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MANUALE DI DIRITTO PENALE

CAPITOLO 1 LEGITTIMAZIONE E COMPITI DEL DIRITTO PENALE


1.Teoria della pena e tipo di stato
secondo lo storico del diritto Rudolf Von Jhering la storia della pena è una continua abolizione. Ciò è senz
altro vero in una prospettiva di lungo periodo. Nel corso dei secoli il sistema delle sanzioni penali ha
progressivamente attenuato la sua durezza: la pena detentiva ha via via tolto spazio alle inumane pene del
passato, fino all’ abolizione totale della pena di morte in molti paesi. Il quesito ineludibile è: che cosa
legittima il ricorso della stato all’arma della pena? Ci si chiede quindi quali siano i presupposti e gli scopi che
giustificano l’inflizione deliberata a un essere umano di un male terribile come la privazione della libertà
personale. La risposta a ciò viene offerta dalle teorie della pena che possiamo ricondurre a 3 filoni
fondamentali: teoria retributiva, teoria della prevenzione generale e teoria della prevenzione speciale o
individuale. Secondo la teoria retributiva la pena statuale si legittima come un male inflitto dallo stato per
compensare il male che un uomo ha inflitto ad un altro uomo o alla società. nella sua forma più arcaica
questa teoria trovava espressione nella legge del taglione. Questa teoria si disinteressa degli effetti della
pena ed è perciò designata come assoluta cioè svincolata da un qualsivoglia fine da raggiungere. Kant disse
che quand’anche una società decida di sciogliersi, andrebbe comunque punito l’ultimo assassino perché
soffra per quello che ha commesso. Quindi secondo Kant si punisce perché è giusto non perché la pena sia
utile a qualcos altro. Al contrario, assegnano invece uno scopo alla pena le teorie preventive, che proprio in
considerazione di questa loro caratteristica vengono designate come relative, cioè incentrate sugli effetti
della pena. In particolare la teoria generalpreventiva legittima la pena come mezzo per orientare le scelte di
comportamento della generalità dei suoi destinatari: in primo luogo facendo leva sugli effetti di
intimidazione correlati al contenuto afflittivo della pena, alla quale si assegna una funzione di controspinta
psicologica, tale da neutralizzare le spinte a delinquere dei consociati. Nel lungo periodo, l’effetto della
prevenzione generale viene perseguito attraverso l’azione pedagogica della norma penale. Si confida cioè
che col tempo si crei nella collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge penale. E quest
effetto di orientamento culturale dovrebbe sostituirsi all’obbedienza dettata dal timore della pena. La
teoria specialpreventiva concepisce la pena come uno strumento per prevenire che l’autore di un reato
commetta in futuro altri reati. Questa funzione può essere assolta in 3 forme: nella forma della
risocializzazione, cioè dell’ aiuto al condannato a reinserirsi nella società; nella forma dell’intimidazione,
rispetto alle persone per le quali la pena non può essere strumento di risocializzazione; nella forma della
neutralizzazione quando il destinatario non appaia suscettibile ne di risocializzare, ne di intimidazione e
quindi l’unico obiettivo della pena sarà renderlo inoffensivo. Queste teorie vengo presentate come valide e
efficaci in assoluto, cioè a prescindere dal tipo di ordinamento di ciascuno stato. In realtà la legittimazione
della pena varia a seconda del tipo di stato in cui si pone il problema.
2. struttura del reato e tipi di stato
anche la struttura del reato p sottoposta ad un identico condizionamento sia nella forma sia nei contenuti, il
reato è un’entità giuridica storicamente condizionata. La storia del diritto penale moderno è segnata da una
svolta epocale: il passaggio dall’equazione reato=peccato all’equazione reato=fatto dannoso per la società,
cioè dalla repressione di comportamenti puniti in quanto contrastanti con la legge divina, alla repressione
dei soli comportamenti che mettono in pericolo o ledono beni individuali o collettivi. Questa svolta viene
preparata dall’opera dei giusnaturalisti che caldeggiano uno stato secolarizzato guardiano della pace
esteriore e quindi indicano nelle azioni esterne socialmente dannose il prius di ogni legittima coercizione
penale e nel dolo solo una condizione per la punizione dell’azione esterna. Con l’illuminismo si consolida la
separazione tra reato e peccato e il primato dell’oggettivo sul soggettivo. In questo senso cesare Beccaria
rileva che, per affermare e graduare la responsabilità dell’agente, bisogna distinguere il dolo dalla colpa
grave, la grave dalla leggere, e questa dalla perfetta innocenza, ma la vera misura dei delitti è il danno alla
nazione. Allo stato spettava solo il compito di valutare e risarcire il danno che l’infrazione della legge aveva
portato alla vittima o alla società. il grado di utilità e disutilità misurava tutte la azioni umane. La pena non
era un’espiazione. I giudici non avevano altro compito che ristabilire un equilibrio turbato. Il diritto penale
veniva completamente desacralizzato. La secolarizzazione del diritto penale si inserisce in un più vasto
movimento di laicizzazione complessiva dello stato, stato laico e liberale fondato da uomini per scopi
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immanenti alla società e portatore dei valori della tolleranza civile, della libertà religiosa e dell’inviolabilità
della coscienza. La secolarizzazione del diritto penale è un processo che non si realizza senza contrasti. In
Italia il modello liberale di diritto penale si afferma nel 800 trovando compiuta teorizzazione nell’opera di
Francesco carrara. Nel suo manuale si legge: “ il diritto di proibire certe azioni, e dichiararle delitto, si
attribuisce all’autorità sociale come mezzo di mera difesa dell’ordine esterno: non per il fine del
perfezionamento interno; i pensieri, i vizi, i peccati, quando non turbano l’ordine esterno, non possono
dichiararsi delitti civili. La concezione del reato che assume quale pietra angolare il fatto dannoso e assegna
a dolo e colpa il ruolo di meri limiti alla responsabilità dell’autore del fatto, domina nella dottrina penalistica
italiana dell 800 e 900 e viene fatta propria dal legislatore nella codificazione del 1889 e 1930. Sono i beni
giuridici individuali o collettivi il perno sul quale poggiano le singole figure di reato, mentre il ruolo del dolo,
della colpa e degli altri elementi della colpevolezza è quello di limiti alla rilevanza penale dell’offesa ai beni
tutelati. Tra la fine del 800 e inizio 900 il filone dottrinale della scuola positiva mutua e traduce in schemi
giuridici un nuovo indirizzo criminologico. Il fenomeno criminale avrebbe le proprie radici nell’uomo
delinquente, cioè nelle caratteristiche biologico-somatiche di singoli individui, per lo più appartenenti alle
classi sociali pericolose: la lotta alla criminalità dovrebbe rivolgersi non tanto contro il reato, quanto contro
il reo. Sul piano giuridico si afferma l’idea che la pena debba essere utilizzata per difendere la società da
persone pericolose e che la sua durata debba essere assolutamente e relativamente indeterminata e venir
meno solo col cessar della pericolosità. In primo piano nel diritto penale dovrebbero essere posti tipi di
persone socialmente pericolose e il legislatore potrebbe addirittura fare a meno della compilazione di un
catalogo di reati: la pena potrebbe essere applicata in presenza di qualsiasi sintono di pericolosità
individuale. Il codice penale potrebbe ridursi ad un solo articolo: ogni uomo socialmente pericoloso va reso
innocuo nell’interesse della collettività. I risvolti liberali di questa concezione sono evidenti: si affidano al
giudice poteri incontrollabili. Consentendogli di applicare misure restrittive della libertà personale, in
presenza di dati incerti e manipolabili come la pericolosità sociale e i tipi criminologici di autore. Proprio per
la sua marcata connotazione illiberale, la concezione sintomatica del reato viene attaccata da chi contesta
la visione complessiva del diritto penale propugnata dalla scuola positiva, i cui massimi alfieri erano ferri e
grispini. Franz von Liszt fondatore della scuola moderna in Germania sente il bisogno di frenare le spinte
illiberali del modello positivistico. Secondo von Liszt il diritto penale è il potere punitivo dello stato
delimitato giuridicamente nei presupposti e nei contenuti, nell’interesse della libertà individuale. Questo è
il principio di legalità sono il baluardo del cittadino contro l’onnipotenza dello stato. Il codice penale è la
magna charta del reo. Esso accorda al cittadino che verrà punito solo in presenza dei presupposti fissati
dalla legge e solo entro i limiti stabiliti dalla legge. Venendo poi al cuore dell’attacco della scuola positiva al
modello liberale del diritto penale, von Liszt scrive non chi è socialmente pericoloso ma solo chi ha
commesso azioni socialmente pericolose ben determinate e nettamente individuate nella legge soggiace
alla potestà punitiva dello stato.
3. la legittimazione del ricorso alla pena da parte del legislatore
ci si chiede in vista di quali finalità il legislatore italiano possa minacciare una pena nei confronti di chi
commette un reato. In uno stato come il nostro laico e pluralista, il legislatore non può fare ricorso alla
pena per realizzare fini trascendenti o etici: la pena non può essere strumenti di retribuzione, non può
essere cioè finalizzata ad affermare un idea superiore di giustizia, retribuendo il male dal reato con un male
equivalente. La costituzione italiana garantisce ai singoli un corredo di diritti in forza dei quali essi
partecipano alla vita dello stato, come cittadini e non come sudditi: la pena non può quindi essere utilizzata
dal legislatore come indiscriminato deterrente, volto a reprimere ogni manifestazione di infedeltà allo stato
ovvero ogni sintomo di una personalità pericolosa. Nello stadio della minaccia legislativa, il ricorso alla pena
da parte del legislatore italiano si legittima in chiave di prevenzione generale. L’effetto di prevenzione
generale perseguito dal legislatore attraverso la minaccia della pena incontra un limite nella funzione di
prevenzione speciale e di rieducazione che la costituzione assegna alla pena. Il tipo e la misura della pena
minacciata dal legislatore devono essere tali da rendere possibile che successivamente si realizzi un’opera
di rieducazione del condannato. Ciò significa che l’effetto deterrente nei confronti dei consociati non potrà
essere indiscriminato. I consociati possono essere legittimamente dissuasi attraverso il deterrente della
pena dai comportamenti che cagionino un danno sociale. Quanto alla struttura del reato, questa esigenza
trova espressione nel principio di offensivista secondo il quale non vi può essere reato senza offesa a un
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bene giuridico, cioè a una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile
per effetto di un comportamento dell’uomo. Il legislatore non può quindi punire nessuno per quello che è
ma può punire soltanto fatti che ledano o pongano in pericolo l’integrità di un bene giuridico. Che il
legislatore possa reprimere con la pena soltanto fatti offensivi di beni giuridici è stato affermato dalla corte
costituzionale secondo la quale il principio di offensivista opera su due piani, rispettivamente della
previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano
in astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto della tutela
penale e dell’applicazione giurisprudenziale, quale criterio interpretativo applicativo affidato al giudice
tenuto ad accertare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato.
La cort. Cost. ha inoltre sottolineato che il principio di offensivista riguarda non soltanto gli elementi
costitutivi del fatto, ma anche le circostanze aggravanti che non potranno in nessun caso essere
espressione di una generale e presunta qualità negativa dell’autore della condotta illecita. Secondo le
sezioni unite della cassazione, il legislatore è vincolato ad elevare a reati solo fatti che siano concretamente
offensivi di entità reali. il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima in relazione non ad ogni offesa
a un bene giuridico ma soltanto in relazione ad offese recate colpevolmente che siano cioè personalmente
rimproverabili al loro autore. Tra i criteri che orientano e limitano le scelte di incriminazione del legislatore
entra cosi in gioco il principio di colpevolezza che è dotato di rango costituzionale e che è strettamente
correlato alle funzioni della pena. A quella generalpreventiva perché essendo il fine della comminatoria
legale delle pene quello di orientare le scelte di comportamento dei consociati, gli effetti motivanti cosi
perseguiti possono essere raggiunti solo se il fatto vietato è il frutto di una libera scelta dell’agente o è da
lui evitabile con la dovuta diligenza: non avrebbe senso minacciare la pena per distogliere il destinatario da
comportamenti che giacciono al di fuori della sua sfera di controllo. Alla funzione specialpreventiva perché
la rieducazione del condannato postula la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della
fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo in colpa non ha certo bisogno di
essere rieducato. Il rispetto dei principi di offensivista e di colpevolezza rappresenta una condizione
necessaria ma non ancora sufficiente perché risulti legittimo il ricorso alla pena da parte del legislatore: le
scelte legislative di incriminazione devono infatti sottostare ad ulteriori vincoli, espressi dai principi di
proporzione e di sussidiarietà. Il principio di proporzione esprime una logica costi benefici più precisamente
esprime l’esigenza che i vantaggi per la società che si possono attendere da una comminatoria di pena
siano idealmente messi a confronto con i costi immanenti alla previsione di quella pena: costi sociali e
individuali in termini di sacrificio per i beni della libertà personale, del patrimonio, dell’onore. In primo
luogo i costi della pena devono essere quanto meno controbilanciati dalla dannosità sociale di quella classe
di fatti. Perché si legittimi la previsione di un fatto come reato è dunque necessario che quel fatto si collochi
al di sopra di una soglia di gravità: solo offese sufficientemente gravi arrecate ad un bene giuridico
sufficientemente importante meritano il ricorso alle pena ( quale sinonimo di proporzione si parla anche di
principio di meritevolezza della pena). Non tutte le offese si equivalgono. L’offesa può assumere la forma
del danno o quella del pericolo e delle due la prima è più grave. Non tutti i beni giuridici si equivalgono.
Perché il ricorso alla pena sia fonte di un complessivo vantaggio per la società, occorre che la pena in
relazione a una determinata classe di fatti, sia in grado di produrre un reale effetto di prevenzione generale.
Il legislatore deve dunque astenersi dal sottoporre a pena classi di fatti per le quali la pena non è in grado di
produrre alcun effetto generalpreventivo, o addirittura produce l’effetto opposto incentivando la
commissione del reato (è accaduto per l’aborto). Il principio di sussidiarietà postula che la pena venga
utilizzata soltanto quando nessun altro strumento sia in grado di assicurare al bene giuridico una tutela
altrettanto efficace nei confronti di una determinata forma di aggressione. Quindi la pena oltre che
meritata e proporzionata deve anche essere necessaria. Sia il principio di proporzione, sia il principio di
sussidiarietà sono ancorati alla costituzione. Il principio di proporzione rappresenta un prius logico della
rieducazione del condannato enunciato nell’art 27 comma 3 cost. il principio di proporzione è riconosciuto
anche nel diritto europeo. Il principio di sussidiarietà è invece ricollegabile al art 13 comma 1 cost., ove si
riconosce carattere inviolabile alla libertà personale. Va tenuto presente che le sanzioni penali oggi
contemplate nel nostro ordinamento incidono tutte, direttamente o indirettamente, sulla libertà personale.
Dall’affermazione dell’inviolabilità personale e dunque dal riconoscimento del rango elevatissimo di questo
bene, segue che la costituzione impone al legislatore di fare della pena un uso il più possibile limitato:

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soltanto cioè quale strumento residuale, in assenza di altri strumenti idonei ad assicurare una pari tutela al
bene giuridico. In definitiva, il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima nel nostro ordinamento
per finalità di prevenzione generale, entro i limiti imposti dal principio di rieducazione del condannato, a
tutela proporzionata e sussidiaria di beni giuridici contro offese inferte colpevolmente.
4.la legittimazione dell’inflizione della pena da parte del giudice
una volta ricostruito il modello legale del reato in questione attraverso l’interpretazione della norma
incriminatrice e avendo successivamente accertato che il fatto concreto integra quel modello astratto, il
giudice pronuncia la condanna e infligge la pena, scegliendola all’interno dei tipi di pena e dei limiti minimi
e massimi previsti dal legislatore. È la costituzione che individua il fondamento e la legittimazione della
pena anche in questo stadio. Il 27 comma 3 cost affermando che le pene devono tendere alla rieducazione
del condannato impone al giudice di perseguire tale finalità con le sue scelte. Il principio costituzionale di
colpevolezza vincola il giudice e il legislatore nella costruzione dei tipi di reato. Ne segue che una pena
orientata verso la rieducazione del condannato dovrà essere prescelta dal giudice al di sotto del tetto
segnato dalla misura della colpevolezza: nella commisurazione della pena le considerazioni di prevenzione
speciale incontrano dunque un limite invalicabile segnato dalla colpevolezza per il singolo fatto. L’inflizione
della pena da parte del giudice trova un ulteriore fondamento giustificativo nelle esigenze della
prevenzione generale dei reati: far seguire alla previsione legale della pena la sua applicazione in concreto
con la pronuncia della sentenza di condanna significa confermare la serietà della minaccia contenuta nella
norma incriminatrice, mostrando ai potenziali trasgressori della norma che non potranno violarla
impunemente. La prevenzione generale non può svolgere nessun ruolo nella commisurazione della pena. Il
giudice non può cioè quantificare la pena allo scopo di statuire un esempio nei confronti di terzi, nel
tentativo di distoglierli dal commettere un esempio nei confronti dei terzi, nel tentativo di distoglierli dal
commettere in futuro reati del tipo di quello oggetto della condanna. Pene esemplari si porrebbero in
contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale e con il principio della dignità dell’uomo
una volta che il giudice abbia commisurato la pena nel rispetto dei criteri può aprirsi una fase in cui lo
stesso giudice può disporre che la pena non venga eseguite ovvero può sostituirla con pene diverse e meno
gravose di quella inflitta. Questa possibilità abbraccia una limitata fascia di reati di bassa gravità, i cui autori
possono essere ammessi alla sospensione condizionale della pena ovvero alla sostituzione della pena
detentiva breve. In questa fase domina incontrastata l’idea di prevenzione speciale: il giudice che abbia di
fronte l’occasionale autore di un reato non grave può decidere di evitargli gli effetti desocializzanti del
carcere, sospendendo l’esecuzione della pena, qualora abbia ragione di prevedere che quel soggetto non
commetterà in futuro nuovi reati. Oppure il giudice può optare per una pena pecuniaria o per la libertà
controllata o per la semidetenzione. In ogni caso il giudice tra i diversi tipi di pena sostitutiva deve optare
per quella più idonea al reinserimento sociale del condannato. Al di fuori di questi casi, la pena inflitta dal
giudice deve sempre essere eseguita e questo è imposto da un esigenza di prevenzione generale e di
credibilità dell’ordinamento. Per quanto riguarda la pena detentiva, la sua esecuzione deve essere orientata
verso finalità di prevenzione speciale: deve tendere alla rieducazione del condannato, proponendosi di
aumentarne le chances di reinserirsi nella società libera nel rispetto delle sue regole. Nella fase
dell’esecuzione la ricerca della rieducazione del condannato incontra una serie di limiti. In primo luogo
l’opera di rieducazione non può essere condotta coattivamente: la rieducazione deve assumere la forma
dell’offerta di aiuto, non quella della trasformazione coattiva della personalità. La rieducazione deve inoltre
cedere il passo alla neutralizzazione del condannato, qualora questi sia insensibile al reinserimento nella
società e alla rieducazione (regime di 41 bis).
6. i rapporti tra il diritto penale e gli altri rami dell’ordinamento
va precisato il rapporto in cui si trova l’eventuale cumulo di sanzioni penali ed extrapenali collegate alla
stessa classe di fatti: in particolare va chiarito se l’inflizione della sanzione penale vincoli o meno gli organi
preposti all’applicazione delle sanzioni extrapenali. La disciplina apprestata dal nostro ordinamento è nel
senso di un’articolata e differenziata efficacia del giudicato penale di condanna nei giudizi civili,
amministrativi e disciplinari. Nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del
danno nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel
processo penale, la condanna con sentenza penale irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento ha
efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e
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all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. L’espresso riconoscimento dell’efficacia di giudicato alle
sole sentenze emanate in esito al dibattimento, anche nella forma del giudizio abbreviato, taglia perciò
fuori dall’area dell’efficacia del giudicato le sentenze di applicazione della pena su estromissione che viene
motivata con l’argomento che si tratterebbe di un procedimento speciale caratterizzato da una limitazione
delle garanzie della difesa. Negli altri giudici civili e amministrativi la sentenza irrevocabile di condanna
pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quando si controverte intorno a un diritto o a
un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del
giudizio penale purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva
controversa. Ben più penetrante è l’efficacia della sentenza penale di condanna nei giudizi disciplinari. Per
costringere le pubbliche amministrazioni a prendere sul serio le condanne dei pubblici funzionari per i
delitti commessi nell’esercizio delle loro funzioni o nello svolgimento del loro servizio è stato stabilito che la
sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare
davanti alle pubbliche autorità quando all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale
e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. La stessa efficacia nel giudizio per responsabilità
disciplinare è stata attribuita nel 2003 anche alla sentenza pronunciata a seguito del patteggiamento, cioè
nel caso di applicazione della pena su richiesta dell’imputato e del pubblico ministero. Vi sono norme
incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell’ordinamento: disciplinano materie in parte
giuridicamente preformate dal diritto civile o amministrativo, alle cui regole il giudice penale dovrà
necessariamente fare riferimento. Questo è il campo occupato dai c.d. elementi normativi della fattispecie
legale. Ad esempio l’altruità della cosa nel furto è da accertare che la cosa non è di proprietà del reo e il
relativo accertamento comporta l’applicazione al caso concreto delle regole civilistiche sui modi di acquisto
del diritto di proprietà. Altre norme incriminatrici sono invece caratterizzate da autonomia rispetto agli altri
rami dell’ordinamento, in primo luogo come autonomia del significato da attribuire ad un dato termine, pur
presente in quegli altri rami. Talora è la stessa legge a conferire quell’autonomo significato, stabilendo che
cosa significhi agli effetti della legge penale questo o quel termine, qualunque sia la norma incriminatrice in
cui compaia. L’autonomia del diritto penale rispetto agli altri rami dell’ordinamento si manifesta anche
sotto altri profili. Per soddisfare le peculiari esigenze di tutela espresse da questa o quella norma
incriminatrice, se ne amplia in via interpretativa il raggio d’azione, reprimendo fatti che non troverebbero
tutela in altri rami dell’ordinamento, come nel caso della truffa commessa nel quadro di un contratto
illecito. L’ultimo punto di vista è quello dell’unità dell’ordinamento giuridico dal quale vanno osservati e
descritti i rapporti fra il diritto penale e gli altri rami del diritto pubblico e privato. Ciascuno di questi rami ha
autonomia di struttura e di funzioni, ma all’interno di un quadro unitario. È una unità che si esprime nella
coerenza che caratterizza l’ordinamento giuridico, al cui interno sono inconcepibili contraddizioni insanabili.
È inammissibile che uno stesso fatto venga considerato favorevolmente da una branca e negativamente da
un'altra: che venga perciò considerato lecito e illecito. Sono le cause di giustificazione gli istituti, messi in
luce dalla dottrina ed espressamente recepiti dal legislatore italiano che fanno emergere la connessione fra
i differenti settori dell’ordinamento e l’unità profonda del sistema: si tratta di doveri e delle facoltà,
derivanti da norma situate in ogni settore dell’ordinamento che autorizzano o impongono la commissione
di un fatto, rendendolo lecito nell’intero ordinamento e cosi precludendo l’inflizione di ogni tipo di sanzione
prevista pe quel fatto dai diversi settori dell’ordinamento.
7. diritto penale e problemi probatori
la prova della sussistenza degli elementi costitutivi di un reato è governata da regole di giudizio: l’onere di
provarli incombe sull’accusa. Lo impone il principio della presunzione di non colpevolezza ex art 27 cost.
inoltre il codice di procedura penale del 1988 ha fissato le regole probatorie sulla cui base, in esito al
giudizio, va pronunciata la sentenze di assoluzione: non solo quando vi è la prova che il fatto non sussiste,
l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato
ovvero il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione, ma anche
quando vi è il dubbio che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che
il reato è stato commesso da persona non imputabile perché manca, è insufficiente o è contraddittoria la
prova. Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza
di una causa di giustificazione o di una causa di non punibilità ovvero vi è dubbio sulla esistenza delle
stesse. Per contro una sentenza di condanna può essere pronunciata solo quando l’imputato risulta
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colpevole del reato contestatogli al di la di ogni ragionevole dubbio. Questo quadro è però messo in dubbio
dal legislatore quando conia le norme incriminatrici che delineano i c.d. reati di sospetto cioè quei reati al
cui interno compare un’anomala regola probatoria, che allevia alla pubblica accusa il peso di provare la
presenza di un elemento costitutivo del reato, trasferendo sull’imputato l’onere di provare l’assenza di
quell’elemento. Una cosi frontale violazione della presunzione di non colpevolezza comporta l’illegittimità
costituzionale di simili norme incriminatrici. La contraddizione è altrettanto frontale quando la
giurisprudenza modifica la struttura del reato sempre per alleviare l’onere probatorio dell’accusa:
ricostruisce e plasma la fisionomia di questo o quell’elemento costitutivo per rendere più agevole la prova
della sussistenza nel caso concreto. Sono svariati gli elementi del reato che rischiano di subire questo
illegittimo stravolgimento strutturale: primeggia il dolo, che in base alla legge risulta composto dalla
rappresentazione e dalla volizione di un fatto di reato e può dirsi perciò presente e provato solo se si
accerta, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, che l’agente ha avuto l’effettiva
rappresentazione e volizione di quel fatto; una rappresentazione solo potenziale può invece fondare solo
un rimprovero di colpa. Quando però l’accusa non riesce a provare quell’effettiva rappresentazione del
fatto reclamata dalla struttura del dolo, spesso il giudice interviene in suo soccorso, stravolgendo la
struttura del dolo trasformando la prova del dolo in prova della colpa. Con questa prassi la giurisprudenza
modifica il dettato della legge punendo a titolo di dolo fatti commessi solo per colpa e li punisce anche
quando sarebbero fatti penalmente irrilevanti. Non meno vistoso è lo stravolgimento del rapporto di
causalità spesso operato dalla giurisprudenza. Comunque inteso nei suoi contorni, si tratta di un rapporto
tra due elementi del fatto di reato: l’azione e l’evento concreto che in base alla legge deve essere
conseguenze dell’azione od omissione. A volte è impossibile provare la sussistenza di un rapporto di
derivazione causale tra una data azione e un singolo evento concreto, perché non sono ancora disponibili
leggi scientifiche con il cui aiuto spiegare se quell’evento concreto è davvero riconducibile a quella data
azione, come alla sua causa. Per aggirare questo ostacolo probatorio, la giurisprudenza stravolge la
fisionomia del rapporto di causalità: quel rapporto non dovrebbe più intercorrere tra azione e evento, bensì
fra l’azione e il pericolo dell’evento, accreditato dalle indagini epidemiologiche.
8.la legislazione penale italiana: cenni
il primo codice penale in vigore nell’intero territorio del regno d’Italia approvato nel 1889 e vigente dal
1890 al 1931 viene designato come codice Zanardelli e presenta i caratteri del diritto penale liberale. Nella
parte generale riafferma i principi di garanzia di ascendenza illuministica. Anche la parte speciale delinea un
rapporto non autoritario tra stato e cittadino prevedendo una vasta gamma di delitti contro la libertà e
introducendo la discriminante della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale. Nel 1931 entra in vigore
il codice rocco che nasce nel contesto di uno stato autoritario. Vengono comunque conservati i principi di
legalità e di irretroattività, ma d’altra parte si introducono numerose ipotesi di responsabilità oggettiva e in
molti casi si considerano penalmente responsabili persone incapaci di intendere e di volere al momento del
fatto. Ricompare la pena di morte sia per delitti politici che per delitti comuni. Fra le misure di sicurezza si
introduce una pena detentiva indeterminata per autori di reato capaci di intendere e di volere, presunti
dalla legge o ritenuti dal giudice socialmente pericolosi. Nella parte speciale si ha un vistoso innalzamento
dei livelli di pena e un ampio ricorso all’ergastolo e si puniscono delitti contro lo stato e molte
manifestazioni del pensiero fra cui i reati di opinione. È punito lo sciopero. Si prevede una tutela privilegiata
per la religione cattolica. Subito dopo la caduta del fascismo il governo abolisce la pena di morte e ripristina
la discriminante della reazione agli atti arbitrari e le circostanze attenuanti generiche. Non vi è stato un
nuovo codice penale, ma interi istituti sono stati profondamente modificati. Quanto alla parte generale,
una legge del 1974 modifica in senso favorevole al reo il trattamento sanzionatorio del concorso dei reati, vi
è la disciplina della sospensione condizionale della pena e quella del giudizio di bilanciamento tra
circostanze aggravanti e attenuanti; la riforma penitenziaria; nel 1981 vi è una vasta depenalizzazione di
illeciti minori e vengono introdotte le pene sostitutive della detenzione breve; nel 1990 viene eliminata la
responsabilità oggettiva per le circostanze aggravanti; nel 2000 viene introdotta la competenza penale del
giudice di pace; vi è la riforma della prescrizione del reato, della recidiva e delle attenuanti generiche; nel
2006 una riforma ha ampliato la legittima difesa; sono state modificate talune circostanze aggravanti
comuni ed è stata introdotta una nuova aggravante comune per i delitti contro la persona commessi a
danno di minori presso istituti scolastici e ha notevolmente innalzato i limiti generali, minimi e massimi,
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della multa e dell’ammenda. Sono state introdotte altre 2 aggravanti comuni: l’avere il colpevole commesso
un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso in una misura alternativa; l’avere commesso
alcuni delitti non colposi in danno di un minore di 18 anni o di una persona in stato di gravidanza. Numerosi
interventi fra il 2010 e il 2013 hanno avuto come fine la lotta al sovraffollamento carcerario. È stata
introdotta l’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio; è stata prevista una nuova ipotesi di
affidamento in prova al servizio sociale per pene non superiori a 4 anni; si è consentito che l’affidamento in
prova terapeutico possa essere concesso anche più di due volte; è stato previsto un temporaneo
ampliamento dell’ambito applicativo della liberazione anticipata; sono state sensibilmente ampliate le
possibilità di accesso alle misure alternative da parte del recidivo reiterato. Rilevantissime novità sono state
introdotte in tema di misure di sicurezza personali: chiusura degli ospedali psichiatrici e adozione del
principio per cui la durata delle misure di sicurezza detentive non può superare la durata massima della
pena detentiva comminata per il reato commesso. Nell’ambito della colpa nell’esercizio delle professioni
sanitarie è stata esclusa la responsabilità penale per i delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose
nei casi in cui il medico abbia agito con colpa lieve. Nel 2014 è stato inserito il nuovo istituto della
sospensione del procedimento con messa alla prova ed è stato inserito l’istituto dell’esclusione della
punibilità per la particolare tenuità del fatto. Nella sfera della parte speciale: la disciplina dell’aborto;
interventi sulla disciplina della criminalità organizzata; introduzione del delitto di organizzazione di
trasferimenti per finalità di terrorismo; introduzione dei reati informatici; riforma dei delitti contro la libertà
sessuale; nuovo titolo del codice penale riservato ai delitti contro il sentimento per gli animali; introduzione
di una norma rivolta a reprimere le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili; previsione della
confisca per equivalente; aggravamento delle pene per alcune ipotesi di omicidio colposo e di lesioni
personali colpose; reintroduzione dell’oltraggio a pubblico ufficiale; inserimento dell’esimente della
reazione agli atti arbitrati del pubblico ufficiale; riforma della disciplina della contraffazione di marchi o
brevetti e del commercio di prodotti con marchio contraffatto; introduzione di una nuova serie di figura
delittuose fra le quali spicca lo stalking; rivisitazione della pedofilia, pedopornografia e prostituzione
minorile e introduzione di nuovi delitti di istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia e di
adescamento di minorenni. Nel 2013 sono state apportate modifiche alla disciplina dei maltrattamenti
contro familiari o conviventi, della violenza sessuale, della minaccia e degli atti persecutori. Introduzione
della figura delittuosa dell’autoriciclaggio. Riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Introduzione dei delitti contro l’ambiente. Nel 2001 è stata introdotta la responsabilità da reato degli enti,
la cui natura è controversa: l’elenco dei reati che possono essere ascritti all’ente si è via via arricchito,
anche sotto la spinta di convenzioni internazionali. La corte costituzionale ha giocato un ruolo decisivo per il
superamento dei tratti più illiberali del codice penale. Nel 1988 la corte ha affermato la rilevanze dell’errore sulla
legge penale nei casi in cui si tratti di errore inevitabile, cioè nei casi in cui l’errore non sia dovuto a colpa; nella
seconda sentenza la corte ha messo al bando la responsabilità oggettiva individuando nella colpa il requisito minimo
per l’attribuzione della responsabilità penale; nella terza sentenza la corte ha preso posizione a favore di
un’interpretazione secondo costituzione delle norme che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva, individuando
nel principio costituzionale di colpevolezza un fondamentale canone ermeneutico per il giudice. Quanto al principio di
riserva di legge nel 1981 la corte ha dichiarato l’illegittimità della norma incriminatrice del delitto di plagio e nel 1995
di una norma in materia di espulsione dello straniero. Tra le pronunce di accoglimento fondate sul principio di
eguaglianza vanno segnalate: le sentenze relative al lodo Alfano, alla aggravante della clandestinità, ai rapporti fra
circostanze attenuanti generiche e recidiva. In relazione alla parte speciale due sentenze che hanno dichiarato
l’illegittimità della norma che puniva il vilipendio della sola religione cattolica e della norma che prevedeva pene più
gravi per le offese alla religione cattolica recate mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro di culto. Con la
sentenza 162/2014 la corte ha dichiarato l’illegittimità del ricorso a tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo
per esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità. Con la sentenza 96/2015 la corte vieta
l’accesso alla fecondazione assistita da parte di coppie fertili portatrici di malattie geneticamente trasmissibili. Quanto
ai diritti costituzionali di libertà la corte ha dichiarato l’illegittimità delle norme incriminatrici delle associazioni
antinazionali, della propaganda fatta per distruggere o deprimere il sentimento nazionale e del pubblico incitamento a
pratiche contro la procreazione. In relazione al diritto di sciopero ex art 40 cost. vi sono state una serie di pronunce
che ha portato all’eliminazione totale dall’ordinamento della figura delittuosa dello sciopero per fini contrattuali e al
ridimensionamento delle figure di sciopero politico e della coazione della pubblica autorità mediante sciopero, ora
applicabili solo in quanto l’astensione collettiva dal lavoro sia diretta a sovvertire l’ordinamento costituzionale o a
impedire il libero esercizio della sovranità popolare.

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CAPITOLO 2 LE FONTI
1.La funzione di garanzia del principio di legalità
il principio di legalità, cioè della riserva alla legge del compito di individuare i reati e le pene è una delle
prime richieste di garanzia del pensiero illuministico per mettere il cittadino al sicuro dall’arbitrio del potere
esecutivo e giudiziario. La pena di morte era ancora consentita fino al 2007, quando è stata eliminata con
legge costituzionale, nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. Il principio di legalità è quindi il monopolio
del potere legislativo nella scelta dei fatti da punire e delle relative sanzioni. Si deve a Montesquieu
l’enunciazione del principio della separazione dei poteri e l’affermazione del primato della legge nella
materia penale a garanzia del cittadino. Beccaria inoltre evidenzia il principio di precisione della legge
penale, cioè l’esigenza di regole chiare e precise. Feuerbach conia la formula nullum crimen, nulla poena
sine lege, individuando anche il divieto di analogia e il principio di determinatezza in base al quale il
legislatore può reprimere con la pena solo ciò che può essere provato nel processo. Anche con l’avvento
del fascismo viene confermato il principio di legalità nel codice penale del 1930. L’art 1 diche che nessuno
può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, ne con pene
che non siano da essa stabilite. Il principio di legalità copre sia le pene sia le misure di sicurezza. Inoltre
nelle preleggi viene nuovamente enunciato il divieto di analogia per le leggi penali (art 14 prel.). la
costituzione del 1948 recepisce il principio di legalità in tutti i suoi significati. L’art 25 comma 2 cost dispone
che nessuno può essere punito se non in forza di une legge, l’art 25 comma 3 stabilisce che nessuno può
essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. Il legislatore quindi non può
demandare l’individuazione del precetto o della sanzione ad atti del potere esecutivo (riserva assoluta di
legge formale); è tenuto a formulare leggi penali in modo chiaro (principio di precisione); non deve
incriminare fatti insuscettibili di essere provati nel processo (principio di determinatezza); deve imporre al
giudice il divieto di estensione analogica delle norme incriminatrici e deve a sua volta formulare le norme
incriminatrici in modo rispettoso del divieto di analogia (principio di tassatività). Il significato della riserva di
legge a favore del parlamento è da ricercare nel fatto che esso sia l’unico organo costituzionale
rappresentativo della volontà popolare.
2. la riserva di legge come riserva di legge formale dello stato
il fondamento politico della riserva di legge in materia penale impone di interpretare la formula legge nell
art 25 comma 2 cost. come legge formale, escludendo i d.lgs. e i d.l. dalle fonti del diritto penale. Opposto è
però l’orientamento della prassi parlamentare e governativa. Il governo ha fatto ampio ricorso al d.l. in
materia penale, soprattutto nella fase anteriore al divieto di reiterazione dei decreti legge imposto dalla
cort. Cost. nel 1996. Sono stati approvati di recenti con decreti legge: Nel 2008 una parte del c.d. pacchetto
sicurezza; nel 2009 lo stalking, il delitto di intermediazione illecite e sfruttamento del lavoro, il delitto di
combustione illecita di rifiuti e l’aggravante del fatto commesso in presenza o in danno di un minore o di
una donna incinta. È fatto ampio uso anche di d.lgs. in materia penale. Gran parte della dottrina giustifica
questa prassi ritenendo quindi la riserva di legge in senso materiale e quindi comprensiva anche degli atti
aventi forza di legge, giustificando con la partecipazione del parlamento alla formazione della legge o prima
o dopo a seconda che sia d.l. o d.lgs. gli argomenti della dottrina però non possono essere sostenuti. Il
decreto legge non può essere fonte di norme penali, in quanto, in caso di mancata conversione, risultano
non più reversibili gli effetti sulla libertà personale prodotti da un decreto legge che preveda nuove
incriminazioni o inasprisca un preesistente trattamento sanzionatorio. Anche il d.lgs. non può essere incluso
tra le fonti del diritto penale. Infatti il parlamento che dovrebbe inserire nella delega principi e criteri
direttivi spesso lascia al potere esecutivo il compito di valutare quali fatti reprimere e con quali pene, altre
volte gli si attribuisce addirittura il compito di decidere se sia o meno necessario il ricorso alla sanzione
penale. Secondo una recente pronuncia della cort. Cost. il principio di riserva di legge rimette al legislatore,
nella figura del parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare ed è violato
qualora quella scelta sia invece effettuata dal governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega
legislativa. La verifica sull’esercizio da parte del governo della funzione legislativa delegata diviene, allora
strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale. Ciò vale sia in
relazione all’ipotesi in cui con la strumento del d.lgs. venga introdotta una nuova figura di reato, sia nel caso
opposto in cui con il d.lgs. venga abrogata una norma incriminatrice. L’unica deroga alla riserva di legge

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formale ex art 25 comma 2 cost. è rappresentata dai decreti governativi in tempo di guerra, che, in base
all’art 78 cost. possono essere fonte di norme penali su delega espressa del parlamento. La legge regionale
non può essere fonte di norme incriminatrici. Secondo l’art 117 comma 2 cost. lo stato ha legislazione
esclusiva in materia di ordinamento penale. Ne segue che sono illegittime leggi regionali che creino un
nuovo tipo di reato o abroghino una norma incriminatrice preesistente; ne modifichino la disciplina
sanzionatoria; sostituiscano la sanzione penale con una sanzione amministrativa; configurino una nuova
causa di estinzione della punibilità o amplino la portata di una causa di estinzione preesistente.
L’incompetenza delle regioni a dettare norme penali riguarda solo le norme incriminatrici e non le norme
scriminanti, che non sono norme penali. Dal momento che la potestà legislativa regionale, nelle materie di
legislazione concorrente è tenuta al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello stato, la
legge regionale non può modificare la disciplina di quelle cause di giustificazione che sono espressione di
principi generali dell’ordinamento.
2.4. diritto dell’unione europea e diritto penale
fino all’entrata in vigore del trattato di Lisbona nel 2009, non vi era alcun dubbio sul fatto che nessuno dei
trattati istitutivi delle comunità europee attribuisce in forma espressa a istituzioni comunitarie la potestà di
creare norme incriminatrici: era assolutamente pacifico che gli organo dell unione europea potessero
tutelare direttamente gli interessi comunitari soltanto con sanzioni amministrative. L’unione europea
poteva nondimeno imporre al legislatore degli stati membri l’obbligo di emanare norme penali a tutela di
determinati interessi. Al riguardo occorreva distinguere tra procedure e strumenti normativi che
afferiscono al primo pilastro e procedure e strumenti di terzo pilastro. Per ciò che concerneva il primo
pilastro, il diritto comunitario sino al 2008 aveva evitato di imporre agli stati obblighi di criminalizzazione
espliciti; ma l’esistenza di tali obblighi era comunque stata affermata più volte dalla corte di giustizia delle
comunità europee, nel quadro di procedimenti per infrazione avviati contro gli stati membri per violazione
del diritto comunitario. Accadeva spesso che la comunità rivolgesse agli stati membri, attraverso una
direttiva, la richiesta di apprestare una tutela adeguata, ovvero efficace, proporzionata e dissuasiva, a
determinati interessi di rilievo comunitario. Allorché tale standard di adeguamento della tutela potesse
essere raggiunto in concreto, a giudizio della corte di giustizia, soltanto attraverso la previsione di sanzioni
specificamente penali, allora lo stato membro sarebbe stato tenuto, dal punto di vista del diritto
comunitario, ad apprestare simili sanzioni. Al medesimo risultato pratico giungevano quelle direttive che
imponevano agli stati membri di assimilare la tutela offerta ad un determinato interesse comunitario a
quella già assicurata ad un interesse nazionale corrispondente. Nel 2005 la corte di giustizia aveva
riconosciuto che gli strumenti normativi di primo pilastro potessero esplicitamente imporre agli stati
membri l’obbligo di prevedere sanzioni penali a tutela degli interessi rientranti nella competenza
comunitaria; nel 2008 il legislatore comunitario aveva fatto per la prima volta uso di tale potere,
imponendo agli stati membri, nella direttiva in tema di tutela penale dell’ambiente, di apprestare sanzioni
penali efficaci, proporzionate e dissuasive contro una serie di fatti gravemente offensivi dell’ambiente,
analiticamente descritti dalla direttiva. Obblighi di criminalizzazione espliciti erano d’altra parte presenti in
gran numero negli strumenti normativi di terzo pilastro. Tali strumenti miravano all’armonizzazione delle
legislazioni penali degli stati membri allo scopo di promuovere la cooperazione giudiziaria e di polizia nel
contrasto alle forme più gravi di criminalità transnazionale. Il trattato di Lisbona ha abolito la distinzione in
pilastri, pur conservando il dualismo fra il trattato dell’unione europea e il vecchio trattato sulla comunità
europea, ora ribattezzato trattato sul funzionamento dell’unione europea. Nell’ambito di quest ultimo che
contiene le norme di dettaglio sulle competenze delle istituzioni europee e sui loro atti trovano posto agli
artt. 82-89 le norme relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia.
L’art 83 segna le coordinate dell’intervento dell’unione europea in materia penale. Il primo paragrafo della
norma prevede che il parlamento e il consiglio possono stabilire, mediante direttive, norme minime relative
alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una
dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare
necessità di combatterli su basi comuni. Il secondo paragrafo stabilisce invece che l parlamento il consiglio
possano introdurre norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni penali laddove il
ravvicinamento delle disposizioni nazionali si riveli indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una
politica dell’unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione. Quindi la competenza
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dell’UE in materia penale rimane una competenza soltanto indiretta, ossia una competenza a richiedere agli
stati membri l’adozione di norme incriminatrici laddove siano necessarie a tutelare gli interessi dell’unione
medesima o a realizzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. L’art 86 tfue prefigura l’istituto di una
procura europea competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori dei reati che ledono
gli interessi finanziari dell’unione, quali definiti nel regolamento previsto nel paragrafo 1. Gli autori che si
sono occupati della vicenda rilevano questo come un cambiamento dirompente e come una forte presa di
posizione da parte del legislatore comunitario. È ora possibile affrontare i problemi posti dalle sempre più
vistose interazioni tra diritto europeo e diritto penale. Oggi come in passato non esiste una potestà
sanzionatoria penale dell’unione europea. Ciò non toglie che l’incidenza del diritto dell’unione sulla
discrezionalità del legislatore italiano sia notevole. Dagli atti dell’unione discendono non solo obblighi di
criminalizzazione di determinate condotte, ma addirittura vincoli spesso dettagliati sulla concreta
conformazione dei precetti e persino sulla natura e misura delle sanzioni penali che lo stato è tenuto ad
adottare. Da questi strumenti non deriva alcun effetto diretto per il cittadino che potrà essere assoggettato
ad una sanzione penale soltanto laddove una legge nazionale preveda come reato il fatto da lui commesso.
Non si nega che gli stati membri tendano a conformarsi volontariamente agli obblighi europei. Dal diritto
dell’unione discendono poi taluni vincoli per il giudice penale degli stati membri. In primo luogo norme di
fonte UE dotate di efficacia diretta, contrastanti con norme penali statali, possono paralizzare l’applicabilità.
È bene rilevare che l’incompatibilità della norma penale nazionale rispetto alla norma UE può essere totale
o parziale. Nel primo caso di imparzialità totale, la norma UE rende inapplicabile la norma penale in tutta la
sua estensione. Nel secondo caso di incompatibilità parziale, il campo di applicazione della norma penale
verrà limitato: saranno estromesse le ipotesi regolate in modo diverso dalla norma di fonte UE. In tutti i casi
di incompatibilità tra norma penale e diritto dell’UE, se vi è stata sentenza definitiva di condanna per un
fatto preveduto dalla norma penale inapplicabile, cessa l’esecuzione della condanna e ne vengono meno gli
effetti penali. Un secondo ordine di vincoli discendente dal diritto europeo è relativo al c.d. obbligo di
interpretazione conforme alla normativa comunitaria. Il giudice nazionale è tenuto ad interpretare la
normativa nazionale che attua gli obblighi di fonte UE in senso conforme alla lettera e alla ratio dello
strumento che fonda tali obblighi. Laddove il giudice sia in dubbio sul significato da attribuire a una norma
UE, egli potrà investire in via pregiudiziale la corte europea. Quanto agli effetti delle norme UE sulle norme
penali vi può essere un effetto di neutralizzazione di una norma incriminatrice nazionale e della sanzione
penale da essa prevista. Il diritto dell UE esercita anche effetti espansivi dell’area penalmente rilevante o
della dimensione afflittiva della sanzione penale.
2.5. fonti internazionali pattizie (in particolare, la convenzione europea dei diritti dell’uomo) e diritto penale
un discorso a parte merita il rapporto tra diritto internazionale pattizio, nel cui ambito si colloca in
particolare la convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e
diritto penale. Va premesso che da nessuna fonte può discendere una responsabilità penale direttamente a
carico di un individuo. Il principio di legalità impone infatti che sia soltanto la legge statale a disciplinare il
diritto penale. Nonostante ciò, da numerose fonti internazionali discendono obblighi a carico sia del
legislatore, sia del giudice italiano. Per ciò che riguarda il legislatore la potestà legislativa è esercitata nel
rispetto degli obblighi internazionali (art 117 cost). il giudice ha invece il dovere di interpretare le leggi
nazionali in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali. Laddove il contrasto tra
legge interna e obblighi internazionali non sia superabile in via interpretativa, il giudice dovrà sollevare
questione di legittimità costituzionale della legge interna. Questi principi si applicano anche alla cedu. Prima
di sottoporre la questione alla cort cost, il giudice ordinario sarà tenuto a verificare se il contrasto
sospettato possa essere risolto in via interpretativa, attraverso una interpretazione conforme alla cedu
della legge in questione. Anche con riferimento ai vincoli che discendono dagli obblighi internazionali in
materia penale sembra proficuo utilizzare la dicotomia effetti riduttivi/effetti espansivi del penalmente
rilevante o dell’afflittività della sanzione penale che già abbiamo impiegato per il diritto dell’unione. Gli
effetti riduttivi possono avere ad oggetto sia il precetto penale, sia la sanzione ad essa correlata. Quanto
agli effetti espansivi del penalmente rilevante, essi possono discendere anzitutto dagli obblighi di
incriminazione di determinate condotte contenuti in norme di diritto internazionale pattizio o ricavati in via
interpretativa dalle corti dei diritti. Più spesso gli effetti espansivi sono il portato dell’interpretazione
conforme alle norme sovranazionali. L’incidenza di questi vincoli sull’ordinamento penale interno è diversa
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a seconda del loro specifico oggetto. In virtù dell’obbligo di interpretazione conforme, il giudice penale, per
evitare di esporre lo stato italiano alla responsabilità per la violazione degli obblighi pattizi, dovrà in primo
luogo interpretare restrittivamente le norme esimenti che sottraggono classi di fatti alla sanzione penale.
Inoltre, soprattutto con riferimento alle norme cedu, è frequente che l’interpretazione fornita a tali norme
dalla giurisprudenza della corte di Strasburgo riconosca all’individuo una protezione più ampia rispetto a
quella riconosciuta usualmente dalla giurisprudenza italiana nell’interpretazione delle norme costituzionali
corrispondenti. Quanto all’incidenza nell’ordinamento penale interno degli obblighi di incriminazione
derivanti da fonti internazionali pattizie, va osservato che il principio di legalità dei reati e delle pene osta
radicalmente a che la corte costituzionale possa ovviare alla mancanza di un incriminazione conforme agli
obblighi internazionali, estendendo la portata di altre norme incriminatrici o addirittura introducendo una
nuova figura di reato. Ciò non esclude che la corte possa dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme
penali di favore che in violazione di obblighi internazionali di incriminazione, sottraggono determinati classi
di fatti alla sanzione penale prevista in via generale da un'altra legge statale, in particolare attraverso
l’indebita previsione di cause di giustificazione, di scusanti o di cause di non punibilità. In tali ipotesi la
dichiarazione di illegittimità della norma penale di favore contrastante con gli obblighi internazionali avrà
come effetto quello di consentire l’automatica riespansione della norma incriminatrice generale, già
prevista dal legislatore italiano in conformità ai propri obblighi internazionali.
2.6. consuetudine e diritto penale
il principio di riserva di legge preclude la creazione di norme incriminatrici da parte della consuetudine. Non
vi è spazio neppure per la consuetudine integratrice, cioè per il rinvio della legge alla consuetudine per
l’individuazione di un elemento del reato. Il principio di gerarchia delle fonti impedisce poi alla
consuetudine di produrre l’abrogazione di norme legislative incriminatrici: le leggi infatti possono essere
abrogate, in modo espresso o tacito, solo da leggi posteriori. Nessun rilievo si può dunque riconoscere
anche alla prolungata disapplicazione di una norma incriminatrice. Le norme consuetudinarie possono
invece essere fonte di giustificazione (consuetudine scriminante), in quanto oggetto della riserva di legge
sono soltanto le norme incriminatrici. La consuetudine può assumere rilievo scriminante solo a condizione
che sia richiamata da una norma di legge.
2.7. corte costituzionale e legge penale
la riserva di legge esclude che attraverso il sindacato sulle norme incriminatrici la cort cost possa produrre
un effetto in malam partem: possa cioè ampliare la gamma dei comportamenti penalmente rilevanti o
inasprire il trattamento sanzionatorio di un reato; esclude altresì che la corte, sindacando la legittimità di
norme che aboliscono un reato o lo trasformano in illecito amministrativo, faccia rivivere la figura di reato
abolita o depenalizzata dal legislatore. La riserva di legge non preclude il controllo di costituzionalità delle
norme incriminatrici quando ne derivi un effetto in bonam partem: cioè quello di eliminare una figura di
reato, di ridurne il campo di applicazione ovvero di mitigare le sanzioni previste dalla legge; ne preclude il
controllo di una legge di depenalizzazione che abbia irragionevolmente mantenuto in vita, come ipotesi di
reato, fatti omogenei a quelli trasformati in illeciti amministrativi. La cort cost ritiene da tempo di poter
sindacare la legittimità delle c.d. norme penali di favore, dichiarandone l’incostituzionalità. Le norme penali
di favore sono norme speciali introdotte nell’ordinamento in deroga a preesistenti norme generali,
apprestando un trattamento più favorevole con le tecniche più disparate: norme posteriori che
introducono figure autonome di reato, attenuanti, cause di non punibilità, cause di giustificazione, cause di
estinzione del reato o della pena. Ritenendo ammissibile il sindacato su norme penali di favore, la corte ha
ripetutamente sottolineato che le norme di favore non sono una zona franca sottratta al controllo di
legittimità.
3. riserva di legge e atti del potere esecutivo
individuata nella legge formale dello stato l’unica fonte di norme incriminatrici, si pone il problema di
stabilire se l’esclusione degli atti del potere esecutivo sia totale o parziale e quindi se la riserva è assoluta,
nel senso che sarebbe riservata alle legge l’individuazione di tutti gli elementi del reato e del relativo
trattamento sanzionatorio, oppure relativa, nel senso che la legge potrebbe rinviare a una fonte di rango
inferiore per l’individuazione del precetto e delle sanzioni, oppure tendenzialmente assoluta, nel senso che
la legge potrebbe rinviare alla fonte sublegislativa solo per la specificazione sul piano tecnico di singoli

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elementi del reato già individuati dalla legge. Quanto ai rapporti tra legge e atti normativi generali e astratti
del potere esecutivo (regolamenti, decreti ministeriali…) un primo orientamento ritiene legittima ogni
forma di rinvio da parte della legge a una fonte subordinata: considera legittima una norma di fonte
legislativa che si limiti a prevedere una sanzione penale per la violazione di un precetto che,
successivamente all’emanazione della legge, verrà interamente individuato da un regolamento. Questa
impostazione comporta il totale svuotamento della riserva di legge perché sarebbe l’autorità
amministrativa a decidere in ultima analisi, con atti normativi generali e astratti, quali siano le azioni e le
omissioni che vanno punite. Un secondo orientamento riconosce che le norme generali e astratte emanate
da fonti subordinate alla legge, sulla base di un rinvio contenuto nella norma legislativa, integrano il
precetto, concorrendo a definite la figura del reato; per far salva la ratio politica della riserva di legge, si
ritiene peraltro che l’atto normativo proveniente dalla fonte subordinata non possa avere lo spazio che gli
viene invece attribuito dalla teoria della disobbedienza come tale: il principio affermato dall’art 25 cost
sarebbe rispettato quando sia una legge a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il
contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire
la pena. Una terza impostazione, che utilizza la formula riserva tendenzialmente assoluta, ritiene legittimo il
rinvio della legge ad atti generali e astratti del potere esecutivo solo se quegli atti si limitano a specificare
sul piano tecnico elementi già descritti dal legislatore. Lo schema della riserva tendenzialmente assoluta
merita approvazione, proprio perché il carattere solo tecnico dell’integrazione non comporta scelte
politiche da parte dell’esecutivo. Quanto ai rapporti tra legge e provvedimenti individuali e concreti del
potere esecutivo, non violano la riserva di legge le norme penali che sanzionano l’inottemperanza a classi di
provvedimenti della pubblica amministrazione, centrale o periferica. Il singolo provvedimento
amministrativo, del quale la legge punisce l’inottemperanza, è infatti estraneo al precetto penale, perché
non aggiunge nulla all’astratta previsione legislativa: è solo un accadimento concreto che va ricondotto
nella classe di provvedimenti descritta della norma incriminatrice. Le norme che puniscono l’inosservanza di
classi di provvedimenti amministrativi possono peraltro violare la riserva di legge sotto il profilo del
principio di precisione, che tende a porre un limite agli interventi discrezionali del potere giudiziario
nell’individuazione dei fatti penalmente rilevanti. Ciò accade quando la classe di provvedimenti, la cui
inottemperanza è penalmente sanzionata, sia descritta dalla legge in modo impreciso: è il caso del art 650
c.p. delle classi di provvedimenti emanati dall’autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o
d’ordine pubblico. La genericità di queste formule comporta infatti che ogni singolo giudice debba integrare
il precetto in violazione della riserva di legge, identificando a suo arbitrio quali siano i provvedimenti la cui
inosservanza va sanzionata penalmente. Con il nome di norme penali in bianco si intendono le norme
penali il cui precetto è posto in tutto o in parte da una norma di fonte inferiore alla legge: la legge lascia
cioè in bianco il contenuto del precetto, che prende forma solo con la fonte sublegislativa. Con questa
formula si evoca dunque il problema, che abbiamo appena esaminato, dei limiti in cui fonti diverse dalla
legge formale possono concorrere a descrivere il precetto penale. Secondo il modello della riserva
tendenzialmente assoluta è costituzionalmente illegittima una norma il cui precetto, lasciato in bianco dalla
legge, venga posto da un atto generale e astratto del potere esecutivo, a meno che l’apporto di quest
ultimo abbia carattere puramente tecnico. È invece costituzionalmente legittima una norma che sanzioni
l’inottemperanza di provvedimenti amministrativi individuali e concreti, purché la norma di fonte legislativa
individui con precisione la classe di provvedimenti di cui reprime l’inosservanza.
4. riserva di legge e potere giudiziario
per mettere al sicuro il cittadino dagli arbitri del potere giudiziario, la riserva di legge, conformemente alla
sua matrice storica, impone al legislatore un triplice ordine di obblighi: lo vincola a formulare le norme
penali nella forma più chiara possibile (principio di precisione), a incriminare solo fatti suscettibili di essere
provati nel processo (principio di determinatezza), a imporre al giudice il divieto di estensione analogica
delle norme incriminatrici e, a sua volta, a formulare le norme incriminatrici in modo rispettoso del divieto
di analogia (principio di tassatività). I principio di precisione, di determinatezza e di tassatività sono dunque
parte integrante del principio di legalità e trovano il loro fondamento nel art 25 comma 2 cost.

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5. il principio di precisione
l’obbligo per il legislatore di disciplinare con precisione il reato e le sanzioni penali tende a evitare che il
giudice assuma un ruolo creativo: il legislatore deve porre in via astratta e generale i confini fra lecito e
illecito e il giudice deve solo applicare la legge. Il principio di precisione è garanzia per la libertà e la
sicurezza del cittadino. Il rispetto di tale principio è indispensabile anche per assicurare una serie di
esigenze proprie del sistema penale. La norma penale deve orientare il comportamento dei suoi destinatari
cosi da consentire al cittadino di sapere se il suo comportamento è lecito o illecito. La cort cost ha precisato
che quando l’errore del cittadino sia stato provocato dalla assoluta oscurità del testo legislativo, l’erronea
interpretazione della legge può essere un esimente per il cittadino portato in errore. Solo norme
incriminatrici precise assicurano il diritto di difesa. Le norme penali possono risultare più o meno precise a
seconda delle tecniche adottate dal legislatore nella loro formulazione. Il più elevato grado di precisione è
assicurato dalla tecnica casistica cioè dalla descrizione analitica di specifici comportamenti, oggetti,
situazioni. L’unico costo di un ricorso indiscriminato alla tecnica casistica è l’elefantiasi della legislazione
penale. D’altra parte la presenza di lacune nelle casistiche porterebbe il giudice a colmare i vuoti attraverso
l’analogia, vietata ex artt. 14 prel. E 1 c.p. solo il legislatore è legittimato a riempire le lacune. Un rischio di
imprecisione è invece connaturato al ricorso a clausole generali, cioè a formule sintetiche comprensive di
un gran numero di casi, che il legislatore rinuncia a enumerare e specificare. L’adozione di questa tecnica è
peraltro legittima a condizione che i termini sintetici impiegati dal legislatore consentano di individuare in
modo sufficientemente certo le ipotesi riconducibili sotto la norme incriminatrice. Una tecnica coerente
con il principio di precisione è rappresentata dal ricorso a definizioni legislative, rese talora necessarie dai
molteplici significati dei termini impiegati dal legislatore. Questa tecnica è utilizzata sia nella parte generale
sia nella parte speciale. Il legislatore talora individua gli elementi del reato con termini o concetti descrittivi,
cioè con termini che fanno riferimento, descrivendoli, a oggetti della realtà fisica o psichica, suscettibili di
essere accertati con i sensi o comunque attraverso l’esperienza. Vi sono però concetti descrittivi che
presentano una zona grigia che rende difficile o impossibile l’esatta individuazione dei fatti ai quali il
termine fa riferimento. Altre volte un elemento del reato è individuato dal legislatore attraverso un
concetto normativo, un concetto cioè che fa riferimento ad un’altra norma giuridica o extragiuridica. La
tecnica degli elementi normativi risulta compatibile con il principio di precisione a una duplice condizione: il
concetto normativo non deve dare adito ad incertezze ne in ordine all’individuazione della norma
richiamata, ne in ordine all’ambito applicato e al contenuto di tale norma. Questa duplice esigenza è per lo
più rispettata quando la norma richiamata è una norma giuridica. Quanto agli elementi individuati con il
rinvio a norme extragiuridiche, il principio di precisione è tendenzialmente rispettato quando il rinvio
riguarda norme tecniche, mentre sono tendenzialmente imprecisi gli elementi individuati con il richiamo a
norme etico-sociali, per il carattere più o meno vago di tali norme. Si pensi agli attentati alla morale
familiare commessi col mezzo della stampa periodica. Non è chiaro se la formula morale familiare faccia
riferimento alla sola morale sessale. Gli elementi normativi etico-sociali sono un veicolo attraverso il quale
penetrano nel diritto penale le norme culturali operanti in un dato momento storico. La cort. Cost. ha
sempre visto il fondamento del principio di precisione nell’art 25 cost. la corte ha per lungo tempo rigettato
le censure di imprecisione mosse dai giudici di merito nei confronti di norme incriminatrici, o affermando
che i termini usati dal legislatore sono diffusi e generalmente compresi o richiamando il diritto vivente o
manipolando la norma con una sentenza interpretativa di rigetto. A partire dagli anni 80 del secolo scorso la
corte ha invece valorizzato il principio di precisione, non solo sul piano dell enunciazioni di principio, ma
anche dichiarando costituzionalmente illegittime talune norme sottoposte al suo sindacato. Il principio di
precisione viene talora valorizzato anche come criterio interpretativo delle norme penali, che impone al
giudice di optare tra i diversi possibili significati di una norma per quello che meglio soddisfa le esigenze di
precisione: questa indicazione di metodo si coniuga spesso con un richiamo al contesto in cui si inserisce la
singola disposizione. In questo senso la cort. Cost. ha salvato la norma incriminatrice nella quali si punisce
l’inosservanza delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, e dunque,
tra l’altro, l’inosservanza della prescrizione di vivere onestamente. Quanto alla corte di cassazione, una
interpretazione conforme al principio costituzionale di precisione ha portato le sezioni unite ad affermare
che l’art 73 comma 1 bis t.u. stup., nell’incriminare la detenzione di sostanza stupefacenti destinate ad uso
non esclusivamente personale, non si riferisce anche all’ipotesi del c.d. consumo di gruppo, sia nel caso di

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acquisto in comune, sia nel caso di mandato di acquisto collettivo ad uno degli assuntori. Non mancano
ipotesi in cui la corte di cassazione, pur a fronte di concetti irrimediabilmente imprecisi non solleva
questione di legittimità costituzionale e fornisce invece una lettura della norma incriminatrice che si
sostanzia in una sua riscrittura, con evidente usurpazione del ruolo del legislatore. Anche la recente
legislazione sembra più attenta al rispetto del principio di precisione. Ad esempio la norma sull’usura dal
1996 ha agganciato a parametri numerici fissati dalla legge il concetto di interessi usurari, che nella
disciplina previgente era invece abbandonato all’arbitrio di ogni singolo giudice. L’interesse ora è usurario
se eccede il quarto, aumentato di altri 4 punti percentuali, quello rilevato trimestralmente per quella classe
di operazioni dal ministro dell’economia, il quale emana un apposito decreto. Del pari la riforma dell’abuso
d’ufficio realizzata nel 1997 ha individuato le condotte abusive sulla base del contrasto con precise norme
di legge o di un regolamento, precludendo al giudice di considerare penalmente rilevanti anche
comportamenti individuati attraverso gli elastici parametri dell’eccesso e dello sviamento di potere o
attraverso gli ancor più elastici principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
6. il principio di determinatezza
con la formula principio di determinatezza esprimiamo l’esigenza, messa in luce già dagli illuministi, che le
norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo. Come ha sottolineato la
cort. Cost. nella dizione dell’art 25 deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi
che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà. In effetti per mettere il cittadino al riparo dagli arbitri
del giudice, non basta che la norma abbia un contenuto intellegibile, ma occorre altresì che essa rispecchi
una fenomenologia empirica verificabile nel corso del processo sulla base di massime d’esperienza o di
leggi scientifiche: solo a questa condizione il giudizio di conformità del caso concreto alla previsione astratta
non sarà abbandonato all’arbitrio del singolo giudice. La cort. Cost., nella prima sentenza di accoglimento
fondata sull’art 25.2, ha dichiarato illegittima per contrasto con il principio di determinatezza la norma
incriminatrice del plagio, che puniva chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla
in totale stato di soggezione. La cort. Cost. Afferma che non si conoscono ne sono accettabili i modi con i
quali si può effettuare l’azione psichica del plagio ne come è raggiungibile il totale stato di soggezione che
qualifica questo reato. Per contro, la cort. Cost. nel rigettare una questione di legittimità costituzionale
relativo al delitto di stalking ha ritenuto che la disposizione incriminatrice non contrasti con il principio di
determinatezza: reiterate minacce e molestie che comportino eventi quali un perdurante stato d’ansia o di
paura ovvero un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero l’alterazione
delle proprie abitudini di vita, secondo la corte, integrano comportamenti effettivamente riscontrabili nella
realtà che il giudice può appurare con ragionevole certezza.
7. il principio di tassatività
un ulteriore sbarramento frapposto dalla riserva di legge agli arbitri del giudice penale è il divieto di
analogia a sfavore del reo (analogia in malam partem), altrimenti designabile come principio di tassatività
delle norme incriminatrici. A norma dell’art 1 c.p. il giudice non può punire fatti che non siano
espressamente preveduti come reato dalla legge; secondo quanto prescrive l’art. 14 prel. Non può
applicare le leggi penali oltre i casi e i tempi in esse considerati. La linea di confine tra interpretazione e
analogia segnata dal significato letterale della legge: si tratta di un interpretazione estensiva allorché il
giudice attribuisce alla norma un significato tale da abbracciare tutti i casi che possono essere ricondotti al
suo tenore letterale; il giudice fuoriesce invece dall’interpretazione allorché riferisce la norma a situazioni
non riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati letterali, e in particolare viola il divieto di analogi0a
allorché estende la norma a casi simili a quelli espressamente contemplati dalla legge, sulla base di una
comune ratio di disciplina. La giurisprudenza della corte di cassazione distingue costantemente, in linea di
principio, tra interpretazione e analogia vietata, quando l’analogia riguardi le norme incriminatrici. Da
questa distinzione la cassazione ha tratto a volte conseguenze coerenti. Non mancano però casi in cui la
cassazione, in modo aperto o occulto, ha violato il divieto di analogia. Il divieto di analogia opera anche nei
casi in cui si sanzioni penalmente la violazione di un precetto contenuto in una disposizione extrapenale,
appartenente ad un settore dell’ordinamento che ammette il ricorso all’analogia, l’analogia è vietata agli
effetti penali. Il divieto di analogia, o principio di tassatività, trova il suo fondamento nel art 25.2 cost. e
vincola non solo il giudice, ma anche il legislatore ordinario: si oppone in primo luogo all’eliminazione delle
disposizioni che vietano al giudice l’applicazione analogica delle norme incriminatrici; a maggior ragione,
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vieta l’introduzione di norme che facoltizzino l’analogia nel diritto penale; infine, preclude la creazione di
fattispecie ad analogia espressa. L’efficacia vincolante del divieto di analogia per il legislatore ordinario si
profila soprattutto nei casi in cui la norma si apra con la descrizione di una serie di condotte, situazioni o
oggetti e si chiuda con formule del tipo “e altri simili”… norme del genere violano il principio di tassatività
quando contengono elenchi di ipotesi eterogenee e a maggior ragione quando descrivono una sola ipotesi,
seguita dal riferimento a casi simili: si parla in proposito, in dottrina, di fattispecie ad analogia espressa,
perché la formulazione della norma da via libera ad una incontrollabile attività creatrice di norme, caso per
caso, da parte del giudice. Sono invece costituzionalmente legittime le norme contenenti formule del tipo
“e altri simili”, “e altri analoghi”… che siano però precedute dall’elencazione di una serie di ipotesi
omogenee, tali da consentire l’individuazione di un genere sotto il quale ricondurre sia i casi espressamente
menzionati, sia quelli evocati con quelle formule. Anche la cort. Cost. ha fatto leva sulla omogeneità o
eterogeneità dei casi menzionati nella norma incriminatrice per decidere della sua conformità o difformità
rispetto al divieto di analogia: ad avviso della corte, infatti, solo l’omogeneità delle indicazioni
esemplificative consentirebbe di individuare un preciso criterio di identificazione delle attività similari a
quelle espressamente menzionate escludendo cosi che la norma attribuisca al giudice un potere di ampliare
per analogia il precetto penalmente sanzionato. Questa scelta di principio è stata recentemente ribadita
dalla cort. Cost. a proposito della formula altro disastro.
8. l’analogia a favore del reo
il divieto di analogia in materia penale opera soltanto quando l’applicazione andrebbe a sfavore del reo. È
vietato al giudice di fare ricorso all’analogia per punire fatti penalmente irrilevanti, ovvero per applicare
pene più gravi di quelle previste dalla legge. Ne segue che il divieto di analogia non si estende alle norme
che escludono o attenuano la responsabilità. Il divieto di analogia interessa non solo le leggi penali, ma
anche le leggi che dettano una disciplina eccezionale, cioè che derogano alla normale disciplina apprestata
dall’ordinamento o da un settore dell’ordinamento, anche se la loro estensione analogica andrebbe a
favore dell’agente. Ribadita quindi l’ammissibilità in linea di principio dell’applicazione analogica delle
norme favorevoli all’agente, va però sottolineato che il ricorso all’analogia va incontro a tre limiti: la norma
non deve già ricomprendere il caso in esame, neppure se interpretata estensivamente; la lacuna
individuata dall’interprete non deve essere intenzionale, cioè frutto di una precisa scelta del legislatore; la
norma favorevole non deve avere carattere eccezionale. Il divieto sancito dall’art 14 preli. Non abbraccia le
norme che prevedono le cause di giustificazione. Non sono infatti norme penali, trattandosi di norme con
finalità proprie, situate in ogni luogo dell’ordinamento; ne sono norme eccezionali, perché anzi sono
espressione di altrettanti principi generali dell’ordinamento. Ad esempio legittima difesa è espressione del
principio generale che considera lecito respingere la violenza con la violenza; l’esercizio di un diritto
esprime il principio secondo cui chi esercita un diritto non commette un fatto ingiusto. L’art 59 comma 4
c.p. esclude la responsabilità per dolo quando il soggetto commetta un fatto penalmente rilevante
nell’erronea convinzione di realizzarlo in presenza degli estremi di una causa di giustificazione. Manca
invece una disciplina per le ipotesi in cui l’agente commetta il fatto nell’erronea convinzione di trovarsi in
presenza di una c.d. quasi giustificante o quasi scriminante. Ci si chiede, nel silenzio della legge, se risponda
di omicidio comune ovvero di omicidio del consenziente chi volontariamente cagioni la morte di un uomo,
ritenendo erroneamente che la vittima, in malato terminale, ne abbia fatto richiesta per porre fine alle sue
sofferenza. Le cause di esclusione della punibilità non sono applicabili per analogia per il loro carattere di
norme eccezionali: la regola dell’intero sistema penale è che l’autore di un fatto penalmente rilevante,
antigiuridico e colpevole debba essere punito con le sanzioni previste dalla legge ed è solo un’eccezione che
egli resti in tutto o in parte impunito, per ragioni di opportunità politica o ancora per ragioni relative alla
salvaguardia di interessi antagonisti rispetto alla punizione del reo. Le norme che prevedono circostanze
attenuanti non ammettono estensione analogica, essendo il futuro della precisa scelta politico criminale di
attribuire rilevanza attenuante a ben individuate situazioni e solo a quelle: manca perciò una lacuna
involontaria nella disciplina legislativa. Cosi la norma che prevede l’attenuante del risarcimento del danno
esige che il danno sia stato riparato interamente e non può perciò essere estesa per analogia ai casi in cui la
riparazione sia solo parziale.

