costituzionale che costruisce l’intera
organizzazione dei poteri in funzione della protezione delle libertà individuali. Nella prospettiva di
un ordine politico orientato sistematicamente sul principio di libertà, quale quello della prima metà
dell’Ottocento, il legame tra costituzionalismo e garantismo si rivela molto stretto: i diritti di libertà,
alla cui protezione lo stato piegava la propria forza ed i propri strumenti di azione, divenivano
fondamentali, in quanto fondanti la legittimazione dei poteri pubblici. Alla stregua del garantismo,
considerato proprio come dottrina costituzionale, lo stato non appariva quale fine che incarnava
valori giuridici alla cui realizzazione i diritti venivano indirizzati, ma, al contrario, un mezzo che si
legittimava sulla base del fine fondamentale di assicurare spazi di libertà privata. Le libertà
garantite, è bene precisarlo, erano le libertà dello stato monoclasse borghese e il sistema di
garanzie, poste a tutela delle stesse rispetto ad un potere che aspirava all’assolutezza, era a sua
volta funzionale al rafforzamento dell’egemonia borghese.
Il paradigma del DIRITTO DI DIFESA come filo conduttore dell'esperienza del liberalismo
giuridico
Il tema ricorrente nei classici del pensiero liberale del ‘700- ‘800 è l'idea che concepisce la difesa
da aggressioni esterne come la massima espressione della libertà giuridica ed i diritti individuali
come diritti che pongono il titolare al riparo da interferenze nella sua sfera privata provenienti
dall'esterno. Nell'elaborazione dei diritti di libertà come diritti di difesa da aggressioni esterne,
diritti, indirizzati contro le aggressioni esercitate dal potere statale, confluiscono 3 fattori costitutivi:
- lo sviluppo della concezione moderna dello stato;
- il concetto della libertà di agire dell'individuo connaturata con il diritto di natura;
- il tentativo di costruire una relazione dialettica tra sovranità statale e libertà naturale.
La configurazione liberale dei diritti di difesa presuppone, quindi, una concezione che vede lo
stato come l'antagonista per eccellenza della libertà individuale. Alla fondazione teorica della
categoria dei diritti di difesa hanno collaborato, in verità, diversi autori. Hobbes, ad esempio, ha
sostenuto che la libertà consiste nel l'assenza di impedimenti, intendendo questi ultimi come gli
"impedimenti esterni all'azione del soggetto”.
Nel pensiero hobbesiano, quindi, la libertà di agire è libertà da impedimenti alla realizzazione della
volontà individuale e la concezione negativa della libertà si configura come diritto di difesa.
Sopravvive nel liberalismo giuridico il riferimento ad uno stato naturale di libertà che deve essere
difeso da impedimenti esterni e l’idea che si possano certamente definire come tali le legature
sociali. A differenza di Hobbes, però, non c’è nel liberalismo giuridico solamente l’idea della libertà
naturale in chiave prestatuale. Infatti, in esso si innestano anche filoni del giusnaturalismo che
hanno tentato di mettere in correlazione una libertà, in linea di principio, illimitata ed un potere
sovrano, altrettanto assoluto. Una correlazione che, invece, l’opposizione hobbesiana tra libertà
naturale e sovranità aveva cercato di evitare.
Nell’esperienza liberale, il diritto di difesa smarrirà, progressivamente, la carica antagonistica nei
confronti del potere statuale che, inizialmente, costituì un connotato saliente, sebbene non
esclusivo, del liberalismo giuridico e subirà così una torsione in senso statualistico.
Dworkin
Egli parte dalla critica del positivismo di Austin ed Hart. La critica ad Austin riguarda l’impostazione
secondo la quale il diritto si poteva risolvere in un gruppo di regole selezionate e capaci di fornire
un criterio di identificazione unico, rinviando ad una istituzione che ha il controllo finale di tutti gli
altri gruppi. Questa teoria, secondo Dworkin, sarebbe superata perché la società è ora complessa
e il controllo politico è pluralistico e mutevole.
