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DIRITTO PENALE TRA ESSERE E VALORE

1. La funzione sistematica della politica criminale


1.1 I caratteri del diritto penale
Moccia afferma che il diritto penale si caratterizza rispetto agli altri rami
dell’ordinamento giuridico almeno per tre peculiarità:

1. IL TENDENZIALE FORMALISMO necessario sia per la sistemazione e


l’interpretazione delle norme, sia per garantire affidabilità e certezza al diritto
penale, essendo quest’ultimo lo strumento che maggiormente incide sulla
libertà individuale.
2. PARTICOLARE ATTENZIONE AI TITIOLI DI RESPONSABILITA’ per
l’attribuibilità del fatto è necessaria la presenza del dolo
3. TIPOLOGIA DELLE SANZIONI, IN PARTICOLARE LA PENA CRIMINLAE Essa è
la forma mediante la quale si realizza l’intervento dello Stato e si sostanzia
sempre in una limitazione della libertà personale; anche la pena pecuniaria
comporta tale limitazione, in quanto produce l’effetto di un abbassamento del
tenore di vita del soggetto, e quindi sulla sua possibilità di sviluppo.
Proprio perché attraverso la pena si può incidere sui diritti fondamentali
dell’individuo, è necessario un impianto garantistico di tali diritti:
PRINCIPIO DI LEGALITA’ nullum crimen nulla pena sine lege (1 c.p.)
ART 27 CO. 3 COST.  le pene non posso consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (funzione
rieducativa della pena)
SENT. CORTE COST. 364/88  illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella
parte in cui non viene esclusa dall’ inescusabilità dell’ignoranza della legge penale
l’ignoranza inevitabile
Il diritto penale nasce proprio da esigenze di politica criminale: consentire una
pacifica coesistenza tra i consociati. Pertanto, alla politica criminale e alla teoria
della pena non può essere negato il ruolo centrale nella costruzione del sistema e
nell’interpretazione delle norme, senza i rischi dell’incompletezza e inefficienza.

1.2 Ideologia e diritto


Una funzione fondamentale nella scienza del diritto penale viene svolta dai modelli
ideologici, dai quali il diritto penale trae contenuto per le sue astrazioni concettuali,
mentre l’ideologia trova ordine e sistemazione nell’impianto normativo del diritto:
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dunque, si completano a vicenda, in un rapporto simbiotico.
Il diritto quindi, non nasce e si sviluppa in uno spazio ”tecnico” isolato, ma trae
origine da rapporti esistenziali sulla base di dati della realtà fenomenica: tra questi
dati, un ruolo fondamentale è svolto dall’ideologia.
L’importanza dell’ideologia e la sua riconoscibilità nei singoli settori del diritto è
diversificata, ma presente ed evidente, ad esempio, nel diritto costituzionale o nel
diritto penale, dove l’ideologia socio-politica influenza scelte di politica criminale,
creando tipi di reato a tutela di quei valori sentiti come fondamentali dall’ideologia
cui ci si orienta; altrettanto immediata è l’influenza del modello ideologico nei
confronti del significato e delle finalità delle sanzioni criminali.
Una legislazione ispirata ad un eccesso empirismo, poco attenta al modello
ideologico, reca con sé il duplice rischio di creare confusione sul piano normativo –
rendendo inefficienti i risultati – e di pregiudicare i diritti fondamentali.

1.3 Politica criminale e sistematica giuridico penale


Da queste premesse parte la rivoluzione giuridica della metodologia teleologica, di
cui Claus Roxin è stato espressione eminente con il suo “politica criminale e sistema
di giustizia penale”, in cui tende a restringere la tradizionale antitesi tra politica
criminale e sistematica, scalpita nell’espressione “il diritto penale è l’insormontabile
limite della politica criminale” di Litz. Essa è espressione del processo sintetico di
tipo ideologico tra stato di diritto e stato sociale, cioè tra ideologie liberali e
ideologie solidaristiche.
Moccia, in accordo con il pensiero roxiano, ritiene insussistente la contraddizione o
reciproca esclusione delle sfere di dommatica penale e politica criminale,
sostenendo invece che l’integrazione reciproca tra le due sfere debba realizzarsi sin
dalla teoria del reato. Le tre categorie fondamentali (tipicità, antigiuridicità e
colpevolezza) vanno sin dal principio sviluppate e sistematizzate secondo la loro
funzione politico-criminale.
Nell’elaborazione sistematica di Roxin:
il fatto-tipico serve a soddisfare le esigenze di tassatività e determinatezza.
l’antigiuridicità ha la funzione di risoluzione dei conflitti sociali;
la colpevolezza, denominata responsabilità, assume la funzione di limite
garantistico della pretesa punitiva.
Con un sistema penale orientato ai principi di politica criminale, il quale realizza uno
stretto collegamento tra norme giuridiche e realtà sociale, viene ribaltata, in
accordo con Roxin, la concezione Litziana e si realizza, finalmente, un legame tra
elementi di valore (principi giuridici) ed elementi di essere (rapporti esistenziali).
Il muro posto da Litz crolla soprattutto in quanto la politica criminale viene ad
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assolvere la funzione di delimitare l’intervento punitivo statale, mediante
l’adozione di strategie di controllo di fatti ritenuti socialmente dannosi e che, nel
rispetto della libertà e dignità della persona, sono ispirate a criteri di razionalità ed
efficienza.

In questo modo, il sistema penale è costretto a sbarazzarsi di presupposti di


derivazione irrazionale (come la teoria retributiva della pena) che imponevano
pericolosi automatismi nell’inflizione delle sanzioni, senza rinunciare, tuttavia, alle
garanzie tradizionali, come il rispetto delle regole di proporzione connesso
all’originaria importazione retribuzionistica.
Ciò dà vita ad una reciproca limitazione tra diritto penale e politica criminale, che
finisce con l’ampliare il campo delle garanzie formali e sostanziali.
La concezione retributiva della pena, che è tipica espressione di una fondazione
irrazionale del diritto e dello Stato, ha trovato una rinnovata consacrazione nel
sistema finalistico di Welzel (padre della dottrina dell’adeguatezza sociale). Il
fulcro del pensiero welzieliano è costituito, infatti, da principi eternamente validi
a cui anche il legislatore è vincolato: violandoli egli si comporterebbe contro la
logica.

1.4 Il fondamento normativo dei principi di politica criminale


Facendo riferimento al sistema italiano, è facile individuare agganci normativi su cui
fondare le funzioni politico-criminali della tipicità, antigiuridicità e della
responsabilità, cioè di tutela della libertà, di risoluzione dei conflitti sociali e di
prevenzione.
 La tutela della libertà è espressa come finalità politico-criminale dagli artt.
13, 25 co. 2 e 3, e 11 Cost., i quali, con riserva assoluta e rinforzata di legge
e di giurisdizione, garantiscono l’individuo relativamente alla restrizione
della libertà personale.
La stessa categoria del fatto, proprio perché destinata all’individuazione delle
condotte punibili, può considerarsi orientata alla tutela della libertà personale
dell’individuo, attraverso la pretesa del rispetto, da parte del legislatore, del
principio di legalità.
 La risoluzione dei conflitti sociali deve realizzarsi secondo prospettive
personalistico-solidaristiche: anch’esse come la tutela della libertà,

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indicate dall’intero ordinamento costituzionale, ed in particolare dagli artt.
2 e 3 Cost.
1° es.  Art. 41 Cost. (libertà di iniziativa economica), il quale, dopo aver
stabilito che l’iniziativa privata è libera, precisa al 2° co. che questa non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, libertà e dignità umana.
2° es.  Art. 42 Cost. (proprietà privata), il quale dopo aver riconosciuto e
garantito la proprietà privata, stabilisce che essa può essere espropriata per
motivi di interesse generale.
3° es.  Art. 32 Cost. (diritto alla salute) dopo aver disposto la riserva di legge
relativa ai trattamenti sanitari coattivi, prescrive che la legge non può in
nessun caso violare i limiti posti dal rispetto della persona umana.
Questo orientamento è anche confermato dalle indicazioni di soluzioni di conflitti
proposte da Roxin, a proposito del problema sulla legittima difesa da aggressioni
effettuate da bambini o incapaci, si addiviene ad una limitazione dell’esercizio del
diritto di difesa, poiché “sono intollerabili con l’attuale modo nostro di sentire, gravi
lesioni ai bambini, se non indispensabili alla propria difesa.” Una tale intollerabilità è
espressione di quei principi fondamentali di solidarietà e tutela della persona.
 L’ultima funzione, quella di realizzazione delle esigenze di prevenzione,
trova anch’essa derivazione dall’assetto costituzionale. Tuttavia non tutte
le opzioni di prevenzione sono compatibili con i principi costituzionali.
Sono certamente validi l’art 27 Cost., 1° e 3° co., (principio della
personalità della responsabilità penale e principio di rieducazione e divieto
di trattamenti contrari al senso di umanità), gli artt. 2 e 3 Cost.
(proporzione tra fatto e pena), gli artt. 25 e 13 Cost. (tutela della libertà
personale)
Moccia, tuttavia, va oltre Roxin, affermando che le tre funzioni politico-criminali di
riferimento, anche se in misura e in maniera diversa, coagiscano all’interno di tutte
e tre le categorie, in quanto risulterebbe limitante una netta separazione e una
diversa assegnazione di compiti a ciascuna delle tre categorie del reato. Ciò vuol
dire che tutela della libertà, soluzione dei conflitti sociali e realizzazione delle
finalità preventive della sanzione penale, hanno un’incidenza diretta, anche se
differenziata, sul fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza.
Il criterio politico-criminale, che nella costruzione sistematica è preminente, è quello
della funzione della pena: essa riflette direttamente le opzioni fondamentali

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dell’intero sistema politico-giuridico in cui opera, ne è dunque elemento
caratterizzante.

2. Le teorie penali pure


2.1 La dimensione concettuale della pena
Moccia, a questo punto, passa ad analizzare le elaborazioni teoriche più compite
dell’idea-pena che vennero prodotte tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, nel
tentativo di individuare la teoria della pena più adatta, come riferimento anche in
termini di riforma del sistema del diritto penale.
La pena è concettualmente, secondo Hegel, la risposta a qualcosa che è già
accaduto: la pena rappresenta il momento in cui il diritto violato dal reato viene
ristabilito attraverso l’inflizione della pena, la quale è funzionale al perseguimento di
qualsiasi finalità, a partire dalla retribuzione, fino alle più avanzate forme di
risocializzazione.
In particolare, per quanto attiene alle funzioni della pena, si distinguono:
 TEORIE ASSOLUTE: non perseguono finalità ulteriori rispetto alla mera
inflizione della pena
 TEORIE RELATIVE: perseguono una o più finalità ulteriori e
 TEORIE PURE: perseguono una sola finalità e si riducono essenzialmente a
quattro tipologie:
1. Teoria della retribuzione (Kant)
2. Teoria della prevenzione generale (Feuerbach)
3. Teoria della prevenzione speciale (Grolman)
4. Teoria dell’emenda (Krause)
 TEORIE ECLETTICHE: perseguono una pluralità di finalità e risultano dalla
combinazione eclettica degli elementi base delle teorie pure. (Se ne
conosce una varietà notevole a differenza delle quattro teorie pure)

2.2 Teoria retributiva di Kant


Kant accenna al problema della pena in diverse opere, ma ne tratta espressamente
nella prima parte della Metafisica dei costumi.
Per Kant, il diritto penale è “il diritto del sovrano di infliggere una pena verso chi gli è
soggetto, quando si sia reso colpevole di un delitto”; da questa formula emerge un
principio di colpevolezza, che però ha portata unilaterale, in quanto viene negata
alla sanzione penale qualsiasi scopo a vantaggio del criminale stesso o della società:
LA PENA VA INFLITTA SOLTANTO PERCHE’ E’ STATO COMMESSO UN CRIMINE.

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Kant, inoltre, introduce nella dottrina del reato la tipica espressione della legge
morale: l’imperativo categorico “La legge penale è un imperativo categorico”.
In questo modo vengono a confondersi prospettive etiche e giuridiche, con
implicazioni pericolose sul piano della libertà individuale; sebbene Kant, infatti,
avesse operato una netta distinzione tra diritto e morale, con questa sua
affermazione (= la legge penale è un imperativo categorico) inevitabilmente
confonde il piano giuridico con quello della moralità all’interno della teoria
retributiva.

La concezione della pena giuridica intesa come mera inflizione di un castigo dà vita
ad una aporia di fondo della teoria penale retributiva:
 Il principio secondo cui la pena va determinata in specie e in grado, è per Kant
quello dello jus talionis (legge del taglione), inteso come sistema che mira a punire
chi delinque secondo la sua malvagità interna, commettendo il grave errore di
confondere la pena, che è un istituto giuridico, con gli aspetti interiori dell’agire
delinquenziale, anziché prendere in considerazione gli aspetti esteriori di tale gire.
La scelta retributiva di Kant si dimostra inflessibile, al punto da giustificare
l’inflizione della pena di morte contro i delitti come l’assassinio o qualunque altro
pubblico delitto che solo la morte può espiare, ad eccezione dei delitti commessi dal
sovrano, nei confronti dei cittadini che secondo Kant – ma a differenza di Feuerbach
– non hanno diritto di resistenza contro il sovrano.

METAFORA DELL’ISOLA  Kant afferma che nell’isola in procinto di essere


abbandonata dagli abitanti, a cui corrisponderebbe lo Stato in procinto di essere
abbandonato, con il consenso di tutti i membri della società civile, l’ultimo assassino
che si trovi in prigione (sull’isola/ Stato) debba prima essere giustiziato (necessarietà
della pena di morte per l’espiazione dei delitti) affinché ciascuno degli abitanti porti
la pena della sua condotta, e che non possa, contrariamente, essere considerato
come complice di questa violazione pubblica della giustizia.