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9. il principio di legalità delle pene
la riserva di legge abbraccia non soltanto i reati ma anche le relative sanzioni, nel senso che la legge deve
prevedere il tipo, i contenuti e la misura delle pene, di ogni pena. Il principio di legalità delle pene vincola
innanzitutto il giudice. L’art 1 c.p. dispone che nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente preveduto come reato dalla legge, ne con pene che non siano da essa stabilite. Il principio
di legalità delle pene vincola anche il legislatore. Il 25 cost dispone che nessuno può essere punito se non in
forza di una legge. La cort. Cost ha attribuito carattere assoluto alla riserva di legge in materia di pene,
escludendo l’intervento di fonti diverse dalla legge statale anche per la definizione di aspetti marginali del
trattamento sanzionatorio. Deve essere una legge a determinare il tipo delle pene applicabili dal giudice per
ciascuna figura di reato. Ciò può avvenire sia nella stessa norma incriminatrice, sia attraverso clausole
generali. La legge deve inoltre determinare con precisione il contenuto delle sanzioni penali. Sembra
pertanto dubbia la legittimità costituzionale della disciplina dell’affidamento in prova al servizio sociale, una
misura alternativa alla detenzione il cui contenuto è individuato dalla legge con generiche clausole del tipo
“prescrizioni che impediscano al soggetto di svolgere attività che possano portare al compimento di altri
reati”: quali possano essere queste prescrizioni lo stabilirà pertanto, a suo arbitrio, ogni singolo magistrato
di sorveglianza. La legge deve infine determinare la misura delle sanzioni penali. Il più elevato grado di
precisione verrebbe assicurato da un sistema di pene fisse. Vi sono peraltro nella costituzione alcuni
principi che richiedono l’individuazione della pena da parte del giudice, in antitesi ad una rigida e invariabile
predeterminazione legale della misura della pena. Il punto di equilibrio fra legalità e individuazione della
pena risiede nella predeterminazione legale, per ogni figura di reato di una cornice di pena, cioè di un
minino e di un massimo entro il quale il giudice, utilizzando i criteri indicati dovrà scegliere la pena
adeguata ad ogni singolo caso concreto. Il principio di legalità si oppone alla previsione di pene
indeterminate nel massimo: in assenza di un massimo, la determinazione della pena per le ipotesi più gravi
verrebbe lasciata all’arbitrio del giudice. La cornice edittale deve essere individuata con precisione, il che
non sempre accade nel diritto vigente. La cornice edittale non deve poi essere troppo ampia. Cornici legali
eccessivamente divaricata impongono al giudice di farsi legislatore del caso concreto, formulando propri
autonomi giudizi di dislvalore sulla stessa figura astratta di reato: è quanto ha rilevato la cort. Cost. in
relazione ad una norma incriminatrice che prevedeva una pena da due a 24 anni di reclusione. Infine, il
principio di legalità della pena esige che la legge detti criteri vincolanti per il giudice nella commisurazione
della pena, prendendo posizione, fra l’altro, a differenza di quanto accade nell’art 133 c.p. sui fini della pena
cui deve ispirarsi il giudice nella commisurazione.
10. il principio di legalità delle misure di sicurezza
le misure di sicurezza (artt. 199 ss. C.p.) sono sanzioni – personali come la colonia agricola, la casa di lavoro,
la casa di cura e di custodia… o patrimoniali, come la confisca. Sono misure applicabili in aggiunta alla pena
o in luogo della pena nei confronti di soggetti incapaci di intendere o di volere. Al pari delle pene, anche le
misure di sicurezza soggiacciono al principio di legalità. Tale principio è enunciato nel codice penale all’art
199, con la conseguenza che è vietata al giudice l’applicazione di misure di sicurezza diverse da quelle
stabilite dalla legge e per casi non preveduti dalla legge. Come per le pene, anche per le misure di sicurezza
il principio di legalità è stato innalzato al rango di principio costituzionale. Ne deriva che il legislatore
ordinario non può delegare a fonti subordinate la disciplina delle misure di sicurezza, ne può dettare una
disciplina imprecisa o indeterminata, cosi da aprire la porta all’arbitrio del giudice nell’individuazione dei
presupposti, della tipologia e dei contenuti delle misure. Il primo presupposto per l’applicazione delle
misure di sicurezza è la commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato o di un quasi reato: in
relazione all’una e all’altra classe di fatti, deve essere la legge a prevedere espressamente l’applicabilità
della misura di sicurezza. Il secondo presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza è la
pericolosità sociale dell’agente, cioè la probabilità che egli commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come
reati. Secondo la disciplina attuale, la pericolosità sociale va sempre accertata in concreto dal giudice. La
disciplina vigente non sembra peraltro compatibile con il principio di precisione, che impone al legislatore
di fare tutto quanto in suo potere per ridurre al minimo l’arbitrio del giudice nella formulazione del giudizio
di pericolosità. Per soddisfare il principio di precisione, il giudizio di pericolosità dovrebbe essere riferito alla
futura commissione non di qualsivoglia reato, ma di ben delimitate classi di reati; la legge dovrebbe inoltre
individuare una serie di elementi effettivamente sintomatici della pericolosità sociale, e non limitarsi ad un
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generico richiamo ai criteri dettati dall’art 133 c.p. per la commisurazione della pena; infine la legge
dovrebbe consentire il ricorso alla perizia sulla personalità dell’imputato già nel momento in cui il giudice
ordina la sottoposizione a una misura di sicurezza. Un ulteriore dubbio di compatibilità si profila in relazione
al principio di determinatezza: le scienze criminologiche denunciano infatti l’assenza di leggi scientifiche o
di massime di esperienza che consentano di affermare nel caso concreto la pericolosità sociale di una
persona. La riserva di legge 25 cost esige inoltre che il legislatore individui il tipo di misura di sicurezza
applicabile al giudice. Del tutto insufficiente appare anche l’impegno del legislatore nella individuazione dei
contenuti delle misure di sicurezza. A differenza di quanto si è detto per le pene, la riserva di legge tollera di
per se misure di sicurezza indeterminate nel massimo, trattandosi di un carattere connaturato a tale
sanzione, in ragione della sua dipendenza dalla pericolosità sociale dell’agente, cioè da uno stato personale
che si protrae nel tempo e del quale non è dato stabilire a priori se e quando verrà meno. I vizi di
legittimità costituzionale, in relazione ai principi di precisione e di determinatezza, che inficiano la vigente
disciplina della pericolosità sociale quale presupposto per l’applicazione iniziale delle misure di sicurezza, si
riverberano inoltre sulla loro durata: anche il riesame della pericolosità, che decide del protrarsi o meno
della misura di sicurezza, risulta infatti ancorato a criteri imprecisi e manca di un adeguato fondamento
empirico.
11. l’interpretazione nel diritto penale
nel diritto penale l’interpretazione soggiace a regole peculiari che sono espressione dei principi politici di
rango costituzionale che attribuiscono al legislatore il monopolio della potestà punitiva, fissano criteri che
limitano le scelte del legislatore e rendono il giudice soggetto alla legge. La fedeltà del giudice alla legge è
innanzitutto incarnata dal divieto di analogia in malam partem che vieta al giudice di ricondurre sotto la
norma casi non riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati letterali. La lettera della legge
rappresenta il limite esterno imposto all’opera dell’interprete. Entro questo limite il giudice deve ricorrere
nella materia penale a quella particolare interpretazione sistematica denominata interpretazione conforme
alla costituzione che comporta l’adozione di una serie di criteri selettivi dei fatti penalmente rilevanti: il
principio di offensivista impone l’espulsione dalla fattispecie legale dei fatti in concreto inoffensivi del bene
giuridico tutelato; il principio di colpevolezza appone come limite alla rilevanza penale dei fatti offensivi di
beni giuridici il rimprovero all’autore di aver realizzato quel fatto almeno per colpa; il principio di precisione
comporta che tra i possibili significati letterali si estromettano quei significati che conferiscono alla norma
contorni inguaribilmente incerti. Un ulteriore criterio selettivo deriva dall’appartenenza dell’Italia all’unione
europea: il giudice italiano ha l’obbligo di un’interpretazione conforme alla normativa europea della legge
nazionale che la attua, scegliendo tra i possibili significati letterali della legge nazionale quello conforme al
diritto europeo. Il diritto penale ha in comune con gli altri settori dell’ordinamento le restanti regole che
presiedono all’attività interpretativa. Il giudice deve interpretare le leggi cosi da armonizzare i contenuti con
gli obblighi internazionali che vincolano l’Italia. Sotto questo profilo assume importanza l’interpretazione
conforme alla CEDU. In secondo luogo importanti criteri all’interno dell’ordinamento nazionale sono offerti
dall’interpretazione sistematica della norma con altre disposizioni di legge ordinaria, ubicate dentro e fuori
il diritto penale, nonché dell’interpretazione a fortiori che impone di chiarire i dubbi interpretativi sollevati
da una norma alla luce di un'altra norma di portata più ampia. Restare entro la cornice dei possibili
significati letterali è impossibile quando le norme sono troppo imprecise. Quando la norma è troppo vaga
sarà dichiarata illegittima dalla cort. Cost per contrasto con l’art 25 comma 2. Quando invece la norma non
è troppo imprecisa, il significato o i significati dei termini vanno cercati attingendo a svariati linguaggi. Vi
sono termini da ricercare nel linguaggio comune. Emblematico il termine violenza, che compare nel delitto
di violenza privata come mezzo impiegato dall’agente per costringere altri a fare, tollerare o omettere
qualche cosa. Dottrina e giurisprudenza prevalenti operano una spiritualizzazione del concetto di violenza:
rileverebbe la costrizione del soggetto passivo comunque cagionata. Una tale interpretazione urta
frontalmente contra legem. La norma dell’art 610 c.p. da rilievo a due specifiche modalità, la minaccia o la
violenza, che solo possono cagionare la lesione della libertà morale repressa nell’articolo citato; d’altra
parte l’orientamento giurisprudenziale prevalente attribuisce al termine violenza un significato
incompatibile anche con il significato più lato che quel termine possiede nel linguaggio comune. Come si è
anticipato non è solo al linguaggio comune che si deve ricorrere. La varietà delle materia disciplinate dal
diritto penale comporta infatti l’impiego di diverse e complesse terminologie specialistiche, recepite
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innanzitutto nel linguaggio giuridico. è l’ampio territorio occupato dagli elementi normativi giuridici, che
compaiono nei settori del diritto penale che disciplinano materie in parte già giuridicamente preformate dal
diritto civile e amministrativo, alle cui regole il giudice dovrà perciò necessariamente far riferimento: non
dovrà solo constatare fatti, ma anche interpretare le regole giuridiche extrapenali e applicarle a quei fatti.
Molte altre sono le terminologie specialistiche che rappresentano altrettanti passaggi obbligati dell’attività
interpretativa. La disciplina delle società commerciali utilizza termini tratti dal linguaggio economico
aziendale il cui significato impone al giudice di impadronirsi del sapere, spesso fornitogli da periti,
necessario per accertare se sussistono in concreto i fatti previsti dalle figure legali che li descrivono e
reprimono. La disciplina penale posta a tutela dell’integrità fisica impiega il termine malattia nel corpo,
tratto dal linguaggio medico. La giurisprudenza è divisa su come interpretare il termine malattia. La legge
sulla procreazione assistita utilizza termini del linguaggio biologico. In alcuni casi l’interpretazione è
sistematica, nel consueto significato di coordinamento tra più disposizioni di pari grado, che può venire in
aiuto per individuare, tra più significati compatibili con la lettera della legge, quello che va preferito.
All’interpretazione sistematica si deve fare ricorso, ad esempio, per stabilire cosa debba intendersi per
malattia nel delitti di lesione personale. La norma confinante con quella relativa alla lesione personale, che
configura il delitto di percosse, è caratterizzata da un elemento negativo che, segnando lo spartiacque con il
delitto di lesione personale, abbraccia quelle violenze fisiche che si esauriscono nel cagionare lievi
alterazioni anatomiche e quindi non si traducono in un processo morboso con apprezzabile riduzione di
funzionalità dell’organismo umano; il che spiega la notevole diversità delle pene comminate dalla legge:
anche la sola multa per le percosse; la reclusione da 3 mesi a 3 anni per le mere lesioni personali lievi.
L’interpretazione sistematica viene in aiuto anche per sciogliere dubbi che, in altri ordinamenti, vengono
abbandonati all’arbitrio dell’inteprete. Ad esempio la disciplina dell omicidio, avvicinata a quella
dell’infanticidio, si applicherà anche quando si cagiona la morte del feto durante il parto. L’interpretazione
sistematica può anche rinforzare i risultati già raggiunti attraverso un interpretazione conforme al
significato letterale di una norma. Si apre ora lo spazio per le interpretazioni conformi alla costituzione, in
funzione selettiva dei fatti penalmente rilevanti. Il principio di offensivista opera anche secondo la
giurisprudenza, imponendo all’interprete l’espulsione della fattispecie legale di fatti che, pur riconducibili
entro la cornice dei possibili significati letterali, sono in concreto inoffensivi del bene giuridico tutelato. È il
caso della falsa testimonianza che cada su circostanze ininfluenti sul processo decisionale del giudice, della
frode processuale priva di idoneità ingannatoria. Il principio di colpevolezza vincola l’interprete di fronte ai
tanti casi in cui il legislatore del 1930 ha conservato o introdotto ipotesi di responsabilità oggettiva, a
subordinare l’attribuzione della responsabilità. Il principio di precisione preclude all’interprete di attribuire
alla norma significati compatibili con il tenore letterale del divieto o del comando imposto dalla legge, ma
che gli conferirebbero contorni troppo imprecisi: è il caso della nuova configurazione del delitto di abuso di
ufficio. Incapace di contribuire all’individuazione dei fatti penalmente rilevanti, il principio costituzionale di
imparzialità della pubblica amministrazione può invece contribuire all’individuazione della portata di una
causa di giustificazione di quei fatti, come l’uso legittimo delle armi e di ogni altro mezzo di coazione fisica:
l’impiego di tali mezzi deve essere proporzionato. Ancora, l’enorme divario di rango costituzionale tra il
bene della vita e il bene patrimonio pone l’interprete della disciplina della legittima difesa nel domicilio e
negli esercizi commerciali di fronte a un’alternativa: la codificazione della licenza d’uccidere va sottoposta
alla corte costituzionale. Infine dalla costituzione può ricavarsi un argomento che corrobora una lettura
restrittiva della formula embrione nella legge sulla procreazione assistita. L’art 32 cost impegna la
repubblica alla tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Tra
le diverse possibili letture della formula embrione, dovrebbero essere preferite quelle che facevano salva la
possibilità di produrre in numero superiore a 3 e crioconservare oociti fecondati in uno stadio anteriore
alla comparse del genoma definitivo. Viceversa la prassi non ha sinora interpretato secondo costituzione
l’art 14 della legge sulla procreazione assistita, adottando invece una nozione amplissima di embrione,
comprensiva già dell’oocita nel quale è penetrato lo spermatozoo: ciò ha indotto la cort. Cost. a dichiarare
parzialmente illegittima contenuta nell’art 14 comma 2. A proposito dell’interpretazione conforme al diritto
dell’unione europea e dell’interpretazione conforme alla CEDU.

CAPITOLO 3 I LIMITI ALL’APPLICABILITA’ DELLA LEGGE PENALE


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LIMITI TEMPORALI
1.Il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente
in uno stato liberale di diritto il cittadino deve poter sapere, prima di agire, se dal suo comportamento
potrà derivare una responsabilità penale, e quali siano le sanzioni in cui potrebbe incorrere. Da qui è
introdotto il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente per garantire il suo
affidamento che il se e il quanto della punizione saranno determinati soltanto dalla legge in vigore al
momento della commissione del fatto, ponendolo al riparo dalle sopraffazioni del giudice e del legislatore
che puniscano fatti che al tempo della commissione non costituivano reato, ovvero li puniscano più
severamente. Il rispetto del principio di irretroattività delle norme che contengono nuove incriminazioni è
imposto al giudice dall’art 2 comma 1 c.p., il quale dispone che nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. L’art 2 comma 4 vieta inoltre al
giudice di applicare retroattivamente una legge successiva sfavorevole al reo: se la legge del tempo in cui fu
commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo.
Le norme ora citate non sono modificabili, ne derogabili perché il principio di irretroattività è stato
innalzato a principio di rango costituzionale. Secondo la cort. Cost il principio di irretroattività è un
inderogabile superiore principio di civiltà, la cui ratio è di garantire la libertà dell’individuo dallo stato,
assicurandogli la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione. Si tratta di un principio
riconosciuto dal diritto internazionale e dal diritto europeo. Il principio di irretroattività riguarda anche gli
altri settori del diritto ma qui è più tenue e suscettibile di deroga. Va peraltro segnalato che l’irretroattività
accordata dal 25.2 cost. è stata di recente estesa dalla cort. Cost. alle disposizioni che introducono o
inaspriscono sanzioni amministrative. Questo perché comunque tutte le misure di carattere punitivo
afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Il principio
di irretroattività della legge penale ha altresì decisive ripercussioni sulla configurazione e sul funzionamento
del sistema penale. Il principio di irretroattività è condizione indispensabile perché la minaccia della pena
da parte del legislatore funzioni come strumento di prevenzione generale. In secondo luogo, il principio di
irretroattività impone al legislatore di includere fra i presupposti dell’applicazione della pena la
colpevolezza dell’agente.
2. ambito di applicazione: nuove incriminazioni e trattamento penale più severo
quando la legge individua una figura di reato integralmente nuova, comprensiva cioè di una classe di fatti
che in base alla disciplina previgente erano tutti penalmente irrilevanti, si configura una nuova
incriminazione. Una nuova incriminazione può essere anche il risultato dell’ampliamento di figure di reato
preesistenti: tale effetto può derivare sia da interventi su disposizioni di parte speciale sia da interventi su
disposizioni della parte generale. Ci si chiede se il principio di irretroattività della legge penale operi anche
nell’ipotesi in cui l’estensione dell’ambito di applicazione di una figura di reato sia il frutto di un mutamento
dell’interpretazione giurisprudenziale. La corte europea dei diritti dell’uomo ha dato risposte negativa. Il
principio di irretroattività vieta al legislatore di attribuire efficacia retroattiva non solo alle leggi che
prevedano nuove incriminazioni, ma anche a quelle che comportino un trattamento penale più severo per
un fatto già preveduto come reato. Ciò comporta che non possono essere applicate retroattivamente leggi
che prevedano pene principali, pene accessorie e effetti penali della condanna più severi di quanto previsto
nella legge vigente al tempo del commesso reato. Non può trovare applicazione retroattiva una legge che
modifiche in modo sfavorevole al reo la disciplina di istituti che in vario modo incidono sul trattamento
penale: ad esempio le circostanze del fatto, la sospensione condizionale della pena, le pene sostitutive delle
pene detentive e le misure alternativa alla detenzione.
3. principio di irretroattività e misure di sicurezza
si discute se il principio di irretroattività interessi anche le misure di sicurezza. Il problema sorge a proposito
delle misure di sicurezza in quanto l’art 25.3 cost. enuncia il principio di legalità, ma non il principio di
irretroattività; inoltre l’art 200 c.p. stabilisce al primo comma che le misure di sicurezza sono regolate dalla
legge in vigore al tempo della loro applicazione e soggiunge al secondo comma che se la legge del tempo in
cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione. Gli
spazi per l’applicazione retroattiva della disciplina relativa alle misure di sicurezza sono assai circoscritti:
l’art 200 c.p. deve infatti essere letto in senso restrittivo, come si impone per una normativa che intacca

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fondamentali garanzie del cittadino, sia pure in una sfera non specificamente contemplata dalla
costituzione.si ritiene che l’art 200 c.p. disciplini l’ipotesi in cui il fatto fosse previsto come reato già al
tempo della sua commissione e la legge del tempo già prevedesse l’applicabilità di una misura di sicurezza,
ma una legge successiva abbia disciplinato diversamente le modalità di esecuzione della misura. In questo
caso, l’art 200 c.p. impone al giudice di cognizione di applicare la legge in vigore al momento in cui egli
dispone la misura; se poi la legge in vigore al momento dell’esecuzione è ancora diversa, il giudice
dell’esecuzione dovrà applicare la nuova legge. Questa disciplina comporta l’applicabilità retroattiva della
legge sopravvenuta che ridisciplini le modalità esecutiva della misura di sicurezza, anche quando le nuova
modalità risultino più favore per l’agente: ma ciò non confligge con i principio costituzionali in materia di
misure di sicurezza, che si riducono al principio di legalità e non contemplano il principio di irretroattività
della disciplina sfavorevole al reo. Da questa interpretazione dell’art 200 c.p. da noi proposta discendono
due corollari. Non può essere applicata una misura di sicurezza a chi abbia commesso un fatto che, al
momento della sua realizzazione, non era preveduto dalla legge come reato. L’esigenza che la legge
preveda il fatto come reato è infatti uno dei normali presupposti per l’applicazione delle misure di
sicurezza: e la qualificazione del fatto come reato deve derivare dalla legge del tempo in cui il soggetto ha
agito. In forza del vincolo costituzionale, il legislatore non può pertanto stabilire che una misura di sicurezza
si applichi a fatti che non costituivano reato al momento della loro commissione. Lo stesso divieto di
applicazione retroattiva delle misure di sicurezza opera d’altra parte per il giudice in base all’art 2 c.p. in
forza del quale la qualificazione del fatto come reato non può derivate da una legge sopravvenuta. Una
misura di sicurezza prevista da una legge posteriore non può trovare applicazione nel caso in cui la legge del
tempo in cui il soggetto ha agito configurasse il fatto come reato, ma non prevedesse l’applicabilità di quella
misura. Tale ipotesi non rientra nella previsione dell’art 200 c.p. se di tale disciplina si accoglie
l’interpretazione restrittiva che abbiamo esposto in precedenza: ne segue che, in base al generale principio
di irretroattività della legge, il giudice non potrà applicare la misura di sicurezza a chi abbia agito prima
dell’entrata in vigore della legge che ha previsto la misura. In assenza di una copertura costituzionale
questa regola potrebbe essere derogata in forma espressa dal legislatore, il quale contestualmente alla
previsione della misura di sicurezza per casi non contemplati in passato, potrebbe stabilire che la misura si
applichi retroattivamente, cioè anche a coloro che abbiano agito prima dell’entrata in vigore della nuova
legge. C’è il rischio che il legislatore operi una froda delle etichette, qualificando come misura di sicurezza
una sanzione che abbia i connotati sostanziali di una pena: un rischio particolarmente elevato quando la
misura si indirizzi nei confronti di soggetti imputabili, ai quali deve essere garantita la possibilità di
conoscere al momento di agire quali sono le sanzioni penali nelle quali potranno incorrere. In casi del
genere all’applicazione retroattiva della sanzione, ancorché qualificata dal legislatore come misura di
sicurezza, si opporrebbe il principio di irretroattività ex art 25 comma 2 cost. non solo. Come è stato
recentemente riconosciuto dalla cort. Cost. e dalla corte di cassazione, l’applicazione retroattiva di misure
che, nonostante la diversa etichetta, hanno sostanzialmente carattere di vere e proprie pene, è vietata, alla
luce del 117 cost dagli obblighi internazionali che vincolano lo stato italiano: contrasta infatti con il principio
di irretroattività sancito dall art 7 CEDU “non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al
momento in cui il reato è stato commesso”, che secondo la giurisprudenza della corte CEDU, nel riferirsi
alle pene, abbraccia tutte le sanzioni che, al di la della qualificazione formale attribuita dagli ordinamenti
nazionali, conseguono alla condanna per un reato e hanno natura sostanzialmente punitiva repressiva,
poiché non perseguono unicamente scopi preventivi, ma sono in tutto o in parte finalizzate alla riparazione
dell’offesa recata o alla deterrenza dalla commissione di ulteriori reati. Proprio alla luce degli artt. 25
comma 2 e 117 cost, in relazione al 7 CEDU, come interpretato dalla corte di Strasburgo, un recente
orientamento giurisprudenziale ha escluso l’applicazione retroattiva di alcune ipotesi speciali di confisca,
dopo averne affermato la sostanziale natura di pene e non già di misure di sicurezza. Cosi si è dichiarata la
cort. Cost allorché ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale degli artt. 200, 322 ter
c.p. e dell’art 1 comma 143 l.244/2007 che ha esteso la confisca per equivalente ai reati tributari, nella
parte in cui quegli articoli, secondo l’interpretazione del giudice a quo, consentirebbero di applicare la
misura anche in relazione ai reati commessi prima della novella legislativa. Avallando un orientamento della
cassazione, la cort. Cost. ha affermato che la confisca per equivalente ha nella sostanza la natura di
sanzione penale, come tale sottratta alla disciplina dell’art 200 c.p. e soggetta al divieto di applicazione

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retroattiva di cui all’art 25 comma 2 cost. la cort. Cost. e le sezioni unite della cassazione hanno del pari
qualificato come pena, escludendone l’applicazione retroattiva, la confisca obbligatoria del veicolo
conseguente alla condanna per contravvenzioni di guida in stato di ebbrezza e di rifiuto di sottoporsi agli
accertamenti alcolimetrici, introdotta nel 2008. Si è in tal senso sottolineato, tra l’altro, che il veicolo
guidato dal contravventore non è una cosa intrinsecamente pericolosa, riconducibile alle ordinarie ipotesi
di confisca obbligatoria e che la natura essenzialmente sanzionatoria e non già preventiva della confisca di
cui si tratta è confermata dalla circostanza che la misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse
risultare incidentato e quindi temporaneamente inutilizzabile e, dunque, privo di pericolosità oggettiva.
4. principio di irretroattività e diritto processuale penale e e esecuzione della pena
non sono ricomprese nel divieto di retroattività le norme che regolano il processo penale, in quanto la ratio
e la storia del principio di irretroattività ne circoscrivono l’ambito di applicazione alle norme che
individuano i reati e le relativa sanzioni: la funzione protettiva del principio di irretroattività non si estende
alle norme processuali, perché tali norme non interferiscono con le libere scelte di azione del cittadino. Per
la materia processuale opera di regola il principio tempus regit actum, secondo il quale gli atti processuali
già compiuti conservano la loro validità anche dopo un mutamento della disciplina legislativa, mentre gli
atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla nuova legge processuale, ancorché collegati ad atti
compiuti in precedenza. L’appartenenza di una norma al diritto penale sostanziale o al diritto processuale è
però talora controversa, con la conseguenza che per una serie di istituti che si collocano ai confini tra i due
settori dell’ordinamento si pone il problema se siano o no interessati dal divieto di retroattività. Per la
soluzione di questi casi problematici bisogna far capo non tanto all’appartenenza di questo o quell’istituto
al diritto penale sostanziale o processuale, quanto alla funzione assegnata dalla costituzione al principio di
irretroattività. Problematica è soprattutto l’efficacia nel tempo di una legge che allunghi la durata del tempo
necessario per la prescrizione di un reato. Occorre in proposito distinguere a seconda che all’entrata in
vigore della legge sia già decorso il tempo per la prescrizione del reato, ovvero la prescrizione non sia
ancora maturata. Nel primo caso, un’applicazione retroattiva della nuova disciplina va senz’altro esclusa:
decorso il tempo necessario per la prescrizione, l’agente non è punibile e può fare affidamento su questo
stato di cose. Per contro, qualora l’allungamento dei termini intervenga prima che sia maturata la
prescrizione in base alla legge vigente al momento del fatto, la legge che sancisce l’allungamento dei
termini potrebbe trovare applicazione retroattiva, potrebbe cioè applicarsi anche ai fatti commessi prima
della sua entrata in vigore. Questa applicazione non urterebbe infatti contro il principio di irretroattività: la
ratio di questo principio è quella di soddisfare l’aspettativa del cittadino di sapere preventivamente se e in
quale misura potrà essere punito, e non già di fargli sapere per quanto tempo dovrà stare nascosto dopo
aver commesso il fatto, per poter poi tornare tranquillamente alla vita di tutti i giorni. È del tutto ovvio che
l’autore del reato potrà anche fare calcoli di quel tipo, ma il principio di irretroattività non è finalizzato alla
tutela di simili calcoli
5. il principio di retroattività delle norme penali favorevoli all’agente
le ipotesi in cui dopo la commissione del fatto sopravvenga una legge penale più favorevole all’agente sono
regolate secondo il principio di retroattività della legge più favorevole, che riguarda: la legge che abolisce il
reato; la legge che modifica la disciplina del reato e le disposizioni concernenti il tipo e la misura della pena,
nonché tutte la norme sostanziali che, pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto,
incidono sul trattamento sanzionatorio riservato al reo. In base all art 2 comma 2 c.p. nessuno può essere
punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne
cessano l’esecuzione e gli effetti penali. La norma sopravvenuta che abolisce l’incriminazione si applica
dunque retroattivamente, e cioè si applica anche a fatti commessi prima della sua entrata in vigore: se non
è stata ancora pronunciata la condanna, il soggetto deve essere prosciolto; se vi è stata sentenza definitiva
di condanna, cessa l’esecuzione della pena e ogni effetto penale della condanna. Il principio di retroattività
della legge più favorevole trova inoltre applicazione nelle ipotesi di successione di leggi penali modificative
della disciplina del reato. A norma dell art 2 comma 4 c.p. anche la legge sopravvenuta che modifica in
senso favorevole all’agente la disciplina di un reato si applica dunque retroattivamente, a condizione però
che la sentenza di condanna non sia ancora passata in giudicato. Infine a norma del art 2 comma 3 c.p. se la
modifica favorevole al reo consiste nella previsione della pena pecuniaria laddove la legge precedente
prevedeva una pena detentiva, la legge sopravvenuta si applica retroattivamente senza incontrare il limite
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del giudicato. La cort cost ha costantemente escluso che il principio di retroattività della norma penale
favorevole all’agente trovi copertura costituzionale nell’art 25 comma 2: quel principio non ha infatti alcun
collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale garantita dal divieto di applicazione
retroattiva della legge penale sfavorevole all’agente. Nondimeno anche il principio di retroattività della
norma penale favorevole all’agente, benché non trovi enunciazione espressa nella costituzione, è coperto
da garanzia costituzionale. Il rango costituzionale del principio di retroattività della lex mitior discende dal
principio di eguaglianza ex art 3 cost. che vieta qualsiasi discriminazione irragionevole tra situazione eguali:
con la conseguenza che il principio di retroattività della legge penale più favorevole vincola non solo il
giudice, ma anche il legislatore ordinario. La ratio del principio di eguaglianza si oppone infatti
all’applicazione di una sanzione penale per un fatto che, successivamente, il legislatore non considera più
come reato, avendo mutato la valutazione della sua antisocialità, ovvero punisce con una sanzione più
lieve, rispecchiando una nuova valutazione della sua gravità: si punirebbe o si punirebbe più severamente
una persona per un fatto che chiunque altro, dopo l’entrata in vigore della nuova legge, può commettere
impunemente o con conseguenze più miti. Peraltro come ha sottolineato la cort. Cost., l’applicazione
retroattiva della legge penale più favorevole non è senza limiti. Una volta dichiarata costituzionalmente
illegittima, la norma penale più favorevole sarà perciò inapplicabile ai fatti pregressi. Mentre come si è
detto il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente è inderogabile, al principio di
retroattività della legge sopravvenuta più favorevole il legislatore ordinario può derogare a condizione che
la deroga sia sorretta da ragionevoli motivi: si giustifichi cioè in relazione alla necessità di preservare
interessi contrapposti di analogo rilievo e sia comunque conforme al canone costituzionale di
eguaglianza/ragionevolezza. Una deroga di carattere generale al principio di retroattività della legge più
favorevole è prevista dal art 2 comma 5 c.p. in relazione alle leggi eccezionali e temporanee. Un ulteriore
deroga generale alla retroattività della lex mitior è inoltre prevista dall’ art 2 comma 4 c.p. che individua
nella presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato un limite invalicabile all’applicazione
retroattiva della disciplina sopravvenuta più favorevole al reo. Come la cort. Cost. ha recentemente
riconosciuto, il rango costituzionale del principio di retroattività della legge penale favorevole all’agente va
d’altra parte ricollegato non solo al principio di uguaglianza/ragionevolezza, ma anche all’art 117, che
vincola il legislatore al rispetto degli obblighi internazionali e tra questi all’art 7 cedu. Secondo quanto
affermato dalla corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza scoppola del 2009, tale disposizione
convenzionale, che stabilisce il divieto di applicazione retroattiva della legge penale riconosce altresì
implicitamente il principio di retroattività della legge più mite e delle disposizioni che definiscono i reati e le
pene che li reprimono succedutesi dal momento della commissione del fatto a quello della sentenza
definitiva.
6. l’abolizione del reato
l’ipotesi disciplinata dall’art 2 comma 2 c.p. è speculare a quella contemplata nel primo comma: si tratta
dell’abolizione del reato che si verifica sia nel caso in cui venga integralmente soppressa una figura di reato,
sia nel caso in cui vengano ridefiniti i contorni, cosi da restringerne l’area applicativa; di abolizione del reato
potrà parlarsi limitatamente alle classi di comportamenti che sono divenuti penalmente irrilevanti a seguito
dell’entrata in vigore della nuova disciplina. L’abolizione del reato esprime una scelta politico criminale del
legislatore. Il legislatore abolisce un reato quando ritiene non più meritevole o bisognosa di repressione
penale una classe di fatti in precedenza inclusi nel catalogo dei reati. Per stabilire se sia intervenuta una
soppressione di reato, bisogna guardare alla figura astratta del reato procedendo al confronto strutturale
tra le fattispecie legali prima e dopo l’intervento della nuova legge. In questo senso è oggi il prevalente
orientamento della giurisprudenza, avallato da più pronunce delle sezioni unite della corte di cassazione. La
funzione della fattispecie legale, in un sistema retto dal principio di legalità, è infatti duplice: è strumento di
selezione dei fatti penalmente rilevanti ed è altresì strumento di de-selezione dei fatti stessi. D’altra parte,
con la scelta della soppressione del reato il legislatore rinuncia a presidiare con la pena una determinata
forma di offesa a uno o più beni giuridici: è del tutto conseguente allora che tale scelta debba trovare
espressione nella fisionomia della fattispecie legale astratta che incarna il bene giuridico tutelato dalla
norma incriminatrice e ne descrive la forma di offesa penalmente sanzionata. Quale esempio di abolizione
integrale di una figura di reato, si può menzionare l’istigazione all’aborto, originariamente configurata come
delitto all’art 548 c.p. e estromessa dall’area del penalmente rilevante per effetto della l.194/1978. Ai fini
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dell’applicazione dell’art 2 comma 2 c.p. è peraltro indifferente che l’abolizione del reato comporti la
liceizzazione del fatto ovvero il suo trasferimento nel catalogo degli illeciti amministrativi. È quest ultimo il
caso della guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per
litro di sangue che è stato trasformato da contravvenzione in illecito amministrativo. Va inoltre segnalato
che la legge abolitrice del reato può anche essere una c.d. legge intermedia che dopo la commissione del
fatto risulti poi abrogata al momento del giudizio: infatti è sufficiente che il fatto non costituisca reato
secondo una legge posteriore. Un’abolizione del reato può derivare anche dalla restrizione dell’area
applicativa di una incriminazione preesistente. In questa ipotesi di abolizione parziale del reato il legislatore
fa venir meno la rilevanza penale di una sola parte delle classi di fatti in precedenza riconducibili ad una
determinata figura di reato, conservandola, invece, per un'altra parte. Ciò si verifica allorché la figura di
reato risultante dalla modifica normativa è speciale rispetto a quella precedente, perché si riferisce a una
classe di fatti in essa espressamente o tacitamente già ricompresa, che conserva rilevanza penale. In
particolare, i fatti commessi nel vigore della precedente legge, nei limiti in cui rientrano nella previsione
della nuova legge, rimangono punibili a norma dell art 2 comma 4 c.p., mentre gli altri, ad essa non
riconducibili e, pertanto, oggetto della parziale abolizione del reato, non costituiscono più reato. L’abolitio
criminis parziale può conseguire a interventi su disposizioni di parte speciale: all’abrogazione di una norma
incriminatrice e alla contestuale introduzione di un’altra norma incriminatrice speciale rispetto a quella
abrogata. Una parziale abolitio criminis può altresì conseguire a interventi su disposizioni della parte
generale. Sarebbe questo il caso di un ipotetica ridefinizione in senso restrittivo del concetto di colpa e
quindi di una modifica dell art 43 c.p. che limitasse la colpa ai sensi di colpa grave: sarebbero parzialmente
aboliti tutti i reati colposi, limitatamente ai fatti commessi con colpa non grave. Va segnalato che la formale
abrogazione della norma incriminatrice non sempre comporta l’abolizione del reato. Può infatti accadere
(abrogatio sine abolitione) che le classi di fatti in precedenza riconducibili alla norma incriminatrice
abrogata conservino rilevanza penale, senza soluzione di continuità, in quanto riconducibili a un’altra
norma incriminatrice: già prevista nell’ordinamento e divenuta applicabile solo dopo e per effetto della
modifica legislativa; introdotta contestualmente alla modifica legislativa stessa. Questo fenomeno, che si
verifica allorché la figura di reato soppressa è speciale rispetto ad una fattispecie generale già vigente o
introdotta contestualmente alla sua soppressione, ricade nella previsione dell’art 2 comma 4 c.p.: da luogo
ad una successione di leggi meramente modificative della disciplina di fatti che continuano ad essere
previsti come reato poiché legge posteriore non è necessariamente quella introdotta dopo la commissione
del fatto: può essere anche la disciplina divenuta applicabile al caso concreto a seguito di mutamenti
normativi intervenuti dopo il fatto; in particolare è il caso di una preesistente norma generale, divenuta
applicabile solo dopo e per effetto dell’abrogazione di una norma speciale, ovvero è il caso di una norma
generale introdotta in sostituzione di una norma speciale abrogata con la medesima o con altra
disposizione di legge. Come si è detto l’art 2 comma 2 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano
l’esecuzione e gli effetti penali. Questa disposizione attribuisce dunque una retroattività limitata
all’abolizione del reato, nel senso che ne può risultare travolto anche il giudicato. In particolare, se non è
stata ancora pronunciata sentenza definitiva di condanna, l’agente deve essere assolto perché il fatto non è
previsto dalla legge come reato. Se invece la sentenza di condanna è passata in giudicato, ed è tuttora in
corso l’esecuzione della pena principale, deve essere disposta, da parte del giudice dell’esecuzione, la
revoca della sentenza di condanna e la cessazione dell’esecuzione della pena; del pari, cessa l’esecuzione
delle pene accessorie e vengono meno gli altri effetti penali della condanna. Restano ferme invece le
obbligazioni civili nascenti dal reato nonché secondo la prevalente giurisprudenza della corte di cassazione,
la misura di sicurezza patrimoniale della confisca. Va peraltro segnalato che un recente orientamento
giurisprudenziale ha parificato all’abolitio criminis l’incompatibilità tra una norma incriminatrice e una
norma di fonte UE dotata di efficacia diretta. Si è affermato di conseguenza che anche in questa diversa
ipotesi trova applicazione l’art 673 c.p.p. la cort. Cost. ha dichiarato infondata una questione di legittimità
costituzionale dell’art 673 c.p.p. sollevata per contrasto con gli artt. 3, 27, e 117 cost. nella parte in cui non
include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna, anche il mutamento giurisprudenziale,
determinato da una decisione delle sezioni unite della corte di cassazione, in base alla quale il fatto
giudicato non è previsto dalla legge come reato

23
7. abolizione del reato e successione di norme integratrici
è controverso se l’abolizione del reato possa essere la conseguenza di modifiche, intervenute alla
commissione del fatto, che non riguardano direttamente la norma incriminatrice, rimasta formalmente
invariata, ma una norma giuridica o extragiuridica in vario modo richiamata dalla norma incriminatrice. In
coerenza con il criterio strutturale di accertamento dell’abolitio criminis, del quale si è detto, la soluzione
del problema sarà diversa a seconda che la norma richiamata integri o no la norma incriminatrice: solo nel
primo caso si potrà parlare propriamente di successione di norme integratrici della norma penale e sarà
applicabile la disciplina dell’art 2 comma 2 c.p. in quanto la modifica si ripercuoterà sulla fisionomia della
figura di reato, nonché sulle scelte politico criminali e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella
configurazione del reato. Qualora la norma incriminatrice faccia riferimento ad un'altra norma attraverso
un elemento normativo della fattispecie, la norma incriminata non integra la norma incriminatrice perché
non contribuisce a descrivere la figura astratta del reato e ad esprimere la scelta politico criminale in essa
racchiusa: con la conseguenza che la modifica della norma richiamata non si ripercuote sulla fisionomia del
reato e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore e non da vita, dunque, a fenomeni, anche parziali, di
abolizione del reato. Ciò si spiega considerando come gli elementi normativi hanno un significato autonomo
da quello delle norme che richiamano: essi soli concorrono alla descrizione legale della figura di reato e
contribuiscono ad esprimere le scelte politico criminali e il giudizio di disvalore in essa incarnato; non anche
le norme giuridiche o extragiuridiche richiamate, che costituiscono solo i presupposti o criteri per
l’attribuzione a date realtà di fatto delle qualifiche espresse degli elementi normativi. Si pensi alla
disposizione incriminatrice della contraffazione di monete che attraverso la formula “aventi corso legale
nello stato”, richiama le norme extrapenali che individuano le monete utilizzabili come mezzi di pagamento.
Ora l’emanazione di una norma che determini la cessazione del corso legale di una determinata moneta
non comporta una parziale abolizione del reato, perché la scelta politico criminale di reprimere la
contraffazione di monete e il disvalore espresso dalla figura astratta del reato, rimasta immutata, non
vengono in alcun modo intaccati dalle vicende normativa che determinano l’entrata e la fuoriuscita di una
data moneta dalla circolazione nello stato. Ne segue che chi abbia contraffatto banconote che avevano
corso legale al momento della contraffazione dovrà essere condannato anche se quelle banconote abbiano
successivamente perduto corso legale, trattandosi di ipotesi estranea alla previsione dell’art 2.2 c.p. la
stessa conclusione si impone in tema di calunnia. Se, a seguito di una innovazione legislativa, il fatto
oggetto della falsa incolpazione non è più preveduto dalla legge come reato, non si verifica alcuna parziale
abolizione del delitto di calunnia: la fisionomia di questo delitto non viene infatti in alcun modo intaccata,
come d’altra parte immutati restano tanto la scelta politico criminale di punire le false incolpazioni di reato,
quanto il relativo giudizio di disvalore. Contrariamente a quanto affermato dalla cassazione, le cose non
vanno diversamente in tema di associazione per delinquere nel caso in cui, a seguito di un’innovazione
legislativa, i fatti che rappresentavano lo scopo perseguito in concreto dai membri dell’associazione non
siano più preveduti dalla legge come delitto: da un lato, la fisionomia del delitto associativo (associarsi di
più persone allo scopo di commettere più delitti) non viene in alcun modo modificata dall’abolizione di
questo o quel delitto la cui plurima commissione ha costituto il fine associativo; dall’altro lato la scelta
dell’abolizione di un certo delitto scopo non ha all’evidenza nulla a che vedere con la scelta di punire
l’associazione per delinquere che è delitto autonomo dai singoli delitti scopo punito in quanto specifica
forma di offesa all’ordine pubblico e con il relativo giudizio di disvalore. Del pari, non si verifica nessuna
parziale abolizione del reato di omicidio colposo se viene eliminata o modificata la norma giuridica
cautelare che al momento del fatto rendeva colposa la condotta dell’agente. La fisionomia dell’omicidio
colposo non muta infatti assieme alle innumerevoli regole cautelari che possono venire in rilievo, ne la
modifica di queste ultime incide in alcun modo sulla scelta politico criminale di punire quel reato e sul
relativo disvalore. È per questo che continuerebbe a rispondere di omicidio colposo l’automobilista che
avesse cagionato la morte di un altro utente della strada per non avere rispettato il diritto di precedenza,
anche se, dopo la commissione del fatto, un’ipotetica modifica del codice della strada invertisse il diritto di
precedenza. Analogamente, continuerebbe a rispondere di omicidio colposo chi cagionasse la morte di un
uomo provocando un incidente stradale per non aver tenuto la destra. Per ragioni del tutto analoghe non si
verifica alcuna abolitio criminis anche nelle ipotesi della modifica di norme extragiuridiche richiamate dalla
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legge penale attraverso elementi normativi extragiuridici. Cosi la modifica delle norme etico sociali relative
al comune sentimento del pudore non comporta alcuna abolitio criminis del delitto di pubblicazioni e
spettacoli osceni e non consente pertanto di revocare le sentenze di condanna definitive per quel delitto,
pronunciata magari decenni prima. La modifica delle norme relative al comune sentimento del pudore da
un lato non incide sulla fisionomia della suddetta figura di reato e dall’altro non ha nulla a che vedere con le
scelte politico criminali e con il giudizio di disvalore espresso dal legislatore con la sua configurazione del
reato stesso. In senso conforme la suprema corte ha negato che la disciplina dell’art 2 c.p. potesse essere
invocata per escludere la responsabilità del direttore di una rivista per adulti, chiamato a rispondere del
predetto reato per avere pubblicato immagini a sfondo sessuale che erano ritenute offensive del comune
sentimento del pudore al momento del fatto, ma non più successivamente. Sono invece vere e proprie
norme integratrici della norma penale le norme definitorie, cioè le norme attraverso le quali il legislatore
chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo ad individuare il
contenuto del precetto penale: pertanto una modifica della norma definitoria, che restringa l’ambito
dell’incriminazione, da vita ad una parziale abolizione del reato, con efficacia retroattiva rispetto ai fatti
commessi prima della modifica. Vere e proprie norme integratrici della norma penale sono poi le norme
che colorano il precetto delle c.d. norme penali in bianco che come si è detto hanno diritto di cittadinanza
nel nostro ordinamento entro i limiti segnati dalla riserva di legge tendenzialmente assoluta cioè entro i
limiti di una mera integrazione tecnica da parte di atti generali e astratti del potere esecutivo. Cosi
l’eliminazione di una sostanza da un elenco di stupefacenti contenuto in un decreto ministeriale
determinerà una parziale abolizione dei reati in materia di stupefacenti, con effetto retroattivo per chi
abbia agito prima della modifica del decreto ministeriale con riferimento all’analoga ipotesi della
dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che aveva introdotto una certa sostanza
nell’elenco degli stupefacenti. Allo stesso modo come ha correttamente ritenuto la cassazione, l’abolizione
di determinate norme tecniche per costruzioni in zone antisismiche, comporta l’abolizione della norma che
punisce la violazione di quelle tecniche.
8. la successione di norme modificative della disciplina
può darsi che una legge posteriore alla commissione del fatto mantenga inalterata la fisionomia astratta del
reato, cioè non comporti l’abolizione totale o parziale del reato e nemmeno un ampliamento
dell’incriminazione: la modificazione può infatti riguardare soltanto la disciplina del reato o di una classe di
fatti che l’ordinamento continua a configurare come reato. Si tratta innanzitutto di appurare se la disciplina
della nuova legge, confrontata con quella del tempo del commesso reato, sia più favorevole o meno
favorevole all’agente. Se la legge posteriore è meno favorevole, il principio di irretroattività impone che si
applichi la legge vigente al momento del fatto. Se viceversa la nuova legge è più favorevole si applicherà
quest ultima in base al principio della retroattività della legge più favorevole. Dispone infatti l’art 2 comma
4 c.p. che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le
cui disposizioni sono più favorevoli al reo. Nello stabilire quale sia la legge più favorevole il giudice non
potrà combinare disposizioni dell’una e dell’altra, creando una terza legge perché violerebbe la riserva di
legge: dovrà applicare integralmente o l’una o l’altra. La retroattività della legge posteriore più favorevole
incontra un limite: non deve essere intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna, perché sull’esigenza
di un trattamento più mite prevale l’intangibilità della cosa giudicata, come espressione dell’esigenza di
salvaguardare la certezza degli accertamenti giudiziari ormai esauriti. La regola del art 2 comma 4 c.p. si
applica infatti salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Mentre ai fini dell’abolizione del reato il
giudice deve effettuare un raffronto fra le figure astratte di reato, per decidere quale sia la legge che
contiene la disciplina più favorevole all’agente deve effettuare un giudizio in concreto caso per caso,
confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione al caso concreto della legge del tempo e delle
leggi posteriori. Il metodo che deve seguire il giudice è il seguente: deve prima applicare idealmente al caso
concreto la legge del tempo del commesso reato; quindi quella in vigore al momento del giudizio, nonché,
nell’ipotesi in cui le leggi in successione siano più di due, le eventuali leggi intermedie; e infine deve
comparare i risultati delle diverse applicazioni ideali per decidere quale sia la legge che contiene la
disciplina più favorevole per il caso concreto. Per stabilire quale sia la legge che contiene la disciplina in
concreto più favorevole, il giudice deve considerare l’intera disciplina: deve considerare in particolare la
specie e la misura della pena principale, le pene accessorie, le pene sostitutive delle pene detentive, le
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circostanze del reato, gli effetti penali della condanna, le misure di sicurezza, le cause di giustificazione, le
cause di non punibilità, le cause di estinzione del reato e della pena. Una ipotesi particolare di legge
posteriore più favorevole è quella in cui dopo la commissione di un reato punito con pena detentiva entri in
vigore una nuova legge che preveda per quel reato una sola pena pecuniaria. Qualora la nuova legge entri
in vigore prima che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ai sensi della legge del tempo del commesso
reato, la nuova legge troverà senz altro applicazione a norma del art 2 comma 4 c.p.: verrà dunque inflitta
la pena pecuniaria. Qualora invece la nuova legge intervenga dopo la pronuncia di una sentenza definitiva
di condanna, la regola enunciata nell’art 2 comma 4 c.p. vorrebbe che resti fermo il giudicato: dovrebbe
dunque procedersi all’esecuzione della pena detentiva. E a tale risultato portava in effetti la disciplina della
successione di leggi penali. Quest ultima ipotesi è ora però diversamente disciplinata. Con la l.85/2006 è
stato inserito nel art 2 il comma 3: se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella
corrispondente pena pecuniaria. In questo caso dunque la legge più favorevole sopravvenuta travolge il
giudicato. La pena detentiva inflitta si converte nella pena pecuniaria prevista dalla nuova legge per quella
ipotesi di reato. La conversione viene operata secondo il criterio di ragguaglio fissato dall art 135 c.p.: nel
silenzio dell’art 2 comma 3 si ritiene che l’ammontare massimo della pena pecuniaria risultante da
conversione non possa eccedere l’ammontare massimo della pena pecuniaria prevista dalla nuova legge.
Competente ad adottare il provvedimento di conversione è il giudice dell’esecuzione, il quale, qualora il
condannato stia scontando la pena, sospenderà l’esecuzione, disponendo la liberazione del condannato:
l’art 2 comma 3 prevede infatti che la conversione sia immediata.
9. la distinzione tra abolizione del reato e successione di norme modificative della disciplina: alcuni casi
problematici
la prassi mostra, in occasione di questa o quella riforma come non sempre sia agevole stabilire se ci si trovi
in presenza di una abolitio criminis e di una nuova incriminazione, ovvero di una successione di leggi
modificative della disciplina. Le ipotesi maggiormente problematiche, portate all’attenzione della
cassazione, più volte pronunciatasi a sezioni unite, sono in particolare due. Una prima ipotesi è quella
dell’abrogazione di una norma incriminatrice con contestuale introduzione di un'altra norma incriminatrice,
nella medesima o in diversa disposizione di legge. Una seconda ipotesi è quella dell’abrogazione di una
norma incriminatrice che, finché era vigente, escludeva l’applicabilità di un'altra norma incriminatrice, che
continua ad essere presente nell’ordinamento. Nelle ipotesi considerate risulta in particolare problematico
stabilire se, a seguito della modifica legislativa, vi sia o meno continuità normativa, cioè perdurante
rilevanza penale del fatto antecedentemente commesso: in caso di risposta affermativa, si escluderà
l’abolitio criminis e il fatto sarà punito con le disposizioni più favorevoli al reo tra quelle succedutesi nel
tempo; viceversa troverà applicazione la disciplina dell’abolitio criminis. Conformemente alla tesi accolta
dalle sezioni unite della cassazione, riteniamo che i problemi posti dai sindacati fenomeni di diritto
intertemporale debbano essere risolti secondo il già considerato criterio di accertamento dell’abolitio
criminis, cioè procedendo al confronto strutturale tra le fattispecie legali prima e dopo l’intervento della
nuova legge. La risposta è nel senso dell’abolitio criminis e della nuova incriminazione non solo quando i
fatti astrattamente configurati nelle due norme siano del tutto eterogenei, ma anche quando abbiano in
comune taluni elementi costitutivi, mentre altri elementi sono diversi, senza che tra le norme intercorra un
rapporto di specialità. Se invece le fattispecie astratte in successione temporale son omogenee, perché in
rapporto di specialità, l’abolitio criminis: deve essere senz altro esclusa, se la nuova fattispecie è generale,
in quanto comprende in se tutte le classi di fatti in passato riconducibili alla fattispecie speciale; è invece
solo parziale e limitata alle classi di fatti non riconducibili alla nuova fattispecie, se questa è speciale: in
quanto tale l’abolitio criminis abbraccia solo alcune delle classi di fatti in precedenza riconducibili alla
previgente fattispecie generale allorché l’unica fattispecie delittuosa di falso in bilancio venne sostituita con
due fattispecie, una contravvenzionale e una delittuosa.
10. ultrattività delle leggi eccezionali e delle leggi temporanee
il principio della retroattività della legge penale più favorevole, sia di quella che preveda l’abolizione del
reato sia di quella che ne modifichi la disciplina in bonam partem non opera per le leggi eccezionali e per le
leggi temporanee. L’art 2 comma 5 c.p. stabilisce infatti che se si stratta di leggi eccezionali o temporanee,
non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti, cioè le disposizioni del art 2 comma 2-4 c.p. una
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norma che abolisca una figura di reato prevista da una legge eccezionale o temporanea, ovvero ne mitighi il
trattamento sanzionatorio, non sarà dunque applicabile a fatti commessi sotto il vigore di quelle leggi: le
leggi eccezionali e temporanee, secondo una formula un uso nella dottrina e nella giurisprudenza, hanno il
carattere della ultrattività, nel senso che continuano ad essere applicabili anche dopo la loro abrogazione
da parte di una legge più favorevole. Per legge eccezionale ai senti del art 2 comma 5 c.p. si intende una
legge emanata per fronteggiare situazioni oggettive di carattere sanzionatorio la cui disciplina è dunque
legata a tali situazioni di fatto. Col ritorno alla normalità il legislatore potrà abolire il reato previsto dalla
legge, eccezionale, oppure dovrà mitigarne il trattamento sanzionatorio, ma non come espressione di una
diversa valutazione politico criminale dei fatti previsti dalla legge eccezionale, bensì perché è venuta meno
la situazione di fatto che aveva dato origine a quella disciplina. È quindi del tutto coerente la scelta del
legislatore di considerare la disciplina sopravvenuta non applicabile ai fatti commessi sotto il vigore della
legge eccezionale. Ragioni analoghe presiedono alla scelta legislativa di escludere che abbiano efficacia
retroattiva le leggi abolitrici o modificatrici in senso favorevole all’agente delle norme incriminatrici previste
da una legge temporanea, cioè da una legge che contenga la predeterminazione espressa dal periodo di
tempo in cui avrà vigore. Anche in questo caso si tratta infatti di norme dettate per fronteggiare situazioni
di carattere contingente, con la sola peculiarità rispetto alle leggi eccezionali che è la legge stessa aa fissare
un termine per la sua vigenza.
11. il decreto legge decaduto o non convertito
si è detto altrove che dovendosi intendere la riserva di legge ex art 25 comma 2 cost. come riserva di legge
formale, il decreto legge non dovrebbe entrare nel novero delle fonti di norme penali. Nondimeno poiché la
prassi normativa si muove in senso opposto, e nel codice penale del 1930 si includeva il decreto legge nella
disciplina della successione di leggi, è necessario affrontare i problemi relativi all’’efficacia nel tempo dei
decreti legge in materia penale. Un primo problema è di ovvia soluzione. Un decreto legge convertito in
legge che contenga una nuova incriminazione o un trattamento penale più severo non può avere efficacia
retroattiva. Problemi ben più delicati sorgono in relazione ai decreti legge decaduti o non convertiti in
legge, ove contengano una abolizione del reato o una disciplina penale più favorevole all’agente. Disponeva
in proposito l’art 2 comma 5 c.p. nella versione del 1930, secondo il quale la disciplina della successione di
leggi penali contenuta nei precedenti commi dello stesso articolo doveva applicarsi altresì nei casi di
decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge. L’assimilazione di queste ipotesi alla successione di
leggi penali da parte del legislatore del 1930 traeva origine dalla disciplina del decreto legge in vigore prima
della costituzione: il decreto legge decaduto o non ratificato perdeva efficacia ex nunc, cioè solo allo
scadere del termine per la conversione. La situazione è mutata con l’entrata in vigore della costituzione.
L’art 77 comma 3 disponendo che i decreti legge non convertiti perdano efficacia sin dall’inizio, impedisce
che si possa delineare in questa ipotesi una successione di leggi penali. Muovendo da questo principio, la
corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art 2 c.p., nella parte
in cui rendeva applicabile ai decreti legge decaduti o non convertiti o convertiti con emendamenti l’intera
disciplina della successione di leggi penali favorevoli al reo. Cosi facendo la corte costituzionale ha voluto
evitare che il governo, ricorrendo a decreti legge destinati alla non conversione, mirasse a sottrarre in tutto
o in parte alla responsabilità penale chi avesse precedentemente commesso uno o più reati. Per
comprendere la portata dell’intervento della corte costituzionale, è peraltro necessario distinguere a
seconda che si tratti di fatti commessi prima dell’emanazione del decreto legge non convertito (c.d. fatti
pregressi) ovvero di fatti commessi dopo l’emanazione del decreto e prima dello spirare del termine per la
sua conversione (c.d. fatti concomitanti). Quanto ai fatti pregressi, ove il fatto fosse preveduto come reato
dalla legge del tempo, l’abolizione del reato o la disciplina più favorevole prevista dal decreto legge non
convertito non avrà nessun effetto: l’agente sarà punibile in base alla legge in vigore al tempo del fatto.
Quanto ai fatti concomitanti, il principio di irretroattività impone di applicare la disciplina più favorevole
contenuta nel decreto legge non convertito, con la conseguenza che se il decreto legge non convertito
preveda l’abolizione del reato, l’agente non sarà punibile; se invece il decreto legge prevedeva una
disciplina in concreto più favorevole, il giudice dovrà applicare tale disciplina. Questa soluzione è imposta
dal principio di irretroattività: è vero infatti che per effetto della mancata conversione del decreto legge la
preesistente norma incriminatrice,, ovvero la preesistente disciplina meno favorevole, dovrà considerarsi
come legge formalmente vigente al momento del fatto, tuttavia quella legge non poteva essere conosciuta
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dall’agente, e quindi non poteva svolgere nei suoi confronti nessuna funzione di orientamento: la sua
applicazione sarebbe dunque contraria alla ratio del principio costituzionale di irretroattività.
12. la dichiarazione di illegittimità costituzionale
la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge penale non è riconducibile alla disciplina della
successione di leggi penali. Gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale sono regolati dall’art
136 cost. e dall’art 30 comma 3 l. 87/1953, dai quali si ricava che a partire dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione nessun giudice può applicare la legge dichiarata incostituzionale a fatti che si
siano verificati in qualsiasi tempo. Ne segue il divieto per il giudice dell’esecuzione di seguitare ad applicare
la legge penale dichiarata incostituzionale che sia stata alla base di una sentenza di condanna passata in
giudicato. Stabilisce infatti l’art 30 comma 4 l. 87/1953 che quando in applicazione della norma dichiarata
incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli
effetti penali. A norma dell’art 673 c.p.p., in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma
incriminatrice, il giudice dell’esecuzione deve revocare la sentenza di condanna o il decreto penale,
dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato. La giurisprudenza ha di recente precisato
l’ambito di applicazione della disciplina prevista dal suddetto articolo affermando che questa trova
applicazione non solo allorché venga dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice, ma
anche nell’ipotesi in cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale riguardi una circostanza aggravante o
disposizioni relative al trattamento sanzionatorio. In queste ipotesi la sentenza di condanna non può essere
revocata a norma del 673 c.p.p. (la dichiarazione di illegittimità costituzionale non ha infatti ad oggetto la
norma incriminatrice e non può dirsi che il fatto non è previsto dalla legge come reato; ciò non toglie che il
giudice dell’esecuzione debba rideterminare la pena inflitta in applicazione della disposizione dichiarata
illegittima. La giurisprudenza ha di recente precisato l’ambito di applicazione della disciplina prevista
dall’art 30 comma 4 l. 87/1953 affermando che questa trova applicazione non solo allorché venga
dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice, ma anche nell’ipotesi in cui la
dichiarazione di illegittimità costituzionale riguardi una circostanza aggravante o disposizioni relative al
trattamento sanzionatorio. In queste ipotesi la sentenza di condanna non può essere revocata a norma del
673 c.p.p.; ciò non toglie che il giudice dell’esecuzione debba rideterminare la pena inflitta in applicazione
della disposizione dichiarata illegittima. Quanto agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale
di una norma penale di favore bisogna operare una distinzione. Se si tratta di fatti commessi prima della
dichiarazione di illegittimità andrà applicata la norma penale di favore e quindi l’agente dovrà essere
prosciolto o dovrà essere punito meno severamente: il principio di irretroattività si oppone all’applicazione
della disciplina più sfavorevole risultante dalla pronuncia della corte costituzionale, in quanto al momento
del fatto quella disciplina non poteva essere conosciuta dall’agente e quindi non poteva svolgere nei suoi
confronti alcuna funzione di orientamento.
13. il tempo del commesso reato
problema comune all’intera disciplina della successione di leggi penali è l’individuazione del tempo in cui è
stato commesso il fatto: il problema si pone infatti sia ai fini dell’applicazione retroattiva delle norme che
aboliscono un reato, sia ai fini dell’individuazione della legge applicabile in caso di successione di norme
modificative della disciplina, ma risulta particolarmente acuto nell’ipotesi di una nuova incriminazione o del
trattamento penale più severo di un fatto già preveduto dalla legge come reato. In assenza di disposizione
legislativa che affronti espressamente questo problema, la soluzione più persuasiva sembra quella che
individua il tempo del commesso reato per i reati commissivi nel momento dell’azione o dell’ultima azione
prevista dalla norma incriminatrice, peri reati omissivi nel momento in cui andava compiuta l’azione
doverosa (teoria della condotta). Questa soluzione discende dalla funzione generalpreventiva delle norme
incriminatrici: è infatti nel momento in cui agisce che l’agente si sottrae all’azione motivante o deterrente
della norma incriminatrice. La legge invece non può più orientare il comportamento del suo destinatario
quando, esaurita l’azione o l’omissione, si verifica, magari dopo un lungo intervallo temporale, l’evento
richiesto dalla norma incriminatrice: per questa ragione va respinta la c.d. teoria dell’evento, che fa
riferimento all’evento per individuare il tempo del commesso reato. Nei reati permanenti, come il
sequestro di persona, il reato si considera commesso nel momento in cui il soggetto compie l’ultimo atto
con cui volontariamente mantiene la situazione antigiuridica. Ne segue che se durante un sequestro di

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persona il legislatore inasprisse il trattamento sanzionatorio di tale reato e gli autori del sequestro, sordi
all’imperativo del legislatore, continuassero volontariamente il sequestro, sarebbe applicabile la legge più
severa in quanto legge del tempo del commesso reato. Alla stessa conclusione si deve pervenire per i reati
abituali, come i maltrattamenti contro familiari o gli atti persecutori: il tempo del commesso reato è quello
in cui si realizza l’ultima condotta che integra il fatto di reato: pertanto si applicherà all’agente l’eventuale
trattamento sanzionatorio più severo previsto da una legge che sia entrata in vigore durante la serie di atti
di maltrattamento.
LIMITI SPAZIALI
14. la tendenziale universalità della legge penale italiana
principio di universalità: la legge penale italiana è applicabile a tutti i fatti da essa previsti come reato
dovunque, da chiunque e contro chiunque commessi, ad eccezione di una ristretta gamma di reati, per lo
più di limitata gravità: la contravvenzioni; i delitti puniti con la sola pena pecuniaria; i delitti commessi dallo
straniero ai danni dello stato italiano o del cittadino puniti con la reclusione fino a un anno; i delitti
commessi dallo straniero ai danni di uno stato estero o di un altro straniero puniti con la reclusione
inferiore nel minimo di tre anni.
15. la nozione di territorio dello stato
la legge penale italiana si appicca innanzitutto ai reati commessi nel territorio dello stato ed è indifferente
che l’autore del reato sia un cittadino o uno straniero. Chiunque commette un reato nel territorio dello
stato è punito secondo la legge italiana. La nozione di territorio dello stato è fornita dal art 4 comma 2 c.p. il
quale stabilisce che agli effetti della legge penale, è territorio dello stato il territorio della repubblica
individuato dai confini politici, desunti da convenzioni internazionali, trattati, atti di annessione e ogni altro
luogo soggetto alla sovranità dello stato. Appartengono dunque al territorio dello stato il suolo dello stato,
le acque interne e il lido del mare. Il territorio dello stato comprende poi il sottosuolo, nei limiti della sua
concreta utilizzabilità, e lo spazio aereo nazionale, e il mare territoriale che si estende fino a 12 miglia
marine dalle coste continentali e insulari della repubblica. Sono considerati inoltre territorio dello stato le
navi e gli aeromobili italiani, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti ad una legge territoriale straniera.
16. i reati commessi nel territorio dello stato
ci si chiede quando il reato si considera nel territorio dello stato. La risposta viene dal legislatore che con
l’art 6 comma 2 accoglie la teoria dell’ubiquità, chiarisce che il reato si considera commesso nel territorio
dello stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è
verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione o omissione. Questa disciplina è volta ad estendere
l’applicabilità della legge italiana a fatti che non sono stati realizzati in tutti i loro elementi nel terrirono
dello stato: basta che un frammento del reato si sia verificato in Italia per attrarre l’intero reato sotto la
disciplina della legge penale italiana. Si tratta a questo punto di precisare quando l’azione o omissione sia
stata realizzata almeno in parte nel territorio dello stato. Quanto all’azione, il dettato della legge impone
che si tenga conto soltanto di comportamenti tipici, cioè di comportamenti che siano riconducibili al tipo di
azione descritto nella norma incriminatrice. Nessuna difficoltà sembra porre l’individuazione dell’azione
tipica nei reati a forma vincolata, cioè nei reati nei quali la legge esige che l’azione sia compiuta con
determinate modalità: tipica è l’azione che corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto
nella norma incriminatrice. Quanto ai reati a forma libera, cioè nei quali la legge attribuisce rilevanza a
qualsiasi comportamento umano che abbia causato un determinato evento, solo apparentemente l’azione
tipica non è individuata dal legislatore. Nei reati dolosi a forma libera l’azione tipica si individua in funzione
del mezzo impiegato in concreto dall’agente: tipica è l’attività che consiste nell’uso del mezzo impiegato
dall’agente. Nei reati colposi a forma libera tipica sarà invece ogni azione che abbia colposamente creato il
pericolo concretizzatosi nell’evento. Quanto ai reati la cui condotta consiste in un omissione, il reato si
considererà commesso nel territorio dello stato se ivi doveva essere realizzata l’azione doverosa, che è
stata omessa; e nel caso in cui si dovessero compiere più azioni, se almeno una di tali azioni dovesse essere
compiuta nel territorio dello stato. Nei reati di evento, sia commissivi sia omissivi, la legge penale italiana
risulta applicabile quando nel territorio dello stato si sia verificato l’evento descritto nella norma
incriminatrice: e ciò anche nel caso in cui l’azione o l’omissione che rispettivamente l’hanno causato o non
impedito siano state compiute in territorio estero. Per quanto riguarda i reati abituali il reato si considera
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commesso nel territorio dello stato quando ivi è stato compiuto anche uno solo degli atti0 la cui
reiterazione integra il reato. Il codice penale italiano non detta nessuna regola per disciplinare i casi in cui il
reato venga commesso in territorio estero mentre in Italia siano compiute condotte di partecipazione,
materiale o morale: condotte cioè che abbiano contribuito casualmente alla realizzazione del fatto. Nel
silenzio della legge, prevale l’opinione che considera sufficiente a fondare l’applicazione della legge penale
italiana la commissione nel territorio dello stato di una qualsiasi condotta di partecipazione, ritenendola
parte integrante della fattispecie concorsuale.
17. i reati commessi all’estero punibili incondizionatamente secondo la legge italiana
la tendenziale universalità della legge penale italiana trova la sua massima manifestazione nei confronti di
una vasta gamma di reati commessi integralmente all’estero dal cittadino o dallo straniero, che offendono
beni di preminente rilievo, sia pubblici che pertinenti ai singoli: rispetto a questi reati l’applicazione della
legge penale italiana è di regola incondizionata nel senso che non è subordinata ad alcuna condizione di
procedibilità. La legge penale italiana è applicabile innanzitutto ai reati espressamente menzionati nell art 7
nn. 1-4 c.p.: si tratta di reati che offendono preminenti interessi dello stato, quali i delitti contro la
personalità dello stato italiana, i delitti di contraffazione del sigillo dello stato e di uso di tale sigillo
contraffatto, i delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello stato o in valori di bollo o in
carte di pubblico credito italiano, nonché i delitti commessi dai pubblici ufficiali a servizio dello stato, con
abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alle loro funzioni. A questo elenco l’art 7 n. 5 aggiunge che
ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge stabiliscono l’applicabilità della legge penale
italiana. Con tale formula il legislatore evoca un numero indeterminato di ipotesi di reato, la cui norma
incriminatrice contenga l’espressa previsione dell’applicabilità della legge penale italiana, anche quando il
fatto venga commesso in territorio estero. In base all art 7 n.5 soggiace infine alla legge penale italiana,
ancorché commesso all’estero, ogni reato per il quale speciali convenzioni internazionali stabiliscono
l’applicabilità della legge penale italiana. È il caso dei delitti in materia di schiavitù, di prostituzione, di
dirottamento aereo, di cattura di ostaggi, di tortura, di pene e di trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
18. i delitti politici commessi all’estero
il legislatore del 1930 ha stabilito che la legge penale italiana è applicabile ai delitti politici commessi
all’estero dal cittadino o dallo straniero ai danni di un interesse politico dello stato italiano o di un diritto
politico di un cittadino italiano. L’applicabilità della legge italiana non è però in questo caso incondizionata:
è subordinata a una scelta di opportunità da parte del potere esecutivo, nella forma della richiesta del
ministro della giustizia. La nozione di delitto politico, comprensiva sia del delitto oggettivamente politico, sia
di quello soggettivamente politico è fornita dal terzo comma dell’art 8 c.p.: agli effetti della legge penale, è
delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello stato, ovvero un diritto politico del
cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi
politici. Delitto oggettivamente politico è quello che offende le componenti essenziali dello stato: la sua
indipendenza e sicurezza, l’integrità territoriale, la forma di governo; anche se, a ben vedere, tali delitti
sono in gran parte ricompresi tra i delitti contro la personalità interna o internazionale dello stato, che
trovano la loro disciplina nell art 7 n.1 c.p. e risultano pertanto perseguibili anche senza la richiesta del
ministro della giustizia. In secondo luogo, sono oggettivamente politici i delitti che offendono un diritto
politico del cittadino, in quanto non ricompresi nel titolo del codice penale relativo ai delitti contro la
personalità dello stato: sono dunque riconducibili alla previsione dell’art 8 c.p. alcune ipotesi di reato
previste dalle leggi elettorali, che offendono lo specifico diritto politico al voto. non sono invece
oggettivamente politici i delitti che offendono il funzionamento degli apparati dello stato, come la pubblica
amministrazione o l’amministrazione della giustizia: non rientrano dunque nella previsione dell’art 8 c.p.
delitti come la corruzione, la concussione, la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o
giudiziario, la calunnia, la falsa testimonianza… quanto al delitto soggettivamente politico, si tratta di ipotesi
di reato comune alla cui commissione l’agente è stato ideologicamente motivato dall’obiettivo di incidere
sulle componenti essenziali dello stato, sulla struttura dei singoli poteri statuali o sui rapporti tra stato e
cittadino. Per espressa indicazione legislativa, politico è anche un delitto comune determinato solo in parte
da motivi politici.

