Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
A differenza delle altre forme del sapere, la filosofia, e quindi anche la fisolosofia del diritto, non
ha un oggetto precostituito ma deve sempre, come avvertiva Hegel 1, ricominciare da capo, delimitando le
proprie competenze.
Tuttavia, ciò che ci si deve aspettare oggi dalla filosofia del diritto è una adeguata presentazione di
quello che è stato chiamato il portento dell’epoca moderna, cioè il riconoscimento dei diritti umani come
principio giuridico universale; diritti che prima di essere un’opzione politica, ideologica, etica o religiosa
rappresentano il modo in cui è giunta a maturazione la mentalità propria della cultura occidentale,
mentalità che è costitutivamente giuridica, cioè dominata dal paradigma del diritto.
Non a caso il costituzionalismo, il cui culmine è stato proprio nell’epoca moderna e la cui base
ideologica – politica era fornire di una disciplina giuridica i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo,
anche al fine di porre dei limiti all’arbitrio del potere sovrano, ha rappresentato un fenomeno tutto
europeo o, comunque, proprio dei paesi tipicamente occidentali (compreso il nordamerica).
Ciò vuol dire che la cultura occidentale ha posto a base della propria coscienza epistemologica
(paradigma), cioè della propria riflessione filosofica sul sapere scientifico, da cui dipende il modo in cui
ciascuna cultura guarda il mondo e con cui costruisce e pratica il sapere scientifico, quella struttura
antropologica (diritto) che consente la costruzione del sociale e, quindi, dell’uomo, sulla base di una
particolare forma di relazionalità, quella che riconosce la parità di principio tra i soggetti in relazione.
Da ciò deriva, innanzitutto, il riconoscimento dell’alterità soggettiva, dei diritti dell’altro, ovvero
il riconoscimento dell’altro quale portatore di spettanze assolute che generano in noi dinamiche di dovere;
ed è dall’intreccio di queste spettanze e di questi doveri che nasce il gioco sociale in generale.
E’ per queste motivazioni che il diritto costituisce il paradigma relazionale fondamentale nella
cultura occidentale e la relazionalità il paradigma fondamentale di comprensione della realtà. Il diritto, in
sostanza, si è costituito non solo come mera struttura regolativa del nostro essere-insieme, ma soprattutto
come riconoscimento del valore assoluto che questo nostro essere-insieme possiede per il costituirsi della
coscienza stessa.
Non a caso alla tematica del diritto si è sempre affiancata una grande attenzione per quella della
giustizia:
• Aristotele: solo la giustizia, il cui spirito si radica nel riconoscimento dell’alterità, è virtù
specificamente relazionale e proprio per il suo tramite l’uomo riesce ad essere pienamente uomo;
• Socrate: tra fare e subire un’ingiustizia non c’è simmetria perché solo chi fa un’ingiustizia nega il
riconoscimento dell’altro e delle sue spettanze;
• Kant: la più grande e grave miseria degli uomini non dipende dall’avversa fortuna, ma
dall’ingiustizia.
Questa consapevolezza in Occidente si è radicata attraverso complesse dinamiche storiche:
l’esperienza giuridica romana, la grande filosofia greca e, soprattutto, l’ispirazione biblica.
Nell’ebraismo, infatti, la relazionalità giuridica è elevata a criterio stesso del rapporto tra Dio e il
suo popolo; la legge, la Torah diviene il solido fondamento dell’intera esistenza.
In questo il Cristianesimo non ha innovato, sostituendo semplicemente alla Torah Cristo stesso,
cioè ad una relazionalità rigida una relazionalità aperta, in grado di rinnovarsi continuamente; ed è
indubbio che il cristianesimo è cresciuto presupponendo il diritto, radicandosi nella giustizia e facondone
proprie le ragioni; tant’è che il primo atto di carità, per il cristianesimo, consiste proprio nel riconoscere
quanto spetta all’altro, indipendentemente da quanto spetta a noi.
Questi sono i motivi per i quali in Occidente l’antigiuridismo non si è mai radicato
profondamente.
A questo punto bisogna interrogarsi sul futuro del paradigma della giuridicità occidentale.
1Hegel = filosofo tedesco vissuto tra il ‘700 e l’’800 considerato uno dei maggiori esponenti
dell’idealismo tedesco.
PAGE 38
2 Solipsismo = tesi filosofica in base alla quale il soggetto pensante non ammette altra realtà all’infuori di
se stesso.
3 Individualismo collettivo = nega la dinamica della intersoggettività subordinandola all’unità
Il diritto è, per sua struttura, relazionale e la relazionalità, quale carattere intrinseco del diritto,
tende all’interpersonalità, cioè al riconoscimento del valore infinito della persona umana, e solo
sommariamente può essere spiegata con la socialità, cioè con il carattere eminentemente sociale
dell’essere uomo (ubi societas ibi jus).
E’ quindi una categoria più complessa di quanto possa sembrare e lo testimonia la grande
attenzione prestata alla c.d. “ipotesi robinsoniana” che dimostra come la relazionalità, in realtà, non
faccia riferimento ad un fatto ma ad un principio (l’essere uomini tra uomini) che potrebbe non trovare
alcuna corrispondenza nella realtà (Robinson, pur da eremita, decide comunque di darsi e di seguire delle
regole per mantenere la propria dignità di uomo nei confronti dei propri concittadini, nonostante non
sappia se li rivedrà mai più).
La teoria generale del diritto, invece, tende a semplificare oltremodo la complessità di questo
problema, come nel caso della teoria del diritto predominante nel secolo scorso, quella normativistica di
Kelsen, secondo cui non può esistere un comando senza un comandante, che pensa al diritto
esclusivamente come ad un sistema di norme e che definisce i rapporti tra soggetti non solo
necessariamente ma anche gerarchicamente relazionati tra loro.
Tale teoria presenta i seguenti limiti:
1. esaspera la dimensione normativa del diritto;
2. vede la relazionalità esclusivamente come verticale, tra sovrano e suddito;
3. contiene un implicito paradosso, cioè che il sovrano non è sottoposto alla legge in quanto è legge.
Quest’ultimo punto, in particolare, implica l’assenza di un qualunque criterio di giustizia per
giudicare la volontà di chi detiene il potere; in realtà, invece, quando si afferma il carattere relazionale del
diritto si presuppone che tale relazionalità sia giusta (jus come ipsa res iusta), sottintendendo l’innato
senso di giustizia dei consociati: l’honeste vivere, infatti, primo dei tre celebri juris praecepta, implica il
riferimento alla capacità intrinseca degli uomini di giudicare la coesistenza umana a partire dal principio
di giustizia ed è in tal senso che va intesa la classica definizione del diritto come obiectum justitiae.
Come già accennato nel capitolo precedente, Aristotele definisce la giustizia come virtù, nel senso
di agire non casuale ma meditato dell’uomo, e l’uomo come l’essere la cui massima virtù sta
nell’esercizio della giustizia e nel riconoscimento dell’alterità (in tal modo fondando il modo occidentale
di pensare l’uomo): iustitia est ad alterum: l’altro con cui la giustizia impone di rapportarsi è colui che
pretende da me il riconoscimento di un debito, di una spettanza, di ciò che è suo (unicuique suum). In
questo Kant non si discosta di molto quando afferma che è solo l’esercizio della libertà a costituire la
dignità dell’uomo: l’atto di giustizia (a ciascuno il suo) è veramente tale quando è libero e consapevole.
Proprio perché relazionale, cioè non chiuso, non compiuto in quanto essere difettivo, l’uomo trova
in sé solo il principio della sua identità; tutto ciò che va oltre, che lo costituisce nella sua storia personale
gli deve essere riconosciuto e dato dall’altro, come debito di giustizia. E in ciò non c’è simmetria perché
i miei debiti saranno sempre superiori alle mie pretese a causa dell’incapacità di rendere appieno all’altro
quanto realmente gli spetta.
- Aristotele: se l’altro esiste indipendentemente da me e se è nella relazione con l’altro che io costituisco
me stesso, ciò implica che l’altro ha rispetto a me un primato.
Nell’ermeneutica contemporanea, questo principio trova corrispondenza nel primato della
domanda sulla risposta:
- Gadamer4 : l’uomo non è principalmente l’essere che attende le risposte, ma l’essere che pone le
domande; e la certezza di non poter avere adeguata risposta non è motivo sufficiente per cessare di
domandare, per spegnere cioè il rapporto dialogico.
Tuttavia, per arrivare - da Aristotele ed i greci, per i quali l’idea di giustizia è rimasta allo stato
ideale essendo per loro l’individuazione della dignità dell’uomo nella realizzazione della giustizia una
conquista e non un presupposto - ad affrontare seriamente la domanda sulla identità di prossimo
dell’altro, è stata necessaria la mediazione del cristianesimo; nella parabola del Buon Samaritano, Gesù,
alla domanda “chi è il mio prossimo?” risponde invertendo i termini della questione, chiedendo “chi si è
fatto prossimo dell’uomo assalito dai briganti? Chi tra i passanti ha sentito l’appello della giustizia, chi si
PAGE 38
5Ontologico = da ontologia, branca della filosofia che studia le modalità fondamentali dell’essere in
quanto tale al di là delle sue determinazioni particolari.
PAGE 38
Il problema della natura e della sua forza normativa sta riacquistando, in ambito etico e giuridico,
una nuova rilevanza negli ultimi anni, grazie alle questioni ecologiche e bioetiche che richiedono
soluzioni obiettive, cioè calibrate sulla natura.
Quel che interessa individuare non è il concetto di diritto naturale, ma quello di natura e,
soprattutto, indagare quale è il rapporto che l’uomo ha con la natura.
• Eraclito affermava che “la natura ama nascondersi”, sottolineando il suo carattere enigmatico, che la
rende oggetto di un sapere non immediato ma scientifico, che può essere acquisito solo attraverso duro
studio e lavoro.
Questa antica intuizione, peraltro ancora valida, evidenzia come il carattere costitutivo della
natura sia quello del nascondimento che non sembra consentire un assoluto e definitivo disvelamento; chi
invece ritiene che la natura non ci nasconda nulla e che l’incapacità di comprenderla immediatamente ed
integralmente derivi solo dalla nostra miopia, finisce col negarle qualsiasi carattere normativo in quanto,
in tale prospettiva, anche ciò che c’è di più innaturale appartiene alla natura (non esisterebbe alcuna colpa
“contro natura”), e sospende ogni questione anche sull’ordine morale come ordine specifico che,
all’interno della natura, spetta all’uomo.
