Sei sulla pagina 1di 4

Le teorie penali pure

Il punto di partenza per la costruzione di una teoria generale del diritto penale, orientata secondo lo scopo
teleologico della norma, dovrebbe essere costituito da una ricognizione delle opzioni legislative circa i fini
della repressione penale. Secondo Hegel, la pena rappresenta il mero schema logico del ristabilimento del
diritto violato dal reato ed è funzionale al perseguimento di qualsiasi finalità, a partire dalla retribuzione
fino alle più avanzate forme di risocializzazione. Il fondamento logico della pena riposa sul passato mentre
quanto alla funzione da esplicare essa è rivolta al futuro. Il concetto hegeliano di pena perderà di validità
soltanto se, in rapporto al controllo sociale di fatti ritenuti criminali, ti si ponga in una prospettiva
totalmente diversa da quella a tutt'oggi accolta - cioè quella della necessità dell'intervento in termini di
controllo, da parte dello Stato, difatti ritenuti socialmente dannosi - con il negare la stessa legittimità a
qualsiasi intervento da parte di un'istanza super individuale contro le turbative del vivere sociale.

In rapporto al momento della funzione si distinguono tradizionalmente:

 Teorie assolute (retributive), che si connotano in negativo per l’assenza di finalità ulteriori rispetto alla
mera inflizione della pena;  Teorie relative (preventive), che conoscono una o più finalità.

Un’ulteriore distinzione può essere fatta in:

 Teorie pure, che prendono in considerazione una sola finalità, riducendosi a quattro categorie (teoria
della retribuzione, della prevenzione generale, della prevenzione speciale e dell’emenda);  Teorie
eclettiche, che combinano più finalità.

Per quanto riguarda le teorizzazioni pure trovano significative espressioni nell'ambito del pensiero
penalistico di estrazione kantiana. infatti, sia l'idea retributiva, nel pensiero dello stesso Kant, e le idee di
prevenzione generale nel pensiero di Feuerbach, e di prevenzione speciale nel pensiero di Grolman,
ebbero, quali principi su cui fondare un sistema, una loro compiuta espressione. Per quel che riguarda
invece Karl Krause, pur raccogliendo qualche principio di derivazione kantiana, elabora la sua teoria in
maniera indipendente, traendole premesse di fondo dai postulati del suo stesso sistema filosofico generale.