Critica di Moccia: l’inutilizzabilità della teoria retributiva nel sistema giuridico


 Kant definisce la legge penale come un imperativo categorico,
confondendo la moralità con il diritto e facendone inequivocabilmente
discendere una teoria etico-retributiva.
Inoltre, l’identificazione della legge penale con l’imperativo categorico risulta in
netto contrasto con gli stessi principi kantiani della dottrina dell’imperativo, e rende
quindi improponibile una teorizzazione assoluta; Kant definisce infatti, l’imperativo
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categorico, a differenza di quello ipotetico, come “tipico della moralità” e, in quanto
espressione dell’autonomia del soggetto, si impone di per sé al di là di qualsiasi
sollecitazione esterna.
Se, inoltre, il vero presupposto dell’imperativo categorico risulta essere la libertà,
non è concepibile un’identificazione con la legge, in quanto questa, specialmente se
si tratta di legge penale, ha poteri di coercizione molto forti (per Kant, infatti, anche
la pena di morte può essere sanzione)
Occorrerebbe sempre dimostrare che il soggetto non abbia infranto la legge per il
mero rispetto della legge in sé, e non per il timore della pena che sarebbe scaturita
dalla violazione.
Ammessa, quasi per assurdo, una possibilità di dimostrazione in tal senso, la norma
penale dovrebbe anche astenersi dal formulare giudizi esterni al soggetto, per
rispettare l’autonomia e l’autogiudizio dell’imperativo categorico; questi
procedimenti non risultano impossibili, ma non sono rilevanti per uno stato di
diritto.
La teoria di Kant diede vita a due correnti contrastanti:
1. Una prima corrente fu costituita da autori che accettarono passivamente
l’idea della legge penale come imperativo categorico e la retribuzione come
criterio di inflizione
2. Una seconda corrente fu costituita da penalisti veri e propri che individuarono
la contraddizione della teoria kantiana e la superarono stabilendo la
distinzione tra diritto e morale, per cui al diritto appartiene la sfera esterna
dell’agire e alla morale l’aspetto interiore dell’agire: di qui una particolare
attenzione anche alle esigenze di proporzione e moderazione nell’inflizione
delle sanzioni, in virtù del principio della finalità dell’uomo, inteso come
rispetto della personalità anche del delinquente.
Sulla base di questi presupposti vennero elaborate le teorie relative, finalizzate al
perseguimento di un ben preciso scopo di prevenzione, oltre alla mera inflizione
della pena. (prevenzione generaleFeuerbach – prevenzione specialeGrolman.

2.3 Teoria general-preventiva del costringimento psicologico di Feuerbach


Feuerbach elaborò una concezione general-preventiva secondo la quale alla pena
era affidata la funzione di trattenere, attraverso “la minaccia”, prima della
commissione del reato, e “l’inflizione” dopo, la generalità dei consociati dal
commettere reati.
Egli collega lo scopo della pena allo scopo dello Stato, ossia la difesa della libertà
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individuale. In accordo con Kant, Feuerbach ritiene infatti che “l’uso della libertà di
un essere razionale non deve contraddire l’uso della libertà di ogni altro essere
razionale”; a tal fine lo Stato è creato per assicurare la stabilità delle regole razionali
della convivenza civile. Inoltre, Feuerbach precisa che lo scopo dello Stato è quello di
assicurare una condizione nella quale tutti i cittadini sono liberi di esercitare i propri
diritti, al sicuro da offese; ogni offesa, contraddice lo scopo del consorzio civile,
dunque, è necessario che essa non si verifichi.
Il mezzo di prevenzione di tali offese all’altrui libertà è individuata nella
predisposizione di ostacoli di tipo psicologico, cioè la minaccia di un castigo per ogni
offesa: LA PENA CIVILE.
Al contrario di Kant, Feuerbach tiene ben distinte sfera giuridica e sfera morale, e in
particolare pena civile e pena morale:
 Il fondamento della pena civile è l’infrazione della legge giuridica, la quale
prende in considerazione le sole azioni esterne ad essa conformi o
difformi.
 Il fondamento della pena morale è l’infrazione della legge del dovere, ossia
l’immortalità dell’intenzione
Da ciò consegue che dallo Stato, così come nessuno, tranne che da Dio, non può
essere punita alcun’azione contraria al dovere, solo perché tale.
Un ulteriore punto di attrito tra Kant e Feuerbach è costituito dal fatto che
quest’ultimo ammette la resistenza dei cittadini nei confronti del sovrano infedele
(cioè delittuoso).

Per Feuerbach, l’azione delittuosa è determinata dalla propensione a soddisfare gli


interessi e i piaceri del soggetto agente (cioè un mezzo per procurare piacere a chi
commetta il reato); per evitare la commissione di fatti criminosi occorre che alla
rappresentazione del piacere connessa all’azione delittuosa, venga contrapposta la
rappresentazione di un dolore, (superiore all’eventuale piacere derivante dalla
commissione del reato) come inderogabile conseguenza del fatto realizzato.
In questo modo, dovrebbe sorgere nei potenziali delinquenti un timore (coazione
psicologica) tale da inibire il proposito criminoso e da prevenire quindi la
commissione del reato.
Ne deriva, dunque, un ruolo fondamentale della legge: questa per poter attuare
completamente la coazione psicologica, deve essere determinata sia relativamente
al fatto che alla pena da infliggere (principio di legalità).  Questo accentuato
legalismo, che rispondeva alle esigenze di libertà individuale e di certezza del diritto,
portò Feuerbach a vincolare eccessivamente il giudice al testo letterale della legge,
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al fine di rendere inderogabile l’applicazione della legge in caso di violazione di essa,
e al fine di rendere effettiva la minaccia della pena: effettività necessaria per
generare una coazione psicologica ed indispensabile per una concezione general-
preventiva della pena.

2.4 Teoria special-preventiva di Grolman


Grolman, come Feuerbach, accoglie i principi di separazione tra diritto e morale, di
tutela della dignità umana, di competenza del diritto per le azioni esterne e del
rispetto della personalità anche per chi delinque.
Il punto di partenza dell’elaborazione di Grolman è l’esistenza di un principio
giusnaturalistico che è il naturale diritto di difesa, proprio di ogni essere umano,
contro gli attentati alla libertà: questo generale diritto alla difesa si articola nel
diritto di legittima difesa, nel risarcimento del danno e nel diritto di impedire l’offesa
minacciata, ossia nel diritto di sicurezza e prevenzione.
Il diritto di prevenzione è strettamente collegato alla minaccia di un’offesa ingiusta,
e Grolman individua in tale minaccia un delitto già commesso, in quanto il
delinquente si è dimostrato, con il reato, un essere non ragionevole poiché
antepone il soddisfacimento delle sue personali esigenze, al rispetto dell’altrui
diritto, per cui appare probabile il ripetersi di azioni delittuose da parte di egli: la
soluzione per G. è, dunque, eliminare lo stimolo che provoca il delitto.
L’eliminazione può avvenire già prima della commissione del delitto, attraverso
l’effetto intimidativo dell’inflizione della pena, oppure dopo il delitto, mettendo il
soggetto nell’impossibilità fisica di attuare la sua minaccia.
Questo diritto punitivo (il cui fondamento è il diritto alla prevenzione) può essere
esercitato esclusivamente dallo Stato, nel rispetto di alcuni principi fondamentali:
 PRINCIPIO DI SUSSIDIARITEA’ DEL DIRITTO PENALE  la pena dovrà essere
inflitta solo nei casi in cui risulti impossibile applicare un altro provvedimento
che incida di meno sulla libertà individuale del soggetto.
 DIVIETO DI TRATTAMENTI CONTRO L’UMANITA’ O LA DIGNITA’ DELL’UOMO
 PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’ TRA ENTITA’ DEL FATTO COMMESSO E
MISURA DELLA PENA
Nella valutazione del fatto commesso, Grolman attribuisce notevole importanza alle
sue caratteristiche soggettive, cioè alla personalità del soggetto (infatti equipara il
delitto tentato al delitto consumato), senza però l’intromissione di elementi etici nel
giudizio di diritto (a differenza di come invece gli criticava Feuerbach): Grolman
mantenne sempre netta la distinzione tra diritto e morale, e a conferma di ciò vi è la

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sua affermazione secondo la quale la pena statuale dovrà colpire sempre e solo
l’autore di una violazione della legge giuridico penale e non della legge morale.
La teoria special-preventiva di Grolman, tuttavia, non abbraccia i contenuti della
risocializzazione del delinquente; questi saranno presi in considerazione soltanto
verso il 1800, ad opera del penalista Litz.

2.5 Teoria dell’emenda di Krause


L’elaborazione di Krause può essere considerata come un diretto antecedente
dell’dea di risocializzazione. Nel sistema krausiano, la finalità principale del diritto
consiste nel consentire la massima esplicazione della personalità dell’individuo, in
sintonia con il soddisfacimento di esigenze di ordine sociale, superindividuali.
Secondo Krause, il delinquente, per quanto concerne il suo delitto, è da considerare
come un minore, un incapace, cioè come un individuo che non è in grado di
esprimere la propria personalità nel rispetto deli altri; pertanto egli propone, per il
delinquente, un’opera di emenda, cioè in una correzione, funzionale ad annullare i
motivi interni che spingono a compiere il male. L’origine del male deriva da una
carenza o erronea formazione della conoscenza e della volontà; la soluzione è,
dunque, sollecitare, anche con la forza, la volontà del reo ad una diversa
determinazione, conforme alle esigenze etico-giuridiche.
La pena si concreta per Krause in un trattamento per debellare il male
dall’individuo, articolato in quattro fasi:
1. Annullamento del male bisogna sollecitare la naturale buona volontà
dell’essere umano servendosi dell’educazione e della cultura formativa.
2. Eliminazione delle condizioni esterne sbagliate isolamento dall’ambiente
esterno e dagli altri condannati
3. Recupero morale del delinquente  accontentandosi anche del semplice
rispetto della legalità
4. Convogliamento delle energie fisiche del delinquente alla pratica del bene
avviamento al lavoro equamente retribuito, tenendo conto delle particolari
attitudini ed aspirazioni del singolo ai fini di un proficuo reinserimento sociale.
La realizzazione di questo programma correzionalista richiede la privazione a tempo
indeterminato della libertà, finché lo scopo di emenda non è raggiunto; il che
comporta conseguentemente un notevole ampliamento del potere discrezionale del
giudice, sia in sede di giudizio che di esecuzione.
Per tale motivo, insieme alla possibilità di un trattamento coattivo, una teoria del
genere non può essere compatibile con esigenze garantistiche dello stato di diritto,
ma anche dello stato sociale.
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Tuttavia, Krause si sforzò di rispettare i principi dello stato di diritto: egli infatti
prevede la sanzione penale come extrema ratio, e umanizza al massimo il
trattamento sanzionatorio, ma soprattutto privilegia gli aspetti soggettivi, guardando
maggiormente al reo, più che al reato: il che ha portato a guardare la pena come un
qualcosa di buono sia per il delinquente che per la società stessa, la quale dovrà
essere posta in condizione di poter contare pienamente su tutti i suoi componenti.

2.6 Prevenzione generale integratrice


Accanto a tali teorie pure, vi è anche un’altra concezione relativa, ovvero una
variante della prevenzione generale, secondo la quale, al posto del tradizionale
effetto di intimidazione, va privilegiato un effetto di reale accoglimento dei
contenuti precettivi delle norme penali da parte dei consociati, con una conseguente
stabilizzazione intorno a principi fondamentali dell’ordinamento (viene perseguito
cioè il fine di adesione/stabilizzazione dei consensi dei membri della società civile
ai principi dell’ordinamento).
Questo risultato è tuttavia ottenibile soltanto se vengono rispettate due condizioni:
1. Momento legislativo (creazione norme) occorre che siano redatte norme
connotate da chiarezza, determinatezza, ragionevolezza e proporzionalità tra
sanzione ed illecito, e poste a presidio di beni giuridici particolarmente
significativi, la cui tutela attraverso lo strumento penale, sia apprezzata dai
membri della società civile poiché non perseguibile efficacemente con
strumenti alternativi.
2. Momento del giudizio (applicazione norme) si richiede una corretta ed
efficiente amministrazione della giustizia; ciò implica una pronta inflizione
della sanzione e una commisurazione secondo i criteri di razionalità e di
rispetto dei diritti della persona.

Le critiche avanzate a tale teoria, la accusano di essere funzionale a derive


autoritarie dell’ordinamento, a causa della stabilizzazione e ricerca dei consensi nei
confronti di un determinato assetto ordinamentale.
In accordo con Moccia, il problema di tali derive autoritarie non risiede nella mera
adozione di una teoria che abbia come fine quello dell’adeguamento dei consensi ai
principi dell’ordinamento, dal momento che ogni ordinamento ha come sua ratio
essendi la ricerca di adesione alle regole che pone da parte dei destinatari, bensì nei
valori su cui si basa tale adeguamento dei consensi.
(Se si scelgono dei valori intrinsecamente antidemocratici, e si tenta di far
adeguare il consenso dei cittadini a tali valori, allora non sarà la teoria general-
preventiva integratrice colpevole della deriva autoritaria, ma i meri disvalori
prescelti).