In generale, invece, il pensiero umano si è sempre rapportato alla natura considerandola non solo
come l’ambiente che ci circonda ma anche, e soprattutto, come l’orizzonte normativo della nostra prassi
morale.
La natura costituisce un problema perché nella riflessione su di essa il soggetto umano scopre la
scissione, la molteplicità di contraddizioni della realtà: interna alla natura stessa (distruzione e morte), tra
oggettività e soggettività (cose e uomo), inerente alla stessa soggettività umana (il “noi” di cui possiamo
disporre, il corpo, e quello di cui non possiamo disporre, l’identità umana).
Questa consapevolezza di scissione, che è insuperabile, investe la stessa totalità della natura,
totalità la cui conoscenza è impresa impraticabile; tanto che l’oggetto del sapere naturalistico-scientifico
non è la natura ma sue singole ed autonome determinazioni particolari.
Le concezioni scientiste, quelle che si basano su teorie scientifiche, ritengono che l’uomo e la
natura siano due cose separate: la natura è il regno del fattuale, della meccanica, del biologico, ecc., ma
l’uomo ha in più la dimensione spirituale; tra uomo e natura, quindi, c’è un rapporto di trascendenza,
uomo e natura stanno da due parti diverse. La natura viene vista come il “diverso”, da noi: un’animale,
una pianta sono diversi da noi in quanto noi siamo esseri razionali, spirituali.
Tuttavia la radice di ogni filosofia della natura sta nel ritenere che essa sia un’unità sussistente
ancor prima che se ne possano analizzare i diversi elementi: filosofia della natura equivale ad affermare
che esiste un rapporto primigenio tra uomo e natura, che essi sono reciprocamente coinvolti e che questo
coinvolgimento è costitutivo dell’essere uomo; non a caso nessuna religione interpreta la natura come
caos ma come cosmo quale presupposto di ogni cultura.
Se si intende la natura come la totalità degli enti, compresi noi stessi, non si potrà ritenere l’uomo
una variabile indipendente: l’uomo è natura e la natura, nell’uomo, è principio vivente.
- Aristotele vede la natura teleologicamente, come capacità di mutamento, capacità per cui una cosa,
essendo ciò che è, può operare, nel senso di realizzare un’opera, in un certo modo.
Si rende allora necessaria una lettura metafisica6 della natura, l’unica che consente di percepirla
come normativa; l’ambito della metafisica è essenziale per l’uomo perché è esistenziale, è l’ambito in cui
egli agisce come individuo e in cui può esercitare la propria libertà (no meccanicismo).
Una tale lettura evidenzia nella natura una duplicità fondamentale tra la sua fatticità, cioè il suo
frantumarsi in enti molteplici e diversi che sono assunti ad oggetto di studio delle varie scienze, e la sua
ragion d’essere, logos, che costituisce l’oggetto specifico dell’indagine filosofica; ogni ente tende a
coincidere con il suo logos.
La ragion d’essere non è estrinseca ai singoli enti ma interna ad essi; ed è normativa perché la sua
universalità è di ordine non quantitativo, cioè diretta ad una molteplicità di destinatari, ma qualitativo in
quanto orienta ogni ente a diventare ciò che è; ed essendo noi parte di questa natura, dobbiamo agire in
modo da assecondarla e realizzare quello che ci porta ad essere.
Al riguardo è particolarmente appropriata l’immagine dell’uomo come autocomprensione:
6 Metafisica: parte della filosofia che si occupa dei principi primi e dei valori assoluti della realtà.
PAGE 38
PAGE 38
Hume è stato un grande filosofo scozzese del ‘700 cui si deve l’elaborazione della c.d. “Legge di
Hume” secondo la quale da una serie di proposizioni tutte assertive, cioè attinenti all’“essere”, alla
descrizione della realtà, non può essere inferito alcun precetto, cioè il “dover essere” relativo alla morale,
in quanto si determina un salto logico.
Dall’accettazione della legge di Hume deriva il non cognitivismo etico, prospettiva che nega ad
ogni discorso di filosofia pratica, compresa la morale, valutativo e precettivo, un’autentica portata
conoscitiva, propria delle sole discipline che riguardano l’“essere” come, ad esempio, la scienza; nasce
così la grande divisione che ritiene reciprocamente irriducibili i discorsi fattuali e quelli normativi 7 .
Tutti coloro che hanno sostenuto il contrario, come in particolare i giusnaturalisti, cioè che
sostengono la possibilità del passaggio “dall’essere al dover-essere”, cadono in quella che i filosofi
chiamano “fallacia naturalistica”, cioè nella violazione della legge di Hume.
Questa concezione, però, è molto più fragile di quanto non possa sembrare; innanzitutto risulta
impossibile dare una prova logicamente valida del salto logico tra descrittivo e prescrittivo.
In secondo luogo, se su un piano minimale la grande divisione può essere ritenuta molto
ragionevole (impossibilità di derivare un giudizio di valore su un accadimento dal mero giudizio di
esistenza del medesimo accadimento), altamente criticabile risulta invece l’istanza massimalista del non
cognitivismo (tutte le proposizioni assiologiche e-o normative sono prive di senso o arbitrarie perché non
fondate obiettivamente su nulla, tantomeno sulla natura, e, quindi, valide e relative al solo soggetto che le
proferisce):
• nasconde una contraddizione: se i valori sono arbitrari non sono nemmeno comunicabili in quanto la
comunicazione richiede una qualche oggettivazione e razionalizzazione; sono allora solo partecipabili
emotivamente o imposti, finendo così col trasformarsi in fatti (ciò che in definitiva assumerebbe la
dignità del valore sarebbe proprio il fatto compiuto, cioè la forza, sia emotiva che materiale); e il
carattere arbitrario non viene meno se si passa dall’individuo al gruppo sociale, considerando come
valori le credenze o le ideologie;
• il normativo non si contrappone al fattuale, cioè alla realtà intesa non come giustapposizione di
frammenti ma come totalità, bensì solo al cognitivo, cioè alla lettura scientifica della realtà.
Facciamo un esempio: come dedurre dalla proposizione “A va a casa” il precetto “A deve andare
a casa” senza una premessa normativa? Se si intende ragionare in una prospettiva riduzionistica è
impossibile in quanto la prima è una proposizione che descrive solo un frammento di esperienza, che del
reale fa capire ben poco e da cui effettivamente non posso dedurre alcunché di normativo; ma proprio per
questo non si può dire che essa sia davvero descrittiva di un fatto; per esserlo dovrebbe dirci qualcosa di
non frammentario, di inquadrato nell’insieme dei fatti che costituiscono il reale in modo da poter
ricostruire l’intero che ricomprende il frammento.
Diverso sarebbe il caso in cui per “A” intendessimo uno scolaro e dessimo alla sua azione di
andare una dimensione cronologica (“A” va a casa quando finisce la scuola); a questo punto è plausibile
dedurre la proposizione “A deve andare a casa quando finisce la scuola”.
In sostanza, quindi successive integrazioni di esperienza, fattuali e non normative, possono dare
senso ad un evento che, altrimenti, visto in una dimensione frammentaria, risulta incapace di fondare un
dovere.
Sulla base di queste argomentazioni, allora, il giusnaturalismo può pretendere di derivare un dover
essere dall’essere, dalla natura, quando recepisce quest’ultima non come mera esistenza ma in funzione
del suo logos, della sua essenza, come teleologicamente orientata: dalla constatazione “A è madre di B”,
descrizione appartenente all’“essere”, si può dedurre che “A deve accudire B”, quindi una proposizione
del “dove-essere”, in quanto col concetto di madre non si intende solamente la persona che
biologicamente ha partorito B, bensì l’essenza stessa della madre, cioè di colei che è proiettata, per
natura, alla cura dei figli.
Anche volendo ammettere che la descrizione delle essenze è, di fatto, una valutazione e che,
quindi, fondare un dover essere su una descrizione di essenze equivale a fondarlo su un giudizio di valore,
7 Un’esasperazione del non cognitivismo etico è rappresentato dal non descrittivismo etico secondo cui,
essendo inderivabili da qualsiasi osservazione empirico-fattuale, i discorsi etici devono essere ritenuti del
tutto privi di significato.
PAGE 38
PAGE 38
Il punto di vista originario della filosofia è l’ontologia, come fondamento dell’etica; il che, per la
filosofia del diritto, ha comportato la costruzione del modello giusnaturalistico: corrente di pensiero che
a fondamento del diritto pone la natura, letta ontologicamente, come l’espressione dell’ordine dell’essere,
e che, pur non esigendo presupposti teologici, può essere inquadrata in un discorso di teologia naturale
che riconosce nella natura l’impronta della divinità o che identifichi con essa stessa.
A differenza dell’ebraismo e dell’islamismo, per i quali, se Dio è il creatore del cielo e della terra,
una mediazione naturalistica sembra addirittura blasfemo, la tradizione cattolica del Cristianesimo ha
saputo conciliarsi con l’idea di una filosofia della natura: la rivelazione, infatti, attesta, da un lato, che il
mondo è stato creato e, dall’altro, che all’uomo è stato affidato il compito di discernere, con le sue facoltà
naturali, il giusto dall’ingiusto; la prospettiva creazionista giustifica, quindi, la possibilità dell’emergenza,
nell’ordine della natura, della libertà, cioè della condizione stessa di possibilità del diritto.
La crisi del giusnaturalismo inizia con l’avvento della scienza moderna e la sua ostilità nei
confronti di ogni forma di pensiero metafisico: da Hobbes 8 in poi, infatti, i giuristi hanno elaborato l’idea
che il diritto sia convenzionale, che abbia un carattere artificiale, irriducibile a qualsivoglia presupposto
naturalistico.
In particolare, l’avvento del paradigma evoluzionistico elaborato da Darwin9 , di cui si è
impossessato il positivismo 10, ha sconvolto ogni precedente paradigma con la sua pretesa di individuare il
punto di vista originario della filosofia nella biologia come fondamento dell’etica.