Teoria di Kant: Kant accenna al problema della pena in diverse opere, ma ne tratta espressamente nella
prima parte della Metafisica dei costumi. Egli definisce il diritto penale come “il diritto che ha il sovrano
verso chi gli è soggetto, di infliggergli una pena, quando si sia reso colpevole di un delitto”. Kant precisa la
portata unilaterale del principio di colpevolezza, inteso come fondamento della pena, negando alla
sanzione penale la legittimazione al perseguimento di un qualsiasi scopo, sia a profitto del criminale stesso,
sia a profitto della società, ma la pena deve sempre venirgli inflitta soltanto perché egli ha commesso un
crimine. Questa caratteristica viene ribadita quando Kant passa alla definizione della legge penale: egli
introduce nell’ambito della dottrina del diritto la più tipica espressione della legge morale, l’imperativo
categorico (agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, valga come legge universale per qualsiasi
essere razionale). Tuttavia, così facendo, vengono a confondersi prospettive etiche e giuridiche, con
implicazioni pericolosissime in rapporto alla tutela della libertà individuale. In Kant, che pure aveva operato
con chiarezza la distinzione tra legalità e moralità, questa confusione è evidente, così come lo è
l’introduzione nella realtà fenomenica di alcune categorie riservate da Kant alla realtà noumenica
trascendente (come la libertà da determinazioni causali). Il principio per determinare specie e grado della
pena è per Kant la “Vergeltung” (= rappresaglia), sotto forma di ius talionis, inteso come un sistema che
serve a punire chi delinque secondo la sua malignità interna, dimenticando che erano gli aspetti esteriori
dell’agire delinquenziale che potevano e dovevano essere presi in considerazione: di conseguenza, anche la
pena di morte era ritenuta doverosa per l’assassino ed i suoi complici. A questo punto Kant introduce il
famoso passo dell’isola in procinto di essere abbandonata dagli abitanti: “anche quando al società civile si
dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe venir
prima giustiziato, affinché ciascuno porti al pena della sua condotta, perché questo popolo potrebbe venir
considerato come complice di questa violazione pubblica della giustizia”. Per esplicare l’inutilizzabilità della
teoria retributiva in un contesto giuridico, ci soffermeremo sulla contraddizione di fondo consistente
nell’indebito inserimento della problematica penale nell’ambito della dottrina dell’imperativo categorico:
come abbiamo visto, Kant ha definito la legge penale imperativo categorico, da ciò facendo discendere una
teoria penale assolutamente etico-retributiva. Ma (all’autore Moccia) pare che la premessa risulti in netto
contrasto con gli stessi princìpi kantiani della dottrina dell’imperativo categorico, designato (a differenza di
quello ipotetico) come “tipico della moralità”, imponentesi di per sé. Il suo presupposto necessario per un
vero adempimento è la libertà, laddove è tipica della legge giuridica la possibilità della coercizione, proprio
perché la sua osservanza è concepita per il raggiungimento di un qualsiasi fine legato alla singola
personalità individuale. A Moccia sembra che, sulla base dei postulati della dottrina morale kantiana, sia
impossibile definire imperativo categorico una tipica legge giuridica, come quella penale, che nel caso di
una sua violazione commina sanzioni gravissime, anche la morte, per il semplice motivo che resterebbe
sempre da dimostrare che sia stato il rispetto della legge elevato a massima dell’azione e non il timore della
pena espressamente prevista a trattenere il consociato dall’infrangerla. Ma tali procedimenti non
interessano allo stato di diritto. Non sono mancati tentativi di recupero della teoria kantiana per una
dimensione giuridica del rapporto punitivo, ma emerge che per Kant l’unica pena possibile è quella che
viene inflessibilmente inflitta in una prospettiva di retribuzione morale. Questo significa dare alla pena una
dimensione strettamente formalistica, duramente metafisica, dal momento che essa è stata posta per il
soddisfacimento di esigenze astratte di una giustizia vendicativa, che trascendeva la problematica concreta.
La teoria kantiana segna un passo indietro rispetto alle concezioni illuministiche, assicurando e garantendo i
diritti fondamentali della persona, mortificati in una concezione che vedeva nella pena la ricerca di un
semplice equilibrio tra due grandezze eterogenee: il delitto di un uomo e l’inflizione di una sofferenza da
parte degli organi della giustizia statuale.

Teoria di Feuerbach: Feuerbach elaborò una concezione generalpreventiva, secondo la quale alla pena era
affidata la funzione di trattenere, tramite la minaccia prima della commissione del reato e l’inflizione dopo,
la generalità dei consociati dal commettere reati. Egli collega lo scopo della pena immediatamente allo
scopo dello Stato, cioè la difesa della libertà individuale, condizione principale per l’affermazione della
natura razionale dell’uomo nel mondo dei fenomeni. Feuerbach previsa che “scopo dello Stato è di
assicurare quella condizione nella quale ognuno può esercitare i suoi diritti completamente al sicuro dalle
offese; ogni offesa contraddice la natura e lo scopo del consorzio civile.” Sorge però il compito di reperire un
mezzo attraverso il quale le offese possano essere assolutamente impedite e questo mezzo di prevenzione
delle offese all’altrui libertà è individuato da Feuerbach nella predisposizione di ostacoli di ordine
psicologico; quelli di ordine fisico non sarebbero praticabili, trattandosi di mettere tutti i cittadini in catene
per essere certi della loro diligenza. Il più efficace tra gli ostacoli di tipo psicologico è per Feuerbach la
minaccia di un castigo per ogni offesa, ossia la pena civile. Feuerbach ha chiaramente distinto la pena civile
dalla pena morale, che rappresenta un’idea necessaria della ragione unita in maniera inseparabile con la
coscienza della conformità o difformità dal dovere, reputando solo la prima di competenza statuale. Per la
pena morale, il fondamento dell’inflizione del male risiede nell’infrazione della legge del dovere,
nell’immoralità dell’intenzione, laddove alla pena giuridica deve avere come riferimento la semplice azione
esterna e la conformità di quest’ultima ai postulati della legge giuridica. Una prima elaborazione di tale
teoria fu svolta nell’”Anti-Hobbes”, opera di orientamento liberale tesa a dimostrare, contrariamente
all’opinione di Kant, la liceità del diritto di resistenza del cittadino nei confronti del sovrano infedele.
L’azione delittuosa è determinata da motivi che costituiscono gli scopi della volontà e sono tesi a soddisfare
peculiari interessi del soggetto agente: il delitto costituisce quindi un mezzo per procurare un piacere a chi
lo commette. Per evitare che vengano commessi fatti criminosi occorre che alla rappresentazione del
piacere connesso alla condotta criminosa venga contrapposta la rappresentazione di un dolore, delineato
nella legge come sicura ed inderogabile conseguenza della condotta medesima e di intensità superiore
all’eventuale piacere derivante dalla commissione del reato. Questa prospettiva dovrebbe far sorgere nei
confronti dei consociati un tale timore da inibire ogni proposito criminoso. Si dovrebbe quindi operare una
coazione psicologica con il risultato di prevenire la commissione dei reati. Un ruolo fondamentale svolge la
legge penale, la cui minaccia dev’essere portata attraverso la legge in forma determinata, sia relativamente
al fatto da punire che alla pena da infliggere. Questo accentuato legalismo portò Feuerbach anche a
vincolare, forse in maniera eccessiva, il giudice alla lettera della legge (per la garanzia dell’inderogabilità
dell’applicazione della legge). Questo aspetto segnò uno dei punti di attrito con i teorici della prevenzione
speciale.