Hart corregge parzialmente questa impostazione, introducendo la distinzione fra regole primarie,
che danno diritti ed obblighi ai consociati, e regole secondarie, che disciplinano i modi di
produzione e l'efficacia delle prime. La distinzione tra regole e principi è dunque molto importante:
se l'ordinamento esprime orientamenti diversi e configgenti, la regola può risolvere il conflitto solo
ribadendo l'orientamento che essa esprime, ma se sono i principi a configgere, il conflitto è
risolvibile solo con un lavoro di ragionevole contemperamento, non potendo sacrificare in toto uno
dei principi interessati nel caso di specie. Questa distinzione tra regole e principi è stata sviluppata
nel quadro della svolta della giurisprudenza della Corte suprema americana, che aveva portato
alla dottrina del clear and present danger e a quella del balancing test.
Alexy
La proposta di Alexy prende le mosse dalla distinzione tra regole e principi, che egli considera la
base della fondazione teorica dei diritti fondamentali. La valutazione, qui, non è in chiave
antipositivistica, come in Dworkin, ma si instaura nel quadro della transizione dalla dottrina dello
stato alla dottrina della costituzione. Le norme delle costituzioni pluralistiche fanno sorgere i cd
“precetti di ottimizzazione”, cioè, un vincolo giuridico a scegliere le soluzioni più idonee allo scopo
fissato dalle norme costituzionali. Queste norme di ottimizzazione non sono suscettibili di
ponderazione ed è questo l'assunto più importante elaborato da Alexy. Esse sarebbero, quindi,
una specie di metaregole, o regole di secondo grado, che indirizzano verso la soluzione dei
contrasti fra principi. Alexy concepisce i principi come argomenti narrativi: diversamente dai
precetti di ottimizzazione, i principi non sono forniti di una struttura logica (come, invece, le norme
precettive o permissive) ed esercitano la loro funzione pervasiva nell'ordinamento solo sul terreno
dell’argomentazione finalizzata, appunto, alla ponderazione.
Lo stato di diritto: rule of law, etat de droit, Rechtsstaat
La formula “stato di diritto” racchiude esperienze e varianti differenti.
L’ idea dell'uomo al centro della società e fine ultimo del diritto fa sorgere un complesso di
strumenti di garanzia finalizzati a contenere l'arbitrio del potere sovrano. In sintesi, l’idea alla base
del concetto di stato di diritto si fonda sul fatto che la libertà individuale pone in primo piano
esigenze di sicurezza e tutela che solo il primato del diritto può assicurare. E' il dominio del diritto.
Rule of law
Versione inglese del concetto di stato di diritto che si afferma nel XVII secolo durante le rivoluzioni
del 1688-89 contro l'assolutismo del sovrano.
Si stabilisce la soggezione del sovrano al diritto fatta valere dapprima dai giudici di Common law
e, poi, durante la rivoluzione del '68, sancita dall'ottenimento del principio per cui gli atti del potere
esecutivo devono trovare fondamento nell'autorità del parlamento. Il dominio del diritto è
determinato dal parlamento ma allo stesso tempo la stessa sovranità parlamentare deve
esercitarsi nel rispetto di un minimo di giustizia materiale oltre che formale.
Il divieto di legislazione discriminatoria e un robusto impianto di garanzie giudiziarie sono i pilastri
del rule of law. Nel panorama e nelle varianti dello stato di diritto, la rule of law riflette le peculiarità
delCommon law. Tale visione è, dunque, molto attinente alle dinamiche peculiari dello spirito
giuridico inglese e, pertanto, non è facilmente comprensibile dal giurista continentale. Si può,
infatti, rimanere sorpresi dall'assenza di riferimenti allo stato o ad un soggetto depositario del
potere sovrano e le difficoltà, in vero, hanno investito anche la traduzione stessa del termine come
regola di diritto o dominio del diritto.