3. Il problema del metodo


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3.2 L’esperienza metodologica antiformalistica
Un tentativo di teorizzazione di una sistematica teologica imperniata sulla funzione
della pena, cioè un ripensamento generale del sistema penale attraverso la
riscoperta del ruolo centrale della funzione della pena, si ebbe solo intorno al 1930
grazie alla corrente neokantiana. Questa corrente è espressione di un ampio
indirizzo antiformalistico, che tentava di abbattere il falso mito della legalità formale
ed oggettiva, tipica del positivismo giuridico. Questo mito era infatti ritenuto
responsabile del mancato adeguamento delle regole del diritto all’evoluzione dei
rapporti socio-individuali, con il risultato di un’insoddisfacente soluzione dei concreti
problemi emergenti.
Secondo la dottrina positivistica, infatti, il diritto deve tendere ad un formalismo
astratto, in cui i concetti giuridici vengono costruiti tramite sussunzioni, astrazioni
generalizzanti ed analisi e sintesi logico-formali con esclusione di qualsiasi elemento
storico-valutativo che cerchi di collegare il diritto alla vita sociale concreta. Il diritto
pertanto, secondo Kelsen (principale esponente del positivismo), appartiene al
Sollen, al dover essere e non al Sein, all’essere (storicamente dato); il diritto è
totalmente scollegato dalla realtà empirica, anzi si pone in un rapporto antitetico
con questa.
A tale impostazione si contrappone l’indirizzo antiformalistico (neokantiani) che si
basa sul pensiero di Von Jhering, il quale individuò nelle idee di valore e di scopo i
concetti fondamentali del diritto; il diritto poteva essere compreso e sistematizzato
solo attraverso un sistema di valori alla cui realizzazione esso stesso veniva posto.
Importante fu anche l’intervento di Litz, il quale, pur restando fedele alla sistematica
formalista per ragioni garantistiche, dall’altro diede un notevole impulso alla
sistematica teleologica, esaltando la funzione delle idee di mezzo e di scopo in
riferimento alla sanzione e al bene giuridico.

4. La pena come integrazione sociale


4.1 Introduzione ad una concezione normativa della pena
Nello stabilire quale sia la funzione legittimamente attribuibile alla pena in uno stato
sociale di diritto è utile, ad avviso di Moccia, partire dall’interpretazione dell’art. 27
co. 3 Cost., il quale contiene un espressa indicazione della funzione rieducativa della
pena; ciò sia al fine di coglierne la reale portata, che al fine di svelare le relazioni con
gli altri principi fondamentali rapportabili alla funzione della pena (espressi da altre
norme costituzionali).
Il riferimento ai principi costituzionali, infatti, rimedia alla grave carenza
dell’elaborazione sistematica (teleologica) sperimentata dalla dottrina penalistica
neokantiana: seppure le costruzioni sembravano sempre elaborate con coerenza
rispetto al fine perseguito, tuttavia, in assenza di un collegamento con dei principi di
derivazione normativa, esse erano prive di vincolatività.
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La scelta di validi principi di riferimento, come quelli derivati dalle norme di una
Costituzione rigida, consente invece di impostare un sistema teleologicamente
orientato, secondo gli insegnamenti neokantiani, che possa aspirare anche a
caratteri di vincolatività.

4.2 Incompatibilità ordinamentale della retribuzione


Fino al 1960 la teoria assoluta retributiva era sostenuta da ampio consenso, ma con
il successivo riferimento a principi giuridici penalistici derivanti dalla Costituzione, si
è avuta un’inversione di tendenza a favore del perseguimento di finalità di
prevenzione.
Ad avviso di Moccia, gli errori della teoria retributiva, che rendevano quest’ultima
incompatibile con uno stato sociale di diritto (come il nostro), sono tre:
1. Contrasto con gli stessi principi posti a fondamento dello stato sociale di
diritto: la pretesa che il contenuto anti-etico del reato possa essere annullato
con l’inflizione della pena è un assunto irrazionale, in quanto la giustizia
sociale deve intervenire per garantire comportamenti conformi alla legalità e
non anche alla moralità ; inoltre è inconciliabile con i principi di uno stato
democratico, in quanto in una democrazia tutti i poteri, incluso quello
giudiziario, sono espressione della sovranità popolare, dunque non si
consente che la sentenza del giudice trascenda le esigenze (di pacifica
convivenza sociale) di chi ha effettivamente conferito al giudice il potere di
amministrare la giustizia.
2. Il vizio di irrazionalismo sul piano ontologico (ossia che riguarda la stessa
natura dell’essere): voler retribuire il male della condotta colpevole con il
male della pena presuppone di riconoscere, nella natura dell’uomo, la
possibilità di poter agire diversamente; ma la validità di un tale
riconoscimento si scontra con l’ostacolo della prova del libero arbitrio che
rende inutilizzabile la teoria retributiva.
Anche quando si volesse presuppore come certa la possibilità, per il
delinquente, di agire diversamente, dovrebbe comunque fornirsi anche la
prova della possibilità di comportarsi correttamente.
3. Sterilità da un punto di vista politico-criminale: l’accoglimento di una teoria
che si basi sulla mera inflizione della pena, specialmente nella fase esecutiva,
secondo parametri retribuzionistici, risulta sterile sotto il profilo delle esigenze
di natura politica-criminale, favorendo il recidivismo.

4.3 Verso il superamento del concetto di colpevolezza


Ciò che viene tradizionalmente riconosciuto alla concezione retributiva della pena è
il collegamento della colpevolezza dell’autore a un determinato reato, cioè la sua
significativa funzione garantistica di limite all’intervento punitivo statale, e quindi di
tutela alla libertà individuale nei confronti di eccessivi interventi nella sfera
13
personale.
Infatti, considerazioni di prevenzione generale o speciale potrebbero portare
all’inflizione si una pena sproporzionata, mentre la retribuzione di colpevolezza, non
consentendo che si possa infliggere una pena in assenza della colpevolezza
dell’autore, né essere in misura superiore all’entità della stessa colpevolezza,
impedisce che la libertà venga sacrificata a favore dell’interesse ad una
intimidazione di carattere generale o a favore di finalità di riadattamento sociale
indipendenti dall’effettiva gravità del reato commesso.

Queste considerazioni hanno indotto Roxin a tentare, per la tutela delle garanzie
individuali, un’operazione di recupero del mero principio di colpevolezza,
sganciandolo dai suoi legami con la retribuzione, al fine di utilizzarlo nella sua
funzione liberale di limite garantistico all’intervento punitivo statale.
Roxin, inoltre, individua nel principio di colpevolezza, non solo un valore
garantistico, ma anche di tipo preventivo speciale e generale:
 Dal punto di vista special-preventivo, l’applicazione del principio di colpevolezza,
consentendo di mantenere fermo il rapporto tra pena e responsabilità per il fatto,
eliminerebbe il rischio degli effetti desocializzanti connessi all’inflizione di una pena
eccessiva, che viene sentita dal reo come un’ingiustizia e si rivela un ostacolo per
un’azione di recupero.
 Dal punto di vista general-preventivo, l’applicazione di tale principio,
esplicherebbe un effetto di stabilizzazione dei consensi da parte dei membri della
società civile rispetto all’ordinamento, in quanto la generalità dei consociati
considererebbe la sanzioni inflitte come giuste, proprio perché delimitate dalla
colpevolezza del fatto.
Tuttavia, l’utilizzazione del concetto di colpevolezza essenzialmente in funzione di
limite garantistico (Roxin), è stata criticata sulla base del fatto che la colpevolezza,
per avere capacità di limitare la misura della pena, dovrebbe contemporaneamente
integrare una condizione necessaria della pena, e quindi, risulterebbe essere
contestualmente limite e fondamento della pena stessa.

Quello che dunque viene proposto (anche da Moccia) è un superamento del


principio di colpevolezza, in quanto, pur riconoscendo la significatività della
funzione garantistica della colpevolezza come limite all’intervento punitivo statale,
nonché gli effetti di prevenzione speciale (non desocializzazione) e generale
(aggregazione dei consensi intorno ai principi ordinamentali).
 Se, in accordo con Roxin, si depura il concetto di colpevolezza da quegli aspetti
problematici per uno stato di diritto (pena retributiva), le si lascia comunque
la sola funzione di garantire la proporzione della pena con il fatto commesso
ad un soggetto imputabile.

14
 In secondo luogo, si afferma che, pur essendo soddisfatte le esigenze di
prevenzione (generale e speciale), la colpevolezza è strettamente connessa,
sotto un punto di vista logico-teoretico, alla retribuzione.
Moccia preferisce, dunque, sostituire questa “colpevolezza senza riprovevolezza”
(senza contenuti eticizzanti) con un concetto di proporzionalità, i cui criteri di
valutazione sono dati dal titolo di imputazione soggettiva (dolo e colpa) e dalla
gravità del fatto sotto il profilo della dannosità sociale:
la pena deve essere proporzionata al disvalore di azione (imputazione soggettiva=
dolo/colpa) e al disvalore di evento (dannosità sociale= rilevanza del bene giuridico
offeso, grado di offesa e modalità di aggressione) e alle circostanze entro le quali si
agisce, tenendo conto sempre delle esigenze di prevenzione (generale e speciale)
che attribuiscono alla pena la funzione di integrazione sociale.
Si giunge così a plasmare una categoria di responsabilità personale deeticizzata
(modellata sul tipo della responsabilità roxiana).
La proporzionalità di Moccia risulta una categoria composta da elementi eterogenei,
soggettivi e oggettivi.
In questa categoria rientra sia il fatto dell’imputabile che del non imputabile:
l’imputabilità non è più presupposto per il giudizio di colpevolezza, ma serve
soltanto ad adeguare il trattamento sanzionatorio a seconda della misura in cui il
soggetto (imputabile o non imputabile) riesce a recepire il dettato normativo e ad
orientarsi di conseguenza.
La funzione di limite dell’intervento punitivo statale (che per Roxin rappresenta
l’unico ruolo della colpevolezza) è per Moccia possibile attraverso i parametri di
ragionevolezza di cui l’art. 3 Cost.

(Roxin compie un’operazione di salvataggio del principio di colpevolezza, il quale


nasce imprescindibilmente in senso retribuzionistico, cioè di comminazione di un
male a fronte di un male compiuto. L’unico elemento della colpevolezza che fa salvo
Roxin è il limite della proporzione: la pena non può mai superare o eccedere la
proporzione tra male commesso e male inflitto. Tutto ciò che è possibile fare è una
graduazione della misura della pena in virtù delle esigenze di prevenzione speciale e
generale.
Roxin, inoltre, sostituisce la categoria della colpevolezza con quella della
responsabilità, la quale contiene, da un lato, il limite della proporzione e, dall’altro,
le istanze general-preventive e special-preventive.
Moccia, invece, fa un ulteriore passo: per quanto apprezzabile il tentativo di Roxin di
salvare l’idea della colpevolezza, secondo Moccia, la colpevolezza nasce e muore in
senso retribuzionistico, il che la rende intollerabile in un ordinamento come il
nostro che accogli istanze special-preventive e general-preventive. Moccia utilizza
sempre il limite della proporzione ma lo sgancia dall’idea di colpevolezza
retribuzionistica; questa, infatti, bisogna sostituirla con un concetto di
15
proporzionalità fondato sull’art 3 Cost., che va a svolgere la funzione di limite di
garantistico della punibilità statale.)

4.4 Le specie della prevenzione


Ammessa l’incompatibilità ordinamentale della retribuzione, rimane in definitiva la
sola opzione di prevenzione speciale e generale, compatibile con il principio di
proporzionalità di cui l’art. 3 Cost.
Tuttavia, gli stessi concetti di prevenzione, se intesi in senso lato, non sono
integralmente compatibili (nella pluralità delle loro sfaccettature) con l’attuale
contesto ordinamentale.
Moccia, infatti, nell’individuare gli aspetti della prevenzione speciale e generale che
possono dirsi compatibili con l’ordinamento attuale, distingue in entrambe le
opzioni preventive due aspetti: uno positivo e un altro negativo.
 Nella prevenzione generale, l’aspetto negativo consiste nell’adozione di
strumenti volti al raggiungimento di risultati di tipo intimidativo-deterrente
(elaborazione teorica di Feuerbach); l’aspetto positivo consiste, invece,
nell’aggregazione dei consensi intorno ai principi ordinamentali (teoria della
prevenzione generale integratrice di Andenaes).
 Nella prevenzione speciale, l’aspetto negativo consiste nell’intimidazione
individuale dell’autore, o nel caso limite, nella sua neutralizzazione
(elaborazione teorica di Grolman); l’aspetto positivo consiste, invece, nel
recupero sociale o, nel caso di autori integrati, nella non ulteriore
desocializzazione (Krause).
Non tutti questi aspetti possono risultare compatibili con i principi fondamentali del
nostro ordinamento.

4.5 Limiti costituzionali alla prevenzione generale


L’aspetto negativo della prevenzione generale, l’intimidazione collettiva, è un
risultato naturale di ogni sistema penale; tuttavia, nel nostro ordinamento, l’effetto
di intimidazione non può andare oltre quelli che sono i principi del finalismo
rieducativo, del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, della personalità
della responsabilità penale (desunti direttamente dall art. 27, 3 co., Cost.) e della
tutela della dignità umana e della sussidiarietà della sanzione penale (desunti
indirettamente dalle norme costituzionali).
Anche sul piano dell’efficienza, un sistema penale fondato sull’intimidazione risulta
poco affidabile: la comminazione di pene eccessive, infatti, disorienta i destinatari
delle norme, rendendo poco credibile il sistema stesso. Inoltre, a causa
dell’inflizione delle pene eccessive, si genera l’effetto opposto a quello desiderato di
adesione dei consensi ai principi ordinamentali; diversamente, tale effetto è
realizzabile attraverso la realizzazione di norme redatte secondo i criteri di
ragionevolezza, riconoscibilità e determinatezza in rapporto ai beni tutelati e alle
16
sanzioni previste.
Infine, un’opzione intimidativo-deterrente ed afflittiva risulterebbe in contrasto
anche con l’art 27, 1 co., Cost. (personalità della responsabilità penale) nonché con il
principio della tutela della dignità umana, che impedisce l’inflizione di pene
particolarmente severe, che trasformino il reo in uno strumento politico-criminale
per l’intimidazione altrui, che paghi cioè per la pericolosità sociale altrui.