Teoria di Grolman: La teoria specialpreventiva della pena fu sostenuta inizialmente da Stubel, che
successivamente aderì alla concezione generalpreventiva di Feuerbach, per giungere ad una teorizzazione
che recuperava taluni aspetti significativi della prevenzione speciale. Fu Grolman a fornire una completa
elaborazione dell’idea di prevenzione speciale: a differenza di Feuerbach, egli, riprendendo talune obiezioni
avanzate da Fichte e rielaborate successivamente da Schopenhauer, senza mezzi termini definì
un’aberrazione la teoria retributiva di Kant. Grolman fu autentico interprete del criticismo giuridico,
ponendo alla base della sua speculazione i princìpi di separazione tra diritto e morale, con al conseguente
competenza del diritto per le azioni esterne. Nell’elaborazione della sua teoria penale, Grolman parte dal
presupposto, di tipo giusnaturalistico, della preesistenza, rispetto ai diritti derivanti dal patto sociale, di un
naturale diritto di difesa, spettante ad ogni essere umano, contro gli attentati alla libertà derivanti da
attività criminose. Questo generale diritto di difesa si articola nel diritto di legittima difesa, nel diritto al
risarcimento del danno e nel diritto di impedire l’offesa minacciata. L’uomo infatti ha un diritto di
coercizione per il mantenimento della sua situazione giuridicamente apprezzata e quindi ha anche un
diritto ai mezzi necessari allo scopo. Il diritto di prevenzione è strettamene collegato alla minaccia di
un’offesa ingiusta, che per Grolman assume la sua forma più evidente nel delitto già commesso, in quanto
il delinquente con il suo reato si è dimostrato un essere non ragionevole: “se il delitto o il suo tentativo
contengono una concreta minaccia di future violazioni, è lecito influire sul delinquente in maniera tale da
indurlo a non portare a compimento la sua minaccia”. Questa influenza, secondo Grolman, si ottiene o
mediante la concreta intimidazione individuale che scaturisce dall’inflizione di un male, o nel caso di
mancato effetto intimidativi della stessa con il porre il soggetto nella fisica impossibilità di attuare la sua
minaccia. A fondamento del diritto punitivo, rivolto al futuro, Grolman concepisce l’originario diritto alla
prevenzione. L’esercizio di questo diritto spetta esclusivamente allo Stato, che dovrà uniformarlo ai
seguenti criteri: l’inflizione di una pena dovrà aversi solo nei casi di assoluta impossibilità di altro
provvedimento che meno incida sulla libertà individuale (principio di sussidiarietà del diritto penale) ed
unicamente in conseguenza di fatti di reato commessi colpevolmente; dovrà inoltre essere assicurata la
conformità della pena al suo scopo preventivo, anche per il rispetto della dignità dell’uomo. Nella
valutazione della minaccia, Grolman conferì una notevole importanza alle sue caratteristiche soggettive,
venendo in primo piano la personalità del soggetto (ma ciò non significava affatto l’intromissione di
elementi di valutazione etica nel giudizio di diritto!). Grolman si sforzò per distinguere la figura del giudice
della coscienza da quella del giudice penale statuale, cui era riservata semplicemente l’indagine sulla
legalità o meno di una condotta, in riferimento alla disposizione di una legge giuridica come unico criterio di
imputazione a colpevolezza di un fatto di reato. << moralità e immoralità sono concetti per noi
completamente estranei che appartengono all’etica e non al diritto>> Da questa impostazione risultava
esclusa qualsiasi indebita valutazione di ordine etico da parte degli organi della giustizia statuale.
Nonostante ciò, la teoria specialpreventiva di Grolman non abbraccia i contenuti della risocializzazione.