Attualmente l’evoluzionismo si presenta sottoforma di versioni forti e versioni deboli ma entrambe
partono dal presupposto che l’evoluzione è un fatto storico, il cui percorso è spiegabile senza ricorrere
all’ipotesi di un ordinatore esterno; tuttavia, mentre le versioni deboli restano nell’ambito del sapere
strettamente biologico e si riconoscono incompetenti ad indicare il fondamento delle proprietà emergenti
(tra cui il diritto) che caratterizzano l’evoluzione culturale, le versioni forti si dilatano da teoria biologica
a teoria antropologica, pretendendo di spiegare gli inizi della moralità e del senso di giustizia e
scardinando, così, la pretesa di una radice metafisica di queste dimensioni. Nel dettaglio:
1. Versioni deboli: ritengono che nessuna fase del processo evolutivo, in particolare quella culturale,
possa essere ridotta ai suoi livelli inferiori e non riducono la mente al biologico; per tale motivo questa
versione non entra in conflitto con le religioni, in quanto la semplice ammissione dell’esistenza della
mente è sufficiente come substrato naturalistico per l’affermazione meta-naturalistica dell’esistenza
dell’anima.
2. Versioni forti: riduzioniste, molto avverse alle credenze religiose; i punti nodali sono:
• tutte le specie viventi sono il prodotto dell’evoluzione, per mutazione e selezione, da un unico gruppo
di organismi primordiali;
- la specie umana appartiene integralmente alla natura; la sua onticità non è riconducibile ad alcun
fondamento ontologico e l’ipotesi di un intervento divino a fondamento della sua esistenza e delle sue
scelte morali è errata;
• la natura, unica e sufficiente, esaurisce tutte le dimensioni del reale e non è lecito attribuirle alcun
senso intrinseco;
• è da considerare mistica e da condannare ogni illusione antropocentrica dell’uomo, soprattutto quella
di potersi emancipare dalla natura o di avere un primato su di essa;
• la moralità e il senso di giustizia sono emergenze evolutive casuali e meramente psichiche.
Esiste un duplice ordine di ragioni che rende difficilmente accettabile per il giurista il paradigma
evoluzionistico in senso forte, quando cioè esce dal biologico per entrare nell’ambito dell’antropologico
(la scienza del diritto, invece, non ha nulla da obiettare nei confronti di una teoria evoluzionistica in
senso debole, che sappia restare negli orizzonti del sapere biologico e che si riconosca incompetente a
indicare il fondamento di quelle proprietà emergenti – tra le quali il diritto – che caratterizzano
l’evoluzione culturale):
scientifico che nacque in Francia nella prima metà dell’800, che si diffuse a livello europeo e mondiale.
PAGE 38
PAGE 38
La stretta affinità tra diritto e morale11 è da individuare nella circostanza per cui solo
nell’esperienza giuridica ed in quella morale emerge quell’alterità sostenuta dal non uccidere; per
Benedetto Croce, invece, secondo cui l’unico problema autentico è quello dell’unità della vita dello
spirito, la tematizzazione del nesso tra diritto e morale andrebbe semplicemente eliminato come un falso
problema, in quanto sono entrambe mere astrazioni concettuali cui si può al massimo riconoscere una
consistenza ontica e non ontologica; conseguentemente sono solo le scienze umane a poter riflettere su
diritto ed etica.
Diritto e morale sono considerati sistemi normativi dotati di una rispettiva coerenza intrinseca e il
problema dei loro reciproci rapporti ammette solo tre soluzioni: la reciproca irrilevanza o il primato di
uno dei due sull’altro; storicamente si possono individuare tre grandi fasi caratterizzate ciascuna dal
prevalere di uno di questi modelli:
- Età antica e Medioevo: supremazia della morale sul diritto
Il diritto era concepito come funzionale alla morale in quanto, in quell’epoca, dominava una concezione
della vita prettamente religiosa e le leggi, ossia ciò che costituisce il diritto, non avevano valore se non
rispettavano l’ordine di valori dati da Dio: l’unica possibilità di giustificare le norme giuridiche è
riportarle ad un ordinamento meta-positivo che viene accolto non perché imposto dal potere, bensì
perché riconosciuto dal cittadino come sostanziato dalla sua etica. Per questo il paradigma classico è
stato adottato dal pensiero cristiano quale possibilità di tematizzare un ambito, quello del diritto,
marginale per la sensibilità evangelica e non teorizzabile a partire esclusivamente dalle Scritture.
- Epoca moderna: separazione tra morale e diritto
La crisi del paradigma classico ha portato all’affermarsi di una netta separazione tra la logica del diritto
e quella della morale; a partire dal Macchiaveli in poi, circa nel ‘500, la morale riguarda semplicemente
la coscienza degli individui: ciò che è bene e ciò che è male diventa semplicemente un problema di
coscienza. La tarda scolastica anticipò la frattura introdotta alla Riforma, riconoscendo al diritto una
morale propria, pubblica (la ragion di stato): il diritto costruisce il sistema delle azioni sociali, all’etica
è lasciata la cura delle anime. Non a caso è l’epoca in cui l’Europa ha artificializzato l’esperienza
sociale: deperimento del diritto consuetudinario, nascita del diritto processuale, codificazione del diritto
privato, ecc…; del male si risponde, prima che a Dio, alla società. Parimenti, l’invenzione del diritto
internazionale, risalente a Grozio, è stata sollecitata dalla necessità di trovare un sistema di
comunicazione obiettivo e trans confessionale, destinato a sostituire quello medievale costituito dalla
consapevolezza di appartenere all’universalità della comunità cristiana, con le sue leggi comuni.
- Epoca contemporanea: primato del diritto sulla morale
L’integrale privatizzazione del diritto e la secolarizzazione della morale cristiana hanno favorito la
convinzione dell’opinione pubblica di essere in possesso di un reale minimo etico, quello veicolato dal
diritto, grazie a cui è garantita la coesistenza umana civile; il moltiplicarsi delle carte dei diritti e delle
proclamazioni costituzionali dei diritti dell’uomo sono il segno del trionfo della moralità pubblica, del
diritto, quale moralità meta-etica e meta-culturale. La cultura contemporanea riconosce spazio all’etica
nei limiti in cui questa riconosce il primato del diritto e si modella sui principi giuridici universalmente
accettati: quindi i valori morali sono tali soltanto perché sono, in qualche modo, contenuti e riconosciuti
nella Carte dei Diritti. L’epoca contemporanea è quella del desiderio di riconquistare un’unità non solo
morale e giuridica, ma anche culturale, religiosa ed assiologia dell’umanità, è l’epoca della
riconciliazione in cui diritto e morale sono destinati ad incontrarsi nell’eticità dello Stato; e lo
strumento della conciliazione è la politica, vista come teoria della prassi collettiva, e non più del miglior
governo, prassi in cui l’antitesi tra essere e dovere, tra azione reale e bene ideale, quindi tra diritto e
morale, è definitivamente superata 12. E se lo Stato è la totalità etica, l’etica individuale non solo perde
ogni consistenza ma ha bisogno dell’etica pubblica per ritrovare la propria ragion d’essere.
11 Con il termine morale si può genericamente indicare quella disciplina che si occupa del bene, cioè di
stabilire cos’è il bene e cos’è il male.
12 Il primato della politica ha trovato due grandi forme di realizzazione, il nazionalismo ed il
totalitarismo; in entrambe la moralità propria del diritto viene a coincidere con la moralità stessa dello
Stato.
PAGE 38
PAGE 38
Per quanto siano rilevanti, i valori tutelati dal diritto sono sempre apparsi freddi, incapaci di
suscitare un autentico sentimento di obbligo nei loro confronti; riferendosi infatti all’ordine delle azioni,
più che a quello delle coscienze, il diritto è apparso carente sul piano dell’autenticità che costituisce,
invece, lo specifico dell’esperienza morale; per questo motivo i cultori del diritto hanno sempre cercato
previamente di giustificare il diritto, cioè di mostrare che la carenza di autenticità che nella cristianità fu
considerato peccato, il fariseismo, lo è in quanto peccato di cattivi giuristi, non della cosa “diritto”.
La dialettica diritto\morale, però, ha subito una metamorfosi nel complesso quadro postmoderno,
in cui si è passati da un paradigma che, in nome dell’autenticità, riconosceva un primato dell’etica sul
diritto, ad un paradigma opposto, che riconosce una supremazia del diritto sull’etica, chiedendo a
quest’ultima di giustificare se stessa e le sue pretese; e ciò avviene non negando all’etica il suo carattere
di autenticità, bensì mediante la c.d. privatizzazione dell’etica.
- Max Weber13: percepisce la crisi della concezione tradizionale dell’etica, quale sistema di valori assoluti
e condivisi, e rileva la progressiva tendenza del particolarizzarsi della morale che si conclude con il
nuovo paradigma culturale del politeismo etico, secondo cui l’etica non è universale ma si articola in
una molteplicità di singole opzioni morali, irriducibili ad unità sia perché tra i diversi valori che
presiedono l’ordinamento del mondo il contrasto è inconciliabile, sia perché le opzioni sono tanto più
autentiche quanto più si vivono sul piano della prassi e meno si dialettizzano sul piano della teoria
(mentre i precetti etici tradizionali potevano essere continuamente violati sul piano della prassi ma
comunque erano riconosciuti da tutti come validi in quanto principi generali di condotta) .
- Engelhardt14: gli uomini devono abituarsi a considerarsi reciprocamente “stranieri morali”, cioè abitanti
di un mondo che, pur costringendoli a vivere sempre più vicini e ad interagire, non può pretendere che
parlino il medesimo linguaggio etico, né condividano un comune piano di valori; conseguentemente, il
linguaggio necessario all’interazione non può essere etico, bensì giuridico: l’accordo basato non su
buone ragioni, in quanto la ragione postmoderna si è dimostrata incapace di individuare un contenuto
obiettivo, e quindi buono, alla ragione, ma sulla mera buona volontà di accordarsi. Ciò che resta,
quindi, è una sorta di diritto naturale minimo riferito alla possibilità che le persone si adoperino per
trovare, convenzionalmente, soluzione ai loro conflitti e alla modalità della loro coesistenza.
Solo il diritto, quindi, con la sua fredda esteriorità formale, è in grado di garantire il politeismo
etico proprio perché le molteplici etiche, portatrici di una propria specifica carica di autenticità, si
rivelano insindacabili, incomunicabili e conflittuali; in questo modo la vita etica, seppur privatizzata, è
riconosciuta come insindacabile a livello pubblico e quindi i conflitti etici scompaiono in quanto il diritto
si impegna a proibirli espressamente.
Dal primato procedurale del diritto sull’etica, in quanto fondato su un accordo, è stata elaborata
una versione moderna dell’antica tesi che pone il dialogo a fondamento del vivere sociale; l’accordo,
infatti, non può che essere il frutto di un dialogo ma il dialogo è possibile solo tra persone che si
riconoscano reciprocamente come persone; e il riconoscimento, presupposto del dialogo, deve avere non
solo una valenza empirica (l’altro, considerato come singolo individuo che mi si contrappone, è come
me), ma soprattutto ontologica (l’altro, considerato come altro e non solo come mero individuo empirico,
è come me) ed assiologica (l’altro, considerato come altro e non solo come mero individuo empirico, vale
quanto me).