La rule of law, nell’ordinamento di Common law e negli ordinamenti da esso influenzati, ha
seguito percorsi differenti: la rule of law inglese si confonde, soprattutto, con la rivoluzione
gloriosa, con la supremacy Of parliament, nell'assunto che il potere sovrano si identifichi con la
potestà di legiferare, alla quale tutti i poteri debbono conformarsi. Tuttavia, la forza della rule of
law non é ricondotta solo alla supremazia di un diritto soggetto a modifiche deliberate dal potere
legislativo: deriva, anzitutto, dalla supremazia del diritto, così come amministrato dalle corti, un
diritto del quale lo statute law e case law sono parti integranti complementari.
Altra peculiarità é la dottrina del precedente: le cause debbono essere decise secondo principi
induttivamente enucleati dall'esperienza giudiziaria del passato, non dedotti da norme
arbitrariamente stabilite dalla volontà del sovrano (la ragione, non la volontà arbitraria, deve
essere la causa ultima della sentenza). Oggi il panorama appare mutato, perché, innanzi tutto, il
Parlamento non é più in posizione di assoluta supremazia ed ai giudici é consentito dichiarare
invalido lo statute law (ricorrendo opportuni presupposti) contrastante con la rule of law.
Etat de droit
La versione francese ha peculiarità e contraddizioni che riportano alle idee costituzionali della
Rivoluzione, a seguito della quale si sono affermati il primato assoluto dei diritti dell'uomo e della
divisione dei poteri, la fiducia totale nella legge e nel mito della volontà generale e la profonda
sfiducia nel ruolo del giudice. Questo spiega perché, l'idea francese dello stato di diritto non
riconoscerà la preminenza dei diritti fondamentali e della costituzione fino al 1946 e alla forte
svolta nel 1971 con il bloc de constitutionnalite. Preminenza del potere legislativo che è guardiano
della costituzione e garante dei diritti e rifiuto dell'attività interpretativa del giudice che deve solo
procedere con ragionamenti sillogistici nell'applicazione della legge.
Secondo Carrè de Malberg, lo stato di diritto si contrappone e supera lo stato di polizia, durante il
quale l'apparato amministrativo può applicare ai cittadini tutte le misure che ritiene necessarie in
un dato momento. Con lo stato di diritto, invece, l'autorità amministrativa utilizza misure che sono
specificatamente previste dal diritto ed ai cittadini è data la possibilità di opporsi ad esse e di
ricorrere in giudizio. Questa impostazione risente della dottrina tedesca e, soprattutto, di Jellinek,
ma introduce un’appendice molto importante. Al concetto dell’etat de droit, infatti, affianca l’etat
legal, stato nel quale ogni atto del potere amministrativo presuppone una legge alla quale esso si
riconnette e della quale deve essere assicurata l’esecuzione.
N.B. mentre l’etat de droit è stabilito nel solo interesse della salvaguardia dei cittadini, l’etat legal si
spinge verso una concezione politica che conduce all’organizzazione fondamentale dei poteri.
Per Carré, nella concettualizzazione dell’etat legal prevale un profilo formale che si riallaccia alla
superiorità del corpo legislativo. Di qui la dicotomia tra questo e lo stato di diritto che rinvia ad una
sorta di profilo sostanziale che attiene alla protezione dei diritti fondamentali attraverso il ruolo dei
giudici. Lo stato legale, radicato nell’organizzazione dei poteri, non implica un vincolo del
legislatore ad un principio di rispetto del diritto individuale del singolo; al contrario, lo stato di
diritto, non può che implicare logicamente che la Costituzione, con la sua supremazia, determini
e garantisca ai cittadini quei diritti individuali che devono restare collocati al di sopra degli attentati
del legislatore. Si è tracciata, in tal modo, una strada anticipatrice dello stato costituzionale, ma, il
passaggio definitivo dallo stato di diritto allo stato costituzionale si avrà solo nel 1971, con il
ricorso al bloc nella giurisprudenza del consiglio costituzionale. In una storica decisione in tema di
libertà di associazione il Consiglio definisce il principio di costituzionalità, individuando un blocco
normativo molto eterogeneo e comprendente la Dichiarazione dei diritti del 1789, il preambolo alla
Costituzione del 1946, la Costituzione del 1958 e i principi fondamentali riconosciuti dalle leggi
della Repubblica. Tutte queste parti, è stato chiarito dal Consiglio, devono essere integrate
attraverso un processo di omogeneizzazione, poiché le antinomie sono ovviamente moltissime.