4.6 Limiti costituzionali alla prevenzione speciale


I principi di rispetto dell’individuo (anche in quanto delinquente) di risocializzazione,
che potrebbero essere dedotti a contrario dall’incompatibilità e concezione
retributiva e intimidativa con gli attuali principi costituzionali, sono espressamente
stabiliti da norme costituzionali: secondo l’art 27 co. 3 Cost., infatti, le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato: in questo senso la sent. 313/1990 della
Corte Cost. ha precisato che la tendenza a rieducare non si esaurisce nel solo
trattamento sanzionatorio, ma è una qualità essenziale che caratterizza tutta la
sistematica della pena, dalla sua ideazione – passando per la comminazione – fino
all’esecuzione.
La rieducazione non significa, tuttavia, (diversamente dalla prospettiva di Krause)
un’emenda morale, ma piuttosto un sostegno socio-culturale necessario per la
risocializzazione ed emancipazione individuale: se si intendesse per rieducazione
un trattamento moralizzante, si ricadrebbe nelle stesse obiezioni mosse alla
concezione retribuzionistica della pena.
In altre parole, con la sanzione penale deve offrirsi al reo la possibilità di orientare la
propria esistenza nel rispetto di quella altrui, attraverso un programma di
reinserimento sociale (non deve quindi correggersi o coartare la personalità del reo
al fine di giungere ad un cambiamento dall’esterno della personalità del soggetto);
tutto ciò implica la sperimentazione di misure alternative alla detenzione.
E’ dunque indispensabile, ai fini della risocializzazione (nel rispetto della dignità
umana e dell’autodeterminazione individuale), la libera e spontanea adesione del
condannato all’azione di recupero; tuttavia, nei casi di rifiuto al programma di
risocializzazione, l’ordinamento, non potendo attivare misure sanzionatore
repressive ed afflittive, deve solo ricercare condizioni di non (ulteriore)
desocializzazione; in questi casi saranno le esigenze di prevenzione generale e
giustificare la sanzione penale.
L’art 27 Cost, ammette, infatti, che possono esservi casi in cui, non essendo
perseguibili le finalità di risocializzazione, siano sufficienti le esigenze di prevenzione
generale a legittimare l’attivazione dello strumento penale; analogamente, nel caso
in cui l’autore del reato neppure necessiti di risocializzazione, poiché già socialmente
integrato, saranno sufficienti i fondamenti general-preventivi a giustificare la
sanzione, e il principio di risocializzazione manterrà comunque la sua valenza intatta,
attraverso la non-desocializzazione.
17
La non-desocializzazione viene dunque ad essere il significato dell’idea-pena nel
nostro ordinamento.

4.7 La pena come integrazione sociale


Il nostro ordinamento tollera, dunque, gli scopi (o aspetti) positivi della prevenzione
generale e speciale, nella prospettiva di INTEGRAZIONE SOCIALE:
 Per la prevenzione generale è legittimo l’effetto di adesione dei consensi ai
principi ordinamentali; per la prevenzione speciale è legittimo il fine di recupero
sociale se il reo vi aderisce, oppure di non-desocializzazione qualora non vi aderisca
o non necessiti di risocializzazione.
Per quanto concerne gli aspetti negativi della prevenzione, ci si dovrà limitare a
tener conto degli effetti naturalmente connessi alla minaccia e all’inflizione di
sanzioni.
Moccia, nel dimostrare l’adeguatezza costituzionale dell’integrazione sociale,
esamina l’incidenza degli aspetti positivi e negativi della prevenzione (generale e
speciale) nelle tre fasi di attuazione del diritto penale:
 MINACCIA LEGALE All’atto di produzione della fattispecie vengono
solitamente in rilievo i momenti di intimidazione generale (prevenzione
generale negativa) connaturate a qualunque norma penale. Ma vengono in
considerazione anche le istanze special-preventive positive di recupero
sociale: illecito e sanzione devono essere posti in equilibrio affinché il reo
possa percepire la norma come regola di condotta vietata. L’equilibrio tra
illecito e sanzione è, inoltre, fondamentale anche per rafforzare la coscienza
sociale, per produrre quell’effetto di aggregazione dei consensi ai principi
dell’ordinamento da parte dei membri della società (prevenzione general
positiva), che è naturalmente favorito da un’accurata tipizzazione della
minaccia penale, dalla sua determinatezza e dal valore notevole del bene
tutelato.
 INFLIZIONE DELLA SANZIONE Oltre all’aspetto special-preventivo negativo
(legato alla singola inflizione della pena), non risulta ammissibile la
prevenzione generale di carattere negativo, non potendo il reo divenire uno
strumento di intimidazione per il resto dei consociati, mediante l’irrogazione
di pene particolarmente severe e contrarie ai principi costituzionali di dignità
umana e personalità della responsabilità penale; viceversa, le istanze di
prevenzione integratrice (prevenzione generale e speciale di carattere
positivo) sono legittimamente presenti all’interno di questa fase.
Una volta rispettato il principio di proporzionalità tra sanzione e fatto
commesso, verranno in considerazione le prospettive di rieducazione del
condannato (prevenzione speciale positiva), sancite in costituzione, e che
ostacolano a priori le istanze di prevenzione speciale negativa in questo
momento; inoltre ci sarà un effetto di aggregazione dei consensi ai principi
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dell’ordinamento, derivante dalla certezza, proporzionalità ed effettività
dell’inflizione della sanzione (prevenzione generale positiva).
 ESECUZIONE In questa fase l’intimidazione non può trovare alcun spazio,
altrimenti, oltre al principio di rieducazione, verrebbe violato anche quello del
divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. La prevenzione generale
positiva, invece, potrebbe essere presa in considerazione in quanto il
riconoscimento delle norme da parte del reo avrebbe un’influenza positiva
sulla comunità. Tuttavia, sono le esigenze di prevenzione speciale positiva che
dominano in questa fase, in virtù della risocializzazione del condannato
(quando aderisca al programma di recupero) o della sua non-
desocializzazione (quando non aderisca o non sia necessario un programma
di recupero)

Una volta abbandonate le prospettive di mera repressione in rapporto alle funzioni


della pena, ai fini del controllo sociale, bisogna scegliere tra intervento penale ed
extrapenale, tenendo presente che la scelta del primo è legittima soltanto se la
sanzione penale è in grado di raggiungere gli scopi che essa è tenuta a perseguire.
Da ciò, può dunque affermarsi il principio di extrema ratio del diritto penale, per cui
il legislatore è tenuto ad intervenire con la sanzione penale, solamente quando non
siano praticabili altre soluzioni.
A tale principio è, inoltre, strettamente collegato il canone della frammentarietà
dell’intervento penale, cioè la selezione di soltanto alcune delle forme di
aggressione a beni giuridici con cui attivare lo strumento penale, il quale risulta,
dunque, necessario in mancanza di altre forme efficaci di controllo sociale.

4.9 Implicazioni sistematiche


Per Moccia, partendo dalla pena come integrazione sociale, è possibile effettuare
un passaggio da una sistemazione categoriale del diritto penale (cioè divisa
rigidamente in tre categorie: tipicità, antigiuridicità e colpevolezza) a una sistematica
teleologica.
Il professore sostiene, cioè, che tutto il diritto penale, e quindi anche la tipicità,
antigiuridicità e colpevolezza (da egli intesa come responsabilità) possa trovare la
sua ratio nel legame con la funzione della pena. Ogni elemento del diritto penale ha
motivo di esistere solo se contribuisce a realizzare la funzione della pena e solo se
trova la sua spiegazione in questa.

PARTE SECONDA
1. Funzione della pena e tipicità
1.1 Il problema della legalità
Fu Feuerbach a collegare i principi di tutela della libertà e dignità dell’individuo con
19
la realizzazione della funzione (per lui general-preventiva negativa) della pena,
attraverso il principio di legalità nullum crimen nulla poena sine lege.
Tale principio non nasce, dunque, come operazione meramente tecnica, bensì grazie
ad esigenze politico-giuridiche liberaliste. L’importanza del principio di legalità, in
Feuerbach, deriva da due esigenze:
1. Difesa del cittadino dallo Stato norme chiare e determinate pongono precisi
limiti al potere punitivo statale ed anche il sovrano è sottoposto alla legge.
2. Realizzazione dell’effetto intimidatorio della pena se il significato della
sanzione penale consiste nell’effetto di intimidazione, e se la sua concreta
inflizione serve soltanto a rafforzare la minaccia, dovrà essere inflitta solo la
pena che la stessa legge ha minacciato.
L’effetto intimidativo e la coazione psicologica della pena sono collegati
inscindibilmente alla prevedibilità e certezza del diritto; senza una legge certa, chiara
e riconoscibile ai consociati, la funzione della pena non si esprimerà mai, e l’effetto
intimidativo della stessa non verrà mai prodotto.
La pena può operare, dunque, come “controspinta” solo qualora sia determinata e
prevista in rapporto a fatti tassativamente descritti da una norma di legge: Stato di
diritto e funzione della pena sono strettamente collegati, per Feuerbach, dal
principio di legalità.
Moccia, riporta tale connessione fondamentale tra funzione della pena e principio di
legalità nel nostro ordinamento, superando tuttavia il pensiero di Feuerbach, e
sostenendo che il principio di tassatività e determinatezza ci permette di realizzare
soprattutto esigenze di prevenzione generale positiva, cioè di orientamento delle
condotte dei consociati e adesione dei consensi all’ordinamento, poiché questo
principio esprime non solo esigenze di tipo garantistico-formali, ma anche di tipo
teleologico-funzionale (cioè di integrazione sociale). Per aversi aggregazione dei
consensi intorno ai principi fondamentali espressi da un ordinamento (così come,
per Feuerbach, ottenere l’effetto di intimidazione), è necessario che le norme
giuridiche siano chiare e determinate.
La tipicizzazione, cioè la conformità al tipo, è quindi strettamente connessa a finalità
di difesa della libertà (politico-giuridiche) e a finalità di integrazione sociale (politico-
criminali)

1.2 Tatbestand soggettivo


Anche sotto il profilo di una sistematica basata sui principi di politica criminale, è
necessario, ai fini di una corretta tipicizzazione di un fatto di reato, l’inserimento del
dolo e della colpa all’interno della struttura della fattispecie, in modo da realizzare
un vero e proprio Tatbestand (fatto) soggettivo da abbinare al Tatbestand oggettivo
di derivazione positivistica.
Dolo e colpa sono essenziali per la tipicità, perché senza di essi la descrizione legale
del reato non può realizzarsi nella forma tassativa richiesta dallo stato di diritto.
20
Questa posizione è stata largamente accreditata in Germania, mentre in Italia la
dottrina è ancora divisa tra la concezione bipartita di tipo naturalistico (Francesco
Carrara e Antolisei) e concezione tripartita del reato (Beling).
Nella concezione tripartita il fatto è lontano dalla realtà, poiché è basato su un
concetto naturalistico dell’azione, come processo casuale: è azione quel movimento
del corpo che produce un cambiamento nel mondo esterno. Tale teoria, secondo
molti, tra cui Moccia, è inconcepibile in quanto è necessario tener conto anche degli
elementi soggettivi della condotta per la rilevanza penale di un fatto.
In altre parole, un fatto realmente accaduto è penalmente rilevante se è
caratterizzato dalla presenza non solo di elementi oggettivi (nesso di causalità tra
condotta ed evento) ma anche degli elementi soggettivi (che il soggetto ha agito con
dolo o colpa); ne risulta che è fondamentale conoscere l’intenzione di chi agisce per
una corretta interpretazione del fatto realizzato.
Una svolta decisiva c’è stata con la dottrina dell’illecito personale (Welzel), secondo
la quale non si deve tener conto solo del disvalore di evento ma anche del disvalore
di azione, che racchiude le caratteristiche soggettive del fatto tipico: obiettivo del
diritto penale non è il divieto di agire casualmente, ma il divieto di agire
consciamente in maniera contraria all’ordinamento, dunque, in mancanza del
disvalore di azione non è possibile individuare il contenuto complessivo e reale del
disvalore del reato.

La teoria finalistica welzielana prevede l’anticipazione del dolo e della colpa nel
tatbestand, svolgendo così un importante funzione di garanzia, permettendo
un’individuazione più esatta del fatto tipico e favorendo il rispetto di esigenze di
certezza, e quindi, di tutela della libertà.
Tuttavia, la costruzione dell’illecito personale è proponibile solo fondandola su delle
basi normative, come il principio costituzionale della personalità della
responsabilità penale. La teoria di Welzel è stata comunque ampiamente
accreditata in Germania, non solo perché è stato il primo a sostenere la necessità di
anticipare il dolo e la colpa sul piano della tipicità (diversamente da Beling che li
faceva rientrare nella categoria della colpevolezza), ma anche per aver accolto la
necessità di una rivalutazione del bene giuridico, che non deve essere oggetto di una
tutela penale statica, ma di una tutela che tenga conto del ruolo e dell’importanza
del bene nella collettività.
Welzel pone il bene giuridico in una dimensione storica e sociale; ne deriva che
“azione lecita” non è quella non dannosa, ma quella socialmente adeguata, cioè
un’azione, anche se comporta una lesione o una messa in pericolo di un bene non
può costituire un’azione illecita, in quanto è accettata dai consociati.