L’”altro” deve essere inteso come “colui nel quale io ritrovo me stesso” e, soltanto per questo, può
pretendere da me un trattamento secondo giustizia; solo a queste condizioni può instaurarsi quel dialogo
che è condizione per realizzare l’accordo comune: diversamente possono nascere solo dialoghi e accordi
ipocriti, ingannatori e strumentali.
Da ciò si evince anche che non esistono, né possono esistere, “stranieri morali”; l’essere straniero
è categoria empirica, non antropologica o filosofica: nessuno è tanto straniero da rendere impensabile la
possibilità di parlargli; nessun linguaggio è totalmente intraducibile; nessun valore etico, per quanto non
condivisibile, è assolutamente incomprensibile e incomunicabile.
13
Max Weber = economista, sociologo, filosofo e storico tedesco, vissuto a cavallo tra l’’800 e il ‘900,
considerato il padre dello studio moderno della sociologia e della pubblica amministrazione.
14 Engelhardt = medico, biologo e filosofo statunitense vivente.
PAGE 38
PAGE 38
Nei confronti della violenza, il giudizio umano ha sempre avuto un atteggiamento ambivalente, da
una parte di opposizione, dall’altra di attrazione; questo perché esiste una paradossale verità della
violenza che affonda le proprie radici nell’intimo dell’uomo, il quale ne è, contemporaneamente,
affascinato e ripugnato.
Le moderne scienze umane hanno cercato di non farsi coinvolgere da questa dialettica, assumendo
nei confronti della violenza un atteggiamento descrittivo, intendendola quale ogni atto fisico di un
individuo o gruppo contro un altro individuo o gruppo; in questo modo la qualificazione assiologia della
violenza, giusta o non giusta, avviene in base a sistemi di valori descrivibili ma non fondabili
razionalmente e, quindi, legittimi in un discorso prescrittivo ma non scientifico.
Se consideriamo l’esperienza giuridica, lo stesso diritto, pur essendo uno strumento di libertà
ritenuto tecnica non violenta di risoluzione dei conflitti, non è rifuggito dall’uso della spada, ricorso che
molte teorie hanno tentato di giustificare qualificandolo come potere di coazione e, quindi, come regola
della forza, senza quindi considerarne la violenza intrinseca.
Ciò che costituisce l’essenza fenomenologica della violenza è la sua incapacità di concentrarsi e
modellarsi sul logos, sulla verità, l’incapacità di riconoscersi subordinata ad una misura; è la rinuncia alla
verità che apre la strada alla violenza.
Il più importante contributo italiano al tema della violenza viene da Cotta 15 il quale afferma che è
appunto la misura a distinguere, nell’ambito della categoria dell’agire-contro, l’atto di forza, dotato di
giustificazione giuridica, dall’atto di violenza; l’atto di forza, infatti, è sempre misurato a tre diversi
livelli:
1. è posto in essere con misura interna, a partire da un obiettivo equilibrio interno dell’agente;
2. è posto in essere secondo misura (esterna all’agente), in base a regole obiettive e prefissate;
3. è posto in essere a fini di misura (misura finale), per introdurre un ordine precedentemente carente
nella realtà.
La mancanza di anche una sola di queste dimensioni rende l’atto di forza ambiguamente aperto
alla violenza (a differenza di quanto sostiene il formalismo istituzionali stico, secondo cui è sufficiente la
misura esterna, cioè la legalità).
L’esperienza storica ha mostrato che non è mai stata la cultura filosofica a sconfiggere la violenza
ma che, molto spesso, è addirittura accaduto il contrario; e rare volte essa si è trasformata in un’efficace
e generalizzata pedagogia perché, anziché combattere i violenti, spesse volte i filosofi hanno preferito
rinunciare ad ogni combattimento (basti pensare al nascondimento epicureo davanti alla follia del mondo
ed alle sue violenze).
Ma in un tale contesto la violenza può diventare il tramite di un nuovo conferimento di senso,
presentarsi come il benefico, seppur brutale, motore della storia; secondo questo paradigma della violenza
costitutiva e rigeneratrice delle forze vitali del mondo, la violenza non è da considerare frutto di una
perversione o smarrimento umani, bensì costituirebbe la trama originante e costitutiva dell’umano.
• Girard 16: la violenza è dimensione fondatrice dell’humanum ma il suo meccanismo esige periodiche
crisi sacrificali in cui si scarica la violenza che è comunque alla base della pace che gli uomini
instaurano; pace provvisoria quindi, che richiede, in tempi più o meno lunghi, la riattivazione di un
analogo meccanismo sacrificale. L’autentico volto del logos sarebbe dunque violento e proprio nel
logos e nella sua capacità di dominio della realtà va ravvisata la radice propria di ogni violenza.
Un tale logos non merita venerazione ma esecrazione e questo è il grande tema di tutta la
tradizione gnostica e che torna periodicamente nella cultura occidentale, ogni volta che l’esistente viene
letto come assiologicamente perverso ed ontologicamente privo di senso; non a caso a tale visione va
ricondotta la logica del fenomeno rivoluzionario come fenomeno tipicamente moderno e radicalmente
contrapposto al fenomeno, premoderno e tradizionale, della rivolta: il rivoluzionario accusa il passato e
soprattutto il presente di essere inguaribilmente intrisi di violenza e ritiene che solo il passaggio
rivoluzionario, necessariamente violento, ad una dimensione dell’essere totalmente nuova potrà aprire
all’umanità la speranza di un nuovo logos.
15 Sergio Cotta = filosofo italiano, studioso del diritto, vissuto fino al 2007.
16 Renè Girard = critico letterario ed antropologo francese vissuto nel ‘900.
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
Secondo Bobbio17 il valore supremo, laico, è la giustizia; se essa esistesse non ci sarebbe bisogno
della carità ma, egli afferma, la giustizia non è di questo mondo.
In realtà, però, la giustizia non è alternativa alla carità rappresentandone, invece, la prima delle
condizioni di possibilità; lo stesso diritto non si contrappone alla carità ma si muove nella stessa
direzione: il diritto non sa amare ma sa riconoscere, come la carità, l’infinito valore della persona, la sua
dignità, e senza questo previo riconoscimento nessun atto di amore può essere autentico o possibile.
Un esempio di come il diritto rappresenti una prima forma di apertura nei confronti della carità è
rappresentato dal diritto penale che mostra la coscienza profonda che gli uomini hanno sempre avuto del
nesso tra diritto e dignità umana: per il diritto penale l’uomo è meritevole di pena perché ha male
utilizzato la propria libertà, orientandola al male.
Quando il diritto penale interviene sul reo e lo punisce, ne sottolinea implicitamente la
responsabilità e, di conseguenza, la libertà; il suo fine, infatti, non è l’intimidazione, la prevenzione, la
difesa sociale o la rieducazione sociale del reo, che fanno invece riferimento ad altri ambiti di esperienza
e pratica sociale; il diritto penale ha come propria finalità specifica l’espiazione della colpa e, di
conseguenza, il recupero sociale del reo a partire dal rispetto della sua dignità umana che nessuna colpa,
per quanto grave, potrà mai cancellare.
La pena, facendo soffrire il reo, gli offre un’occasione efficace per prendere coscienza di come
abbia abusato della sua libertà ed il diritto penale presuppone che, scontata la pena, il reo abbia espiato e,
quindi, pagato il proprio debito con la società e gli rinnova la propria fiducia reinserendolo nel libero
gioco della società civile.
Diviene a questo punto chiaro quale sia l’unico argomento valido contro la pena di morte: una tale
pena, uccidendo il reo, da indebitamente per scontato che il delitto lo ha reso a tal punto indegno da
togliergli il diritto di far parte della comunità umana.
Tuttavia il diritto, tutto il diritto, non solo il penale, ha una struttura fragile e fredda perché non da
né la garanzia dei vincoli politici, né il calore dei rapporti amicali, e la consapevolezza di questi limiti ha
fatto sorgere la tentazione di ricondurre il diritto all’interno di una diversa forma coesistenziale facendone
una variante subordinata della politica o della morale.
Con Rousseau e il suo “contratto sociale” etica e politica sono giunte a confondersi con la volontà
generale e il problema sembrava risolto, con l’individuazione di una comunità di uomini liberi che si
autodeterminano senza bisogno di restrizioni aprioristiche o formali perché le loro volontà si accordano
spontaneamente in virtù della reciproca solidarietà; ma nel progetto ruousseauiano, a parte il non aver
considerato il problema rilevante dell’eventuale divergere del volere di alcuni rispetto alla volontà
generale, si fa un errore di fondo, cioè dislocare l’origine della libertà nel “tutto collettivo” e non, come
corretto, nel singolo.
Pertanto lottare per il diritto, perché la sua struttura propria non subisca violenze, significa, come
affermava Jhering, lottare per il riconoscimento che l’uomo è un essere libero e che la libertà fa capo
all’uomo in quanto singolo che si rapporta coesistenzialmente ad altri singoli e non ad un anonimo Tutto
collettivo; quindi, la lotta per il diritto ha per obiettivo quello di riconoscerne la funzione non come forma
suprema di rapporto tra gli uomini ma semplicemente come forma non surrogabile da altre.
PAGE 38
L’obiezione, il dire di no, alle leggi precostituite può avere una duplice natura: psicologica,
quando è finalizzata non a contestarle ma esclusivamente a trasgredirle, cioè a soddisfare un capriccio
egoistico, oppure assiologica, quando l’obiettore si sente destinatario del dovere di dire di no a quanto la
legge gli ingiunge di fare.
Volendo riservare la qualifica di obiettore solo a coloro che obiettano per senso del dovere,
l’obiezione appare come un fenomeno premoderno: l’obiettore dice di no alle leggi perché non le fa
coincidere con il diritto, le ritiene cattiva determinazione del diritto da parte del detentore del potere (la
verità del diritto, quindi non è prodotto dell’attività politica ma suo presupposto); in questo senso
l’obiezione è sempre dalla parte non solo del diritto ma anche del legislatore, perché lo richiama ad essere
fedele alla sua competenza specifica, porta avanti un’indiretta e dura esortazione al buon uso del potere
(che deve mediare tra la verità del diritto e la concreta dinamica della storia).