Reichstaat
La versione tedesca è la più recente, la cui formulazione si può collocare nel biennio 1848- 1849.
Al contrario della tradizione inglese che ha fondato tutto sul legame fondamentale tra libertà
individuale e libertà politica, l’esperienza costituzionale tedesca è attraversata dalla difficoltà di
coniugare gli aspetti formali e gli aspetti materiali dello stato di diritto.
Come osservato da Thoma, le contraddizioni dell'ordinamento facevano risultare insufficiente la
concezione meramente formale dello stato di diritto che era stata elaborata da Stahl, alla metà
dell’Ottocento, la quale prevedeva che lo stato è limitato nella sua azione dalla sfera di libertà dei
privati, ma questo non implica una protezione dei diritti individuali o una dovuta organizzazione dei
poteri amministrativi, ma semplicemente si definiscono solo i modi per realizzare gli obiettivi dello
stato. Questa impostazione avrebbe successivamente concesso estesi poteri normativi
all'esecutivo non soggetti alla legge. All'inizio del ‘900, nel clima mutato dalle riforme del Reich
Guglielmino, che avevano previsto l'entrata dei partiti di massa nel Reichstag, Thoma si
accorgeva dell'insufficienza della concezione formale dello stato di diritto: l’idea individualisti dello
stato di diritto aveva esaurito la sua funzione storica, sopraffatta da forse creatrici degli ideali
sociali e nazionali. Quell’idea era legata al periodo di emersione del terzo stato, ma ora l'avanzare
del quarto stato imponeva aiuti statali ed eguaglianza materiale e quindi giustizia sociale. Con la
costituzione di Weimar avremo la completa integrazione dell'idea dello stato di diritto con i principi
ed i diritti costituzionali nel superamento della concezione formale del rechstaat.
Dopo l’entrata in vigore della Legge fondamentale, la consapevolezza dell’intreccio tra il rechstaat
e la costituzione politica, diverrà il filo conduttore del dibattito dottrinale. Il vincolo dei poteri
pubblici all’osservanza della Costituzione sarà ritenuto espressivo di una trasformazione profonda
della legalità, che non consiste in un aggiornamento della concezione formale, ma
nell'accoglimento di una visione della direzione dello stato mirata al perseguimento di obiettivi di
giustizia materiale. Derivano da qui una concezione più ampia della legalità ed una concezione più
penetrante della discrezionalità dei pubblici poteri.
Collocato nella cornice di orientamento delle norme cost, il principio di legalità opera come argine
alla tirannia di un egualitarismo uniformante e lo stato di diritto rinviene negli scopi statali i
presupposti costituzionali che implicano il superamento della concezione formale di esso. Il
principio del rechsstaat deve, quindi, armonizzassi con i principi di struttura richiamati dall'art 20
GG ed in particolare con quello dello stato sociale, che non è più espressione di un individualismo
senza limiti.
Questo non comporta un arretramento della legalità, ma al contrario potenzia l'elemento
fondamentale dello stato di diritto: l'imposizione di limiti giuridici all'esercizio del potere, che si
estende, anche nel mutato quadro costituzionale, ai compiti di riequilibrio svolti dallo stato (quindi
una pretesa che va oltre il formale). Inteso in senso materiale, lo stato di diritto incorpora la
protezione delle libertà personale e politica del cittadino, che comprende anche una
conformazione equilibrata e giusta delle relazioni umane ed un criterio di moderazione e di
limitazione giuridica di ogni esercizio di pubblico potere.