Teoria di Karl Krause: Un diretto antecedente dell’idea di risocializzazione è dato da Krause, tipico
esponente di un assoluto idealismo postkantiano. Krause si è occupato della tematica della pena
incidentalmente, nell’ambito dell’elaborazione di un sistema filosofico universalistico. Strano destino di
questo pensatore è stato quello di aver avuto successo maggiormente fuori dal suo Paese. All’autore
sembra che diversi aspetti del pensiero di Krause meritino approfondimento e considerazione maggiori. Ci
riferiamo proprio alla Gesellschafts e alla Rechtslehre. Nel sistema krausiano, la finalità essenziale del
diritto consiste nel consentire la massima esplicazione della personalità dell’individuo in sintonia con il
soddisfacimento di esigenze, di ordine sociale, superindividuali: “il diritto è l’essenziale forma generale dei
rapporti di tutti verso tutti”. Su questa premessa, non poteva che essere fondata una teoria penale
correzionalista: il delinquente, per quanto concerne il suo delitto, è da considerare come un minore, un
incapace, che non è in grado di esprimere correttamente la sua personalità nel rispetto degli altri. Per lui
Krause ritiene concepibile soltanto un’opera di emenda, che deve principalmente servire ad annullare i
motivi interni che spingono al male e renderlo insensibile ad eventuali influenze o stimoli negativi esterni.
L’origine del male in un essere razionale risiede, secondo Krause, o in una carenza, o in un’erronea
formazione, o in una corruzione nelle attività che regolano i processi legati alla conoscenza, alla sensibilità
ed alla volontà. Si deve quindi riuscire a sollecitare, anche forzandola, la volontà ad una diversa
determinazione conforme alle esigenze etico-giuridiche. Mai quindi reprimere meccanicamente il male. Il
trattamento che Krause propone si articola in quattro punti: in primo luogo, bisogna annullare il male,
suscitando la naturale buona volontà dell’essere umano, servendosi principalmente dell’educazione e della
cultura formativa; la seconda regola consiste nell’eliminazione delle condizioni esterne dell’”unrecht” (ciò
che è sbagliato), il che comporta non solo una segregazione rispetto all’ambiente esterno, ma anche
l’isolamento dagli altri condannati; bisogna inoltre mirare al recupero morale del delinquente,
accontentandosi anche del solo rispetto della semplice legalità; infine bisogna convogliare, anche
d’autorità, se necessario, le energie fisiche del delinquente alla pratica del bene (avviamento al lavoro
retribuito, quanto più creativo possibile, cioè che tenga nel massimo conto le peculiari attitudini ed
aspirazioni del singolo). La realizzazione di questo programma richiedeva la privazione a tempo
indeterminato della libertà fino al raggiungimento dell’emenda, il che comportava un notevole
ampliamento del potere discrezionale del giudice, sia in sede di giudizio che di esecuzione. Questa
concezione contiene indicazioni di notevolissimo valore, esigendo anche l’individuazione e la massima
umanizzazione del trattamento, destinato a consentire la risocializzazione del delinquente, principalmente
attraverso l’istruzione ed il lavoro creativo. Krause ipotizza l’uso della sanzione penale come extrema ratio,
da irrogarsi dal potere giudiziario con le forme e le garanzie del processo penale. Le conseguenze giuridiche
del fatto illecito devono essere precisate in una legge speciale resa nota alla generalità dei cittadini; non
potrà quindi essere punito alcun reato in mancanza di legge, processo e sentenza conforme ai dettami di
legge. Nella valutazione del fatto Krause privilegia gli aspetti soggettivi e la tendenza a guardare
maggiormente al reo più che al reato. La pena è concepita quindi come qualcosa di buono, da attenuarsi
con l’intenzione di fare del bene e non solo a chi ad e essa è sottoposto ma anche alla società che dovrà
essere posta nella condizione di poter contare pienamente su tutti i suoi componenti.

Potrebbero piacerti anche