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19. i delitti comuni commessi all’estero dal cittadino
l’art 9 c.p., in applicazione del principio di universalità, dispone l’assoggettamento alla legge penale italiana
dei delitti comuni puniti con pena detentiva commessi dal cittadino all’estero; ne sottopone peraltro la
perseguibilità a una serie di condizioni, graduate secondo la gravità del reato, prevedendo altresì un regime
particolare quando il reato sia commesso a danno delle comunità europee, di uno stato estero o di un altro
straniero. In particolare, quando si tratta di un delitto punito con l’ergastolo o con la reclusione non
inferiore nel minimo a tre anni, l’applicabilità della legge penale italiana è subordinata alla condizione che il
cittadino, dopo la commissione del reato, sia presente nel territorio dello stato. Per i delitti puniti con la
reclusione nel minimo a tre anni, la legge penale italiana è applicabile a condizione che, trattandosi di delitti
perseguibili a querela della persona offesa, sia stata proposta la querela; se si tratta di delitti perseguibili
d’ufficio che offendono un bene giuridico individuale pertinente a un cittadino italiano, deve essere stata
proposta istanza di procedimento da parte della persona offesa, ovvero, in caso di inerzia della parte, deve
essere avanzata richiesta dal ministro della giustizia; se poi si tratta di delitti perseguibili d’ufficio che
offendono beni collettivi, istituzionali o diffusi, la perseguibilità è subordinata alla richiesta del ministro
della giustizia. Se il reato commesso all’estero dal cittadino è un delitto che offende un bene pertinente alle
comunità europee, a uno stato estero ovvero a un cittadino straniero, l’applicabilità della legge penale
italiana è subordinata: alla presenza del cittadino nel territorio dello stato; alla querela o all’istanza della
persona fisica; alla richiesta del ministro della giustizia; alla non concessione da parte del governo italiano
all’estradizione del cittadino ovvero alla non accettazione dell’estradizione del cittadino da parte del
governo dello stato estero. Pur in assenza di un espressa indicazione legislativa, deve ritenersi che
l’assoggettamento alla legge penale italiana di reati comuni commessi all’estero dal cittadino sia sottoposto
all’ulteriore condizione della doppia incriminazione del fatto, cioè alla previsione del fatto come reato sia
secondo la legge italiana, sia secondo la legge dello stato straniero nel quale è stato commesso il reato.
20. i delitti comuni commessi all’estero dallo straniero
la massima espansione del principio di universalità della legge penale italiana si realizza con la previsione
dell’art 10 c.p. che assoggetta alla legge penale italiana i delitti comuni commessi dallo straniero all’estero,
entro limiti e sotto condizioni diverse a seconda che il delitto offenda lo stato o un cittadino italiano, ovvero
le comunità europee, uno stato estero o uno straniero. L’applicabilità della legge penale italiana per i delitti
comuni dello straniero commessi all’estero a danno dello stato o del cittadino italiano abbraccia tutti i
delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno. L’esercizio dell’azione penale è peraltro
subordinato alle seguenti condizioni: la presenza dell’agente nel territorio dello stato; la proposizione della
querela, se si tratta di delitti perseguibili a querela della persona offesa; se invece si tratta di delitti
perseguibili d’ufficio che offendono un bene individuale pertinente a un cittadino italiano, deve essere stata
proposta istanza di procedimento ad opera della persona offesa, ovvero, in caso di inerzia della parte,
richiesta dal ministro della giustizia; se si tratta di delitti perseguibili d’ufficio a danno dello stato italiano, la
perseguibilità è subordinata alla richiesta del ministro della giustizia. Relativamente più ristretto è l’ambito
di applicabilità della legge penale italiana ai delitti comuni dello straniero commessi all’estero a danno delle
comunità europee, di uno stato estero o di uno straniero: deve trattarsi di delitti puniti con la reclusione
non inferiore nel minimo a tre anni. Sono sempre necessarie: la presenza dell’agente nel territorio dello
stato; la richiesta del ministro della giustizia; la non concessione, da parte del governo italiano,
dell’estradizione dello straniero ovvero la non accettazione dell’estradizione da parte del governo dello
stato estero. Per tutti i delitti comuni commessi all’estero dallo straniero, l’applicabilità della legge penale
italiana è subordinata all’ulteriore condizione della doppia incriminazione del fatto.
21. il rinnovamento del giudizio
un corollario della tendenziale universalità della legge penale italiana è la riserva della giurisdizione italiana
su tutti i fatti assoggettati alla nostra legislazione penale ai sensi degli artt. 6-10 c.p. la riserva di
giurisdizione è piena e incondizionata per i reati commessi nel territorio dello stato: dispone infatti l’art 11
comma 1 c.p. che nel caso indicato nell’art. 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello stato, anche se sia
stato giudicato all’estero. Per i delitti, sia politici che comuni, commessi all’estero dal cittadino o dallo
straniero, il rinnovamento del giudizio in Italia è invece subordinato alla richiesta del ministro della giustizia.
Secondo il codice penale del 1930, il principio ne bis in idem, che vieta di giudicare due volte una persona
per lo stesso fatto, non opera nei rapporti internazionali: con la conseguenza che una persona già giudicata
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all’estero può essere giudicata per lo stesso fatto anche in Italia. Attualmente peraltro il processo di
integrazione europea, i cui effetti si vedranno anche a proposito di altri istituti, determina la tendenza al
riconoscimento del ne bis in idem all’interno dell’UE: gli stati membri si sono impegnati a non rinnovare il
giudizio quando lo stesso fatto sia stato giudicato in un altro paese dell’UE. Nessuno può essere perseguito
o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’unione a seguito di una
sentenza penale definitiva conformemente alla legge.
22. il riconoscimento delle sentenze penali straniere
nella visione del codice del 1930 la riserva di giurisdizione si manifesta anche nella tendenziale irrilevanza
delle sentenze penali straniere, che sono ineseguibili in Italia in ordine alla pena principale inflitta dal
giudice dello stato estero. La possibilità di riconoscimento è circoscritta a taluni aspetti secondari della
sentenza: per stabilire la recidiva o un effetto penale della condanna, per dichiarare l’abitualità, la
professionalità nel reato o la tendenza a delinquere; per applicare una pena accessoria; per applicare una
misura di sicurezza personale. Oltre a questi effetti di natura penale, il riconoscimento della sentenza
straniera può produrre taluni effetti di diritto civile. In primo luogo il riconoscimento può essere operato ai
fini delle restrizioni o del risarcimento del danno. Inoltre la sentenza penale straniera può essere
riconosciuta ad altri effetti civili: si pensi all’esclusione della successione per indegnità, che potrà essere
dichiarata dal giudice italiano, ad esempio, nel caso in cui una sentenza straniera abbia accertato che la
persona legittimata a succedere si è resa responsabile dell’omicidio di colui0 del quale dovrebbe essere
erede. I paesi membri del consiglio d’Europa hanno stipulato una serie di convenzioni finalizzate alla lotta
alla criminalità, che hanno ampliato la portata del riconoscimento delle sentenze penali straniere. In primo
luogo può essere data esecuzione in Italia alle pene principali inflitte da un giudice straniero; inoltre
l’esecuzione della pena principale, iniziata all’estero, può perseguire in Italia a seguito del trasferimento
della persona condannata. In secondo luogo, le sentenze penali straniere possono essere riconosciute
anche ai fini della confisca disposta dal giudice straniero su beni che si trovino nel territorio dello stato,
sempre che si tratti di beni che sarebbero confiscabili se si procedesse secondo la legge italiana. Inoltre p
confiscabile il valore dei proventi del reato, cioè una somma di denaro corrispondente al valore del prezzo,
del prodotto o del profitto del reato. Il sistema penale italiano pone una serie di condizioni perché si possa
procedere al riconoscimenti di una sentenza penale straniera. Condizione prioritaria è la doppia
incriminazione del fatto: il fatto deve cioè essere previsto come reato non solo dalla legge straniera, ma
anche dalla legge italiana. Agli effetti del riconoscimento previsto dall’art 12 c.p., non basta peraltro che la
legge italiana preveda quel fatto come reato, ma occorre che lo preveda come delitto: peraltro, quale che
sia la qualificazione del reato nell’ordinamento straniero, non è necessario che il reato riceva identico o
analogo trattamento sanzionatorio nell’ordinamento italiano e in quello straniero. Sempre ai fini del
riconoscimento di cui all’art. 12 c.p., deve esistere un trattato di estradizione con lo stato estero, anche se
non è necessario che il delitto rientri tra quelli per i quali è prevista l’estradizione; in mancanza di un
trattato di estradizione, si può procedere al riconoscimento della sentenza straniera sulla base della
richiesta del ministro della giustizia.
23. l’estradizione
la più antica e la più vitale forma di cooperazione internazionale nella lotta alla criminalità, disciplinata non
solo dal diritto interno italiano, ma anche da numerose convenzioni internazionali, bilaterali o multilaterali,
consiste nell’estradizione: con questo nome si designa un procedimento attraverso il quale uno stato
consegna ad altro stato una persona che si trova nel suo territorio affinché, nello stato richiedente, sia
sottoposto a giudizio (estradizione processuale) o all’esecuzione di una pena già inflittagli (estradizione
esecutiva). Si parla inoltre di estradizione attiva e di estradizione passiva, a seconda che si guardi
all’estradizione dal punti di vista dello stato che richiede l’estradizione o dello stato che la concede. L’art 13
c.p. si limita ad enumerare le fonti che regolano l’estradizione, individuandole nella legge penale italiana,
nelle convenzioni e negli usi internazionali. A norma del art 696 c.p.p. prevalgono peraltro le norme delle
convenzioni internazionali in vigore per lo stato italiano e le norme di diritto internazionale generale: ciò
comporta che le norme di diritto internazionale successivamente, anche emanate successivamente, ove
dettino una disciplina diversa. Al diritto interno compete pertanto un ruolo solo residuale, limitato cioè alle
ipotesi in cui manchino norme di diritto internazionale. Limiti invalicabili sono posti dal diritto italiano con
norme di rango costituzionale del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista
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dalle convenzioni internazionali, ovvero, come stabilisce l’art 14 comma 4 c.p., non è ammessa
l’estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali.
Condizione per l’estradizione, espressamente enunciata nell’art 13 comma 2 c.p., è la doppia
incriminazione del fatto: è necessario cioè che il fatto concreto oggetto della domanda di estradizione
integri un reato sia secondo la legge italiana, sia secondo la legge dello stato estero. Il principio della doppia
incriminazione riguarda non i rapporti tra figura astratte di reato, bensì la riconducibilità del fatto concreto
sia sotto una norma incriminatrice prevista dalla legge straniera, sia sotto una norma incriminatrice prevista
da una legge italiana: è irrilevante che il fatto abbia una diversa qualificazione giuridica nei due
ordinamenti, ovvero che sia punito con pene diverse. È invece rilevante, ai fini della concedibilità
dell’estradizione, la circostanza che nell’ordinamento dello stato richiesto il reato sia sottoposto a
condizioni di procedibilità non previste nello stato richiedente: le condizioni di procedibilità decidono infatti
non già della opportunità di infliggere una pena, bensì della opportunità di instaurare un procedimento
diretto ad accertare la responsabilità penale. Cosi è irrilevante la mancata presentazione della querela in
Italia per un reato che nello stato richiedente è perseguibile d’ufficio. Un ulteriore condizione per
l’estradizione, sia attiva che passiva, è fissata dal principio di semplicità dell’estradizione, questo principio
comporta il divieto per lo stato che ottiene l’estradizione di sottoporre l’estradato a restrizione della libertà
personale a qualsiasi titolo per fatti anteriori e diversi da quello o per il quale l’estradizione è stata
concessa, e comporta inoltre il divieto di consegnare l’estradato ad un altro stato. Il divieto di sottoporre
l’estradato a restrizione della libertà personale per fatti anteriori e diversi da quello cui si riferisce
l’estradizione viene meno in 4 casi: quando lo stato richiedente abbia domandato e ottenuto una
estradizione suppletiva; quando l’estradato si sia volontariamente trattenuto nel territorio dello stato che
ha ottenuto l’estradizione per almeno 45 giorni dalla sua definitiva liberazione; quando l’estradato, dopo
aver lasciato il territorio dello stato al quale era stato consegnato, vi abbia fatto volontariamente ritorno;
quando l’estradato abbia manifestato il consenso ad essere processato per un reato anteriore e diverso da
quello per il quale è stata concessa l’estradizione. La materia dell’estradizione è infine governata dai
principi di sussidiarietà e del ne bis in idem. In base al primo principio, l’estradizione non può essere
concessa se per lo stesso fatto e nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione è in
corso un procedimento penale nello stato italiano. In base al principio del ne bis in idem, l’estradizione è
altresì impedita quando per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata in Italia
sentenza irrevocabile (di condanna o proscioglimento). In giurisprudenza si precisa, a tale proposito, che
rivela la identità sostanziale dei fatti oggetto dei relativi procedimenti, indipendentemente dall’eventuale
diversa qualificazione giuridica attribuita all’episodio dalle autorità dello stato richiedente e di quello
richiesto. La costituzione vieta prevede alcuni limiti personali all’estradizione. Come si è anticipato, il
cittadino è estradabile per reati comuni soltanto ove l’estradizione sia espressamente prevista nelle
convenzioni internazionali. La costituzione vieta altresì l’estradizione del cittadino e dello straniero per reati
politici. La portata del divieto costituzionale, ribadito dall’art 698 c.p.p. è controversa e le proposte
interpretative sul punto spesso sono espressione dell’esigenza di evitare che il divieto di estradizione per
reati politici si traduca in un’indiscriminata salvaguardia di soggetti politicamente motivati: un’esigenza
peraltro oggi soddisfatta da alcune norme di rango costituzionale o attuative di convenzioni internazionali,
che consentono eccezionalmente l’estradizione per alcuni reati commessi per motivi politici. Un ulteriore
divieto di estradizione interessa sia i reati politici, sia i reati comuni, e opera allorché vi sia motivo di temere
atti persecutori o discriminatori, ovvero la violazione di un diritto fondamentale della persona. Il codice di
procedura penale del 1988, all’art 698, dopo aver ribadito il divieto di estradizione per reati politici, ha
inoltre disposto che non può essere concessa l’estradizione quando vi è ragione di ritenere che l’imputato o
il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di
sesso… Il divieto di estradizione per i casi in cui esista un rischio serio che l’interessato sia sottoposto alla
tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti è ribadito nell’art 19 comma 2 della carta dei
diritti fondamentali UE. Nello stesso senso si esprime d’altra parte la corte europea dei diritti dell’uomo,
che sulla base dell’art 3 CEDU riconosce a ogni uomo il diritto a non essere estradato o espulso in uno stato
dove sarebbe esposto a un rischio reale di essere sottoposto alla tortura o ad altri trattamenti o pene
inumani o degradanti. Si tratta peraltro di un diritto assoluto, non bilanciabile con alcun interesse
eventualmente confliggente, come la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. È infine

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senz’altro vietata l’estradizione da parte dell’Italia per reati per i quali l’ordinamento dello stato richiedente
preveda la pena di morte: il divieto opera sia nelle ipotesi in cui l’estradando dovrebbe essere giudicato
nello stato estero, sia nelle ipotesi in cui dovrebbe essere eseguita nei suoi confronti la pena di morte già
precedentemente inflitta, a nulla rilevando che lo stato estero fornisca assicurazioni che la pena di morte
non sarà inflitta, o se già inflitta, non sarà eseguita.
24. il mandato d’arresto europeo
nell’ambito dell’unione europea, lo strumento della cooperazione interstatuale per la consegna delle
persone imputata o condannate non è più quello dell’estradizione, ma è diventato quello del mandato
d’arresto europeo. La nuova disciplina è espressione del principio della libera circolazione delle decisioni
giudiziarie in materia penale: in ossequio a tale principio, ogni stato membro dell’UE si impegna a dare
esecuzione ad un provvedimento giudiziario emesso da un altro stato membro per l’arresto o la consegna
di una persona ricercata ai fini dell’esercizio dell’azione penale ovvero ai fini dell’esecuzione di una pena o
misura di sicurezza privativa della libertà personale. Quali tratti salienti della nuova disciplina, si segnalano:
la collaborazione diretta tra le autorità dei paesi dell’UE; l’eliminazione del requisito della doppia
incriminazione, con riferimento ad una lista di 32 categorie di reati di gravità medio alta, che la legge
italiana ha ridefinito in modo più preciso. La consegna della persona nei cui confronti è stato emesso un
mandato d’arresto europeo viene rifiutata in una serie di casi previsti dall’art 18 l.69/2005 che ricalca la
disciplina dell’estradizione: tra questi spicca il caso in cui il provvedimento sia stato emesso per un reato
politico. Tuttavia la consegna non può essere rifiutata quando si tratti di delitti di genocidio oppure di
terrorismo. Un ulteriore ipotesi di rifiuto della consegna del destinatario di un mandato d’arresto europeo è
poi informata al principio del ne bis in idem. L’autorità italiana competente deve rifiutare la consegna se
risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza irrevocabile per lo stesso fatto da uno degli
stati membri dell’UE purché, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita ovvero sia in corso di
esecuzione, ovvero non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello stato membro che ha
pronunciato la condanna. In giurisprudenza di è ribadito in proposito un principio che trova affermazione
anche rispetto al ne bis in idem in materia di estradizione e cioè che occorre avere riguardo al criterio della
identità sostanziale dei fatti oggetto dei relativi procedimenti, indipendentemente dall’eventuale diversa
qualificazione giuridica attribuita all’episodio dalle autorità dello stato richiedente e di quello richiesto.
LIMITI PERSONALI
25. le eccezioni all’obbligatorietà della legge penale italiana
il codice penale prevede la possibilità che talune categorie di soggetti siano eccezionalmente sottratte
all’applicabilità della legge penale italiana. L’art 3 comma 1 c.p. stabilisce infatti che la legge penale italiana
obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello stato, salve le eccezioni stabilite
dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Tali eccezioni vengono designate dalla dottrina
come immunità. Si distingue fra immunità di diritto sostanziale e immunità di diritto processuale a seconda
che comportino l’inapplicabilità della sanzione penale ovvero l’esenzione dalla giurisdizione penale. Si
distingue altresì tra immunità funzionali e extra funzionali, a seconda che riguardino i soli fatti compiuti
nell’esercizio della specifica funzione da cui deriva l’immunità ovvero fatti estranei all’esercizio di quella
funzione.
26. le immunità di diritto pubblico interno
tra le immunità di diritto pubblico interno, viene innanzitutto in considerazione quella di cui gode il
presidente della repubblica, l’art 90 cost. dispone infatti che il presidente della repubblica non è
responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per
attentato alla costituzione. Si tratta di un immunità funzionale di diritto sostanziale che ha natura di causa
di giustificazione: rende leciti tutti i fatti compiuti dal presidente della repubblica nell’esercizio delle sue
funzioni. Questa immunità non è assoluta perché il presidente può rispondere di alto tradimento e
attentato alla costituzione, per i quali giudice competente è la corte costituzionale. Il reato di attentato alla
costituzione è quello previsto nell’art 283 c.p. cioè la commissione con atti violenti di un fatto diretto e
idoneo a mutare la costituzione dello stato o la forma di governo; sotto il nome di alto tradimento vanno
ricompresi i delitti contro la personalità dello stato (attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità
dello stato, attentato contro organi costituzionali) nonché ogni altro delitto contro la personalità dello stato
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che rappresenti il tradimento dei doveri di fedeltà alla repubblica assunti dal presidente all’atto
dell’insediamento nella carica. Nessuna immunità è invece prevista per i reati commessi prima
dell’assunzione della carica ovvero al di fuori dell’esercizio delle funzioni; di tali reati conosce l’autorità
giudiziaria ordinaria. Tra le immunità processuali si inquadra la disciplina dettata dall’art 96 cost., a
proposito dei reati commessi dal presidente del consiglio dei ministri o dai ministri nell’esercizio delle loro
funzioni (reati ministeriali) originariamente competente a conoscere dei reati ministeriali era la corte
costituzionale; dopo la riforma costituzionale del 1989, competente è invece la magistratura ordinaria. A
norma dell’art 96 cost., il giudizio sui reati ministeriali è subordinato all’autorizzazione a procedere da parte
della camera di appartenenza del ministro. L’autorizzazione a procedere può essere negata se la camera
competente, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, reputi che l’inquisito abbia agito per la tutela di
un interesse dello stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente
interesse pubblico nell’esercizio delle funzioni di governo. È appena il caso di sottolineare che la vaghezza
delle formule contenute nella norma ora citata e l’insindacabilità della valutazione in base alla quale la
camera di appartenenza nega l’autorizzazione a procedere aprono le porte ad una sostanziale garanzia di
impunità del membro del governo, coperto dallo scudo della maggioranza parlamentare. Per i membri del
parlamento la costituzione prevede un’immunità funzionale di diritto sostanziale circoscritta alle opinioni
espresse e ai voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Art 68 cost: i membri del parlamento non possono
essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta
di una causa di giustificazione, che rende leciti i fatti penalmente rilevanti commessi nell’ambito degli atti
tipici del mandato parlamentare, nonché nella divulgazione del contenuto di quegli atti. Anche la
giurisprudenza è unanime nel richiedere la sostanziale coincidenza tra le dichiarazioni extra moenia e gli atti
tipici della funzione parlamentare. La corte ha altresì sottolineato che non si può invocare l’immunità
prevista dall’art 68 comma 1 cost. quando le affermazioni offensive del parlamentare non siano contenute
in nessun atto a lui personalmente riconducibile, bensì ad atti compiuti da altri parlamentari, ancorché
appartenenti allo stesso gruppo. I parlamentari godono di una limitata immunità processuale penale: nei
loro confronti può essere iniziato un procedimento penale, ma il compimento di taluni atti processuali,
nonché l’adozione di misure restrittive della libertà personale necessitano dell’autorizzazione da parte della
camera di appartenenza. Il parlamentare può tuttavia essere privato della libertà personale in esecuzione di
una sentenza definitiva di condanna e nei casi di arresto obbligatorio in flagranza. Questa immunità
processuale riguarda non solo i fatti realizzati dal parlamentare nell’esercizio delle funzioni, ma tutti i
comportamenti del parlamentare, anche svincolati da qualsiasi nesso funzionale e anche precedenti
all’assunzione della carica, sia che si concretino in manifestazioni del pensiero sia che si concretino in
attività materiali: si tratta dunque di un’immunità extrafunzionale. La costituzione riconosce ai consiglieri
regionali una immunità di diritto sostanziale analoga per contenuti e effetti giuridici a quella dei
parlamentari. A differenza dei membri del parlamento, i consiglieri regionali non possono essere chiamati a
rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una causa di
giustificazione, che rende leciti i fatti penalmente rilevanti compiuti dal consigliere regionale nell’esercizio
della funzione legislativa, in quella di indirizzo politico o nell’attività di auto organizzazione del consiglio.
Anche i giudici della corte costituzionale fruiscono di un’immunità funzionale di diritto sostanziale per le
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; tale immunità ha natura di causa di
giustificazione e produce quindi l’effetto di escludere ogni forma di responsabilità. I giudici costituzionali
godono altresì di un’immunità processuale extra funzionale, di portata più ampia di quella attualmente
riconosciuta ai membri del parlamento: senza autorizzazione della corte costituzionale i giudici non solo
non possono essere privati della libertà personale, ma non possono neppure essere sottoposti a
procedimento penale. E l’improcedibilità comporta che non possano neppure essere disposte
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ne il sequestro di corrispondenza. L’art 32 l. 195/1958
dispone che i componenti del consiglio superiore della magistratura non sono punibili per le opinioni
espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione. Si tratta di un immunità
funzionale di diritto sostanziale, alla quale il legislatore ricollega effetti più circoscritti rispetto a quelli
propri delle immunità dei parlamentari, dei consiglieri regionali e dei giudici della corte costituzionale: i
membri del CSM vengono esonerati soltanto dalla responsabilità penale e non anche dalla responsabilità
civile e amministrativa. Siamo dunque in presenza non di una causa di giustificazione, ma di una causa di

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esclusione della punibilità. Un’immunità processuale temporanea per i reati comuni era prevista dal c.d.
lodo Alfano nei confronti del presidente del consiglio dei ministri, nonché del presidente della repubblica e
dei presidenti del senato e della camera dei deputati. Il lodo Alfano è stato dichiarato costituzionalmente
illegittimo.

27. le immunità di diritto internazionale


tra le immunità di diritto internazionale, un’immunità assoluta al sommo pontefice, la cui persona è definita
sacra e inviolabile nell’art 8 dei patti lateranensi. Il sommo pontefice gode pertanto di un’immunità di
diritto sostanziale anche per atti compiuti al di fuori delle funzioni, nonché di una piena immunità di diritto
processuale; tali immunità si estendono a tutti i rami dell’ordinamento. Agli effetti del diritto penale,
l’immunità ha natura di causa personale di esclusione della punibilità. Analoga immunità è riconosciuta
dall’art 11 dei patti lateranensi alle persone fisiche che operano in qualità di organi degli enti centrali della
chiesa cattolica, cioè gli enti della curia romana che svolgono attività con fini prevalenti di governo religioso
della chiesa. Anche il capo di stato estero, i suoi familiari e il suo seguito, quando si trovino in tempo di pace
in territorio italiano, godono di un immunità assoluta di diritto sostanziale e processuale, penale ed
extrapenale, che abbraccia anche gli atti compiuti al di fuori delle funzioni. Godono di una immunità di
diritto sostanziale sia agli effetti penali sia agli effetti extra-penali, quando si trovino nel territorio dello
stato italiano, i capi e i membri di governi stranieri, i componenti delle missioni speciali inviate in Italia da
uno stato estero e i rappresentanti di stati esteri in conferenze internazionali e in organizzazioni
intergovernative: tale immunità riguarda però i soli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. Gli agenti
diplomatici stranieri godono dell’immunità dalla giurisdizione penale, civile e amministrativa dello stato
italiano anche per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni; i membri del personale
tecnico e amministrativo della missione diplomatica sono esentati dalla giurisdizione penale dello stato
italiano, mentre l’esenzione dalla giurisdizione civile e amministrativa è circoscritta agli atti compiuti
nell’esercizio delle funzioni. I funzionari e gli impiegati consolari stranieri godono di una immunità
funzionale di diritto sostanziale, penale e extrapenale; sul terreno del diritto penale, l’immunità ha natura di
causa personale di non punibilità. Per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni i funzionari e gli
impiegati consolari non possono essere arrestati, ne assoggettati a custodia cautelare in carcere, a meno
che non si tratti di un crimine grave. La fonte di tutte queste immunità risiede nelle norme consuetudinarie
di diritto internazionale generalmente riconosciute ex art 10 cost. i membri del parlamento europeo
godono di un’immunità funzionale, penale e extrapenale, per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle
loro funzioni. Gli appartenenti alle forze armate di uno stato estero che in tempo di pace si trovino nel
territorio dello stato italiano sono soggetti alla sola legge dello stato di appartenenza, quando si tratti di
reati commessi in servizio. Una disciplina speciale è prevista per gli appartenenti alle forze armare dei paesi
partecipanti alla NATO di stanza in Italia. La convenzione prevede la giurisdizione esclusiva dello stato di
origine per i fatti non punibili in base alla legge italiana e la corrispondente giurisdizione esclusiva dello
stato italiano per i fatti non punibili secondo la legge dello stato di origine. I restanti fatti, previsti come
reato sia dalla legge italiana sia dalla legge dello stato di appartenenza del militare, sono sottoposti alla
giurisdizione concorrente di entrambi gli stati, con attribuzione di sfere di giurisdizione prioritarie a
ciascuno di essi, modificabili a seguito di rinuncia alla prioritaria per i reati che attentano esclusivamente
alla sicurezza di quello stato, per i reati che offendono esclusivamente la persona o la proprietà di un
membro delle forze armate dello stato di appartenenza, del personale civile, del loro coniuge o dei figli a
carico, nonché per i reati risultanti da ogni atto o negligenza compiuti nell’esercizio del servizio. La sentenza
definitiva, di assoluzione o di condanna pronunciata dallo stato di appartenenza preclude il giudizio per i
medesimi fatti da parte dello stato italiano. Per ogni altro reato commesso nel territorio italiano è
prioritaria la giurisdizione del nostro stato. Sia lo stato estero, sia lo stato italiano possono rinunciare, a
seconda dei casi, alla loro priorità giurisdizionale.
28. il diritto penale internazionale ?????????

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CAPITOLO 4 NOZIONE DI REATO E DISTINZIONE TRA DELITTI E CONTRAVVENZIONI
Reato, Delitti e Contravvenzioni: reato: solo un fatto cui la legge ricollega una pena principale (criterio
nominalistico). Come si desume dall’art 17 c.p. se la pena principale è ergastolo, reclusione, multa o
reclusione militare parliamo di delitto; se la pena principale è arresto o ammenda parliamo di
contravvenzione. Delitto: elemento soggettivo: dolo, salvo espressa previsione della colpa; tentativo:
configurabile. Recidiva: applicabile. Custodia cautelare in carcere, intercettazioni telefoniche: ammesse per
delitti gravi. Contravvenzione: elemento soggettivo: dolo o colpa. Tentativo: non configurabile. Recidiva:
non applicabile. Custodia cautelare in carcere, intercettazioni telefoniche: non ammesse (eccezione:
disturbo e molestia per via telefonica) La qualità di reato non è immanente ad una data condotta umana,
ma è impressa dall’esterno, attraverso la minaccia legislativa di una sanzione penale. Pene principali:
ergastolo, reclusione, multa, arresto e ammenda / reclusione militare per i reati militari. Ulteriori pene
principali per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace: la permanenza domiciliare e il lavoro di
pubblica utilità (ma, essendo previste in alternativa alla multa o all’ammenda, non assolvono alla funzione
di identificazione dei reati).Art 39 c.p.: “I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa
specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice”. Ulteriori differenze di disciplina tra
delitti e contravvenzioni, sul terreno del diritto sostanziale: applicabilità della legge penale italiana quando il
reato sia commesso all’estero (prevista per i soli delitti); le pene principali (diversi sono i limiti massimi
previsti, in via generale, per le pene detentive: reclusione da 15 giorni a 24 anni, l’arresto da 5 giorni a 3
anni); cause di estinzione del reato (ad es l’oblazione estingue le sole contravvenzioni); le cause di
estinzione della pena (ad es la non menzione della condanna viene revocata se il condannato commette
successivamente un delitto, non una contravvenzione); le circostanze (alcune circostanze comuni,
aggravanti e attenuanti, sono configurabili solo per i delitti, ad es l’aggravante del danno patrimoniale di
rilevante gravità e l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità. Reato e illecito civile: quando un
fatto costituisce illecito civile, ma non è al contempo sanzionato con una delle pene principali: quel fatto
non costituisce reato ed è estraneo al diritto penale. Uno stesso fatto può costituire sia un reato che un
illecito civile: in tal caso l’area del danno risarcibile è estesa al danno non patrimoniale, e vi sono ricollegate
due sanzioni civili: il “risarcimento” e la “pubblicazione della sentenza di condanna”; ulteriore sanzione
civile da reato è quella delle “restituzioni”. L’azione civile può essere esercitata nel processo penale,
mediante costituzione di parte civile, dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi
successori. Reato e illecito amministrativo: sanzioni pecuniarie non designate come multa o ammenda
hanno natura di sanzione amministrativa. Depenalizzazione. La previsione di illeciti amministrativi è l’unica
via che può percorrere il legislatore regionale per la tutela sanzionatoria dei beni giuridici. Sottolineiamo il
fatto che lo schema della responsabilità amministrativa è stato di recente adottato dal legislatore per
configurare una responsabilità da reato a carico degli enti (dotati o meno di personalità giuridica).
La disciplina generale dell’illecito amministrativo, contenuta nella legge del 1981, abbraccia profili sia di
diritto sostanziale che processuale. 1) ampia mutuazione di principi penalistici ai fini di tutela preventiva di
beni giuridici assolta dalle sanzioni amministrative.  enunciazione dei principi di legalità e irretroattività;
disciplina capacità di intendere e volere; disciplina dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, del
concorso di persone, del concorso fra norme penali e norme sanzionatorie amministrative (si attua il
principio di specialità): in tutti questi casi la disciplina di riferimento è quella penalistica. 2) La sanzione
amministrativa (di fonte statale) viene irrogata, nella forma dell’ordinanza-ingiunzione, dall’ufficio
periferico del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in
mancanza, dal Prefetto. Contro lì ordinanza-ingiunzione, l’interessato può proporre opposizione davanti al
giudice di pace, ovvero davanti al tribunale (quando la violazione si riferisce ad alcune specifiche materie o
la sanzione pecuniaria sia sopra certe soglie). Quindi il giudice penale non è coinvolto. Questi conosce
dell’illecito amministrativo solo in caso di connessione obiettiva con un reato, cioè quando l’esistenza di un
reato dipenda dall’accertamento di un illecito amministrativo: in tal caso il giudice penale applicherà sia la
sanzione penale, che amministrativa pecuniaria, che le eventuali sanzioni amministrative accessorie (es
materia di circolazione stradale, carcere + revoca della patente).

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CAPITOLO 5 ANALISI E SISTEMATICA DEL REATO

Dopo aver constatato che il legislatore italiano ha quasi costantemente costruito le varie figure di reato
assegnando il primato all’oggettivo (al fatto) rispetto al soggettivo (all’autore), lo schema logico sistematico
meglio rispondente alla fisionomia che il reato, ogni reato, possiede nel nostro ordinamento risulta quello
della c.d. sistematica quadripartita del reato, ossia suddivisione del reato, ai fini della sua analisi in 4
elementi: fatto, antigiuridicità, colpevolezza, punibilità. Il reato risulta composto da una serie di elementi,
disposti nel seguente ordine logico: il reato è un fatto umano, antigiuridico, colpevole, punibile.
La Costituzione italiana ha disegnato un modello di reato che fa perno sul “fatto” (sull’offesa a beni
giuridici), assegnando invece alla colpevolezza (dolo, colpa, imputabilità ecc.) il ruolo, logicamente
successivo, di individuare le condizioni che consentono di rimproverare il fatto al suo autore.  art 25 co 2
cost: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”. Il fatto: l’insieme degli elementi oggettivi che individuano e caratterizzano ogni singolo reato
come specifica forma di offesa a uno o più beni giuridici. Elementi indefettibili del fatto sono: la condotta
(azione o omissione), l’offesa al bene giuridico (danno o pericolo). A seconda del tipo di reato descritto dalla
norma incriminatrice (ad esempio reato d0evento, reato proprio…) possono, altresì essere presenti i
seguenti elementi: i presupposti della condotta, l’oggetto materiale, l’evento, il rapporto di causalità tra
condotta ed evento, le qualità, le relazioni giuridiche o di fatto richieste per il soggetto attivo nei c.d. reati
propri (esempio qualità di pubblico ufficiale nel peculato).presupposti della condotta: situazioni, di fatto o
di diritto, che debbono preesistere o coesistere con la condotta (es lo stato di gravidanza nel “procurato
aborto senza il consenso della donna”). Evento: accadimento temporalmente o spazialmente separato dalla
condotta e da questa causati (es errore, profitto). Danno: lesione totale o parziale dell’integrità della
situazione tutelata dalla norma incriminatrice. Pericolo: la probabilità del verificarsi di una lesione.
Gli elementi costitutivi del fatto sono di regola espressamente previsti dalla norma incriminatrice; talora
sono invece sottintesi (la loro presenza è tacitamente richiesta dalla norma per la configurazione del fatto,
es il compimento di un atto di disposizione patrimoniale da parte della persona indotta in errore nella
“truffa”.) Nella grande maggioranza dei casi, gli elementi del fatto di reato sono individuati dal legislatore
come “elementi positivi” la cui presenza è necessaria per la sussistenza del fatto. Talora però la legge
richiede per l’esistenza del fatto l’assenza di una qualche situazione di fatto o giuridica: “elementi negativi”
(es: procurato aborto senza il consenso della donna). Per individuare gli elementi del fatto di reato, il
legislatore può far uso sia di “concetti descrittivi”, che “normativi”: 1) termini che fanno riferimento,
descrivendoli, a oggetti della realtà fisica o psichica suscettibili di essere accertati con i sensi o attraverso
l’esperienza (es termine “persona” nei delitti di omicidio). 2) concetto che fa riferimento ad una norma o ad
un insieme di norme giuridiche o extragiuridiche, indispensabili per comprendere l’elemento del reato (es
“matrimonio avente effetti civili” nel delitto di bigamia). Antigiuridicità: il rapporto di contraddizione tra il
fatto e l’ordinamento giuridico. il fatto è antigiuridico quando è commesso in assenza di una causa di
giustificazione, vale a dire in assenza di una norma ubicata in qualsiasi luogo dell’ordinamento che
facoltizza o rende doverosa la realizzazione del fatto. Colpevolezza: l’insieme dei criteri dai quali dipende la
possibilità di muovere alla gente un rimprovero per aver commesso il fatto giuridico. i requisiti su cui si
fonda e si gradua la rimproverabilità sono: il dolo, la colpa o il dolo misto a colpa, l’assenza di scusanti, cioè
la normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto, la conoscenza o almeno la
conoscibilità della legge penale violata, la capacità di intendere e di volere (imputabilità) Dolo:
rappresentazione e volizione di tutti gli estremi del fatto antigiuridico. Colpa: negligenza, imprudenza,
imperizia o inosservanza di norme giuridiche preventive. Dolo misto a colpa: rappresentazione e volizione
di taluni elementi del fatto e realizzazione per colpa di altri elementi (così nell’omicidio preterintenzionale
l’agente deve aver compiuto scientemente atti diretti a ledere un uomo, causandone per colpa la morte).
Scusanti: circostanze anormali tali, nella valutazione legislativa, da influenzare in modo irresistibile la
volontà dell’agente o le sue capacità psicofisiche e da rendere perciò inesigibile un comportamento diverso
da quello tenuto nel caso concreto (es falsa testimonianza per salvare un familiare). Punibilità: l’insieme
delle condizioni ulteriori ed esterne rispetto al fatto, antigiuridico e colpevole, che possono fondare o
escludere l’opportunità di punirlo. Fondano la punibilità le condizioni obiettive di punibilità (art 44 c.p.)

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escludono la punibilità le cause di esclusione della punibilità suddivisibili in: cause personali concomitanti
(rispetto alla commissione del fatto) di non punibilità; cause personali sopravvenute (rispetto alla
commissione del fatto)di non punibilità; cause oggettive di non punibilità (esempio tenuità del fatto); cause
di estinzione del reato (morte del reo, prescrizione del reato, amnistia propria) condizioni obiettive di
punibilità: accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che non contribuiscono a descrivere
l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine
all’inflizione della pena: es dichiarazione di fallimento nel reato di bancarotta. Talvolta il legislatore rimette
al giudice il compito di valutare l’opportunità di un’effettiva punizione del autore di un fatto antigiuridico e
colpevole: es oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative (arresto o ammenda). Carattere
vincolante della sistematica quadripartita: fondamento normativo nell’art 129 co 1 c.p.p.: impone il
proscioglimento in ogni stato e grado del processo quando il giudice riconosce che il fatto non sussiste
ovvero che il fatto non costituisce reato (alludendo alla presenza di cause di giustificazione, all’assenza dei
requisiti di colpevolezza, all’assenza di condizioni obiettive di punibilità ovvero alla presenza di cause di
esclusione della punibilità).

CAPITOLO 6 IL FATTO
SEZ. A IL FATTO NEI REATI COMMISSIVI
1.l’azione
al centro di ogni fatto commissivo penalmente rilevante compare, descritta da un verbo, un’azione umana.
Il diritto penale italiano reprime gli attacchi dell’uomo all’integrità dei beni giuridici e non la mera volontà di
offendere un bene che non si sia tradotta in una attività esteriore (cogitationis poenam nemo patitur).
L’unica nota concettuale dell’azione che accomuna tutti i reati commissivi è il carattere di attività esteriore:
per meglio individuare la fisionomia delle azioni penalmente rilevanti, è indispensabile esaminare ogni
singola norma incriminatrice. Reati a forma libera e reati a forma vincolata: vi sono due tecniche che il
legislatore usa per descrivere le azioni penalmente rilevanti può esigere che l’azione sia compiuta con una
determinata modalità e si parla in questo caso di reati a forma vincolata: l’azione concreta sarà rilevante
solo se corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto dalla norma incriminatrice. Oppure
il legislatore può attribuire rilevanza ad ogni comportamento umano che abbia causato, con qualsiasi
modalità, un determinato evento: si parla allora di reati a forma libera. In questi casi l’azione penalmente
rilevante si individuerà nei reati dolosi in funzione del mezzo impiegato dall’agente e nei reati colposi tipica
sarà qualsiasi azione che abbia colposamente creato il pericolo concretizzatosi nell’evento. Il ricorso all’una
o all’altra tecnica per individuare l’azione dipende in larga misura dall’importanza del bene giuridico la cui
aggressione è repressa penalmente. Beni di alto rango vengono tutelati da ogni lato attribuendo rilevanza
alla causazione pura e semplice dell’evento (es. tutela ai beni della vita e dell’integrità fisica, 575, 589 c.p.).
al contrario beni di minor rango vengono di regola protetti solo contro specifiche classi di comportamenti,
scelte dal legislatore per la lor particolare capacità offensiva o per la loro attitudine a rendere più
vulnerabile il bene giuridico tutelato (es. tutela per i beni del patrimonio 628, 629 c.p.). talora, configurando
un reato a forma vincolata. Il legislatore da rilievo al compimento non di una ma di più azioni che devono
essere realizzate secondo una determinata successione temporale. Reati di possesso e reati di sospetto: i
reati di possesso, per lo più presenti nella legislazione speciale, sono reati nei quali l’oggetto del divieto è il
possesso o la detenzione di questa o quella cosa. (453, 461. Detenzione monete false, filigrane etc.). in
questo caso è punito come fatto di reato un’azione consistente nel procurarsi o nel ricevere la cose o
qualora la cosa sia stata ricevuta dal soggetto inconsapevolmente, nell’esercitare sulla cosa un controllo
diretto a conservarne la disponibilità. Uno speciale sottogruppo dei reati di possesso è costituito dai c.c.
reati di sospetto, il cui carattere peculiare riguarda l’inserzione in una norma incriminatrice di un’anomala
regola di giudizio: l’onere della prova della destinazione o della provenienza lecita della cosa incombe
interamente sull’imputato, e in caso di dubbio si impone al giudice la sentenza di condanna (tutto in
contrasto con il principio di non colpevolezza e di assoluzione in caso di dubbio, art 27 cost). esempi di reati
di sospetto: possesso ingiustificato di chiavi o grimaldelli; confisca obbligatoria per una serie di reati
(peculato, usura, corruzione, ass. mafiosa…) di denaro, di beni o di altre utilità di valore sproporzionato al

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reddito, di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui risulta essere titolare o avere la
disponibilità a qualsiasi titolo.
2. i presupposti della condotta
in molte figure di reato la rilevanza penale di un fatto come specifica forma di offesa a un bene giuridico è
subordinata alla condizione che l’azione venga compiuta in presenza di determinate situazioni di fatto o
giuridiche, che devono preesistere all’azione o ne devono accompagnare l’esecuzione. Tali situazioni
vengono designate come presupposti della condotta. Talora in assenza di un dato presupposto non è
neppure possibile la realizzazione dell’azione tipica (se non c’è gravidanza non si può essere puniti per atti
interruttivi della gravidanza). Altre volta in assenza del presupposto l’azione è possibile ma lecita.
3.l’evento
spesso la norma incriminatrice richiede il verificarsi di un evento, cioè di un accadimento temporalmente e
spazialmente separato dall’azione e che da questa deve essere causato. L’evento è un elemento del fatto di
reato e il nome dell’evento spetta soltanto a quella conseguenza dell’azione che è espressamente o
tacitamente prevista dalla norma incriminatrice e non anche alle eventuali ulteriori conseguenze che la
norma non considera. L’evento può consistere tra l’altro in una modificazione della realtà fisica (malattia
del corpo o della mente, evento costitutivo della lesione personale dolosa e colposa); in una modificazione
della realtà psichica; in un alterazione della realtà economico giuridica; in un comportamento umano. La
nozione di evento, come accadimento che deve essere causato dall’azione è espressamente utilizzata dal
legislatore in una serie di previsioni normative di parte generale (art 40, 43 c.p.). accanto alla nozione di
evento appena descritta designata come evento naturalistico, parte della dottrina parla anche di evento
giuridico per alludere all’offesa (danno o pericolo) al bene tutelato dalla norma incriminatrice, che è
elemento costitutivo di tutti i fatti penalmente rilevanti. Questa nozione, in quanto sinonimo di offesa
risulta superflua.
4. il rapporto di causalità nei reati commissivi
quando tra gli estremi del fatto compare un evento, l’evento rileva se e in quanto sia stato causato
dell’azione: tra l’azione e l’evento deve sussistere un rapporto di causalità. Questo legame tra azione e
evento è espressamente richiesto dalla legge. L’art 40 c.p. dispone infatti che nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la
esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Il problema cruciale è che cosa sia
necessario per poter affermare che un dato evento è conseguenza di una data azione. Il legislatore italiano
a tal fine detta all’art 41 una serie di regole sotto la rubrica “concorso di cause”. Su questa normativa vi
sono state più interpretazioni della teoria della causalità. Le principali teorie della causalità possono cosi
compendiarsi: l’azione A è causa dell’evento B, se può dirsi che senza A, tenendo conto di tutte le
circostanza del caso concreto, l’evento B non si sarebbe verificato (teoria condizionalistica o della condicio
sine qua non); l’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione L’evento B non si sarebbe verificato
e inoltre l’evento B rappresenta una conseguenza prevedibile dell’azione A (teoria della causalità
adeguata); l’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione A l’evento B non si sarebbe verificato e
inoltre il verificarsi dell’evento B non è dovuto al concorso di fattori eccezionali (teoria della causalità
umana). Si farà cenno alla teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento che non è una teoria della causalità
ma si propone come correttivo della teoria condizionalistica.
4.2. teoria condizionalistica
questa concezione del rapporto di causalità rispecchia il senso comune: spesso nella vita quotidiana ci si
chiede cosa sarebbe avvenuto senza il compimento di una determinata azione. Sul terreno giuridico questa
concezione prende il nome di teoria condizoinalistica o della condicio sine qua non e muove dalla premessa
che ogni evento è la conseguenza di molti fattori causali che sono tutti egualmente necessari perché
l’evento si verifichi: giuridicamente rilevante come causa dell’evento è ogni azione che non può essere
eliminata mentalmente, cioè immaginata come non avvenuta, senza che l’evento concreto venga meno. Si
parla a questo proposito di procedimenti di eliminazione mentale ovvero di giudizio controfattuale. Basta
che l’azione di tizio sia uno degli antecedenti senza i quali l’evento non si sarebbe verificato perché
quell’azione possa considerarsi come causa dell’evento. Se tizio colpisce con uno schiaffo caio, che è affetto
da un grave vizio cardiaco e caio per lo spavento muore, sia lo schiaffo, sia lo spavento, sia la malattia di
cuore sono condizioni necessarie della morte ed è sufficiente che tizio abbia posto in essere una delle

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condizioni dell’evento morte perché la sua azione si consideri causa dell’evento concreto. Questa
concezione trova piena applicazione anche in due gruppi di casi discussi in dottrina. Un primo caso è quello
della causalità ipotetica. Sussiste il rapporto di causalità nel caso del medico che pratichi un iniezione
mortale a un malato terminale per alleviargli le sofferenze, dal momento che si tratta di una persona che
comunque sarebbe morta qualche tempo dopo? La risposta è affermativa perché l’evento che rappresenta
il punto di riferimento del rapporto di causalità non è l’evento astratto descritto dalla norma incriminatrice
bensì nell’evento concreto, cioè individuato attraverso tutte le modalità della sua verificazione comprese
anche le modalità spazio temporali. In secondo luogo il rapporto di causalità va accertato tenendo conto
del decorso causale effettivo e non di un decorso causale solo ipotetico. Un secondo caso è quella della c.d.
causalità addizionale. Sussiste il rapporto di causalità tra l’azione di tizio che ha somministrato a caio una
dose di veleno di per se sufficiente a uccidere e la morte di caio se anche Sempronio ha autonomamente
versato all’insaputa di tizio una dose mortale dello stesso veleno nella medesima bevanda assunta da caio?
Si potrebbe ritenere che nessuna delle due azioni giudicata singolarmente sarebbe causa dell’evento
morte. Questo paradosso si risolve se si tiene conto che il rapporto di causalità va accertato in relazione
all’evento concreto, descritto alla luce di tutte le sue modalità, tenendo conto anche della quantità di
veleno nel corpo della vittima. Secondo la teoria condizionalistica causa dell’evento è ogni azione che non
può essere eliminata mentalmente senza che l’evento concreto venga meno. Ma quando si può dire che
eliminando una determinata azione l’evento concreto non si sarebbe verificato? Tali risposte possono
essere desunte dalle leggi scientifiche cioè da enunciati che esprimono successioni regolari di accadimenti,
frutto dell’osservazione sistematica della realtà fisica o psichica. Il procedimento da seguire per
l’utilizzazione delle leggi scientifiche viene designato come sussunzione del caso concreto: la premessa
maggiore di questo procedimento è una legge scientifica che descrive la successione regolare tra la classe di
accadimenti a e la classe di accadimenti b. la teoria condizionalistica può dunque cosi essere formulata:
causa dell’evento è ogni azione che, tenendo conto di tutte le circostanze che si sono verificate, non può
essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche, senza che l’evento concreto venga meno.va
sottolineato che le leggi scientifiche utilizzabili dal giudice per la spiegazione causale dell’evento possono
essere o leggi universali o leggi statistiche si parla di leggi universali quando si tratta di enunciati che
asseriscono regolarità senza eccezioni nella successione di eventi. Le leggi statistiche invece affermano
regolarità in un gran numero di casi ma non in tutti i casi. Talvolta il giudice si trova di fronte a una pluralità
di possibili spiegazioni causali dell’evento, ciascuna fondata su una diversa legge scientifica. Tra le
spiegazioni causali alternativa, il giudice dovrà dare la preferenza a quella che meglio si adatta al caso
concreto. La giurisprudenza per lungo tempo ha fatto a meno delle leggi scientifiche attenendosi alle
intuizioni del giudice. Negli anni ’90 sotto l’impulso di Federico stella, la suprema corte ha operato una
svolta epocale a favore delle sussunzione sotto leggi scientifiche: nella sentenza si afferma che un
antecedente può essere configurato come condizione necessaria di un evento solo a patto che esso rientri
nel novero di quegli antecedenti che sulla base di leggi scientifiche portano ad eventi del tipo di quello
verificatosi in concreto. Il riferimento a leggi scientifiche sollevo il problema del grado di probabilità
richiesto perché la condotta possa considerarsi condizione necessaria dell’evento. La corte di cassazione ha
enunciato il principio secondo cui il giudice può affermare il rapporto di causalità in quanto abbia accertato
che con probabilità vicina alla certezza, vicina al 100, quella condotta è stata causa necessaria dell’evento
come verificatosi hic et nunc. La corte di cassazione a sezioni unite nel 2002 ribadisce la necessità di fare
uso di leggi scientifiche nell’accertamento della causalità. Anche probabilità statistiche medio basse
sarebbero sufficienti qualora risulti la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via
alternativa. A questo requisito la sentenza da il nome di probabilità logica che consentirebbe di raggiungere
la certezza processuale della sussistenza del rapporto di causalità. Un'altra tecnica è quella delle spiegazioni
causali alternative cioè trovare spiegazioni diverse degli eventi lesivi. Può accadere che il giudice pur
sospettando un legame causale tra una data azione e un dato evento si trovi nell’impossibilità di
corroborare quel sospetto non potendo rintracciare una legge scientifica in base alla quale spiegare
l’evento. In una ipotesi di questo tipo il giudice dovrà escludere la sussistenza del rapporto di causalità. Non
sono leggi scientifiche utilizzabili i risultati delle indagini epidemiologiche. Corollari della teoria
condizionalistica: il concorso di fattori causali preesistenti, simultanei o sopravvenuti non esclude il
rapporto di causalità tra l’azione e l’evento, quando l’azione è una condizione necessaria dell’evento: e cioè

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vale anche se i fattori estranei all’opera dell’uomo sono rari o anormali. Il rapporto di causalità non è
escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto all’azione dell’uomo consiste in un fatto illecito di
un terzo. Il rapporto di causalità è invece escluso quando tra l’azione e l’evento si è inserita una serie
causale autonoma, cioè una sere causale che è stata da sola sufficiente a causare l’evento: in tal caso
l’azione è solo un antecedente temporale e non una condicio sine qua non dell’evento.
4.3.1. teoria della causalità adeguata
La teoria della causalità adeguata si propone di escludere il rapporto di causalità quando nel decorso
causale, accanto all’azione umana, siano intervenuti fattori anormali. Prende dunque le mosse dalla teoria
della condicio sine qua non, apponendovi però un limite: per la sussistenza del rapporto di causalità non
basta che l’azione sia condizione necessaria dell’evento, ma occorre altresì che l’evento sia una
conseguenza anormale o almeno non improbabile dell’azione. A giustificazione di questo limite, si avanzano
in primo luogo considerazioni di equità: eventi imprevedibili per la loro anormalità non possono essere
evitati neppure dall’uomo prudente e giudizioso. In secondo luogo si osserva che la punizione di chi abbia
cagionato un evento imprevedibile non soddisfa ne le esigenze della giusta retribuzione ne quelle della
prevenzione. Per accertare la sussistenza del rapporto di causalità, la teoria in esame impone di compiere
una prognosi postuma, articolata in due momenti. Il giudice deve prima chiedersi quali erano i normali o
non improbabili sviluppi causali dell’azione, in secondo luogo deve porre a confronto il decorso causale
effettivamente verificatosi con quelli che erano prevedibili.
4.3.2. teoria della c.d. causalità umana
Anche questa concezione muove dalla teoria condizionalistica, nel senso che assume come presupposto
indispensabile per la sussistenza del rapporto di causalità che l’azione umana sia una condicio sine qua non
dell’evento concreto. Anche la teoria della causalità umana appone un limite alla nozione di causa proposta
dalla teoria condizionalistica: l’evento non deve essere dovuto al concorso di fattori eccezionali. Il rapporto
di causalità si considera dunque escluso solo nei casi in cui tra l’azione e l’evento intervengono fattori
causali rarissimi. La ratio di tale limite sarebbe che possono considerarsi opera dell’uomo soltanto gli
sviluppi causali che l’uomo può dominare con la sua conoscenza. Ne segue che secondo questa concezione
la gamma degli eventi che possono dirsi causati da un azione risulta più stretta rispetto alla teoria
condizionalistica ma più ampia rispetto alla teoria della causalità adeguata.
4.3.3. teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento
Anche la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento muove dal presupposto che la teoria
condizionalistica abbia bisogno di essere corretta in senso restrittivo, in relazione alle ipotesi di decorso
causale atipico. Secondo questa teoria, l’evento causato dall’azione potrebbe essere oggettivamente
imputato all’agente solo in presenza di almeno due condizioni: che l’agente, con la sua condotta, in
violazione di una regola di diligenza/prudenza/perizia, abbia creato o aumentato o non diminuito il rischio
del verificarsi di un evento del tipo di quello che si è verificato e inoltre che l’evento sia la concretizzazione
del rischio che la regola cautelare violata mirava a evitare o a ridurre. Questa teoria rappresenta uno
sviluppo della teoria dell’adeguatezza ma non una teoria della causalità: l’imputazione oggettiva viene in
effetti concepita come un requisito ulteriore rispetto alla causalità.
4.4 l’accoglimento della teoria condizionalistica nell’art 41 c.p.
L’art 41 c.p. rubricato concorso di cause elenca una serie di regole per capire ciò che è necessario per poter
affermare che una data azione ha causato un dato evento. Indubbiamente il primo e il terzo comma
enunciano due corollari della teoria condizionalistica. Il primo comma stabilisce che il concorso di cause
preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole,
non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento: il che equivale a dire che per la
sussistenza del rapporto di causalità basta che l’agente abbia posto in essere uno solo degli antecedenti
necessari all’evento. Il terzo comma stabilisce che le disposizioni precedenti si applicano anche quando la
causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui: e ciò equivale a dire che un
azione che sia condizione necessaria dell’evento ne resta causa anche se tra i fattori causali si annoveri un
fatto illecito altrui. Il secondo comma dispone che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità
quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. Anche questa disposizione ribadisce
l’adesione del legislatore alla teoria condizionalistica dal momento che esprime un ulteriore corollario di
tale teoria e non contiene nessuna formula che evochi ne l’idea di valutazioni prognostiche ne l’intervento

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di fattori causali rarissimi. Nel caso di cause sopravvenute che sono state da sole sufficienti a determinare
l’evento, è evidente che tra l’azione e l’evento si è inserita una serie causale autonoma, la quale fa si che
quell’azione rappresenti non una condizione necessaria dell’evento, ma solo un suo antecedente
temporale.
4.5. la teoria condizionalistica non ha bisogno di correttivi
L’adesione del legislatore alla teoria condizionalistica non comporta un eccessivo ampliamento dell’area
della responsabilità penale. Im primo luogo nelle ipotesi di responsabilità per dolo o per colpa le esigenze di
delimitazione della responsabilità perseguite dalle teoria della causalità adeguata e della causalità umana
sono comunque soddisfatte quando si passa a esaminare se quell’evento è stato causato dolosamente o
colposamente. La teoria condizionalistica sembrerebbe semmai produrre un eccessiva dilatazione della
responsabilità penale nelle ipotesi in cui l’evento viene posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità
oggettiva, cioè solo perché l’azione dell’agente lo ha materialmente causato, senza che sia necessario
accertare la sussistenza del dolo o della colpa. Nient’affatto persuasiva risulta infine l’obiezione, spesso
mossa alla teoria condizionalistica, di aprire la strada a un regresso all’infinito, andando alla ricerca della
causa penalmente rilevante anche tra gli antecedenti più remoti dell’evento, fino all’infinito. Se il regresso
all’infinito fosse un problema reale, non si capirebbe come tale problema non si ponga mai nella
giurisprudenza. La verità è che nella prassi il problema della causalità si pone soltanto per un
comportamento del quale si sospetti che sia antigiuridico e colpevole.

5. l’oggetto materiale
In alcune figure di reato l’azione o l’evento devono incidere su una persona o su una cosa: e tale entità
(persona o cosa) viene normalmente designata come oggetto materiale del reato. Es. nei delitti di omicidio
e di lesioni personali oggetto materiale è un uomo. Vi sono delitti nei quali oggetto materiale è una donna.
Si può pensare all’oggetto materiale come cosa mobile altrui nel furto.
6. le qualità o le relazioni del soggetto attivo nei reati propri
I reati, per la maggior parte, possono essere commessi da chiunque: si parla in questo caso di reato
comune. Vi sono reati che possono essere commessi soltanto da chi possegga determinate qualità o si trovi
in determinate relazioni con altre persone: si parla in questo caso di reato proprio. si può trattare di una
posizione del soggetto che riflette un particolare rapporto con il bene giuridico, il quale può essere
attaccato direttamente solo da chi appartenga a una cerchia determinata di soggetti. Tale appartenenza
della qualità o delle relazioni del soggetto al fatto costitutivo del reato proprio ha uno spiccato rilievo
nell’ambito del concorso di persone. Da un lato, il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma
incriminatrice (estraneo) che ha agevolato o istigato la persona qualificata (intraneo) alla commissione del
reato proprio concorre oggettivamente in questo reato, perché ha contribuito all’offesa del bene giuridico
tutelato dalla norma; d’altro lato, si potrà avere un concorso doloso all’offesa che caratterizza il reato
proprio solo se l’agevolatore o l’istigatore sia a concorrenza di tutti gli elementi del fatto, a cominciare dalla
qualità del soggetto attivo. Quanto alla natura delle qualità o delle relazioni del soggetto attivo che entrano
a comporre il fatto nei reati propri, può trattarsi sia di qualità o relazioni di fatto, sia di qualità o relazioni
giuridiche. Quali esempi di qualità o relazioni di fatto, si pensi all’aborto autoprocuratosi dalla donna senza
l’osservanza delle condizioni fissate dalla legge, reato proprio della donna, punito meno severamente
rispetto al procurato aborto da parte di terzi, oppure si pensi alla frode in commercio, un’offesa alla lealtà
commerciale che può essere realizzata solo da chi eserciti un’attività commerciale, ovvero operi in uno
spaccio aperto al pubblico. Numerose sono poi le ipotesi in cui la legge richiede qualità o relazioni
giuridiche in capo al soggetto attivo per la sussistenza del fatto di reato: reati commessi da pubblico ufficiale
o incaricato di un pubblico servizio.
7. l’offesa al bene giuridico
Altro e fondamentale elemento costitutivo del fatto penalmente rilevante è l’offesa al bene o ai beni
tutelati, che può assumere la forma della lesione o del pericolo per l’integrità del bene o dei beni. Diversi
sono i modi in cui l’offesa al bene giuridico affiora nella fattispecie legale: a volta in modo espresso, altre
volte in modo sottinteso. In alcune ipotesi l’offesa al bene protetto è un elemento espresso del fatto di
reato, in quanto esplicitamente menzionato nella norma incriminatrice. In altre ipotesi, all’interno del
modello di reato, la legge individua un elemento costitutivo che rappresenta l’equivalente fenomenico

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dell’offesa al bene giuridico: anche in questi casi l’offesa si può considerare elemento costitutivo espresso
del fatto di reato. Altre volte l’offesa al bene giuridico non compare nella lettera della norma incriminatrice,
ne direttamente ne indirettamente. In molte di queste ipotesi l’offesa al bene giuridico va fatta emergere in
via interpretativa, trattandosi di un elemento sottinteso del fatto di reato. La fisionomia della condotta, e le
caratteristiche dell’oggetto, e le caratteristiche dell’oggetto su cui va a incidere, mostrano infatti una
direzione offensiva verso uno specifico bene, individuale o collettivo: più precisamente, la norma
incriminatrice, pur non menzionando espressamente l’offesa ne un evento che ne rappresenti l’equivalente
fenomenico, vieta una condotta in quanto crea il pericolo del verificarsi di un evento offensivo. E proprio in
queste ipotesi l’elemento dell’offesa al bene giuridico assume un ruolo particolarmente rilevante nella
ricostruzione degli esatti contorni del fatto di reato. Es. nella calunnia le condotte vietate rilevano per il
pericolo che si inizi un procedimento penale a carico di un innocente, offendendo cosi i beni giuridici
corretto funzionamento della giustizia penale nell’accertamento dei reati e libertà e onore dell’innocente.
Nella falsa testimonianza le condotte tipiche sono incriminate perché creano il pericolo di decisioni del
giudice fuorviate da testimonianza false o reticenti rese su circostanze rilevanti, offendendo cosi il bene
giuridico corretta formazione delle decisioni del giudice. In un diritto penale aderente al principio
costituzionale di offensività il giudice deve in definitiva conformarsi al seguente, fondamentale criterio
interpretativo: la lettera della legge rappresenta soltanto il limite esterno imposto all’opera dell’interprete;
entro questo limite, per ricostruire i fatti penalmente rilevanti, l’offesa al bene giuridico rappresenta un
indispensabile criterio selettivo, che determina l’espulsione dal tipo legale di comportamenti inoffensivi.
Diversa dall’ipotesi in cui manchi l’offesa al bene giuridico è quella in cui l’offesa vi sia, ma si
particolarmente tenue (o esigua). A proposito della particolare tenuità del fatto come causa di esclusione
della punibilità nel diritto penale. Talora la particolare tenuità dell’offesa assume rilevanza nel quadro di
una circostanza attenuante.
Tipologia di beni giuridici: beni individuali e beni collettivi: a seconda della natura del soggetto che ne è
titolare. Si parla di beni individuali per identificare i beni che fanno capo a singole persone fisiche che
l’ordinamento riconosce e garantisce in linea di principio a tutti gli esseri umani e che rappresentano il
contenuto di altrettanti diritti soggettivi individuali. Si designano beni collettivi quelli che fanno capo allo
stato, enti pubblici o alla generalità dei consociati. I primi sono beni istituzionali, gli ultimi beni a titolarità
diffusa. Beni strumentali e beni finali: a seconda delle ragioni poste dal legislatore a fondamento della
rispettiva tutela, si distinguono beni strumentali e beni finali. Beni strumentali sono qui beni la cui integrità
è strumento e condizione per la sopravvivenza di uno o più beni ulteriori. Questi ultimi, i beni finali, restano
sullo sfondo, nel senso che la loro lesione o messa in pericolo è irrilevante: ciò che richiede la norma
incriminatrice è soltanto la lesione o la messa in pericolo del bene strumentale. Reati di danno e reati di
pericolo: si è detto che l’offesa può assumere le forme della lesione o del pericolo per l’integrità del bene
giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Si tratta di due diversi gradi dell’offesa: la lesione esprime la
distruzione, l’alterazione in peggio, la diminuzione di valore…; il pericolo esprime invece le probabilità della
lesione, in altri termini una lesione soltanto potenziale. Questi diversi gradi dell’offesa penalmente rilevante
riflettono precise scelte legislative: configurando reati di danno il legislatore reprime fatti che
compromettono l’integrità dei beni; configurando reati di pericolo, il legislatore anticipa la tutela: reprime
fatti che minacciano l’esistenza o il godimento del bene. Reati di pericolo concreto e reati di pericolo
astratto: sono reati di pericolo concreto quelli in cui il giudice deve accertare se nel singolo caso concreto il
bene giuridico ha corso un effettivo pericolo. Sono invece reati di pericolo astratto quei reati nei quali il
legislatore sulla base di leggi di esperienza ha presunto che una classe di comportamenti è fonte di pericolo
per uno o più beni giuridici: il pericolo non è dunque elemento del fatto di reato e la sua sussistenza nel
caso concreto no deve essere accertata dal giudice. Ciò che il giudice deve accertare è soltanto il verificarsi
di quel comportamento che il legislatore ha ritenuto normalmente pericoloso. Nei reati di pericolo concreto
l’accertamento del pericolo esige una prognosi ex ante in concreto a base totale. Il giudice deve fare un
viaggio nel passato riportandosi idealmente al momento nel quale si è verificata l’azione o l’evento della cui
pericolosità si tratta. L’inquadramento di un illecito penale tra i reati di pericolo astratto o tra i reati di
pericolo concreto è spesso controverso. Va comunque sottolineato che un reato di pericolo concreto può
aversi anche quando la norma incriminatrice non enuncia espressamente il pericolo quale elemento
costitutivo del fatto: come si è visto a proposito della falsa testimonianza, il pericolo concorre a costituire il

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fatto di reato anche se elemento sottinteso. I reati di pericolo astratto possono ridursi in definitiva ad una
gamma ristretta, comprensiva quasi esclusivamente di ipotesi in cui la tutela del bene giuridico non è
realizzabile se non con la tecnica del pericolo astratto. Vi sono reati di pericolo imperniati sul superamento
di una soglia quantitativa: fattispecie di reato nella cui descrizione il legislatore fissa in parametri numerici
una soglia quantitativa oltre la quale il fatto è ritenuto pericoloso per il bene giuridico tutelato. Alla base
della previsione di queste soglie quantitativa sarà per lo più un contemperamento di interessi ad opera dal
legislatore: al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice si contrappone un diverso interesse che il
legislatore ritiene di non dover integralmente sacrificare a vantaggio del bene penalmente protetto. Es. t.u.
in materia ambientale oppure della guida sotto l’influenza di alcool. Dietro le norme penali incriminatrici
che fissano secondo parametri quantitativi la soglia della rilevanza penale di alcune condotte vi sono regole
di esperienza che enunciano la normale pericolosità delle condotte che oltrepassino quella soglia. La rigidità
di norme cosi strutturate non ha impedito alla corte costituzionale di valorizzare il principio di offensività,
indicando all’interprete la strada per rimodellare quelle norme sia pure soltanto in parte secondo lo
schema del pericolo concreto. Secondo la corte l’offensività deve ritenersi di norma implicita nella
configurazione del fatto, cionondimeno può verificarsi divergenza fra tipicità e offesa a causa della
necessaria astrattezza della norma.