In quanto testimone del diritto contro la legge, l’obiettore non è un rivoluzionario ma tende ad
avvicinarsi alla figura del martire quale testimone della verità; e la verità dello jus può essere
concretizzata in molti modi diversi dalla lex attraverso l’auctoritas del legislatore, ma in nessun modo la
lex può manipolare la verità dello jus.
Tuttavia l’auctoritas, quando smarrisce le proprie ragioni costitutive, diventa implacabilmente
ostile all’obiezione perché la percepisce come volta a relativizzarla e a richiamarla ai propri compiti
specifici; essa, infatti, è sempre soggetta alla tentazione di divenire mero esercizio di potere, di dettare la
verità invece di servirla (autopotenziamento e autoreferenzialità), tentazione irresistibile nell’epoca
moderna, tanto da indurre Ritter a parlare di “volto demoniaco del potere”.
Nei confronti dell’obiezione il potere può assumere diversi atteggiamenti: sordo e cieco, per
significare che nessuna obiezione può scalfirlo, benevolo, nel senso di clemente e non sanzionatorio,
repressivo, reprimendo la protesta dichiarando di agire in nome di quella stessa verità cui si richiama
l’obiettore; quest’ultimo atteggiamento, premoderno ma che sopravvive anche nel nostro tempo, è
pericoloso in quanto il potere, accettando il confronto, rischia di essere relativizzato qualora le ragioni
dell’obiettore si rivelassero le migliori.
Tuttavia, la via scelta dal potere nell’epoca moderna consiste nella c.d. neutralizzazione, cioè nella
riduzione assiologica delle pretese del politico; il potere neutralizzato presuppone che non si dia un unico
cosmo che racchiude la globalità della realtà, che le da ordine e cui fare riferimento quale fondamento
ultimo della giustizia, privata e pubblica; esso rescinde ogni nesso con qualsiasi valore che pretenda di
assurgere a principio per poter gestire, con rigore empirico, la realtà sociale sempre più complessa.
Diviene quindi un potere incontestabile perché, proprio per la sua neutralità, afferma di essere in
grado, nel proprio ambito, di assorbire qualunque pretesa e di assolvere qualunque compito (potere
propriamente sovrano); e tale proprio ambito diventa, per ciò stesso, globale perché ciò che sta oltre è
ritenuto di principio inconoscibile, indicibile e, quindi, irrilevante (per cui l’obiezione sembra destinata a
perdere ogni spazio).
Nell’epoca moderna il potere giunge alla sua piena neutralizzazione con l’affermarsi dello Stato
democratico che fa riferimento all’unico parametro del numero in quanto, in democrazia, la qualità delle
scelte è posposta ai criteri strettamente quantitativi che governano i sistemi elettorali; in questo contesto il
potere, da un lato, si è dilatato, facendo coincidere il corpo elettorale con l’intero corpo della società
civile, dall’altro si è deteologizzato, relegando al privato il principio di trascendenza: la laicità dello Stato
moderno, quindi, è diventato il segno ella sua pretesa neutralità, sovranità e democraticità.
Le dinamiche descritte sono state riassunte dal Rorty18 nell’unica felicissima formula della
“priorità della democrazia sulla filosofia”: la filosofia divide, genera conflitti, la democrazia unisce,
garantisce la pace; essa giunge a piena maturazione quando si riconosce fondata non su di una filosofia o
teoria politica, bensì sulla giustizia in senso procedurale, cioè su se stessa. Bisogna applicare alla stessa
filosofia il principio politico di tolleranza e regolamentare attraverso la giustizia procedurale i conflitti
delle ideologie filosofiche.
Lo Stato democratico, quindi, assume a sua base il principio di tolleranza: rispetta ogni
affermazione di verità ma non può accettare che siano rivendicate le ragioni che non ammettano di essere
sottoposte alla dialettica neutrale del gioco democratico, perché questo implicherebbe la negazione dello
18 Rorty = filosofo statunitense, vissuto fino al 2007.
PAGE 38
19La pianificazione sociale si profila come la realizzazione di una serie di azioni tra loro connesse per
perseguire un obiettivo di cambiamento nel sistema sociale, al fine di risolvere un qualche problema e la
cui soluzione è considerata di rilevante importanza culturale.
PAGE 38
20Dianoetica = virtù più elevata; secondo Aristotele sono dianoetiche la scienza, la saggezza, l’arte, la
sapienza e l’intelligenza
PAGE 38
La rilevanza di Sant’Agostino per la filosofia del diritto sembra, a giudizio di molti, limitarsi alle
sue dottrine sul diritto naturale ma, in realtà, ciò che Agostino ha sentito come essenziale in ordine alla
questione del diritto, e che costituisce il suo reale contributo, non è stato tanto il problema del suo
fondamento, cioè del diritto naturale, quanto il problema della sua osservanza; in quest’ottica il problema
giuridico, quindi, da onto-sociologico diviene antropologico: non si discute sul fatto che un diritto ci sia
e che riscuota un’adesione da parte dei soggetti cui si indirizza, bensì sul fatto se il diritto trovi
rispondenza nell’essere dell’uomo, se questi, cioè, possa accettarlo ed osservarlo sinceramente.
In questa prospettiva il problema del diritto tende a ridursi al problema della legge in generale, della
stessa normatività nel suo dialettizzarsi con la volontà del soggetto; Agostino si chiede attraverso quale
itinerario la volontà del soggetto accetta di conformarsi alla legge ed è stato tra i primi ad evidenziare
l’insufficienza del diritto come regola di vita.
- Furto delle pere raccontato nelle Confessioni (400 d.c.): non fu il desiderio di conseguire un bene in
quanto tale la vera causa del furto, né l’ignoranza di cosa sia un furto o del fatto che esso è proibito;
conseguentemente, la legge in quanto tale non è capace di garantire che la volontà si volga al bene ed
anche la stessa volontà, seppur non soggetta a tentazioni, è incapace di conformarsi al dettato della
legge. E’ il gusto della colpa a spiegare l’azione.
Egli, però, raggiunse la piena consapevolezza della rilevanza del tema della normatività soltanto
attraverso il diretto confronto con Pelagio e le sue dottrine.
- PELAGIO: è generalmente considerato un naturalista; giudizio non erroneo se lo si considera in senso
teologico: egli è naturalista in quanto crede che il battesimo sani integralmente la natura umana,
ripristinando la piena facoltà di libero arbitrio di cui era dotata prima del peccato di Adamo; non può
essere invece considerato naturalista se con questo termine ci si riferisce alla fonte della moralità che,
per lui, non è la natura ma la volontà di Dio espressa nella legge che ha promulgato per gli uomini,
senza preoccuparsi di raccordare i precetti divini agli impulsi o alla ragione naturale dell’uomo.
L’uomo cui rivolge i suoi insegnamenti non è mai l’uomo “naturale” ma l’integrus christianus, colui che
conosce e mette in pratica la legge di Dio: chi si adegua a questa legge può elevarsi ad una perfezione
preclusa ai comuni mortali; il messaggio pelagiano è semplice ma terrificante nella sua semplicità:
poiché la perfezione è possibile all’uomo, essa è obbligatoria.
Pelagio rivive e reintrerpreta il messaggio agapico tipico del cristianesimo in termini propriamente
giuridici; le virtù caratterizzanti del cristiano diventano la scienza (che fa conoscere la legge di Dio), la
fede (che induce ad accettarla) e, soprattutto, l’ubbidienza (con cui si pratica quella stessa legge che
conosciamo ed accettiamo).
Quindi, l’unico oggetto di fede, l’unico criterio di vita, è la legge, mentre il criterio ultimo della
moralità pelagiana coincide con il criterio della giustizia e il criterio della giustizia con quello
dell’osservanza della legge di Dio, l’unica promulgata per tutti e che tutti, quale che sia la loro
condizione, devono osservare; si tratta di una morale senza dubbio teocentrica ma anche, e soprattutto,
nomocentrica, cioè basata sulla legge di Dio; non a caso il peccato è inteso da Pelagio come contemptus
Dei, e non come violazione di un ordine naturale, ed egli disdegna la distinzione tra comandi e consigli
evangelici, perché un Dio legislatore non può manifestare la sua volontà consigliando, ma solo
ordinando.
Conseguentemente, il “comunismo” pelagiano non ha alcuna valenza né politica, né agapica: non per
amore verso i più indigenti bisogna rinunciare alle ricchezze a loro favore, ma perché tale è l’esplicita
volontà di Dio.
Pelagio, dunque, non è un difensore della natura umana come intrensicamente buona, bensì un rigido
moralista secondo cui tutti i precetti assumono il medesimo valore intrinseco in quanto bisogna fare
riferimento non a ciò che viene comandato ma solo all’autorità di chi comanda; dalla natura non è
desumibile alcuna norma di condotta: l’unico criterio di vita è quello dato da Dio attraverso la sua legge
e proprio perché, a differenza di ogni altra natura, è destinatario della legge, l’uomo è libero.
Su questi presupposti si innestano le radici della polemica pelagiana; secondo Agostino il vero
problema non era quello di proclamare la sovranità della legge di Dio e suscitare ubbidienza nei suoi
confronti, quanto quello dell’intonazione giuridista di tutto il discorso di Pelagio, dove la dimensione
della legge non è coordinata con quella della carità: per Pelagio la libertà di ubbidire alla legge è implicita
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
Che tra tempo e diritto esista un nesso costitutivo è intuizione immediata; d’altronde la croce teoretica
del giusnaturalismo è sempre stata quella di coniugare l’atemporalità dei principi con la radicale
contingenza dell’esperienza umana, l’assolutezza del diritto naturale con la variabilità delle sue
applicazioni storiche; meno immediata è, però, la determinazione di tale nesso; sono essenzialmente due,
in Occidente, i paradigmi a partire dai quali è stata pensata la relazione tra diritto e tempo:
1. Paradigma tradizionalistico: tutte le pratiche sociali, soprattutto quelle giuridiche, sono il prodotto non
di specifiche volontà, individuali o collettive, bensì emergono dal tempo stesso, costituiscono il
prodotto di un processo di selezione guidato più che dalla ragione dal successo; la verità del diritto
emerge, quindi, dalla tradizione, quale processo di trasmissione, che fa perno sulla memoria collettiva
dell’umano e ne garantisce l’identità. Per essere tale la tradizione deve possedere un forte e specifico
carattere normativo, deve cioè essere intesa come concreto ed attuale principio di azione, in grado di
rinnovarsi per il fatto stesso di trovare accettazione e ottemperanza negli individui; in questa
prospettiva la tradizione fa appello a quella ragione che vede nella persistenza selettiva del passato il
modo specifico ed ottimale di manifestazione dei valori del diritto (radicamento razionale).