Questo non vuol dire che la legge non conservi un ruolo centrale, ma solo che non é più misura
fissa, bensì, uno strumento di giustizia sociale e di riequilibrio delle diseguaglianze, in piena
coerenza con il nuovo ruolo dello stato di diritto, che non ha più dinanzi a sé solo individui
autonomi che tendono alla libertà, ma i condizionamenti ed i fattori di dipendenza dell'uomo
contemporaneo, tanto nei rapporti con i poteri pubblici quanto con quelli con le organizzazioni
private.
Effettività
Tratto comune alle Costituzioni del secondo dopoguerra è l’attenzione al profilo dell’effettività dei
diritti. Il sistema ha come chiave di volta il soggetto e, da qui, il rilievo al contesto socio-
economico ed alle legature sociali che condizionano lo sviluppo della persona. Un aspetto, questo,
che fa dell’impegno a rimuovere le disuguaglianze di fatto e ad arginare la formazione di poteri
privati un tratto caratterizzante della forma di stato di democrazia pluralistica.
Non bastano le libertà sociali ( la libertà di coscienza, la libertà di riunione, il diritto di voto) per
garantire la piena uguaglianza e la piena emancipazione del soggetto, per garantire che il
soggetto venga messo nelle condizioni effettive di poter realizzare se stesso, la propria vita, le
proprie aspirazioni. È necessario che lo stato si faccia carico, attraverso degli obblighi di
protezione, di assicurare una certa dignità delle condizioni di vita del soggetto, in chiave di
promozione dell’eguaglianza materiale.
Come viene assicurato questo obiettivo? Le Costituzioni hanno fatto fronte, generalmente, con la
previsione di obblighi positivi in capo ai pubblici poteri, con modalità e secondo approcci differenti:
la Costituzione italiana contempla un vero e proprio catalogo dei diritti sociali, di quei diritti, cioè, il
cui oggetto è una prestazione da parte dello Stato, che prende le mosse dalla qualificazione di
vere e proprie situazioni soggettive.
Diversamente, nella costituzione tedesca, non c’è un catalogo di diritti sociali, ma dottrina e
giurisprudenza hanno costruito, in via interpretativa, sulla clausola dello stato sociale prevista
dall’art 20, i diritti di prestazione, corrispondenti all’individuazione dei compiti pubblici, che hanno
lo stesso contenuto dei diritti sociali. L’impegno dei pubblici poteri alla rimozione degli squilibri e
delle disuguaglianze di fatto costituisce il risvolto istituzionale del principio di effettività dei diritti.
Tra le implicazioni più rilevanti che discendono dall’aver inquadrato la garanzia dei diritti
nell’ambito di un processo pubblico di integrazione vanno menzionate quelle che toccano il profilo
del rapporto tra libertà ed uguaglianza. Le democrazie pluralistiche hanno operato lo spostamento
della prospettiva del catalogo dei diritti dal terreno della difesa da ingerenze esterne a quello della
diffusione delle chances di realizzazione di identità molteplici e della possibilità.
In questa dilatazione dell’area delle libertà costituzionali verso la diffusione e l’effettività dei diritti
è racchiuso un potente fattore di trasformazione e mobilità sociale, che favorisce lo scaricamento
di abitudini correnti e ruoli sociali stratificati. Tale aspetto può essere ricondotto anch’esso ad una
lettura integrata del principio pluralista e del principio di uguaglianza, intesi come pilastri di una
società aperta, che rende possibile la realizzazione di identità molteplici.
Dimensione sociale
Negli ordinamenti di democrazia pluralistica, la sfera pubblica non coincide più con quella statuale
e questo perché il processo politico si svolge, almeno in parte, all'interno della società. Un
processo politico che si svolge liberamente è condizione di una democrazia che favorisce la
partecipazione ad esso del maggior numero possibile di voci, in modo che così emerga tra tutte
non una verità superiore e assoluta sopra l'interesse dei gruppi, bensì un compromesso. Un
ordine di problemi si pone, però, sotto alcuni aspetti. Ad esempio, il ruolo che la nostra
costituzione riserva ai partiti rispetto alle altre espressioni dell'associazionismo comporta che essi
ricoprano una posizione egemone e olistica all'interno del processo politico. Si tratterebbe di una
dimensione eccessivamente funzionale, i diritti sarebbero plasmati sulla funzione superiore
Interessata (in questo caso l'organizzazione politica) e potrebbero determinarsi effetti di
cementificazione della partecipazione politica.