SEZ. B LA PECULIARITA’ DEL FATTO NEI REATI OMISSIVI


8.l’omissione
Accanto ai reati commissivi, appaiono i reati omissivi cioè reati caratterizzati dall’omissione delle azioni
imposte da quei comandi per proteggere i beni giuridici. È penalmente rilevante soltanto il mancato
compimento di azioni imposte da comandi contenuti in norme giuridiche: obblighi etico sociali rilevano per
il diritto penale solo se ribaditi da norme giuridiche. In definitiva, l’omissione penalmente rilevante consiste
nel mancato compimento di un’azione che si ha l’obbligo giuridico di compiere.
9. i reati omissivi propri
All’interno dei reati omissivi si distinguono due sottogruppi: i reati omissivi propri (o di mera omissione) e i
reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione). Sono reati omissivi propri quelli nei quali il
legislatore reprime il mancato compimento di una azione giuridicamente doverosa, indipendentemente dal
verificarsi o meno di un evento come conseguenza dell’omissione; tali reati sono direttamente configurati
da singole norme incriminatrici, che descrivono sia l’azione doverosa la cui omissione è penalmente
rilevante, sia i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo di agire. Es. di reato omissivo proprio:
omissione di soccorso, omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale, omissione di atti d’ufficio.
In tutte queste ipotesi le conseguenze del mancato compimento dell’azione doverosa sono irrilevanti ai fini
della sussistenza del fatto di reato. Va sottolineato che l’obbligo giuridico di agire presuppone il potere
materiale di compiere l’azione doverosa. Anche nei reati omissivi propri è presente l’offesa al bene tutelato,
come elemento sottinteso del fatto. Ad esempio nell’omissione di soccorso di una persona ferita, l’offesa
consiste nel mantenimento di una preesistente situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica, che si
aveva l’obbligo di rimuovere compiendo le azioni doverose imposte dalle legge. Ne segue che il reato non si
configurerà quando tizio non presti l’assistenza occorrente ne dia l’immediato avviso all’autorità. Ma vi
provveda un’altra persona presente nel luogo in cui si trova la persona in pericolo.
10. i reati omissivi impropri
Sono reati omissivi impropri (o reati commissivi mediante omissione) quei reati nei quali la legge incrimina
il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un
evento: in questi casi l’evento è elemento costitutivo del fatto. Il dovere giuridico di agire ha dunque
un’estensione più ampia rispetto a quella che caratterizza i reati omissivi propri, includendo nel suo oggetto
anche l’impedimento dell’evento. Il dovere giuridico di agire ha dunque un’estensione più ampia rispetto a
quella che caratterizza i reati omissivi propri, includendo nel suo oggetto anche l’impedimento dell’evento.
Si pensi al caso di un bambino che sta per affogare in piscina davanti al bagnino e a un suo amico esperto

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nuotatore. Se il bambino muore il bagnino risponde di omicidio mentre l’amico risponde di omissione di
soccorso. Non diversamente da quanto si è detto a proposito dell’obbligo di agire in relazione ai reati
omissivi propri, anche l’obbligo di impedire l’evento presuppone il relativo potere materiale. Quindi il padre
che ha l’obbligo di proteggere i figli minori, ma non sa nuotare, non risponderà della morte dei figli se non
va in acqua per salvarli. La previsione dei reati omissivi impropri è il combinarsi di una disposizione di parte
generale e di norme incriminatrici di parte speciale che vietano la causazione di un evento. Ad esempio il 40
comma 2 c.p. prevede che non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo;
combinando tale disposizione con la norma che vieta l’omicidio, ne risulta che chiunque non impedisce la
morte di un uomo, avendo l’obbligo giuridico di impedirla, è punito. L’individuazione del fatto nei reati
omissivi impropri deve scontare un più o meno accentuato deficit di precisione. Due sono comunque i
criteri vincolanti ai quali il giudice deve attenersi per stabilire se e quando l’omesso impedimento di un
evento sia penalmente rilevante: non basta la mera possibilità materiale di impedire l’evento, ne un obbligo
di attivarsi che abbia la sua fonte in norme di natura etico sociale: rileva il mancato compimento di
un’azione impeditiva dell’evento imposta da una norma giuridica; è il contenuto delle singole norme
giuridiche che decide quali siano i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo di impedire l’evento e
quali siano gli eventi il cui verificarsi deve essere impedito.
10.2 le fonti dell’obbligo di impedire l’evento
Il rispetto del primo criterio è imposto dal dettato dell’art 40 comma 2 c.p. il quale espressamente
subordina la rilevanza penale dell’omesso impedimento di un evento alla presenza di un obbligo giuridico di
impedirlo: un obbligo che fa del suo destinatario il garante dell’integrità di uno o più beni giuridici,
impegnandolo a neutralizzare i pericoli innescati da comportamenti di terzi o da forze della natura.
Attraverso la formula obbligo giuridico di impedire l’evento, che individua un elemento normativo del fatto
costitutivo del reato omissivo improprio, l’art 40 comma 2 rinvia a norme giuridiche extrapenali ovunque
ubicate, senza distinguere a seconda del loro rango. Potrà trattarsi pertanto di norme contenute in leggi in
senso formale o in senso materiale, in atti generali e astratti del potere esecutivo, in atti normativi emanati
da organi degli enti locali ovvero in fonti di diritto privato, come un contratto o un atto unilaterale con il
quale si assume l’obbligo di impedire una classe di eventi. Secondo la giurisprudenza e una parte della
dottrina, fonte dell’obbligo di impedire l’evento può essere anche una precedente attività pericolosa.
10.3 obblighi di protezione e obblighi di controllo
Il contenuto e i presupposti degli obblighi giuridici richiamati dall’art 40 comma 2 possono essere desunti
solo dalle singole norme giuridiche che fondano l’obbligo di impedire questo o quell’evento. Dall’insieme di
queste norme, attraverso un procedimento di astrazione, si possono individuare due diverse classi di
obblighi: obblighi di protezione e obblighi di controllo. Si parla di obblighi di protezione quando l’obbligo
giuridico riguarda la tutela di uno o più beni giuridici che fanno capo a singoli soggetti o a una determinata
classe di soggetti nei confronti di una gamma più o meno ampia di pericoli. L’obbligo di protezione nascente
da un contratto può riguardare anche persone diverse dai contraenti. L’obbligo di impedire l’evento
nascente da un contratto sorge a partire non dal momento pattuito fra le parti ma da momento in cui
l’obbligato assume effettivamente e materialmente l’incarico. È necessario cioè che l’obbligato venga a
contatto con la specifica situazione che egli deve neutralizzare. La posizione del medico operante in una
struttura pubblica nei confronti della vita o della saluta del paziente sorge non nel momento in cui il medico
viene inquadrato nella struttura ospedaliera ma nel momento in cui si instaura un rapporto terapeutico tra
il medico e il singolo paziente. Obblighi di controllo sono quelli aventi per oggetto la neutralizzazione dei
pericoli derivanti da una determinata fonte, in funzione di tutela di chiunque possa essere messo a
repentaglio da quella fonte di pericolo. Vengono qui in evidenza sia pericoli creati da forze della natura, sia
pericoli connessi dallo svolgimento di attività umane. Ad esempio obblighi di neutralizzare i pericoli per
l’incolumità pubblica derivanti da calamità naturali incombe sui diversi organi della protezione civile.
10.4 l’individuazione dei garanti nelle società commerciali
Due fondamentali categorie di doveri di garanzia: quelli relativi alla amministrazione dell’impresa, finalizzati
alla protezione del patrimonio sociale (obblighi di protezione), nonché quelli relativi alla gestione tecnica,
operativa e commerciale dell’impresa sociale, finalizzati al controllo delle fonti di pericolo immanenti
all’esercizio dell’attività di impresa (obblighi di controllo). Dai doveri di protezione del patrimonio sociale
discende l’obbligo di impedire la commissione di reati fallimentari e societari da parte dei direttori generali,

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dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e dall’institore. Titolari di questo
ordine di obblighi sono i membri del cda o gli amministratori delegati. L’eventuale responsabilità di questi
soggetti sarà ovviamente per dolo. Anche gli obblighi di controllo, correlati alla gestione tecnica, operativa e
commerciale dell’impresa incombono su persone fisiche che occupano i vertici dell’organizzazione: titolare
dell’impresa individuale e cda delle spa. Ad essi la legge affida il compito di organizzare la struttura e
l’attività di impresa in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi dei singoli e della collettività che
possono essere messi in pericolo dall’attività di impresa. Ad essi la legge richiede di organizzare la struttura
e l’attività dell’impresa in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi dei singoli e della collettività che
possono essere messi in pericolo dall’attività di impresa. Possono essere trasferiti per delega obblighi di
controllo su una più o meno ampia gamma di fonti di pericolo ma in ogni caso rimane in capo ai vertici
dell’impresa un dovere di vigilanza sul rispetto da parte dei delegati dei compiti ad essi attribuiti. La fonte di
un obbligo di garanzia in capo al soggetto delegato è un atto dell’autonomia privata che delinea
l’organizzazione interna dell’impresa. In materia di sicurezza del lavoro, per la validità della delega e della
conseguente assunzione dell’obbligo di garanzia è necessario che la delega risulti da atto scritto recante
data certa; che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità e esperienza; che si attribuiscano al
delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni
delegate. La delega di funzioni non libera il datore di lavoro dalla sua posizione di garanzia, infatti il datore
ha comunque l’obbligo di vigilanza in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni
trasferite.
10.5 il nesso tra omissione ed evento
Nei reati omissivi impropri l’evento è elemento costitutivo del fatto e il nesso tra omissione ed evento,
secondo il disposto dell’art 40 comma 2 c.p. consiste non già nella causazione dell’evento, ma nel suo
mancato impedimento. La struttura del rapporto di causalità nel reato omissivo improprio è quindi
peculiare e diversa da quella dei reati commissivi. Nei reati commissivi il rapporto di causalità è una
relazione reale tra accadimento: si configura quando l’azione è un antecedente storico che non può essere
eliminato mentalmente senza che l’evento venga meno. Per contro nei reati omissivi il rapporto di causalità
tra omissione e evento è ipotetico: sussiste quando l’azione doverosa che è stata omessa, se fosse stata
compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento, nel senso che, aggiungendola mentalmente, l’evento
non si sarebbe verificato. L’accertamento del rapporto di causalità tra omissione e evento richiede una
duplice indagine. Si tratta di accertare un effettivo rapporto di causalità tra un dato antecedente e un dato
evento concreto. In secondo luogo si deve compiere un giudizio controfattuale, bisogna cioè chiedersi se
aggiungendo mentalmente l’azione doverosa che è stata omessa, ne sarebbe seguita una serie di
modificazioni della realtà che avrebbero bloccato il processo causale sfociato nell’evento. Una duplice
indagine è richiesta anche dalla giurisprudenza che affronta questo problema soprattutto a proposito
dell’attività medico chirurgica. Ad esempio in caso di morte di un paziente per distacco della placenta
seguito da shock emorragico, la suprema corte ha sottolineato che nella ricostruzione del nesso eziologico
non si può assolutamente prescindere da tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo
conoscendo tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della
malattia è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il
giudizio controfattuale e verificare se l’evento lesivo sarebbe stato evitato o meno. Quando l’evento è il
risultato di un processo causale innescato da fattori meccanici o naturali, per stabilire se l’azione doverosa
che è stata omessa avrebbe o meno impedito l’evento si dovrà fare ricorso a leggi scientifiche: l’effetto
impeditivo dell’evento andrà cioè accertato sulla base di una legge scientifica dalla quale risulti che una
data azione, in quelle concreta circostanze, avrebbe interrotto il processo causale con un grado di
probabilità ai limiti della certezza. In dottrina e giurisprudenza coesistono diversi orientamenti in merito al
grado di probabilità dell’impedimento dell’evento per effetto dell’azione doverosa omessa. Un primo
indirizzo condivide l’esigenza di una probabilità dell’impedimento dell’evento ai limiti della certezza. Un
precedente indirizzo considerava invece sufficiente una probabilità di successo inferiore al 50%. Secondo un
terzo orientamento non sarebbe necessario accertare che l’azione doverosa, se compiuta, avrebbe
impedito l’evento: basterebbe accertare che quell’azione avrebbe diminuito il rischio del verificarsi
dell’evento. Quando invece l’impedimento dell’evento a cui è obbligato il garante dipende dalla condotta di
terze persone, l’accertamento del nesso tra omissione ed evento non potrà basarsi su inesistenti leggi

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scientifiche: si farà riferimento invece a massime di esperienza al fine di accertare la probabilità che si
verifichi quella serie di condotte, l’una dopo l’altra, dal cui susseguirsi dipende che non si verifichi l’evento
da impedire. Del pari quando l’evento da impedire consiste nella commissione di un reato, l’accertamento
dell’omesso impedimento da parte dei garanti non potrà basarsi su inesistenti leggi scientifiche.

SEZ.C ULTERIORI CLASSIFICAZIONI DEI REATI SECONDO LA STRUTTURA DEL FATTO


11 CLASSI DI REATI GIÀ ESAMINATE E CLASSI ANCORA DA ESAMINARE????
12. reati di mera condotta e reati di evento
Si parla di reati di mera condotta quando il fatto si esaurisce nel compimento di una o più azioni ovvero nel
mancato compimento di una azione doverosa: in questi reati è irrilevante che all’azione o all’omissione
descritta dalla norma incriminatrice consegua il verificarsi di uno o più eventi, nel senso che le eventuali
conseguenze dell’azione o dell’omissione non sono elementi costitutivi del fatto. Si parla invece di reati di
evento quando il fatto consta non solo di un azione o omissione ma anche di uno o più eventi, conseguenza
dell’azione. Solo nei reati di evento sorge il problema del nesso di causalità; solo nei reati di evento può
trovare applicazione il recesso attivo dal delitto tentato.
13. reati istantanei e reati permanenti
Un reato si dice consumato quando nel caso concreto si sono verificati tutti gli estremi del fatto descritto
nella forma incriminatrice; finché il reato non è giunto a consumazione, potranno eventualmente ricorrere
gli estremi di un tentativo. Sono reati istantanei i reati nei quali, una volta consumatosi il reato, è irrilevante
che la situazione antigiuridica creata dall’agente si protragga nel tempo: il fatto costitutivo del delitto di
furto si esaurisce nel momento dell’impossessamento della cosa mobile ed è irrilevante che l’agente
conservi e custodisca la cosa o la restituisca al detentore o la perda. Per contro sono reati permanenti i reati
nei quali il protrarsi nel tempo della situazione giuridica creata dalla condotta è rilevante nel senso che il
reato è perfetto nel momento in cui si realizza la condotta ed eventualmente si verifica l’evento. Ma il reato
non si esaurisce finché perdura la situazione antigiuridica. Nei reati permanenti la consumazione può
dunque perdurare nel tempo e gli atti compiuti dal soggetto per conservare la situazione antigiuridica
appartengono ancora alla fase continuativa del reato. Il reato permanente è assoggettato a una disciplina
peculiare sotto diversi profili. Il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la
permanenza; la legittima difesa è possibile per tutto il tempo per cui perdura la situazione antigiuridica; il
concorso di persone può avvenire anche dopo l’inizio della fase consumativa; legge del tempo del
commesso reato è sia quella vigente all’inizio, sia quella entrata in vigore nel corso della fase consumativa;
lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza; la competenza per territorio spetta al
giudice del luogo nel quale ha avuto inizio la consumazione.
14. reati abituali
Per reato abituale si intende un reato il cui fatto esige la ripetizione, anche ad apprezzabile distanza di
tempo, di una serie di azioni od omissioni: con la conseguenza che un singolo atto del tipo descritto nella
norma incriminatrice non integrerà la figura legale del reato in quesitone. Per questi reati, ai fini della
successione di leggi penali legge del tempo del commesso reato è la legge in vigore nel momento in cui è
stato compiuto l’ultimo degli atti che integrano il fatto costitutivo del reato abituale; il concorso di persone
in un reato abituale si configura solo se il partecipe abbia contribuito causalmente alla realizzazione del
numero minimo di condotte necessario per l’integrazione del fatto costitutivo del reato abituale; ai fini
della prescrizione del reato il dies a quo coincide con il compimento dell’ultima condotta che integra la
figura legale del reato abituale.
15. reati necessariamente plurisoggettivi
Sono quei reati il cui fatto richiede come elemento costitutivo il compimento di una pluralità di condotte da
parte di una pluralità di persone. Talora la norma incriminatrice assoggetta a pena tutti i soggetti che
intervengono nel reato: si parla in questo caso di reati necessariamente plurisoggettivi in senso stretto.
Altre volte la norma richiede una pluralità di condotte da parte di una pluralità di persone ma per le ragioni
più disparate assoggetta a pena soltanto alcune delle condotte che costituiscono il fatto di reato: si parla in
questo caso di reati necessariamente plurisoggettivi in senso ampio.

CAPITOLO 7 L’ANTIGIURIDICITA’ E LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE

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1.nozione di antigiuridicità e disciplina comune delle cause di giustificazione
Per la sussistenza del reato non basta un fatto tipico, occorre altresì che la realizzazione in concreto del
fatto si ponga in un rapporto di contraddizione con l’intero ordinamento giuridico. l’antigiuridicità è il
concetto con il quale si esprime, come secondo elemento del reato, il rapporto di contraddizione tra il fatto
tipico e l’intero ordinamento giuridico.
1.2. le cause di giustificazione
Un fatto può essere o antigiuridico o lecito: è antigiuridico, se è in contraddizione con l’intero ordinamento;
è lecito se anche solo una norma dell’ordinamento lo facoltizza o lo impone. Può infatti accadere che in un
qualsiasi luogo dell’ordinamento esista una norma che preveda un fatto penalmente rilevante come
contenuto di un dovere o di una facoltà: una norma cioè che per salvaguardare un bene che l’ordinamento
ritiene preminente, facoltizzi o addirittura renda doverosa la realizzazione del fatto (legittima difesa). Se nel
caso concreto cono presenti tutti gli estremi di due norme antinomiche, la norma che incrimina il fatto e
l’antitetica norma che ne facoltizza o ne impone la realizzazione, si profila un conflitto di norme, che però è
solo apparente. L’ordinamento italiano risolve l’antinomia assegnando prevalenza alla norma che facoltizza
o impone la realizzazione del fatto: il fatto è dunque lecito e quindi non punibile per difetto del secondo
estremo del reato, l’antigiuridicità del fatto. Legittima difesa art 52 c.p. con il nome di cause di
giustificazione del fatto (o norme scriminanti o cause di esclusione dell’antigiuridicità) si designa l’insieme
delle facoltà o dei doveri derivanti da norme, situate in ogni luogo dell’ordinamento, che autorizzano o
impongono la realizzazione di questo o quel fatto penalmente rilevante. In assenza di cause di
giustificazione il fatto è quindi antigiuridico. L’unità dell’ordinamento giuridico comporta non solo che le
cause di giustificazione possano essere previste in qualsiasi luogo dell’ordinamento ma anche che la loro
efficacia sia universale: il fatto cioè sarà lecito in qualsiasi settore dell’ordinamento e quindi non potrà
essere assoggettato a nessun tipo di sanzione neanche civile o amministrativa. Le norme che prevedono
cause di giustificazione, essendo situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento giuridico e avendo efficacia in
ogni luogo dell’ordinamento, e avendo efficacia in ogni luogo dell’ordinamento non sono norme penali.
Quindi non sono soggette alla riserva di legge ne al divieto di analogia, non sono norme eccezionali quindi
possono essere applicate in analogia. Come si è detto le cause di giustificazione sono facoltà o doveri che
hanno per oggetto la commissione di un fatto penalmente rilevante. Si tratta di un giudizio di liceità
oggettivo che nono dipende dalle valutazioni, dalle conoscenze o dalle finalità del singolo agente: i fatti
antigiuridici non perdono questo loro carattere solo perché con essi si perseguano scopi leciti; per contro i
fatti leciti non diventano antigiuridici solo perché con essi si perseguano scopi illeciti. La rilevanza oggettiva
delle cause di giustificazione trova riconoscimento all art 59 c.p. che dispone che le circostanze che
escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o per errore ritenute
inesistenti. Di regola chi concorre alla realizzazione di un fatto tipico commesso in presenza di una causa di
giustificazione non è punibile perché concorre in un fatto lecito. Art 119 c.p. “le circostanze oggettive che
escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato”. Fanno eccezione a questa
regola le cause di giustificazione personali cioè che si riferiscono a cerchie limitate di soggetti. Ad es. l’uso
delle armi giustifica l’agente di polizia e il privato, qualora gli venga chiesto aiuto, ma non qualsiasi altro
cittadino. Talvolta singole norme incriminatrici contengono clausole di illiceità espressa: contengono
termini come ingiusto, indebitamente, arbitrariamente… che non contribuiscono a descrivere il fatto
penalmente rilevante ma danno espresso rilievo alle cause di giustificazione previste dall’ordinamento, la
cui presenza rende lecita la commissione del fatto penalmente rilevante. Se il fatto viene commesso in
assenza di una qualsivoglia causa di giustificazione è definitivamente antigiuridico. L’agente può però
credere erroneamente di agire in presenza di una situazione di fatto che, se esistesse nella realtà, darebbe
vita ad una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento. Tale ipotesi è disciplinata dal art 59 c.p.
in base al quale se l’agente ritiene per errore che esistono circostanze di esclusione della pena, queste sono
sempre valutate a favore di lui. Tuttavia se si tratta di errore determinato da colpa. La punibilità non è
esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il fatto è commesso in presenza di
una causa di giustificazione, a la condotta dell’agente eccede i limiti segnati da tale norma, si parla di
eccesso nelle cause di giustificazione. Esempio di eccesso nella legittima difesa: tizio aggredito da caio che
alza una mano per schiaffeggiarlo, si trova in una situazione di pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad suo
diritto; tizio per respingere tale pericolo non si limita a neutralizzare l’aggressore con un pugno, ma afferra

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un bastone e lo colpisce a morte. Il fatto è antigiuridco perché travalica i limiti della legittima difesa,
mandando il requisito della proporzionalità fra difesa e offesa. Per poter imputare quel fatto a carico
dell’agente bisognerà accertare se l’eccesso sia rimproverabile per colpa o per dolo, se invece l’eccesso è
incolpevole sarà esclusa qualsiasi forma di responsabilità penale. Il codice penale disciplina espressamente
l’eccesso. Quando si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’autorità o dalla necessità, si
applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
L’eccesso può ad esempio dipendere da un errore dell’agente: un erronea valutazione della situazione
scriminante o un errore nella fase esecutiva della condotta. Mentre si tratta di eccesso doloso, quindi non
riconducibile alla disposizione suddetta, quando l’agente si sia rappresentato esattamente la situazione
scriminante, abbia pienamente controllato i mezzi esecutivi e abbia scientemente e volontariamente
realizzato un fatto antigiuridico che eccede i limiti della causa di giustificazione. In questo caso si risponde di
delitti dolosi. Nella prassi non è semplice individuare il confine fra eccesso colposo e eccesso doloso.
Nessuna responsabilità sorgerà infine nel caso di eccesso incolpevole quando cioè l’errore in cui è incorso
l’agente non sia dovuto a colpa perché non sarebbe stato evitato da parte di un uomo ragionevole in quelle
stesse circostanze.
2. le singole cause di giustificazione
Quelle disciplinate nel codice penale: il consenso dell’avente diritto art 50, l’esercizio di un diritto art 51,
l’adempimento di un dovere art 51, la legittima difesa art 52, l’uso legittimo di armi art 53, stato di
necessità art 54.
3. il consenso dell’avente diritto
L’art 50 stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che
può validamente disporne. È una causa di giustificazione a portata limitata nel senso che possono essere
giustificati solo i fatti penalmente rilevanti che ledono o pongono in pericolo diritti individuali che le norme
penali proteggono nell’esclusivo interesse del titolare. Vi sono diritti individuali tutelati penalmente sia
nell’interesse del singolo sia nell’interesse della collettività (indisponibili) e diritti individuali tutelati solo nei
confronti dei titolari e quindi diritti disponibili, nel senso che il titolare può consentire a terzi di ledere
questi diritti. Sono senz’altro indisponibili gli interessi dello stato e di ogni altro ente pubblico, gli interessi
della famiglia e quelli che fanno capo alla collettività, il diritto alla vita (vi è infatti una norma che punisce
l’omicidio del consenziente). Ciò punisce l’eutanasia attiva, ma non il medico che quando il paziente è
ancora cosciente rifiuta di farsi dare farmaci o terapie essendo consapevole che in questo caso andrebbe in
contro alla morte. Sono invece disponibili i diritti patrimoniali: diritto all’onore, alla libertà morale e
personale, alla libertà sessuale, di domicilio, riservatezza e segretezza di fatti o dati relativi alla persona. La
disponibilità della libertà personale incontra peraltro un limiti di misura: il consenso è inoperante in
relazione al delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù. L’integrità fisica è disponibile nella
misura in cui l’atto di disposizione sia finalizzato alla salvaguardia della salute. Quando invece determinano
uno svantaggio gli atti di disposizione sono leciti nei limiti fissati dall art 5 c.c. cioè sono vietati quando
cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica e quando siano altrimenti contrari alla legge,
all’ordine pubblico e al buon costume. Nel 1967 si è derogato a questi limiti consentendo la donazione del
rene, di parti del polmone, pancreas intestino. Legittimo a prestare il consenso è il titolare del diritto o suo
rappresentante. Il consenso può essere prestato in qualsiasi forma espressa o tacita, può essere
condizionato o limitato; il consenso è vietato quando abbia per oggetto un trattamento medico non
preceduto dal c.d. consenso informato; il consenso deve sussistere al momento del fatto ed è sempre
revocabile. Quando nel corso di un trattamento medico chirurgico il sanitario pratichi un intervento non
coperto da un valido consenso del paziente, può accadere che il paziente muoia, la suprema corte ha
configurato il fatto ora come omicidio colposo ora come omicidio preterintenzionale. Per il caso in cui
invece le condizioni del paziente a seguito dell’intervento migliorino la corte ha escluso e lesioni personali
dolose.
4 l’esercizio di un diritto
Art 51 dispone che l’esercizio di un diritto esclude la punibilità. Vi sono oltre alla legittima difesa
innumerevoli norme attributive della facoltà legittima di commettere anche fatti penalmente rilevanti. La
punibilità è esclusa quando l’esigenza di coerenza e unità dell’ordinamento impone di considerare lecito un
comportamento che pur essendo riconducibile al tipo di un reato è al tempo stesso espressamente

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facoltizzato da una diversa norma dell’ordinamento. L’espressione diritto viene pacificamente intesa come
comprensiva non solo dei diritto soggettivi in senso stretto ma anche di qualunque facoltà legittima di agire
riconosciuta dall’ordinamento: libertà di pensiero, potestà dei genitori, facoltà di arresto… Facoltà di agire
rilevanti possono scaturire da norme costituzionali, da norme di legge ordinaria, di diritto europeo, leggi
regionali o da norme consuetudinarie. Per stabilire se un fatto penalmente rilevante è lecito perché
commesso nell’esercizio di un diritto, è necessario accertare previamente il contenuto della norma
attributiva del diritto: si tratta di accertare se tra le facoltà costitutive di tale diritto rientri proprio la
specifica azione o omissione realizzata dall’agente. Il fatto resta lecito in quanto realizzato nell’esercizio di
un diritto, qualunque sia il fine che ha in concreto animato il soggetto nell’esercizio del suo diritto. Ad es. il
giornalista che riporti notizie fondate e di interesse collettivo sta nel lecito anche se il suo fine ultimo è
quello di gettare discredito sulla persona diffamata. Tuttavia in certe ipotesi la legge attribuisce il diritto a
condizione che l’agente non sia animato da una certa finalità illecita, come nel caso del diritto di proprietà,
il cui esercizio non si configura nel caso di atti emulativi, cioè quando il proprietario faccia uso della cosa al
solo scopo di nuocere ad altri. In altre ipotesi l’attribuzione di una facoltà o l’imposizione di un dovere è
condizionata alla presenza di una peculiare finalità lecita, come nel caso dei c.d. infiltrati che commettano
taluni fatti penalmente rilevanti al solo fine di acquisire elementi di prova. La libertà di manifestazione dl
pensiero: tale diritto abbraccia sia la manifestazione di opinioni e convincimenti sia l’esposizione di vicende
e fatti. Quanto alla prima sfera, il diritto copra anche manifestazioni di opinioni non argomentate ne
motivate e magari formalmente scorrette. Quanto al secondo gruppo la giurisprudenza sottolinea che gli
eventuali contenuti offensivi della reputazione sono giustificati solo in quanto rispondano a verità. Il diritto
di sciopero: il legislatore nel 90 ha depenalizzato le norme che punivano lo sciopero nei servizi pubblici
essenziali sostituendo le sanzioni penali con quelle amministrative. Il diritto consiste nel astenersi
collettivamente dal lavoro esercitando eventualmente un’azione persuasiva diretta ad ottenere adesioni
anche da parte di altri lavoratori. Non rientrano invece nel diritto di sciopero e quindi integrano il delitto di
violenza privata le azioni di picchettaggio violento.
5. l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica
Art 51 dispone che l’adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica esclude la punibilità.
Questa causa di giustificazione è espressione del postulato della coerenza e unità dell’ordinamento nel
senso che non si può vietare la realizzazione di un fatto e allo stesso tempo imporne la realizzazione. In
situazioni del genere si profila un conflitto di doveri: es. conflitto tra la norma incriminatrice del sequestro
di persona e la norma che impone al pubblico ufficiale l’arresto. Tali conflitti vanno risolti individuando
quale sia il dovere prevalente e l’adempimento di tale dovere renderà lecita la violazione del dovere
soccombente. Spesso i conflitti vanno risolti con il criterio della specialità o in base all’interesse di rango
superiore tutelato dalle norme in conflitto. Le fonti del dovere scriminante sono oltre alla legge e agli atti
aventi forza di legge, anche le fonti sub legislative. Quanto alle norme di ordinamenti stranieri che
impongono il dovere di commettere fatti penalmente rilevanti in base alla legge italiana, sono irrilevanti se
si tratta di reati commessi nel territorio italiano; ove si tratta di fatti commessi all’estero, il principio della
doppia incriminazione comporta l’efficacia scriminante dell’adempimento del dovere imposto dalla norma
del paese straniero.
6. l’adempimento di un dovere imposto da un ordine della pubblica autorità
Secondo il 51 c.p. un dovere il cui adempimento rende lecita la realizzazione di fatti penalmente rilevanti
può derivare oltre che da una norma giuridica anche da un ordine legittimo della pubblica autorità. L’ordine
della pubblica autorità deve essere legittimo sia formalmente sia sostanzialmente. È formalmente legittimo
quando vi sono: la competenza dell’organo che lo ha emanato; la competenza del destinatario ad eseguire
l’ordine; il rispetto delle forme eventualmente prescritte per la validità dell’ordine. L’ordine è
sostanzialmente legittimo quando esistono i presupposti per la sua emanazione. Es. requisiti per la custodia
cautelare in carcere. Responsabilità per chi ordina e chi esegue un ordine illegittimo: L’art 51 comma 2 e 3
stabilisce che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre
il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine. La
responsabilità del pubblico ufficiale è una responsabilità del superiore che discende dal suo ruolo di
istigatore e quindi di concorrente morale nel reato commesso dall’esecutore. Quanto alla responsabilità
degli esecutori si configura senz’altro nei confronti di pubblici impiegati che non sono vincolati

51
all’obbedienza degli ordini dei superiori anzi hanno il preciso divieto di eseguire ordini contrari alla legge.
Quindi il pubblico impiegato che dia esecuzione all’ordine di commettere un reato non potrà invocare la
causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere. Del pari hanno il dovere di astenersi dall’eseguire
l’ordine la cui esecuzione integra un reato i privati che ricevano un ordine illegittimo dalla polizia. Ordini
illegittimi insindacabili: art 51 comma 4 stabilisce che non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando
la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine. Si parla di ordini appartenenti ai
militari e alla polizia di stato che hanno il dovere di eseguire gli ordini dei superiori, ma tale dovere incontra
un triplice limite: l’ordine non deve essere formalmente illegittimo; non deve essere manifestamente
criminoso; il subordinato non deve comunque essere personalmente a conoscenza del carattere criminoso
dell’ordine. Il militare al quale è impartito un ordine che non ritiene conforme alla legge deve farlo presente
a chi lo ha impartito motivando ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato. Errore di fatto sulla
legittimità dell’ordine: non risponde a titolo di dolo il subordinato che dia esecuzione ad un ordine
illegittimo qualora egli ritenga per un errore di fatto di eseguire un ordine legittimo.
7. la legittima difesa
Art 52 stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di
difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia
proporzionata all’offesa. Questa causa di giustificazione è una importante deroga al monopolio statale
dell’uso della forza. In forza di essa l’ordinamento attribuisce al cittadino la facoltà di autotutelare i propri
diritti quando corrano il pericolo di essere ingiustamente offesi da parte di terzi e lo stato non sia in grado
di assicurare una tempestiva ed efficace tutela, sempre che la difesa sia necessaria e proporzionata. La
legittima difesa è estesa anche alla difesa di un terzo ingiustamente offeso. Presupposti della legittima
difesa: la nozione di pericolo: la legittima difesa esige come presupposto che un diritto proprio o altrui
corra il pericolo attuale di essere ingiustamente offeso. Quanto alla nozione di pericolo essa coincide con
quella dei reati di pericolo concreto. Il giudice deve compiere una prognosi postuma in concreto: accertare
se al momento del fatto vi era la probabilità del verificarsi di un offesa a un diritto dell’agente o di un terzo.
La fonte del pericolo: il pericolo deve scaturire da una condotta umana attiva o omissiva. Quando
all’omissione può rilevare l’omesso impedimento di un evento lesivo. Rilevano Le omissioni costitutive di
reati omissivi propri, come l’omissione di soccorso, quando si violi il dovere giuridico di rimuovere un
pericolo incombente su un diritto individuale. È controverso se la legittima difesa possa invocarsi quando il
pericolo di un’offesa ingiusta sia stato volontariamente cagionato dall’agente. L’attualità del pericolo: la
legittima difesa non può essere invocata per difendersi da un pericolo ormai passato. Del pari la legittima
difesa non opera quando si tratti di un pericolo futuro. La formula pericolo attuale abbraccia sicuramente
due classi di ipotesi: in primo luogo quelle la cui verificazione dell’offesa sia temporalmente imminente:
persona che non si limita a minacciare di spararti, ma ti punta la pistola contro. In secondo luogo il pericolo
deve essere perdurante: ciò si verifica quando l’offesa è già in atto ma ancora non si è esaurita: caso in cui
la vittima di un sequestro di persona mentre si trova nella mani dei sequestratori, per evitare il protrarsi
della sua prigionia, si liberi provocando una lesione al suo carceriere. Offesa ingiusta a un diritto proprio o
altrui: oggetto del pericolo rilevante deve essere un’offesa ingiusta a un diritto dell’agente o di un terzo.
L’espressione diritto abbraccia qualsiasi interesse individuale tutelato dall’ordinamento. Titolare del diritto
patrimoniale può essere non solo persona fisica ma anche giuridica privata o pubblica. Tra i diritti
individuali della personalità va ricompresa anche l’incolumità pubblica, espressione sintetica che designa la
vita e l’integrità fisica di un’indeterminata pluralità di persone: con la conseguenza che agisce in legittima
difesa chi percuote chi si accinga ad appiccare un incendio o a far esplodere un ordigno. Esigendo che il
diritto corre il pericolo di un offesa ingiusta, l’ordinamento subordina la sussistenza di una situazione di
legittima difesa al requisito dell’antigiuridicità dell’offesa: non ci si potrà pertanto difendere di fronte a
pericoli creati nell’esercizio di una facoltà legittima o nell’adempimento di un dovere. Ai fini dell’offesa è
d’altra parte irrilevante il carattere colpevole o punibile della condotta umana che ha creato il pericolo. La
legittima difesa è dunque invocabile anche contro condotte realizzate senza dolo e senza colpa, ovvero
realizzate da un soggetto non imputabile o non punibile. I requisiti della difesa: la necessità: la condotta
difensiva, per essere legittima, deve essere innanzitutto necessaria: il legislatore esalta l’importanza di tale
requisito dicendo che l’agente deve essere stato costretto dalla necessità di difendersi. Ciò significa due
cose: che il pericolo non poteva essere neutralizzato ne da una condotta alternativa lecita ne da una

52
condotta meno lesiva di quella tenuta in concreto. Bisogna dunque che l’agente non avesse altra via per
sventare il pericolo e in particolare non avesse la possibilità di difendere il bene senza commettere un fatto
penalmente rilevante. La difesa non è altresì necessaria quando sia possibile un commodus discessus,
quando cioè la persona minacciata nei propri diritti possa sottrarsi al pericolo senza esporre a rischio la sua
integrità fisica. Non importa che si tratti di una fuga poco onorevole: la vita o l’integrità fisica di un uomo
non può essere sacrificata per salvare l’onore. Quando non vi sia la possibilità di neutralizzare il pericolo
attraverso una condotta alternativa lecita, può accadere che il pericolo possa essere sventato attraverso
una serie di fatti penalmente rilevanti tutti egualmente efficaci. In tal caso il requisito della necessità
comporta che la condotta difensiva adottata in concreto debba essere la meno lesiva tra quelle applicabili.
La proporzione: oltre che necessaria la difesa deve essere proporzionata all’offesa. L’aggredito può ledere
un bene anche di rango superiore, sempreché il divario tra i due beni non sia eccessivo. Per la valutazione
comparativa dei beni, si farà riferimento alle valutazioni etico sociali dei beni in conflitto eventualmente
rispecchiate dalla costituzione. La legittima difesa nel domicilio e negli esercizi commerciali: a partire dal
2006 sono stati inseriti due nuovi commi nell’art 52 dedicati ad ampliare i limiti della legittima difesa per i
casi in cui il fatto venga posto in essere nel domicilio o in altri luoghi di privata dimora o ancora nei luoghi in
cui venga esercitata un attività commerciale professionale o imprenditoriale. In questi luoghi è accordata la
legittima difesa se taluno legittimamente usa un arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine
di difendere: la propria o l’altrui incolumità: i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo
di aggressione. L’applicazione di questa disciplina presuppone che vi sia stata una violazione di domicilio,
che potrà realizzarsi in tutte le forme previste dal 614 c.p. il delitto di violazione di domicilio deve essere
stato consumato: non basta che l’aggressore abbia tentato di entrare in uno di quei luoghi. L’aspetto più
rilevante della disciplina riguarda la proporzione. La legge stabilisce una presunzione assoluta di
proporzione (non ammette prova contraria) tra il bene messo in pericolo e il bene leso dalla reazione
difensiva. E questa presunzione assoluta di proporzione opera anche quando chi si difende usa un arma. Ne
segue che il fatto posto in essere in difesa della propria o dell’altrui incolumità è giustificato qualunque sia
l’entità del pericolo per l’incolumità, anche se chi si difende con un arma o altro mezzo provoca la morte
dell’aggressore. Anche nel quadro di questa nuova disciplina permane il limite della necessità della difesa:
bisogna che in primo luogo la persona non possa difendere il bene minacciato attraverso un
comportamento penalmente irrilevante ma egualmente efficace per la difesa; se non esiste un alternativa
lecita, bisogna inoltre che la difesa venga realizzata nella forma meno lesiva per l’aggressore. Un ulteriore
limite è rappresentato dal venir meno del pericolo inizialmente creato: bisogna che il potenziale ladro non
abbia desistito dall’esecuzione del reato. Dicendo che la difesa è legittima quando non vi è desistenza, le
legge esplicita il requisito generale dell’attualità del pericolo: come si sa, il pericolo non è attuale quando
chi abbia iniziato l’esecuzione di un furto si dia alla fuga senza portare con se oggetti. L’art 52 richiede infine
che l’arma usata per la difesa sia legittimamente detenuta. Un punto cruciale della riforma del 2006 è
quello relativo all’ipotesi in cui il soggetto agisca per difendere i beni propri o altrui. Questa formula
potrebbe far pensare che l’uso delle armi o di altri mezzi idonei sia oggi legittimo anche quando il pericolo
riguardi soltanto beni patrimoniali. cosi intesa la riforma sarebbe passibile di illegittimità costituzionale
perché il valore della vita è superiore al patrimonio, non si può uccidere per difendere un qualsivoglia bene
patrimoniale.
8.l’uso legittimo delle armi
I presupposti e i limiti dell’uso legittimo dei mezzi di coercizione fisica trovano nell’art 53 una disciplina che
si articola in 3 ipotesi: quella in cui l’uso dei mezzi di coercizione sia necessario per respingere una violenza
o vincere una resistenza all’autorità; quella in cui la coercizione fisica sia necessaria per impedire la
consumazione di una serie di gravissimi delitti; le ulteriori ipotesi, previste da altre norme legislative, in cui
è consentito un uso più largo delle armi o degli altri mezzi di coazione fisica. Art 53 stabilisce che ferme le
disposizioni contenute nei due articoli precedenti non è punibile il pubblico ufficiale che al fine di
adempiere un dovere del proprio ufficio da uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di
coazione fisica quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza
all’autorità. Facendo salvo le disposizioni precedenti l’art 53 evidenzia che questa causa di giustificazione
occupa uno spazio autonomo rispetto sia alla legittima difesa sia all’adempimento di un dovere. Quest
ipotesi autonoma dunque si configura quando la forza pubblica fa uso o ordina di far uso delle armi o di

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altri mezzi di coazione fisica essendovi costretta dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una
resistenza all’autorità. Legittimati a far uso delle armi non sono tutti i pubblici ufficiali ma soltanto quelli tra
i cui doveri istituzionali rientra l’uso della coercizione fisica diretta con armi o altri mezzi. La legge richiede
che il pubblico ufficiale agisca al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio. Questa previsione esprime
la necessità che l’uso delle armi sia oggettivamente rivolto a raggiungere lo scopo per il quale è concesso. I
presupposti dell’uso delle armi: necessità, proporzione, violenza o resistenza all’autorità: in primo luogo, il
pubblico ufficiale deve essere costretto dalla necessità di far uso delle armi. Ciò comporta che: l’uso delle
armi non è consentito quando il pubblico ufficiale può respingere la violenza con mezzi diversi dai mezzi di
coazione fisica; tra i diversi mezzi di coazione l’agente deve scegliere il meno lesivo. In secondo luogo, per
essere legittimo il ricorso a un dato mezzo di coazione fisica deve essere proporzionato. Bisogna bilanciare
l’interesse pubblico da difendere con l’interesse individuale da sacrificare. In terzo luogo deve essere in atto
una violenza o una resistenza nei confronti dell’autorità. L’ipotesi della violenza ricorre quando taluno, per
impedire o ostacolare l’attività pubblica, faccia uso di qualsiasi forma di energia fisica che casa sulle
persone, ledendone l’integrità o la salute, ovvero sulle cose, distruggendole o rendendole in tutto o in parte
inservibili. Di resistenza può invece parlarsi in relazione alle sole ipotesi di resistenza attiva, cioè quelle in
cui la resistenza non si limita all’inerte impedimento fisico dell’attività pubblica ne consiste nel mero
allontanamento dal luogo in cui la pubblici autorità abbia intimato di fermarsi. L’uso delle armi per
impedire la consumazione di gravissimi delitti: l’art 53 comma 1 prevede la non punibilità dell’agente della
forza pubblica che faccia uso o ordini di far uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica quando vi sia
costretto dalla necessità di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione,
disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
Sono ipotesi in cui l’uso delle armi p del tutto svincolato dal presupposto originario di questa causa di
giustificazione. In questo caso si impone alla forza pubblica l’uso della coercizione fisica. Vi sono dei limiti
anche qui. In primo luogo l’uso delle armi deve essere necessario. La difesa deve essere proporzionata. In
terzo luogo il momento in cui si può esercitare la difesa è quello in cui, esauriti gli atti preparatori e iniziata
l’esecuzione del reato, già sussistano gli estremi del tentativo di uno dei delitti contemplati dall art 53
comma 1. Altre ipotesi di uso legittimo delle armi previste dalla legge: le leggi speciali su rinvio del art 53
determinano altri casi nei quali è autorizzato l’uso della coazione fisica: materia di repressione di
contrabbando; vigilanza interna e esterna degli istituti penitenziari e ai passaggi abusivi di frontiera.

9. lo stato di necessità
Art 54 stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto danna necessità di
salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persone, pericolo da lui non volontariamente
causato, ne altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si
applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di
questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma in tal caso,
del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo. Si discute se lo
stato di necessità vada inquadrato tra le cause di giustificazione o tra le scusanti, cioè se si tratti fi una
facoltà legittima il cui esercizio rende lecito la commissione di un fatto altrimenti illecito ovvero di un
ipotesi in cui l’ordinamento giuridico ritiene che non si possa muovere un rimprovero a chi ha commesso un
fatto antigiuridco avendo agito sotto la pressione psicologica. I presupposti dell’azione di salvataggio ex art
54 comma 1 e 2: il pericolo attuale e non volontariamente causato: la nozione di pericolo coincide con
quella del pericolo nella legittima difesa. La fonte del pericolo può risiedere in un accadimento naturale o in
un comportamento dell’uomo. Quanto all’attualità del pericolo, vale quanto si è osservato a proposito di
tale requisito nella legittima difesa: il pericolo è dunque attuale quando il verificarsi del danno è imminente,
sia quando il danno è già in atto, ma non ancora esaurito. La legge pone un ulteriore limite al pericolo
rilevante ai fini dello stato di necessità, esigendo che il pericolo non sia stato volontariamente causato. La
giurisprudenza interpreta volontariamente estendendo la disposizione anche alle ipotesi in cui il pericolo
sia stato creato con una condotta non già dolosa, bensì solo colposa. Il danno grave alla persona: questa
esimente ha un ambito assai più ristretto di quello della legittima difesa: oggetto del pericolo deve essere

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un danno grave alla persona. Il bene minacciato può consistere nella vita o nell’integrità fisica o in altri beni
di natura personalissima, come la libertà personale e la libertà sessuale. Può altresì consistere in uno di
quei beni collettivi che rappresentano la sintesi di beni di singole persone. Sono esclusi i beni individuali che
non hanno carattere personalissimo, come i beni patrimoniali e anche i beni istituzionali. Quanto al
requisito della gravità del danno alla persona, va accertato in relazione sia al rango del bene esposto a
pericolo, sia in relazione all’intensità della lesione incombente. I requisiti di salvataggio: necessità
dell’azione e inevitabilità del pericolo: ai fini dello stato di necessità, la legge richiede in primo luogo che la
commissione del fatto penalmente rilevante sia necessaria per fronteggiare il pericolo di un danno grave
alla persona: ciò comporta l’assenza di alternativa lecite o meno lesive egualmente efficaci per
neutralizzare il pericolo. In secondo luogo l’esimente dello stato di necessità richiede che il pericolo non sia
altrimenti evitabile. Il pericolo deve dunque essere evitabile solo attraverso una condotta penalmente
rilevante; e se ci sono a disposizione altre condotte capaci di evitare il pericolo, quand’anche siano rischiose
pe il soggetto, si dovranno tenere queste altre condotte. La proporzione tra fatto e pericolo: art 54 esige
che il fatto penalmente rilevante sia proporzionato al pericolo sventato con la commissione del fatto. Si
richiede che il divario tra il bene offeso e quello difeso non sia eccessivo. La costrizione: perché possa
parlarsi di stato di necessità il soggetto deve essere costretto dalla necessità di commettere il fatto
penalmente rilevante. Il significato da attribuirsi alla formula costrizione ha un peso decisivo ai fini del
problema di inquadramento dell’istituto. Vi sono due possibili letture. La prima lettura, ponendo in risalto
un mero bilanciamento di bani in confitto, porterebbe a inquadrare lo stato di necessità tra le cause di
giustificazione; la seconda lettura suggerisce di inquadrare lo stato di necessità tra le scusanti, cioè tra le
ipotesi nelle quali la ragione della non punizione sta nell’assenza di colpevolezza di chi abbia agito sotto
influenza di una pressione psicologica che rendeva inesigibile un comportamento rispettoso della legge. A
sostegno di queste lettura parlano due argomenti. In primo luogo i casi ricondotti sotto lo stato di necessità
sono tutti caratterizzati da un effettiva pressione psicologica provocata dalla natura o dall’uomo, che
addirittura chiama in causa l’istinto di conservazione. In secondo luogo solo attraverso una lettura del
requisito della costrizione che dia risalto al turbamento motivazionale dell’agente si evita di ricondurre allo
stato di necessità una serie di casi che nessuno considererebbe immeritevoli di pena. Un terzo argomento
può ricavarsi dal tenore del art 54 comma 3. È pacifico che l’ipotesi dello stato di necessità determinato
dall’altrui minaccia integra una scusante. In tutti i casi si tratta dunque di una scusante e quindi il giudice
dovrà sempre accertare che l’autore del fatto abbia subito un effettivo turbamento motivazionale. Da
questa ricostruzione dello stato di necessità deriva un importante conseguenza in tema di soccorso di
necessità, cioè nei casi in cui l’agente commetta un fatto penalmente rilevante per salvare altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona. Potrà essere scusato il soccorso del terzo solo in quanto la
rappresentazione del pericolo che incombeva su di lui abbia prodotto un effettivo turbamento del processo
motivazionale dell’agente, il che potrà accadere non solo quando il terzo sia il coniuge, il figlio, il congiunto
ma anche quando si tratti di persone vicine all’agente come il convivente, il fidanzato… Dall’inquadramento
dello stato di necessità tra le scusanti oltre alla necessaria conoscenza del pericolo e al conseguente effetto
di costrizione psicologica, deriva ancora la possibilità di esercitare la legittima difesa contro chi agisce in
stato di necessità. Inoltre lo stato di necessità può essere applicato ai concorrenti solo se si accerti in
relazione ad ogni singolo concorrente la consapevolezza del pericolo e l’effetto di coazione psicologica. Il
particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo: la legge esclude che possa essere applicato lo stato di
necessità a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo: vigili del fuoco, bagnini, guardi del
corpo, guide alpine… l’ordinamento può scusare un comune cittadino ma non chi avendo avuto
l’addestramento è particolarmente attrezzato per affrontare determinati pericoli; a condizione
naturalmente che si tratti proprio del tipo di pericolo che l’agente ha il dovere di affrontare e all ulteriore
condizione che l’agente si trovi ad affrontare un mero pericolo e non la prospettiva di una morte certa. Cosi
non è punibile il vigile del fuoco che per salvarsi da un edificio di in fiamme lasci a terra un ferito se si rende
conto che non può uscire dall’edificio liberandosi di questo.
10. le cause di giustificazione con estremi imperniati su un giudizio ex ante (EN EL LIBRO NO ESTÁ ESTE
APARTADO)
Il sacrificio di un bene, incarnato dalla commissione di un fatto, può essere giustificato solo dalla presenza
degli estremi oggettivi di una causa di giustificazione, che sono talora imperniati su un giudizio ex ante. Il

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pericolo di legittima difesa esprime la prognosi di un accadimento che giace nel futuro, il pericolo comporta
infatti un giudizio ex ante. Anche il dovere o la facoltà di arresto e il fermo di un indiziato di delitto poggiano
su requisiti, stato di flagranza e pericolo di fuga, che impongono decisioni che, per essere efficaci, debbono
essere prese tempestivamente in base a un giudizio ex ante. Anche il diritto di cronaca, come causa di
giustificazione del fatto di diffamazione, poggia sull estremo della verità della notizia quale risultava al
momento in cui la notizia veniva diffusa, con un giudizio ex ante, che deve essere il frutto di un accurato
controllo delle fonti. Il giornale che ha pubblicato una notizia diffamatoria è obbligato a portare le rettifiche
richieste dai soggetti che ritengano contrari a verità le notizie pubblicate.

CAPITOLO 8 LA COLPEVOLEZZA
1.la colpevolezza: nozione, fondamento e rilevanza costituzionale
Perché sia legittimo il ricorso alla sanzione penale occorre che la commissione del fatto antigiuridico possa
essere personalmente rimproverata all’autore; i criteri sui quali si può fondare e graduare quel rimprovero
personale sono tradizionalmente compendiati sotto la formula colpevolezza, e nel linguaggio della
costituzione sotto la formula responsabilità personale ex art 27 comma 1 cost. con la formula colpevolezza
si designa dunque l’insieme dei requisiti dai quali dipende la possibilità di muovere all’agente un
rimprovero per aver commesso il fatto antigiuridico. Nel diritto vigente tali requisiti possono cosi
individuarsi: dolo, colpa o dolo misto a colpa; assenza di scusanti; conoscenza o conoscibilità della legge
penale violate; capacitò di intendere e di volere. Sul finire degli anni 80 la giurisprudenza della cort cost ha
segnato una svolta storica: la corte ha riconosciuto espressamente che responsabilità personale è sinonimo
di responsabilità per un fatto proprio colpevole. Nella sentenza 364/1988 la corte ha portato una serie di
argomenti a sostegno della costituzionalizzazione del principio di colpevolezza; decisivo risulta peraltro
l’inquadramento del principio di personalità della responsabilità penale nell’intero sistema costituzionale. Il
principio di colpevolezza costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni
stato di diritto. Il principio di colpevolezza si contrappone a una serie di residui di inciviltà: alla
responsabilità oggettiva; alla responsabilità di chi ignorava senza colpa la legge panale violata; alla
responsabilità penale accollata a chi abbia agito in situazioni anormali tali da rendere inesigibile un
comportamento diverso da quello tenuto dall’agente, ovvero all’incapace di intendere e di volere. La cost
cost ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità
dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. Conseguentemente oggi vige la regola secondo cui
nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale dovuta a colpa, nel senso che la
responsabilità non si profila quando l’agente, anche usando la dovuta diligenza, non poteva sapere che il
fatto doloso o colposo da lui realizzato era previsto da una norma incriminatrice. Nella nostra costituzione
la responsabilità personale è una responsabilità per il fatto commesso: tutti i criteri sui quali si fonda la
colpevolezza dell’agente vanno cioè riferiti e strettamente collegati al singolo fatto antigiuridico da lui
commesso

DOLO, COLPA E DOLO MISTO A COLPA


2.dolo e colpa: rilevanza nei delitti e nelle contravvenzioni
Il criterio di attribuzione della responsabilità di regola richiesto dal legislatore per i delitti è il dolo, mentre la
colpa rileva solo in via di eccezione espressa. Art 42 stabilisce che nessuno può essere punito per un delitto
se non lo ha commesso per dolo, salvo i casi di delitto colposo espressamente preveduti dalla legge. Mentre
le contravvenzioni possono essere commesse sia con dolo sia con colpa: basta cioè la colpa. Solo
eccezionalmente vi sono contravvenzioni che debbono necessariamente essere commesse con dolo, ad
esempio il comparaggio, nonché contravvenzioni che devono necessariamente essere commesse per colpa.
L’accertamento che una contravvenzione sia stata commessa dolosamente e non colposamente rileva ai fini
di alcuni effetti penali come ad esempio la dichiarazione di contravventore abituale, riservata solo a chi
contravviene con dolo, e rileva anche ai fini della commisurazione della pena in quanto il carattere doloso o
colposo rende la contravvenzione più o meno grave.
3.il dolo
La realizzazione con dolo di un fatto antigiuridico comporta la forma più grave di responsabilità penale. Per
l’esistenza del dolo si richiede un duplice coefficiente psicologico: la rappresentazione e la volizione del

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fatto antigiuridico. Art 43 stabilisce che il delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il
risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente
preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione. Inoltre l’art 47 esclude il dolo per
difetto di rappresentazione del fatto, quando per una falsa rappresentazione della realtà o per la difettosa
interpretazione di una norma giuridica l’agente è caduto in un errore sul fatto che costituisce il reato. Infine
l’art 59 esclude il dolo allorché l’agente, pur rappresentandosi la realizzazione del fatto, non si renda conto
del suo carattere antigiuridco, perché ritenga di agire in presenza di una causa di giustificazione. Art 59 dice
se l’agente ritiene per errore che esistano circostanza di esclusione della pena, queste sono sempre
valutate a favore di lui. Il momento rappresentativo del dolo e l’errore sul fatto: perché sorga una
responsabilità dolosa occorre dunque in primo luogo che il soggetto si sia rappresentato il fatto
antigiuridico. La logica che sta alla base di questo requisito è evidente: si rimprovera al soggetto di aver
avuto ben chiari dinanzi agli occhi il fatto antigiuridico e di non essersi lasciato trattenere da quella
rappresentazione ammonitrice. Per converso, la rilevanza dell’errore sul fatto discende proprio
dall’impossibilità che il soggetto venga trattenuto dall’agire: se non si rende conto che la sua azione
danneggerà una cosa altrui non si renderà conto di commettere un fatto di danneggiamento. Del pari, la
rilevanza dell’erronea supposizione di agire in presenza di una causa di giustificazione discende da ciò: non
potrà essere trattenuto dal commettere scientemente perfino un fatto di omicidio chi per errore ritenga di
trovarsi in presenza di un aggressore che sta per ucciderlo, si che risulti inevitabile l’autotutela della sua vita
anche a costo della vita altrui. Il momento rappresentativo del dolo esige la conoscenza effettiva di tutti gli
elementi rilevanti del fatto concreto che integra una specifica figura di reato: e tale conoscenza deve
sussistere nel momento in cui il soggetto inizia l’esecuzione dell’azione tipica. La conoscenza dunque deve
essere effettiva e non potenziale: una conoscenza potenziale potrebbe rilevare soltanto per la sussistenza
della colpa. In secondo luogo è sufficiente che le conoscenza effettiva sia presente nel momento in cui
l’agente inizia l’esecuzione dell’azione tipica; non è invece necessario che la rappresentazione del fatto
nella mente del soggetto per tutto il tempo dell’azione. Il momento rappresentativo del dolo si considera di
regola integrato anche nei casi di dubbio, perché chi agisce in stato di dubbio ha un esatta
rappresentazione di quel dato della realtà, sia pure coesistente con una falsa rappresentazione di quel
dato. Il dubbio risulta invece incompatibile col il dolo nei casi in cui la legge richiede una conoscenza piena e
certa dell’esistenza di un elemento del fatto. È il caso dei delitti di calunnia e autocalunnia nei quali si
richiede che l’agente incolpi di un reato taluno che egli sa innocente ovvero incolpi se stesso di un reato che
egli sa non avvenuto. Vi sono elementi del fatto la cui conoscenza può essere acquisita attraverso i sensi: si
tratta degli elementi descrittivi cioè degli elementi del fatto individuati attraverso concetti descrittivi, come i
concetti di uomo, madre, minore di anni… altri elementi del fatto, gli elementi normativi, sono invece
individuati attraverso concetti che esprimono qualità giuridiche o sociali di un dato della realtà, come ad
esempio i concetti di cosa altrui, matrimonio avente effetti civili, atto osceno: la loro conoscenza non può
essere raggiunta soltanto attraverso i sensi, ma richiede la mediazione di una norma, giuridica o sociale.
Non si pretende che la persona abbia una conoscenza da esperto della normativa , basta la conoscenza del
comune cittadino. Per contro, difetta la rappresentazione del fatto necessaria per la sussistenza del dolo
quando l’agente versa in un errore sul fatto: quando cioè non si rappresenti la presenza di almeno uno degli
elementi del fatto come conseguenza o di un errata percezione sensoriale (errore di fatto) o di un errata
interpretazione di norme giuridiche o sociali diverse dalla norma incriminatrice e da questa richiamate
(errore di diritto: errore su norma extra-penale). L’errore sul fatto dovuto ad una erronea percezione della
realtà (errore di fatto) esclude il momento rappresentativo del dolo; può però residuare una responsabilità
per colpa, se all’agente si può muovere il rimprovero di non aver impiegato la diligenza o l’attenzione che
avrebbe impiegato al suo posto un agente modello e che gli avrebbe consentito di rendersi conto di
commettere quel fatto che ha in effetti realizzato. Art 47 comma 1 stabilisce che se si tratta di un errore
determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto
colposo. Un errore sul fatto può essere cagionato anche da un errore di diritto: e cioè dall’erronea
interpretazione di norme diverse dalla norma incriminatrice, da quest ultima richiamate attraverso un
elemento normativo, stabilisce art 47 comma 3 che l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude
la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato. La prevalente giurisprudenza
ritiene che tutti gli errori di interpretazione di norme giuridiche siano altrettanti errori sulla legge panel,

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riconducibili alla disciplina del art 5 c.p. e non possano mai cagionare un errore sul fatto: con la
conseguenza che l’errore su una legge diversa dalla legge penale, essendo assimilato all’errore sulla legge
penale, rileverebbe solo se inevitabile, cioè non dovuto a colpa. Tale orientamento però non solo contrasta
con la legge, in ispecie con il 47 comma 3, ma è concettualmente errato. Una cosa è ignorare che è vietato
sottrarre le cose mobili altrui o appropriarsene, altra cosa è non rendersi conto che nel caso concreto il
bene che l’agente ha sottratto o ha venduto era altrui e non di sua proprietà. Il primo tipo di errore è
incontestabilmente un errore sulla legge penale: cioè un errore sui precetti non rubare o non appropriarsi
della cosa mobile altrui; il secondo tipo di errore è un errore sul fatto che costituisce il reato descritto e
vietato dal precetto: il soggetto può sapere, e anzi sa benissimo che è vietato rubare, appropriarsi
indebitamente delle cose altrui… ma per effetto di un errore di interpretazione delle norme civilistiche che
decidono se una data cosa è propria o altrui, non si rende conto, nel caso concreto, che la cosa sottratta o
oggetto di appropriazione appartiene ad altri. Il momento volitivo del dolo: il dolo non si esaurisce nella
rappresentazione del fatto, infatti il soggetto deve anche aver voluto la realizzazione del fatto antigiuridico
che si era preventivamente rappresentato, cioè deve aver deciso di realizzarlo in tutti i suoi elementi. Il
momento volitivo del dolo consiste innanzitutto nella risoluzione di realizzare l’azione: e tale risoluzione
deve essere presente nel momento in cui il soggetto agisce, rappresentandosi tutti gli estremi del fatto
descritto dalla norma incriminatrice. Nel nostro ordinamento non vi è spazio per le vecchie figure del dolo
antecedente, dolo susseguente e dolo generale. La risoluzione può essere la conseguenze immediata di un
improvviso impulso ad agire (dolo d’impeto) ovvero può essere presa a tenuta ferma fino al compimento
dell’azione per un apprezzabile lasso di tempo senza soluzione di continuità: si parla allora di dolo di
proposito, che per taluni reati, come omicidio e lesioni, viene designato come premeditazione e integra una
circostanza aggravante. I gradi del dolo: dolo intenzionale, dolo diretto o dolo eventuale: il dolo può
assumere tre gradi, che dipendono dall’intensità tanto del momento volitivo, quando del momento
rappresentativo: il dolo intenzionale; il dolo diretto; il dolo eventuale. Il dolo intenzionale si configura
quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto (spara e uccide, avendo di mira la morte di
quell’uomo). Non è necessario che la realizzazione del fatto rappresenti lo scopo ultimo perseguito
dall’agente, potendo essere anche uno scopo intermedio. Del pari, non è necessario che la causazione
dell’evento perseguito dall’agente sia probabile: basta la mera possibilità di successo. Vi è perciò dolo
intenzionale di omicidio anche se la persona uccisa si trovava ad una distanza ai limiti della portata balistica
dell’arma impiegata dall’agente. Di regola, la legge non richiede ai fini della responsabilità dolosa che il
fatto sia stato realizzato intenzionalmente, bastando le altre, meno intense forme di dolo (diretto o
eventuale): la presenza del dolo intenzionale rileverà soltanto ai fini della commisurazione della pena, sotto
il profilo dell’intensità del dolo. Talora peraltro la legge esige il dolo intenzionale, o meglio esige che
l’agente sia animato da particolari finalità in relazione a questo o quell’evento. In taluni di questi casi
l’evento che l’agente deve prendere di mira deve realizzarsi per la consumazione del reato. In una più
ampia serie di casi, nei c.d. reati a dolo specifico, caratterizzati dalla presenza nel dettato normativo di
formule quali al fine di, allo scopo di, per… il legislatore richiede che l’agente commetta il fatto avendo di
mira un risultato ulteriore, il cui realizzarsi non è necessario per la consumazione del reato. Nella maggior
parte dei casi, c.d. reati a dolo generico, le finalità perseguite dall’agente con la commissione del fatto sono
irrilevanti per l’esistenza del dolo: ad esempio il dolo di omicidio consiste e si esaurisce nella
rappresentazione e volizione di cagionare la morte di un uomo e le eventuali finalità perseguite dall’agente
potranno rilevare soltanto ai fini della commisurazione della pena. Il dolo diretto si configura invece quando
l’agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o come probabile al limite
della certezza l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza
dell’azione. Di regola, cosi come non è necessario che l’agente persegue come scopo la realizzazione del
fatto, cosi non è richiesto che si rappresenti la realizzazione del fatto come certa: basta il dolo eventuale.
Eccezionalmente però la legge richiede una conoscenza piena e certa dell’esistenza di un elemento del
fatto. Il dolo eventuale si ha infine quando il soggetto non persegue la realizzazione del fatto, ma si
rappresenta come seriamente possibile l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi
dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne
ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi: il soggetto decide di agire costi quel che costi mettendo
cioè in conto la realizzazione del fatto. I tratti salienti del dolo eventuale sono ben espressi dalla celebre

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seconda formula di frank, dal nome del penalista tedesco che l’ha elaborata nella prima metà del 900. In
base a questa formula, l’agente deve essersi detto: sia presente o meno quella circostanza, avvenga questo
o quest’altro, io agisco comunque. È opinione diffusa che il dolo eventuale sia caratterizzato
dall’accettazione del rischio del verificarsi del fatto. Presa alla lettera, è opinione contra legem: ponendo ad
oggetto dell’accettazione non già l’evento, bensì il pericolo del verificarsi dell’evento, trasforma i reati di
evento in reati di pericolo del verificarsi dell’evento. Invero perché sussista il dolo eventuale, ciò che
l’agente deve accettare è proprio l’evento: è il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e
messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria
possibilità di provocarlo. L’esatta definizione del dolo eventuale delinea, in primo luogo, i confini della
responsabilità penale. Ciò accade per i fatti che sono previsti nella sola forma del delitto doloso: è il caso dei
fatti di danneggiamento, che si possono benissimo realizzare anche per colpa, ma che la legge punisce solo
se commessi con dolo. In secondo luogo quando il fatto è punito sia se commesso con dolo sia se
commesso con colpa, il dolo eventuale rappresenta la linea di confine che separa la responsabilità per dolo
da quella per colpa. In particolare il dolo eventuale va nettamente distinto dalla colpa con previsione
dell’evento (c.d. colpa cosciente). Dolo eventuale e colpa cosciente hanno in comune l’elemento della
previsione dell’evento, ma presentano ulteriori tratti diversi. Nella colpa con previsione che non si
realizzerà nel caso concreto, e ciò in quanto, per leggerezza, sottovaluta la probabilità del verificarsi
dell’evento ovvero sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo. Viceversa agisce con dolo eventuale chi
ritiene seriamente possibile la realizzazione del fatto e agisce accettando tale eventualità. Dal punto di vista
concettuale, la giurisprudenza maggioritaria non propone configurazioni del dolo eventuale e della colpa
cosciente diverse da quelle viste in precedenza. Il dolo eventuale si caratterizza per l’accettazione e la
messa in conto del verificarsi dell’evento, mentre la colpa cosciente si connota per la convinzione
dell’agente, dovuta a negligenza o a imprudenza, che l’evento non si verificherà nel caso concreto. Il dolo
eventuale si differenzia dalla colpa cosciente in quando il primo consiste nella rappresentazione della
concreta possibilità della realizzazione del fatto, con accettazione del rischio di esso, mentre la seconda
consiste nella astratta possibilità della realizzazione del fatto, accompagnata dalla sicura fiducia che in
concreto esso non si realizzerà. Il problema del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente viene in rilievo
in giurisprudenza in relazione ad un ampia casistica, che negli anni recenti riguarda con particolare
frequenza: omicidio o lesioni colpose conseguenti a contagio da HIV derivanti da rapporti sessuali non
protetti; omicidio o lesioni personali conseguenti alla guida di autoveicoli in stato di alterazioni psicofisica;
infortuni sul lavoro. In materia di contagio da HIV si è ritenuto che si trattasse di omicidio colposo aggravato
dalla colpa cosciente in un caso in cui l’imputato sieropositivo aveva maturato la convinzione, poggiante
sulla considerazione che il suo stato di salute non aveva negli anni subito alcun processo peggiorativo, e
godeva tutto sommato di buona salute, che niente di male avrebbe potuto succedere alla moglie. Mentre la
corte ha ritenuto sussistente il dolo eventuale nel caso in cui l’infezione era stata trasmessa da una donna
pienamente sciente sia della malattia sia della possibilità di trasmetterla; in materia di circolazione stradale
la giurisprudenza ha recentemente mandato ripetuti segnali di stop alla tentazione di ravvisare in episodi di
questo tipo gli estremi del dolo eventuale. Quindi questi fatti di incidenti stradali rientrano nella colpa e non
nel dolo eventuale. Quanto alla sicurezza sul lavoro, il problema dei confini tra dolo eventuale e colpa
cosciente viene affrontato in relazione alla responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni occorsi ai
dipendenti in ragione dell’omessa adozione di adeguate misure preventiva. Il recente caso che ha dato che
ha dato il via al dibattito riguarda l’incendio nel 2007 delle acciaierie torinesi thyssenkrupp, nel quale
morirono 7 operai. In primo grado l’a.d. della società è stato condannato per omicidio doloso commesso
con dolo eventuale. La sentenza d’appello ha modificato la responsabilità dell’a.d. accusandolo di colpa
cosciente in ossequio alla prima formula di frank: sussiste il dolo eventuale laddove emerga che l’agente,
pur essendosi rappresentato l’evento come seriamente possibile, avrebbe agito allo stesso modo anche
qualora se lo fosse rappresentato come certo. Per quanto riguarda la colpa cosciente, la suprema corte si
discosta dalla posizione adottata dalla giurisprudenza maggioritaria secondo la quale tale criterio di
imputazione si caratterizza per il fatto che l’agente dapprima si rappresenta l’evento e successivamente ne
esclude la verificazione. Secondo la corte, per poteri muovere un rimprovero di colpa cosciente, la
previsione dell’evento non solo deve sussistere, ma deve anche permanere nella psiche dell’agente. Nella
colpa cosciente l’agente è consapevole dell’esistenza del rischio, e ciò nonostante si astiene dall’agire

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doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo. Ben diversa
è la situazione di chi agisce con dolo eventuale. I tratti distintivi sono rappresentati, sia dalla
rappresentazione, che nel dolo eventuale è necessariamente chiara e lucida; sia dall’elemento volitivo,
assente nella colpa cosciente e invece presente nel dolo eventuale. Secondo le sezioni unite della corte
l’elemento del dolo eventuale è un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da
essa distinto, che sussiste laddove l’agente, dopo aver effettuato un bilanciamento tra il fine perseguito e i
suoi effetti collaterali, decide comunque di agire, cosi accettando la verificazione dei secondi quali prezzo
da pagare per realizzare il primo. In conclusione: il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia
chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante,
dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire
comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre
invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo
concretamente presente la connessione causale tra la volizione delle norme cautelari e l’evento illecito, si
astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole
motivo. Dolo eventuale e colpa cosciente hanno in comune l’elemento rappresentativo e si distinguono
sotto il profilo del successivo processo decisionale che sorregge la condotta dell’agente: mera trascuratezza
o imprudenza nella colpa cosciente; consapevole adesione all’evento nel dolo eventuale. L’oggetto del
dolo: la rappresentazione e le volizione debbono avere per oggetto non già gli elementi descritti in astratto
dalla norma incriminatrice, bensì il fatto concreto che corrisponde alla figura legale del fatto incriminato.
L’agente dunque può anche ignorare l’esistenza della norma che descrive il fatto da lui realizzato, ovvero
può interpretarla erroneamente: tutto ciò non aggiunge ne toglie nulla all’esistenza del dolo, ma rileverà
eventualmente come ipotesi di ignoranza o errore sulla legge penale. Ciò che è necessario e sufficiente per
l’esistenza del dolo è che l’agente voglia consapevolmente realizzare un fatto concreto che corrisponda alla
previsione di quella norma, ossia, un fatto tipico. Nei reati a dolo generico, l’oggetto della rappresentazione
e della volizione è solo il fatto concreto che integra gli estremi del fatto descritto dalla norma incriminatrice:
eventi ulteriori, perseguiti come conseguenza eventuale del fatto tipico, sono al di fuori dell’oggetto del
dolo e tutt’al più rileveranno come motivi che aggravano o attenuano la pena. Ad esempio nell’omicidio
doloso è necessario ma anche sufficiente che l’agente abbia cagionato scientemente la morte di un uomo,
non rilevando i motivi per i quali l’ha fatto. Nei reati a dolo specifico invece l’oggetto del dolo è più ampio:
abbraccia sia il fatto concreto corrispondente a quello descritto dalla norma incriminatrice, sia un risultato
ulteriore, che l’agente deve perseguire come scopo e la cui realizzazione è irrilevante per la consumazione
del reato. Va ora chiarito che cosa debba intendersi per fatto concreto ai fini dell’oggetto del dolo: cioè
quale parte del fatto concreto debba essere oggetto di rappresentazione e da quale parte debba invece
farsi astrazione. Ad esempio ai fini del dolo di furto, l’agente deve sapere a chi appartiene la cosa che
sottrae? Parlando di cosa altrui, la disposizione incriminatrice del furto da rilievo soltanto al fatto che la
cosa non sia di proprietà dell’agente: ai fini del dolo basterà dunque che l’agente sappia che la cosa non è
sua ed è perciò irrilevante che egli abbia erroneamente ritenuto che la cosa appartenesse a tizio, mentre in
realtà apparteneva a caio. Quanto poi al decorso causale che deve essere rappresentato dall’agente nei
reati di evento, è necessario e sufficiente che l’agente abbia attribuito alla sua azione l’attitudine a causare
in concreto quell’evento, mentre è irrilevante che abbia previsto un decorso causale diverso da quello che
poi si è verificato. Si pensi al killer che spari per uccidere una persona colpendola alla testa e invece la
uccide colpendola al cuore: la divergenza tra il decorso causale effettivo e quello che il soggetto si è
rappresentato non rileva ai fini del dolo. Dire che oggetto della rappresentazione e della volizione
necessarie ai fini del dolo è un fatto concreto che corrisponde al modello di una specifica figura di reato
equivale a dire che l’agente deve rappresentarsi e volere tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.
Quanto ai presupposti della condotta, il soggetto deve rappresentarsi la loro esistenza come certa o come
possibile, accettando l’eventualità della loro esistenza. Quanto agli elementi negativi del fatto, sarà
necessaria la consapevolezza dell’assenza del consenso della donna nel reato di procurato aborto. La
controversia sull’inclusione o meno nell’oggetto del dolo della specifica qualità del soggetto attivo, giuridica
o di fatto, che caratterizza i reati propri va risolta in senso affermativo. Le qualità richieste per il soggetto
attivo del reato proprio concorrono a delineare il fatto come specifica forma di offesa a un bene giuridico.
Perché si configuri il dolo è sufficiente che l’agente abbia una conoscenza da profano della sua qualità