2. Paradigma storicistico: la verità, in particolare quella del diritto, si rileva nella storia ma la
significatività della storia ha rilievo solo per il presente in quanto il passato non possiede alcun
carattere normativo per il presente; ribadisce quindi come essenziale il nesso tra diritto e tempo ma
comprende il tempo in modo strettamente sincronico, intendendolo nella ristrettissima accezione della
contemporaneità.
Nessuno dei due modelli, però, sembra cogliere esattamente lo specifico del rapporto diritto-
tempo in quanto entrambi assumono diritto e tempo come realtà separate, chiamate ad interagire senza
nulla perdere della loro separatezza: in sostanza, le entificano; se però diritto e tempo sono enti dotati di
propria autonoma specificità, ciò significa che per la verità dell’uno è sostanzialmente irrilevante la verità
dell’altro.
Qui si vuole invece sostenere che diritto e tempo si coappartengono, cioè che la determinazione
concettuale dell’uno implica la determinazione concettuale dell’altro e che l’esperienza dell’uno trova
nell’esperienza dell’altro la sua condizione di possibilità.
In questo il punto essenziale di riferimento è “Essere e Tempo” (1927) di Heidegger, secondo cui
l’essere non è dal tempo né nel tempo, non può, cioè, pensarsi né, come secondo il tradizionalismo, come
un prodotto della temporalità, né, come per lo storicismo, come condizionato da un rapporto di
accoglienza da parte del tempo: l’essere è tempo, cioè possiamo coglierlo solo attraverso la categoria
della temporalità; il tema della creaturalità, strettamente religioso, viene riformulato in una prospettiva
teoretica: l’uomo è una creatura, cioè non possiede in sé la ragione del suo essere, in quanto è chiamato
alla vita da Dio ed in quanto a Dio dovrà rendere conto della sua vita nel giorno della sua morte; l’uomo,
quindi, è un ente qualificato dalla contingenza, è un essere per la morte: poiché sa che di dover morire, la
temporalità acquista un rilievo primario, divenendo la forza che modella la sua identità, diversamente da
quanto accade per gli animali che, inconsapevoli di dover morire, non possono acquisire identità.
Questa cifra di caducità possiede valenze strettamente cognitive: noi ci apriamo al mondo in
quanto esseri finiti che del mondo possono percepire solo la finitudine, ovvero la temporalità come
successione di eventi irreversibili caratterizzati da un ordine che non dipende da noi; ogni nostro sforzo
di collocarci stabilmente nell’orizzonte dall’atemporale, cioè dell’essere, si traduce inevitabilmentein
un’entificazione dello stesso essere, cioè in mistificazione.
Il modo proprio di essere dell’uomo è, pertanto, quello dell’esserci, dello stare nel mondo sempre
all’interno di una situazione data e specifica (carattere situazionale dell’esistenza); ma in questo orizzonte
si determina anche la possibilità per l’uomo di trascenderne la mera onticità e di porsi la questione del
senso delle cose, e la temporalità diviene l’unico modo per cogliere, seppur allusivamente, la verità
dell’essere e, quindi, di noi stessi nella successione e nell’ordine degli enti.
Tra i momenti del tempo, allora, si instaura una distensione che solo nell’orizzonte del diritto
acquista un proprio senso: nel diritto, e tramite esso, riusciamo a conseguire la salvezza delle nostre
azioni (ad esso affidiamo la garanzia del persistere della nostra identità, delle promesse, degli impegni,
dei contratti e quindi del sussistere tra gli uomini di reciproca fiducia); tutte le dimensioni fondamentali
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
PAGE 38
La riflessione sul nesso esistente tra verità e responsabilità può partire da una citazione che
Sant’Agostino fa nel libro decimo delle Confessioni, in cui egli si rivolge alla verità, quindi a Dio; un Dio
che concede di parlargli è un Emanuele, un Dio-con-noi, pertanto il discorso da filosofico diviene
teologico, ma deve intendersi come discorso rivolto alla nostra intelligenza, non alla nostra fede: è infatti
possibile porre correttamente il problema della responsabilità se non si presuppone il carattere personale
della verità che è oggetto della responsabilità stessa o che dalla stessa verità è istituita? Se la
responsabilità crea problema non è forse perché alla sua radice si colloca un’ineludibile questione
teologica?
Claudio Ciancio insiste sull’idea che la verità sia nello stesso tempo potente e fragile a causa della
dialettica che esiste tra l’ontico e l’ontologico; dire la verità è dire il senso degli enti che non è separabile
dall’essere che li costituisce, in quanto nel separare essere e senso vi è una degradazione dell’essere;
conseguentemente, dire soltanto la verità ontica è mentire.
Sembra quindi che, almeno in negativo, una via per la verità esista e consiste nel diffidare di ciò
che è soltanto ontico; eppure l’uomo non appartiene all’ordine dell’essere, bensì a quello degli enti, per
cui ha nella sua disponibilità soltanto la verità ontica.
L’uomo è certamente in grado di pensare e di parlare di una verità anche ontologica ma non è in
grado di viverla; inoltre, percepire l’ontologico nell’ontico è una pretesa che, in una prospettiva ebraico-
cristiana, non può che essere denunciata in quanto rischiosa: l’ontico, infatti, non è altro che il creaturale,
per cui non ha alcun senso intrinseco in quanto il senso è tutto del Creatore e nel Creatore.
Perché il discorso sul senso possa avere un netto profilo ontologico, possa cioè avere un senso,
bisogna ammettere fino in fondo il principio di creazione (non solo parlare metafisicamente di Dio ma
parlare teologicamente a Dio); e ciò è dimostrato dal fatto che nella storia degli uomini, quando questa
possibilità non si è presentata (periodo precristiano) o è stata rifiutata (orizzonte scientistico moderno), il
desiderio e l’esigenza di dare un senso intrinseco all’ontico (e quindi falso) non è venuto meno: gli
uomini, nel tentativo di costruirsi un senso, non hanno fatto altro che costruirsi idoli.
E’ un fenomeno che facciamo fatica a percepire fino in fondo perché viviamo in un orizzonte
cristiano in cui la dimensione ontologica è garantita e protetta da un paradigma creazionistico, un
implicito apriori teologico, ormai cristallizzato e teoreticamente ancora operante; in un orizzonte non
creazionistico, invece, è il divino a costituire la chiave di accesso alla comprensione del reale.
Non è un caso che la rinnovata attenzione odierna verso il simbolo ed il mito rappresenti una
nostalgia verso il paganesimo, verso cioè un orizzonte che rigetta il principio di creazione e che, quando
concepisce l’idea dell’universo, non lo vede orientato personalisticamente, perché creato da Dio, ma
panteisticamente, cioè “naturalisticamente”.
Il creazionismo ci impone di prendere sul serio che l’onticità ha una sua verità semplice,
assolutamente non simbolica; che l’onticità è si povera di senso ma che questa povertà trova un suo
riscatto e la sua garanzia nel fatto che l’ontico corrisponde al progetto creatore di Dio e che
sperimentando l’ontico in quanto ontico l’uomo accetta la volontà di Dio: le cose, insomma, vanno
rispettate e percepite nel loro ordine che, per quanto possa apparire povero di senso, è quello in cui
comunque siamo chiamati a vivere la nostra esperienza temporale.
Conseguentemente non è possibile parlare di responsabilità in un universo increato e, quindi, non
solo non personale ma privo di ogni impronta proveniente da un creatore; non a caso i greci, come non
sono mai giunti a pensare il principio di creazione, così non hanno mai elaborato un’autentica metafisica
della responsabilità riuscendo, al più, a tematizzare l’imputazione, ad attribuire cioè un’azione ad un
agente come alla sua causa; del resto responsabilità è un termine entrato nel lessico occidentale on prima
della fine del Settecento.
Non è l’essere ma Dio che rende responsabile l’uomo provocandolo, chiamandolo, cioè, davanti a
sé: l’uomo si scopre responsabile solo quando viene interpellato, quando gli viene rivolta una domanda
ineludibile da parte di chi ha l’autorità per porla; ma se l’autorità ha questo potere ciò non dipende da una
ragione mitica o simbolica, per un senso cioè ad essa intrinseco, bensì perché in essa si rende operante
l’intenzione creatrice di Dio, per una ragione strettamente ontica.
In un mondo creato e voluto da Dio siamo responsabili solo verso l’ontico, cioè la “legge
naturale”, e la responsabilità è scelta per il bene, cioè per Dio.
PAGE 38
PAGE 38
Quando si affrontano tematiche complesse come quella del rapporto tra diritto e teologia, il diritto
va inteso e descritto come un’esperienza umana relazionale, volta al reciproco riconoscimento
intersoggettivo, un’esperienza umana naturale, perché è uno dei modi di strutturarsi dell’humanum, e di
carattere universale, nel suo dinamismo diffusivo, e societario, nel suo principio e nella sua struttura
costitutiva; la norma, invece, e quindi il diritto positivo, non è altro che la determinazione storico-
contingente del principio categoriale della giuridicità.
Premesso questo, lo studio della rilevanza teologica del diritto costituisce il problema della
teologia del diritto, teologia che, però, parte da una prospettiva non teologica ma filosofica: spetta infatti
alla filosofia definire le cosiddette posizioni pure in tutti gli ambiti del sapere; teologia del diritto può
significare qualcosa soltanto se la teologia si mantiene pura, cioè se prende sul serio se stessa; in
particolare, la teologia deve assumere e mantenere fino in fondo il proprio irrinunciabile carattere
ecclesiale23.
In sostanza, difendere la purezza della teologia del diritto comporta prendere sul serio il riflettere
sull’impronta specificamente cristiana ed ecclesiale che si può rinvenire nel diritto, inteso, appunto, come
esperienza giuridica; e la necessità di operare una distinzione tra i problemi della normatività morale e
quelli concernenti la struttura intersoggettiva societaria dell’esistenza è stata resa urgente dalla negativa
esperienza dello statualismo ottocentesco e dalle provocazioni del normativismo.
Chiamata a riflettere sul diritto, la teologia del nostro secolo si è indirizzata lungo due vie: quella
protestante e quella cattolica; in entrambe il diritto in senso categoriale è riconosciuto come necessario,
ma secondo logiche ben diverse.