1.3 Imputazione oggettiva


Per quanto riguarda i criteri di imputazione oggettiva di un fatto ad una condotta di
21
un soggetto, in una prospettiva teleologica, per la responsabilità dell’evento, non
sarà essenziale il mero accertamento del nesso causale, del rapporto causa-effetto,
ma l’evento potrà essere obiettivamente imputato alla condotta del soggetto, solo
se così facendo si realizzino esigenze di prevenzione generale e speciale.
Diversamente, per la dottrina penale di ispirazione positivistico-naturalistica,
l’accertamento di un fatto di reato si basa sugli stessi parametri usati per descrivere
un accadimento biologico naturale, dunque l’azione è tipica quando consiste in un
accadimento nel mondo esterno descrivibile fisicamente.
Tale opinione si basa sul mero concetto di casualità ed è espressa nella teoria della
condicio sine qua non, nella quale non vi è alcuna valutazione normativa; tutte le
condizioni sono considerate egualmente causali, così non rimane spazio per la
varietà delle situazioni concrete.
Per Moccia è necessario ricorrere a dei criteri normativi per l’imputazione oggettiva,
in quanto solo con questi può essere rispettato il principio di legalità poiché si
pongono dei limiti alla tipicità; ne deriva che ogni evento causalmente prodotto può
rientrare nel tatbastand oggettivo, ma solo se l’evento corrisponde a criteri
normativi.
Tra le teorie più accreditate di imputazione normativa vi è la teoria della causalità
adeguata, secondo la quale una condotta è penalmente rilevante solo quando è
altamente probabile o verosimile che essa sia stata causa dell’evento.

Il problema dell’imputazione oggettiva riguarda la ricerca di criteri normativi sulla


base dei quali confrontare i dati empirici; secondo la dottrina tradizionale
positivistica, per la realizzazione della fattispecie era sufficiente un nesso causale tra
condotta ed evento che esprimeva la signoria del soggetto sull’accadimento, e nei
casi in cui per la presenza di un decorso causale atipico, la sanzione sembrava
inadeguata, si faceva ricorso all’assenza del dolo per evitare conseguenze aberranti.
Tale soluzione è tuttavia da criticare, in quanto si farebbero rientrare elementi
psicologici (dolo) nell’imputazione oggettiva, laddove nella stessa non si dovrebbe
tenere conto del fatto che il soggetto abbia agito o meno con dolo.
Tuttavia, la ricerca e l’elaborazione di questi criteri ulteriori rispetto a quelli
causalistici non ha dato ancora risultati definitivi, per il momento se ne possono
citare due:
1. PRINCIPIO DELLA REALIZZAZIONE DI UN PERICOLO OLTRE IL RISCHIO
CONSENTITO Un evento causato dall’agente è da imputare alla sua
condotta solo se questa ha creato una situazione di pericolo non tollerata per
l’oggetto della tutela, e questo pericolo si è anche realizzato.
2. CONTRARIETA’ ALLO SCOPO DI TUTELA DELLA NORMA l’imputazione
oggettiva viene meno quando la condotta che produce l’evento, pur essendo
conseguenza di un rischio non consentito, non è incriminata dalla norma
diretta a tutelare il bene da eventi come quello causato.
22
L’elaborazione della teoria dell’imputazione oggettiva già avvenuta in Germania, il
cui ordinamento penale non contiene una disciplina relativa alla rilevanza del nesso
causale; in Italia, invece, sussistono le problematiche disposizioni degli art. 40 e 41
c.p. Pertanto, per l’imputazione oggettiva, sarà necessario innanzitutto verificare
l’esistenza del nesso di causalità – attraverso leggi scientifiche di copertura
universali o statistiche – per poi valutare, secondo le esigenze di politica criminale, la
sua rilevanza nel sistema penale. Dopo tale accertamento, la condotta sarà
imputabile a titolo di dolo, se essa era diretta consapevolmente al risultato
realizzato, e a tiolo di colpa, se il risultato verificatosi era prevedibile.
Per Moccia, i criteri per l’imputazione oggettiva, precedono la definizione del titolo
di responsabilità colposa o dolosa, che riguarda invece la successiva fase di
accertamento riferita alla fattispecie soggettiva.

2. Aporia della responsabilità oggettiva


2.1 Fondazione normativa dell’illecito personale
Il riconoscimento di una fattispecie soggettiva accanto a quella oggettiva, evidenzi
che il disvalore di evento deve essere necessariamente accompagnato dal disvalore
di azione, che deriva dalla struttura dolosa o colposa della condotta. In accordo con
Moccia, è questo il fondamento della concezione personale dell’illecito, che trova
riscontro normativo nell’art. 27, il quale sancisce che la responsabilità penale è
personale.
La Corte Cost., in due importanti sentenze (364/88 – 1085/88), ha sancito la
necessità dell’attribuibilità psicologica, ai fini del rispetto dell’art. 27 (principio di
colpevolezza), e l’illegittimità costituzionale della responsabilità oggettiva: affinché la
responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che ciascuno
degli elementi che concorre a contrassegnare il disvalore della fattispecie, sia
soggettivamente collegato all’agente, attraverso il dolo e la colpa.
Per Moccia, tuttavia, è più corretto parlare di responsabilità per fatto tipico proprio,
piuttosto che di responsabilità colpevole: la “proprietà” del fatto è intesa come
duplice attribubilità fisica e psicologica dell’evento. Pertanto, l’attribuzione di un
fatto a titolo di responsabilità oggettiva è certamente lesiva del principio di
colpevolezza, ma ancor prima lesiva del principio di tipicità di portata più ampia del
principio di colpevolezza, in quanto prevede sia il fatto dell’imputabile che del non
imputabile; per cui, l’imputazione a titolo di responsabilità oggettiva si risolve
nell’imputazione per responsabilità di un fatto non- tipico.
In seguito alla sent. 364/88 della Corte Cost., si è parlato di una restaurazione del
principio di colpevolezza sulla base del riconoscimento da parte della corte della
necessità della presenza del dolo e della colpa, per la realizzazione del principio di
cui l’art 27 1 co. A Moccia, sembra invece, che la Corte abbia in realtà sottolineato la
funzione tipicizzante dell’elemento soggettivo di dolo e colpa, in quanto la tipicità
(oggettiva e soggettiva) costituisce il primo presupposto necessario per la punibilità,
23
ed è distinta dalla rimproverabilità del fatto stesso.
Per poter parlare di <<restaurazione del principio di colpevolezza>> appare decisivo
introdurre il dato della conoscibilità dell’illiceità della propria condotta (attraverso
la rilevanza dell’errore scusabile su di essa, negata dalla presunzione legale assoluta
di conoscenza della norma sancita nel testo originario dell’art. 5 c.p.).
Moccia, infatti, afferma che l’error iuris fa venire meno la coscienza dell’illiceità e
quindi, se scusabile, rileva in termini di colpevolezza e non di fatto tipico, il quale
pertanto, si considera realizzato anche nella sua componente soggettiva.
Chi versa in errore di diritto scusabile agisce con dolo, ma senza colpevolezza, ed è
in tal senso che Moccia ritiene che l’errore scusabile sulle scriminanti debba essere
inteso come cause di esclusione della colpevolezza.

La Corte, dunque “restaura” il principio di colpevolezza non perché ritiene


necessaria la presenza del dolo e della colpa ai fini dell’attribuzione della
responsabilità, ma perché con la parziale scusabilità dell’error iuris, introduce il
requisito della coscienza dell’illiceità ai fini della responsabilità penale.
A questo punto, secondo Moccia, dato che anche il non imputabile che compie un
errore sul precetto, va scusato, appare preferibile anche in questo caso, il
superamento del principio di colpevolezza, legato al presupposto di imputabilità, per
un principio di responsabilità che comprenda il fatto, dolo o colposo, antigiuridico di
qualunque agente, a prescindere dalla sua imputabilità.
Perché un soggetto possa essere chiamato ad essere responsabile di un fatto,
questo deve poter essergli imputato dal punto di vista della causazione materiale
(imputazione oggettiva) e dal punto di vista dell’attribuibilità psicologica
(imputazione soggettiva), affinché venga rispettato il principio di cui l’art 27 co. 1.
Questo assunto è ottenibile anche facendo riferimento alla teoria della pena: solo
nel caso in cui il fatto sia “proprio” di un soggetto, può legittimamente essere
intrapresa un’azione di risocializzazione (o non-desocializzazione)(prevenzione
speciale positiva), e solo se l’ordinamento chiama a rispondere i consociati per i fatti
ad essi imputabili sotto il profilo oggettivo e soggettivo, può realizzarsi un’adesione
dei consensi da parte di essi ai principi dell’ordinamento (prevenzione generale
positiva).

2.2 Giurisprudenza della Corte Costituzionale


Sent. 107/57 La Corte Costituzionale aveva dichiarato espressamente la
legittimità della responsabilità oggettiva, operando una lettura dell’art 27 co. 1, in
chiave di mero divieto di responsabilità di fatto altrui (responsabilità per un fatto
commesso da un altro soggetto senza alcun contributo casuale al suo verificarsi).
Così inteso, l’art 27 richiede come requisito della responsabilità penale personale, il
solo rapporto di causalità materiale tra azione ed evento sufficiente a stabilire che il
soggetto fosse responsabile per il fatto preveduto come reato.
24
Successivamente La Corte ha segnalato la necessità della presenza di un rapporto
di causalità psichica (PREVEDIBILITA’) da aggiungere alla sola causalità materiale tra
azione e vento.
Sent. 364/88 La Corte collega il primo comma dell’art. 27 Cost (principio di
personalità della responsabilità penale) al terzo comma del medesimo articolo
(funzione rieducativa della pena). Attraverso questa lettura si viene ad affermare
l’incompatibilità non solo della responsabilità per il fatto altrui, ma anche della
responsabilità meramente oggettiva che, in quanto fondata sulla sola causalità
materiale, non considera indispensabile la piena riconducibilità dell’evento alla
personalità del soggetto. Non avrebbe senso infliggere una pena a qualcuno sulla
base del semplice collegamento materiale tra condotta ed evento, senza che gli si
possa attribuire psicologicamente l’evento stesso: verrebbero meno le funzioni
integrative della pena, speciali e generali.
Solo qualora alla pena venisse assegnata solo una funzione deterrente, potrebbe
essere considerata legittima una responsabilità meramente oggettiva, ma ciò
risulterebbe inammissibile nel nostro sistema costituzionale.
Per Moccia c’è un’aporia della responsabilità oggettiva, ed occorre modificare o
addirittura abrogare molte norme che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva.

2.3 Ipotesi Classiche


Sul piano strutturale, nel nostro ordinamento, Moccia distingue diverse ipotesi di
responsabilità oggettiva:
Ipotesi di responsabilità fondate sulla mera imputazione oggettiva dell’evento o
di un reato diverso:
In rapporto all’esecuzione monosoggettiva
 Aberratio ictus (art. 82, 2 co.) e aberratio delicti (art. 83)
In rapporto all’esecuzione plurisoggettiva
 Concorso anomalo (art. 116) e mutamento del titolo per taluno dei
concorrenti (art 117)
Ipotesi di responsabilità costruita sul delitto aggravato da evento o sul delitto
preterintenzionale
In tutti questi casi si tratta di fenomeni, anche diversificati, che trovano fondamento
comune nello schema del versari in re illicita.
Per questo complesso di figure di responsabilità oggettiva, l’esigenza di riforma è
duplice: valorizzare l’elemento di prevedibilità/prevenibilità (al fine di ricondurre le
varie ipotesi ad una chiara scelta ti imputazione colposa, piuttosto che creare
un’imputazione intermedia tra dolo e colpa); secondariamente, razzionalizzare la
risposta sanzionatoria, preferibilmente vicina a quella per i fatti colposi, con
l’applicazione all’occorrenza delle regole sanzionatorie previste per il concorso
formale (cumulo giuridico).
Le condizioni obiettive di punibilità (art 44), in quanto rientrano tra gli elementi
25
significativi della fattispecie ( sent. 364/88), vanno imputate necessariamente
almeno a titolo di colpa. Viceversa, nessun problema si pone per le condizioni
obiettive di punibilità estrinseche, che non facendo parte del fatto tipico non devono
essere coperte necessariamente da un coefficiente psicologico di dolo o colpa.
 Ipotesi di responsabilità “di posizione” che sorgono in virtù di una posizione
rivestita da determinati soggetti e che possono rappresentare casi di responsabilità
per fatto altrui.
In rapporto a queste ipotesi, bisogna rispettare le esigenze di personalità della
responsabilità penale e di non eccessiva deresponsabilizzazione.

2.4 Responsabilità oggettiva e colpa d’autore


un’autorevole dottrina (Grosso) ha inserito tra le ipotesi di responsabilità oggettiva
da eliminare dal nostro ordinamento anche l’art 92, 1 co., riguardo l’ubriachezza
volontaria o colposa (non accidentale). In questi casi vi è una presunzione della
capacità di intendere e di volere per imputare l’evento al soggetto ubriaco, senza
nessun accertamento circa la reale sussistenza di un nesso psicologico tra autore e
fatto al momento della commissione del reato.
Secondo Moccia, l’art. 92, rientra nella categoria della responsabilità a sfondo
eticizzante, secondo il modello della colpa d’autore, nelle sue specificazioni della
colpevolezza per la condotta di vita e per il carattere, e che ha come oggetto del
giudizio di disapprovazione le scelte del soggetto, e non la singola offesa al bene
giuridico.
I sistemi fondati su responsabilità eticizzanti tendono, tuttavia, a valorizzare
l’atteggiamento interiore dell’individuo, al fine di realizzare le esigenze di
repressione e deterrenza e dunque, del tutto incompatibili con uno stato sociale di
diritto che accoglie i principi di autonomia delle persone e di dignità dell’individuo,
nonché una prospettiva di integrazione sociale che esige un ragionevole equilibrio
tra entità del fatto e sanzione da irrogare.
Pertanto, ad avviso di Moccia, tutte le scelte normative basate sulla condotta di vita
e sul carattere dell’agente, tra cui lo stesso art. 92, vanno abrogate; inoltre, tale
articolo, presumendo la piena imputabilità del soggetto, appare in netto contrasto
con l’art 85, per il quale, al di fuori dei casi dello stato di incapacità preordinato (al
fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa), l’imputabilità del soggetto si
stabilisce al momento del compimento del fatto.
Vanno inoltre, eliminate le ipotesi in cui è previsto un aggravio o inasprimento della
pena solo sulla base dell’atteggiamento interiore e della condotta di vita del
soggetto, come l’art 94 c.p. (ubriachezza abituale) e l’art. 92, 2 co. (ubriachezza
preordinata) che è una specificazione dell’art 87 – actio libera in causa – e che di
base non prevede alcun aggravante, cosa che invece fa l’art 92, 2 co.
 Nell’ambito delle ipotesi di responsabilità fondate sul carattere dell’autore, si
inserisce la disciplina degli stati emotivi e passionali ex art. 90 c.p., che sancisce
26
l’assoluta irrilevanza dell’affievolimento della capacità di controllo, ai fini
dell‘imputabilità; l’accertamento della misura in cui lo stato emotivo o passionale
abbia inciso sull’imputabilità è cosa assai difficile, e richiede strumenti che forse non
abbiamo. Tuttavia, secondo Moccia, le gravi difficoltà probatorie non possono in
nessun caso giustificare la presunzione di imputabilità, per cui, anche in questo caso,
come nelle ipotesi di ubriachezza non accidentale ex art 92 c.p., devono valere le
comuni regole sull’imputabilità (cioè che si tiene conto della capacità di intendere e
di volere al momento del compimento del fatto).