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giuridica, non diversamente da quanti si richiede in genere per gli elementi normativi del fatto: chi si lascia
corrompere deve sapere che riveste una funzione pubblica e poco importa che sappia esattamente se è
pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio. Una conferma sistematica della inclusione della
qualità del soggetto attivo nell’oggetto del dolo dei reati propri si ricava dalla disciplina del concorso di
persone. La regola generale è nel senso che il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma
incriminatrice risponde di concorso doloso nel reato proprio se sapeva che la persona da lui agevolata o
istigata alla commissione del reato rivestiva la qualità richiesta dalla norma incriminatrice. A questa regola
pone un eccezione l’art 117 c.p. che rende responsabile di concorso nel reato proprio anche l’estraneo che
ignorava la qualità della persona istigata o agevolata, ma ciò solo nell’ipotesi in cui l’estraneo volesse
comunque concorrere a realizzare un fatto penalmente rilevante e la presenza della qualità a lui ignota
comportasse soltanto l’integrazione di una figura diversa di reato. Il dolo e l’erronea supposizione della
presenza di cause di giustificazione: l’erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se esistesse
realmente, integrerebbe gli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento esclude il
dolo. Se però l’erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione è stata determinata da
colpa, perché nessuna persona ragionevole sarebbe caduta in quell’errore, il fatto antigiuridico viene
addebitato all’agente a titolo di colpa a condizione che quel fatto sia previsto dalla legge come delitto
colposo. Questa incidenza sul dolo o sulla colpa dell’erronea supposizione da parte dell’agente di aver
commesso il fatto in presenza di una causa di giustificazione in realtà inesistente, causa di giustificazione
putativa, trova esplicito riconoscimento nel codice penale. Dispone infatti il 59 c.p. che se l’agente ritiene
per errore che esistano circostante di esclusione della pena queste sono sempre valutate a favore di lui.
Tuttavia se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto
dalla legge come delitto colposo. Va ribadito che l’ipotesi delineata dal art 59 c.p. è quella in cui l’agente
erroneamente supponga l’esistenza nella realtà degli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta
dall’ordinamento. Si tratta cioè del solo errore di fatto sull’esistenza di cause di giustificazione. Altra cosa è
invece l’ipotesi in cui l’agente supponga l’esistenza di una causa di giustificazione non contemplata
dall’ordinamento ovvero ritenga erroneamente che una causa di giustificazione abbia limiti più ampi di
quelli previsti dall’ordinamento. Queste ultime ipotesi rientrano fra gli errori sulla legge penale, che
rileveranno solo se e in quanto scusabili, perché non evitabili nemmeno con la dovuta diligenza. Il dolo nei
reati omissivi: le peculiarità del fatto nei reati omissivi, sia propri che impropri, si riflettono nella
configurazione del dolo sotto il profilo dell’oggetto della rappresentazione e della volizione. Quando al
momento rappresentativo, il soggetto che ha l’obbligo di agire deve innanzitutto essere a conoscenza,
anche in forma dubitativa, dei presupposti di fatto dai quali scaturisce il dovere di agire: e ciò vale sia per i
reati omissivi propri, sia per quelli omissivi impropri. Il dolo di omissione di soccorso, prototipo dei reati
omissivi propri, esige infatti innanzitutto che il soggetto si renda conto di trovarsi di fronte ad un fanciullo
minore di anni10 o di una persona incapace di provvedere a se stessa che siano stati abbandonati o
smarriti, ovvero ad un corpo che sia o sembri inanimato o ancora a una persona ferita o altrimenti in
pericolo. In secondo luogo il soggetto deve sapere qual è l’azione da compiere: ad esempio deve sapere che
deve avvertire la pubblica autorità. Nei reati omissivi impropri, che esigono anche il verificarsi di un evento
come conseguenza dell’omissione, il garante deve inoltre rendersi conto che il compimento dell’azione per
lui doverosa potrebbe impedire il verificarsi dell’evento, neutralizzando cosi il decorso causale che
potrebbe produrlo. Quando al momento volitivo del dolo, è necessario che il soggetto decide di non
compiere l’azione doverosa: nei reati omissivi impropri, inoltre il momento volitivo esige che il soggetto
abbia posto a base di quella decisione l’intenzione di non impedire l’evento o la certezza o l’accettazione
dell’eventualità del verificarsi di un evento che sarebbe stato impedito dal compimento dell’azione
doverosa. l’accertamento del dolo: problemi notoriamente difficili solleva l’accertamento del dolo: i fatti
psichici che lo compongono, rappresentazione e volizione, non possono essere accertati mediante i sensi,
ma possono e devono essere desunti unicamente da dati esteriori, con l’aiuto di massime di esperienza. Di
regola però le massime di esperienza da sole possono condurre a risultati inaccettabili. Vanno perciò
utilizzate con prudenza e accortezza, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. Possono
venire in rilievo circostanze di carattere oggettivo o soggettivo: le prime attengono alla modalità della
condotta, le seconde riguardano la persona dell’agente. Quanto alle modalità della condotta, i mezzi
adoperati acquistano particolare rilievo, ad esempio, in tema di omicidio: carattere dell’arma usata, utilizzo

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a breve distanza dalla vittima, reiterazione di colpi. Quanto alla durata della condotta è stata assunta ad
elemento sintomatico del dolo in una sentenza in tema di pascolo abusivo. Per quel che riguarda la
condotta antecedente alla commissione del reato, è stata ad esempio valutata quale indice di una
volontaria elusione di un provvedimento del giudice da parte di una donna la precedente manifestazione
del dissenso sul merito del provvedimento di affidamento del figlio minore al padre. La giurisprudenza è
orientata a dare rilievo ai fini dell’accertamento del dolo, alla condotta successiva alla commissione del
reato, ad esempio fuga dal luogo del delitto e cancellazione delle tracce dopo un omicidio. Per la prova del
dolo, come si è detto possono venire in rilievo anche circostanze relative alla persona dell’agente. Di norma
il giudice prenderà in esame queste circostanze solo in via sussidiaria, quando le circostanze relative alla
modalità della condotta non giungono a risultati certi. In particolare, quando alle cognizioni del soggetto
agente, la giurisprudenza attribuisce rilievo alla qualifica o esperienza professionale. Anche precedenti
esperienze di vita del soggetto agente vengono talora prese in considerazione dalla giurisprudenza ai fini
dell’accertamento del dolo. Quanto al movente la giurisprudenza sottolinea in modo particolare che la
relativa indagine deve avere carattere sussidiario rispetto all’accertamento del dolo raggiunto
autonomamente per altra via: solo qualora l’indagine limitata alle circostanze estrinseche e obiettive non
consenta un sicuro giudizio ai fini dell’accertamento del dolo è necessario l’esame del movente, in via
sussidiaria, che deve essere aderente alla dinamica del fatto e dei comportamenti del soggetto attivo e
passivo. Va infine ricordato che l’errore, sia sul fatto che sulle cause di giustificazione, esclude il dolo anche
se inescusabile, anche cioè se un uomo diligente lo avrebbe evitato nelle circostanze del caso concreto:
l’errore dovuto a colpa lasica sussistere una responsabilità per colpa a condizione che il fatto sia previsto
dalla legge anche nella forma del delitto colposo. Tuttavia la credibilità dell’errore, e quindi la prova della
sua effettiva esistenza, di regola non può fondarsi solo sulle affermazioni dell’agente.
4. la colpa: nozione
La realizzazione per colpa di un fatto antigiuridco comporta una responsabilità assai meno grave rispetto
alla realizzazione dolosa dello stesso fatto. Es. omicidio doloso minimo 21 anni di reclusione; omicidio
colposo massimo 5 anni di reclusione. La colpa ha una struttura del tutto diversa rispetto al dolo. Art 43
stabilisce che il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline. La colpa ha quindi un requisito negativo e uno positivo. Quello negativo è
l’assenza di dolo: il fatto deve essere stato realizzato involontariamente. Il requisito positivo è che il fatto
sia compiuto con negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti ordini o discipline.
Negligenza cioè omesso compimento di un azione doverosa. imprudenza ossia violazione di un divieto
assoluto di agire o del divieto di agire con particolari modalità. Imperizia ossia carenza di cognizioni o di
abilità esecutive nello svolgimento di attività tecniche o professionali. Tratto comune di diligenza, prudenza
e perizia è una finalità preventiva o cautelare: evitare che dalla condotta dell’agente possano derivare
eventi dannosi o pericolosi prevedibili.
4.2. la colpa specifica come inosservanza di regole cautelari codificate
In primo luogo, le regole di diligenza, prudenza e perizia possono essere codificate, cioè contenute in
norme di fonte pubblica o privata. Parlando di colpa per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o
discipline, ossia colpa specifica, il legislatore evoca una fonte di produzione delle regole cautelari0 che era
marginale all’epoca della codificazione, ma che è andata assumendo un ruolo crescente nella seconda metà
del 20 secolo, come conseguenza dell’aumento delle attività rischiose socialmente utili. lo svolgimento di
queste attività ha reso infatti irrinunciabile l’intervento di norme giuridiche come leggi e regolamenti (codici
della strada, norme antinfortunistihce, reati ambientali). Anche pubbliche amministrazioni possono
emanare atti (ordini), la cui inosservanza da vita a colpa, contenenti divieti o comandi finalizzati a prevenire
eventi dannosi o pericolosi per la vita e l’integrità fisica (provvedimenti dell’autorità comunale, intervento
di vigili nella regolazione del traffico). Infine regole cautelari possono trovare la loro fonte in atti (discipline)
amanti: da singoli soggetti privati come imprenditori che esercitano attività pericolose; da organismi privati
o pubblici preposti alla regolamentazione di attività pericolose (regolamenti sportivi). Va ribadito che
essendo la finalità preventiva o cautelare il tratto che individua tutte le regole di condotta rilevanti ai fini
della colpa, rientrano nel concetto di leggi la cui inosservanza da vita a colpa non tutte le leggi, ma soltanto
le leggi che impongono o vietano una data condotta all’esclusivo scopo di neutralizzare, o ridurre, il pericolo

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che da quella condotta possano derivare eventi dannosi o pericolosi rilevanti ai sensi di una fattispecie di
reato colposo. Le leggi la cui inosservanza può fondare la responsabilità per colpa possono dar luogo a
sanzioni penali ma anche a sanzioni amministrative. Ad esempio norme del codice della strada, sanzioni
amministrative; norme antinfortunistiche sanzioni penali.
4.3. la colpa generica come violazione di regole cautelari non codificate
Il fenomeno della codificazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia, per quanto in progressiva
espansione, incontra una serie di limiti. Non tutto può essere massicciamente oggetto di specifiche regole
di diligenza. Basti pensare alla circolazione stradale che spesso da luogo a situazioni di pericolo inedite che
non possono essere già codificate dal legislatore (un automobilista che incontra un motociclista per strada,
per evitarlo deve girare a destra o sinistra a seconda di molteplici fattori. Il legislatore può descrivere solo in
generale la manovra da eseguirsi). Vi sono poi attività rischiose socialmente utili rispetto alle quali non è
tanto impossibile, quanto indesiderabile che il legislatore intervenga imponendo una volta per tutte delle
regole di diligenza (es. attività medico chirurgica). Infine vi è una miriade di attività pericolose che l’uomo
normale compie ogni giorno senza essere un professionista, rispetto alle quali è senz altro impensabile che
possano essere dettate da chicchessia delle norme giuridiche scritte a contenuto cautelare (è impensabile
che il legislatore dica che nel correre una persona, deve evitare di travolgerne altre). Accanto alle regole
codificate, quindi, vi è un ampio spazio per regole la cui individuazione grava sul giudice: è lo spazio della
c.d. colpa generica, cioè quella che il codice penale designa come colpa per negligenza o imprudenza o
imperizia. In giudice per individuare tali regole dovrà fare riferimento a quel che si doveva fare in un dato
momento: confronterà il comportamento del singolo agente con il comportamento che in quelle stesse
circostanze di tempo e di luogo avrebbe tenuto un uomo ideale, assunto come agente modello. Fino a un
recente passato il giudice si rifaceva al modello del buon padre di famiglia, uomo medio e accortissimo
dotato di tutto il sapere e delle massime abilità del suo tempo. L’adozione di questo modello unico però
urta contro l’enorme varietà di pericoli che l’uomo deve affrontare nelle più diverse situazioni. Oggi perciò
si fa capo a una pluralità di modelli, differenziati a seconda del tipo di attività in cui si lascia suddividere la
vita di relazione e che vengono ritagliati ampiamente sulla persona dell’agente: uomo modello, donna
modello, automobilista modello, pedone modello… Come si è detto, le regole di diligenza vanno
ampiamente ritagliate sulla persona del singolo agente. Questo processo di personalizzazione incontra però
un limite logico. Non si può tener conto dell’assenza nell’agente delle conoscenze o delle capacità psico
fisiche necessarie per fronteggiare i più diversi pericoli della vita di relazione. Cosi è pacifico che non
rileveranno i deficit delle qualità morali dell’agente e delle sue doti intellettuali, culturali e di esperienza. Si
possono prendere in considerazione soltanto le menomazioni fisiche. Cosi l’handicappato fisico potrà
inserirsi nella società comportandosi come un uomo ragionevole affetto dalla stessa infermità. Le
conoscenze e le abilità del singolo agente superiori rispetto a quelle dell’agente modello non possono
invece fondare, in linea di principio, un più elevato dovere di diligenza. Ad esempio il campione di formula 1
quando guida in gara gli sono richieste determinate competenze e abilità, che non gli sono chieste quando
guida nella normale circolazione strada, in questo caso infatti gli sarà chiesta la diligenza del normale
automobilista.
4.4. le linee guida nell’attività medico chirurgica
In Italia le diverse società mediche emanano linee guida, cioè regole che indicano i passi che debbono
essere compiuti e i fattori da considerare nella diagnosi e nella terapia delle più svariate patologie. La prassi
giudiziaria mostra un sempre più frequente ricorso a quanto indicano i protocolli e le linee guida per
corroborare o confutare un addebito di imperizia. Anche se dettagliati, i protocolli possono non coprire
tutte le circostanze del caso concreto: può dunque accadere che un comportamento conforme a un
protocollo sia, nondimeno, contrario alle regole dell’arte, che in un dato caso imponevano una diversa
condotta. L’idea secondo cui il rispetto delle linee guida non esclude la responsabilità per colpa nell’attività
medico chirurgica quando le circostanze concrete rendano necessario discostarsi dalle linee guida è stata
fatta propria dal legislatore con il c.d. decreto Balduzzi, nel quale, all’art 3 si è stabilito che l’esercente la
professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve: il medico risponde solo nei
casi in cui la colpa non è lieve, in quanto è macroscopica, e come tale immediatamente riconoscibile, la

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necessità di discostarsi dalle linee guida. Nei casi in cui è esclusa la responsabilità penale resta comunque
ferma la responsabilità civile ex art 2043.
4.5. i rapporti tra colpa specifica e colpa generica
Va premessa la distinzione fra regole cautelari codificate a contenuto rigido e regole cautelari codificate a
contenuto elastico: le prime impongono al destinatario una regola di condotta fissata in modo preciso; le
seconde fanno invece dipendere l’individuazione della regola di condotta dalle circostanze del caso
concreto, nel senso che è sulla base di quelle circostanze che andrà individuata la condotta che avrebbe
tenuto l’agente modello. Si pone il quesito se l’inosservanza di una regola cautelare codificata a contenuto
rigido sia di per se solo sufficiente a fondare la colpa. La risposta è nel senso che l’inosservanza da vita a
colpa, a meno che siano presenti circostanze concrete tali da rendere il rispetto della norma stessa fonte di
un aumento del rischio della realizzazione di un fatto che integra un reato colposo. In questa evenienza
l’inosservanza della regola cautelare codificata è irrilevante, perché la vera regola di diligenza da osservare
non è quella prescritta dalla regola cautelare codificata ma quella che l’agente modello avrebbe rispettato
nelle circostanze concrete per evitare che quel maggior rischio si traducesse in un evento lesivo. La legge
189/2012 ha riconosciuto che le regole dettate da linee guida nella sfera dell’attività medico chirurgica
debbano cedere il passo a regole non codificate, quando le circostanze del caso concreto facciano si che il
rispetto della regola codificata comporti un aumento del rischio della realizzazione di un fatto che integra
un reato colposo
4.6. i reati colposi di evento: i contenuti del dovere di diligenza
Il legislatore ha assunto come prototipo dei reati colposi il reato colposo di evento: ha infatti stabilito che il
delitto è colposo quando l'evento si verifica a causa di negligenza, imperizia, imprudenza, inosservanza di
leggi, regolamenti… In questa classe di reati, che è dominante numericamente e criminologicamente, le
regole di diligenza, prudenza e perizia sono rivolte al futuro: sono cioè finalizzate a prevenire che dalla
condotta dell’agente derivi un evento offensivo di beni giuridici. E colposa deve essere sia la condotta sia
l’evento che ne è derivato.
4.7. la condotta colposa
Nei reati colposi di evento, il dovere di diligenza, prudenza o perizia ha un duplice contenuto, vincolante al
momento in cui si inizia o si continua ad agire: riconoscere il pericolo del fatto antigiuridico; neutralizzare o
ridurre il pericolo che si realizzi in fatto antigiuridico. Quanto al primo dovere, il riconoscimento
dell’esistenza del pericolo di un fatto antigiuridico deve essere ottenuto dall’agente con i senti, con gli
strumenti apprestati dalla tecnica per potenziare i sensi, attraverso l’applicazione al caso concreto delle
regole di esperienza o giuridiche note all’agente modello. In presenza di un pericolo noto all agente di
realizzazione di un fatto antigiuridico, il dovere logicamente successivo ha per oggetto la neutralizzazione
ovvero, se ciò è impossibile, la riduzione del pericolo. L’adempimento di questo dovere può comportare la
totale astensione dall’agire o dalla prosecuzione dell’agire. Quindi in definitiva il carattere colposo della
condotta può derivare già dal mancato riconoscimento del pericolo di realizzazione del fatto che l’agente
modello sarebbe stato in grado di riconoscere nel momento in cui l’agente concreto ha iniziato o
continuato ad agire, ovvero, di fronte ad un pericolo ormai riconosciuto, dalla mancata adozione dei
comportamenti necessari per neutralizzare o ridurre il pericolo che in quel momento e in quelle circostanze
avrebbe tenuto l’agente modello.
4.8. il principio di affidamento
Molte attività pericolose vengono svolte da una pluralità di persone, ora nella forma della collaborazione
ora in attività individuali. Nel quadro di queste attività opera il principio di affidamento: ciascuno degli
agenti può cioè confidare che il comportamento dell’altro sia conforme alle regole di diligenza, prudenza e
perizia. Un chirurgo ad esempio fa affidamento sulle informazioni che gli fornisce l’anestesista. In materia di
circolazione stradale opera il principio opposto a quello di affidamento: il principio secondo il quale ogni
conducente ha l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e
di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui. Un primo limite all’operatività del principio di
affidamento è che le circostanze del caso concreto lascino riconoscere la possibilità di un altrui
comportamento colposamente pericoloso: si può cioè confidare nel diligente comportamento altrui a meno
che le circostanze del caso concreto non facciano ritenere che è una fiducia infondata. Il principio di
affidamento incontra un secondo limite, nei casi in cui, ai sensi del art 40, l’agente abbia l’obbligo giuridico

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di impedire eventi lesivi dell’altrui vita o integrità fisica, il cui rispetto comporti, come dovere di diligenza, il
controllo e la vigilanza dell’operato altrui: non potrà infatti fare affidamento sul corretto comportamento
altrui quando la diligenza da rispettare gli imponeva proprio di controllare che quel comportamento non
fosse pericolosamente colposo. Il principio di affidamento opera anche rispetto ai reati dolosi commessi da
altri: non solo possiamo confidare che gli altri consociati non agiranno colposamente, ma siamo anche
autorizzati a confidare che non agiranno dolosamente. Su questo terreno il principio di affidamento ha anzi
una portata beni più ampia per due ragioni. La prima ragione è che nel nostro ordinamento solo in via
d’eccezione sono previsti delitti di agevolazione colposa di un fatto doloso. In queste ipotesi non ha alcun
rilievo l’affidamento che altri non agiranno dolosamente: la commissione di quei delitti viene rimproverata
sulla base della colpa, per non aver previsto quel che era astrattamente prevedibile. La ratio di queste
ipotesi eccezionali è riconducibile al rango dei beni in gioco. La seconda ragione della più ampia estensione
del principio di affidamento, che autorizza di regola a confidare che altri consociati non commetteranno
reati dolosi, discende da una semplice considerazione: in astratte è senza altro prevedibile che coltelli,
martelli… quando vengano venduti a terzi, potranno essere utilizzati come strumenti per commettere
omicidi dolosi; ma nessuno si sogna di proibire la vendita di quegli oggetti. Deve perciò sottostare a
condizioni più stringenti l’esclusione dell’affidamento e quindi la configurabilità di una responsabilità per
colpa. Tra le varie soluzioni in campo, sembra persuasiva quella che ravvisa un autonoma responsabilità per
colpa, allorché, come per l’omicidio e le lesioni, la legge da rilevanza sia al dolo sia alla colpa, nell’aver
favorito con la propria condotta l’altrui riconoscibile inclinazione o propensione a commettere un fatto
doloso, in presenza di indizi concreti che rendano riconoscibile quella inclinazione o propensione.
4.9. il nesso tra colpa e evento
Nei reati di evento la colpa deve abbracciare sia l’azione sia l’evento: si doveva agire diversamente perché,
agendo come si è agito, si è cagionato un evento che il legislatore vuole impedire. Il nesso tra colpa e
evento è richiesto dalla stessa definizione legislativa del delitto colposo: l’evento deve infatti verificarsi a
causa della negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi… Questo nesso compare anche nella
descrizione dei singoli delitti. Ciò comporta che la violazione della stessa regola di diligenza, prudenza o
perizia che deve caratterizzare come colposa tanto l’azione quanto l’evento che è conseguenza dell’azione.
Il nesso che deve intercorrere tra colpa e evento è duplice. In primo luogo, l’evento concreto deve essere la
realizzazione del pericolo che la norma cautelare violata mirava a prevenire, cioè l’evento verificatosi nella
realtà deve rientrare tra quegli eventi che la norma violata mirava a prevenire: l’evento deve essere il
risultato di una delle serie di sviluppi causali il cui prevedibile avverarsi rendeva colposa la condotta
dell’agente. Non si risponde per colpa se si verifica un evento che è fuori dalla serie di sviluppi causali
derivanti da un determinato fatto. Il primo nesso tra colpa e evento va accertato non in relazione
all’evento astratto descritto dalla norma incriminatrice bensì in relazione all’evento concreto penalmente
rilevante che rappresenta la realizzazione dello specifico rischio o di uno dei rischi che la norma violata
mirava a prevenire. Il secondo nesso tra colpa e evento si lascia cosi individuare: accertato che l’evento è la
realizzazione del pericolo colposamente creato dall’agente, bisogna appurare se la condotta rispettosa delle
regola di diligenza avrebbe evitato nel caso concreto il verificarsi dell’evento. L’idoneità della condotta
diligente ad evitare il verificarsi dell’evento concreto va accertata riportandosi al momento in cui il soggetto
avrebbe dovuto tenere quella condotta. Normalmente le regole di diligenza impongono di agire in un
determinato modo per evitare eventi lesivi di beni giuridici; in via di eccezione le regole di diligenza
tendono non ad evitare, ma a ridurre il rischio del verificarsi dell’evento.
4.10. la colpa nei reati omissivi impropri
La responsabilità per l’omesso impedimento di eventi costitutivi di delitti colposi si configura nei confronti
di chi è destinatario di obblighi di protezione o di controllo dei pericoli che possono incombere sui più
diversi beni. In questo gruppo di reati la colpa può consistere: nell’inottemperanza del dovere di attivarsi
per riconoscere la presenza di pericoli che i garanti hanno il dovere di sventare ovvero nel mancato
compimento delle azioni necessarie per neutralizzare o ridurre quei pericoli. Anche nei reati omissivi
impropri l’evento non può essere addebitato a colpa se il soggetto non poteva evitarlo nemmeno
compiendo le azioni che la diligenza o la perizia gli imponevano di compiere.
4.11. i reati colposi di mera condotta

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Si tratta di reati nei quali il fatto si esaurisce nella realizzazione di una condotta, in presenza di dati
presupposti, senza che debba verificarsi un evento. In questo tipo di reati le regole di diligenza che l’agente
deve rispettare sono finalizzate non già a prevenire eventi futuri, bensì ad assicurare che l’agente assuma le
informazioni necessarie ovvero compia i controlli necessari nel momento in cui esegue l’azione.
4.12. il grado della colpa
Nell’ordinamento italiano la colpa si configura quando la condotta concreta è difforme dal modello di
condotta prescritto dal una regola di diligenza, prudenza o perizia, codificata o non codificata. Il grado della
colpa, cioè il divario tra la condotta concreta e il modello di condotta che l’agente doveva rispettare, è
dunque di regola irrilevante ai fini della realizzazione per colpa di questa o quella figura di reato colposo:
rileverà invece ai fini della commisurazione della pena, che dipende, tra l’altro, per l’appunto dal grado di
colpa. Molteplici sono i fattori che rilevano in tale ambito: la gravità della violazione della regola cautelare;
la misura della prevedibilità ed evitabilità dell’evento; la condizione personale dell’agente; il possesso di
qualità personali utili a fronteggiare la situazione pericolosa; la motivazione della condotta. Vi sono figure di
reato la cui integrazione esige un elevato grado di colpa (bancarotta semplice). Un'altra sfera nella quale la
legge da rilievo al grado di colpa in relazione alla configurazione di una responsabilità penale è quella
dell’attività medico chirurgica realizzata nel rispetto di linee guida e buone pratiche in situazioni concrete
che imponevano invece di discostarsi da quelle regole. Una forma più grave di responsabilità per colpa si
configura, per i delitti, nei casi di colpa con previsione, cioè nei casi in cui l’agente per leggerezza
sottovaluta la probabilità del verificarsi dell’evento che ha previsto ovvero sopravvaluta le proprie capacità
di evitarlo. Art 61 comma 3 prevede come aggravante aver agito nei delitti colposi nonostante la previsione
dell’evento.
5. dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità per dolo misto a colpa
Il codice penale del 1930 prevede una serie di ipotesi di responsabilità oggettiva, cioè ipotesi nelle quali un
elemento del fatto di reato o l’intero fatto di reato viene addossato all’agente senza che sia necessario
accertare la presenza del dolo o almeno della colpa: la responsabilità si fonda solo sull’oggettiva esistenza
di questo o quell’elemento, ovvero sulla sua mera oggettiva causazione. Si tratta però di una disciplina in
contrasto con la costituzione. Il principio di colpevolezza ha il rango di principio costituzionale: dal primo
comma dell art 27 cost risulta indispensabile il collegamento tra soggetto agente e fatto; perché l’art 27
primo comma cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è
indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della
fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente, cioè investiti dal dolo o dalla colpa; soltanto gli
elementi estranei alla materia del divieto si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art 27 primo
comma cost. secondo la corte, pertanto, la responsabilità oggettiva, cioè senza dolo e senza colpa,
contrasta con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale. La corte costituzionale
però ha potuto dichiarare la illegittimità costituzionale della sola disposizione sottoposta al suo giudizio,
vale a dire della disciplina dettata dall’art 626 comma 1 n.1 c.p. per il furto d’uso, che attribuiva rilevanza
obiettiva alla mancata restituzione della cosa sottratta, anche se dovuta a caso fortuito o a forza maggiore
ne segue che la previsione della responsabilità oggettiva è tuttora formalmente presente nell’ordinamento,
sia in una norma di parte generale, sia in numerose disposizioni, di parte generale e speciale che ne
individuano singole ipotesi. Si tratta di 3 gruppi di ipotesi: responsabilità oggettiva in relazione all’evento;
responsabilità oggettiva in relazione ad elementi di fatto diversi dall’evento; responsabilità oggettiva in
relazione all’intero fatto di reato. Il giudice deve interpretare le norme che prevedono la responsabilità
oggettiva in conformità alla costituzione: deve perciò leggerle e applicarle come se già contenessero il
limite della colpa. Il principio di colpevolezza si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore nella
conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatrici, ma anche come canone
ermeneutico per il giudice, nella lettura e nella applicazione delle disposizioni vigenti. Di questa precisa
condizione ha fatto piena e coerente applicazione la cassazione a sezioni unite la quale ha interpretato una
norma a lungo ritenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza un’ipotesi di responsabilità oggettiva, l’art 586
c.p., come se già contenesse il limite della colpa. In questa sentenza le sezioni unite hanno sostenuto che si
deve ammettere la possibilità di concepire e praticare una colpa in attività illecite, la quale non solo è
riconosciuta esplicitamente in numerosi ordinamenti positivi ma è anche ammessa da tempo dalla gran
parte della dottrina italiana che ha evidenziato come le norme cautelari di condotta valgano tanto per chi

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agisce legittimamente quanto per chi opera illegittimamente. Infine le sezioni unite hanno avuto cura di
precisare che la colpa da introdurre in via interpretativa in queste ipotesi è a normale colpa, in quanto
anche in ambito illecito occorre pure sempre che il fatto costitutivo del reato colposo sia una conseguenza
in concreto prevedibile ed evitabile dell’inosservanza di una regola cautelare.
5.2. responsabilità oggettiva in relazione all’evento
Un primo gruppo di ipotesi, in cui l’elemento del fatto che la logica della responsabilità oggettiva vorrebbe
sottrarre all’oggetto del dolo e della colpa, è rappresentato dai delitti aggravanti dell’evento, figure
delittuose per le quali la legge prevede un aggravamento della pena al verificarsi di una conseguenza
naturalistica del reato, già integrato in tutti i suoi elementi costitutivi. Ora alla luce del principio
costituzionale di colpevolezza, la maggior pena che la legge ricollega al verificarsi dell’evento potrà essere
applicata soltanto alla luce di tutte le circostanze concrete, l’evento era uno sviluppo prevedibile, ed
evitabile, con la diligenza esigibile da un uomo ragionevole, del fatto concreto volontariamente realizzato
dall’agente. In giurisprudenza convivono diversi orientamenti a proposito del criterio di imputazione
dell’evento aggravante. Da un lato continuano a prevalere scelte interpretative che portano ad accollare
l’evento secondo lo schema della responsabilità oggettiva, talora occultato dietro lo schermo della colpa
per inosservanza di leggi, dove la legge violata sarebbe la stessa norma incriminatrice della figura semplice
di reato. d’altro lato, non mancano alcune pronunce nelle quali, correttamente, in ossequio al principio
costituzionale di colpevolezza, si richiede invece la prevedibilità in concreto dell’evento aggravante. In base
alla logica della responsabilità oggettiva l’evento viene posto a carico dell’agente sulla sola base del
rapporto di causalità anche nei casi di delitto preterintenzionale, cioè nei casi in cui dall’azione od
omissione deriva un evento più grave di quello voluto dall’agente. Altra parte della giurisprudenza afferma
invece che nel delitto preterintenzionale l’evento più grave è posto a carico dell’agente solo sulla base del
rapporto di causalità con l’azione o omissione dell’agente: ritiene quindi che si tratti di responsabilità
oggettiva. Non può in effetti parlarsi di colpa per inosservanza di leggi, perché le leggi la cui violazione da
vita a colpa sono soltanto quelle che vietano di agire o impongono di agire con determinate modalità
esclusivamente allo scopo di prevenire il verificarsi di eventi lesivi. In definitiva solo attraverso un
interpretazione secondo costituzione si può e si deve rimodellare il delitto preterintenzionale secondo lo
schema della responsabilità colpevole, subordinando l’applicazione della norma incriminatrice alla
possibilità di rimproverare a colpa dell’agente la causazione dell’evento: chi con atti diretti a cagionare
percosse o lesioni ha provocato la morte di un uomo risponderà di omicidio preterintenzionale solo se un
uomo ragionevole poteva rappresentarsi la circostanza concreta che ha fatto degenerare le percosse o l e
lesioni nella morte della vittima. In sintesi, nelle ipotesi di responsabilità oggettiva in relazione all’evento,
reinterpretate ala luce dell’insegnamento della corte costituzionale e delle sezioni unite della corte di
cassazione, può dirsi che il rimprovero al quale si espone l’agente è di aver agito con dolo misto a colpa: il
dolo riguarda la condotta; la colpa riguarda invece l’evento, come conseguenza in concreto prevedibile ed
evitabile della condotta.
5.3. responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto diversi dall’evento
La responsabilità oggettiva si configura anche quando elementi del fatto diversi dall’evento vengono posti a
carico dell’agente benché rispetto ad essi non vi sia ne dolo, ne colpa, solo perché oggettivamente esistenti.
Un’ipotesi di responsabilità oggettiva, nella quale un elemento del fatto giace al difuori del dolo, è
configurata dall’ art 82 comma 1 c.p.. si tratta dell’utilizzo dell’aberratio ictus monolesiva cioè dell’ipotesi in
cui per errore nell’uso di mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa è cagionata offesa a persona
diversa da quella alla quale l’offesa era diretta. Dispone l’art 82 comma 1 c.p. che il colpevole risponde
come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere . il legislatore finge che
rispetto alla persona offesa esista quella volontà che invece esisteva solo nei confronti della persona che
non si è offesa e invita a trasferire il dolo alla vittima designata alla persona realmente offesa. L’art 82
comma2 c.p. contempla poi l’ipotesi in cui oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale
l’offesa era diretta (aberratio ictus plurilesiva, disponendo che il colpevole soggiace alla pena prevista per il
reato più grave, aumentata fino alla metà. Interpretando invece l’art 82 secondo costituzione, in tutti i casi
di aberratio ictus l’agente risponderà, a titolo di dolo: cioè, ad es, di omicidio doloso o di lesioni dolose,
soltanto se l’offesa a persona diversa sia dovuta a colpa, in quanto cioè una persona ragionevole si sarebbe
accorta, in quelle circostanze, che l’offesa da lui progettata si sarebbe potuta verificare nei confronti di una

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persona diversa (aberratio monolesiva) o anche di una persona diversa (aberratio plulrilesiva)della vittima
designata. In conclusione, anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto
diversi dall’evento, reinterpretate alla luce dell’insegnamento della cort cost e delle sez unite cass, può dirsi
che il rimprovero al quale si espone l’agente è di aver agito con dolo misto a colpa: con dolo rispetto a tutti
gli elementi del fatto, ad eccezione di quello da lui non conosciuto, del quale gli si rimprovera di averne per
colpa ignorato la presenza nel caso concreto.
5.4. responsabilità oggettiva in relazione all’intero fatto di reato
Nel codice penale sono infine presenti due disposizioni che accollano all’agente l’intero fatto di reato
secondo lo schema della responsabilità oggettiva. Si tratta in primo luogo del art 116 c.p. a norma del quale
qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde,
se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Secondo la letteralità di tale norma, risponde a
titolo di concorso doloso chi, volendo concorrere in un determinato reato, abbia fornito invece un
contributo causale alla commissione di un reato che, per decisione di un altro compartecipe, è risultato
diverso da quello da lui voluto. Ad esempio tizio paga il sicario caio perché penetri nella casa di mevio e lo
uccida; caio non trova la vittima designata, ma, scorgendo un prezioso quadro, lo sottrae e se ne
impossessa. Caio commette un furto e, ai sensi dell’art 116 c.p., del furto risponde anche tizio, benché il
reato commesso sia diverso da quello da lui voluto. Una volta riconosciuto il rilievo costituzionale del
principio di colpevolezza quelle incertezze andranno tuttavia superate: come riconosce un orientamento
giurisprudenziale che va consolidandosi, ex art 116 c.p. il reato doloso diverso sarà addebitato a chi non lo
ha voluto solo se era in colpa, e cioè solo se una persona ragionevole, sulla base delle circostanze concrete
conosciute o conoscibili, poteva prevedere che sarebbe stato commesso quel reato diverso. Già si è detto
della disciplina che l’art 117 c.p. dedica al concorso di persone nel reato proprio. la norma citata introduce
una deroga alla disciplina generale del concorso di persone nel reato, per i casi in cui, in assenza della
qualità richiesta dalla norma che configura il reato proprio, il fatto integrerebbe un diverso reato: l’estraneo
che ignorando la qualità dell’intraneo, lo istiga o lo aiuta a commettere un fatto che integrerebbe il reato
diverso risponde ex art 117 c.p. come concorrente nel reato proprio. si tratta di responsabilità oggettiva in
quanto l’elemento del fatto di reato qualifica del soggetto attivo è sottratto all’oggetto del dolo, ne la legge
richiede che l’ignoranza o l’errore dell’agente sia determinato da colpa: la responsabilità ex art 117 c.p. si
fonda dunque sul mero contributo causale alla realizzazione del fatto di reato. Letto invece secondo
costituzione, l’art 117 c.p. impone di ritenere l’estraneo responsabile di concorso nel reato proprio solo se
l’ignoranza o l’errore sulla qualifica soggettiva del concorrente sia dovuta a colpa.
5.5. alcune ipotesi di responsabilità per colpa (non di responsabilità oggettiva)
Un ipotesi di responsabilità oggettiva in relazione a un elemento del fatto diverso dall’evento era presente
nella disciplina dei reati contro la libertà sessuale in danno di un minore. Secondo quanto disponeva l’art
609 sexies c.p. nella versione del 1996 il colpevole non poteva invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età
della persona offesa. In base a questa norma, l’errore sull’età lasciava dunque sussistere in ogni caso la
responsabilità dell’agente. Proprio in relazione all’art 609 sexies c.p. la cort cost aveva affermato la
necessità di interpretare secondo costituzione le norme che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva, e
in particolare di interpretarle secondo il principio costituzionale di colpevolezza. Con la l. 172/2012, l’art
609 sexies c.p. è stato integralmente riscritto: la disposizioni attuale stabilisce che il colpevole non può
invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile.
Lo schema della responsabilità oggettiva era talora adottato nel codice del 1930 non solo per l’evento, per
altri elementi essenziali del fatto e per l’intero fatto, ma anche per le circostanze aggravanti, cioè per gli
elementi che non sono richiesti per l’esistenza del reato, ma la cui presenza incide sulla sua gravità,
comportando un aumento della pena. Secondo l’originario dettato dell art 59 c.p., le circostanze aggravanti
venivano infatti valutate a carico dell’agente, anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute
inesistenti: bastava cioè la loro oggettiva esistenza. Il legislatore ha però successivamente armonizzato tale
disciplina con il principio di colpevolezza richiedendo la presenza della colpa. In precedenza il legislatore
aveva riformato la disciplina dei reati di stampa sostituendo all’originaria responsabilità oggettiva del
direttore, una responsabilità a titolo di colpa per omesso controllo necessario a impedire che col mezzo
della pubblicizzazione siano commessi reati. La formula “a titolo di colpa” compare anche nell art 83 c.p. a
proposito della c.d. aberratio delicti cioè l’ipotesi in cui per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione o per

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un'altra causa si cagiona un evento diverso da quello voluto. La formula legislativa a titolo di colpa ha
introdotto parte della dottrina a sostenere che la responsabilità per il reato non voluto non sia
propriamente colposa: si tratterebbe di una responsabilità oggettiva equiparata ai reati colposi solo ai fini
della disciplina. Tale interpretazione però non rispecchia le intenzioni del legislatore, ne è conforme al
principio costituzionale di colpevolezza. Ne segue che non si tratta di un ipotesi di responsabilità oggettiva,
ma di un ipotesi di responsabilità per colpa: sarà perciò necessario accertare caso per caso. Questa
interpretazione dell’art 83 decide anche del fondamento della responsabilità nell’ipotesi di morte o lesioni
come conseguenza di altro delitto per la cui disciplina stabilisce che si applicano le dell’art 83. La morte o la
lesione di una persona che conseguano alla commissione di un fatto preveduto come delitto doloso
saranno infatti poste a carico dell’agente solo se cagionate per colpa. Non deroga al principio di
colpevolezza la disciplina delle condizioni obiettiva di punibilità perché sono elementi estranei al fatto.
5.6. l’irragionevole sproporzione tra misura della pena e grado di colpevolezza
Tale sproporzione è particolarmente evidente nelle ipotesi in cui si punisce con la pena prevista per un
delitto doloso una persona alla quale può essere mosso soltanto un rimprovero di colpa. In conseguenza
della rilevante sproporzione, queste norme, che puniscono con la pena prevista per un delitto doloso
persone alle quali, in relazione ad un elemento del fatto diverso dall’evento ovvero in relazione all’intero
fatto di reato può essere mosso soltanto un rimprovero di colpa, si candidano ad essere dischiarate
costituzionalmente illegittime. La dichiarazione di illegittimità costituzionale potrebbe aprire un vuoto
repressivo che il legislatore potrebbe però colmare prevedendo a fianco di ogni ipotesi di responsabilità
dolosa, una figura di reato colposo, sanzionata con pena proporzionalmente meno grave. A ben vedere,
una irragionevole sproporzione tra misura della pena e grado della colpevolezza ricorre, d’altra parte,
anche nell’omicidio preterintenzionale ed in alcuni delitti aggravati dall’evento. In conseguenza della
rilevata sproporzione, anche l’art 584 e 572 comma 2 c.p. nonché le altre norme che puniscono con una
pena notevolmente più grave di quella derivante dal concorso formale di reati colui che commette un
delitto doloso seguito da un omicidio colposo, si candidano ad essere dichiarate costituzionalmente
illegittime.

ASSENZA DI SCUSANTI
6. La normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto
Un compiuto rimprovero di colpevolezza non può muoversi quando l’agente ha commesso il fatto
antigiuridico in presenza di scusanti, cioè di circostanze anormali che, nella valutazione legislativa, anno
influito in modo irresistibile sulla sua volontà o sulle sue capacità psicofisiche. Il tratto comune di queste
ipotesi viene espresso con il concetto di inesigibilità, nel senso che da chi ha agito sotto la pressione di
quelle circostanze anormali non si poteva esigere un comportamento diverso. Il carattere tassativo del
catalogo delle scusanti: le scusanti hanno carattere eccezionale, il giudice non può pertanto discostarsi dal
catalogo tassativo delle scusanti espressamente previste dalla legge: eventuali lacune in materia di scusanti
possono essere colmate solo dal legislatore, e mai dal giudice in via analogica. Va sottolineato che le scelte
del legislatore in materia di scusanti sottostanno al sindacato di legittimità della cort cost sotto il profilo
dell’art 3 cost nel rispetto del principio di eguaglianza-ragionevolezza. Le scusanti dei reati dolosi: tra le
ipotesi principali di scusanti, si segnala fra l’altro la provocazione nei casi di delitti contro l’onore: secondo il
559 c.p. non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli artt 594 e 595, cioè ingiuria e
diffamazione, nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso. Inoltre è
scusato chi commette fatti antigiuridici dolosi di falsa testimonianza, falsa perizia, interpretazione,
favoreggiamento personale… per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un
prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Non è colpevole chi
agisce in stato di necessità determinato da forza della natura o dall’altrui minaccia essendo costretto dalla
necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Le scusanti dei reati
colposi: si tratta di una gamma tassativa di circostanza, sia interne che esterne all’agente, concomitanti
all’azione o all’omissione che viola una regola di diligenza, valorizzabili come scusanti di quella violazione
sulla base delle disposizioni sul caso fortuito art 45, sulla forza maggiore art 45, sul costringimento fisico art
46 e sulla coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione art 42. A cominciare dal reati commissivi colposi,
rilevano come scusanti, ai sensi della norma sul caso fortuito, circostanze interne come l’insorgenza di un

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malore rapido e improvviso che colpisca chi è alla guida di un auto, il cui quadro clinico può essere anomali
(perforazione di un ulcera mai sospettata, infarto miocardico…): un malore che genera dolori acutissimi,
perdita assoluta delle forze, annebbiamento della vista. In casi del genere la violazione delle regole di
diligenza è incontestabile, come è incontestabile la violazione che è stata realizzata in circostanze
imprevedibili che la scusano. Scusano la violazione delle regole di diligenza, ai sensi della disposizione sulla
coscienza e volontà dell’azione o omissione, circostanze interne come le reazioni da terrore o spavento, che
paralizzano le normali funzioni di controllo della coscienza e volontà. Esempio conducente che viene colpito
da un sasso e punto da più api che, giustamente perde il controllo della vettura provocando danno a terzi è
scusabile. Circostanze anormali esterne, che possono scusare la violazione di una regola di diligenza, sono la
forza maggiore e il costringimento fisico. Quanto alla forza maggiore si pensi alla caduta di un masso dalla
montagna sovrastante la strada contro il quale urta un auto che riporta danni ai freni. Quanto al
costringimento fisico si può ipotizzare che un rapinatore in fuga costringa il conducente di un auto ad
accelerare premendogli il piede con la forza. Anche nei reati omissivi colposi fanno spazi, ai sensi delle
disposizioni sul caso fortuito, forza maggiore, costringimento fisico e coscienza e volontà dell’omissione, a
circostanze anormali interne e esterne che scusano l’oggettiva violazione di un dovere di diligenza. Le
scusanti dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia trova applicazione anche per i reati
colposi.

CONOSCENZA O CONOSCIBILITA’ DELLA LEGGE PENALE VIOLATA


7. nozione e disciplina
Il principio di colpevolezza richiede altresì che, al momento della commissione del fatto, l’agente sapesse o
almeno potesse sapere che quel fatto era previsto dalla legge come reato. Per lungo tempo questo
principio è stato contraddetto dal legislatore italiano che nel codice del 1930 disponeva che nessuno può
invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale, art 5 c.p. la cort cost con la sentenza 364/1988 ha
dichiarato parzialmente illegittimo l’art 5 nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell ignoranza
della legge penale l’ignoranza inevitabile: quindi oggi vige la regola secondo cui nessuno può invocare a
propria scusa l’ignoranza della legge dovuta a colpa, ma solo quando l’agente non poteva sapere che il fatto
da lui realizzato era previsto come reato. Se invece l’agente, usando la normale diligenza poteva rendersi
conto che quel fatto violava una norma incriminatrice risponderà del reato. Non può essere scusato chi al
momento della commissione del fatto versi in una situazione di dubbio sull’esistenza o sui contenuti della
norma penale. L’oggetto dell’errore: l’oggetto dell’ignoranza o della conoscenza errata ex art 5 c.p. può
essere in primo luogo la rilevanza penale del fatto commesso dall’agente: l’agente si rende conto di quello
che fa, ma ignora che quel fatto è penalmente rilevante, ignorando l’esistenza della norma incriminatrice o
avendone erroneamente interpretato la portata. L’ignoranza o l’errata conoscenza può inoltre riguardare
l’antigiuridicità del fatto: l’agente può ritenere lecito il fatto da lui realizzato o in quanto supponga esistente
una norma che lo autorizza o lo impone non prevista dall’ordinamento, oppure in quanto ritenga che la
norma che prevede la causa di giustificazione abbia limiti più ampi di quelli fissati dall’ordinamento. I criteri
per stabilire se l’ignoranza o l’errore sulla legge penale siano o no dovuti a colpa: nella sentenza 364/1988
la cort cost ha considerato non colpevole chi ignori di commettere un fatto vietato da una norma
incriminatrice, avendo ricevuto assicurazioni erronee sulla liceità del fatto da parte degli organi
amministrativi competenti a vigilare sull’osservanza delle norme, ovvero nel caso di precedenti varie
assoluzioni dell’agente per fatti dello stesso tipo perché ritenuti penalmente irrilevanti, oppure nel caso in
cui il testo legislativo sia assolutamente oscuro o ancora nel caso di non colpevole carenza di socializzazione
dell’agente. La suprema corte è stata a lungo restia a riconoscere carattere incolpevole a situazioni di
ignoranza o di errore sulla legge penale. Questo orientamento sembra però superato almeno in parte:
alcune recenti pronunce mostrano una diversa disponibilità della corte a riconoscere carattere incolpevole
a situazioni di ignoranza o di errore ex art 5 c.p.

CAPACITA’ DI INTENDERE E DI VOLERE


8.1 nozione
ulteriore condizione perché un fatto possa essere rimproverato personalmente è che l’autore, al momento
della commissione del fatto, fosse imputabile, cioè capace di intendere e di volere: in altri termini capace di

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comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti (capacità di intendere), nonché di
autodeterminarsi liberamente (capacità di volere). Il legislatore ha disposto in primo luogo all art 85 che
nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento della
commissione del fatto, non era imputabile, aggiungendo che è imputabile chi ha la capacità di intendere e
di volere. Dopo aver enunciato il principio generale che governa questa materia, ha poi individuato una
serie di ipotesi0 la cui disciplina rappresenta una mera applicazione di tale principio: è il caso del vizio di
mente, della cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti e del sordomutismo, che escludono
l’imputabilità quando l’infermità comporta l’incapacità di intendere e di volere; è il caso dell’età minore di
anni 14 per il quale vi è una presunzione assoluta di incapacità, o del minore di 18 che esige caso per caso
l’accertamento della capacità. Quest elenco di cause di esclusione non ha carattere tassativo, infatti
facendo ricorso alla norma generale dell art 85 le cause si possono ampliare caso per caso. Il legislatore ha
apportato una serie di deroghe al principio enunciato dal art 85: in alcuni casi il legislatore ha finto
l’esistenza dell’imputabilità in capo a soggetti incapaci di intendere e di volere (artt. 92, 93 e 94); in altri casi
il legislatore ha spostato all’indietro rispetto alla commissione del fatto il momento in cui deve essere
presente la capacità di intendere e di volere; infine ha escluso ce gli stati emotivi e passionali possano
assumere rilievo scusante. Il vizio di mente: art 88: non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso
il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere. Art 89
vizio parziale di mente: chi era per infermità in tale stato di mente da scemare grandemente, senza
escluderla la capacità di intendere e di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita.
Quanto al vizio parziale va sottolineato che non basta un infermità che ha diminuito la capacità intellettiva
o volitiva dell’agente, ma è necessario che la diminuzione di quelle capacità sia molto seria: ai fini della
diminuzione di pena prevista per il seminfermo di mente, la legge richiede infatti che la capacità di
intendere o di volere sia grandemente scemata. Al centro della disciplina del vizio di mente si colloca il
concetto di infermità. Al giudice si chiede in primo luogo di accertare la presenza di un infermità e in
secondo luogo di stabilire l’influenza che nel caso concreto quell’infermità ha avuto sulla capacità di
intendere o di volere dell’agente: è necessario che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta
criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato. Il concetto di
infermità ex art 88 e 89 ricomprende sia malattie di tipo psichico, sia malattie di tipo fisico, purché tali da
incidere sulle capacità intellettive o volitive della persona. Sono ricomprese secondo parte della
giurisprudenza oltre alle alterazioni mentali su base organico cerebrale, anche le anomalie psichiche non
inquadrate nelle classificazioni nosografiche. Per l’accertamento del vizio di mente è sempre necessaria una
perizia psichiatrica, con la conseguenza che il metodo di volta in volta utilizzato dai periti influirà sulla
maggiore o minore ampiezza del concetto di infermità che il giudice porrà a base della sua decisione. La
persona riconosciuta affetta da vizio totale di mente al momento del fatto viene prosciolta per difetto di
colpevolezza e quindi non viene sottoposto a pena; peraltro, ove sia ritenuta socialmente pericolosa, e il
fatto commesso integri un delitto doloso punito con la reclusione superiore nel massimo a due anni,
l’agente verrà sottoposto a misura di sicurezza (OPG) ovvero alla libertà vigilata. In caso di vizio parziale di
mente l’agente viene sottoposto a una pena diminuita in misura non superiore a un terzo e ove sia
socialmente pericoloso viene inoltre ricoverato in una casa di cura e custodia da eseguirsi di regola dopo
che sia stata scontata la pena. Per reati con una pena inferiore a 5 anni sarà sottoposto alla libertà vigilata.
Il sordomutismo: art 96 dispone che non è imputabile il sordomuto che non aveva per causa della sua
infermità la capacità di intendere e di volere. Se tale capacità era solo grandemente scemata, la pena è solo
diminuita. Il giudice deve accertare la capacità caso per caso. Il sordomuto prosciolto per difetto di
imputabilità o condannato a pena diminuita in quanto la sua capacità di intendere o di volere era
grandemente scemata, se ritenuto socialmente pericoloso, potrà essere sottoposto alle misure di sicurezza
rispettivamente del ricovero in opg, dell’assegnazione a una ccc o della libertà vigilata. La minore età: il c.p.
individua 3 fasce di età ai fini dell’imputabilità: al di sopra dei 18 anni; fra 18 e 14; al di sotto dei 14. Al
compimento dei 18 anni il soggetto è imputabile. Al di sotto dei 14 anni è considerato sempre non
imputabile (presunzione assoluta di incapacità di intendere o di volere). Quando l’imputato ha fra i 14 e i 18
anni la legge subordina la dichiarazione di imputabilità all’accertamento caso per caso della capacità di
intendere e di volere del minore al momento del fatto. L’accertamento va compiuto in concreto in relazione
alle caratteristiche cognitive e volitive di quel singolo agente al momento della commissione del fatto,

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tenendo conto anche del tipo di reato che ha commesso, delle condizioni personali, familiari, sociali e
ambientali del minorenne, consentendo di assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti
con il minorenne e di sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità. Minore di 14 non imputabile
ma se socialmente pericoloso sottoposto a misura di sicurezza (libertà vigilata o riformatorio giudiziario). Se
si tratta di un soggetto fra i 14 e i 18 anni che viene riconosciuto imputabile, la sua pena sarà comunque
diminuita fino a un terzo. In aggiunta libertà vigilata e riformatorio se vi è pericolosità sociale.
L’azione di sostanze alcooliche e stupefacenti: il codice distingue fra ubriachezza accidentale ( derivata da
caso fortuito o da forza maggiore), ubriachezza volontaria o colposa, ubriachezza preordinata, ubriachezza
abituale e cronica intossicazione da alcool. Si estende in generale il trattamento di chi commette il fatto in
stato di ubriachezza a chi commette il fatto sotto l’azione di sostanze stupefacenti. La disciplina da rilievo al
fine di escludere l’imputabilità solo all’ubriachezza accidentale e all’accidentale assunzione di sostanze
stupefacenti; per contro si considera imputabile chi si sia ubriacato volontariamente o colposamente,
nonché l’ubriaco abituale e colui che sia dedito all’uso di sostanze stupefacenti; per questi ultimi prevede
anzi una pena aumentata. Del pari, si considera imputabile e viene punito con pena aumentata chi è
incapace ci intendere e di volere al momento della commissione del fatto avendo assunto alcool o sostanze
stupefacenti al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa. La prima ipotesi contemplata dal c.p. è
quella dell’ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore: derivata cioè o da un accadimento
imprevedibile o da una forza esterna invincibile, esercitata da un altro uomo o dalla natura, con esclusione
di qualsiasi partecipazione dolosa o colposa dell’agente alla causazione dello stato di ubriachezza. Il
soggetto comunque non è imputabile se l’ubriachezza accidentale è piena, cioè tale da escludere la capacità
di intendere e di volere; se invece l’ubriachezza non è piena ma è tale da scemare grandemente senza
escluderla la capacità di intendere e di volere, il soggetto è imputabile, ma soggiace ad una pena diminuita.
Nei confronti di chi venga prosciolto o condannato a pena diminuita ex art 91 c.p. non può essere disposta
alcuna misura di sicurezza. La seconda ipotesi è quella dell’ubriachezza volontaria o colposa. Si parla di
ubriachezza volontaria per alludere all’assunzione di alcool sorretta dall’intenzione di ubriacarsi, mentre
l’ubriachezza è colposa quando il soggetto assume alcool in misura superiore alle sue capacità di reggerlo,
sottovalutando gli effetti inebrianti che l’alcool produrrà su di lui. Il soggetto che si renda autore di fatti
penalmente rilevanti sarà assoggettato a pena per fatti i fatti dolosi o colposi commessi in stato di
ubriachezza. Colpa o dolo dipenderanno dalla modalità della commissione del fatto. L’ubriachezza abituale:
art 92 è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di
ubriachezza. Quindi si parla di una persone che si trova sistematicamente in stato di ubriachezza. Chi
commette un reato in questo stato è sottoposto a un aggravamento di pena nella misura massima di un
terzo. Lo stesso trattamento sanzionatorio è previsto per chi commetta un reato sotto l’azione di sostanze
stupefacenti e sia dedito all’uso di tali sostanze. Diversamente la cronica intossicazione da alcool o sostanze
stupefacenti si caratterizza come alterazione patologica permanente che incide sul sistema nervoso per lo
più nella forma di un affezione cerebrale, alla quale conseguono psicopatie che permangono
indipendentemente dall’ulteriore assunzione di alcol o droga. La cronica intossicazione viene equiparata
dalla legge al vizio di mente. Per i fatti commessi in cronica intossicazione infatti si applicano gli art 88 89
rispettivamente per vizio totale o parziale di mente. Infine gli art 87 e 92 disciplinano le ipotesi di incapacità
di intendere o di volere preordinata dall’agente, vale a dire le ipotesi in cui il soggetto si mette in stato di
incapacità al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa. Art 87 detta una regola di portata
generale, mentre art 92 fa riferimento allo specifico caso in cui l’incapacità preordinata derivi
dall’assunzione di alcol o droga. Quanto alle finalità che devono animare l’agente nel preordinarsi lo stato
di incapacità, il fine di commettere il reato presuppone che l’agente abbia bisogno di perdere la capacità di
intendere o di volere per commettere un reato che in condizioni normali non commetterebbe; il fine di
prepararsi una scusa è espressione, contra legem, che egli sarà scusato se commetterà il fatto in stato di
incapacità. In base al dettato della legge il reato commesso deve essere proprio quello che l’agente si
proponeva di commettere nel momento in cui si è posto in stato di incapacità. Se viene commesso un reato
diverso, nel caso in cui l’incapacità preordinata sia dovuta a cause diverse da alcol o droga, il soggetto andrà
prosciolto in applicazione dell art 85. Ove invece l’incapacità sia dovuta a alcol o droga, la diversità del reato
commesso rispetto a quello programmato non escluder l’imputabilità: l’agente risponderà ex art 92 comma
1 ma non sarà applicabile la circostanza aggravante prevista dal 92 comma 2. La normale irrilevanza degli

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stati emotivi e passionali: art 90: gli stati emotivi o passionali non escludono ne diminuiscono
l’imputabilità. Si parla di gelosia, ira, paura che possono fra perdere il lume della ragione escludendo la
capacità di rendersi conto di quel che si fa e annullando i freni inibitori. Secondo la giurisprudenza gli stati
emotivi o passionali incideranno sull’imputabilità, escludendola o diminuendola, quando siano la
manifestazione esterna di un vero e proprio squilibrio mentale, anche transitorio, che abbia carattere
patologico in forma tale da integrare un vizio totale o parziale di mente (es. morbosa gelosia).

CAPITOLO 9 LA PUNIBILITA’
Definizione: esprime l’insieme delle eventuali condizioni ulteriori ed esterne rispetto al fatto tipico,
antigiuridico e colpevole che fondano o escludono l’opportunità di punirlo. L’opportunità di punire o non
punire un fatto tipico, antigiuridico e colpevole può dipendere dalle più disparate ragioni: ragioni politico
criminali in senso stretto (ad esempio desistenza volontaria); ragioni politiche di clemenza (amnistia
propria); ragioni di politica internazionale (immunità per capi di stato esteri); ragioni di salvaguardia
dell’unità familiare (causa di non punibilità dei delitti contro il patrimonio commessi ai danni di una ristretta
cerchia di familiari. le condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto tipico, antigiuridico e colpevole, che,
in virtù di una valutazione di opportunità, fondano la punibilità sono dette condizioni obiettive di punibilità;
le condizioni che escludono la punibilità sono dette cause personali concomitanti di esclusione della
punibilità, cause personali sopravvenute di esclusione della punibilità, cause oggettive di esclusione della
punibilità, cause di estinzione del reato. Condizioni obiettive di punibilità: . Dette anche “condizioni
estrinseche di punibilità”. Trattasi di accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che non
contribuiscono in alcun modo a descrivere l0offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma che
esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all’inflizione della pena, e che pertanto sono del tutto
svincolati dal dolo e dalla colpa. Esempi: “se è colto mentre prende parte al gioco: condizione cui è
subordinata la punibilità dei fatti antigiuridici e colpevoli di partecipazione ai giochi d’azzardo; “se
interviene la dichiarazione di fallimento”: condizione cui è subordinata la punibilità dei fatti antigiuridici e
colpevoli di bancarotta prefallimentare. Un ingiustificato ampliamento della gamma delle condizioni
obiettive di punibilità è operato dalla dottrina che ha coniato il nome di “condizioni intrinseche, o
improprie, di punibilità” per alludere ad eventi che rendono attuale l’offesa al bene giuridico protetto dalla
norma o ne rappresentano una progressione (ad es il pericolo per la pubblica incolumità menzionato in
molte norme incriminatrici dei delitti contro la pubblica incolumità ad es nell’”incendio di una cosa
propria”). Questa formula maschera autentici elementi costitutivi del fatto, assoggettandoli alla disciplina
delle condizioni obiettive di punibilità e quindi sottraendoli al dolo o alla colpa. Le condizioni obiettive di
punibilità sono del tutto svincolate dl dolo e dalla colpa (art 44 c.p.). Cause personali concomitanti di
esclusione della punibilità: trattasi di situazioni concomitanti alla commissione del fatto antigiuridico e
colpevole, che ineriscono alla posizione personale dell’agente o ai suoi rapporti con la vittima. Esempi: non
punibilità derivante dallo status di coniuge non legalmente separato, o ascendente o discendente della
persona offesa da un delitto contro il patrimonio; immunità derivante dallo status di capo di stato o di
governo estero; in caso di concorso di persone, la causa personale di punibilità non si estende ai correi.
Cause personali sopravvenute di esclusione della punibilità: consistono in comportamenti dell’agente,
positivamente valutati dal legislatore, susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole,
attraverso i quali si impedisce che la situazione di pericolo già creata si traduca nella lesione del bene
giuridico, o si reintegra ex post il bene giuridico offeso. Esempi: desistenza volontaria; comportamento di
un partecipe di una benda armata che determini lo scioglimento della banda armata; ritrattazione delle
proprie dichiarazioni false nei delitti di false informazioni al p.m., fale dichiarazioni al difensore, falsa
testimonianza e falsa perizia o interpretazione; in caso di concorso di persone, la causa sopravvenuta di non
punibilità, se oggettiva, non si estende ai correi. Cause oggettive di esclusione: consistono in situazioni in cui
l’ordinamento rinuncia a punire l’autore di un fatto antigiuridico e colpevole in ragione dell’esiguità del
fatto, ovvero della particolare tenuità dell’offesa, da accertarsi in concreto da parte del giudice; a questo
primario criterio di carattere oggettivo la legge affianca criteri ulteriori, di carattere soggettivo. Esempio:
l’esclusione delle punibilità per particolare tenuità del fatto, causa di non punibilità introdotta all’art art 131
bis c.p. Particolare tenuità del fatto: deve trattarsi di un reato, consumato o tentato, per il quale è prevista
la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla

73
predetta pena (non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle autonome e ad effetto speciale).
Al fine di accertare la particolare tenuità del fatto, la legge impone di guardare in primo luogo all’offesa: la
gravità dell’offesa non deve raggiungere nel caso concreto un livello tale da legittimare il ricorso alla pena: il
giudice è chiamato a farsi interprete nel caso concreto di una logica di meritevolezza di pena. Sono
individuate alcune situazioni incompatibili con la particolare tenuità dell’offesa: l’aver agito con crudeltà,
l’aver adoperato sevizie, l’aver profittato di condizioni di minorata difesa della vittima, l’aver agito per futili
motivi. In aggiunta alla tenuità dell’offesa, ai fini dell’esclusione della punibilità la legge richiede che il
comportamento “non risulti abituale”.  preclusioni: delinquente abituale, professionale o per tendenza;
l’autore di più reati della stessa indole; l’autore di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o
reiterate. Fasi del procedimento in cui può essere dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del
fatto: indagini preliminari, esito dell’udienza preliminare, predi battimento, esito del dibattimento, giudizio
di appello e giudizio di legittimità. I provvedimenti definitivi che dichiarano la particolare tenuità del fatto si
iscrivono nel casellario giudiziale; quando si tratti di sentenza pronunciata in seguito a dibattimento, o
all’esito di giudizio abbreviato, ha efficacia di giudicato nel giudizio amministrativo e civile quanto
all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha
commesso. Cause di estinzione del reato: consistono in fatti naturali o giuridici, del tutto indipendenti da
comportamenti dell’agente o che comunque non si esauriscono in un comportamento dell’agente, che
intervengono dopo la commissione del fatto antigiuridico e colpevole e prima della condanna definitiva.
Comportano l’inapplicabilità di qualsiasi sanzione penale prevista per quello specifico reato (pena
principale, pene accessorie, effetti penali, misure di sicurezza), ad eccezione della confisca obbligatoria di
cose intrinsecamente criminose. Intrinsecamente criminose: cose la cui fabbricazione, uso ecc. costituisce
di per sé reato. L’effetto estintivo riguarda le sole sanzioni penali, non coinvolgendo invece le eventuali
obbligazioni civili derivanti da reato, in particolare gli obblighi di restituzione e/o di risarcimento del danno.
Morte del reo: a morte deve intervenire prima della condanna. Amnistia propria: il provvedimento generale
di clemenza deve essere adottato, prima della condanna, con legge deliberata con maggioranza dei 2/3 dei
membri di ciascuna camera. le figure di reato interessate dall’A vengono individuate dalla legge con
riferimento al massimo della pena edittale (es ogni reato per il quale è prevista una pena detentiva non
superiore nel massimo a 4 anni). Il provvedimento non si applica in caso di recidiva aggravata o reiterata, né
a favore di delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Limiti temporali: l’A non può applicarsi a reati
commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge: rimane aperta al legislatore ordinario la
sola possibilità di fissare un limite temporale ancor più arretrato. Prescrizione del reato: deve essere
decorso, dopo la commissione del reato, un determinato periodo di tempo, la cui durata è proporzionata,
in linea di principio alla gravità del reato desunta dalla pena edittale. Durante tale tempo l’autorità
giudiziaria è rimasta inerte, si è cioè astenuta dal compiere attività processuali volte alla repressione del
reato. non colpisce i reati puniti con l’ergastolo (anche come effetto dell’applicazione di circostanze
aggravanti es omicidio premeditato). L 251/2005 ex Cirielli: il tempo necessario a prescrivere il reato è pari
al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque non inferiore a 6 anni se si tratta di delitto e
a 4 anni se si tratta di contravvenzione. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse (permanenza
domiciliare e lavoro di pubblica utilità) da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di 3
anni.  incoerenza  reati di competenza del giudice di pace punibili con la permanenza domiciliare o con il
lavoro di pubblica utilità si prescrivono in 4 anni quando si tratti di contravvenzioni e in 6 anni quando si
tratti di delitti. Termini speciali di prescrizione sono previsti per i “disastri colposi” (ad esclusione
dell’incendio), l’omicidio colposo (commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, con
violazione di norme antinfortunistiche, comportante la morte di più persone ovvero la morte di una
persona e lesioni di più persone), una serie di gravi reati (schiavitù, associazione mafiosa, traffico di
stupefacenti), maltrattamenti contro i familiari, i delitti contro l’ambiente: per questi delitti il tempo di
prescrizione è raddoppiato. Per i delitti tributari, i termini di prescrizione sono elevati di un terzo. Prima
della riforma Cirielli: il tempo di prescrizione del reato era più breve per le contravvenzioni e molto più
lungo per i delitti. Per determinare il termine di prescrizione per un determinato reato si ha riguardo al
massimo edittale di pena, previsto per il reato consumato o tentato, senza tener conto delle circostanze
attenuanti o aggravanti. Rilevano le aggravanti che comportano una pena di specie diversa da quella
ordinaria (cd circostanze autonome, ad es reclusione anziché multa) nonché le aggravanti che importano un

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aumento della pena superiore a un terzo (circostanze a effetto speciale). Il termine della prescrizione
decorre dal giorno della consumazione del reato; per il tentativo, dal giorno in cui è cessata l’attività del
colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza, ossia la situazione
antigiuridica creata dalla condotta; per i reati sottoposti a condizione obiettiva di punibilità, dal giorno in cui
la condizione si è verificata. Qualora l’autorità giudiziaria non resti inerte, ma si attivi prima della
decorrenza dei termini di prescrizione, il corso della stessa subisce un’”interruzione”. Atti interruttivi:
l’invito a presentarsi al p.m. a rendere l’interrogatorio, l’interrogatorio dell’imputato, l’ordinanza di
applicazione delle misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, la sentenza di condanna non definitiva
ecc. Per i reati tributari rileva il verbale di constatazione o l’atto di accertamento delle violazioni.  la
prescrizione interrotta ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione, ma i termini previsti non possono
prolungarsi oltre un quarto. Un prolungamento maggiore per effetto degli atti interruttivi è previsto per
alcune categorie di autori: il prolungamento massimo è della metà per la recidiva aggravata, di due terzi per
quella reiterata, del doppio nei casi di abitualità nel delitto e professionalità nel reato. Non vi è limite al
prolungamento in caso di gravissimi reati. Si ha “sospensione” in una serie di ipotesi di forzata inattività
dell’autorità giudiziaria. Si tratta di ipotesi in cui: a) sia necessaria un’autorizzazione a procedere; b) il
giudice ordinario sollevi questione di legittimità costituzionale ovvero investa la Corte di giustizia UE; c) il
procedimento o il processo penale siano sospesi per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori
ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore; d) l’imputato sia contumace; e) sia stata disposta la
sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato. Una volta cessata la causa di
sospensione, la prescrizione riprende il suo corso e il tempo decorso anteriormente al verificarsi della causa
sospensiva si somma al tempo decorso dopo che tale causa è venuta meno. Oblazione: solo per
contravvenzioni per le quali è comminata la sola pena dell’ammenda; pagamento di una somma di denaro
corrispondente ad un terzo del massimo dell’ammenda. Ratio: esigenze di alleggerimento dei carichi di
lavoro gravanti sul giudice penale in relazione a reati di modesta gravità ed esigenze di ordine economico-
fiscale. In via eccezionale, nelle materie dell’inquinamento atmosferico, dell’energia nucleare e della
sicurezza del lavoro, anche alle contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda si applica la cd
oblazione speciale e non quella ordinaria. Circa il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello
Stato (pena dell’ammenda da 5 a 10 mila euro) non è ammessa l’oblazione né ordinaria né speciale.
Oblazione speciale: solo per contravvenzioni per le quali è comminata la pena alternativa dell’arresto o
dell’ammenda, qualora il giudice ritenga che nel caso concreto dovrebbe infliggersi la pena dell’ammenda;
pagamento di una somma di denaro corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda; non devono
esservi precedenti penali dell’agente con effetto preclusivo (abitualità o professionalità nelle
contravvenzioni); non devono permanere conseguenze dannose o pericolose del fatto eliminabili
dall’agente. Sospensione del procedimento con Messa alla prova: per reati puniti, in astratto, con la sola
pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, esclusi il delinquente e il
contravventore abituale o professionale e il delinquente per tendenza (non escluso il recidivo); l’imputato
viene affidato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma di trattamento (attività riparatorie, di
volontariato, lavoro di pubblica utilità. Mediazione con la persona offesa. Durata massima: 2 anni per i reati
puniti con pena detentiva, 1 anno per i reati puniti con pena pecuniaria; può essere concesso una sola
volta. Il provvedimento presuppone una richiesta di parte, che può essere presentata nel corso delle
indagini preliminari ovvero dopo la loro conclusione. E’ richiesto il consenso del p.m. e deve esser sentita la
persona offesa. Può esser disposta solo se il giudice non deve pronunciare sentenza di proscioglimento:
richiede quindi un pur sommario accertamento della responsabilità. La richiesta di attivazione dell’istituto è
accolta se il giudice reputa idoneo il programma presentato dall’imputato e ritiene che questi si asterrà dal
commettere ulteriori reati: il che rende evidente la logica special-preventiva che ispira l’istituto.
Vi sarà “revoca” in caso di: grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni;
rifiuto di prestare il lavoro di pubblica utilità; commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto
non colposo o di un nuovo reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede. La revoca comporta
la ripresa del corso del processo. L’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato; rimangono
applicabili le eventuali sanzioni amministrative accessorie. Perdono giudiziale: l’agente, al momento del
fatto, aveva meno di 18 anni; la pena che dovrebbe in concreto infliggersi è inferiore a 2 anni di pena
detentiva o a 1549 euro di pena pecuniaria; l’agente non ha riportato precedenti condanne a pena

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detentiva per delitto, ne è delinquente o contravventore abituale o professionale; di regola, l’agente non
deve aver già fruito del perdono giudiziale; il giudice presume che l’agente in futuro si asterrà dal
commettere ulteriori reati. Si applica solamente ai soggetti che al momento della commissione del fatto
abbiano compiuto i 14 anni e non ancora i 18. E’ disposto discrezionalmente dal giudice e può consistere o
nell’astensione dal rinvio a giudizio ovvero, nel caso in cui il giudizio si sia già instaurato, nell’astensione alla
pronuncia della condanna. L’estinzione del reato consegue immediatamente al passaggio della sentenza
che applica il perdono giudiziale. Prevenzione speciale: si rinuncia a punire in ragione degli effetti
criminogeni che potrebbero derivargli dalla pena e dallo stesso processo. Il campo di applicazione delle
cause di estinzione del reato gode di una sorta di autonomia o specificità: rispetto ai reato: quando un
reato è il presupposto di un atro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato; la causa
estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato (reato
complesso) non si estende a quest ultimo; l’estinzione di taluno fra i più reati connessi non esclude
l’applicabilità dell aggravante della connessione teleologica. Rispetto alle persone: l’estinzione del reato ha
effetto soltanto per coloro ai quali la causa di estinzione si riferisce (salvo che la legge disponga altrimenti).