Protestantesimo:
• non condanna la natura in quanto tale, né le scienze che assumono la natura e l’uomo a proprio
oggetto: la natura è pur sempre figlia di Dio; quello che in realtà è corrotto, a causa del
peccato, è il nostro rapporto con Dio;
• condanna il diritto quando con esso si intende la legge morale naturale quale strumento di
salvezza; in questo caso il protestantesimo è assolutamente antigiusnaturalista, il che, però,
non si traduce più in antigiuridismo: se infatti al diritto si danno, per contenuto, i precetti di
Dio è possibile costruire un diritto che sia veicolo di grazia;
• il diritto della grazia è l’unico ad avere rilevanza teologica;
• quel che rileva per la teologia è un diritto che può essere compreso e colto solo nella
dimensione liturgica e confessionale e, di conseguenza, nell’ambito della comunità ecclesiale,
la quale si raccoglie e si identifica unicamente nel nome di Gesù e non a partire dalla generale
esigenza societaria che è propria dell’uomo (sublimazione cristocratica dell’esperienza
giuridica).
Cattolicesimo:
• riconosce il diritto mediante la sua legittimazione naturalistica e laicale;
• ha legittimato su di una base teologica la filosofia cristiana del diritto
• il tradizionale giuridismo della Chiesa cattolica viene a perdere di incisività teologica,
affidandosi alla riflessione umana naturale.
Ad oggi sembra pacifico che, anche se la teologia protestante ha ormai rinunciato ad ogni
antigiuridismo, sul piano storico-sociale ad essa appaiono preclusi spazi che la teologia cattolica sembra
invece avere a sua salda disposizione; è il caso, ad esempio, dei diritti umani; per i protestanti, infatti, la
difesa dei diritti umani è irrilevante ai fini della salvezza, mentre per i cattolici la difesa dei diritti umani
è difesa della stessa dignità dell’uomo, creatura di Dio, difesa che possiede un’obiettiva valenza trans-
culturale.
Tuttavia, oggi, la teologia cattolica del diritto corre il rischio, nel dare ascolto al mondo, di
smarrire la specificità del proprio oggetto: temendo il modello di una morale teologica costruita come una
tavola di precetti si ortodossi ma incapaci di suscitare un’adeguata orto prassi, molti teologi moralisti
hanno costruito un’etica della pura ispirazione; in sostanza non esistono più norme morali specificamente
cristiane, ma esiste solo un’ispirazione cristiana dell’agire etico.
PAGE 38
PAGE 38
C’è un modo non autentico di elaborare un discorso teologico sul diritto che sottrae alla teologia la
sua specificità, cioè di essere il tentativo di proferire una parola umana che sappia far tesoro e assumere
come presupposto un ascolto della parola divina, riducendola invece a mera filosofia della religione,
incapace di percepire che l’analogia ontica tra parola di Dio e linguaggio umano presuppone
un’irriducibile differenza ontologica; tale modo è quello che assume come oggetto della teologia l’idea di
Dio, anziché la sua parola, e come oggetto della teologia del diritto la legge, intesa come univoca volontà
di Dio, anziché la sua promessa.
Una teologia così concepita, anche quando non incappa nella trappola del fondamentalismo, che
assume come normativamente vincolante non la parola di Dio ma la parola umana che della parola divina
tenta di essere riproduzione e oggettivazione, resta invischiata in un compito che non è suo e che non le
compete, cioè l’assumere il ruolo di superiore ed ultima istanza di controllo di ogni dimensione del
pensiero e della prassi; e ciò spiega anche l’emarginazione, tutta moderna, della teologia rispetto alle altre
forme di sapere, processo che costituisce un impoverimento epistemologico, e non anche assiologico od
esistenziale, gravissimo per ogni altra forma del sapere in quanto solo l’interconnessione dei saperi
garantisce a ciascuno di essi la possibilità di verificare le proprie pretese di legittimità.
In questo orizzonte la teologia conserva una precisa funzione epistemologica: offrire alle altre
forme di sapere una specifica modalità di ampliamento del loro intrinseco comprendere; il che implica
riconoscere che la curvatura che la teologia può offrire agli altri saperi, oltre ad aumentarne la
significatività, ne fornisce un’integrazione di senso che essi non potrebbero autonomamente elaborare.
Per ottenere questo risultato, ovviamente, non basta giustapporre il discorso teologico a qualsiasi
altra forma di discorso, ma bisogna elaborare delle strategie di ricombinazione, evitando il rischio di
perdere il giusto sentiero; spesso, infatti, il discorso teologico sul diritto positivo viene trasformato in un
discorso sul diritto naturale, cui segue la tentazione di demandare alla teoria del diritto naturale oneri
epistemologici che essa non può assumersi e che spettano alla teologia in quanto tale, il cui compito non
è quello di rendere pensabile il diritto naturale, di fornire un puntello alle sue buone ragioni, ma di offrire
al diritto naturale, e così anche al diritto positivo, un orizzonte di senso.
Un orizzonte di senso emerge in virtù di una serie di indicazioni che riguardano il diritto non in
quanto tale ma quello che ci investe e ci coinvolge, quello che ci provoca e che porta sulla nostra bocca le
parole giustizia/ingiustizia.
La ragione illuministica non è mai riuscita a togliere significanza al discorso profetico,
all’annuncio della costante ulteriorità della giustizia e quello che viene in discussione in questo contesto
è l’assunzione della consapevolezza che solo un discorso profetico crea un debito di senso, il quale
costituisce la dimensione archetipa della categoria dell’obbligatorietà (non può esistere obbligo ove io
non mi senta obbligato).
La funzione profetica introduce la temporalità nel diritto, ne attiva le dinamiche intrinseche, gli
fornisce un orientamento, gli dona un linguaggio e, nelle sue forme storiche, può assumere configurazioni
progressive o regressive, ma ha sempre rappresentato la forza costitutiva della coscienza giuridica ed ha
potuto farlo perché nel profetismo fede e giustizia si legano indissolubilmente: se è la fede a rendere
credibile la possibilità dell’avvento della giustizia, è l’annuncio della giustizia a rendere la fede
meritevole di essere creduta.
Il diritto possiede, quindi, in quello che abbiamo chiamato discorso profetico, un apriori che è
necessario tematizzare per giustificare l’obbligatorietà delle norme, obbligatorietà che non significa solo
coazione ad ottemperare, requisito necessario ma non sufficiente del diritto positivo, ma, soprattutto,
coscienza del carattere ineludibile del dovere giuridico, perché fondato sul diritto altrui.
- Kant: è nostro dovere tenere in considerazione i diritti altrui e rispettarli come sacri; chi ci governa è
santo e ciò che ci ha dato di santo è il diritto.
E’ solo attraverso la teologia che questo tema, vero e proprio apriori del diritto, può sollevarsi
dallo statuto di mera intuizione ed incarnarsi nel discorso della scienza del diritto, acquistando così un
pieno rilievo epistemologico; il prezzo dell’elusione della riflessione teologica, per la scienza del diritto,
consiste nella formalizzazione e, quindi, nella deformazione sistematica dei concetti giuridici
fondamentali: da esperienza il diritto si riduce a sistema, la responsabilità ad imputazione, l’autorità a
potere, l’amministrazione della giustizia ad esecuzione di una procedura, il matrimonio a contratto, la
PAGE 38
24 1991
PAGE 38
Dopo Auschwitz, quindi dopo la vergogna di cui si è macchiata l’umanità nel secolo scorso, il
tema dei diritti è tornato ad essere di grande attualità; anzi, proprio a quelle terribili sofferenze si deve la
proclamazione, nel 1948, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo da parte dell’ONU.
Quindi il nostro tempo è il tempo dei diritti dell’uomo e ciò è il portato non dell’affermazione di
una particolare speculazione filosofica o dottrina, bensì di un senso etico concreto che solo nel nostro
tempo è riuscito a catalizzarsi ed installarsi definitivamente nelle coscienze, quasi a costituire un
universale etico; non a caso alla tematica dei diritti umani e della loro difesa è riconducibile il movimento
antisegregazionista di Luther King, il nuovo diritto internazionale, l’autorevolezza di organizzazioni
come Amnesty International.
Tuttavia, se da una parte sentiamo ormai la tematica dei diritti umani come culturalmente
irrinunciabile, dall’altra non possiamo non ammettere come essa sia in larga parte irrealizzata
storicamente; ed è proprio in questa dialettica tra irrinunciabilità ed irrealizzazione che si colloca il
tormento del nostro tempo.
Esistono certamente precise motivazioni storiche della violazione dei diritti umani che variano da
paese a paese e da regime a regime; ma le ragioni più profonde sono in realtà metastoriche, attenendo al
modo stesso di pensare tali diritti:
1. i diritti umani conoscono un limite essenzialmente politico: essi, infatti, valgono, oggi, solo per i
cittadini di uno Stato che si sia impegnato formalmente a riconoscerli; quindi, alla garanzia dentro lo
Stato, non si affianca un’analoga garanzia contro lo Stato: finchè non esisterà una cittadinanza
planetaria, l’attuazione dei diritti sarà sempre strutturalmente limitata.
2. un secondo problema è di carattere strutturale ed attiene alla logica propriamente giuridica cui è
subordinata l’effettiva difesa istituzionale dei diritti: il diritto è un sistema volto a mediare pretese
individuali conflittuali e questa mediazione avviene istituzionalmente, nel segno della
massimizzazione della libertà di tutti; pertanto, sembra che nessun singolo diritto può essere
rivendicato da un soggetto senza essere in qualche modo limitato dal concorrente diritto di un altro
soggetto: di conseguenza, la realizzazione dei diritti umani sarebbe costitutivamente parziale. La
difficoltà nasce dal confondere lo statuto specifico del conflitto dei diritti con quello del conflitto dei
valori, dalla cui notoria non gerarchizzabilità deriva l’impossibilità di risoluzione, in termini di
giustizia, di ogni controversia che li riguardi se non mediante un atto decisionistico (che pone fine alla
controversia troncandola bruscamente e non riconoscendo quali siano obiettivamente le spettanze di
ciascuna parte); se invece non si moralizza il diritto, se cioè si comprende che il conflitto è tra opposte
pretese giuridiche soggettive, e non tra valori, l’antinomia può essere risolta ricorrendo al principio, di
matrice kantiana, dell’universalità, cioè riconoscendo come obiettivamente meritevole di tutela quel
diritto che non ha, o che ha comunque meno, il carattere del privilegio: la stessa rivendicazione di un
diritto, infatti, è possibile solo in quanto riconosciuta come obiettiva, cioè valida per chiunque venisse
a trovarsi nella medesima situazione (altrimenti si parlerebbe, appunto, della rivendicazione di un
privilegio).