Di contro l'aver ancorato la posizione dei partiti a quella delle associazioni ha permesso di avere
competizione fra soggetti diversi del pluralismo e facilità di ricambio nel sistema politico.
In conclusione il prof. ci dice che è sbagliato assolutizzare, anche solo una delle dimensioni
descritte, ma bisogna invece di volta in volta considerarle nell'insieme anche se questo comporta
fare delle sintesi tra dimensioni.
La res publica come società aperta degli interpreti della costituzione : Peter Haberle
Nella dottrina costituzionalistica si deve a Konrad Hesse e a Peter Haberle il merito di aver
raccolto l’insegnamento di Smend sul concetto di pubblico e di averlo collocato nel quadro di una
riflessione a tutto tondo sulle trasformazioni del contenuto e del ruolo delle costituzioni nelle
democrazie pluralistiche.
Muovendo dalla critica delle concezioni organistiche della posizione costituzionale del partito
politico, all’epoca dominanti nella dottrina e nella giurisprudenza tedesche, HESSE imputava la
difficoltà di definire il concetto di pubblico in modo coerente con gli assetti delle democrazie
pluralistiche all’influenza del positivismo giuridico.
Al contrario tale concetto non andrebbe definito ne in chiave decisionistica e neppure tracciando
una completa cesura fra il normativo e il fattuale, ma prendendo atto che esso va riferito al
sistema dei valori che ispirano la costituzione e al mutamento delle condizioni storiche in cui è
operante. Le trasformazioni subite dalla costituzione si riflettono dunque sulla definizione della
sfera pubblica, all’interno della quale operano soggetti, come i partiti, non riconducibili all’
archetipo del diritto privato; soggetti che comunque svolgono la funzione fondamentale di
sostenere il processo di integrazione nel quale la giuridicità della costituzione confluisce.
Da questa premessa deriva che questi soggetti posseggono altresì uno Status che è pubblico in
quanto si esso si traduca nell’aver parte alla edificazione dei principi di legittimazione dell’assetto
costituzionale. Il passaggio successivo di questo itinerario culturale sarebbe consistito
nell’estendere il campo di osservazione sul “pubblico” e sullo “spazio pubblico” dalle dinamiche
dello svolgimento del processo politico alle stesse dinamiche della costituzione e della sua
interpretazione. Si colloca in questa prospettiva l’articolata elaborazione teorica della costituzione
come processo pubblico avviata da HABERLE a partire dagli anni settanta.
L’approccio di Haberle non rifiuta la teoria dei limiti del potere politico ma propone una rilettura
del costituzionalismo più coerente con le domande di integrazione poste dalle società pluralistiche
nelle quali la costituzione si pone come stimolo e limite , come norma e compito da svolgere.
Nella prospettiva di una concezione della Costituzione come conquista evolutiva il ruolo dello
“Spazio Pubblico” nell’interpretazione costituzionale assume un rilievo centrale in quanto tale
concezione dinamica rinvia a chi in concreto plasma la realtà costituzionale.
Lo spazio pubblico assurge a Geltungschanse e condizione stessa della vigenza di una
costituzionale, la cui capacità di normazione è legata indissolubilmente alla coscienza sociale e al
consenso diffuso tra i consociati. Non sorprende che muovendo da questa premessa Haberle sia
pervenuto successivamente a costruire sulle fondamenta della “ Società Aperta degli Interpreti”
una nuova concezione della Res Publica nella quale le originarie suggestioni dello spazio pubblico
di ascendenza smendiana confluiscono.