CAPITOLO 10 TENTATIVO E CONCORSO DI PERSONE NEL REATO


1.Le forme di manifestazione del reato
In un ordinamento retto dal principio di legalità potrebbe rispondere soltanto chi realizza un reato
consumato cioè chi compie un fatto concreto nel quale sono presenti tutti gli estremi di un dato reato. Chi
cerca di compiere un reato ma non ci riesce, non incorrerebbe in alcuna responsabilità penale. Per punirlo
c’è bisogno della presenza dell’ordinamento di una norma che estenda la responsabilità anche a chi tenta
senza riuscirvi di realizzare un fatto delittuoso. Nel nostro ordinamento questa disposizione è prevista
nell’art 56 c.p. che integrandosi con le norme di parte speciale che descrivono i singoli delitti, da vita ad
altrettante nuove figure delittuose, che sono forme di manifestazione meno gravi di quei delitti: tentativo di
omicidio, furto, rapina… c’è bisogno di una norma ad hoc anche per fondare la responsabilità di chi non
realizza in prima persona un reato, consumato o tentato, ma si limita ad aiutare o persuadere altri a
commetterlo. Si parla del concorso di reato disciplinato all art 110 c.p.
IL TENTATIVO
2. le scelte di fondo del legislatore italiano
Art 56: chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto
tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Quindi il tentativo rappresenta un titolo
autonomo di reato e non una circostanza attenuante. All’autore di un delitto tentato si applica la pena
prevista per quel delitto diminuita da un terzo a due terzi. In particolare, la pena per il delitto tentato
spazierà da un minimo pari alla pena minima prevista per il delitto consumato diminuita di due terzi e un
massimo pari alla pena massima prevista per il delitto consumato diminuita di un terzo. La definizione
legislativa contenuta nell’art 56 mostra altresì che il legislatore ha circoscritto la funzione estensiva della
norma sul tentativo ai soli delitti (le contravvenzioni sono configurabili nella forma tentata nei soli casi in cui
è la stessa norma incriminatrice a dare rilevanza al tentativo di realizzare una determinata condotta. Dalla
disciplina del art 42 si ricava inoltre che il delitto tentato deve essere necessariamente commesso con dolo.
Si può parlare di tentativo solo se gli atti compiuti dall’agente sono idonei a commettere un delitto, cioè se
creano la probabilità della consumazione del reato e quindi creano un pericolo per un bene giuridico. la
legge obbliga il giudice ad applicare la pena diminuita rispetto al delitto consumato. Nel caso di ergastolo
per delitto consumato, per il delitto tentato la pena sarà non inferiore a 12 anni e non superiore a 24. Il
legislatore deve stabilire quale fra gli atti compiuti dall’agente, se idonei, possono rilevare ai fini del
tentativo: deve cioè individuarsi un momento nell’iter criminis, a partire dal quale può configurarsi il
tentativo di un determinato delitto. In passato era individuato uno spartiacque tra atti preparatori e atti
esecutivi: solo i secondo potevano rilevare ai fini del tentativo. Secondo l’art 61 cod. Zanardelli rispondeva
del tentativo colui che a fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione. Il
legislatore del 1930 invece ha voluto anticipare gli atti imputabili a titolo di tentativo già alla fase degli atti
preparatori. Se da una parte però l’art 56 c.p. richiede che gli atti debbano essere diretti in modo non
equivoco a commettere un delitto, il disposto del 115 sancisce la normale irrilevanza penale di atti

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preparatori, come l’accordo o l’istigazione che abbiano per oggetto la commissione di un reato che poi non
venga commesso.
3. l’inizio dell’attività punibile: atti univoci come sinonimo di atti esecutivi (art 56 e 115)
Un duplice ordine di argomenti parla a favore della rilevanza penale dei soli atti esecutivi: degli atti tipici che
corrispondono almeno ad una parte dello specifico modello di comportamento descritto dalla norma
incriminatrice di parte speciale. Con la conseguenza che solo penalmente irrilevanti a titolo di tentativo gli
atti preparatori, cioè gli atti che abbiano un carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora
iniziata, di una figura di reato: tali atti possono rilevare solo se integrano una figura di reato a se stante. Il
tenore letterale del art 56 pone in evidenza che l’inizio dell’attività punibile coincide con l’inizio
dell’esecuzione della fattispecie delittuosa. Il requisito dell’univocità degli atti esprime una caratteristica
oggettiva della condotta: gli atti devono di per se rivelare che l’agente ha iniziato a commettere un
determinato delitto. Possono infatti essere diretti verso un determinato delitto solo gli atti che
rappresentino l’inizio di un esecuzione di quel determinato delitto. Si ricordi poi che il legislatore del 1930
per caratterizzare il delitto tentato usa la formula “se l’azione non si compie”: ciò significa che l’azione
descritta dalla norma incriminatrice non deve essere completata, ma deve essere almeno iniziata. Questa
lettura del art 56 trova conferma nel art 115 il quale considera non punibili sia l’azzardo sia l’istigazione che
abbiano per oggetto la commissione di un delitto, che poi non venga commesso. L’accordo e l’istigazione
accolta consistono nell’incontro della volontà di due o più persone, al quale normalmente si arriva
attraverso una serie di atti che rappresentano altrettanti atti preparatori del delitto programmato. La regola
dettata dal art 115 ha per oggetto le attività preparatorie di un delitto realizzate da più persone, ma non è
pensabile che attività dello stesso tipo, non punibili se poste in essere da più persone, siano invece punibili
se compiute da un individuo isolato. In definitiva la disposizione in esame avvalora il principio della normale
irrilevanza degli atti preparatori nel quadro del tentativo. Non è particolarmente difficile individuare l’inizio
dell’esecuzione nei reati a forma vincolata: esecutivi sono gli atti che corrispondono allo specifico modello
di comportamento descritto nella norma incriminatrice. Quanto ai reati a forma libera, solo
apparentemente l’azione tipica non è individuata dal legislatore: libertà non significa mancanza di forma.
L’azione tipica si individua infatti in funzione del mezzo impiegato in concreto dall’agente: esecutiva è
l’attività che consiste nell’uso del mezzo impiegato dall’agente. L’irrilevanza degli atti preparatori ai fini del
tentativo non sempre comporta la loro irrilevanza penale. Da un lato il giudice può applicare una misura di
sicurezza in caso di accordo e di istigazione per commettere un delitto. D’altro lato eccezionalmente
l’ordinamento prevede come reati a se stanti una molteplicità di atti preparatori dei altri reati. Nel quadro
del concorso di persone nel reato, lo stesso art 115 fa salva la possibilità che la legge preveda come
autonome figure di reato talune forme di accordo e istigazione: e ciò accade puntualmente in relazione alla
cospirazione politica mediante accordo, alla istigazione alla corruzione. La previsione di atti preparatori
come figure di reato a se stante non è esclusiva dell’attività compiuta da più persone o rivolta a più
persone: vengono infatti incriminati come reati a se stanti anche atti preparatori computi da una singola
persona. Il legislatore non è però libero di configurare gli atti preparatori, compiuti da un singolo o da una
pluralità di persone, come reati a se stanti. L’incriminazione dei soli atti esecutivi è la regola, il legislatore
però può anticipare in via eccezionale la punibilità agli atti preparatori superando un duplice banco di prova
di legittimità costituzionale: possono essere legittimamente tutelati a uno stadio cosi anticipato i soli beni
indispensabili per l’integrità delle istituzioni e la sopravvivenza della società; in ossequio ai principi
costituzionali di proporzione e offensività possono essere incriminati solo gli atti tipicamente pericolosi per
quei beni di altissimo rango. In giurisprudenza, contro la rilevanza degli atti preparatori ai fini del tentativo
si è pronunciata la cort cost affermando che atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto
possono essere esclusivamente atti esecutivi in quanto soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie
delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto
dall’agente. Anche la corte di cassazione si è talora espressa per la rilevanza dei soli atti esecutivi. Sembra
tuttavia ancora maggioritario nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento che ritiene configurabile il
tentativo anche quando vengano realizzati atti meramente preparatori.
4. l’idoneità degli atti
Accertato che gli atti compiuti dall’agente rappresentino l’inizio dell’esecuzione di un determinato delitto,
nel nostro ordinamento bisogna compiere un’ulteriore indagine: a norma del art 56 bisogna accertare se

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quegli atti erano idonei a commettere il delitto, se cioè avevano creato la probabilità della consumazione
del reato, e quindi la messa in pericolo del bene tutelato dalla norma incriminatrice del corrispondente
reato consumato. Si tratta ora di chiarire la struttura del giudizio di idoneità degli atti. In particolare
essendo l’idoneità degli atti sinonimo di probabilità della consumazione, va precisato: quel è il termine di
relazione del giudizio di probabilità; a quale momento ci si deve riportare per formulare il giudizio; quali
sono i criteri che il giudice deve utilizzare per formulare il giudizio; quale deve essere la base del giudizio.
L’idoneità come giudizio di probabilità ha quale necessario termine di relazione la consumazione del delitto
nei reati che si esauriscono in un azione o in più azioni l’idoneità andrà quindi rapportata al completamento
dell’azione o delle azioni richieste dalla legge per la consumazione del reato. Nei reati di evento, l’idoneità
degli atti andrà invece valutata in relazione al verificarsi dell’evento o degli eventi. Il giudizio di idoneità va
formulato ex ante: il giudice deve cioè fare un viaggio nel passato, riportandosi idealmente al momento
dell’inizio dell’esecuzione del delitto. Quanto ai criteri per accertare la probabilità della consumazione, il
giudice dovrà utilizzare il massimo delle conoscenze disponibili al momento in cui compie l’accertamento,
comprensive delle eventuali conoscenze ulteriori del singolo agente. Quando si tratti di accertare la
probabilità del verificarsi di un evento sulla base di un processo causale innescato da fattori meccanici o
naturali, il giudice dovrà far ricorso a leggi scientifiche note al momento dell’accertamento, tenendo conto
anche di speciali conoscenze scientifiche di cui, al momento dell’azione, disponesse il singolo agente. Si farà
invece ricorso a massime di esperienza quando si tratta di accertare la probabilità del completamento
dell’azione o del verificarsi di eventi incarnati da un comportamento umano. La base del giudizio di
probabilità è rappresentata non dai soli mezzi impiegati dall’agente ma anche dalle circostanze concrete in
cui quei mezzi sono stati impiegati. Bisogna però stabilire se il giudice debba tener conto solo delle
circostanze che al momento dell’azione erano conoscibili da un osservatore imparziale o erano conosciute
dall’agente (prognosi con base parziale) ovvero debba tener conto di tutte le circostanze presenti in quel
momento, anche se non conoscibili ne conosciute al momento dell’azione, ma accertate solo
successivamente (probabilità totale). A favore del giudizio di idoneità come giudizio prognostico a base
totale sembra parlare anche un'altra disposizione da nostro codice, l’art 49 comma 2 che sotto la rubrica
reato impossibile, stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la
inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso. Il giudice può comunque
ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a libertà vigilata. La mancata esposizione a pericolo del
bene può essere dovuta a fattori impeditivi non conoscibili ex ante, come l’inesistenza dell’oggetto
materiale ovvero l’inidoneità dell’azione.
5. il dolo nel delitto tentato
Per quanto riguarda la responsabilità nel tentativo ci si rifà, mancando una espressa disciplina dei delitti
tentati, ci si rifà alla disciplina dei delitti consumati secondo cui, ex art 42, si può essere puniti solo per dolo,
salva espressa previsione della colpa. Oggetto del dolo nel tentativo è la realizzazione del corrispondente
delitto consumato: sotto il profilo dell’oggetto del dolo, non c’è dunque differenza tra delitto tentato e
delitto consumato. Controverso è invece se la coincidenza tra il dolo del delitto tentato e quello del delitto
consumato riguardi anche le forme del dolo: se cioè tutte la forme del dolo che rilevano nel delitto
consumato possano egualmente rilevare in relazione al delitto tentato. Si discute sulla compatibilità del
dolo eventuale con la struttura del tentativo. Il quesito, andrebbe risolto in senso affermativo anche
secondo alcune pronunce giurisprudenziali. Potrà pertanto rispondere di tentato omicidio a titolo di dolo
eventuale chi, fuggendo dal luogo in cui ha commesso una rapina, spari in direzione degli inseguitori per
farli desistere dall’inseguimento, non al fine di uccidere, accettando però l’eventualità che una pallottola
raggiunga e uccida una delle guardie che inseguono. Ciò che l’agente deve voler realizzare, per la
sussistenza del dolo di tentativo, è un fatto concreto, che integri un modello di fatto descritto da una norma
incriminatrice di parte speciale. Ci si chiede che cosa succede se l’agente realizza un fatto concreto che non
corrisponde a un modello legale di reato, supponendo erroneamente che costituisca reato. L’erronea
supposizione di commettere un reato può dipendere anche dalla soggettiva convinzione dell’agente che il
fatto che intendeva realizzare fosse previsto dalla legge come reato, mentre in effetti non lo era. Art 49
stabilisce che non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che
esso costituisca reato.
6. il tentativo nei reati omissivi

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Nei reati omissivi impropri: per questi reati è pacifica al configurabilità del tentativo. L’inizio dell’omissione
punibile si ha quando il mancato compimento dell’azione aumenta il pericolo che il garante ha l’obbligo
giuridico di neutralizzare per impedire che si verifichi l’evento. D’altra parte, perché il garante risponda a
titolo di tentativo è normalmente necessario che l’evento non si verifichi. Potrà però accadere che il
garante risponda di tentativo anche in ipotesi in cui l’evento si verifica. Nei reati omissivi propri:
controversa configurabilità del tentativo in questi reati. Secondo giurisprudenza e parte della dottrina il
problema va risolto in senso negativo. Elemento caratteristico dei reati omissivi propri è sempre il mancato
compimento di un azione entro un termine, che la legge fissa in modo puntuale. Ne seguirebbe che prima
della scadenza del termine non vi sarebbe spazio per alcuna responsabilità penale. Secondo una diversa
opinione potrebbe invece rispondere a titolo di tentativo chi si ponga nell’impossibilità di compiere l’azione
doverosa. l’art 56 richiede ai fini del tentativo l’inizio di esecuzione del delitto, che nei reati omissivi propri
presuppone l’avvenuta scadenza del termine per adempiere all’obbligo di agire: conseguentemente prima
che sia scaduto questo termine non è configurabile il tentativo. Piuttosto uno spazio per la configurabilità
del tentativo può individuarsi in ipotesi in cui il soggetto non sfrutti il primo momento utile per adempiere
all’obbligo di agire, ma conservi una chance ulteriore per adempiere a quell’obbligo
7. la desistenza volontaria e il recesso attivo nel delitto tentato
Desistenza volontaria: se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli
atti compiuti se questi costituiscono di per se reato diverso. La desistenza volontaria presuppone dunque
che già sia stato integrato un fatto antigiuridico e colpevole di tentativo e l’effetto della desistenza
volontaria è quello di renderlo non punibile. La desistenza volontaria consta di 2 requisiti: la condotta di
desistenza; la volontarietà. Quanto alla condotta di desistenza, nei reati commissivi si indentifica con il non
contemplare l’azione esecutiva iniziata, ma non ancora portata a compimento. Nei reati omissivi desistere
significa compiere l’azione doverosa inizialmente omessa, quando vi sia ancora la possibilità di un
adempimento tempestivo. La desistenza è volontaria quando si possa dire che l’agente ha ragionato in
questi termini: potrei continuare, ma non voglio. La desistenza non è volontaria quando l’agente pensa:
vorrei continuare, ma non posso. La volontarietà della desistenza presuppone dunque la soggettiva
convinzione dell’agente di poter completare l’attività esecutiva iniziata. Volontarietà ai fini della desistenza
del tentativo non significa necessità di un pentimento e nemmeno necessità di un abbandono definitivo del
proposito criminoso: la desistenza è volontaria anche quando sia determinata da calcoli utilitaristici, come
nel caso in cui l’agente abbandoni l’opera già intrapresa perché si riserva di ritornare sul luogo del tentato
furto qualche giorno dopo, sapendo che in quell’occasione il suo bottino potrà risultare assai più cospicuo.
7.2 il recesso attivo
Nei reati di evento, oltre alla desistenza volontaria, la legge da rilievo a un comportamento dell’agente
tenuto dopo aver completato l’azione o l’omissione: e cioè al volontario impedimento dell’evento. Si parla
in proposito di recesso attivo del delitto tentato. Rispetto alla desistenza volontaria, diverse sono le
conseguenze che la legge penale italiana ricollega: non l’esclusione della punibilità, bensì un attenuante di
pena. Art 56 comma 4 se il colpevole volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il
delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà. Il recesso attivo ha dunque natura di circostanza
attenuante, con la conseguenza di partecipare al giudizio di bilanciamento con altre circostanze
concorrenti. Va sottolineato che l’azione dell’agente deve aver avuto l’effetto di impedire il verificarsi
dell’evento; se l’agente ha cercato di impedire l’evento, ma non vi è riuscito, ci si troverà in presenza di un
reato consumato. Non è necessario che l’impedimento dell’evento avvenga ad opera esclusiva dell’agente:
può benissimo realizzarsi con l’aiuto di terzi. Quanto alla volontarietà, tale requisito del recesso attivo va
ricostruito negli stessi termini illustrati per la desistenza.
8. i rapporti tra tentativo, delitto di attentato e reati a dolo specifico
Sono previsti come reati a se stanti comportamenti che integrerebbero gli estremi di un tentativo . si parla a
proposito di reati a consumazione anticipata. Delitti di attentato: alla categoria di reati a consumazione
anticipata, caratterizzati dalla presenza della parola attentato e da formule come “chiunque attenta a”,
“chiunque commette un fatto diretto a”, “chiunque compie atti diretti e idonei a”, chiunque commette un
fatto diretto e idoneo a”. i delitti di attentato presentano entrambi i requisiti strutturali del tentativo: l’inizio
di esecuzione e l’idoneità degli atti esecutivi. La coincidenza tra la struttura dei delitti di attentato e quella
del tentativo comporta che i delitti di attentato non ammettono il tentativo: il minimo necessario per dar

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vita a un tentativo è qui già sufficiente per la consumazione. Reati a dolo specifico: reati caratterizzati dalla
presenza di una finalità la cui realizzazione non è necessaria per la consumazione del reato e tutti
identificati da formule come “al fine di”, “allo scopo di”. Fra questi reati bisogna operare una distinzione in
due gruppi: reati a dolo specifico nei quali l’evento perseguito dall’agente non è ne dannoso ne pericoloso e
reati nei quali invece è un evento offensivo di beni giuridici protetti dall’ordinamento. Esempi della prima
sottocategoria sono il furto, la rapina e l’appropriazione indebita, nei quali l’agente deve essere animato da
una finalità di profitto, tenendo perciò a conseguire un risultato, l’arricchimento, che l’ordinamento di per
se non ha certo interesse ad impedire. Con riferimento al secondo gruppo di reati a dolo specifico, nei quali
oggetto del dolo specifico è un evento offensivo di beni giuridici si pone il problema se costituiscano
altrettante ipotesi di delitto tentato punite come reati a se stanti. La lettera delle relative norme
incriminatrici potrebbe autorizzare la punizione anche di chi persegua lo scopo indicato dalla legge con atti
inidonei a conseguirlo. Questa interpretazione urterebbe però contro il principio costituzionale di
offensività, che reclama per tutti i reati almeno la creazione di un pericolo per il bene giuridico tutelato
dalla legge e quindi esige l’oggettività idoneità degli atti compiuti dall’agente a cagionare l’evento dannoso
o pericoloso preso di mira. Questi reati a dolo specifico non posseggono invece l’altro requisito strutturale
del delitto tentato e cioè l’inizio dell’esecuzione dall’attività diretta a conseguire lo scopo indicato dalla
norma. La struttura dei reati a dolo specifico nei quali l’agente deve prendere di mira un evento offensivo di
beni giuridici protetti dall’ordinamento è dunque simile, ma non identica a quella del tentativo: nel senso
che la legge attribuisce rilevanza penale ad atti che sono meramente preparatori di un tentativo. Dal
momento che il tentativo non è configurabile in tutte le ipotesi in cui atti preparatori sono elevati a reati a
se stanti, ne consegue che anche i reati a dolo specifico caratterizzati dal perseguimento di un evento
offensivo di beni giuridici non ammettono il tentativo.

IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO


9. funzione incriminatrice e funzione di disciplina delle norme sul concorso di persone
Le norme sul concorso di persone assolvono ad una duplice funzione, che si attua in 2 attua in due fasi
successive. In primo luogo viene in considerazione la loro funzione incriminatrice: in un ordinamento retto
dal principio di legalità talune norme sul concorso di persone hanno la funzione di dare rilevanza a
comportamenti atipici ai sensi delle norme che delineano i singoli reati, estendendo quindi la responsabilità
a chi non realizza in prima persona un reato consumato o tentato, ma concorre alla commissione di un
reato da parte di altri. In una fase logicamente successiva, altre norme sul concorso di persone adempiono
ad una funzione di disciplina del trattamento sanzionatorio, individuando la misura della pena per ciascuno
dei concorrenti.
10. la struttura del concorso di persone
Il concorso di persone nel reato consta di 4 elementi costitutivi: pluralità di persone; realizzazione di un
fatto di reato (consumato o tentato); contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto;
consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto.
11. pluralità di persone
Alla realizzazione del fatto, nei reati monosoggettivi deve concorrere almeno un’altra persona (il partecipe)
rispetto a quella la cui condotta è descritta nella norma incriminatrice di parte speciale ( l’autore). In
relazione ai reati necessariamente plurisoggettivi, o la rissa, deve aggiungersi almeno un’altra persona a
quelle la cui condotta è già richiesta dalla struttura della norma incriminatrice di parte speciale. Nel novero
dei concorrenti rientrano anche le persone non imputabili o non punibili per effetto di una causa personale
di esclusione della punibilità. L’irrilevanza dell’impunibilità e della punibilità per la sussistenza del concorso
di persone discende dalle disposizioni degli art 111 e 112 che prevedono talune circostanze aggravanti nei
confronti di chi ha determinato a commettere il fatto persone non imputabili o non punibili: in particolare
l’art 112 comma 4 stabilisce in modo inequivoco che alcune circostanze aggravanti si applicano anche se
taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile.
12. realizzazione di un fatto di reato (consumato o tentato)
Il secondo requisito del concorso di persone è che sia stato realizzato, nella forma tentata o consumata, il
fatto di reato descritto da una norma incriminatrice di parte speciale: prima che sia integrato il fatto, il
comportamento atipico è penalmente irrilevante. Questo principio del concorso è importo dall art 115 che

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sancisce la non punibilità dell’accordo per commettere un reato e dell’istigazione accolta a commettere un
reato, quando il reato oggetto dell’accordo o dell’istigazione non è stato commesso. E un reato può
considerarsi commesso quando il fatto è stato realizzato sia nella forma consumata sia nella forma tentata:
basta quindi che l’autore realizzi un delitto tentato perché possa profilarsi un concorso di persone nel reato.
L’adesione del legislatore italiana al modello dell’accessorietà minima: il concorso di persone secondo il
modello dell’accessorietà: il comportamento atipico rileva se e in quanto accade a un fatto principale tipico.
Si pone il problema se ai fini del concorso sia sufficiente un fatto principale tipico (accessorietà minima), se
oltre che tipico il fatto debba essere antigiuridico (accessorietà limitata), se il fatto principale debba essere
non solo tipico e antigiuridico, ma anche colpevole (accessorietà estrema) o addirittura non solo tipico,
antigiuridico e colpevole, ma anche punibile (iperaccesorietà). Il nostro ordinamento ritiene sufficiente che
la condotta atipica acceda a un fatto tipico; non sono invece condizioni per la configurabilità di un concorso
di persone ne l’antigiuridicità, ne la colpevolezza, ne la punibilità del fatto commesso da altri. Quanto
all’antigiuridicità, di regola la liceità del fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione opera sia
nei confronti dell’autore del fatto, sia di chi lo ha istigato o agevolato. La normale estensione delle cause di
giustificazione a tutti i concorrenti è sancita dall art 119 comma 2, il quale stabilisce che le circostanze
oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. Tuttavia, questa
regola ammette eccezioni: vi sono infatti cause di giustificazione personali, che si riferiscono cioè soltanto a
cerchie limitate di soggetti, come l’uso legittimo delle armi, che giustificano il fatto limitatamente alle
persone appartenenti a quella cerchia. Le cause di giustificazione personali rientrano nella categoria
legislativa delle circostanze soggettive di esclusione della pena, la cui rilevanza è disciplinata dall art 119
comma 1: secondo tale disposizione le circostanze soggettive le quali escludono la pena per taluno di coloro
che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono. La disciplina
dell art 119 comma 1 si applica anche nella sfera della colpevolezza. Si è già visto che se il fatto tipico è
commesso da persona non imputabile, rimane ferma l’eventuale responsabilità di chi lo ha istigato o gli ha
fornito l’arma con la quale il soggetto non imputabile ha commesso, ad es., un fatto di omicidio: e la
responsabilità dell’istigatore o dell’agevolatore resta ferma, come dispone l’art 86, anche se lo stato di
incapacità di intendere o di volere dell’autore è stato cagionato proprio allo scopo di fargli commettere il
reato. Del pari, se chi commette il fatto agisce senza dolo per difetto del momento rappresentativo,
essendo caduto in errore su un elemento essenziale del fatto, non risponderà del delitto di appropriazione
indebita per mancanza di dolo; ne risponderà invece chi lo ha istigato a commettere il fatto se sapeva che la
cosa oggetto della vendita non era di proprietà dell’istigato a commettere il fatto ser sapeva che la cosa
oggetto non era di proprietà dell’istigato e magari ha provocato con l’inganno l’errore in cui è caduto
l’autore del fatto: è quanto si ricava dall’art 48, quando dispone espressamente che in caso di errore
determinato dall’altrui inganno del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a
commetterlo. Difetta poi il momento volitivo del dolo quando il fatto sia stato commesso per
costringimento fisico: in tal caso, l’art 46 stabilisce che non è punibile chi ha commesso li fatto per esservi
stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi; il che
non esclude il concorso dell’autore della costrizione: l’art 46 comma 2 c.p., in coerenza con l’idea che chi
concorre a un fatto lesivo è punibile come partecipe, anche se l’autore del fatto principale non è colpevole,
stabilisce infatti che del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza.
L’irrilevanza della colpevolezza dell’autore del fatto emerge anche sul terreno delle scusanti: cosi, ai sensi
dell art 54 comma 3, non è punibile chi commette un fatto nello stato di necessità determinato dall’altrui
minaccia, ma in tal caso del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a
commetterlo. Infine la disciplina dell art 119 si applica anche alle cause personali di punibilità. L’esecuzione
frazionata del fatto: la realizzazione del fatto tipico può avvenire ad opera di più persone, ciascuna delle
quali, d’accordo con l’altra, realizzata una parte del fatto: si parla in questo caso di esecuzione frazionata e
si designano come coautori coloro che eseguono congiuntamente una parte del fatto. Perché si tratti
dell’esecuzione frazionata di un unico fatto, è necessario che i soggetti agiscano sulla base di un accordo,
mentre non rileva il contesto temporale nel quale si collocano le condotte dei coautori. Nell’ordinamento
penale italiano manca una previsione espressa dell’esecuzione frazionata di un fatto tipico, ma è pacifico
che tale ipotesi sia riconducibile alla disciplina generale del concorso di persone nel reato. È un
insegnamento pacifico di Francesco carrara che l’autore principale è quel solo, che esegue l’atto fisico in cui

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consiste la consumazione del delitto. Se in più lo eseguono, sono più gli autori principali. Tutti gli altri sono
delinquenti accessori.
13. contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto
Non vi può essere concorso di persone se la condotta atipica non ha esercitato un’influenza causale sul
fatto concreto tipico realizzato da altri: in assenza di questo collegamento causale, la condotta atipica non
reca infatti nessun contributo all’offesa al bene giuridico immanente al fatto principale. Nell art 116 la legge
accolla a titolo di concorso un reato commesso da altri che il partecipe non ha voluto, a condizione che la
condotta atipica abbia contribuito causalmente alla realizzazione del fatto: recita infatti la norma che
qualora il reato commesso sia diverso da quello che l’agente voleva contribuire a realizzare, questi risponde
del reato diverso se è conseguenza della sua azione o omissione. Un collegamento causale è visibile anche
nelle ipotesi in cui la legge, agli art 111 e 112 parla di chi ha determinato altri a commettere un reato:
determinare significa infatti compiere azioni che esercitano un influsso causale sulle scelte di
comportamento di altri, facendo nascere o rafforzando il proposito di commettere un certo reato. La legge
italiana non seleziona le condotte atipiche il cui contributo causale alla realizzazione del fatto da parte di
altri è necessario per la sussistenza di un concorso. Dottrina e giurisprudenza distinguono due forme di
collegamento causale tra condotta del partecipe e fatto principale: il concorso materiale e il concorso
morale. Concorso materiale: si ha il concorso materiale quando una condotta atipica di aiuto è stata
condizione necessaria per l’esecuzione del fatto concreto rilevante da parte di altri. Es di aiuto: consegna di
una pistola che viene utilizzata per uccidere, apertura di una porta che permette di rubare
nell’appartamento. La differenza è che la prima condotta è sostituibile perché una pistola si può procurare
ovunque, mentre solo un familiare della vittima può lasciare la porta del suo appartamento aperta. Tale
differenza fra condotte sostituibili e insostituibili può rilevare in sede di commisurazione della pena.
Concorso morale: l’influenza causale nella forma del concorso morale si realizza da parte di chi, con
comportamenti esteriori, fa nascere in altri il proposito di commettere il fatto che poi viene commesso
ovvero rafforza un proposito già esistente, ma non ancora consolidato. Nel concorso morale il nesso
causale tra condotta atipica e fatto principale si articola in un duplice passaggio: l’istigazione deve far
nascere o rafforzare in capo all’istigato il proposito di commettere un determinato reato; tale reato deve
essere poi effettivamente commesso. Secondo art 115 l’istigazione deve essere accolta e la persona che ha
accolto l’istigazione deve commettere il fatto oggetto dell’istigazione. L’influenza causale dell’istigazione va
accertata in modo concreto secondo il consueto schema della condicio sine qua non. La mera presenza sul
luogo del reato non integra alcuna forma di concorso morale, a meno che non sia stata accompagnata da
una chiara manifestazione esteriore di adesione al comportamento delittuoso e l’autore ne abbia tratto
motivo di rafforzamento del suo proposito ovvero di rassicurazione. Fuori dai limiti del concorso morale,
perché difetta ogni contributo causale alla decisione di commettere il reato, è anche la connivenza, cioè la
consapevolezza che altri sta per commettere o sta commettendo un reato senza che si faccia nulla per
impedirlo: potrà delinearsi un concorso nel reato soltanto nella forma del concorso omissivo, cioè quando
chi non impedisce la commissione del reato aveva l’obbligo giuridico di impedirla. Rientra invece nello
schema del concorso morale l’accordo, che rappresenta la comune decisione di commettere un reato come
punto d’arrivo di una influenza psicologica esercitata da ciascun partecipe dell’accordo nei confronti degli
altri.
14. consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto
La responsabilità del partecipe dipende, oltre che dall’aver apportato un contributo causale alla
realizzazione del fatto da parte dell’autore, anche dalla presenza del dolo: e la particolare struttura del fatto
nel concorso di persone comporta che l’oggetto del dolo abbracci sia il fatto principale realizzato
dall’autore, sia il contributo causale recato dalla condotta atipica. Ciò che il partecipe deve contribuire a
realizzare è un fatto che può anche arrestarsi allo stadio del tentativo: ma ciò che egli deve rappresentarsi e
volere, ai fini del dolo di partecipazione, è l’apporto di un contributo causale alla realizzazione, da parte di
altri, di un fatto di reato consumato. Quanto alla peculiarità del fatto concreto che devono essere oggetto di
rappresentazione da parte del concorrente atipico, ciò che è necessario, ma anche sufficiente è che il
concorrente si rappresenti la commissione di un fatto concreto conforme a quello descritto dalla norma
incriminatrice: è invece irrilevante che il partecipe conosca le concrete modalità con cui l’autore eseguirà il
reato. Ai fini del dolo del concorso di persone nel reato non è necessario un previo accordo, ne è necessaria

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una consapevolezza reciproca dell’altrui attività: è sufficiente il dolo di partecipazione in capo al
concorrente atipico, mentre l’autore può ignorare l’altrui contributo materiale alla realizzazione del fatto.
L’eventualità che l’autore e il partecipe abbiano raggiunto un accordo prima della commissione del fatto,
irrilevante ai fini della sussistenza del dolo, rileverà soltanto ai fini della commisurazione della pena: il reato
commesso da più persone in esecuzione di un programma più o meno articolato presenta infatti caratteri di
particolare gravità sia sul piano oggettivo, per la maggiore carica lesiva connessa ad una forma sia pure
embrionale di criminalità organizzata, sia sul piano soggettivo, in quanto l’accordo comporta un grado più
elevato di intensità del dolo.
15.( l’irresponsabilità) L’agente provocatore e l’agente sotto-copertura
Si designa come agente provocatore chi istighi taluno a commettere un reato, volendo far scoprire e
assicurare alla giustizia la persona provocata prima che il reato giunga a consumazione. Si è cercato di
motivare variamente l’impunità dell’agente provocatore, ma la ragione assorbente è l’assenza del dolo di
partecipazione in capo all’agente provocatore. Ciò che il partecipe deve rappresentarsi e volere è un
contributo alla realizzazione da parte di altri di un reato consumato, mentre ciò che si rappresenta e vuole
l’agente provocatore è un tentativo: lo scopo perseguito dall’agente provocatore è che la consumazione del
reato venga impedita dall’intervento di fattori esterni, come le forze di polizia.
16. una deroga alla necessità del dolo di partecipazione: la responsabilità del partecipe per un reato diverso
da quello voluto
Se il fatto concreto realizzato dall’autore integra una figura di reato diversa da quella che il partecipe voleva
contribuire a realizzare, la disciplina del dolo imporrebbe di escludere la responsabilità del partecipe.
Questa regola viene però infranta dal art 116 il quale stabilisce che qualora il reato commesso sia diverso
da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua
azione o omissione: viene cioè addossato al concorrente a titolo di dolo un fatto di reato che egli non ha
voluto, avendo soltanto contribuito casualmente alla sua realizzazione. Si tratta di una delle più vistose
ipotesi di responsabilità oggettiva che può essere parzialmente armonizzata in via interpretativa con il
principio costituzionale di colpevolezza se si limita la sfera di applicabilità della norma alle ipotesi in cui il
partecipe si esponga al rimprovero di aver contribuito per colpa alla realizzazione del reato diverso: alle
ipotesi cioè in cui le circostanze concrete erano tali che un uomo ragionevole, al posto dell’agente, avrebbe
previsto che si sarebbe realizzato quel diverso reato, in luogo di quello voluto dal partecipe. Anche cosi
reinterpretata, la norma continua per altro verso a porre seri problemi di legittimità costituzionale in
relazione al principio di colpevolezza, sotto il profilo dei rapporti tra misura della pena e grado di
colpevolezza: si punisce infatti con la pena prevista per un delitto doloso una persona alla quale può essere
mosso soltanto un rimprovero di colpa. L’asprezza di questa disciplina viene appena temperata dalla
previsione di una circostanza attenuante per l’ipotesi in cui il reato commesso sia più grave di quello voluto
dal partecipe: art 116 stabilisce che la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave.
17. il concorso di persone nel reato proprio
Può configurarsi il concorso di un estraneo in un reato proprio, cioè in un reato che può essere commesso
soltanto da chi possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone. In primo
luogo l’estraneo deve contribuire causalmente alla realizzazione del fatto costitutivo del reato proprio nelle
consuete forme del concorso materiale o morale. Si discute se possa operarsi un inversione di ruoli tra
l’intraneo e l’estraneo: se cioè possa essere l’estraneo a commettere il fatto tipico, relegando l’intraneo al
ruolo di mero partecipe. La soluzione affermativa, accolta dalla giurisprudenza, sembra muovere dalla
preoccupazione di reprimere con adeguata severità fatti che sarebbero comunque punibili, anche se in
modo meno severo. A nostro avviso autore di un reato proprio può essere soltanto l’intraneo: lo impone il
principio di legalità. In secondo luogo il dolo del partecipe esige la consapevolezza e la volontà di
contribuire alla realizzazione del fatto costitutivo del reato proprio e quindi esige anche la consapevolezza
della qualità rivestita dall’intraeo, che è elemento costitutivo del fatto di reato proprio. a questa regola l’art
117 introduce una deroga, che riguarda le sole ipotesi in cui la qualità dell’autore determini un mutamento
del titolo del reato: in altri termini, la deroga riguarda le ipotesi in cui, accanto alla figura del reato proprio,
esista una corrispondente figura di reato comune. Nei casi di mutamento del titolo di reato, ai fini della
configurazione del concorso nel reato proprio, non è necessario che l’estraneo conosca la qualifica
soggettiva dell’intraneo. Art 117 dispone che se muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono

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concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Si accolla cosi una responsabilità a titolo di dolo a un
soggetto che ha agito senza dolo, l’estraneo non si è rappresentato l’elemento del fatto di reato “qualifica
del soggetto attivo”, e che l’art 117 non richiede versasse in colpa: si delinea dunque un ipotesi di
responsabilità oggettiva. Peraltro tale responsabilità va ora rimodellata come responsabilità per colpa, nel
senso che si configura solo a condizione ce la mancata rappresentazione della qualifica soggettiva sia stato
determinato da colpa. Vale anche per l’art 117 quando si è osservato a proposito dell’art 116. Pur
reinterpretato come se contenesse il limite della colpa, art 117 continua a porre seri problemi di legittimità
costituzionale in relazione al principio di colpevolezza, sotto il profilo dei rapporti tra misura della pena e
grado della colpevolezza: si punisce infatti con la pena prevista per un delitto doloso una persona alla quale
può essere mosso soltanto un rimprovero di colpa.
18. il concorso di persone nei reati necessariamente plurisoggettivi
È pacifico che possa configurarsi il concorso di persone in un reato necessariamente plurisoggettivo: la
funzione incriminatrice assolta dall art 110 consente infatti di dare rilevanza anche alla condotta atipica di
chi istiga o agevola la commissione di un reato necessariamente plurisoggettivo. Quanto ai reati
necessariamente plurisoggettivi impropri o in senso ampio, la funzione incriminatrice dell art 110 può
esplicarsi soltanto nei confronti di chi contribuisca alla realizzazione del fatto di reato tenendo una condotta
atipica, cioè diversa da quella descritta dalla norma incriminatrice e dunque non punibile in base a tale
norma. Solo apparentemente più complesso è il problema della configurabilità di un concorso di persone in
quella particolare categoria di reati necessariamente plurisoggettivi che si designano come reati associativi.
Taluno nega che sia possibile ipotizzare una condotta atipica che contribuisca alla realizzazione di queste
figure di reati, sostenendo che di un reato associativo potrebbe rispondere soltanto chi partecipa
all’associazione, e dunque è un suo membro stabile: tutt’al più, la sola condotta atipica rilevante potrebbe
essere quella di chi abbia compiuto attività di istigazione a entrare a far parte dell’associazione criminale.
Questa tesi non persuade. Chi occasionalmente apporti un contributo causale al mantenimento o al
rafforzamento delle capacità operative di una banda armata, di un associazione per delinquere non opera
certamente da partecipe dell’associazione, nel senso che non è parte integrante della sua struttura
organizzativa, ma senz altro agevole l’esistenza dell’associazione, realizzando cosi in pieno gli estremi
oggettivi di un concorso di persone nel reato associativo. Il concorso sarà d’altra parte integrato anche
sotto il profilo del dolo se chi occasionalmente contribuisce a mantenere in vita o a rafforzare l’associazione
si rende conto che la sua condotta avrà questa efficacia agevolatrice dell’associazione ed è a conoscenza
delle finalità alle quali l’associazione è rivolta. La configurabilità di un concorso di persone nel reato
associativo è avvalorata sul piano sistematico dalle norme che prevedono come reati a se stanti l’assistenza
ai partecipi di banda armata e l’assistenza agli associati di un associazione per delinquere o di un
associazione di tipo mafioso. Queste due figure delittuose consistenti nel dare rifugio o nel fornire vitto agli
associati si applicano fuori dai casi di concorso nel reato. L’aiuto all’associato verrà punito con l’autonoma
pena prevista dagli art 307 o 418 a meno che la persona dell’associato abbia un tale ruolo e peso nella vita
dell’associazione da comportare che l’aiuto sia diretto in realtà non solo al singolo, ma alla stessa
associazione.
19. il concorso mediante omissione
Un concorso di persone nel reato può realizzarsi anche in forma omissiva. Sono indispensabili 2 requisiti. In
primo luogo deve sussistere una posizione di garanzia, cioè in capo a un soggetto deve sussistere l’obbligo
giuridico di impedire la commissione del reato da parte di altri: in assenza di tale obbligo non c’è
preparazione nel reato, bensì una mera connivenza, cioè l’inerzia da parte di chi sappia che altri sta per
commettere o sta commettendo un reato, o un altrettanto irrilevante adesione morale, cioè l’approvazione
solo interiore del reato commesso da altri. L’obbligo di impedimento può riferirsi a qualsiasi tipo di reato:
reati commissivi di mera condotta; reati commissivi di evento; reati omissivi propri o impropri. In secondo
luogo l’omissione deve essere condizione necessaria per la commissione del reato da parte dell’autore:
bisogna accertare se l’azione doverosa che si è omesso di compiere avrebbe impedito la realizzazione del
fatto concreto da parte dell’autore.
20. il trattamento sanzionatorio dei concorrenti nel reato
Il legislatore del 1930 non ha considerato astrattamente meritevole di una maggior pena l’autore rispetto
alle varie figure di partecipe bensì ha disposto che la pena per ciascun concorrente vada individuata

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all’interno di una comune cornice edittale: quella prevista per il reato realizzato in concorso. Nell art 110 si
legge che quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di essa soggiace alla pena per
questo stabilita. Ciò significa non che tutti i concorrenti dovranno essere puniti in concreto con la stessa
pena, ma che la pena per i singoli concorrenti andrà graduata all’interno di una medesima cornice edittale,
tenendosi conto dei criteri ordinari di commisurazione ex art 133. Le ragioni politico criminali di questa
scelta legislativa risiedono nel giusto convincimento che la predeterminazione di una pena in astratto più
elevata per l’autore rispetto al partecipe farebbe spesso violenza alla realtà delle cose: in particolare non
avrebbe senso punire sempre e comunque l’esecutore del reato più severamente del mandante, posto che
quest ultimo in molti casi tira le fila rimanendo nell’ombra e si addossa cosi la parte meno rischiosa, ma più
rilevante dell’impresa criminale. Una volta determinata la pena base per il singolo concorrente secondo i
criteri di cui all art 133, il giudice deve procedere ad una ulteriore fase della commisurazione della pena. Tra
le circostanze aggravanti, gli art 111 e 112 contemplano alcune ipotesi in cui il concorrente ha avuto un
ruolo di spicco nella preparazione o nell’esecuzione del reato, promuovendo, organizzando o dirigendo
l’attività degli altri concorrenti; ipotesi in cui il concorrente ha sfruttato la propria posizione di supremazia
ovvero un altrui situazione di debolezza: è il caso di chi ha determinato a commettere il reato una persona
soggetta alla sua autorità, direzione e vigilanza. Tra le circostanze attenuanti compaiono alcune ipotesi
speculari alle aggravanti contemplate nell’art 112: l’ipotesi di chi è stato determinato a commettere il reato
o a cooperare nel reato da parte di un soggetto che eserciti nei suoi confronti un autorità, direzione o
vigilanza. Inoltre l’art 114 prevede che il giudice possa diminuire la pena qualora ritenga che l’opera
prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto minima importanza nella
preparazione o nell’esecuzione del reato. Nell’ambito del concorso di persone nel reato si pone il problema
di comunicabilità o meno delle circostanze ai diversi concorrenti. In proposito l’art 118 dispone che le
circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il
grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole. La sicura portata di questa
disposizione è quella di escludere che si comunichino ai compartecipi una serie di circostanze soggettive,
aggravanti e attenuanti, in quanto inerenti o al grado di riprovevolezza personale o alla storia personale del
singolo concorrente. Quanto alle circostanze non disciplinate dal art 118, si comunicano invece ai
concorrenti alle condizioni fissate in via generale dall art 59: le circostanze attenuanti saranno valutate a
favore di tutti i concorrenti per il solo fatto della loro oggettiva esistenza; le circostanze aggravanti saranno
invece poste a carico del concorrente a condizione che fossero da lui conosciute ovvero ignorate per colpa
ovvero ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Ne segue che l’attenuante del recesso attivo
dal delitto tentato risulta applicabile a tutti i concorrenti, anche a chi non ha dato un volontario contributo
all’impedimento dell’evento.
21. desistenza volontaria e recesso attivo nel concorso di persone
In assenza di una disciplina espressa si discute delle condizioni necessarie per integrare una desistenza
volontaria da parte del partecipe e quindi per escludere la sua punibilità. Un orientamento rigorista ritiene
che il partecipe debba tenere una condotta successiva a quella di partecipazione che impedisca la
consumazione del reato, paralizzando quindi l’attività di tutti i concorrenti. Questa tesi chiede troppo. Dal
momento che la responsabilità del partecipe presuppone che la sua condotta atipica abbia contribuito
causalmente alla realizzazione del fatto principale, ne segue che per la configurazione della desistenza sarà
sufficiente che il partecipe abbia neutralizzato gli effetti della sua azione: l’eventuale successiva condotta
autonoma che porti l’autore a realizzare comunque il reato sarà priva di ogni collegamento causale con la
condotta del partecipe e potrà fondare una responsabilità del solo autore. La suprema corte ha
ripetutamente affermato che ad integrare la desistenza volontaria è necessario e sufficiente che i partecipe
elimini le conseguenze del suo apporto causale, rendendolo irrilevante rispetto al reato eventualmente
portato a consumazione da altri. L’impedimento del reato ad opera del partecipe è invece ovviamente
necessario per integrare un recesso attivo.
22. la cooperazione nel delitto colposo
Art 113 stabilisce che nel delitto colposo quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più
persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso e che la pena è aumentata per
chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nel art 111 e 112
nn 3 e 4. Anche con riferimento alla cooperazione nel delitto colposo bisogna distinguere tra la funzione

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incriminatrice assolta dall’art 113 e la funzione di disciplina del trattamento sanzionatorio assolta in
particolare dagli art 113 e 114. La funzione incriminatrice del art 113, cioè la funzione di attribuire rilevanza
penale a comportamenti atipici ai sensi delle norme incriminatrici dei delitti colposi, riguarda i delitti colposi
di evento a forma vincolata e i delitti colposi di mera condotta; non riguarda i delitti colposi di evento a
forma libera, nei quali la norma incriminatrice di parte speciale che attribuisce rilevanza a qualsiasi
comportamento umano, connotato da colpa, che abbia fornito un contributo causale al verificarsi
dell’evento. Quanto ai delitti colposi di evento a forma vincolata, si pensi all art 452 che punisce il fatto di
chi cagione per colpa un epidemia mediante diffusione di germi patogeni. Quanto ai delitti colposi di mera
condotta sono esempio gli art 452 comma 2 e 442 che incriminano il commercio si sostanze alimentari
adulterate o contraffatte. Restano estranei alla funzione incriminatrice del art 113 i delitti colposi di evento
a forma libera, come l’omicidio colposo: chiunque cagioni per colpa un evento penalmente rilevante,
aggiungendo per colpa il proprio contributo causale a quello di altre persone, risponde infatti ai sensi della
norma incriminatrice di parte speciale, senza che l’art 113 svolga nessun ruolo. Alcuni elementi strutturali
della cooperazione nel delitto colposo sono comuni, anche sotto il profilo della disciplina, al concorso nel
delitto doloso: la pluralità di persone, la realizzazione di un fatto di reato e il contributo causale della
condotta atipica alla realizzazione del fatto. Peculiare del concorso colposo è invece il carattere colposo
della condotta di partecipazione, come violazione di una regola di diligenza, prudenza o perizia che ha la
finalità di prevenire il riconoscibile realizzarsi del fatto dannoso o pericoloso che integra il delitto colposo.
La responsabilità del partecipe non dipende dal carattere colposo o meno del fatto realizzato dall’autore.
Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio trovano applicazione le circostanze aggravanti previste
dagli art 111 e 112 nn 3 e 4. Ai sensi del art 114 anche per la cooperazione nel delitto colposo può trovare
applicazione la circostanza attenuante del contributo di minima importanza da parte del singolo
concorrente: per espressa preclusione legislativa, il giudice non potrà però ritenere di minima importanza il
contributo di chi si sia avvalso delle condizioni di vulnerabilità dell’autore del fatto previste dal art 112
comma 1 nn 3 e 4.

23. il concorso di persone nelle contravvenzioni


È pacifico che la disciplina del art 110 si applichi anche alle contravvenzioni necessariamente dolose,
nonché a quelle che in concreto vengono commesse con dolo. Parte della dottrina dubita della possibilità di
configurare un concorso colposo nelle contravvenzioni colpose, argomentando dal tenore letterale del art
113 ne quale si fa riferimento alla cooperazione nel solo delitto colposo. Altra parte della dottrina e anche
della giurisprudenza replica da un lato che l’art 113 era norma necessaria per dare rilievo al concorso
colposo nei delitti colposi, posto che la responsabilità per colpa per i delitti esige una previsione espressa: di
una previsione siffatta non c’era invece bisogno per le contravvenzioni che possono essere
indifferentemente realizzate sia con dolo sia per colpa. D’altro lato la rilevanza del concorso colposo nelle
contravvenzioni discende dal art 110 che parla di concorso nel reato, abbracciando quindi anche le
contravvenzioni necessariamente colpose o in concreto commesse per colpa.

24.concorso colposo in delito doloso (???????)

CAPITOLO 11 CONCORSO APPARENTE DI NORME E CONCORSO DI REATI


1.Il problema
Uno dei problemi più controversi della teoria e della prassi del diritto penale riguarda i casi in cui con una
sola azione od omissione o con una pluralità di azioni od omissioni si integrino gli estremi di più figure legali
di reato: si tratta di stabilire in quale rapporto si trovino fra loro le norme che prevedono quelle figure di
reato. Può darsi che la natura di quel rapporto comporti l'applicazione di una soltanto di tali norme,
escludendo l'applicazione delle altre, in questo caso si parlerà di concorso apparente di norme. Può darsi
invece che tutte quelle norme reclamino la loro applicazione e si avrà un concorso di reati: si tratterà di
concorso formale di reati se i reati sono stati commessi con una sola azione od omissione; di concorso
materiale di reati, se sono stati commessi con più azioni od omissioni. A prima vista l'unico criterio per
individuare un concorso apparente di norme (e non un concorso di reati) è quello del rapporto di specialità
tra le norme incriminatrici, che trova un'espressa enunciazione nella parte generale del codice penale

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all'art. 15: quando tra le norme incriminatrici non intercorre un rapporto di specialità, si ha sempre
concorso di reati, con la conseguente applicazione o delle sanzioni previste per ogni singolo reato, sommate
l'una all'altra, (è quanto si prevede di regola per il concorso materiale di reati) o della pena prevista per il
reato più grave aumentata fino al triplo (come si prevede per il concorso formale di reati). In realtà, il
legislatore ha espressamente usato altri criteri che individuano ipotesi di concorso apparente di norme,
cioè ipotesi nelle quali una sola è la norma da applicare quando o con una sola azione o con più azioni sono
stati integrati gli estremi di più figure di reato. Ad esempio le norme contenenti clausole di riserva, come
"se il fatto non costituisce altro reato", o "se il fatto non costituisce un più grave reato", o "fuori del caso
indicato nell'art. X" o "fuori dei casi di concorso nel reato X".

SEZ. A Il concorso apparente di norme


2. Le due ipotesi di concorso apparente di norme: unità o pluralità di fatti concreti penalmente rilevanti.
Il concorso apparente di norme può profilarsi in due gruppi di casi: A) quando un unico fatto concreto
(un'azione od omissione) sia riconducibile ad una pluralità di norme incriminatrici, una sola delle quali
applicabile; B) quando si realizzino più fatti concreti cronologicamente separati (più azioni od omissioni),
ciascuno dei quali sia riconducibile ad una norma incriminatrice, ed una sola di tali norme sia applicabile:
con la conseguente impunità o del fatto antecedente o del fatto susseguente a quello che viene punito.
3.Unico fatto concreto: La specialità come primo criterio per individuare un concorso apparente di norme.
Per risolvere i problemi posti dal primo gruppo di ipotesi, il legislatore enuncia innanzitutto il criterio di
specialità, stabilendo all'art. 15 c.p. che quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge
penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla
disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito. Da questa disposizione consegue che
quando tra due norme incriminatrici sussiste un rapporto di specialità si ha un concorso apparente di
norme (e non un concorso di reati) e al fatto concreto è applicabile la sola norma speciale, che estromette
la norma generale. Una norma è speciale rispetto ad un'altra quando descrive un fatto che presenta tutti gli
elementi del fatto contemplato dall'altra - la norma generale - ed inoltre uno o più elementi specializzanti.
Specializzante può essere: A) un elemento che specifica un elemento del fatto previsto dalla norma
generale; B) un elemento che si aggiunge a quelli espressamente previsti nella norma generale. Si parla nel
primo caso di specialità per specificazione, nel secondo di specialità per aggiunta. Ad esempio un rapporto
di specialità intercorre tra i delitti di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) e di associazione finalizzata
al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.p.r. 309 del 1990). Queste due figure
hanno in comune l'associarsi allo scopo di commettere più delitti, mentre si differenziano per il fatto che
nell'una lo scopo dell'associazione può essere la commissione di delitti di qualsiasi tipo, mentre nell'altra
deve trattarsi solo dei delitti previsti nell'art. 73 del d.p.r. (coltivazione, produzione, fabbricazione di
sostanze stupefacenti o psicotrope). Quindi la norma dell'art. 74 è speciale rispetto a quella dell'art. 416
c.p., e lo è nella forma della specialità per specificazione. Un altro caso riguarda i rapporti tra le norme
incriminatrici dell'omicidio doloso comune (art. 575 c.p.) e dell'infanticidio (art. 578 c.p.). Queste due figure
hanno in comune il cagionare con dolo la morte di un uomo, mentre si differenziano sotto diversi profili:
soggetto attivo dell'omicidio è chiunque, mentre nell'infanticidio è la madre; nel reato di omicidio l'oggetto
materiale è l'elemento "uomo" che, nella descrizione legale dell'infanticidio si specifica negli elementi
"neonato" e "feto"; inoltre nell'infanticidio agli elementi presenti nell'omicidio si aggiungono elementi
ulteriori: quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto e
immediatamente dopo il parto o durante il parto, si tratta di elementi già compresi nella norma generale
dell'omicidio doloso comune, infatti se quest'ultima norma incriminatrice non esistesse i fatti di infanticidio
sarebbero puniti come fatti di omicidio. Quindi la norma prevista all'art. 578 è speciale rispetto a quella
prevista nell'art. 575, per un verso si tratta di specialità per specificazione (per quanto riguarda i soggetti
attivi e gli oggetti materiali), per altro verso si tratta di specialità per aggiunta (per quanto riguarda i limiti
temporali delle circostanze concomitanti all'azione che hanno importanza nell'art. 578). L'elemento
specializzante oltre che come elemento costitutivo può rilevare anche come circostanza aggravante o
attenuante di un dato reato. In questo caso il legislatore ritaglia una porzione della norma generale non per
elevarla ad autonoma figura di reato, ma per farne oggetto, quale circostanza del reato, di un trattamento
sanzionatorio più o meno rigoroso di quello previsto dalla figura semplice; in questo caso il rapporto di

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specialità intercorre tra quest'ultima e la figura circostanziata alla quale in base all'art. 15 c.p. è assegnata la
prevalenza (ad esempio sono elementi specializzanti del delitto di furto le circostanze aggravanti previste
nell'art. 625 c.p. (come il furto commesso con destrezza, con violenza sulle cose, portando indosso armi,
ecc.). Se il legislatore non avesse previsto questa o quella ipotesi speciale di reato, o cessasse di prevederla
a seguito di abrogazione, troverebbe sempre applicazione la norma generale. Nella prima eventualità, i
membri di un'associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti risponderebbero di associazione
per delinquere comune, della maggiore gravità di questa forma di associazione criminale il giudice terrebbe
conto in sede di commisurazione della pena, in base all'art. 133 c.p. Nella seconda eventualità, a seguito
dell'abrogazione della norma che prevedeva l'oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 c.p., abrogato dalla
legge 205/1999), l'offesa all'onore del pubblico ufficiale viene oggi ricondotta alla figura generale
dell'ingiuria (art. 594 c.p.), e la maggior gravita di un'offesa all'onore recata ad un pubblico ufficiale non
come ad un qualunque privato cittadino, ma, secondo quanto recitava il 341, a causa o nell'esercizio delle
sue funzioni, potrà essere valorizzata dal giudice in sede di commisurazione della pena prevista dal 594,
nonché applicando la circostanza aggravante dell'art. 61 n. 10 c.p. (aver commesso il fatto contro un
pubblico ufficiale). Una più ampia nozione di legge speciale viene proposta da una parte della dottrina, che
riferisce il principio enunciato nell'art. 15 c.p. anche alle ipotesi di specialità in concreto o a quelle di
specialità reciproca (o bilaterale). Con la formula specialità in concreto si fa riferimento ad un rapporto tra
norme che, pur descrivendo modelli legali di reato tra i quali non intercorre un rapporto strutturale di
specialità, ricomprendono entrambe un medesimo fatto concreto in ragione delle particolari modalità con
le quali quel fatto è stato realizzato (ad esempio il caso della falsificazione di un atto pubblico che venga
utilizzato come mezzo per commettere una truffa; la norma sul falso in atto pubblico (art. 476, 1 comma
c.p.) dovrebbe trovare applicazione esclusiva a scapito di quella sulla truffa (art. 640 c.p.), per la sola
ragione che quella norma prevede la reclusione da uno a sei anni, mentre per la truffa la reclusione è da sei
mesi a tre anni). Altrettanto fallace appare la pretesa di ricondurre alla disciplina dell'art.15 c.p. le ipotesi di
specialità reciproca (o bilaterale) , cioè i casi in cui due norme descrivono fatti di reato che, accanto ad un
nucleo di elementi comuni, presentano elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti
elementi dell'altra (ad esempio le norme incriminatrici della violenza privata, art. 610 c.p., e della violenza o
minaccia per costringere o commettere un reato, art. 611 c.p. La prima norma è speciale rispetto alla
seconda perché dà rilievo ad una fisionomia particolare del comportamento oggetto di costrizione:
"commettere un fatto costituente reato", mentre la norma dell'art.610 si riferisce genericamente ad un
"fare, tollerare o omettere qualche cosa". Risulta pressoché impossibile individuare un criterio plausibile
per stabilire quale sia la norma speciale che deve prevalere sull'altra. Una parte della giurisprudenza
interpreta la formula "stessa materia" nell'art.15 come sinonimo di "stesso bene giuridico '', limitando così
il campo di applicazione del criterio di specialità alle sole ipotesi in cui la norma speciale tuteli lo stesso
bene giuridico protetto dalla norma generale. A questo orientamento si obietta in primo luogo che la
formula "stessa materia '' non evoca minimamente l'idea di un identico bene giuridico tutelato, stando
piuttosto ad indicare l'esigenza che uno stesso fatto sia riconducibile sia alla norma generale che alla norma
speciale; in secondo luogo si sottolinea che nessuna ragione di tipo logico si oppone al fatto che si consideri
norma speciale una norma che tutela, accanto al bene tutelato dalla norma generale, anche un bene
diverso (come nel caso della norma incriminatrice dell'oltraggio a un magistrato in udienza, prevista dall'art.
343 c.p., che si considera norma speciale rispetto a quella che incrimina l'ingiuria, prevista dall'art. 594 c.p.,
pur essendo posta a tutela sia dell'onore individuale, sia del prestigio dell'amministrazione della giustizia).
Alla regola della prevalenza della norma speciale potrà derogarsi solo nel senso della congiunta applicabilità
di entrambe le norme concorrenti: sia di quella speciale, sia di quella generale. Si avrà perciò un concorso
formale di reati, e non un concorso apparente di norme. Con la clausola di riserva prevista all'art.15, il
legislatore anticipa la possibilità che singole norme incriminatrici contemplino, a loro volta, clausole del tipo
"ferme restando le sanzioni previste ", "senza pregiudizio per le sanzioni previste" da questo o quel testo
normativo, ecc. , cioè queste sanzioni si cumuleranno con quelle comminate dalla disposizione che contiene
la clausola di riserva, secondo la disciplina del concorso formale di reati.
4. La sussidiarietà come secondo criterio per individuare un concorso apparente di norme.
Il principio di specialità non esaurisce il concorso apparente di norme penali: ulteriori ipotesi possono
individuarsi attraverso il principio di sussidiarietà. Quando un unico fatto concreto sia riconducibile a due o

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più norme incriminatrici, c'è concorso apparente di norme, ed è quindi applicabile una sola delle norme
concorrenti, anche nei casi in cui fra le norme sussista un rapporto di rango: la norma di minor rango, come
norma sussidiaria, cede il passo alla norma principale. E questo rapporto di rango tra le norme concorrenti
è reso visibile dalla sanzione più grave comminata nella norma principale. Una norma è sussidiaria rispetto
ad un'altra (norma principale), quando quest'ultima tutela, accanto al bene giuridico protetto dalla prima
norma, uno o più beni ulteriori o reprime un grado di offesa più grave allo stesso bene. La logica della
sussidiarietà guida il legislatore quando inserisce nel testo di una norma incriminatrice clausole del tipo
"qualora il fatto non costituisca un più grave reato", "se il fatto non è preveduto come più grave reato da
altra disposizione di legge", ecc. : queste clausole connotano espressamente la norma come sussidiaria (ad
esempio nel caso in cui qualcuno distrugga un documento che riguarda la sicurezza dello Stato, custodito
presso un pubblico ufficio, il fatto concreto è riconducibile sia alla previsione dell'art. 351 c.p., che per la
violazione della pubblica custodia di cose commina la reclusione da uno a cinque anni, sia alla previsione
dell'art. 255 c.p., che punisce la soppressione di documenti riguardanti la sicurezza dello Stato con la
reclusione non inferiore a otto anni. La prima norma incriminatrice tutela il bene dell'inviolabilità delle cose
sottoposte a pubblica custodia, qualunque sia la forma in cui si realizzi la violazione. Invece la seconda
norma da un lato reprime un grado di offesa più grave a quello stesso bene, dando rilievo alla soppressione
dei documenti, dall'altro lato proteggere l'ulteriore bene della sicurezza dello Stato, reprimendo le
aggressioni ai documenti che la riguardano). Un rapporto di sussidiarietà sussiste anche quando una norma
contenga in sé una clausola del tipo "fuori del caso indicato nell'art x", "fuori dei casi di concorso nel reato
x", ecc.: se il fatto concreto, oltre ad integrare gli estremi del reato descritto dalla norma contenente la
clausola di riserva, realizza anche gli estremi dell'altro reato, troverà applicazione solo la norma alla quale fa
rinvio la clausola di riserva, come norma il cui rango più elevato è messo in evidenza dalla pena più severa
qui comminata (ad esempio chi aiuti qualcuno ad assicurarsi, occultandolo, il denaro proveniente da un
delitto, questo fatto integra sia gli estremi del favoreggiamento reale, previsto dall'art. 379 c.p., sia quelli
della ricetta azione, previsto dall'art. 648 c.p.. Tra le relative norme incriminatrici non intercorre un
rapporto di specialità, ma nella prima è presente la clausola "fuori dei casi previsti dall'art. 648", che è
norma principale in quanto posta a tutela sia dell'amministrazione della giustizia, sia del patrimonio: e la
maggiore gravità del delitto di ricettazione è espressa dalla comminatoria della reclusione da due a otto
anni (mentre nell'art. 379 c.p. si prevede la reclusione da 15 giorni a cinque anni). Il numero delle norme
incriminatrici che contengono clausole di sussidiarietà espressa, è così rilevante che non sono espressione
di incerti criteri di opportunità, ma obbediscono a un criterio di sistema, dando importanza ad un principio
di portata generale in grado di operare non solo nei casi di sussidiarietà espressa, ma anche nei casi di
sussidiarietà tacita. L'ipotesi della sussidiarietà tacita ricorre quando due norme incriminatrici, alle quali sia
contemporaneamente riconducibile il fatto concreto, si pongano tra loro in un rapporto di rango,
individuando due figure di reato di diversa gravità, delle quali l'una offenda, oltre al bene offeso dall'altra,
anche un bene ulteriore o rappresenti uno stadio di offesa più intensa allo stesso bene giuridico. In un
rapporto di sussidiarietà tacita si pongono ad es. la norma che configura il delitto di strage (art. 422 c.p) ed
una serie di norme che configurano altri delitti contro la pubblica incolumità, come l'incendio (art. 423 c.p),
l'inondazione, frana o valanga (art. 426 c.p), il naufragio o sommersione (art. 428 c.p). La sussidiarietà, in
forma espressa o tacita, può delinearsi anche fra norme incriminatrici che descrivano stadi diversi di offesa
allo stesso bene giuridico, come nei rapporti tra reati di pericolo concreto e corrispondenti reati di danno
(ad esempio una persona preposta al controllo di un passaggio a livello che omette per colpa di abbassare
le sbarre nel tempo prescritto dai regolamenti ferroviari nell'imminenza del passaggio di un treno, creando
così il pericolo di un disastro ferroviario, che poi in effetti si verifica, mettendo a repentaglio la vita di un
numero indeterminato di persone. Questo fatto è riconducibile sia al delitto di pericolo colposo di disastro
ferroviario previsto dall'art. 450, 1 comma c.p., punito con la pena della reclusione fino a due anni, sia al
delitto di disastro ferroviario colposo previsto dall'art. 449, 2 comma c.p, punito con la pena della
reclusione da due a 10 anni. Delle due norme incriminatrici troverà applicazione però solo la seconda che
descrive un grado più intenso di offesa al bene della pubblica incolumità).
5. La consumazione come criterio per individuare un concorso apparente di norme
Parte della dottrina, per descrivere un rapporto fra norme che comporta l'applicazione in via esclusiva di
una di esse, affianca ai criteri della specialità e della sussidiarietà l'ulteriore criterio della consunzione. Il