Infine Moccia, passa ad analizzare alcune norme di parte speciale, in particolare l’art
584 c.p., sull’omicidio preterintenzionale; questo reato si caratterizza per
l’imputazione oggettiva dell’evento non voluto e non necessariamente prevedibile,
nonché per la valorizzazione dell’atteggiamento interiore. La norma sull’omicidio
preterintenzionale ritine sufficiente ai fini dell’imputazione dell’evento
preterintenzionale della morte, la mera commissione di atti diretti a realizzare delitti
di percosse o di lesioni personali, senz’altra qualificazione, né in termini di idoneità
né di univocità (tentativo di delitto); può realizzare, dunque, condotta idonea a tale
reato anche colui che esprime una condotta non rientrante neanche nei limiti del
tentativo penalmente rilevante (cioè nella fase di ideazione o preparazione del
delitto), quindi una condotta ancora lecita.
Per queste ragioni, pare intollerabile una norma del genere, manca di
ragionevolezza (art. 3 Cost.), anche sotto il profilo del trattamento sanzionatorio che
risulta più severo di quello previsto per l’omicidio colposo in cui è richiesta la
prevedibilità oggettiva dell’evento, cosa non necessaria nell’omicidio
preterintenzionale; anche se si volesse ammettere la necessità della prevedibilità
nell’omicidio preterintenzionale, il trattamento sanzionatorio risulterebbe
comunque irragionevole.
Moccia auspica l’abrogazione dell’art 584 c.p. ritenendo che le ipotesi oggi
disciplinate da questo articolo vengano regolate dalle norme sul tentativo, sulla
responsabilità colposa e sul concorso formale.
In conclusione la valorizzazione dell’atteggiamento interiore non deve essere
totalmente negata nel nostro ordinamento, secondo Moccia, ma sicuramente non
c’è spazio per essa all’interno della tipicità; andrà sicuramente tenuto in
considerazione, al momento di inflizione ed esecuzione della pena, il modo d’essere
e le motivazioni del reo.

2.5 Ignorantia legis


Il collegamento dei principi di personalità della responsabilità penale, di legalità e di
rieducazione della pena, ha fornito alla Corte la possibilità di risolvere il problema
della legittimità della tradizionale regola dell’irrilevanza dell’ignoranza della legge
penale, contenuta nell’art 5 c.p.
27
Nella storica sent. 364/88., la Corte è partita dalla ricostruzione della ratio dell’art.
27, 1 co. e ha inteso questo principio, non solo come divieto di responsabilità per il
fatto altrui, ma ha conferito ad esso un ambito molto più ampio, collegandolo alla
concezione di illecito penale come illecito personale, e dunque, prevedendo la
necessità del coefficiente soggettivo in riferimento agli elementi i significativi del
fatto tipico (cioè che gli elementi più significativi della fattispecie dovevano poter
essere imputati al soggetto a titolo di dolo o colpa). La responsabilità per il fatto
proprio colpevole presuppone da un lato, la sussistenza di un nesso psicologico tra
condotta ed evento, e dall’altro la possibilità della conoscenza della legge penale da
parte del soggetto: di qui la dichiarazione di illegittimità della presunzione assoluta
di conoscenza della legge penale.
Moccia ritiene, tuttavia, che l’intollerabilità della presunzione della legge penale
possa esserci anche in una prospettiva di superamento del concetto di colpevolezza:
la possibile coscienza dell’illiceità è un elemento indispensabile per poter chiamare a
responsabilità penale, per un fatto proprio, un soggetto, nel rispetto delle garanzie a
favore della libertà e della personalità dell’individuo. Tale indispensabilità di desume
dalla stessa funzione della pena: la corretta esplicazione della finalità rieducativa
postula la possibilità di conoscere come reato il fatto realizzato.
L’impossibilità di conoscere la norma, la sua carente riconoscibilità o eventuale
disarmonie interpretative giurisprudenziali e non, pongono il soggetto nella
scusabile condizione di non poter individuare come illecita la propria condotta.
Ma anche la funzione della pena in senso general-preventivo (in senso negativo e
positivo) serve a spiegare l’indispensabilità della conoscibilità del precetto penale:
l’inflizione di una sanzione penale a chi viola la legge penale per errore scusabile non
contribuisce certo ad aggregare i consensi intorno ad un ordinamento, che
antepone la tutela dei beni giuridici al rispetto dei diritti delle persone.
(Già Feuerbach riteneva indispensabile la riconoscibilità della legge penale collegata
al principio di legalità costitutivo della sua teoria).
La Corte Costituzionale non richiede la conoscenza, ma la conoscibilità della norme
penale, e questo comporta un duplice obbligo:
1. Obbligo per il cittadino di informarsi sulle condizioni di liceità del proprio
operare (tale obbligo non sussiste nelle ipotesi di ignoranza inevitabile del
precetto normativo)
2. Obbligo per il legislatore di portare il cittadino nella condizione di poter
conoscere le norme penali, basandosi, nel momento della formulazione delle
leggi, sui criteri di razionalità, determinatezza e tassatività.
Per Moccia, questo duplice obbligo è espresso nell’art. 54 Cost, il quale prevede
l’obbligo di fedeltà alle istituzioni e alle leggi che siano espressive dei principi
normativi fondamentali, vincola sia il legislatore che i cittadini ed esige l’osservanza
delle leggi fino a che esse rispettino i principi fondamentali del nostro ordinamento.
In alcuni casi è, tuttavia, difficile redigere norme di assoluta certezza, e l’error juris è
28
per questo in parte scusabile, cioè non toglie che il legislatore debba fare il massimo
sforzo per redigere norme chiare e determinate.

3. Funzione della pena e oggetto della tutela


Questo capitolo tratta delle microviolazioni, argomento trattato in maniera migliore
e più estesa nel testo sulla tutela penale del patrimonio.
Le uniche cose presenti in questo capitolo che possono essere utili sono:
1. Definizione di dannosità sociale un fatto è caratterizzato da dannosità
sociale quado turba le condizioni di una pacifica e libera convivenza tra i
consociati e viene avvertito come tale da essi; di solito sono caratterizzati da
dannosità sociale quei fatti che offendono beni giuridici particolarmente
significativi.
La dannosità sociale è una condizione necessaria per la rilevanza penale del fatto, in
quanto solo qualora ricorda tale condizione i consociati approvano la
criminalizzazione del fatto; il reo può essere legittimamente essere avviato al
recupero sociale e questo perché l’azione di risocializzazione richiede che il soggetto
percepisca con chiarezza antisocialità del proprio comportamento, cioè si renda
conto dell’offesa significativa da lui cagionata ad un bene giuridico.
2. Fattispecie di pericolo astratto la funzione di integrazione sociale della
pena (prevenzione generale e speciale positiva) accolta dal nostro
ordinamento, rende intollerabili le fattispecie di pericolo astratto, ovvero
quelle ipotesi in cui il compimento del fatto non integra né la causazione di un
danno, né la creazione di un pericolo concreto per il bene tutelato
La totale mancanza di lesività della condotta nei reati di pericolo astratto rende
difficilmente percepibile, sia per il reo che per i consociati, il disvalore del fatto.
Da una parte, infatti, è difficile che il reo possa sentire come propria la pena
inflittagli in assenza di un pericolo concreto; dall’altra, l’utilizzo della sanzione penale
per punire fatti di lieve entità, rende difficile un’aggregazioni di consensi intorno ai
principi dell’ordinamento da parte dei consociati.
La soluzione offerta da Moccia è la depenalizzazione dei reati di pericolo astratto in
meri illeciti amministrativi, soprattutto con riguardo a quelle fattispecie poste a
tutela di beni superindividuali, segnatamente l’ambiente e l’economia.

4. Funzione della pena e antigiuridicità


4.1 Determinatezza e antigiuridicità
Le cause di giustificazione non hanno come il fatto-tipico la funzione di descrivere
determinati accadimenti, bensì hanno come riferimento una serie di singole
fattispecie concrete. Concorrono assieme al Tatbestand per delimitare lo spazio
entro cui ha rilevanza penale la condotta di u soggetto, e quindi definisce la regola
giuridica cui deve uniformarsi il destinatario della norma.
In questo contesto anche la funzione del bene giuridico viene a svolgere un ruolo
29
significativo: se infatti, le norme incriminatici sono poste a tutela di beni di
particolare significatività, allo stesso modo le cause di giustificazione devono
operare come scriminanti , al fine di rendere lecita una condotta che è diretta alla
tutela di interessi meritevoli di maggiore protezione.

4.2 I limiti di operatività delle scriminanti


La combinazione della funzione politico-criminale della pena con le cause di
giustificazione, produce implicazioni che colpiscono direttamente il fondamento
delle cause stesse, nonché il loro funzionamento e la rilevanza degli elementi
soggettivi. La funzione della pena all’interno della categoria dell’antigiuridicità –
quale luogo di risoluzione dei conflitti individuali - consente di individuare
correttamente i principi fondanti di ciascuna causa di giustificazione, nel tentativo di
orientarne una più sicura applicazione.
USO LEGITTIMO DELLE ARMI tale scriminante rappresenta una vera e propria
aporia in un contesto ordinamentale come il nostro, il quale tende sempre più alla
realizzazione dell’idea di stato sociale di diritto. I problemi dell’art. 53 sono
essenzialmente due:
1. Manca il requisito della proporzione; ciò al fine di privilegiare la condotta
repressiva del pubblico ufficiale, implementando il carattere autoritario e
totalitario dello Stato proprio dell’epoca di emanazione del codice Rocco, e
stabilendo la supremazia dello stesso nei confronti dei cittadini. Sempre per
l’accentuazione del carattere autoritario che venne, nel codice Rocco,
abrogata la scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico
ufficiale.
2. La disposizione aggiunta nel 1975 consente, a tutti gli effetti, al pubblico
ufficiale di reprimere condotte sociali in un momento anteriore a quello
dell’inizio dell’esecuzione di alcuni determinati reati, per lo più di carattere
terroristico: consente dunque di reprimere condotte lecite corrispondenti a
meri atti preparatori.
L’art. 53 risulta intollerabile anche per le funzioni che il nostro ordinamento
attribuisce alla pena: non necessita, infatti, di risocializzazione (prevenzione speciale
positiva) colui che pone in essere una condotta ancora lecita, né determina un
effetto di aggregazione dei consensi intorno ai principi dell’ordinamento la
punizione di una condotta che lo stesso ordinamento considera come lecita
(prevenzione generale positiva).
La scriminante dell’uso legittimo delle armi è la coerente espressione di sistemi
statali ispirati a finalità repressivo-deterrenti in ambito penale; una volta accolte le
prospettive di integrazione sociale, queste disposizioni si risolvono in semplici aporie
da eliminare.
CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO L’effetto giustificante dell’art. 50 c.p. si
desume anche da argomenti relativi alla funzione della pena: l’offesa di un bene
30
disponibile, previa autorizzazione validamente espressa dall’avente diritto o
legittimamente presunta, non turba la coscienza sociale (general-preventiva
positiva), né fa nascere esigenze di risocializzazione per chi lede tale diritto
disponibile (special-preventiva positiva).
ESERCIZIO DI UN DIRITTO E ADEMPIMENTO DI UN DOVERE Anche qui la
considerazione di argomenti inerenti alla funzione della pena, unitamente al
principio di non contraddizione e a quello di prevalenza del diritto, può aiutare ad
individuare il campo di esistenza di tale causa di giustificazione.
Innanzitutto è fondamentale, in entrambi i casi, che la condotta posta in essere sia la
corretta estrinsecazione del diritto o del dovere, da cui deriva la non giustificazione
di condotte abusive del diritto o del dovere; inoltre, in entrambe le ipotesi la
condotta deve risultare totalmente obbligata, intesa cioè come extrema ratio. Da un
punto di vista special-preventivo positivo, infatti, emerge la necessità di
risocializzazione dell’individuo che nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di
un dovere basi la propria azione unicamente sul principio della prevalenza del
proprio diritto o dovere; inoltre, da un punto di vista general-preventivo positivo, un
uso abusivo del dovere o del diritto non può aiutare a consolidare i consensi intorno
ai principi dell’ordinamento, qualora tale condotta non venisse sanzionata.
LEGITTIMA DIFESA La funzione della pena può fornire attendibili criteri orientativi
anche per la soluzione dei tradizionali problemi inerenti alle scriminanti di legittima
difesa e stato di necessità, ad esempio, la legittima difesa in ordine ad un pericolo
volontariamente causato dal soggetto che si difende.
Nel silenzio dell’art. 52 c.p. la questione è stata risolta nel senso di inapplicabilità
della scriminante, venendo in tal caso meno l’ingiustizia dell’offesa e la necessità
della difesa. Tuttavia, applicando anche alla legittima difesa la funzione politico-
criminale di risocializzazione e di tutela dei beni giuridici, si riesce a delineare meglio
il campo di esistenza dell’istituto. Anche sul piano della funzione della pena, infatti,
l’applicabilità di tale scriminante in caso di pericolo volontariamente causato è
esclusa: dal punto di vista della prevenzione speciale positiva, colui che causa
volontariamente il pericolo, necessita di risocializzazione, in quanto risulta carente
sul piano dell’adeguamento alle regole di comportamento.
Inoltre, la funzione di tutela dei beni giuridici impedisce di giustificare chi abbia
voluto creare una situazione di pericolo per due beni giuridici.
Le stesse considerazioni possono essere fatte anche per chi agisce in misura
sproporzionata all’altrui provocazione; anche costui avrà bisogno, infatti, di
risocializzazione.
Attenendosi, però, alla lettera del codice, non è previsto il requisito
dell’involontarietà del pericolo, per l’applicazione della legittima difesa; quindi,
nell’attesa di una riforma dell’articolo bisognerebbe sempre concedere la
scriminante nei casi di volontaria causazione del pericolo, per rispetto del principio
di legalità.
31
STATO DI NECESSITA’ Gli stessi criteri di funzione della pena (tutela dei beni
giuridici e risocializzazione) si possono applicare alla scriminante ex art. 54 c.p.,
rispettando requisiti di involontarietà e inevitabilità del pericolo e di proporzione tra
fatto causato e pericolo.
-Sarà inevitabile solo quella condotta vista come necessaria, cioè qualora non vi
siano ulteriori metodi per scongiurare il pericolo.
-Il pericolo non dovrà essere causato volontariamente dal soggetto agente
(diversamente da quanto previsto dal testo dell’art. 52 c.p.).
-Deve sussistere una proporzione tra fatto commesso e pericolo a cui il soggetto
agente è stato sottoposto; il giudizio di proporzione deve essere effettuato sia sul
piano statico del valore dei beni contrapposti, che sul piano dinamico del grado
dell’offesa.