Tale nesso deriva dal rifiuto di concezioni della democrazia legate al pensiero identitario, alle quali
viene contrapposta l’idea che la democrazia è essenzialmente “ organizzazione della società di
interessi antagonistici e del conflitto”. L’Offentlichkeit è per l’appunto lo spazio in cui la società si
organizza democraticamente; uno spazio che non è solo quello dell’agorà ma è comprensivo di
piani molteplici e differenti forme attraverso le quali esso prende corpo giuridicamente. Cosicchè in
definitiva, la pubblicità concorre si a dare configurazione giuridica all’aspirazione democratica della
costituzione, ma non soltanto sul piano formale delle procedure della comunicazione, poiché
grazie ad essa la democrazia si risolve anzitutto nella concretizzazione di contenuti radicati nella
comunità politica. Ne deriva una concezione della Res Publica che si fonda sulla triade
Privato/Pubblico/Statale, i cui termini sono differenziati nella loro identità ma non sono scorrelati,
perché interagiscono in un foro di interdipendenze che non si risolve in un insieme di regole
procedurali del discorso pubblico, ma attinge muovendosi sul terreno sostanziale, al significato
profondo del bene comune, che in una società pluralistica non è monopolio dello stato, ma si
alimenta da una società organizzata in uno spazio pubblico.
Ordinamento europeo dei diritti e valori fondativi del diritto costituzionale europeo.
L’ordinamento europeo non si presenta appiattito da una dimensione di assoluto relativismo,
indifferente alle molteplici componenti culturali che si intersecano nella società europea.
È neutrale rispetto alla molteplicità di concezioni del mondo, ma non rispetto ai contenuti di valore
che lo alimentano. Il riferimento a valori fondativi di un’identità comune rappresenta una via
obbligata per conferire ad esso una propria autonoma forza.
La tendenza a costruire tale ordinamento come un mero riflesso delle limitazioni della sovranità
degli stati denota non soltanto una visione assai riduttiva delle sue potenzialità, ma altresì un
marcato e persistente pregiudizio di stampo giuspositivistico che tende a sacrificarne il carattere
aperto e pluralistico. Nella storia culturale europea lo Spazio Di Esperienza è intessuto di valori
fondativi che ne hanno accompagnato lo sviluppo per un lungo periodo, esempi sono il valore
della libertà, quello dell’autodeterminazione e del dominio dell’uomo sulla vita quotidiana..
E, tuttavia, se lo spazio di esperienza è popolato di valori immersi nella storia, l’orizzonte
dell’aspettativa non smarrisce per ciò stesso il carattere della proiezione al futuro.
Il rapporto tra valori dell’ “Identità costituzionale europea” e “Storia” si profila problematico anche
sotto un altro profilo.
Uno sguardo sulla storia europea dimostra che il susseguirsi di profonde trasformazioni ha
rappresentato il Sonderweg alla costruzione di una identità della cultura europea.
Mi riferisco alle grandi rotture della storia di questa, come le guerre di religione, la rivoluzione
scientifica, la rivoluzione industriale.
Un itinerario che ha fatto emergere conflitti laceranti più che momenti di ricomposizione unitaria,
con ricadute decisive sulle esperienze culturali: conflitti religiosi; tensione tra rivoluzione e principio
di nazionalità; tra sviluppo capitalistico e antagonismo di classe.
Chi si arresti a considerare la stori europea solo come un itinerario di irrisolte fratture, riesce
difficile immaginare in che modo una pluralità disomogenea di valori emersi da una storia di
tensioni e conflitti abbia potuto alimentare un0identità comune.
Il punto è che: per un verso i due grandi poli ispiratori della cultura europea, quello greco-romano
e giudaico- cristiano, si sono formati prima che l’Europa si delineasse, e per altro verso dalla
rottura dell’unità originaria della cultura europea alimentata dal medioevo cristiano sono derivate
divisioni e fratture identitarie profonde che sono parte integrante della storia della modernità. Il
punto decisivo sta nelle capacità di integrazione dispiegate nel discorso europeo dei diritti
dall’autocomprensione fondata su valori che non è statica, ma evolutiva.