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criterio della consunzione individua i casi in cui la commissione di un reato è strettamente funzionale ad un
altro e più grave reato, la cui previsione consuma ed assorbe in sé l'intero disvalore del fatto concreto.
L'idea della consunzione sta alla base della disciplina del reato complesso delineata nell'art.84 c.p, il quale
dispone che le disposizioni degli articoli precedenti [cioè quelle relative al concorso di reati] non si
applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostante aggravanti di un solo
reato, fatti che costituirebbero, per se stessi reato. La commissione di un reato che sia strettamente
funzionale ad un altro e più grave reato comporta l'assorbimento del primo reato nel reato più grave. Il
principio di consunzione impone in primo luogo un'interpretazione restrittiva di quelle figure astratte di
reato che sono costruite dal legislatore come il risultato del combinarsi di più reati: così è integrato il reato
complesso, in quanto nel singolo fatto concreto sia presente il nesso strumentale e funzionale che è alla
base dell'unificazione legislativa di quei reati (ad esempio il furto in abitazione è integrato, con
estromissione sia del furto semplice che della violazione di domicilio, solo nei casi in cui l'agente, fin dal
momento in cui si introduce arbitrariamente nell'abitazione altrui, agisce allo scopo di rubare. Invece la
giurisprudenza esclude l'assorbimento del reato di violazione di domicilio in quello di furto in abitazione, e
quindi ravvisa un concorso di reati, quando ci sia stata l'introduzione abusiva nell'abitazione altrui per
commettere fatti penalmente irrilevanti, come il prendere oggetti di proprietà dell'agente). Il principio di
consunzione trova anche applicazione quando, pur in assenza di una figura astratta di reato complesso, la
commissione di un reato sia in concreto strettamente funzionale alla commissione di un altro e più grave
reato: si tratta delle ipotesi che parte della dottrina designa con la formula reato eventualmente complesso.
Dato che l'art. 84 c.p. viene interpretato come espressione del principio di consunzione, il delitto di
simulazione di reato, previsto dall'art. 376 c.p, si deve considerare assorbito nel delitto di calunnia, previsto
dall'art. 368 c.p, quando la simulazione delle tracce di un reato inesistente sia diretta a rendere più
attendibile la falsa incolpazione. Invece ci sarà concorso di reati quando i due fatti siano espressione di
attività indipendenti e distinte. Secondo questa logica la Corte di cassazione ha escluso l'assorbimento della
simulazione di reato nel delitto di autocalunnia in un caso in cui l'agente aveva simulato le tracce di un furto
allo scopo di far conseguire al presunto derubato un indennizzo da parte dell'assicurazione e solo
successivamente, perché sorpreso dalla polizia, si era autoincolpato dell'immaginario furto. La figura del
reato eventualmente complesso, non essendo espressamente prevista dal legislatore, dà adito
inevitabilmente ad incertezze applicative, accentuate dalla presenza nell'ordinamento della circostanza
aggravante comune del nesso teleologico, che in base all'art. 61 n. 2 c.p. ricorre se un reato (chiamato reato
mezzo) sia commesso allo scopo di eseguirne un altro(chiamato reato scopo), con la conseguenza che il
giudice, quando escluda la sussistenza di un reato eventualmente complesso, ravvisando un concorso di
reati, dovrà ritenere il reato-mezzo aggravato ex art.61 n. 2. Ad esempio il caso di chi si introduca
arbitrariamente nell'altrui domicilio per sottrarre dei gioielli ed entri munito di una pistola per costringere il
proprietario ad aprire la cassaforte in cui sono riposti i preziosi. Il giudice, applicando i criteri utilizzati dalla
corte di cassazione, dovrebbe ritenere integrato il solo reato di rapina e considerare assorbita la violazione
di domicilio. Però è plausibile che invece decida nel senso del concorso di reati.
6. Più fatti concreti: le ipotesi di antefatto e di postfatto non punibile.
Di fronte ad un unico fatto concreto riconducibile sotto due o più norme incriminataci l'alternativa che si
profila è quella dell'applicabilità di tutte le norme incriminatrici (concorso formale di reati) o di una sola di
quelle norme (concorso apparente di norme), che prevale o perché è speciale o perché è principale o
perché è norma che contiene e consuma l'altra o le altre. L'alternativa fra concorso di reati e concorso
apparente di norme si prospetta anche quando vengono commessi più fatti concreti cronologicamente
separati, ciascuno dei quali integra gli estremi di una figura di reato. In quest'eventualità, ad escludere il
concorso (materiale) di reati e a far propendere per il concorso apparente di norme spesso è il legislatore,
sancendo espressamente ora l'inapplicabilità della norma o delle norme violate coi fatti concreti
cronologicamente antecedenti (antefatto non punibile), ora invece l'inapplicabilità della norma o delle
norme violate coi fatti concreti cronologicamente posteriori (postfatto non punibile). Un esempio di un
antefatto non punibile si trova nella sfera delle falsità in monete: l'art. 461 c.p. dice che è punito con la
reclusione da uno a cinque anni, oltre che con una multa, chiunque fabbrica filigrane (cioè delle forme o
lettere che servono per fabbricare le carte filigranate); mentre l'art. 460 c.p. dice che è punito con la
reclusione da due a sei anni, oltre che con una multa, chi contraffà carta filigranata. Si tratta di attività

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preparatorie di ulteriori, più gravi reati, e le due disposizioni si applicano solo se il fatto non costituisce un
più grave reato. Così chi ha fabbricato le filigrane e successivamente se ne avvale per commettere una
contraffazione di carta filigranata, risponderà solo di quest'ultimo delitto; se poi dopo aver contraffatto la
carta filigranata adopera quella carta per contraffare monete, integrando così il più grave reato previsto
dall'art. 453 n. 1 c.p., che commina oltre ad una multa anche la reclusione da tre a 12 anni, anche la
contraffazione di carta filigranata assumerà i connotati di un antefatto non punibile: tra le norme che
incriminano la fabbricazione di filigrane e quella di monete si profila quindi un concorso apparente, e la sola
norma applicabile è quella che reprime la falsificazione di monete. La logica sottostante alle ipotesi
espresse di antefatto non punibile è quella della sussidiarietà: tra più norme che prevedono stadi e gradi
diversi di offesa dello stesso bene giuridico prevale, come norma principale, e trova applicazione in via
esclusiva, la norma che descrive Io stadio più avanzato ed il grado più intenso di offesa al bene, escludendo
l'applicabilità della norma sussidiaria (o delle norme sussidiarie) ai fatti concreti antecedenti. Così, è norma
principale quella che incrimina la falsificazione di monete, come forma più intensa e più grave di offesa alla
fiducia pubblica nella genuinità delle monete nazionali o estere, la cui applicabilità preclude quella delle
norme sussidiarie, che puniscono le precedenti condotte della contraffazione di carta filigranata e della
fabbricazione di filigrane. Accanto alle ipotesi espresse, si possono individuare ipotesi tacite di antefatto
non punibile: anche in questo caso la non punibilità dell'antefatto deriva dalla considerazione che si tratta
di uno stadio anteriore e meno grave di offesa allo stesso bene o ad un bene meno importante, ricompreso
nel bene offeso dal fatto susseguente (ad esempio l'integrità fisica e la vita). Queste ipotesi a volte vengono
inquadrate dalla dottrina nella categoria della progressione criminosa (ad esempio se Tizio prima percuote
Caio e poi in seguito lo ferisce, magari procurandogli una malattia che dura più di 20 giorni, risponderà solo
di lesioni in base all'art. 582, 1 comma c.p., rimanendo esclusa l'applicazione della norma sulle percosse).
Previsioni espresse di un postfatto non punibile sono assai numerose: si tratta, in primo luogo, dei casi in cui
il legislatore sancisce la punibilità di questo o quel fatto "fuori dei casi di concorso" in un fatto delittuoso
antecedente. Un esempio è presente nelle norme sui delitti di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) e
favoreggiamento reale (art. 379 c.p.) che, per espressa indicazione legislativa, si applicano fuori dei casi di
concorso nel reato antecedente (ad esempio se una persona commette, come autore o partecipe, un
determinato delitto e poi aiuta un complice a sottrarsi alle investigazioni o alle ricerche dell'autorità,
risponderà solo del primo delitto, mentre la condotta di favoreggiamento personale assumerà il ruolo di
postfatto non punibile; in questo caso c'è un concorso apparente di norme. Altre volte il legislatore sancisce
la punibilità di un determinato fatto fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti o dall'articolo
precedente, e cioè a condizione che l'agente non sia stato autore o partecipe nella realizzazione del fatto o
dei fatti preveduti in quell'articolo o in quegli articoli. Un esempio è presente nella disciplina delle falsità in
monete: l'art. 455 c.p. dice che è punito chi spende o mette altrimenti in circolazione monete falsificate;
per espressa previsione legislativa questa norma si applica fuori dei casi preveduti dai due articoli
precedenti, e cioè a condizione che l'agente non sia stato autore o partecipe della falsificazione, non abbia
introdotto la moneta falsa nel territorio dello Stato insieme con l'autore della falsificazione. Nei confronti di
colui che prima contraffà monete aventi corso legale nello Stato, e successivamente le mette in
circolazione, quest'ultima condotta assume i connotati del postfatto non punibile; quindi tra i due reati si
configura un concorso apparente. Alla base delle norme che sanciscono la non punibilità di questo o quel
fatto nei confronti di chi, come autore o partecipe, abbia realizzato un reato cronologicamente precedente,
sta una logica riconducibile all'idea di consunzione: la repressione del fatto antecedente esaurisce infatti il
disvalore complessivo e il relativo bisogno di punizione, posto che il fatto successivo rappresenta un
normale sviluppo della condotta precedente, attraverso il quale l'agente o consegue i vantaggi perseguiti
attraverso il primo fatto (chi falsifica le monete non lo fa per mettere alla prova la propria abilità ma per
spenderle o farle spendere) o ne mette al sicuro i risultati (chi ha commesso questo o quel fatto si assicura
l'impunità depistando gli organi inquirenti impegnati nelle ricerche dei complici che, se catturati,
potrebbero fare il suo nome). Le ipotesi di postfatto non punibile non si esauriscono in quelle
espressamente individuate dal legislatore; tacitamente le riserve "fuori dei casi di concorso nel reato"
antecedente o "fuori dei casi preveduti nell'articolo o negli articoli precedenti", che comportano la non
punibilità del reato susseguente, operano tutte le volte in cui quest'ultimo reato rappresenta un normale
sviluppo della condotta precedente (ad esempio si ritiene che l'autore di un furto sia adeguatamente punito

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attraverso la sanzione prevista per questo reato anche se, comportandosi da proprietario, successivamente
vende la cosa sottratta o la distrugge, nei suoi confronti perciò saranno inapplicabili le norme che
incriminano l'appropriazione indebita e il danneggiamento. Invece saranno punibili in concorso con il
precedente reato di furto fatti con i quali l'autore del furto non si limiti a consolidare l'offesa già prodotta,
ma offenda un ulteriore bene giuridico di un terzo o della stessa vittima. Ad esempio risponderà anche di
truffa chi abbia prima rubato un dipinto e poi lo abbia venduto ad altri, inducendo in errore l'acquirente
attraverso false documentazioni che facessero apparire quel quadro come legittimamente acquistato in una
galleria d'arte. Quindi tra furto e truffa ci sarà un concorso materiale di reati).
7. Le cosiddette norme a più fattispecie e le disposizioni a più norme
Può accadere che una sola disposizione di legge preveda una serie di fatti ai quali ricollega la stessa pena
(ad esempio l'art. 635 c.p, descrivendo il delitto di danneggiamento, commina la pena della reclusione fino
a un anno nei confronti di chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili
cose mobili o immobili altrui). E' sorta la domanda se in casi del genere la norma preveda un unico reato,
realizzabile con diverse modalità considerate equivalenti, o una pluralità di reati, che possono concorrere
fra loro: si parla nel primo caso di norme a più fattispecie (o di norme miste alternative) e nel secondo caso
di disposizioni a più norme (o norme miste cumulative). L'interpretazione dovrebbe sempre condurre a
ravvisare un unico reato, trattandosi della violazione di un'unica norma incriminatrice. I vari fatti descritti
all'interno dell'unica disposizione rappresentano, sul piano sostanziale, o altrettanti gradi di offesa ad uno
stesso bene giuridico (come nei rapporti tra i fatti di deterioramento, dispersione e distruzione della cosa
all'interno della norma che incrimina il danneggiamento), o modalità diverse di offesa a quel bene (come
nei rapporti tra i vari fatti di bancarotta patrimoniale o documentale). La molteplicità dei fatti
eventualmente commessi dall'agente non sarà priva di qualsiasi rilevanza perché, ferma rimanendo l'unicità
del reato, il giudice terrà conto del numero o della gravità dei fatti concreti nella commisurazione della
pena all'interno della cornice edittale. Eccezionalmente, se la legge lo dispone espressamente, la pluralità
dei fatti concreti potrà integrare una circostanza aggravante (come nel caso della bancarotta fraudolenta,
art. 216 l.fall., bancarotta semplice, art. 217 l.fall., e del ricorso abusivo al credito, art. 218 l.fall.: infatti l'art.
219, 2 comma n.1 l. fall. dice che "le pene stabilite negli articoli suddetti sono aumentate se il colpevole ha
commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati); anche in materia di stupefacenti ad
esempio la legge prevede una serie di condotte che, se realizzate in successione temporale, integrano un
unico reato (come stabilisce l'art. 73, 1 comma e 1 bis comma d.p.r. 309 del 1990). In particolare viene
assoggettata ad un'unica pena sia la commissione di fatti appartenenti al primo ciclo della droga (dalla
coltivazione alla raffinazione e alla vendita all'ingrosso), sia alla commissione di fatti riconducibili al secondo
ciclo (importazione, esportazione, acquisto, detenzione, cioè la sostanza stupefacente per la sua quantità
sembra destinata ad un uso non esclusivamente personale). La corte di cassazione ha stabilito che il fatto di
importazione dall'estero e di successivo trasporto e detenzione nel territorio dello Stato della stessa
sostanza stupefacente costituisce un unicum inscindibile e quindi una sola violazione della norma
incriminatrice.

SEZ. B Il CONCORSO DI REATI


8. Unità o pluralità di reati
Di fronte ad un comportamento umano che realizzi gli estremi di più figure legali di reato, per stabilire che
si è in presenza di un concorso di reati non basta escludere che si tratti di un concorso apparente di norme:
bisogna ulteriormente verificare se davvero ci si trova in presenza di più reati. Di concorso di reati potrà
parlarsi solo quando si sciolga l'alternativa unità-pluralità di reati a favore del secondo termine; per
sciogliere tale alternativa non basta guardare alla presenza o meno di una molteplicità di atti sul piano
fenomenico-naturalistico. La soluzione va cercata, invece, sul terreno normativo. Può accadere che la figura
di reato descritta dalla norma incriminatrice esiga il compimento di più azioni, che dunque daranno vita ad
un unico reato (ad esempio nel reato di falsità in scrittura privata, previsto dall'art. 485 c.p, la legge richiede
la formazione di una scrittura privata falsa seguita dall'uso del documento falsificato). Inoltre di reati con
più azioni può parlarsi anche a proposito dei reati abituali, che esigono la reiterazione, anche ad
apprezzabile distanza di tempo, di una pluralità di atti (ad esempio il delitto di maltrattamenti in famiglia
comporta un'offesa al bene della dignità della vittima che prende forma solo a seguito del compimento

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usuale e ripetitivo di una pluralità di atti, come le percosse o le minacce). Vi sono figure legali di reato che
non devono, ma possono essere integrate attraverso una pluralità di atti: con la conseguenza che anche in
questo secondo caso si è in presenza di un unico reato: ad es., si realizza un unico fatto di corruzione di
minorenni (come stabilisce l'art.609 quinquies c.p), sia che venga compiuto un unico atto sessuale, sia che
vengano compiuti più atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla
assistere. Inoltre, possono essere integrati con più atti i reati permanenti (ad esempio c'è un unico reato di
sequestro di persona, previsto dall'art. 605 c.p, anche se la privazione di libertà viene realizzata e
mantenuta in vita attraverso una serie di attività dell'agente, ad esempio dopo l'iniziale trasporto della
vittima in una casa di campagna, l'agente la preleva e la sposta in altre prigioni). Un unico reato si ha infine
nel caso in cui più azioni, ciascuna integrante il modello legale di un medesimo reato, vengano poste in
essere contestualmente (cioè l'una immediatamente dopo l'altra o comunque a breve intervallo di tempo)
e con un'unica persona offesa. Ad esempio si avrà un unico reato di ingiuria (art. 594 c.p.) sia nel caso in cui
Tizio rivolga a Caio una pesante espressione lesiva del suo onore, sia che riversi su di lui, in un breve lasso di
tempo, una serie di insulti. È unico anche il reato di percosse (art. 581 c.p) sia nel caso in cui Tizio dia uno
schiaffo a Caio, sia che lo investa con una serie ininterrotta di schiaffi, pugni e calci. Invece, si avrà una
pluralità di reati quando manchi o il requisito della contestualità delle azioni o il requisito dell'unicità della
persona offesa (ad esempio si avrà una pluralità di reati nel caso in cui Tizio in un primo momento sottragga
dalla casa di Caio denaro e gioielli e, il giorno successivo, sottragga altri beni).
9. Il concorso di reati: cumulo giuridico e cumulo materiale delle pene
Dato che ci si trova di fronte, nel caso concreto, non ad un unico reato, ma ad una pluralità di reati, bisogna
distinguere - come distingue la legge - a seconda che i reati siano stati commessi con una sola azione od
omissione (art.81 1 comma c.p) o con più azioni od omissioni (artt.71 ss. c.p): nel primo caso si parla di
concorso formale di reati, nel secondo di concorso materiale di reati. E' una distinzione a cui la legge
ricollega importanti conseguenze sul piano del trattamento sanzionatorio. Più mite è il trattamento
riservato al concorso formale di reati, per il quale il nostro ordinamento adotta attualmente il cumulo
giuridico delle pene ed in particolare prevede che si applichi la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più
grave aumentata sino al triplo (come stabilisce l'art. 81, 1 comma c.p.). Più severo è invece il trattamento
sanzionarono del concorso materiale di reati: secondo lo schema del cumulo materiale delle pene, di regola
si applicano le pene previste per ogni singolo reato sommate l'una all'altra (come stabiliscono gli artt. 71 ss.
c.p). La scelta tra il cumulo materiale, quello giuridico e quello dell'assorbimento (cioè l'applicazione della
sola pena prevista per il reato più grave fra quelli in concorso) viene compiuta dal legislatore sulla base di
considerazioni politico-criminali, che riflettono anche la visione politica complessiva che ispira l'azione dello
Stato in un determinato momento storico. Per quanto riguarda la storia della disciplina del concorso di reati
nel nostro paese: il regime dell'assorbimento non ha mai trovato accoglienza nei codici preunitari, i quali
invece prevedevano il cumulo giuridico delle pene, attribuendo spazi residuali al cumulo materiale. Il codice
Zanardelli adottava invece il cumulo giuridico delle pene e, nel caso del concorso formale eterogeneo, il
principio di assorbimento. Con l'avvento della dittatura fascista è stato abbandonato il criterio del cumulo
giuridico a favore del cumulo materiale, conservando però il cumulo giuridico per il reato continuato. Quasi
trent'anni dopo la caduta del fascismo, il legislatore è intervenuto ripristinando il regime del cumulo
giuridico per il concorso formale di reati e ampliando la portata della figura del reato continuato.
Comunque un ritorno generalizzato al cumulo giuridico delle pene è auspicato dalla maggioranza della
dottrina ed è stato proposto in due recenti progetti di riforma del codice penale: il Progetto Pagliaro del
1992 e il Progetto Grosso del 2000.
10. Il concorso formale di reati: la struttura
La commissione di più reati con una sola azione od omissione integra, in base all'art.81 comma 1 c.p, un
concorso formale di reati. Il concorso formale di reati è omogeneo se quell'unica azione viola più volte la
stessa norma, eterogeneo se quell'unica azione viola due o più norme incriminatrici. Un'unica azione può
constare, oltre che di un unico atto, anche di una pluralità di atti: in questo caso ciò che consente di parlare
di unica azione è l'unicità del contesto spazio-temporale in cui vengono compiuti. Parte della dottrina e
della giurisprudenza richiedono l'ulteriore requisito dell'unicità dello scopo che dovrebbe sorreggere il
compimento degli atti. Questa tesi, però, non persuade: il requisito dell'unico scopo è infatti riferibile ai soli
reati dolosi, mentre è pacifico che il concorso formale può intercorrere anche tra reati colposi. Per stabilire

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se ci si trovi in presenza di un concorso formale omogeneo, e non di un unico reato, il criterio fondamentale
è quello della molteplicità delle offese al bene giuridico tutelato (o ai beni giuridici tutelati) dalla norma
incriminatrice (ad esempio se Tizio, nello stesso contesto spaziale e temporale, rivolge una o più offese a
varie persone, commette una pluralità di ingiurie in concorso formale tra loro, avendo realizzato tante
offese quante sono le persone il cui onore è stato messo in pericolo). Ciò che caratterizza il concorso
formale eterogeneo di reati è un'unica azione con la quale un soggetto esegue due (o più) distinte figure di
reato (ad esempio se un agente di polizia, abusando delle sue qualità e delle sue funzioni, costringe una
prostituta a corrispondergli del denaro in cambio della sua protezione, c'è concorso formale tra il reato di
sfruttamento della prostituzione e quello di concussione. L'art. 81 c.p. contempla anche l'ipotesi del
concorso formale di reati omissivi, si parla anche infatti di una sola omissione, con la quale si integra più
volte lo stesso reato (concorso formale omogeneo) o si integrano più reati diversi (concorso formale
eterogeneo). Il presupposto comune ad entrambe le ipotesi di concorso formale è l'unicità del contesto
spaziotemporale nel quale si aveva l'obbligo di compiere le azioni che sono state omesse. Per quanto
riguarda i reati omissivi impropri, si profilerà ad es. un concorso formale omogeneo di omicidi colposi
mediante omissione (artt.40 e 589, 3 comma c.p.) se il datore di lavoro ha colposamente omesso di
predisporre misure di sicurezza che, se attuate, avrebbero impedito che due operai cadessero da
un'impalcatura riportando lesioni gravissime, sfociate in tempi diversi nella morte di entrambi. Si avrà
invece un concorso formale eterogeneo fra il delitto di incendio colposo mediante omissione e quello di
omicidio colposo mediante omissione nel caso di un incendio che si è sviluppato in un deposito di
carburanti, che è sfociato nella morte di un operaio: risponderà dei due reati il preposto che abbia omesso
per incuria di eseguire i controlli doverosi sul funzionamento degli apparati antincendio che, se efficienti,
avrebbero spento sul nascere le fiamme, impedendo sia l'incendio che la morte. Inoltre può esserci un
concorso formale tra reati omissivi propri (ad esempio ci sarà un concorso formale omogeneo di delitti di
omissione di soccorso, previsti all'art. 593, 1 e 2 comma c.p., nel caso in cui una persona, in un parco, pur
vedendo un bambino di tre anni che piange e che è privo di accompagnatore, e vedendo nei pressi del
bambino una donna riversa al suolo gravemente ferita, probabilmente la madre, per non avere fastidi
decide di non avvisare l'autorità perché prenda in custodia il bambino e di non chiamare un'ambulanza che
soccorra la donna ferita. Invece nel caso in cui un poliziotto che, pattugliando una via cittadina, scorga una
persona gravemente ferita con un pugnale ancora conficcato in una spalla, incurante dei suoi doveri,
omette sia di prestare soccorso chiamando l'ambulanza, sia di riferire l'accaduto ai suoi superiori; in questo
caso sarà integrato un concorso formale eterogeneo tra il delitto di omissione di soccorso e il diritto di
omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale, previsto dall'art. 361 c.p.).
11. Il trattamento sanzionatorio
Il concorso formale di reati è sottoposto ad un trattamento più mite di quello riservato al concorso
materiale: il giudice deve operare il cumulo giuridico delle pene, individuando il più grave fra i reati in
concorso ed applicando la pena che infliggerebbe per questo reato aumentata fino al triplo. E infatti l'art.
81, 1 comma c.p. stabilisce che l'autore di più reati in concorso formale tra loro è punito con la pena che
dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo. Lo stesso art.81 al 3 comma
stabilisce che nei casi preveduti da questo articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe
applicabile a norma degli articoli precedenti, cioè alla pena che sarebbe applicabile in base al cumulo
materiale. Un primo problema prospettato riguarda l'individuazione della violazione più grave rispetto alla
quale va fissata la pena-base, da aumentarsi poi fino al triplo. È' controverso se la violazione più grave
debba individuarsi in astratto o in concreto: secondo il primo orientamento, prevalente in giurisprudenza,
la violazione più grave sarebbe quel reato per il quale la legge prevede il massimo di pena più elevato, e, in
caso di pene massime identiche, quello per il quale la legge prevede il minimo più elevato; secondo l'altro
orientamento, prevalente in dottrina, la violazione più grave sarebbe invece quella per la quale il giudice,
alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, infliggerebbe la pena più elevata. La formula legislativa
"violazione più grave" soffre di un così alto grado di ambiguità da esporsi a seri dubbi di illegittimità
costituzionale per violazione del principio di legalità della pena (art. 25, 2 comma Cost). Sul piano
sistematico, un argomento a favore della determinazione in concreto della violazione più grave può trarsi
dall'art.187 disp. att. c.p.p., che disciplina l'applicazione del concorso formale di reati e del reato continuato
da parte del giudice dell'esecuzione: regolando espressamente la determinazione del reato più grave, la

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norma citata stabilisce che si considera violazione più grave quella per la quale è stata infitta la pena più
grave. Una volta individuato il reato più grave e quantificata la relativa pena, che fungerà da pena-base per
la formazione della pena complessiva secondo lo schema del cumulo giuridico, il giudice deve procedere
all'aumento previsto dall'art.81: a tale scopo dovrà indicare un quantum di pena per ciascuno dei reati
meno gravi (reati-satellite). Ad esempio nel caso di concorso formale tra falsità in testamento olografo e
truffa, per i quali la legge prevede rispettivamente la reclusione da uno a sei anni. La reclusione da sei mesi
e un giorno a quattro anni, nonostante la minore pena edittale, il giudice individua nella truffa la violazione
in concreto più grave, a causa dell'enormità del danno e del profitto conseguito dall'agente con l'uso del
testamento falsificato. Quantificata la pena per la truffa ad esempio in quattro anni di reclusione, a quella
pena il giudice aggiunge, in base a una valutazione discrezionale, un anno di reclusione per l'altro reato).
L'aumento minimo di pena che il giudice deve operare per le pene detentive è pari a un giorno, per le pene
pecuniarie è pari a un euro (come stabilisce l'art. 134 c.p.). In via di eccezione è previsto un minimo più
elevato per le ipotesi in cui i reati in concorso formale siano stati commessi da un soggetto al quale è stata
applicata la recidiva reiterata, in base all'art. 99, 4 comma c.p: in questo caso l'aumento non può essere
inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Inoltre l'aumento di pena dev'essere
contenuto entro un doppio limite massimo: la pena finale non può superare né il triplo della pena-base, né,
in ogni caso, l'ammontare della pena che verrebbe applicata se si procedesse al cumulo materiale, cioè alla
somma delle pene commisurate per ciascuno dei reati in corso. Si pone il problema se la disciplina del
cumulo giuridico sia applicabile anche in caso di concorso fra reati puniti con pene eterogenee, cioè con
pene diverse o per specie (reclusione/arresto, multa/ammenda) o per genere (pene detentive/pene
pecuniarie).Per la prima ipotesi - pene diverse per specie - sembra ormai definitivamente affermata la
soluzione dell'applicabilità del cumulo giuridico (ad esempio se concorrono un reato punito con la
reclusione e uno punito con arresto, e il primo reato viene considerato dal giudice violazione più grave, alla
pena-base della reclusione si aggiungerà per l'altro reato un ulteriore quantum di reclusione, dato che si
considera irrilevante la diversità di specie tra le due pene detentive. Più dibattuto è il quesito relativo ai
reati puniti con pene diverse per genere: se si possa procedere al cumulo giuridico delle pene qualora
concorrano ex art 81,1 comma due reati puniti l'uno con pena detentiva e l'altro con pena pecuniaria; la
giurisprudenza oggi prevalente accoglie la soluzione affermativa. Si pone a questo punto un ulteriore
interrogativo: come vada operato il cumulo giuridico tra pene di genere diverso. La giurisprudenza
maggioritaria opta per il cumulo giuridico per assimilazione, ritiene cioè che ai fini dell'aumento di pena ex
art.81 si debba infliggere per i reati-satellite, anche se puniti ex legge con pena pecuniaria, una quota di
pena detentiva, e cioè una pena dello stesso genere di quella prevista per la violazione più grave; il giudice
dovrebbe commutare in pena detentiva la pena pecuniaria prevista per il reato meno grave, secondo il
criterio di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive fissato dall'art.135 c.p (trentotto euro = un
giorno di reclusione o arresto). In base ad un diverso orientamento, commutare la pena pecuniaria in pena
detentiva significa però violare l'art.81,3 comma, infliggendosi una pena qualitativamente più grave di
quella che risulterebbe dal cumulo materiale: secondo questo orientamento, la disciplina dell'art.81 resta
comunque operante: il cumulo giuridico va operato non per assimilazione, ma per addizione. Per
determinare la pena complessiva, il giudice deve cioè aggiungere alla pena detentiva quantificata per il
reato più grave una pena pecuniaria per il reato-satellite, la cui misura non potrà superare il limite del triplo
della pena-base imposto dall'art.81, 1 comma; alle informazioni presenti nell'art. art.135 il giudice farà
ricorso al solo scopo di verificare il rispetto di tale limite (ad esempio nel caso in cui il giudice abbia fissato
in 20 giorni di reclusione la pena-base per la violazione più grave, in concorso formale con un altro reato
punito dal legislatore con la multa fino a € 5.000, l'aumento di pena per il reato-satellite dovrà consistere
non in X. giorni di reclusione, ma in Y. euro di multa, che si aggiungeranno ai 20 giorni di reclusione, questo
Y. non potrà superare il limite di € 1520, cioè l'equivalente ex art. 135 c.p di 40 giorni di reclusione).
12. Il concorso materiale di reati: la struttura
Il concorso materiale di reati si caratterizza per la presenza di una pluralità di azioni o di omissioni, e sotto
questo profilo rileva ancora una volta l'esistenza di una cesura temporale tra le plurime violazioni della
stessa norma (concorso materiale omogeneo) o tra le violazioni di diverse disposizioni di legge (concorso
materiale eterogeneo). Un esempio di concorso materiale di reati commissivi si ha nel caso in cui Tizio
spara a Caio con l'intenzione di ucciderlo, ma i colpi vanno a vuoto, ed alcuni giorni dopo gli spara di nuovo,

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ma ancora senza successo (si tratta di un concorso materiale di tentativi di omicidi). Per quanto riguarda
invece il concorso materiale di reati omissivi, un caso è ad esempio quello di un datore di lavoro che,
omettendo per colpa di far riparare un dispositivo di sicurezza di una macchina, cagioni una lesione
personale ad un operaio; quel datore di lavoro continua a violare il suo dovere di garanzia, cosicché, nei
giorni successivi, altri operai vengono feriti, ed anzi si verifica un incidente mortale: si configurerà in questo
caso un concorso materiale tra delitti di lesioni colpose mediante omissione e di omicidio colposo mediante
omissione.
13. Il trattamento sanzionatorio
Il concorso materiale di reati è assoggettato al cumulo materiale delle pene, anche se temperato in base
agli artt. 78 ss. c.p. dalla fissazione di limiti massimi per ciascuna specie di pena (trent’anni per la reclusione,
sei anni per l'arresto, ecc.): in ogni caso, la pena complessiva non può essere superiore al quintuplo della
più grave delle pene concorrenti. Quindi al responsabile di più reati in concorso materiale fra loro, puniti
con pene della stessa specie, il giudice applicherà di regola la somma aritmetica delle pene stabilite per
ciascun reato (ad esempio chi con più azioni ha commesso un furto, punito dal giudice con due anni di
reclusione, una truffa, punita con un anno di reclusione, e una violenza privata, punita con sei mesi di
reclusione, verrà inflitta la pena complessiva di tre anni e sei mesi di reclusione). Se si tratta invece di reati
puniti con pene di specie diversa (reclusione ed arresto, multa ed ammenda) o di genere diverso
(reclusione e multa, reclusione ed ammenda, arresto e multa, etc.), le varie pene si applicano tutte
indistintamente e per intero (in base agli artt. 74,1 comma e 75,1 comma c.p.): pene detentive di specie
diversa (reclusione ed arresto) concorrenti fra loro non si applicano però per intero se la durata
complessiva delle varie pene supererebbe gli anni trenta (in base all'art.78, 2 comma c.p.). Il cumulo
materiale delle pene va eseguito sia nel caso in cui una persona venga condannata per più reati con una
sola sentenza o decreto (in base all'art.71 c.p), sia nel caso in cui una persona, dopo una prima condanna,
venga giudicata e condannata per un altro reato, commesso anteriormente o posteriormente (in base
all'art.80 pt. I c.p.), sia infine nel caso in cui contro la stessa persona si debbano eseguire più sentenze o più
decreti di condanna (in base all'art.80 pt.II c.p. e art.663 c.p.p.).
14. Il reato continuato. Nozione e fondamento
L'art.81.2 c.p. delinea e disciplina la figura del reato continuato, che si realizza quando taluno con più azioni
od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni
della stessa o di diverse disposizioni di legge, si tratta quindi di una pluralità di reati, e più precisamente di
un concorso materiale di reati, unificati dallo stesso disegno criminoso. L'art. 81, 2 comma c.p. prevede per
il reato continuato il cumulo giuridico delle pene nella stessa forma stabilita nell'art.81, 1 comma per il
concorso formale di reati: prevede cioè che l'agente soggiaccia alla pena che dovrebbe infliggersi per la
violazione più grave aumentata sino al triplo. La ratio storica dell'istituto risiede nell'attenuazione delle
pesanti conseguenze derivanti dal cumulo materiale delle pene; per quanto riguarda invece il fondamento
politico-criminale dell'istituto, il trattamento sanzionatorio più mite riservato al reato continuato riflette la
minore riprovevolezza di chi cede ai motivi a delinquere una sola volta, quando cioè concepisce il disegno
criminoso. Il medesimo disegno criminoso: nozione: Al centro della struttura del reato continuato sta il
disegno criminoso del quale i singoli reati devono rappresentare l'esecuzione. Il disegno criminoso è una
cosa diversa dal dolo che deve sorreggere la commissione dei singoli reati: non si tratta infatti della
consapevole decisione di realizzare ogni singolo reato, ma di un programma che deve formarsi nella mente
dell'agente prima dell'inizio dell'esecuzione del primo dei reati in concorso, cioè il disegno criminoso
rappresenta l'ideazione di più reati, accompagnata dalla deliberazione generica di realizzarli, alla quale
seguirà di volta in volta la concreta decisione di commettere il singolo reato. Si discute sul contenuto di quel
programma: se basti la generica prefigurazione di una futura attività delinquenziale (ad esempio si
programma di effettuare ogni sorta di aggressione al patrimonio) o, magari, all'opposto, se sia necessaria la
rappresentazione anticipata non solo dei tipi di reato che verranno commessi, ma anche delle concrete
modalità della loro realizzazione (ad esempio una rapina all'agenzia X. della banca Y., un furto
nell'abitazione di Caio, ecc.). L'orientamento prevalente è per una soluzione intermedia: basta cioè la
programmazione dei tipi di reato da commettere, magari lasciandosi aperte eventuali alternative (rapine o
eventualmente furti). Va esclusa l'unicità del disegno criminoso per quei tipi di reato che, non essendo stati
preventivati inizialmente, sono il risultato di decisioni assunte solo nel corso dell'esecuzione del programma

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(è ad esempio il caso di una persona che, avendo programmato una serie di furti, nell'esecuzione di uno di
essi incontra la presenza e la resistenza della vittima, che egli vince usando violenza per sottrarre la cosa.
Così commette un reato di rapina, non legato dal vincolo della continuazione con i furti commessi in
precedenza o successivamente).La giurisprudenza giustamente ritiene che più reati non possono dirsi
commessi in esecuzione di un unico disegno criminoso solo perché frutto di uno stesso impulso o motivo.
L'unità del disegno criminoso non viene interrotta dall'intervento di una sentenza definitiva di condanna in
relazione ad una parte dei reati in concorso, dopo la quale l'agente realizza uno o più fra gli altri reati
programmati. Questa soluzione trova oggi la sua base normativa nell'art.671 c.p.p., il quale attribuisce
anche al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del reato continuato nel caso dell'intervento
di sentenze irrevocabili di condanna. Il giudice deve accertare caso per caso se per effetto della precedente
sentenza di condanna si sia o meno verificata l'interruzione dell'originario programma criminoso. Le
difficoltà della prova spiegano la tendenza dei giudici di merito a presumere l'esistenza di un medesimo
disegno criminoso tutte le volte in cui si procede contro taluno per una pluralità di reati commessi in tempi
diversi. L'orientamento della giurisprudenza si ribalta se si chiede l'applicazione della disciplina del reato
continuato ai reati commessi dopo che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna relativa ad
uno o più dei reati oggetto della programmazione. La prevalente giurisprudenza esige che il richiedente
precisi tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersi la prova dell'unicità del disegno criminoso. I reati
oggetto del medesimo disegno criminoso: I reati che formano oggetto del disegno criminoso possono
consistere sia in più violazioni della stessa disposizione di legge, sia nella violazione di diverse disposizioni di
legge. Quindi sembra contra legem il tentativo di una parte della dottrina di far riemergere il vecchio limite
alla configurabilità del reato continuato, affermando che un medesimo disegno criminoso potrebbe
profilarsi solo in relazione a reati omogenei fra loro. Le disposizioni di legge la cui violazione dà vita al reato
continuato devono necessariamente prevedere reati dolosi (delitti o contravvenzioni), lo impone il requisito
del disegno criminoso, comportando una rappresentazione preventiva di tutti gli elementi costitutivi dei
vari reati, nonché la deliberazione di commetterli. Il reato continuato appare dunque incompatibile sia con
la colpa, sia con la responsabilità oggettiva (ad esempio nel quadro del concorso di persone nel reato, se
viene commesso un reato diverso da quello voluto da uno dei concorrenti, come nel caso in cui era stata
programmata una serie di rapine e durante una di esse è stato commesso un omicidio, in base all'art. 116
c.p., tutti i concorrenti risponderanno anche dell'omicidio se l'uccisione di un uomo era concretamente
prevedibile al momento della realizzazione della rapina. Però l'omicidio può non considerarsi abbracciato
dal vincolo della continuazione, se non nell'ipotesi in cui l'evento morte fosse stato preveduto e voluto
almeno nella forma del dolo eventuale: in questo caso si applicherà la disciplina generale del concorso di
persone nel reato prevista dagli artt. 110 ss. c.p.). La disciplina del reato continuato: In passato era
controverso se il reato continuato dovesse considerarsi come un unico reato, o se le singole violazioni
conservassero la loro autonomia tranne che per alcuni effetti espressamente disciplinati dal legislatore.
Oggi, a seguito della riforma del 1974, il testo dell’art.81,2 comma c.p. non reca più la formula "le diverse
violazioni si considerano come un solo reato": da ciò deriva che i reati legati dal vincolo della continuazione
devono considerarsi unificati solo ai fini della pena principale, ai fini della decorrenza del termine per la
prescrizione del reato (che, a norma dell'art.158 c.p, decorre dal giorno in cui è stato commesso l'ultimo dei
reati abbracciati dal disegno criminoso), ai fini dell'applicabilità della sospensione condizionale della pena,
nonché ad altri limitati effetti (dichiarazione di abitualità nel reato, dichiarazione di professionalità nel
reato) per i quali la considerazione unitaria del reato continuato torna a favore dell'agente, secondo la
logica propria della continuazione. Ai fini della determinazione della pena principale, il legislatore ha
disposto l'assoggettamento dei vari reati ad un'unica pena, formata secondo il meccanismo del cumulo
giuridico. A proposito dei rapporti tra sospensione condizionale della pena e reato continuato, la disciplina
della sospensione condizionale fa espresso riferimento alla pena inflitta in concreto dal giudice, che non
deve superare i limiti massimi fissati dall'art.163 c.p; ne deriva che, essendo unica la pena da infliggersi
nelle ipotesi di continuazione, il giudice deciderà della concedibilità della sospensione condizionale avendo
riguardo alla pena considerata unitariamente. Questa conclusione è ribadita dall'art.671, 3 comma c.p.p., il
quale prevede che anche il giudice dell'esecuzione ridetermini la pena quando accerti che tra i vari reati
sussiste il vincolo della continuazione e ne sospenda condizionalmente l'esecuzione se il suo ammontare
rientra nei limiti fissati dalla legge e se sussistono gli altri presupposti per l'applicazione dell'istituto. Al di

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fuori di queste limitata sfera di istituti, i reati uniti dal vincolo della continuazione conservano invece la loro
autonomia: si considerano cioè come reati distinti: ciò vale ai fini dell'amnistia, dell'indulto, delle pene
accessorie, delle misure di sicurezza, dell'imputabilità, del concorso di persone nel reato e delle circostanze
del reato. Il termine per la prescrizione del reato andrà computato per ogni singolo reato commesso in
esecuzione di uno stesso disegno criminoso. Secondo la versione originaria dell'art. 158, 1 comma c.p., il
termine della prescrizione decorreva, per il reato continuato dal giorno in cui è cessata la continuazione,
cioè dal giorno della commissione dell'ultimo reato esecutivo del disegno criminoso; però il riferimento al
reato continuato nell'art. 158 è stato eliminato dalla legge "ex Cirielli", con la conseguenza che se ad
esempio in esecuzione di uno stesso disegno criminoso vengono commessi a distanza di tempo una serie di
furti o di violazioni di domicilio o di falsi in bilancio, i furti o le violazioni di domicilio o i falsi in bilancio più
lontani nel tempo potranno ora essere premiati con la prescrizione, anche se l'autore ha reiterato le sue
attività delittuose, essendo stato demolito dal legislatore, ai fini della prescrizione, il vincolo della
continuazione che sottraeva quei reati all'effetto estintivo. Anche l'applicabilità dell'amnistia propria e
impropria, e dell'indulto andrà verificata in relazione a ciascun singolo reato (ad esempio se un'amnistia
abbraccia i reati puniti con la reclusione non superiore a tre anni, tra i vari reati commessi in continuazione,
l'amnistia sarà applicabile ai soli reati la cui pena edittale non superi quel limite). Anche per determinare le
pene accessorie si ha riguardo alle pene principali relative a ciascuno dei reati in continuazione (pena-base
per il reato più grave, quote di pena per ciascuno dei reati-satellite). Ad esempio se viene inflitta una pena
complessiva pari a cinque anni di reclusione, ciò non comporterà in base all'art. 29, 1 comma c.p.
l'applicazione dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, posto che ai cinque anni si è giunti per effetto
del cumulo giuridico delle pene: per stabilire se sia applicabile l'interdizione perpetua dai pubblici uffici si
deve tener conto della pena-base inflitta per il reato più grave; in questo caso quindi alla condanna seguirà
non l'interdizione perpetua, ma l'interdizione temporanea dai pubblici uffici, posto che la pena-base fosse
pari o superiore a tre anni.

CAPITOLO 12 LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI


1.nozione
Il legislatore italiano ha dato espresso rilievo a talune situazioni, inerenti al reato e alla persona del
colpevole, che presuppongono l'esistenza nel caso concreto di una responsabilità penale e comportano
soltanto una modificazione della pena, aggravandola o attenuandola: si tratta pertanto non di un elemento
costitutivo del reato, bensì nel linguaggio del legislatore, di circostanze del reato, cioè elementi che stanno
intorno a un reato già perfetto. Le circostanze del reato si caratterizzano per un triplice ordine di requisiti.
a) non sono elementi costitutivi del reato, come viene indicato dallo stesso legislatore negli articoli 61 e 62
c.p.: elencando le circostanze aggravanti e attenuanti comuni, le norme citate precisano che le varie
situazioni ivi descritte aggravano o attenuano il reato quando non ne sono elementi costitutivi. b) la figura
del reato circostanziato, cioè del reato commesso in presenza di una circostanza aggravante o attenuante, è
speciale rispetto alla figura del reato semplice: presuppone infatti l'esistenza nel caso concreto di tutti gli
elementi costitutivi del reato semplice, salvo specificare uno di tali elementi o aggiungervi un elemento
ulteriore. c) l'effetto della circostanza è l'aggravamento o l'attenuazione della pena commisurata dal giudice
per il reato semplice. Di regola l'aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di pena che il giudice
applicherebbe al colpevole, qualora non concorresse la circostanza che la fa aumentare o diminuire.
2.L'identificazione delle circostanze
La rilevanza del problema: Il problema dell'identificazione delle circostanze del reato è carico di
implicazioni, infatti è necessario stabilire se una determinata disposizione descriva un elemento costitutivo
di un autonoma figura di reato, ovvero descriva una mera circostanza aggravante o attenuante, comporta
una serie di importanti conseguenze. In primo luogo, mentre la rilevanza degli elementi costitutivi è
indefettibile, le circostanze del reato possono in un certo senso scomparire nel caso concreto: quando
infatti concorrono circostanze eterogenee il giudice deve procedere al loro bilanciamento ex articolo 69
c.p.; tale giudizio può concludersi nel senso della prevalenza delle une sulle altre, nel qual caso si
applicheranno soltanto le circostanze prevalenti, ovvero nel senso dell'equivalenza, nel qual caso non si
applicheranno né le aggravanti ne le attenuanti. Quanto ai criteri di imputazione della responsabilità, si
tratta di un elemento costitutivo di una autonoma figura di delitto doloso, dovrà essere abbracciato dal

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dolo, al pari di ogni altro elemento costitutivo del fatto; se invece si tratta di una circostanza aggravante, in
base all'articolo 59 di regola sarà sufficiente la colpa. Ulteriori conseguenze della qualificazione come
circostanza o come elemento costitutivo di un autonoma figura di reato riguardano, tra l'altro, il momento
consumativo del reato, il concorso di persone e l'applicabilità della legge penale italiana. Quanto al primo
profilo il momento consumativo coincide o meno con il verificarsi della situazione descritta in una certa
norma solo se quella situazione integra un elemento costitutivo del reato, e non se integra una circostanza.
Quanto al concorso di persone qualora si qualifichi l'elemento di dubbio come circostanza potrà trovare
applicazione l'articolo 118 c.p. che esclude la comunicabilità di talune circostanze ai concorrenti nel reato,
mentre se vi si ravvisa un elemento costitutivo di un autonoma figura di reato troverà applicazione la
disciplina generale del concorso di persone in quel diverso reato, ed eventualmente la disciplina dettata
dagli articoli 116 e 117 c.p. . Se infine l'elemento dubbio si verifica nel territorio dello Stato mentre gli altri
elementi si realizzano all'estero, la legge italiana può trovare applicazione solo se quella situazione viene
inquadrata come elemento costitutivo, integrando una parte dell'azione o l'evento. I criteri discretivi: Nel
silenzio della legge, incombe sull’ interprete il compito di individuare i criteri discretivi tra elementi
costitutivi e circostanze del reato. Di circostanza del reato può parlarsi solo in presenza di un rapporto di
specialità con la figura del reato semplice; d'altra parte un rapporto di specialità è perfettamente
compatibile anche con i caratteri di una figura autonoma di reato. Il rapporto di specialità è quindi una
condizione necessaria, ma non sufficiente per individuare una circostanza del reato. Un primo criterio
formale di identificazione delle circostanze è offerto dall'espressa qualificazione di un elemento come
circostanza del reato operato del legislatore nella rubrica o nel testo di una data disposizione(esempio:
articolo 339 c.p. nella cui rubrica si legge: circostanze aggravanti, con riferimento ai delitti di violenza a un
pubblico ufficiale, resistenza un pubblico ufficiale e violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo
o giudiziario). Nel caso in cui la rubrica di una disposizione parli di circostanze, ma descriva ipotesi che non
sono speciali rispetto un dato reato semplice, ci si troverà in presenza di un autonoma figura del reato,
difettando per l’appunto una condizione necessaria perché possa parlarsi di reato circostanziato. Talora,
all’espressa qualificazione di un dato elemento, nel testo di una norma, come circostanza aggravante o
attenuante si accompagna un ulteriore dato formale, rappresentato dal riferimento alla disciplina del
giudizio di bilanciamento delle circostanze, operato al fine di apportarvi una deroga. Ancora, parla
univocamente nel senso della natura di circostanza, aggravante o attenuante, la presenza nel testo della
legge di formule quali “la pena diminuita” o “la pena è aumentata”, non accompagnate da ulteriori
indicazioni. Disposizioni di questo tenore devono essere necessariamente correlate agli articoli 64 e 65 c.p,
che disciplinano la misura dell'aumento o della diminuzione della pena conseguente ad una circostanza
aggravante attenuante per la quale la legge non disponga diversamente. Le disposizioni citate sono infatti le
uniche in grado di stabilire la misura dell'aumento o della diminuzione di pena, salvando quelle clausole
dalla illegittimità costituzionale per violazione del principio di legalità della pena. Un criterio formale che
parla in senso opposto, cioè parla a favore della natura di elemento costitutivo di un autonoma figura di
reato, è invece offerto, talora, dalla presenza di un apposito nomen iuris nella rubrica della norma. I delitti
aggravati dall'evento: Non sempre questi criteri consentono di stabilire con certezza se ci si trovi in
presenza di un reato circostanziato ovvero di una figura autonoma di reato: è necessario chiarire se nei casi
dubbi il sistema imponga di dare la preferenza all'una o all'altra soluzione. I maggiori problemi si pongono
nella sfera dei delitti aggravati dall'evento: spesso infatti è controverso se l'evento aggravante debba essere
considerato circostanza del reato ovvero elemento costitutivo di un autonoma figura di reato, la cui
peculiarità starebbe nel fatto che l'evento, secondo l'originaria intenzione del legislatore del 1930, doveva
essere imputato all’agente a titolo di responsabilità oggettiva, mentre dopo la sentenza della corte
costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale forma di responsabilità deve essere
dovuto almeno a colpa dell'agente. A questo riguardo il sistema del codice sembra orientato in linea di
principio nel senso dell'inquadramento dell'evento come elemento costitutivo di un autonoma figura
delittuosa. Il legislatore infatti aveva dinanzi agli occhi ,proprio i delitti aggravati dall'evento come
autonome figure di reato quando all'articolo 42 comma 3 c.p. ha previsto la responsabilità obiettiva come
forma sia pur eccezionale di responsabilità penale. Un mondo a sé invece era quello delle circostanze
aggravanti regolato dall'articolo 59 e seguenti c.p. Questa netta cesura rispecchiava d 'altra parte, la logica
sottostante ai delitti aggravati dall'evento, caratterizzati da un fatto base punito per la sua oggettiva

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pericolosità nei confronti di un dato bene giuridico, mentre l'evento aggravante esprime la traduzione di
quel pericolo nella lesione dello stesso bene. Emblematici i delitti nei quali il verificarsi di eventi di lesioni o
di morte aggravano notevolmente, la pena, per i fatti pericolosi per l'integrità e per la vita repressi come
reati-base. Ben diversa è la normale fisionomia delle circostanze aggravanti, e solo eccezionalmente si
riferiscono ad un evento: in tal caso si tratta dello stesso evento costitutivo del reato base, del quale
acquista rilievo un particolare connotato di gravità. Questa differenza strutturale tra delitti aggravati
dall'evento e circostanze aggravanti viene calpestato dal legislatore in alcune sporadiche ipotesi, nelle quali
etichetta espressamente o implicitamente come circostanze aggravanti, eventi che, pure esprimono il
tradursi in danno del pericolo immanente al reato base: sono i casi, per esempio, della condanna
conseguente a taluni delitti contro l'amministrazione della giustizia e delle lesioni o della morte conseguenti
all'omissione di soccorso. Al di fuori di questi casi, gli eventi che esprimono la traduzione in danno del
pericolo immanente al reato base sono elementi costitutivi di altrettante figure autonome di reato. Questo
ordine sistematico è stato però alterato dalla prassi e da una parte della dottrina, dopo che la riforma del
1984 ha riscritto l'articolo 69 c.p. abbattendo ogni limite alla possibilità di bilanciare le circostanze
eterogenee concorrenti tra loro. In particolare, ha incluso nell'area applicativa del giudizio di bilanciamento
anche le circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella prevista per il reato
base o determina la misura della pena in modo indipendente da quella del reato base: e proprio con l'una o
con l'altra di queste tecniche la legge prevede normalmente la pena per i delitti aggravati dall'evento. Prima
della riforma dell'articolo 69 c.p. nessuno si sognava di inquadrare i delitti aggravati dall'evento fra i reati
circostanziati e anche se ciò che ha spinto la prassi in quella direzione era una condivisibile esigenza di
mitigazione dell'asprezza di alcune previsioni di pena contenute nel codice penale vigente, non si può
nascondere che gli esiti di questo orientamento giurisprudenziale sono peraltro verso inaccettabili. Una tale
bagatellizzazione di un reato offensivo del bene della vita è con tutta evidenza incompatibile con ogni
esigenza di proporzione tra gravità del reato e misura della pena, suscitando il biasimo di gran parte della
dottrina, che auspica si in una mitigazione dell'attuale dosaggio sanzionatorio, ma ad opera del legislatore e
non di arbitrari interventi giurisprudenziali.
3.la classificazione delle circostanze
La classificazione delle circostanze: circostanze comuni: quelle previste per un numero indeterminato di
reati, cioè per tutti i reati con i quali non siano incompatibili; circostanze speciali: quelle previste per uno o
più reati determinati. Circostanze aggravanti e attenuanti: circostanze aggravanti: quelle che comportano
un inasprimento della pena commisurata dal giudice per il reato semplice; circostanze attenuanti: quelle
che comportano una mitigazione della pena commisurata dal giudice per il reato semplice. L'aumento o la
diminuzione della pena possono essere quantitativi e qualitativi: - sono di tipo quantitativo, quando per
esempio, alla pena inflitta per il reato semplice deve aggiungersi, per effetto della circostanza, un quantum
di pena della stessa specie ovvero la legge prevede per il reato circostanziato un'autonoma cornice edittale
di pena; - sono di tipo qualitativo quando per effetto della circostanza cambia la specie della pena.
Circostanze a efficacia comune e a efficacia speciale: circostanze a efficacia comune: quelle che comportano
un aumento o una diminuzione fino ad un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato
semplice. Quando la legge non precisa l'ammontare dell'aumento di pena per una circostanza aggravante o
quello della diminuzione per un'attenuante, a norma dell'articolo 64 comma 1 c.p. la pena deve essere
aumentata fino ad un terzo ovvero, a norma dell'articolo 65 n. 3 c.p. deve essere diminuita fino ad un terzo.
Circostanze efficacia speciale sono: a) quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa
rispetto a quella prevista per il reato semplice, in dottrina si parla di circostanze autonome; b) quelle per le
quali la legge prevede una cornice di pena diversa da quella prevista per il reato semplice, nel linguaggio
della dottrina circostanze indipendenti; c) quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena
superiore ad un terzo , nel linguaggio della dottrina circostanze a effetto speciale. Circostanze definite e
indefinite: circostanze definite: quelle i cui elementi costitutivi sono completamente descritti dalla legge.
Tra le circostanze comuni si inquadrano sia le aggravanti di cui all'articolo 61 c.p. sia le attenuanti di cui
all'articolo 62 c.p. circostanze indefinite: quelle la cui individuazione, in assenza di ogni tipizzazione
legislativa o comunque di una compiuta tipizzazione legislativa, è rimessa alla discrezione del giudice.
Quanto alle circostanze attenuanti, è il caso fra l'altro, delle attenuanti generiche di cui all'articolo 62 bis
c.p. . Nella parte speciale del codice penale, si pensi inoltre: alla lieve entità del fatto, circostanza

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attenuante dei delitti contro la personalità dello Stato; alla particolare tenuità del fatto, circostanza
attenuante della ricettazione; ai casi di minore gravità, ai quali fa riferimento alla disciplina della violenza
sessuale. Circostanze oggettive e soggettive: circostanze oggettive: quelle che concernono la natura, la
specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione, la gravità del danno o del
pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell'offeso. Circostanze soggettive: quelle che
concernono la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i
rapporti fra il colpevole e l'offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole. L'articolo 70 comma
2 c.p. precisa che le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la imputabilità e la recidiva.
Questa distinzione era originariamente funzionale alla valutazione delle circostanze nell'ambito del
concorso di persone nel reato. Prima della riforma del 1990, l'articolo 118 c.p. stabiliva che si estendevano
ai concorrenti le circostanze oggettive aggravanti o attenuanti, nonché le circostanze soggettive aggravanti
quando avevano agevolato l'esecuzione del reato. L'attuale formulazione dell'articolo 118 c.p. non contiene
invece alcun riferimento alla categorie delle circostanze oggettive e soggettive, limitandosi a elencare
alcune circostanze che vanno applicate soltanto alla persona cui si riferiscono. A questo punto, la sola
rilevanza normativa della disciplina dettata dall'articolo 70 c.p. riguarda in definitiva l'univoca inclusione
della recidiva è una delle cause che diminuiscono o aumentano l'imputabilità, come circostanze inerenti alla
persona del colpevole, tra le circostanze del reato.

4.L'imputazione delle circostanze


La disciplina originariamente prevista nel codice del 1930 Secondo l'originario dettato dell'articolo 59 c.p.
le circostanze sia aggravanti sia attenuanti rilevavano di regola obiettivamente: si applicavano cioè anche se
non conosciute dell'agente o per errore ritenute inesistenti. La disciplina vigente: Per effetto della legge 7
febbraio 1990 n. 19, la disciplina dell'imputazione delle circostanze ha conosciuto importanti modificazioni.
A. E’ rimasta ferma la irrilevanza delle circostanze aggravanti o attenuanti erroneamente supposte
dall'agente: infatti stabilisce 0. l'articolo 59 comma 3 c.p. stabilisce che se l'agente ritiene per errore che
esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui. B. Del pari è
rimasta ferma la rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti. Stabilisce infatti il comma 1 dell'articolo 59
c.p. che le circostanze che attenuano la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non
conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti C. E’ mutata invece radicalmente la disciplina delle
circostanze aggravanti: abbandonando la logica del versari in re illecita, alla base della rilevanza obiettiva
prevista dal codice del 1930, il legislatore del 1990 ha armonizzato l'imputazione delle circostanze
aggravanti al principio di colpevolezza, stabilendo che tali circostanze possono essere poste a carico
dell’agente solo se gli si può muovere almeno un rimprovero di colpa: cioè soltanto se erano da lui
conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Ieri come oggi
peraltro, vi sono alcune circostanze aggravanti che rilevano solo se i dati di fatto che l'integrano sono
conosciuti dall'agente. L'errore sulla persona dell'offeso: L'articolo 60 c.p. introduce alcune deroghe alla
disciplina generale dell'imputazione delle circostanze per l'ipotesi di errore sulla persona dell'offeso. Si
tratta in primo luogo dell'ipotesi in cui l'agente versi in errore sull’identità della persona offesa(l'agente
crede che la persona che vuol uccidere e uccide sia Tizio anche se realtà era Caio, il padre dell’agente).
D'altra parte, per effetto del rinvio espresso contenuto nell'articolo 82 c.p., l'articolo 60 c.p è applicabile
anche all’aberratio ictus ,(Tizio volendo cedere Caio, uccide invece Sempronio, per un errore di mira
determinato da colpa o per non essersi colposamente reso conto del rischio che lungo la traiettoria del
proiettile si potesse trovare una persona diversa). Dalla relazione del guardasigilli che accompagna il codice
penale del 1930, si ricava inoltre che il legislatore storico ha inteso ricomprendere nella disciplina l'esame
anche l'ipotesi in cui l’agente si rappresenta esattamente l'identità della persona offesa, ma ignori rapporti
che intercorrono tra lui della vittima: Tizio vuole uccidere Caio e l'uccide, e solo successivamente viene a
sapere che la persona uccisa era suo padre. In tutti questi casi, se la legge contempla una o più circostanze
aggravanti che riguardano alcune condizioni o qualità della vittima reale o , i suoi rapporti con il colpevole,
l'articolo 60 dispone che tali aggravanti non vengano mai poste a carico dell’agente: infatti stabilisce che nel
caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze
aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole.

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L'errore sulla persona dell'offeso in tutti i casi riconducibile sotto l'articolo 60, rileva anche se si tratta di
errore o ignoranza dovuta a colpa, cioè che potevano essere evitati con la dovuta diligenza. L'articolo 60
contempla poi le ipotesi in cui, a seguito di un errore sulla persona offesa, l'agente supponga di trovarsi in
presenza di una situazione che integrerebbe una circostanza attenuante relativa alle qualità o condizioni
personali dell'offeso ovvero ai rapporti tra colpevole ed offeso: in deroga alla generale irrilevanza del
putativo nella sfera delle circostanze, le circostanza attenuanti erroneamente supposta viene valutata a
favore del colpevole. Dalla categoria delle circostanze attenuanti o aggravanti, relative alle condizioni o
qualità della persona offesa, l'articolo 60 comma 3 c.p. enuclea infine le circostanze relative all'età e quelle
relative alle condizioni o qualità fisiche o psichiche della stessa persona offesa, disponendo che per tali
circostanze, in caso di errore sulla persona dell'offeso, non opera la disciplina di favore dettata dai commi 1
e 2 dello stesso articolo 60. Per questo gruppo di circostanze troverà applicazione la disciplina generale
dettata dall'articolo 59. Ai sensi di questo articolo co. 1, le attenuanti si applicheranno dunque solo se
oggettivamente esistenti, mentre ai sensi dell'articolo 59 comma 2 le aggravanti potranno essere a carico
dell’ agente a condizione che l'errore in cui è caduto l'agente sia dovuto a colpa.
5.L'applicazione degli aumenti o delle diminuzione di pena: una sola circostanza
Se è presente nel caso concreto una sola circostanza aggravante o attenuante, l'articolo 63 comma 1,
impone al giudice di procedere come segue: quando la legge dispone che la pena sia aumentata o diminuita
entro limiti determinati, l'aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di essa, che il giudice
applicherebbe il colpevole, qualora non concorresse la circostanza che la fa aumentare o diminuire. La
determinazione della pena dovrà perciò avvenire con un giudizio bifasico: nella prima fase il giudice deve
quantificare la pena per il reato semplice, secondo i criteri di commisurazione indicati all'articolo 133, nella
seconda fase procederà all'aumento o alla diminuzione di pena conseguente alla circostanza. Queste due
fase dovranno emergere nella sentenza, dove dovrà essere indicata sia la pena per il reato semplice, sia la
misura dell'aumento o della diminuzione operati per effetto della circostanza, attenuante o aggravante.
All'interno del procedimento bifasico per la determinazione della pena per il reato circostanziato, si pone il
problema dei rapporti tra circostanze del reato e criteri di commisurazione della pena in senso stretto. Va
sottolineato che le circostanze aggravanti o attenuanti attribuiscono una particolare rilevanza a
connotazioni del reato o della personalità del suo autore già di per sé riconducibile a questo o a quel
criterio di commisurazione della pena ex articolo 133. Ne segue che la circostanza aggravante o attenuante,
in ragione del rapporto di specialità che intercorre con il corrispondente criterio di commisurazione della
pena ex articolo 133, mette fuorigioco tale criterio, nel senso che il criterio potrà essere applicato solo per
aspetti diversi da quelli isolati del legislatore e assunte ad oggetto della circostanza. Il giudice non potrà
dunque fare una doppia valutazione dello stesso elemento, sia nella determinazione della pena base, sia ai
fini dell'aumento o diminuzione di quella pena. Nel caso in cui la norma di legge che prevede la singola
circostanza non specifichi la misura dell'aumento o della diminuzione di pena, la pena per il reato semplice
dovrà essere aumentata o diminuita fino a un terzo, si parla in questo caso di circostanze a efficacia
comune. Al fine di determinare in concreto la misura dell'aumento o della diminuzione da apportare alla
pena per il reato semplice, il giudice deve scomporre la fattispecie astratta della circostanza aggravante o
attenuante in una scala continua di sotto fattispecie, individuando una serie di ipotesi tutte riconducibili a
quella circostanza, graduate secondo la loro gravità se si tratta di circostanza aggravante ovvero secondo la
loro tenuità se si tratta di circostanza attenuante; all'interno di tale scala il giudice collocherà la circostanza
del caso concreto per stabilire il suo grado d'intensità. La pena della reclusione da applicarsi per effetto
dell'aumento determinato da una sola circostanza aggravante ha un limite massimo: non può superare di
anni 30. Nel caso di una sola circostanza attenuante alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da 20
a 24 anni. Qualora, infine, la circostanza presente nel caso concreto sia una circostanza autonoma o una
circostanza indipendente il giudice sceglierà la pena all'interno del nuovo spazio edittale utilizzando i criteri
generali di commisurazione della pena fissati dall'articolo 133: in questo caso, la commisurazione della pena
per il reato circostanziato si svolgerà nn in due fasi bensì in un'unica fase, nella quale il giudice valuterà
complessivamente sia la gravità del reato, sia la capacità a delinquere del colpevole.