3. il terzo, e fondamentale, problema riguarda la proliferazione delle carte dei diritti (già nel 1978
l’ONU ha pubblicato una raccolta ufficiale di ben 88 testi di dichiarazioni dei diritti umani) che
potrebbe costituire il prodromo della crisi definitiva di questo strumento di difesa dei diritti. E’
innegabile che a monte di questo moltiplicarsi vi sia l’esigenza di massimizzare la tutela degli
individui enumerando con la maggior precisione possibile le loro spettanze; esigenza rispettabile,
soprattutto in un momento come il nostro che, nell’incapacità di trovare un fondamento teoretico ai
diritti, cerca di garantire loro almeno uno stabile fondamento positivo; ma è anche un’esigenza
ingenua perché la totalità del sapere, soprattutto giuridico, non è mai quantitativa ma qualitativa, cioè
legata al suo saper cogliere in profondità le esigenze e le linee portanti della realtà che deve
regolamentare.
In realtà, la via maestra per difendere le spettanze assolute degli uomini passa attraverso la
consapevolezza che l’uomo è garantito veramente solo quando tutti i diritti che gli vengono riconosciuti
sono ricondotti ad un unico, stabile fondamento: il diritto di avere diritti, cioè il riconoscimento di ogni
uomo per quello che veramente è: persona; quindi la lotta per la promozione e la difesa dei diritti umani
viene a coincidere con la lotta per il riconoscimento della dignità umana, in quella che è la sua
PAGE 38
PAGE 38
Il mondo è caratterizzato dal pluralismo dei valori, nel senso che ogni cultura umana, essendo
diversa dalle altre, sostiene determinati valori che le sono propri; tuttavia, se la molteplicità e la
contraddittorietà delle culture e delle loro norme etiche e giuridiche è un fatto, parimenti un fatto è
l’anelito degli uomini nei confronti di un’unità che superi ogni dispersione.
Per i metafisici questo è il problema dell’uno e del molteplice e di come ciò che è singolare si
rispecchi, si diffonda o si manifesti in ciò che è plurale; per gli studiosi della morale è piuttosto il
problema dell’individuazione e della fondazione di norme assolute.
Il principio del pluralismo culturale è stato spesso utilizzato come ulteriore argomento critico nei
confronti del diritto naturale e delle sue pretese di assolutizzare come eterne ed immutabili le proprie
norme: secondo i critici del giusnaturalismo, infatti, se le culture sono, nel loro principio, plurime, non
può aver senso affermare che esistono diritti umani assoluti, innati, di carattere meta-culturale; ne
consegue che la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo andrebbe interpretata come si un
nobile documento ma in cui sono registrati non i diritti validi per ogni epoca e popolo, bensì solo i diritti
sentiti come irrinunciabili dalla cultura occidentale.
Ciò che va evidenziato, è che la critica al giusnaturalismo sfocia nella critica alla filosofia in
generale, come possibilità di discorso sulla verità.
• Chiavacci25: distingue i valori storici da quelli metafisici, qualificando i primi come quelli reali, umani,
e i secondi come il prodotto di una cultura.
E’ evidente che si potrebbe affermare esattamente il contrario; ma l’importante è insistere, come
insegna Pareyson, sul fatto che se una filosofia è tributaria della cultura del suo tempo, è cioè meramente
espressiva, non va considerata vera filosofia ma ideologia: la filosofia, infatti, è veramente tale quando è
rivelativa, quando cioè cerca di porre l’uomo in rapporto con la verità; conseguentemente, mentre il
pensiero espressivo consiste in una mera descrizione del mondo, in una registrazione delle diverse
dinamiche assiologiche presenti in esso, il pensiero rivelativo si presenta come infinitamente più gravoso
perché obbligato in via preliminare a liberarsi di ogni possibile forma di inquinamento ideologico (come
il condizionamento culturale).
Ma come è possibile un pensiero rivelativo? Lo stesso Chiavacci sostiene che esiste un appello a
un valore, al valore dell’uomo come valore radicale, che diviene giudizio morale sulla cultura; che esista
un’esperienza morale profonda, presente in ogni uomo, anteriore ad ogni condizionamento culturale,
radice di ogni re-azione ad esso, che permette di parlare ancora di ideali umanitari, di diritti umani, di
giustizia e pace, è qualcosa che dev’essere assunto se non si vuole perdere ogni originalità dell’individuo.
Ebbene, se si ammette l’esistenza di questa esperienza morale profonda, che non è riducibile ad un
dato culturale, non si può non ammettere la possibilità di un pensiero rivelativo, cioè di una
tematizzazione speculativa di questa esperienza (cioè una filosofia), capace di sottrarsi al
condizionamento culturale.
La filosofia così intesa, quindi, si presenta e si propone come possibilità di giudizio delle culture,
delle loro verità e della loro molteplicità e contraddittorietà, ma questo non implica che la filosofia si
presenti nei confronti delle culture come giudizio di condanna: essa non chiede alle culture di rinunciare
ad essere loro stesse, chiede soltanto di rinunciare ad assolutizzarsi, abbandonando la pretesa di far
assurgere i valori che esse sostengono ad unità di misura di ogni altra cultura (etnocentrismo); lo
specifico contributo che il pensiero rivelativo porta all’ermeneutica delle culture consiste, da un lato, nel
disvelarne il senso unitario, dall’altro nel mostrare che questo senso unitario non può essere colto
dall’etnologia ma dalla filosofia, perché non opera su di un piano strettamente culturale ma su un piano
specificamente antropologico, che trascende la pluralità delle culture: è solo attraverso l’ermeneutica
filosofica delle culture che è possibile far emergere le loro profonde valenze unitarie.
Consideriamo l’aneddoto di Erodoto sul trattamento riservato ai cadaveri dei genitori da parte dei
Greci e dei Calati, considerato come il primo esempio nella letteratura occidentale di presa di coscienza
del pluralismo culturale; la conclusione è relativistica ma è chiara la percezione di come sia i Greci che i
Calati abbiano in comune un valore fondamentale, quello del rispetto dei genitori, valore si condizionato
ma solo culturalmente, cioè solo nelle sue dimensioni estrinseche e non nella sua struttura fondamentale:
25 Parroco di Firenze, è docente di teologia morale presso la facoltà teologica dell'Italia centrale.
PAGE 38
26 1980.
PAGE 38
PAGE 38
Se esistono i diritti, correlativamente, esistono i doveri; tuttavia, che nell’età dei diritti esistano
doveri da qualificare come doveri fondamentali è questione antica ed irrisolta.
Ciò che si dà di essenziale nella formula doveri fondamentali è proprio la qualificazione di
fondamentale: il fondamentale è tale non perché dotato di importanza, ma perché non ha altro
fondamento che se stesso, perché non posa né rinvia ad altro che lo costituisca come tale; quando
riflettiamo su ciò che è fondamentale ci sentiamo rinviati alla dimensione dell’assoluto inteso come ciò
che è sottratto alla nostra disponibilità.
Quindi, va ritenuto fondamentale un dovere che gravi su tutti gli uomini indiscriminatamente e
che, nel contempo, sia tale che nessuno possa sottrarsi al suo adempimento: è un debito che non può non
essere pagato; ma esistono debiti del genere?
I poeti hanno individuato questo dovere fondamentale nel debito di morte, nel dover morire; è un
topos letterario, che troviamo nell’Alcesti di Euripide e nell’Enrico IV di Shakespeare, ma che non va
trascurato: la morte, come mero fatto naturalistico, ci accomuna a qualsiasi altro vivente, ma la morte
come debito ci caratterizza inequivocabilmente.
- Heidegger: il decesso è un fatto, la morte un significato; ma se lo è, lo è proprio perché, pur essendo un
fatto, essa non può mai essere completamente appiattita sul mero piano dei fatti in quanto le è inerente
la dimensione del dovere. Nella morte, insomma, essere e dover essere coincidono; la morte è un
dovere fondamentale perché in essa è indiscutibile la coincidenza tra ciò che sopravviene come fatto e
ciò che sopravviene come rendimento di un debito.
E questo lo hanno capito anche i teologi quando, prendendo sul serio la promessa di eternità fatta
dal creatore alla creatura, hanno negato che per l’uomo la morte vada intesa come evento naturale e
l’hanno, di conseguenza, tematizzata come espiazione di una colpa.
Cerchiamo di esprimere la dimensione della fonda mentalità vedendo se analogo discorso può
essere fatto per la simmetrica categoria dei diritti fondamentali; se il dovere fondamentale è quello in cui
sein e sollen coincidono, anche il diritto fondamentale dovrà essere chiarificato in modo analogo: è
fondamentale quel diritto che inerisce a tal punto l’uomo che non gli può mai essere completamente
sottratto, quel diritto che costituisce il fondamento di una pretesa soggettiva tale da non poter non essere
in qualche modo soddisfatta.
Qui sta il paradosso stoico sulla libertà, che da un lato è vista come un diritto che l’uomo
giustamente pretende che gli altri gli riconoscano, ma che dall’altra parte è considerata una dimensione
così propria dell’essere dell’uomo che nessuno glielo può propriamente sottrarre; insomma, nella libertà
sein e sollen coincidono: la libertà è il diritto fondamentale proprio perché assoluta e in espropriabile e,
nel contempo, assolutamente rivendicabile; essa è il presupposto ed insieme l’obiettivo di ogni prassi
umana: il punto di partenza (ciò che mi fa identificare l’uomo in quanto uomo, nella sua dignità) e il
punto di arrivo (ciò che l’uomo deve diventare per raggiungere la sua pienezza).
Premesso tutto ciò, possiamo ora approfondire il discorso sul dovere fondamentale come dovere
giuridico; un dovere giuridico fondamentale dev’essere tale che in esso sein e sollen coincidano, dando
quindi sostanza ad un dovere di essere.
La coesistenza può essere veramente detta il dovere fondamentale, ovvero il fondamento del
diritto, perché, essendo l’uomo costitutivamente relazionale, fuoriuscire dalla coesistenza non è possibile,
significherebbe uscire dallo stato di essere umano, e perché, dall’altra parte, la coesistenza è uno stato in
cui non si deve entrare perché ci si è già; il fatto di coesistere diviene per l’uomo il dovere di riconoscere
sé e gli altri come coesistenti e il dovere di coesistere presuppone l’ineliminabilità del fatto che sempre e
comunque noi uomini siamo già coesistenti.
PAGE 38