4.3 Il problema degli elementi soggettivi nelle cause di giustificazione


Per l’applicazione della causa di giustificazione, o meglio, per il suo corretto
realizzarsi nella “tipicità” prevista dal legislatore, è indispensabile la presenza di
elementi soggettivi: per l’esclusione o meno dell’antigiuridicità è decisivo lo scopo e
non la fattispecie esteriore.
Le cause di giustificazione sono composte da elementi oggettivi e soggettivi, proprio
come il Tatbestand; le fattispecie oggettive e soggettive del fatto tipico, che
esprimono rispettivamente elementi di disvalore di evento ed elementi di disvalore
di azione, devono essere controbilanciate agli elementi di valore di evento e di
azione contenuti nella causa di giustificazione. La sola presenza di elementi
scriminanti oggettivi non è sufficiente ad applicare la scriminante, occorre che
l’agente conosca la loro presenza ed agisca per realizzare le specifiche finalità
giustificanti.
Così per la legittima difesa e lo stato di necessità, l’agente deve conoscere la
situazione giustificante, l’attualità di un pericolo di un’offesa ingiusta o di un danno
grave alla persona, e deve agire con la volontà di difendere se o altri; allo stesso
modo dovrà agire per l’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere.
Unicamente nel consenso dell’avente diritto, appare sufficiente il solo requisito della
conoscenza del consenso o della sua ragionevole rappresentazione.
Anche nella prospettiva della funzione della pena non può essere sufficiente la sola
presenza di presupposti oggettivi delle scriminanti, ma il soggetto deve aver
riconosciuto la presenza di una situazione che giustifica il fatto.
Sotto il profilo special-preventivo, la mancata conoscenza di elementi giustificanti
può far emerge l’esigenza di un recupero sociale dell’agente; sotto il profilo general-
preventivo, la condotta posta in essere desta allarme sociale, in quanto è pur sempre
realizzata l’offesa di un bene giuridico.

Per neutralizzare il disvalore di evento è sufficiente la presenza oggettiva delle cause


32
di giustificazione, per la neutralizzazione del disvalore d’azione è necessaria la
consapevolezza, da parte di chi agisce, della presenza dei presupposti oggettivi delle
cause di giustificazione; inoltre nei casi disciplinati dagli articoli 52-53-54, è
necessaria anche la presenza della “costrizione ad agire”, in quanto in caso contrario
si parlerà ancora di fatto antigiuridico.
La valorizzazione degli elementi soggettivi delle scriminanti, non pone problemi per
quanto riguarda la distinzione tra le categorie dell’antigiuridicità e della colpevolezza
(responsabilità): alla prima, infatti, continua ad essere affidato il compito di
segnalare il disvalore obiettivo di un fatto, nei confronti di un intero ordinamento;
alla seconda continuerà a spettare il compito di valutare l’illecito (composto di
momenti oggettivi e soggettivi), in rapporto al singolo e concreto autore del fatto.
Secondo Moccia, la ricostruzione delle cause di giustificazione, comprensive di
elementi soggettivi, non si pone in contrasto con l’art. 59, 1 co., il quale stabilisce la
rilevanza obiettiva delle scriminanti. Tale norma, infatti opera in rapporto a cause di
giustificazione che sono comprensive di elementi sia oggettivi che soggettivi, di cui
però l’agente ignora o ritiene per errore inesistenti; in questo caso infatti, a
prescindere dall’opinione di costui, l’art. 59 c.p. rende operante la scriminante.
(Nel caso della legittima difesa il soggetto deve essere consapevole di agire in una
situazione di pericolo e di essere costretto dalla necessità di difendersi da un’offesa
ingiusta, ciò che egli non è tenuto a sapere è la presenza di una norma all’interno
dell’ordinamento che giustifichi quel fatto commesso).

Per quanto concerne il trattamento sanzionatorio in caso della presenza del


disvalore di azione, Moccia ritiene che il fatto dovrà essere punito con la pena
prevista per il delitto tentato, perché al pari di questo ciò che viene a mancare è il
disvalore di evento: nel delitto tentato perché l’evento non si verifica, nel caso qui
contemplato perché il disvalore di evento viene neutralizzato dalla presenza
obiettiva delle cause di giustificazione; nel caso in cui ci sia una neutralizzazione
parziale del disvalore di azione (ravvedimento operoso o desistenza volontaria) sarà
necessaria una maggiore attenuazione della pena rispetto al delitto tentato.

33
POLITICA CRIMINALE E SISTEMA DEL DIRITTO PENALE

La politica criminale è la scienza che studia le categorie penaliste in relazione alla


vita sociale

Il saggio di Roxin si apre con una citazione di Litz: “il diritto penale è l’insormontabile
limite della politica criminale”, indicando un rapporto di antitesi, ancor oggi
presente, tra diritto penale e politica criminale, e considerando il diritto penale
come scienza sociale e scienza giuridica.
Secondo Litz infatti:
 Al diritto penale appartiene la funzione garantistica, propria dello stato di
diritto, volta ad assicurare l’uniformità nell’applicazione del diritto e la tutela
della libertà individuale dall’aggressione dello Stato “Lieviatano”.
 Alla politica criminale spetta, invece, il compito sociale del diritto penale, cioè
individuare i metodi di lotta al delitto conformi allo scopo che ci si è
prefissati.
Il codice penale, infatti, in quanto “Magna carta del delinquente” difende non la
comunità, ma l’individuo che si ribella ad essa, in quanto egli può essere punito solo
nel rispetto dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge. Litz riteneva che fin
quando si difende la libertà del singolo dall’arbitrio statale, rispettando il principio
nullum crimen nulla poena sine lege (p. legalità), l’interpretazione legislativa
mantiene il suo significato politico. Pertanto, nel campo del diritto penale sarebbe
da escludere ogni obiettivo di politica criminale.
Secondo Litz, il diritto deve restare una scienza sistematica in quanto solo tale
classificazione delle nozioni assicura la certezza del diritto e limita la discrezionalità e
l’arbitrio interpretativo e applicativo.
Tuttavia, Roxin muove due obiezioni fondamentali alla pura elaborazione
sistematica del diritto:
1. Il mero impegno sistematico non è sempre sufficiente a raggiungere i
risultati desiderati, in quanto può ben esservi una sproporzione tra tale
impegno e il risultato pratico nei casi concreti, proprio perché le questioni di
politica criminale rimangono fuori dall’interpretazione della legge penale.

34
2. Se le questioni di politica criminale non posso accedere alla sfera
dell’elaborazione sistematica, Roxin si chiede a cosa possa servire una
soluzione univoca e coerente, ma ingiusta a livello sostanziale (es non tenere
conto delle circostanze del caso concreto).
Per risolvere questi problemi bisognerebbe ricorrere alla correzione delle soluzioni
dommatico-concettuali con una diversa valutazione di POLITICA CRIMINALE, ma
questo pone alternativa:
-o si ritiene che la disapplicazione di principi dommatici fatta sulla base di valutazioni
di politica criminale comprometta l’applicazione del diritto
-o si dimostra che la soluzione del caso concreto non è di ostacolo alla certezza del
diritto.
Ad oggi si può pacificamente ritenere che la rinuncia ad una teoria del reato
operante per generalizzazioni e differenziazioni, come quella contenuta nella parte
generale del codice penale, inoltre è impensabile che si possa rinunciare alla
sistematica, ma allo stesso tempo restano le critiche che vanno però riferite non al
pensiero sistematico, ma alle sbagliate impostazioni del suo sviluppo, che
riprendono il positivismo. l positivismo si caratterizza proprio per il fatto di
distinguere nettamente la dimensione sociale (compresa quindi la politica criminale)
da quella giuridica e di ritenere che la legge non possa mai essere uno
strumento per modellare il sociale. Attualmente, però, non si può più ritenere che
il compito della legge si esaurisca nella funzione di tutela dello stato di diritto: i
problemi di politica criminale costituiscono il contenuto proprio anche della teoria
generale del reato pertanto politica criminale e diritto non devono entrare in
contraddizione, bensì ridursi a sintesi (ad esempio rappresenta una questione
politico criminali la scelta di sanzionare o meno colui che commette il fatto per
legittima difesa). D’altra parte, è proprio questa la strada per evitare che le scelte di
politica criminale vengano attribuite alla mera discrezionalità del giudice: si deve
dare alle scelte di valore della politica criminale uno spazio nell’ambito del diritto
penale affinché esse acquistino fondamento legislativo, chiarezza e valutabilità.
Tuttavia, Roxin ritiene che un tentativo completo di sintesi tra diritto e politica
criminale non è stato ancora intrapreso nella dommatica di parte generale;
piuttosto, afferma che la struttura del reato, che siamo abituati a rappresentarci
come un processo unitario (unità) e che costituisce il modello-standard per prassi e
dottrina, in realtà frutto di epoche differenti che si sono susseguite:

35
 A partire dal positivismo si è accolto un sistema classificatorio strutturato
come una piramide concettuale che procede mediante astrazione dei concetti
particolari verso quelli generali; questo schema esclude totalmente dalla
dommatica le valutazioni di politica criminale e la realtà sociale
 Metodologia neokantiana assiologicamente orientata, avrebbe potuto
condurre ad un’immagine del sistema penale del tutto nuova, se avesse
tenuto conto delle valutazioni di politica criminale come criterio per le
formulazioni dommatiche.
 Teoria finalistica dell’azione ha tentato di ristabilire il collegamento della
dommatica penale con la realtà sociale, anticipando al momento del fatto
(tipicità) il contenuto psichico dell’azione (dolo e colpa) e depurando il
concetto di colpevolezza (dolo e colpa vengono considerati come oggetto del
giudizio di colpevolezza, non più come sua forma o specie). Tuttavia il
finalismo, se da un lato, si differenzia dalla tripartizione positivistica, dall’altro,
nell’ambito della dommatica non lascia alcun spazio a finalità politico
criminali. La contraddizione tra diritto e politica criminale, dunque, non è
superata neppure dal finalismo.
Roxin dimostra, dunque, che le elaborazioni della nostra metodologia penale hanno
realizzato solo in parte i requisiti di un sistema efficiente, ossia:
1. Ordine concettuale e chiarezza
2. Corrispondenza alla realtà
3. Accoglimento di finalità di politica criminale

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Per Roxin, le singole categorie del reato (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza)
devono essere sin dal principio sviluppate e schematizzate secondo la loro funzione
politico-criminale.
1. La tipicità(fatto tipico): il legislatore ha il compito di soddisfare le esigenze di
determinatezza e tassatività garantite a loro volta dal principio di legalità
(nullum crimen sine lege). A tal proposito Roxin fa una distinzione tra reati
d’azione e reati d’obbbligo.
Per REATO DI AZIONE = intendiamo il reato descritto dal legislatore attraverso
una serie di accadimenti materiali e processi interiori inerenti al comportamento
dell’autore del fatto e cioè solo il fatto che si è realizzato secondo le modalità
descritte in modo puntuale dalla norma può essere ritenuto corrispondente a
quella fattispecie incriminatrice, ad es nel nostro ordinamento la TRUFFA:
chiunque mediante artifizi o raggiri inducendo taluno in errore, procura a sé o ad
altri un ingiusto profitto con danno altrui quindi viene punito. Qui devono essere
presenti nel rispetto del principio di legalità e tipicità tutti gli elementi che la
norma richiede, se manca anche uno solo di questi elementi non potrebbe dirsi
che il fatto storico corrisponde alla fattispecie di truffa. Per certi versi possiamo
dire che i reati d’azione siano fattispecie a forma vincolata = cioè tra tutte le
modalità di aggressione di un determinato bene giuridico assumono rilevanza
penale solo quelle descritte nella norma.
Per i REATI DI OBBLIGO = il legislatore non tiene conto delle modalità d’azione
dell’autore, rileva solo che quella condotta (attiva/omissiva) consista in una
violazione d’obbligo e che provochi un pregiudizio (reati d’obbligo). (es:
patrocinio infedele) che rappresenta l’inadempimento dell’obbligo che si impone
all’avvocato di tutelare e patrocinare gli interessi del proprio assistito. Si realizza
quando questo obbligo ,che è definito altrove ,non nella norma penale ,ma nel
regolamento di deontologia professionale resta inadempiuto,
indipendentemente dal fatto che questo si sia realizzato da parte dell’avvocato,
ad es non producendo entro i termini perentori un documento fondamentale per
tutelare gli interessi del proprio assistito o viceversa producendo un documento
che contravviene agli interessi del proprio assistito. Possiamo dire, quindi, che le
fattispecie dei reati di obbligo, in un certo qual modo, sono fattispecie a forma
aperta nella misura in cui ciò che conta è l’inadempimento dell’obbligo e non il
modo in cui questa si realizza . Il problema nasce però quando ci sono
determinati beni giuridici tutelati dall'ordinamento solo mediante una condotta
attiva (es non uccidere)., cioè di quelle omissioni penalmente rilevanti, la cui
rilevanza penale si fonda sulla “clausola generale dell’ equivalenza causale” e
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cioè l’equivalenza tra l’agire e l’omettere, espressa nell’art 40 comma 2. Roxin
ritiene che la clausola dell'equivalenza causale (40.2 cp) contrasti con la funzione
del fatto tipico, in quanto la tipicità del fatto è affidata all' operatività di questa
clausola, data dall'analisi giudiziale e violando quindi il principio di legalità. Da ciò
ne deriva che i reati d’obbligo sono equivalenti ai reati di azione.
Tuttavia, secondo Roxin, la distinzione tra reati d’obbligo e reati d’azione pone
precise conseguenze dogmatiche:
Nei reati d’obbligo nei reati d’obbligo è indifferente che il reato sia
commesso con azione o omissione. In questo caso, non si forza la scelta di
incriminazione espressa dal legislatore, in quanto egli non prescrive un
determinato comportamento come necessario affinché si realizzi quel fatto
costituente reato.
Nei reati d’azione Essendo il principio di legalità rispettato attraverso la
descrizione dell’azione, si pone il problema di come il soggetto possa aver
agito mediante un’omissione (non-azione), nel modo descritto dalla norma. In
questo caso, dire che agire equivale ad omettere significa forzare il dato
positivo, poiché si finisce col porre sullo stesso piano l’azione e l’omissione
laddove il legislatore ha voluto incriminare solo l’azione.

Visto che nel cod tedesco non c'è un articolo come quello italiano 40.2 che
pone una equivalenza tra non impedire=cagionare, Roxin crea una categoria
particolare REATI DI OBBLIGO MASCHERATO O DI AZIONE IMPROPRIA : cioè
reati nei quali apparentemente si ha a che fare con un reato di azione ma ciò
che conta per la rilevanza penale della condotta è l’inadempimento
dell’obbligo sotteso a quella condotta. Il caso classico di scuola è quello della
madre che omette di allattare il proprio bambino… in questo caso non c’è
bisogno di una norma che appositamente incrimini l’omissione ,perchè quello
che conta ai fini della rilevanza penale di questa condotta è l’inadempimento
dell’obbligo che si impone alla madre di tutelare la salute del figlio, quindi è
indifferente se questo obbligo venga disatteso con un agire positivo o
negativo ,in ogni caso il fatto è riconducibile all’omicidio, al cagionare la
morte.

Concludendo il suo discorso sulla tipicità, Roxin ritiene che il fatto tipico vada
interpretato in modo restrittivo, al contrario di come fa la giurisprudenza, che
al fine di garantire la più ampia tutela possibile al bene giuridico, adotta
un’interpretazione estensiva. Il diritto penale deve essere concepito come una
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magna charta del delinquente e non della comunità, il procedimento più
SODDISFACENTE sotto il profilo del nullum crimen è il ricorso a
un’interpretazione RESTRITTIVA che valorizzi la funzione di garanzia del
diritto penale e che si estenda al solo ambito di punibilità irrinunciabile per la
tutela del bene. A sostegno di tale tesi, vi è il ricorso al:
 Principio dell’adeguatezza sociale (Welzel), che serve cioè a restringere la
portata di certe espressioni letterali, escludendo dal loro campo di
applicazione comportamenti socialmente tollerabili.
 Principio dell’esiguità, che consente di escludere dalle fattispecie le violazioni
di poco conto.

Antigiuridicità è l’ambito delle soluzioni dei conflitti sociali, sulla base della teoria
tripartita del reato, è una categoria nella quale trovano sede sistematica le cause di
giustificazione cioè quella categoria in cui si svolge quel giudizio di illiceità del fatto
commesso. Se un fatto pur essendo tipico – corrispondendo al modello prescritto
dal legislatore – è realizzato in presenza di c.giustificazione si ritiene che sia
permesso dall'ordinamento e quindi non è illecito non solo per il d.penale, ma per
tutto l'ord.giuridico in quanto non può andare in contro ad alcun tipo di sanzione.
Roxin sostiene che la funzione politico criminale di questa categoria è la regolazione
socialmente giusta di interessi contrastanti, cioè di interessi individuali o collettivi
tra loro in conflitto. Rispetto a questa collisione di interessi le c.giustificazione
intervengono a dare una soluzione conforme ai principi dell'ordinamento attraverso
l'operatività di un numero chiuso di principi ordinatori che sono a loro fondamento.
Roxin sostiene che l'antigiuridicità è la categoria tramite cui, i mutamenti della realtà
sociale, penetrano nella struttura del reato perché le c.giustificazione, esprimendo la
non disapprovazione o il permesso addirittura di compiere quell'azione in tutela di
un interesse prevalente, si intendono non strettamente penali. Perciò esse possono
provenire non solo dal d.penale, ma anche da altri rami dell'ord. giuridico o proprio
dai mutamenti propri della realtà sociale che ritiene che il fatto non rappresenti un
disvalore sociale tale da richiedere l'intervento delle sanzioni penali. Perciò dice
Roxin è necessario che le valutazioni concernenti l'antigiuridicità devono essere più
elastiche rispetto a quelle concernenti la tipicità laddove si esprimono valutazioni
del d.penale dove vige quel p.legalità. Dunque anche il discorso della
determinatezza e tassatività deve essere più elastico, ma non deve mancare. A
differenza di coloro che ammettono l’analogia in bonam partem per le cause di
giustificazione, poiché vengono considerate norme non penali, Roxin sostiene che
tale analogia non è ammissibile, perché se da un lato, è vero che determinatezza e
tassatività vanno affrontate in un’ottica più elastica rispetto al fatto tipico, dall’altro,
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una quota di queste deve essere sempre conservata anche nell’antigiuridicità, in
quanto le norme scriminanti contribuiscono a definire dall’esterno la liceità della
condotta.
Per Roxin e Moccia compito della scienza penale in merito all’antigiuridicità, è quello
di individuare i principi fondamento delle cause di giustificazione che possono
risolvere i conflitti sociale tra interessi collidenti(questa è la funzione politico
criminale dell antigiuridicità).
Quindi il legislatore utilizza, come mezzo per la risoluzione dei conflitti, un numero
limitato di principi ordinatori che determinano il contenuto delle cause di
giustificazione (cioè si tratta di principi generali dell’ordinamento, provenienti da
diversi settori del diritto). Ad esempio, nella legittima difesa, intervengono i principi
dell’autotutela (ognuno ha il diritto di opporre resistenza a un’aggressione illecita) e
della difesa del diritto (ognuno ha il diritto di non soffrire di un pregiudizio a causa di
un’aggressione).
La difesa del diritto sta ad indicare non la difesa del proprio diritto, difesa del diritto
va inteso come difesa del diritto in senso oggettivo, difesa dell’ordinamento
giuridico. Il soggetto che si difende dalla persona ingiusta non solo tutela il proprio
interesse individuale ma ristabilisce il rispetto nell’ordinamento giuridico leso dalla
persona.
Autotutela e difesa, tuttavia, trovano il loro limite nel principio di proporzionalità tra
offesa e difesa.
Tali principi posti a fondamento della legittima difesa, afferma Roxin, possono
risolvere un caso non espressamente regolato e che ha per molto impegnato
dottrina e giurisprudenza: la legittima difesa contro un’offesa proveniente da un
minore o un incapace.
Quindi se l’offesa proviene da un minore o da un incapace opera la legittima difesa
laddove il soggetto appunto si difenda ledendo un interesse dell’aggressore?
Roxin risolve la questione, affermando che, in questo caso, uno dei principi della
legittima difesa (precisamente quello della difesa del diritto) non può operare, in
quanto il minore o l’incapace sono soggetti che non è possibile motivare attraverso
le norme e, dunque, sono esenti da pena; di conseguenza, essendo mancante uno
dei tre principi fondamentali, l’aggredito deve preferire la fuga, ovviamente sempre
nel rispetto dei due principi quali l’autotutela e la proporzione.
Per quanto riguarda la Legittima difesa per Moccia, il prof dice che il soggetto che
causa volontariamente la situazione di pericolo può agire in legittima difesa solo

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quando si ha una reazione sproporziata da parte del terzo alla sua offesa.

Copevolezza: La colpevolezza è un elemento del reato che si aggancia a contenuti


etici e morali, e quindi ad una funzione retributiva della pena, perché un soggetto
deve essere punito per il fatto tipico ed antigiuridico commesso. Infatti, ROXIN,
critico della teoria retributiva, cercò di recuperare il principio di colpevolezza
staccandolo dai suoi legami con la retribuzione, considerando solo la funzione
garantista e considerando la colpevolezza come limite alla pretesa punitiva dello
stato. Quindi la colpevolezza non svolge più una funzione di fondamento della pena
ma di limite di una pena orientata verso una funzione di prevenzione generale e
speciale.
Generale (perchè la pena è avvertita come giusta dai consociati perchè si basa sulla
colpevolezza per il fatto)
Speciale( perchè una pena eccessiva potrebbe essere avvertita dal reo come
ingiusta).
Nel caso in cui, invece, il soggetto avrebbe potuto agire diversamente e quindi
l’evento si sarebbe potuto evitare, bisogna capire se e a quali condizioni sussista la
colpevolezza. Roxin pone tre esempi:
SUSSISTENZA DI CAUSE DI ESCLUSIONI DELLA COLPEVOLEZZA : Quando l'agente
realizza il fatto tipico e antigiuridico senza poter agire diversamente, l’inflazione
della pena è inutile sia dal punto di vista etico.-retributivo, in quanto non si può
retribuire una colpevolezza che manca, sia dal punto di vista general-preventivo che
special-preventivo. Viceversa, in presenza di un obbligo giuridico di esporsi al
pericolo imposto dal ruolo sociale che si riveste (es. poliziotto), il soggetto non sarà
esente da pena, in quanto per egli non si tratterebbe di una situazione eccezionale,
per cui si necessita di un’azione di prevenzione generale e speciale.
Desistenza dal tentativo: la cui efficacia di impunità è ricollegata al requisito della
volontarietà: c'è impunità quando la desistenza è irrazionale e si configura come un
ritorno alla legalità, ad es. il soggetto lascia cadere il braccio che stava per dare il
colpo mortale alla vittima, all'ultimo momento perchè gli manca il coraggio di
ucciderla (quindi non necessita di una pena) perché vengono meno le finalità di
sicurezza (nel senso che il bene non è più minacciato e di conseguenza non è
necessario neutralizzare l’agente) e le finalità retributive e preventive, perché
l‘agente ha già riparato ancor prima che si verificasse l’evento, abbandonando
l’azione criminale.

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Se invece la desistenza è razionale e non volontaria dunque, non ci sono le esigenze
di attenuazione di tipo special-preventivo e il soggetto sarà dunque punibile: es. chi
desiste dall'omicidio perchè teme di essere stato scoperto e quindi denunciato.
TEORIA DELL’ERRORE: In caso di erronea supposizione di una causa di
giustificazione, viene ESCLUSA LA COLPEVOLEZZA in quanto non necessita di essere
rieducato colui che credeva di agire in senso conforme alla legge. La colpevolezza
dovrebbe ritenersi sussistente solamente qualora la pena possa raggiungere lo
scopo di prevenzione.
Superamento della colpevolezza: Tuttavia si nutrono forti perplessità nel recupero
di questa concezione del principio di colpevolezza, in particolar modo MOCCIA , il
quale ritiene che seguendo la teoria proposta da ROXIN , si lascia al principio di
colpevolezza soltanto la funzione di garantire la proporzionalità della pena al fatto
commesso dall'imputabile. Quindi in virtù di ciò, secondo MOCCIA, dovrebbe
sostituirsi questo principio di colpevolezza con un principio di proporzionalità che,
unitamente alle istanze di prevenzione generale e speciale, rientrerebbe in una terza
categoria del reato denominata RESPOSABILITA’ PERSONALE cioè l'insieme dei
presupposti che rendono possibile un giudizio su un soggetto che ha commesso un
fatto tipico e antigiuridico. In questa terza categoria rientrano, recuperato il criterio
di proporzione , sia il fatto dell'imputabile che non imputabile. Ed è per questo che si
parla di un superamento della colpevolezza. Quindi l'imputabilità assieme
all'intensità del dolo e il grado della colpevolezza , costituirebbe uno degli oggetti del
giudizio di responsabilità penale : quindi l'imputabilità andrebbe inserita non per
escludere la colpa ma per adeguare il trattamento sanzionatorio al singolo reo
imputabile o meno. es : un omicidio volontario appartiene alla volontà sia ad un
soggetto sano di mente che ad uno paranoico però nel caso del paranoico, la
mancanza di imputabilità rende quel coefficiente psicologico rilevante per applicare
una misura di sicurezza ( se c'è pericolosità) e non la pena.
Da ricordare che i fatti commessi dal non imputabile (che nella colpevolezza
venivano esclusi , perchè l'imputabilità è un presupposto della colpevolezza, e
quindi esclusi da una garanzia contro il potere punitivo dello stato).

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