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6. Il concorso omogeneo di circostanze
Se concorrono più circostanze tutte aggravanti o tutte attenuanti, per ciascuna di esse è previsto un
aumento o, rispettivamente, una diminuzione di pena fino ad un terzo, l'aumento o la diminuzione di pena
si opera sulla quantità di essa risultante dall'aumento o dalla diminuzione precedente. In altre parole, una
volta calcolato l'aumento o la diminuzione di pena per una sola circostanza, sulla pena così determinata il
giudice effettuerà l'ulteriore aumento o l'ulteriore diminuzione, e così via. La pena risultante dagli aumenti
o dalle diminuzioni conseguenti al concorso di più circostanze aggravanti o di più circostanze attenuanti a
efficacia comune soggiace ad una serie di limiti fissati rispettivamente agli articoli 66 a 67 c.p. L'applicazione
degli aumenti o delle diminuzioni di pena in caso di concorso omogeneo di circostanze alcune delle quali a
efficacia speciale è disciplinata rispettivamente nell’articolo 67 comma 3 nell'articolo 63 comma 4 e 5. Nel
caso in cui una circostanza a efficacia speciale concorra con una o più circostanze a efficacia comune e
dell'articolo 63 comma 3 il giudice applicherà per prima la circostanza a efficacia speciale: dapprima
determinerà cioè la pena che applicherebbe se il reato fosse corredato dalla sola circostanza a efficacia
speciale. Sulla pena così determinata, il giudice procederà successivamente all'aumento o alla diminuzione
fino ad un terzo della circostanze a efficacia comune. Nell'articolo 63 comma 4 e 5 il legislatore disciplina
l'ipotesi in cui concorrano fra loro più circostanze efficacia speciale, tutte aggravanti ho tutte attenuanti. In
tale ipotesi vige il principio di sussidiarietà: si tratta di circostanze aggravanti si applica soltanto la pena
stabilita per la circostanza più grave; se invece si tratta di circostanze attenuanti, si applica soltanto la pena
meno grave stabilita per le predette circostanze. Analogamente, tra più circostanze attenuanti a efficacia
speciale si applica soltanto quella che comporta la pena meno grave; e la pena così determinata può essere
ulteriormente diminuita fino a un terzo.
7. Il concorso eterogeneo di circostanze
Si parla di concorso eterogeneo di circostanze allorché un reato sia corredato in concreto, da due o più
circostanze, una o alcune delle quali aggravanti e l'altra, o le altre, attenuanti. In tal caso il giudice deve
procedere al bilanciamento delle circostanze concorrenti che può avere un triplice esito: - la prevalenza
delle attenuanti sulle aggravanti - la prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti - l'equivalenza delle une
con le altre. Se il giudice ritiene prevalente le attenuanti, applica soltanto le relative diminuzioni di pena,
non tenendo conto delle aggravanti. Se viceversa il giudice ritiene prevalente le aggravanti, non tiene conto
delle attenuanti e opera solo gli aumenti di pena per le aggravanti. Infine se il giudice ritiene prevalenti le
aggravanti e le attenuanti, applicherà la pena che avrebbe inflitto se non fosse stata presente alcuna
circostanza. Al giudizio di bilanciamento partecipano tutte le circostanze aggravanti e attenuanti. L'articolo
69 comma 4 nella versione introdotta dalla legge Cirielli del 2005, stabilisce infatti che le disposizioni
precedenti si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole ed a qualsiasi altra
circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in
modo indipendente da quella ordinaria del reato. Nella sfera delle circostanze inerenti alla persona del
colpevole, una disciplina speciale è dettata per tre circostanze aggravanti: • la recidiva reiterata, articolo 99;
• la determinazione al reato di una persona non imputabile o non punibile, articolo 111; • l’aver
determinato al reato un minore di anni 18, o una persona in stato di infermità o deficienza psichica ovvero
l'essersi avvalso di una di tali persone per commettere un delitto per il quale previste l'arresto il flagranza,
articolo 112; In relazione a tale aggravante, l'articolo 69 comma 4 stabilisce il divieto di prevalenza delle
circostanze attenuanti. L'esito del giudizio di bilanciamento potrà dunque essere la prevalenza delle
aggravanti o, al più, l'equivalenza tra aggravanti e attenuanti. Ulteriori eccezioni espresse alla disciplina
dettata dall'articolo 69 sono previste per alcune circostanze aggravanti. Talora il legislatore non esclude che
l'aggravante partecipi al giudizio di bilanciamento, ma si limita a vietare la prevalenza delle attenuanti; altre
volte invece, il legislatore estromette senz'altro la circostanza aggravante dal giudizio di bilanciamento,
stabilendo che il relativo aumento di pena debba essere sempre applicato. La legge non fornisce nessun
criterio per orientare il giudice nella valutazione comparativa delle circostanze concorrenti. Tale criterio
non può essere fornito dal numero delle circostanze da bilanciare: al limite una sola circostanza aggravante
o attenuante può essere considerata prevalente su più circostanze di segno opposto: le circostanze in
concorso non vanno contate, ma pesate. Rimane pertanto il problema di stabilire come il giudice debba
procedere al bilanciamento delle circostanze. Da una parte sembra del tutto estranea al giudizio di
bilanciamento una valutazione complessiva della gravità del reato semplice e della capacità a delinquere

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dell'agente, il bilanciamento va operato soltanto fra le circostanze, aggravanti o attenuanti. D'altra parte la
totale eterogeneità delle circostanze rende per lo più impraticabile una comparazione diretta, in dottrina si
è proposto di far riferimento alla loro intensità, da accertarsi in concreto. Tale criterio può comunque
soccorrere solo in alcuni casi limitati: fondamentalmente, quelli in cui concorrono circostanze a efficacia
comune. Di regola il giudizio di bilanciamento risulta dunque affidato alla libera e incontrollata
discrezionalità del giudice ovvero, alla sua capacità di intuizione: Di qui le critiche unanimi mosse dalla
dottrina ad un legislatore che anziché procedere a una doverosa revisione delle comminatorie legali di
pena, ha cercato di umanizzare il sistema penale attraverso una delega in bianco al giudice. Gli effetti del
giudizio di bilanciamento delle circostanze si producono, oltre che sulla misura della pena da infliggere in
concreto, anche su altri istituti la cui applicabilità è correlata alla misura della pena inflitta: è il caso per
esempio dell'amnistia impropria o dell'indulto concessi per reati puniti in concreto con una pena che non
supera un certo limite. Per contro il bilanciamento delle circostanze non influisce su istituti che non si
ricollegano al quantum di pena inflitta: le circostanze soccombenti o ritenute equivalenti ex articolo 69
continuano a produrre gli effetti previsti dalla legge. Del pari l'esclusione dall’ indulto di un certo tipo di
reato in quanto corredato da una circostanza aggravante resta ferma anche se, nel caso concreto, una
concorrente circostanza attenuante è stata ritenuta prevalente o equivalente all'aggravante. Ancora nei
casi in cui la legge ricollega una pena accessoria alla condanna per i delitti commessi in presenza di una
determinata circostanza aggravante, quella accessoria si applicherà al condannato anche se la circostanza
aggravante è stata elisa nel giudizio di bilanciamento. Per quanto riguarda il rapporto tra concorso
eterogeneo di circostanze e tempo necessario per la prescrizione del reato l'articolo 157 comma 3 c.p.
stabilisce che non si applicano le disposizioni dell'articolo 69: il tempo necessario per scrivere si determina
dunque in base alla pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, secondo la disciplina di cui
all'articolo 157 comma 2 c.p.
8. Il concorso apparente di circostanze
Quando una determinata situazione è riconducibile sotto più norme che prevedono circostanze del reato,
può profilarsi o un concorso effettivo di circostanze, omogeneo e eterogeneo, ovvero concorso apparente
delle norme che prevedono quelle circostanze, con la conseguenza che applicabile sarà un'altra di tali
norme. Quest'ultima eventualità è disciplinato dall'articolo 68 c.p. il quale individua un concorso apparente
di circostanze in due distinte ipotesi. 1) La prima è quella in cui una data circostanza è in rapporto di
specialità rispetto ad un'altra. Per esempio: la circostanza aggravante dell’ aver agito in seguito a
intelligenze col nemico, prevista per i diritti di disfattismo politico e di disfattismo economico, è speciale
rispetto all'aggravante relativa agli stessi reati dell’ aver agito in seguito a intelligenza con lo straniero. In
caso di questo tipo il giudice applicherà la sua la circostanza speciale, secondo la regola dettata dall'articolo
15. 2) la seconda ipotesi dei contorni più incerti, è quella in cui, non sussistendo tra le norme un rapporto di
specialità,1 circostanza aggravante o attenuante comprende in sé un'altra aggravante o un'altra
attenuante. Per esempio: la circostanza aggravante dell'articolo 577, l'aver commesso un fatto di omicidio
doloso contro l'ascendente o il discendente, e quella dell'articolo 61, l'aver commesso il fatto con abuso di
relazioni domestiche o con abuso di relazioni di coabitazione. Tra queste due norme non sussista un
rapporto di specialità, ma è possibile che l'agente commetta un parricidio sfruttando in concreto le relazioni
domestiche o di coabitazione con la vittima. In tal caso la presenza di una situazione che integra la seconda
circostanza è in concreto strettamente funzionale all'uccisione dell'ascendente o del discendente:
l'aggravante dell'articolo 577 è dunque circostanze eventualmente complessa rispetto all'aggravante
comune dell'articolo 61, ovvero nel linguaggio della legge, è una circostanza che comprende in sé
quest'ultimo aggravante. Secondo quanto dispone l'articolo 68 comma 1, in caso di questo tipo si applica
soltanto la circostanza che importa il maggior aumento di pena, se si tratta di circostanza aggravante, o
soltanto la circostanza che importa la maggiore diminuzioni di pena, se si tratta di circostanza attenuante.
Se poi le diverse circostanze importano tutte il medesimo aumento o la medesima diminuzione di pena, si
applica un solo aumento o una sola diminuzione.
9. le circostanze aggravanti comuni previste nel codice penale
L’articolo 61 del codice penale prevede un elenco di circostanze aggravanti comuni, cioè circostanze
aggravanti che possano accompagnarsi ad un numero indeterminato di reati, ossia tutti i reati con i quali
non siano incompatibili, si tratta di 11 circostanze. 1) L’aver agito per motivi abbietti o futili: Per motivo si

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intende la causa psichica della condotta, cioè l'impulso che induce il soggetto ad agire o ad omettere di
agire. Il carattere abbietto o futile del motivo va accertato secondo le valutazioni medie della collettività in
un certo momento storico. Il motivo è abbietto quando secondo quel metro di giudizio, appare turpe,
ignobile, totalmente spregevole, tale da suscitare una diffusa ripugnanza. Il motivo è futile quando appare
del tutto sproporzionato rispetto al reato al quale ha dato origine. Quest'aggravante non è applicabile a chi
sia affetto da vizio parziale di mente, se l'impulso ad agire trova la propria origine nell'anomalia psichica del
soggetto. Trattandosi di una circostanza soggettiva concernente i motivi a delinquere, nel quadro del
concorso di persone è applicabile, ai sensi dell'articolo 118, soltanto alla persona animata da quel motivo.
2)L'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o
ad altri il profitto o il prezzo, ovvero l'impunità di un altro reato: La norma individua tre distinte circostanze
gravanti: 1. la prima ricorre allorché un reato viene posto in essere come mezzo per la commissione di un
successivo reato (reato-fine) 2. La seconda è integrato allorché il reato viene commesso con lo scopo di
occultarne un altro, commesso in precedenza 3. La terza circostanza aggravante si profila quando l'agente
commette un reato come mezzo per conseguire o per assicurare a sé o ad altri il profitto o il prezzo o
l'impunità di un altro reato. A proposito della prima aggravante in dottrina si parla di aggravante
teleologica, a proposito della seconda e della terza, si parla di aggravante consequenziale. Per la sussistenza
di ciascuna di queste aggravanti è necessario e sufficiente che l'agente commetta un reato per uno degli
scopi suddetti, non rileva che poi l’agente non commetta il reato-fine o non consegua lo scopo prefisso. Le
aggravanti consequenziali presuppongono la commissione di un precedente reato. L'aggravante è
configurabile anche nel caso in cui il reato presupposto sia, per una qualunque causa, estinto. Anche queste
circostanze aggravanti di carattere soggettivo, concernono i motivi a delinquere: pertanto, nel quadro del
concorso di persone nel reato sono applicabili, ai sensi dell'articolo 118, soltanto alle persone che agiscano
con quelle finalità. 3)L'avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento: Questa
circostanza aggravante dà rilievo alla cosiddetta colpa cosciente, si configura quando l’ agente si
rappresenta come seriamente possibile il verificarsi dell'evento, ma ritiene per colpa, che quell'evento non
si realizzerà nel caso concreto, è ciò in quanto, per leggerezza, sottovaluta la probabilità del suo verificarsi
ovvero sopravvaluta le proprie o altrui capacità di evitarlo. La circostanza è applicabile ai soli delitti. Quanto
alle contravvenzioni, della colpa cosciente il giudice terrà conto sotto il profilo del grado della colpa nel
commisurare la pena all'interno della cornice edittale. L'aggravante della colpa cosciente è applicabile
anche ai casi di eccesso colposo nelle cause di giustificazione, quando l’agente si renda conto per esempio,
che la sua difesa potrebbe provocare un evento lesivo sproporzionato all'aggressione è ritenga per
leggerezza che quella previsione non si avvererà. Sembra inoltre applicabile alle ipotesi di erronea
supposizione di commettere il fatto in presenza di una causa di giustificazione, quando l’agente abbia
previsto la possibilità, per esempio, dell'inesistenza di un'aggressione da cui difendersi, ma per leggerezza
abbia concluso che l'aggressione era reale. A norma dell'articolo 118, trattandosi di circostanza soggettiva
concernente il grado della colpa, nel concorso di persone è valutata soltanto nei confronti della persona cui
si riferisce. 4) L'avere adoperato sevizie, o l'avere agito con crudeltà verso le persone: Sevizia: ogni
sofferenza fisica inferta alla vittima che non è necessaria per la commissione del reato, ma esprime una
scelta da parte dell'agente. Agisce con crudeltà verso le persone che infligge la vittima o un terzo una
sofferenza morale, rivelatrice di mancanza di umanità: anche in questo caso deve essere una sofferenza
non necessaria per la commissione del reato. 5) l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di
persona tale da ostacolare la pubblica o la privata difesa: L'aggravante della cosiddetta minorata difesa si
riferisce ad una serie di situazioni, legate a fattori ambientali o personali, per effetto delle quali la vittima
non può adeguatamente difendere né essere difesa. Fra le circostanze di tempo che possono rilevare si
annoverano una pubblica calamità o un'interruzione dell'energia elettrica; tra le circostanze di luogo,
nell'assenza di tutti gli abitanti di un palazzo a Ferragosto; tra le circostanze di persona, uno stato di
particolare inferiorità della vittima, dovuto per esempio ad ubriachezza, a deficienza psichica o a decadenza
senile, oppure le eccezionali capacità fisiche o di persuasione dell'autore del reato. 6) l'avere il colpevole
commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente all'esecuzione di un mandato o di
un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato: La disposizione da
rilievo ad alcune situazioni di fatto che possono stare a fondamento della dichiarazione di latitanza, a
norma dell'articolo 296 c.p.p.: non facendo propria la nozione di latitanza, non è invece applicabile

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all'evaso, ancorché quest'ultimo, ad altri effetti, sia equiparato al latitante. L'articolo 61 c.p. non abbraccia
neppure la situazione di chi si sottrae ad un provvedimento che abbia disposto agli arresti domiciliari, e il
divieto di espatrio o l'obbligo di dimora. L'eventuale riempimento di tali lacune potrà essere compiuto
soltanto dal legislatore: non vi può procedere il giudice, pena la violazione del divieto di analogia a favore
del reo. È necessario che l'agente si sottragga volontariamente all'esecuzione dei provvedimenti restrittivi.
7) l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti
determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante
gravità: La circostanza può applicarsi a tre gruppi di delitti: - delitti contro il patrimonio; - delitti determinati
da motivo di lucro; - delitti che comunque offendono il patrimonio. I contorni di quest'ultima categoria sono
controversi: vi rientrano certamente reati plurimi offensivi che offendano accanto ad un altro bene, anche
un bene patrimoniale. La formula legislativa data la sua latitudine, abbraccia anche i reati nei quali l'offesa
al patrimonio non è sempre presente, ma può esserlo nel caso concreto, in quanto sviluppo potenzialmente
insito in quella figura del reato. La rilevante gravità del danno patrimoniale deve essere valutata in primo
luogo secondo il criterio oggettivo, offerto dal valore intrinseco della cosa, indipendentemente da ogni
considerazione delle condizioni economiche della persona offesa. Circa il momento in relazione al quale va
valutata l'entità del danno patrimoniale, decisivo è il momento consumativo del reato, mentre non rilevano
le vicende intervenute successivamente. La giurisprudenza prevalente ritiene applicabile l'aggravante anche
al delitto tentato, nel caso in cui il reato fosse giunto a consumazione avrebbe prodotto un danno
patrimoniale di rilevante gravità. Questa soluzione urta però frontalmente contro la legge, che richiede un
danno di rilevante gravità cagionato alla persona offesa dal reato: non lascia dunque nessuno spazio per
una considerazione del danno potenziale. 8) l'avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del
delitto commesso: Questa circostanza aggravante presuppone la commissione di un qualsivoglia delitto,
doloso o colposo, consumato o tentato, e consiste in una condotta successiva con la quale l’agente
volontariamente aggravi o cerchi di aggravare le conseguenze del precedente delitto. Conseguenze del
reato è una formula ampia in grado di comprendere anche effetti diversi e ulteriori rispetto all'offesa al
bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice: per esempio le sofferenze morali che un omicidio
produce ai familiari della vittima. 9) l'aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei
doveri inerenti una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di Ministro di un culto:
Questa disposizione fa riferimento a tre categorie di soggetti: - pubblici ufficiali; - l'incaricato di pubblico
servizio; - ministri di culto. Non basta che il reato venga commesso da chi possiede una di queste qualità. E
‘necessario l'abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti a quella qualifica: l'agente deve aver fatto
uso dei propri poteri per finalità diverse da quelle per le quali gli sono stati conferiti ovvero deve aver
violato uno specifico dovere concernente l'attività del suo ufficio, servizio o ministero. Si tratta di una
precisa scelta del legislatore, il quale ha escluso espressamente l'abuso della qualità inerte, ossia senza
esercizio della funzione. Occorre inoltre che tra la commissione del reato e l'abuso dei poteri o la violazione
dei doveri e esista almeno un nesso occasionale, nel senso che l'esecuzione del reato deve essere stata resa
possibile o quantomeno agevolata dalle attribuzioni dell'agente. Sia l'abuso dei poteri, sia la violazione dei
doveri devono essere realizzati consapevolmente. La circostanza aggravante non è applicabile a quei reati
nei quali l'abuso di poteri o la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, a un pubblico servizio
o alla qualità di ministro del culto è elemento costitutivo del fatto.(è il caso per il pubblico ufficiale o per
l'incaricato di un pubblico servizio, del delitto di concussione). 10) l'avere commesso il fatto contro un
pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di Ministro del
culto cattolico o di un culto ammesso nello stato, ovvero contro l'agente diplomatico o consolare di uno
Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni e del servizio: Questa circostanza appresta
una tutela rafforzata ad alcune categorie di soggetti in considerazione della loro funzione: - il pubblico
ufficiale; - l'incaricato di pubblico servizio; - il ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello stato;
- l'agente diplomatico o consolare. Non basta peraltro che reato venga commesso contro chi riveste una di
quelle qualifiche, ma è necessario altresì che venga commesso o in un momento in cui la vittima sta
esercitando le proprie funzioni , ovvero un momento diverso, ma per una causa inerente alle funzioni. La
giurisprudenza sottolinea che questa aggravante esige in deroga la consapevolezza da parte dell'agente
della qualità personale del soggetto passivo. Per l'applicabilità della circostanza l'aggressione a uno dei
soggetti in questione non deve essere elemento costitutivo di un autonoma figura di reato, come nel caso

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della violenza un pubblico ufficiale, o dell'oltraggio a un magistrato in udienza. 11) l'avere commesso il fatto
con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d'ufficio, di prestazioni
d'opera, di coabitazione o di ospitalità: L'aggravante del rilievo situazioni di particolare vulnerabilità del
bene giuridico, derivanti da relazioni interpersonali che possono facilitare la commissione del reato. L'abuso
di autorità evoca lo sfruttamento di una situazione di preminenza, in ambito di un rapporto privatistico,
come nel caso del direttore di stabilimento che commetta molestie sessuali. Relazione domestica: quelle
interne alla famiglia in senso lato, anche in assenza di un rapporto di parentela o di coabitazione. Relazioni
di ufficio: rapporti che intercorrono tra chi opera in uno stesso ambiente di lavoro, pubblico o privato.
Relazioni di prestazioni d'opera: non solo l'ipotesi del rapporto contratto di lavoro, ma tutti quei rapporti
giuridici che, in una più vasta e larga accezione, comportano l'obbligo di un facere. Coabitazione: qualsiasi
forma di permanenza non momentanea di più persone in uno stesso luogo, come nel caso in cui un reato
venga commesso da un detenuto a danno di un altro detenuto all'interno di un istituto penitenziario.
Ospitalità: ipotesi di permanenza occasionale di breve durata in un determinato luogo con il consenso del
proprietario o del possessore, (il caso di un furto commesso a danno di altri ospiti o dello stesso ospitante.)
10.Le circostanze aggravanti comuni previste in leggi speciali
In tempi diversi, per fronteggiare gravi fenomeni di criminalità, il legislatore ha previsto per tutti i reati,
salvo limite della incompatibilità, altri tre gruppi di circostanze aggravanti comuni. 1) l'articolo 1 della legge
del 6 febbraio 1980, 15 stabilisce che per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione
dell'ordine democratico punibili con pena diversa dall'ergastolo, la pena è aumentata della metà, salvo che
la circostanza sia elemento costitutivo del reato. 2) l'articolo 7 della legge del 12 luglio 1991, 203 prevede
che per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste
dall'articolo 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo,
alla pena aumentata da un terzo alla metà. 3) l'articolo 3 della legge del 25 giugno 1993, 205 prevede che
per i reati punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di
odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni,
associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino
alla metà. Si tratta in tutti i casi di circostanze a effetto speciale, con aumenti di pena di diversa entità. Tali
circostanze sono escluse dal giudice di bilanciamento ex articolo 69: i relativi aumenti di pena devono
essere sempre applicati; successivamente una pena così determinata, il giudice procederà agli ulteriori
aumenti di pena correlate ad eventuali circostanze aggravanti concorrenti, oppure le diminuzioni dovute
all'eventuale presenza di una o più attenuanti.
11. le circostanze attenuanti comuni
L’art. 62 c.p. elenca sei circostanze attenuanti comuni: 1) l’aver agito x motivi di particolare valore morale o
sociale: Il reato è per definizione un fatto illecito è tendenzialmente anche immorale e antisociale. Nel
commetterlo, però l’agente, può essere animato da motivi di per sé apprezzabili, che non scalfiscono
l'oggettiva illiceità del reato, ma gettano una luce favorevole sull’autore, rendendo meno riprovevole il suo
comportamento. Spesso questa distinzione viene però offuscato dalla giurisprudenza, che fa leva sulla
oggettiva gravità del reato per negare che l’agente possa considerarsi mosso da motivi di particolare valore
morale o sociale. Da tale arbitraria confusione deriva l'applicazione rara di questa circostanza attenuante.
Motivi di particolare valore morale: motivi che ricevono un apprezzamento pienamente positivo dell'intero
gruppo sociale o da una parte di esso. Per esempio il caso del sentimento di pietà verso una persona cara
affetta da un tumore in fase terminale, che provoca dolori lancinanti e porta l'agente a cagionare
volontariamente la morte del malato, con lo scopo di anticipare la fine delle sue sofferenze. Motivi di
particolare valore sociale: motivi rispondenti, in un certo momento storico, agli obiettivi propri della società
nel suo insieme. Non deve trattarsi necessariamente di obiettivi valutati positivamente da tutti consociati in
quel momento storico. Il metro unificante di giudizio si individua invece nei principi e valori sociali accolti e
cristallizzati in costituzione. La stessa costituzione disegna un assetto giuridico sociale imperniato sul metro
democratico, sul pluralismo dei partiti, sul riconoscimento dell'iniziativa economica privata. Non può
pertanto riconoscersi un particolare valore sociale alla commissione di reati di terrorismo con l'obiettivo di
rovesciare l'ordine costituzionale in alcuni tra i suoi principi-cardine: cioè con l'intento di eliminare gli
avversari politici, sopprimere la proprietà privata dei mezzi di produzione, instaurare la dittatura di un
immaginario proletariato. D'altra parte un motivo a delinquere può assumere un particolare valore sociale

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anche in assenza di un riconoscimento costituzionale del valore sottostante, nel caso in cui si tratti di valori
emersi dopo l'avvento della costituzione, ma che abbiano trovato riconoscimento o protezione nella
legislazione ordinaria, magari attuativa di normative internazionali. Trattandosi di una circostanza
soggettiva concernente i motivi a delinquere, nel quadro di concorso di persone è applicabile, ai sensi
dell'articolo 118 soltanto alla persona animata da quel motivo. 2) l'avere agito in stato d'ira, determinato da
un fatto ingiusto altrui: Questa circostanza attenuante designata normalmente come provocazione, da
rilievo ad uno stato motivo che incide sulla volontà di commettere il fatto di reato e quindi comporta una
minore intensità del dolo: ai sensi dell'articolo 118 la circostanza non si comunica ai concorrenti nel reato.
In quest'attenuante possono individuarsi tre elementi: 1. Il primo è rappresentato da un fatto ingiusto
altrui: può trattarsi di un comportamento in contrasto sia con norme giuridiche di qualsiasi fonte o natura,
sia con regole elementari della convivenza sociale. L'ingiustizia potrà ravvisarsi anche in comportamenti in
sé legittimi, ma realizzati con modalità vessatorie, ispirate da iattanza o da finalità emulative. 2. Il secondo
elemento è integrato da uno stato d'ira cioè da una emozione che genera impulsi aggressivi non
comprimibili con i normali freni inibitori. Lo stato ira è ovviamente compatibile con un preesistente stato di
risentimento, rancore o un odio, purché vi si innesti un nuovo e autonomo fatto ingiusto, come fattore
scatenante dell'esplosione d'ira. 3. Quale terzo elemento viene in considerazione il rapporto di causalità
che deve intercorrere tra lo stato d'ira e la commissione del reato. Questo rapporto di causalità non
sussiste quando il fatto ingiusto altrui è stato un mero pretesto di cui l’agente ha approfittato per dar sfogo
alle e prepotente, violenze, aggressività o altro: bisogna cioè che alle circostanze del caso concreto emerga
che solo perché accecato dall'ira provocata dal fatto ingiusto altrui, quel soggetto ha potuto commettere il
fatto di reato. inaccettabile è l'idea che il fatto di reato debba essere in un rapporto di proporzione con il
fatto ingiusto che ha prodotto lo stato d'ira. Si tratta di un limite che non è richiesto dalla legge, né si lascia
desumere dal requisito del rapporto di causalità; d'altra parte, i più elementari dettami della psicologia
insegnano che è caratteristico dell’ira cagionare reazioni non solo incontrollabili, ma anche spesso,
sproporzionate. Non è necessario che la commissione del reato segue immediatamente il fatto ingiusto
altrui. In base a disposizione dell'articolo 72 l'attenuante può ritenersi ben integrata, quando l’ira segue ad
una prolungata fase depressiva o di accoramento, per poi esplodere ad un gesto dell'aggressore oppure a
qualunque altra circostanza che rinverdisca il ricordo del torto patito. Altrettanto opportunamente la
giurisprudenza sottolinea che l'attenuante in esame può sussistere anche nel caso di una serie di
comportamenti ingiusti, di scarsa entità e considerati uno ad uno, ma che nel loro insieme, provochino, per
accumulo, lo scoppio dell'ira. Dell'attenuante può giovarsi anche una persona diversa da colui che ha subito
il torto purché quel torto abbia cagionato in lui una reazione d'ira sfociato nella commissione del reato. 3)
l'avere agito per suggestione d'una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o di assembramenti
vietati dalla legge o dall'autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale, professionale,
o delinquente per tendenza: Questa disposizione valorizza risultati di indagini psicologiche anche risalenti
dando rilievo all'alterazione dei freni inibitori che una folla di persone può esercitare sulla condotta dei
singoli, in particolare se quella folle agitata da intense passioni, che si manifestano tumultuosamente con
grida, invettive, slogan minacciosi. L'influenza emotiva lasciata dalla folla in tumulto, indebolendo i processi
volitivi che hanno portato la commissione del fatto, si traduce in una minore intensità del dolo: ai sensi
dell'articolo 118 la circostanza non si comunica al concorrente nel reato. Per l'applicabilità dell'attenuante è
necessario che la commissione del reato sia conseguenza della suggestione della folla in tumulto: cioè deve
sussistere un nesso di causalità psichica tra la suggestione che emana dalla folla tumultuante e il reato
commesso in concreto. Non ricorrerà pertanto l'attenuante, quando l'agente si sia determinato a
commettere il reato già prima di entrare in contatto con la folla, magari ripromettendosi di approfittare del
tumulto per realizzare più facilmente il proprio intento criminoso. Per contro, l'influenza causale della folla
in tumulto può sussistere anche nei confronti di chi si inserisca per sua scelta in un assembramento di
persone già in tumulto, a condizione che la decisione di commettere il reato si sia formata successivamente.
La legge impone un duplice limite l'applicabilità della circostanza. Un primo limite ispirato all'esigenza di
non riconoscere una attenuazione di pena che agisca all'interno di una situazione di legalità: la riunione o l’
assembramento non devono essere vietati dalla legge o dall'autorità. Il secondo limite riflette una logica di
prevenzione speciale nei confronti di chi, è già incline a delinquere, e può trovare ulteriori spinte
criminogene nella folla in tumulto: non può giovarsi dell'attenuante chi sia stato dichiarato delinquente o

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contravventore abituale o professionale o delinquente per tendenza. 4. L'avere, nei delitti contro il
patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno
patrimoniale di specialità tenuità, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro , l'avere agito per
conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso o
pericoloso sia di speciale tenuità: Una parte della disposizione descrive la circostanza attenuante speculare
all'aggravante di cui all'articolo 61: l'aggravante è imperniata su un danno patrimoniale di rilevante gravità,
l'attenuante su un danno patrimoniale di speciale tenuità. La speciale tenuità del danno patrimoniale deve
essere valutata in primo luogo secondo un criterio oggettivo, offerto dal valore intrinseco della raccolta,
indipendentemente da ogni considerazione delle condizioni economiche della persona offesa. L'ambito
applicativo della disposizione in esame, è individuato dalla legge nei delitti contro il patrimonio, i delitti che
comunque offendono il patrimonio, i delitti determinati da motivi di lucro. La giurisprudenza maggioritaria
ritiene applicabile l'attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità anche all'ipotesi di delitto
tentato, cioè nei casi in cui, se il delitto fosse giunto a consumazione, avrebbe cagionato un danno
patrimoniale di speciale tenuità. Si tratta però di una soluzione contro la legge, per le stesse ragioni che
rendono inapplicabile al tentativo la corrispondente aggravante dell'articolo 61: il tenore letterale
dell'articolo 61 esige infatti che un danno di speciale tenuità sia stato cagionato e non anche che potesse
cagionarsi. Quanto all'attenuante prevista per i delitti determinati da motivi di lucro, la speciale tenuità
attiene sia il vantaggio patrimoniale che l'agente ha conseguito o intendeva conseguire attraverso il diritto,
sia l'evento dannoso pericoloso inerente al delitto commesso per motivi di lucro. Premesso che è l'offesa
evocata dalla formula evento dannoso pericoloso riguarda un bene diverso dal patrimonio, è controverso
se la speciale tenuità di quell'offesa vada stabilita in astratto o in concreto: secondo il primo orientamento,
l'attenuante sarebbe applicabile solo ai delitti bagatellari, che siano cioè di per se stessi di speciale tenuità,
mentre secondo l'altra tesi l'attenuante sarebbe applicabile a qualsiasi tipo di delitto, purché in concreto
l'offesa del bene tutelato dalla norma incriminatrice risulti particolarmente tenue. Il tenore letterale della
disposizione laddove fa riferimento al aver comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, autorizza
l'applicazione dell'attenuante anche a chi abbia commesso un delitto per conseguire un lucro rilevante, ma
in concreto ne abbia ottenuto soltanto uno di speciale tenuità. 5. L'essere concorso a determinare l'evento,
insieme con l'azione o omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa: Il reato agli occhi del
legislatore, risulta meno grave quando alla sua realizzazione abbia contribuito volontariamente con la
propria condotta la vittima del reato. Per integrare questa circostanza attenuante occorre in primo luogo,
che la persona offesa, con la sua condotta, abbia contribuito a realizzare il fatto di reato: benché la legge
parli di evento, si ritiene che l'attenuante sia applicabile anche ai reati di mera condotta, dovendosi
interpretare l'espressione evento come sinonimo di fatto di reato. In secondo luogo va chiarito che anche la
formula doloso con la quale la legge qualifica il fatto della persona offesa non può essere presa alla lettera:
il dolo è un criterio di attribuzione della responsabilità e l'oggetto del dolo è l'intero fatto, mentre ciò a cui
la legge fa riferimento in questo caso è soltanto il carattere volontario della condotta della vittima. Benché
astrattamente applicabile sia reati di evento sia reati di mera condotta, l'attenuante in esame non è
compatibile con quelle figure di reato nelle quali una condotta volontaria della vittima è elemento
costitutivo del fatto: è per esempio il caso tra i reati di evento, dell'omicidio del consenziente, e tra i reati di
mera condotta, degli atti sessuali con un minorenne, dell'usura, e così via. Il campo di applicazione di questa
attenuante è estremamente ridotto. 6. L’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante
il risarcimento di esso e quando, sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi, prima del giudizio e fuori
del caso preveduto dall’ultimo capoverso dell’art. 56,adoperato spontaneamente ed efficacemente x
elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato: Questa disposizione prevede una prima
ipotesi, imperniata sull’integrale e tempestiva reintegrazione patrimoniale conseguente alla commissione di
un reato, nella forma del risarcimento del danno e ,quando sia possibile, anche in quella della restituzione
dei beni di cui è stata privata la vittima. La ratio di questa attenuante è stata a lungo identificata
nell'espressione tangibile della resipiscenza dell’autore del reato, con il corollario che sia il risarcimento sia
la restituzione dovrebbero essere realizzati personalmente dall'autore, con esclusione di ogni intervento di
terzi, a cominciare dalle società di assicurazione. Questa ricostruzione è stata però censurato dalla corte
costituzionale, che ha sottolineato da un lato l'esigenza di armonizzare la norma con il principio di
eguaglianza, che verrebbe violato dell'attenuante fosse riservata agli abbienti, e d'altro lato l'irrazionalità di

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una lettura che estrometta dalla sfera applicativa dell'attenuante i risarcimenti effettuati da terzi, e in
particolare dalle società di assicurazione, sottraendo al danneggiato l'opportunità di un risarcimenti
integrale e rapido del danno sofferto. Secondo la corte costituzionale l'attenuante va letta in chiave
oggettiva, cioè come espressione dell'esigenza di incentivare la reintegrazione del patrimonio del
danneggiato dal reato, a condizione che l'intervento risarcitorio sia a qualsiasi titolo riferibile all'imputato.
Per espressa indicazione della legge la riparazione del danno deve essere integrale. In caso di rifiuto della
parte lesa, il risarcimento può essere effettuato nella forma dell'offerta reale ai sensi dell'articolo 1209 del
codice civile, sempre che il giudice ritenga adeguata a coprire il danno la somma offerta dall'autore del
reato. Qualora sia possibile, oltre al risarcimento del danno l'agente deve provvedere alla restituzione delle
cose provenienti da reato. Sia il risarcimento sia le restituzioni devono avvenire prima del giudizio, vale a
dire prima dell'apertura del dibattimento. La seconda ipotesi prevista dall'articolo 62 consiste in un attività
spontanea di efficacia diretta ad elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Quest'ultima formula allude all'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. La
giurisprudenza ritiene che, di per sé, un aiuto offerto dal colpevole le indagini di polizia o a quelle
dell'autorità giudiziaria, non sia sufficiente ad integrare la circostanza attenuante: la soluzione potrebbe
essere diversa, tuttavia, se per effetto della collaborazione si sia ottenuto il risultato per esempio di far
cessare del tutto all'attività delittuosa di una struttura delinquere. La disposizione dell'articolo 62 non è
riferibile al danno risarcibile derivante da reato, previsto nella prima parte della disposizione: un
risarcimento parziale del danno da reato non può quindi assumere rilievo attenuante ai sensi della seconda
parte della stessa disposizione. L'attività di eliminazione o di attenuazione delle conseguenze del reato deve
essere spontanea. Quanto ai rapporti tra questa circostanza attenuante il tentativo, la clausola fuori del
caso preveduto dall'ultimo capoverso dell'articolo 56 preclude che questa circostanza attenuante possa
accumularsi con quella del volontario impedimento dell'evento previsto nell'articolo 56. La circostanza
attenuante in esame resta invece applicabile ai casi in cui il delitto tentato abbia prodotto conseguenze
dannose o pericolose diversa dall'evento che il soggetto volontariamente impedito. Anche l'elisione o
attenuazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato deve avvenire prima del giudizio cioè prima
dell'apertura del dibattimento. In materia di stupefacenti, l'attività di eliminazione o di attenuazione delle
conseguenze del reati previste dall'articolo 73 del d.p.r. 309 del 1990 è oggetto di una previsione ad hoc,
che comporta una più consistente diminuzione di pena: tale disposizione si applicherà in via esclusiva per
esempio nel caso in cui si sia consentito il ritrovamento da parte della polizia di una consistente quantità di
stupefacenti.
12. Le circostanze attenuanti generiche
L'articolo 62 bis stabilisce che il giudice indipendentemente dalle circostanze prevedute dall'articolo 62,
può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una
diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo con una
sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto
articolo 62. Questa attenuante presente nel codice Zanardelli ed esclusa dal codice del 1930 è stata
introdotta nel 1944 per temperare l'asprezza del dosaggio sanzionatorio del codice Rocco; viene
comunemente designata con la formula circostanze attenuanti generiche, benché non compaia nella
disposizioni citata. Quanto al contenuto delle attenuanti generiche il legislatore rinuncia totalmente ad
individuarlo. L'articolo 62 bis richiedendo che si tratti di circostanze diverse da quelle preveduto
dall'articolo 62, che il giudice ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena, individua soltanto un
duplice limite al campo di applicazione del attenuanti generiche. In primo luogo il giudice non potrà tenere
conto di situazioni che già integrano una circostanza attenuante tipica sia che si tratti di circostanza
attenuante comune ex articolo 62 sia che si tratti di una circostanza attenuante speciale, cioè prevista per
uno o più reati determinati. In secondo luogo, non potrà considerare come attenuanti generiche situazioni
che siano incompatibili con il tenore di una norma che prevede la circostanza attenuante tipica.
L'individuazione in positivo del contenuto delle circostanze attenuanti generiche è invece rimessa al
giudice, il quale può far leva su un qualsiasi dato del caso concreto, inerente al reato o al suo autore, che
mediti una attenuazione della pena. In quest'opera la discrezionalità del giudice non è però libera, bensì
vincolata al rispetto di criteri desumibili dell'ordinamento. Il giudice farà riferimento ai criteri elencate
nell'articolo 133: applicherà alle attenuanti generiche qualora uno di tali criteri assume nel caso concreto

110
uno spiccato significato attenuante. La concessione del attenuanti generiche deve considerarsi del tutto
svincolata da una valutazione complessiva della gravità del reato e della capacità a delinquere della gente,
conseguendo esclusivamente alle individuazione nel caso concreto di un singolo dato attenuante. Oltre che
sui criteri dell'articolo 133, il giudice può fondare la concessione delle attenuanti generiche, tra l'altro, su
situazioni che realizzino parzialmente il modello legale di una circostanza attenuante tipica. In ragione della
loro natura di vere e proprie circostanze attenuanti, le attenuanti generiche sono assoggettate alla
disciplina che la legge detta in genere per le circostanze del reato e in particolare per le circostanze
attenuanti. Al pari di ogni altra circostanza del reato, le attenuanti generiche dovranno essere applicate
secondo lo schema del giudizio bifasico imposto dall'articolo 63. In primo luogo il giudice fisserà dunque la
pena base alla stregua dei criteri indicati all'articolo 133 in secondo luogo sulla pena così determinata,
procederà alla diminuzione fino ad un terzo in ragione delle attenuanti generiche. Sempre in ragione della
loro natura di vere e proprie circostanze del reato, le attenuanti generiche incidono sulla determinazione
del tempo necessario per la prescrizione del reato ai sensi dell'articolo 157, in caso di concorso con
circostanze aggravanti, entrano in giudizio di bilanciamento delle circostanze eterogenee di quell'articolo
69. Un ulteriore corollario della natura di circostanze in senso tecnico è quello esplicitato dall'articolo 62
bis, quando sottolinea che la circostanza attenuante generica può anche concorrere con uno o più delle
circostanze indicate nell'articolo 62 del codice penale, secondo le regole del concorso omogeneo di
circostanze. D'altra parte anche le attenuanti generiche possono concorrere anche con circostanze
attenuanti diverse da quelle elencate all'articolo 62.
13. Le circostanze aggravanti attenuanti inerenti alla persona del colpevole. la recidiva.
La recidiva è inquadrata dal legislatore tra le circostanze inerenti alla persona del colpevole, e consta di due
elementi. Il primo elemento è rappresentato dalla commissione di un delitto non colposo dopo che il
soggetto è stato condannato con sentenza definitiva per un precedente delitto non colposo. L'istituto della
recidiva è stato interessato da un'importante riforma nel 2005,n. 251, legge Cirielli, che, correggendo
largamente le scelte operate con la precedente riforma del 1974, ha irrigidito e inasprito il trattamento
della recidiva. Per altro verso, il legislatore delle 2005 ha estromesso dalla sfera applicativa dell'istituto i
delitti colposi nelle contravvenzioni. Per il configurarsi della recidiva non basta che si commette un delitto
non colposo dopo averne commesso un altro, ma è necessario che la commissione del primo delitto sia
stata trattata con una sentenza di condanna passata in giudicato, e il giudicato deve essersi formato prima
della commissione del nuovo delitto. Non è necessario che alla condanna sia seguita l'esecuzione, totale o
parziale, della pena. L'articolo 99 da rilievo ai fini della recidiva, anche alle sentenze di applicazione della
pena su richiesta delle parti, cosiddette sentenza di patteggiamento pronunciata ex articolo 444 c.p.p.; ai
sensi dell'articolo 106 alle condanne per le quali è intervenuta la causa di estinzione della pena, come ad
esempio, l'amnistia impropria, l'indulto ,la grazia; nonché alle condanne riportate all'estero, riconosciuta in
Italia. Il nuovo delitto deve inoltre denotare insensibilità all'ammonimento derivante dalla precedente
condanna e una accentuata capacità a delinquere: secondo la cassazione il che non si verifica quando il
nuovo delitto tragga origine da situazioni contingenti ed eccezionali, ovvero sia stato commesso dopo un
lungo intervallo di tempo dal delitto precedente, o abbia natura totalmente diversa. Perché la commissione
del nuovo delitto possa denotare nel caso concreto insensibilità all'ammonimento derivante dalla
precedente condanna è necessario, che l'agente sia conoscenza di quella condanna. L'accertamento del
secondo elemento della recidiva è affidato alla discrezionalità del giudice: si parla in questo caso di
facoltatività della recidiva. Anche con la riforma del 2005 la recidiva ha largamente conservato il carattere
facoltativo attribuito all'istituto del legislatore del 1974: ipotesi di recidiva obbligatoria sono ora previste
soltanto dall'articolo 99 comma 5.c.p., limitatamente ad una gamma di delitti di particolare gravità. Per i
restanti delitti non colposi, la volontà del legislatore del 2005 di attribuire spazi più ristretti la discrezionalità
del giudice nell'applicazione della recidiva si è manifestata soltanto nella previsione degli aumenti di pena.
Il potere discrezionale del giudice nell'applicazione della recidiva ha carattere giuridicamente vincolato,
dovendo esercitare secondo i criteri precedentemente enunciati che si desumono non dà un'indicazione
espressa della legge, bensì dal fondamento stesso dell'istituto: l'aumento di pena per la recidiva si legittima
in ragione sia dalla maggiore colpevolezza che connota il nuovo delitto, sia dalla maggiore capacità a
delinquere dell'agente. Natura giuridica: La recidiva è una circostanza del reato: si tratta in particolare di
una circostanza aggravante soggettiva, inerente alla persona del colpevole. Al pari di ogni altra circostanza,

111
la recidiva partecipa al giudizio di bilanciamento. Lo stabilisce espressamente l'articolo 69 comma 4, ove si
prevede inoltre, un regime speciale per la recidiva reiterata ex articolo 99 comma 4: anche questa forma di
recidiva partecipa al giudizio di bilanciamento, ma non può soccombere alle circostanze attenuanti
concorrenti. Il giudice dovrà cioè considerare la recidiva reiterata prevalente o, al più, equivalente rispetto
alle attenuanti. A norma dell'articolo 63 comma 3, la recidiva aggravata e la recidiva reiterata comportando
un aumento della pena superiore ad un terzo, sono circostanze ad effetto speciale. Ai sensi dell'articolo
118, la recidiva è una di quelle circostanze soggettive che non si comunicano ai concorrente nel reato.
Forme: in relazione alle diverse forme di recidiva previste nell'articolo 99, la dottrina parla di recidiva
semplice, recidiva aggravata e recidiva reiterata. 1. Recidiva semplice: quando dopo aver riportato
condanna per un delitto non colposo, l'agente ne commette un altro, di qualsiasi specie e gravità, a oltre
cinque anni dalla condanna precedente. In tal caso il giudice qualora ravvisi nel caso concreto il secondo
requisito della recidiva, sulla pena che infliggerebbe per il reato semplice deve operare l'aumento di pena di
un terzo. 2. recidiva aggravata: comporta l'aumento fino alla metà della pena che il giudice infliggerebbe
per reato semplice in tre ipotesi: a. se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole di quello
precedente, recidiva specifica; b. se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla
condanna precedente, recidiva infraquinquennale; c. se il nuovo delitto non colposo è stato commesso
durante o dopo l'esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae
volontariamente l'esecuzione della pena. 3. recidiva monoaggravata: ricorre una sola delle circostanze ore
enunciate. Se ricorre più di una di quelle circostanze si parla di recidiva pluriaggravata, in tal caso l'aumento
di pene della metà. Quanto all'ipotesi di recidiva monoaggravata sub a. a norma dell'articolo 101, reati della
stessa indole sono non soltanto quelli che violano la stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pur
essendo pervenute da disposizioni diverse, nondimeno, per la natura di fatti che li costituiscono o dei
motivi che li determinano, presentano nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni. La giurisprudenza
inoltre spesso considera reati della stessa indole quelli che sono sorretti dallo stesso motivo è in concreto
ledono o pongono in pericolo beni giuridici omogenei così da risultare episodi non occasionali ma proiezioni
specifiche della personalità dell'imputato. Quanto alle ipotesi di recidiva monoaggravata sub. c,
l'aggravante di cui all'articolo 99, trova il suo fondamento nell'accentuata in sensibilità al rispetto della
legge manifestata da chi non si è lasciato ammonire né dalla precedente condanna ne dall'esecuzione della
pena. 4. recidiva reiterata: qualora chi è già recidivo commetta un nuovo delitto non colposo. Presupposto
della recidiva reiterata è una precedente condanna con la quale il soggetto sia stato sottoposto all'aumento
di pena previsto per una qualsiasi forma di recidiva: non basta che il soggetto potesse essere considerato
recidivo, se non lo è stato in concreto. Ai fini della recidiva reiterata rileva anche una precedente condanna
nel quale l'aumento di pena disposto dal giudice sia stato in concreto neutralizzato nell'ambito del giudizio
di bilanciamento delle circostanze. La misura dell'aumento di pena per la recidiva reiterata varia a seconda
della forma di recidiva ritenuta nella prima condanna: se si tratta di recidiva semplice, l'aumento è della
metà; che se si tratta di recidiva aggravata, l'aumento è di due terzi. A dispetto dei dubbi avanzati da alcuni
tra i primi commentatori della riforma del 2005, anche la recidiva pluriaggravata e la recidiva reiterata
hanno tuttora carattere facoltativo. La struttura della recidiva infatti è quella delineata dal primo comma
dell'articolo 99, mentre i commi successivi si limitano a derogare alla disciplina dettata dal primo comma in
relazione all'entità degli obblighi di pena. Soltanto in relazione all'ipotesi di recidiva contemplate all'articolo
99 comma 5, il legislatore afferma che l'aumento della pena per la recidiva è obbligatorio: a decisiva
conferma dunque che nei casi di cui ai commi Precedenti, l'aumento di pene è invece facoltativo. Una serie
di ipotesi di recidiva obbligatoria è infine contemplata nell'articolo 99 comma 5, il quale dispone che se si
tratta di uno dei delitti indicati all'articolo 407 comma 2 lettera a. del codice di procedura penale, l'aumento
di pena per la recidiva è obbligatorio. I delitti in questione sono quelli ricompresi in un catalogo tassativo
fornito da una norma del codice di procedura penale che fissa termini di durata massima delle indagini
preliminari. Si tratta di delitti gravi, tra i quali per esempio associazione mafiosa e delitti degli associati,
strage, omicidio doloso, sfruttamento sessuale dei minori, associazione sovversiva e banda armata. A
ciascuna delle forme di recidiva facoltativa contemplate nei primi quattro commi dell'articolo 99, la
disposizione del comma 5 affianca altrettante forme di recidiva obbligatoria, sottoposte, agli stessi aumenti
di pena previsti per le corrispondenti ipotesi di recidiva facoltativa; quanto alla misura dell'aumento di
pena, una deroga è stabilita soltanto per la recidiva obbligatoria monoaggravata, per la quale l'aumento di

112
pena spazia da un terzo alla metà, mentre la corrispondente ipotesi di recidiva facoltativa prevede un
aumento di pena fino alla metà. Effetti sulla misura della pena: Il più importante effetto della recidiva è
rappresentato da un aumento della pena principale che il giudice infliggerebbe per il reato semplice.
L'entità della pena per la recidiva è stata in generale innalzata dalla riforma del 2005. Sempre per effetto di
tale riforma, gli aumenti di pena sono ora previsti in misura fissa dalla legge. Solo per la recidiva
monoaggravata la misura dell'aumento tuttora discrezionale. Un rilevante limite agli aumenti di pena è
previsto nell'articolo 99 comma 6, a norma del quale in nessun caso l'aumento di pena, per effetto della
recidiva, può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del
nuovo reato. Ne segue che se il cumulo delle pene inflitte con la precedente condanna è inferiore
all'aumento che dovrebbe essere apportato per la recidiva secondo le regole ordinarie, l'aumento andrà
contenuto entro il limite segnato dalla pena o delle pene precedentemente inflitte. Effetti ulteriori: la
recidiva può comportare per il condannato conseguenze sanzionatorie ulteriori rispetto all'aumento di
pena, che si inquadrano tra gli effetti penali della condanna. Chi sia stato condannato con l'aggravante della
recidiva non può fruire della forma di detenzione domiciliare previste dall'articolo 47 ter comma 1
dell'ordinamento penitenziario a favore di colui che al momento dell'inizio dell'esecuzione della pena, o
dopo l'inizio della stessa, abbia compiuto i 70 anni di età. Altre effetti penali conseguono alla recidiva
aggravata e alla recidiva reiterata: tra l’altro al recidivo aggravato e al recidivo reiterato non si applicano
l'amnistia, l'indulto, la prescrizione della pena; mentre la liberazione condizionale è la riabilitazione sono
sottoposte a condizioni più restrittive di quelle comuni. La gamma degli effetti penali della sola recidiva
reiterata è stato fortemente ampliata con la riforma ex Cirielli del 2005 è percorrere ora una serie di istituti
del diritto penale sostanziale, del diritto penitenziario e del diritto processuale penale. Quanto al diritto
sostanziale, al recidivo reiterato si applica un trattamento meno favorevole, nel quadro del concorso di
circostanze, del concorso formale di reati e del reato continuato, delle circostanze attenuanti generiche e
della prescrizione del reato. Quanto al diritto penitenziario e processuale penale, il regime deteriore
riguarda i permessi premio, alla semilibertà, la detenzione domiciliare: inoltre a norma dell'articolo 58
quater dell'ordinamento penitenziario, l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e
la semilibertà non possono essere concessi più di una volta; infine, il recidivo reiterato non può essere
ammesso la sospensione dell'ordine di esecuzione della condanna ex articolo 656 comma 5 c.p.p.: con la
conseguenza che per il recidivo reiterato l'accesso alle misure alternative presuppone necessariamente il
passaggio attraverso il carcere. Complessivamente al recidivo reiterato si riserva oggi uno statuto penale di
estrema è spesso ragionevole severità. Tanto accanimento nei confronti del recidivo destano perplessità
ancora maggiore se si considera che nella prassi, la parte più consistente di recidivi non sono autori di reati
gravissimi, ma tossicodipendenti, autori di spaccio e/o di piccoli reati contro il patrimonio.
14. Le circostanze che riguardano l'imputabilità
Altre circostanze inerenti alla persona del colpevole sono quelle che riguardano la imputabilità. Si tratta sia
di circostanze attenuanti, sia di circostanze aggravanti: tutte a efficacia comune, comportando
rispettivamente una diminuzione o un aumento fino a un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il
reato semplice. Al pari di ogni altra circostanza, partecipano al giudizio di bilanciamento ai sensi
dell'articolo 99. È prevista una circostanza attenuante per chi, nel momento in cui commesso il fatto: 1. era
affetto da vizio parziale di mente; 2. era affetto da sordomutismo, quando il sordomutismo comporti una
capacità di intendere e di volere grandemente scemata; 3. aveva un'età compresa fra i 14 e i 18 anni, ed è
stato riconosciuto imputabile; 4. Si trovava in uno stato di ubriachezza o sotto l'azione di sostanze
stupefacenti derivate da caso fortuito o da forza maggiore, e tali da scemare grandemente la capacità di
intendere o di volere; 5. Era affetto da cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti tali da
scemare grandemente la capacità di intendere o di volere. È prevista una circostanza aggravante per chi,
nel momento in cui ha commesso il fatto: 1. Si trovava in stato di ubriachezza ovvero sotto l'azione di
stupefacenti preordinate al fine di commettere il reato di prepararsi una scusa. 2. Si trovava in stato di
ubriachezza abituale o era dedito all'uso di sostanze stupefacenti.

CAPITOLO 13 LE PENE:TIPOLOGIA, COMMISURAZIONE, ESECUZIONE, ESTINZIONE

113
Alla sentenza di condanna, nella quale il giudice di cognizione accerta la commissione di un reato al
completo di tutti i suoi elementi (fatto, antigiuridicità, colpevolezza, punibilità), conseguono: sempre una
pena principale; eventualmente vari effetti penali ( conseguenze sanzionatorie automatiche di una sentenza
definitiva di condanna, incidenti sulla sfera giuridico-penale del condannato nel caso di apertura di un
nuovo procedimento penale a suo carico, per un nuovo reato); eventualmente una pena accessoria;
eventualmente una misura di sicurezza (nel caso di condannato socialmente pericoloso).Categoria delle
pene, 4 sottocategorie: pene principali; pene sostitutive delle pene detentive; pene derivanti dalla
conversione delle pene pecuniarie; pene accessorie. Pena di morte: abolita dal codice penale nel 1944;
dalle leggi speciali nel 1948; abolita anche nel caso di leggi militari di guerra nel 1994; 2007: modifica
dell’art 27 co 4 cost con la soppressione delle parole “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”:
si è cosi impedita un’eventuale reintroduzione della pena di morte con lo strumento della legge ordinaria.
2014: Paesi mantenitori 37; abolizionisti, di diritto o di fatto (10 anni) 161. Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq,
USA (solo 19 gli Stati abolizionisti). Nessuna indagine ha mai dimostrato che i tassi di omicidio siano più
bassi in presenza della pena di morte: anzi, in alcuni casi, avviene il contrario. Cesare Beccaria: meglio di
una pena terribile ma istantanea agisce come deterrente una pena duratura; la pena di morte può suscitare
compassione per il condannato generando la percezione di una giustizia ingiusta, crudele e dispotica; la
minaccia della pena capitale, lungi dal sensibilizzare al rispetto del bene della vita, lo svalutava per la palese
contraddizione che intercorre tra divieto di uccidere e minaccia della pena di morte; pericolo che venga
inflitta nei confronti di un innocente. USA: i costi economici della pena di morte, risultano nettamente
superiori rispetto a quelli di una condanna a pena detentiva a vita. Ergastolo: pena detentiva per i delitti
tendenzialmente perpetua. art 22 c.p.: “La pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli istituti
a ciò destinati (cd case di reclusione), con l’obbligo del lavoro (anche all’aperto) e con l’isolamento notturno
(implicitamente abrogato)”. Previsto per alcuni delitti contro la personalità dello Stato, l’incolumità
pubblica e la vita. Il suo ambito di applicazione si è dilatato per effetto delle progressiva sostituzione alla
pena di morte. In caso di concorso di reati, l’E si applica anche quando concorrono più delitti, per ciascuno
dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a 24 anni. Qualora si proceda con “rito
abbreviato”, è esclusa l’applicabilità dell’ergastolo: esso viene sostituito dalla reclusione di anni 30. Art 176
co 3 c.p.: prevede per il condannato all’ergastolo la possibilità di essere ammesso alla “liberazione
condizionale” quando abbia scontato almeno 26 anni di pena.  tale termine può essere ulteriormente
abbreviato per effetto delle riduzioni di pena (45 giorni per ogni semestre di pena scontata,
temporaneamente portati a 75 giorni per effetto del dl 2013 quale riconoscimento della partecipazione
prestata dal condannato all’opera di rieducazione). Il condannato all’ergastolo può essere ammesso, dopo
l’espiazione di almeno 10 anni di pena, ai “permessi premio” nonché, dopo 20 anni, alla “semilibertà”.
Anche nel computo di questi termini si terrà conto delle eventuali riduzioni di pena: nel caso in cui tali
riduzioni (di 45 giorni) siano accordate per l’intero periodo dell’esecuzione, il condannato all’ergastolo non
solo potrà aspirare alla liberazione condizionale dopo aver scontato 21 anni di pena, ma potrà essere altresì
ammesso alla semilibertà dopo 16 anni e 20 giorni ed ai permessi premio dopo 8 anni e 10 giorni. Allorché
la condanna all’ergastolo sia stata pronunciata per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o
di estorsione che abbiano cagionato la morte della vittima, il termine per l’ammissione del condannato alla
semilibertà è elevato a 26 anni effettivi.
Anche la pena dell’E si ispira oggi all’idea della cd esecuzione progressiva, secondo la quale le modificazioni
che intervengono negli atteggiamenti sociali del condannato possono tradursi in un regime gradualmente
sempre più aperto  ciò non vale per il cd “ergastolo ostativo” pronunciato per uno dei gravi delitti di cui
all’art 4 bis ord. penit. (associazione di tipo mafioso, delitti commessi con finalità di terrorismo ecc.) ed il
condannato non collabori con la giustizia: tali condannati sono esclusi dal lavoro all’esterno, dai permessi
premio, dalle misure alternative alla detenzione e dalla liberazione condizionale. L’ergastolo ostativo (70 %
dei condannati all’ergastolo) consiste in una vera e propria pena perpetua. Dubbi di legittimità
costituzionale (art 27 co 3 cost, principio di rieducazione ed umanità della pena)  corte cost, sent n
264/1974: legittimità dell’ergastolo in relazione all’art 27 co 3 a) negando che funzione e fine della pena sia
il solo riadattamento dei delinquenti; b) rilevando che l’istituto della liberazione condizionale consente il
reinserimento dell’ergastolano nel consorzio civile.  sent 1994: la pena dell’ergastolo non riveste più i
caratteri della perpetuità. Con tale sent, inoltre, è stata dichiarata l’illegittimità degli artt. 17 e 22 c.p. per

114
violazione dell’art 31 co 2 cost “nella parte in cui non escludono l’applicabilità della pena dell’ergastolo al
minore imputabile”. Corte EDU, sent Vinter vs. Regno Unito: l’art 3 CEDU, divieto di pene inumane o
degradanti, sarebbe rispettato solo laddove l’ordinamento preveda un meccanismo di revisione della
condanna alla pena perpetua, che offra al condannato concrete possibilità di liberazione, decorso un
periodo minimo di detenzione; il condannato ha il diritto di conoscere il momento in cui il riesame della sua
pena avrà luogo o potrà essere richiesto. E’ necessario garantire la funzione rieducativa della pena anche in
relazione all’ergastolo: obbligo la cui violazione potrebbe comportare, nell’ordinamento italiano, il
contrasto con l’art 117 co 1 cost. Secondo alcuni, il carattere fisso dell’ergastolo si porrebbe in contrasto
con i principi costituzionali di eguaglianza, colpevolezza e rieducazione del condannato. La Corte ha
riconosciuto che, in linea di principio, previsioni sanzionatorie fisse non appaiono in armonia con il volto
costituzionale del sistema penale: il dubbio di illegittimità costituzionale potrà esser superato, caso per
caso, soltanto a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista,
quest’ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato. La reclusione e l’arresto: la reclusione è una pena detentiva
temporanea per i delitti (minimo 15 giorni-massimo 24 anni, art 23 c.p.). l’arresto è una pena detentiva
temporanea per le contravvenzioni (minimo 5 giorni-massimo 3 anni, art 25 c.p.). il principio della
separazione dei condannati alla reclusione da quelli all’arresto è sancito sia nel c.p. che nell’ord pen: si
distinguono le “case di arresto” dalle “case di reclusione” (realtà: sovraffollamento, stessi stabilimenti). I
minimi-massimi previsti non vincolano il legislatore (ad es per il sequestro di persona a scopo di
estorsione/terrorismo è prevista la reclusione da 25 a 30 anni).  la previsione di limiti minimi-massimi ha la
funzione di integrare le comminatorie indeterminate di pena contenute nelle norme incriminatrici (ad es le
comminatorie, indeterminate nel massimo, relative al delitto di “associazione finalizzata al traffico di
stupefacenti”; per tale delitto la pena massima coinciderà con il massimo generale di 24 anni di reclusione
fissato dall’art 23 c.p.). Tali limiti sono invalicabili dal giudice, anche tenendo conto di attenuanti ecc. Nei
casi espressamente determinati dalla legge (art 132 co 2 c.p.) in cui, in deroga all’art 23, è consentito al
giudice superare il massimo di 24 anni, la reclusione non può comunque eccedere i 30 anni. Nei casi in cui è
esplicitamente consentito al giudice superare il limite massimo di 3 anni, l’arresto può arrivare fino a 5 anni,
per concorso di più aggravanti, ovvero fino a 6 anni, nell’ipotesi di concorso di reati. Carcere: nel 2015
presenti circa 53.300 detenuti (di cui il 34% imputati); donne 4%, stranieri 32%; basso livello d’istruzione.
Sovraffollamento: 151% nel 2010.  condanna del nostro Paese (2009 e 2013)da parte della Corte EDU per
violazione dell’art 3 CEDU (causa: spazi inferiori a 3 mq per persona).  modifica del limite di pena per
l’applicabilità della custodia cautelare in carcere (da 4 a 5 anni di reclusione), la quale rappresenta una
extrema ratio rispetto alle restanti misure cautelari. Ampliate le possibilità di accesso alle misure alternative
alla detenzione; si è introdotta una nuova ipotesi di affidamenti in prova al servizio sociale per pene non
superiori a 4 anni; si è ammesso il recidivo reiterato a favore della detenzione domiciliare in caso di pena
fino a 4 anni; temporaneo aumento (da 45 a 75 giorni al semestre) della riduzione di pena nell’ambito della
liberazione anticipata; è stato soppresso il divieto di sospendere l’esecuzione per i recidivi reiterati;
trattamento sanzionatorio della detenzione/spaccio di sostanze stupefacenti allorché il fatto sia di lieve
entità: reclusione da 6 mesi a 4 anni; reviviscenza legge Iervolino-Vassalli che differenziava il trattamento
sanzionatorio dei reati che hanno per oggetto droghe pesanti e droghe leggere: a) reclusione da 8 a 20 anni;
b) da 2 a 6 anni.  sovraffollamento carcerario: 107,6% nel 2015. E’ stata introdotta una procedura di
“reclamo giurisdizionale” accessibile ai detenuti in presenza di un attuale e grave pregiudizio all’esercizio
dei diritti riconosciuti dalla normativa penitenziaria; nonché un “rimedio risarcitorio” a beneficio del
detenuto che sia stato per almeno 15 gg in condizioni incompatibili con l’art 3 CEDU (riduzione della pena
pari ad 1 giorno per ogni 10 di pregiudizio). Permanenza domiciliare e lavoro di pubblica utilità: la
permanenza domiciliare è una pena limitativa della libertà personale applicabile solo per alcuni reati di
competenza del giudice di pace(obbligo di rimanere normalmente nei soli giorni di sabato e domenica
presso la propria abitazione o in luogo di cura, assistenza o accoglienza)). Lavoro di pubblica utilità è una
pena limitativa della libertà personale applicabile solo per alcuni reati di competenza del giudice di pace.
(prestazione di attività non retribuita a favore della collettività; presuppone la richiesta dell’imputato) Ratio
competenza penale giudice di pace: alleggerimento del carico gravante sull’autorità giudiziaria ordinaria e
riduzione dello spazio delle pene detentive in relazione a reati frequenti ma di gravità modesta (lesioni

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dolose lievissime, percosse, ingiuria, diffamazione non col mezzo della stampa, minaccia semplice,
danneggiamento semplice). ?Pag 609? Alle pene irrogate dal giudice di pace non si applica l’istituto della
sospensione condizionale della pena. 1) Obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di
privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza. Si esegue normalmente il sabato e la
domenica, ma su richiesta del condannato può essere scontata continuativamente ed ha una durata
compresa fra 6 e 45 giorni. A ciò può aggiungersi il divieto di accedere a specifici luoghi.
2) Prestazione di attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le
province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. E’ applicabile
esclusivamente su richiesta dell’imputato: in caso di richiesta, si instaura un processo di irrogazione della
pena bifasico, comportante per il giudice di pace, oltre alle funzioni del giudice di cognizione, anche ampi
poteri in tema di modalità esecutive della sanzione, all’interno di previsioni dettate dal Ministro della
giustizia. Violazione obblighi 1 e 2? Nuova fattispecie di reato. La multa e l’ammenda: la multa è una pena
pecuniaria per i delitti (minimo 50 euro massimo 50 mila euro, art 24; pagabili in rate mensili, art 133 ter).
Ammenda è pena pecuniaria per le contravvenzioni (minimo 20 euro massimo 10 mila euro, art 26; pagabili
in rate mensili) valorizzate, a partire dagli anni 80, quali sanzioni sostitutive della pena detentiva. 
riduzione del loro campo di applicazione a favore della sanzione pecuniaria amministrativa (cd
depenalizzazione). Prassi: ruolo marginale di tali pene pecuniarie. Contrasto con l’art 27 co 3 cost? NO, in
quanto anche la pena pecuniaria potrebbe adempiere ad una funzione rieducativa, anche se nella forma
dell’intimidazione-ammonimento.  il giudice può aumentare la multa o l’ammenda stabilite dalla legge
sino al triplo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace. I
minimi-massimi previsti valgono ad integrare eventuali comminatorie indeterminate nel minimo e/o nel
massimo; impongono inoltre al giudice limiti invalicabili in sede di commisurazione della pena. Tali minimi-
massimi possono essere derogati dal giudice nei soli casi espressamente determinati dalla legge (es
concorso di più circostanze aggravanti). Tali minimi-massimi non vincolano il legislatore. Art 24 co 2: “Per i
delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può
aggiungere la multa da €50 a €25.000”. Ratio: in tale specifico caso, la pena della multa ferisce al vivo la
sensibilità del reo. E’ controverso se tale motivo di lucro rappresenti una circostanza aggravante.
Rateizzazione mensile: accordabile in relazione alle condizioni economiche del soggetto e all’ammontare
della pena inflitta: sia nel caso di impossibilità del pagamento in un’unica soluzione, che nel caso in cui la
pena risulterebbe eccessivamente gravosa. Le rate hanno cadenza mensile, il loro numero deve essere
compreso fra 3 e 30 e l’ammontare di ciascuna rata non può essere inferiore a 15€. Non vi può essere
rateizzazione nel caso in cui l’ammontare della multa o dell’ammenda sia inferiore a 45€. Sono presenti
anche “pene pecuniarie fisse” e “proporzionali”: queste ultime si dividono in “proprie” (es: multa pari al
doppio del valore della merce) e ”improprie” (in cui varia il coefficiente di moltiplicazione, es multa da x a y
€ per ogni lavoratore reclutato illecitamente). Tali pene pecuniarie fisse e proporzionali non soggiacciono ai
limiti massimi generali, individuati negli artt. 24 e 26 c.p..
La conversione delle pene pecuniarie: in un momento successivo alla pronuncia della condanna, se si tratta
di condanna alla multa o all’ammenda, il magistrato di sorveglianza, in caso di insolvibilità del condannato,
procede ex artt. 102 ss. L. 689/1981 alla conversione della pena pecuniaria in libertà controllata (un
giorno=250 euro di pena pecuniaria) ovvero, su richiesta del condannato, un lavoro sostitutivo (un
giorno=25 euro di pena pecuniaria). In caso di violazione delle prescrizioni inerenti alla libertà controllata o
al lavoro sostitutivo la parte residua di tali pene si converte ulteriormente in un eguale periodi di reclusione
o di arresto (conversione di 2 grado). È prevista una disciplina speciale per la conversione della pena
pecuniaria inflitta dal giudice di pace. Caso dell’”insolvibilità” del condannato: ossia permanente
impossibilità di adempiere, distinta dalla transitoria “insolvenza”.  cod 1930: conversione nella pena
detentiva della specie corrispondente  irragionevole discriminazione a danno dei non abbienti (contrasto
col principio costituzionale di eguaglianza).  a partire dal 1981, pene da conversione della pena pecuniaria
sono non più la reclusione e l’arresto, bensì la libertà controllata ed il lavoro sostitutivo.
Art 103 l 689/1981: la durata della libertà controllata non può eccedere 1 anno e 6 mesi, se la pena
convertita è quella della multa, i 9 mesi se è quella dell’ammenda; la durata del lavoro sostitutivo non può
superare in ogni caso i 60 giorni. Lavoro sostitutivo: prestazione di attività non retribuita a favore della
collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di

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assistenza sociale e di volontariato, previa stipulazione, ove occorra, di speciali convenzioni da parte del
Ministero della giustizia, che può delegare il magistrato di sorveglianza. Tale attività si svolge nell’ambito
della provincia in cui il condannato ha la residenza, per una giornata lavorativa per settimana, salvo che il
condannato chieda di essere ammesso ad una maggiore frequenza settimanale. Disciplina speciale
conversione pena inflitta dal giudice di pace: accanto al lavoro sostitutivo, vi è la “permanenza domiciliare”.
Se in sede di conversione viene applicato il lavoro sostitutivo ma il condannato non ottempera ai relativi
obblighi, la parte residua si converte in permanenza domiciliare. Violazione obblighi inerenti la
permanenza domiciliare: autonoma figura di delitto punito con la reclusione. Competente a disporre la
conversione non è il magistrato di sorveglianza ma il giudice di pace. Il ragguaglio tra pene pecuniarie e
pene detentive: art 135 c.p.: “Quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra
pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando 250€, o frazione di 250, di pena
pecuniaria per un giorno di pena detentiva”. Es casi in cui si deve procedere a ragguaglio: A) per decidere
dell’applicabilità della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel
certificato del casellario giudiziale in caso di condanna alla multa o all’ammenda. B) in tema di successione
di leggi penali: qualora, dopo la pronuncia della sentenza di condanna a pena detentiva, intervenga una
nuova legge che sanzioni quel reato con la sola pena pecuniaria. Le pene sostitutive delle pene detentive:
lotta alla “pena detentiva breve”: introduzione “sospensione condizionale della pena”, “affidamento in
prova al servizio sociale”, “detenzione domiciliare” e “semilibertà”; introduzione con la l 689/1981 di pene
sostitutive: pena pecuniaria, “semidentenzione” e “libertà controllata”. Al momento della pronuncia della
condanna il giudice di cognizione quando ritiene di dover determinare la durata della reclusione o
dell’arresto entro il limite di 2 anni, in base agli artt. 53 ss. L.689/1981 può sostituire tale pena con una
delle pene sostitutive delle pene detentive. 1) pena detentiva fino a 6 mesi sostituibile con: pena pecuniaria
(multa o ammenda il cui ammontare è determinato secondo il modello dei tassi giornalieri) o libertà
controllata o semidetenzione o espulsione se il condannato è straniero. 2) pena detentiva da 6 mesi e un
giorno a un anno sostituibile con libertà controllata, semidetenzione, espulsione se straniero. 3)pena
detentiva da 1 anno e un giorno a 2 anni sostituibile con: semidetenzione o espulsione. Ulteriori pene
sostitutive sono previste nella legislazione complementare in relazione a specifiche figure di reato: ad
esempio il lavoro di pubblica utilità in relazione alla guida in stato di ebrezza o sfatto. Questa pena
sostitutiva ha conquistato spazio notevole nella prassi. Nei casi di concorso formale di reati e di reato
continuato, i limiti previsti sono triplicati. Limite soggettivo all’applicabilità delle pene sostitutive: è escluso
chi è stato condannato a oltre 3 anni di reclusione nei 5 anni precedenti alla nuova condanna.
Semidentenzione: misura privativa pro tempore della libertà personale: comporta l’obbligo di trascorrere
almeno 10 ore al giorno in un apposito istituto penitenziario; sono previste inoltre: la sospensione della
patente di guida e del passaporto, il divieto assoluto di detenere armi, l’obbligo di conservare ed esibire a
richiesta della polizia l’ordinanza che determina le modalità di esecuzione della pena. Libertà controllata:
limitazione della libertà di circolazione del soggetto: divieto di allontanarsi dal comune di residenza e
obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza. Per ogni
effetto giuridico la semidetenzione e la libertà controllata si considerano come pena detentiva della specie
corrispondente a quella della pena sostituita. La pena pecuniaria si considera sempre come tale. E’
ammessa la so spendibilità delle pene sostitutive in caso di patteggiamento. Ragguaglio tra pene detentive
e pene sostitutive: 1 giorno di reclusione o di arresto = 1 giorno di semidetenzione o 2 giorni di libertà
controllata. In caso di sostituzione con la pena pecuniaria, per quantificare quest’ultima, il giudice deve
stabilire la somma giornaliera, compresa tra un mini di 250 e un massimo di 2500€, il cui pagamento può
essere imposto all’imputato, tenendo conto della condizione economica complessiva di quest’ultimo e del
suo nucleo familiare; quindi, deve moltiplicare tale somma per il numero di giorni di pena inflitta.
Procedimento per l’applicazione delle pene sostitutive: sono inflitte dal giudice nella sentenza di condanna:
il giudice di cognizione determina la pena detentiva adeguata al caso concreto e, contestualmente, ne
dispone la sostituzione con la semidetenzione, con la libertà controllata o con la pena pecuniaria. Il giudice,
tenendo conto dell’art 133 c.p., può sostituire la pena detentiva e tra le pene sostitutive sceglie quella più
idonea al reinserimento sociale del condannato. Distinzione momento in cui il giudice decide “se sostituire”
la pena detentiva, e momento in cui decide “come sostituirla”: A) il giudice deve domandarsi se, in base alla
gravità del reato e alla capacità a delinquere dell’agente, la pena sostitutiva possa risultare meno

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socializzante e, al contempo, sufficiente ad ammonire il condannato; B) se entro il limite di 6 mesi, può
scegliere tutti e 3, poi 2 e poi solo la semidetenzione (rivedi schema). Il co 2 dell’art 58 l 689/1981 preclude
al giudice la sostituzione della pena detentiva quando vi sia motivo di ritenere che le prescrizioni inerenti
alla sanzioni sostitutiva rimarrebbero inadempiute.  Sent Corte di cassazione 2010: la sostituzione della
pena detentiva con quella pecuniaria è consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in
condizioni economiche disagiate, in quanto la prognosi di inadempimento propria del co 2, si riferisce
soltanto alle pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni, ossia alla semidetenzione
ed alla libertà controllata, e non alla pena pecuniaria sostitutiva, che non prevede alcuna particolare
prescrizione. Ultimo co art 58: “Il giudice deve in ogni caso specificamente indicare i motivi che giustificano
la scelta del tipo di pena erogata”.  nei casi in cui la pena detentiva sia stata sostituita con la
semidetenzione o con la libertà controllata, la sostituzione è soggetta a “revoca”, con conversione della
parte residua di pena nell’originaria pena detentiva sostituita. Motivi revoca: violazione prescrizioni;
sopravvenienza di una nuova condanna a pena detentiva per un altro reato. Qualora la pena detentiva sia
stata sostituita con la pena pecuniaria, il mancato pagamento per insolvibilità comporta la “conversione”
della pena pecuniaria in libertà controllata o in lavoro sostitutivo. Le pene accessorie: si tratta di sanzioni,
diverse dalle pene principali, a contenuto normalmente interdittivo e talora stigmatizzante). Si applicano
solo in aggiunta ad una pena principale. Di regola , conseguono di diritto ad una sentenza di condanna o di
patteggiamento di una pena detentiva superiore a 2 anni per un reato consumato o tentato. L’art 19
fornisce un elenco non tassattivo delle pene accessorie, altre pena accessorie infatti si trovano nella
legislazione speciale. Pene accessorie per i delitti: interidzione dai pubblici uffici; interdizione da una
professione o da un’arte; interdizione legale; interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese; incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; estinzione del
rapporto di impiego o di lavoro; decadenza o sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.
Pene accessorie per le contravvenzioni: sospensione dall’esercizio di una professione o di un arte;
sospensione dall’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Pena accessoria
comune ai delitti e alle contravvenzioni: pubblicazione della sentenza penale di condanna. Durata delle
pene accessorie: possono essere perpetue o temporanee. Fra quelle temporanee vi sono quelle la cui
durata è espressamente determinata dalla legge (es. in caso di condanna alla reclusione non inferiore a 3
anni, è fissata in 5 anni la durata dell’interdizione dai pubblici uffici); oppure la durata è determinata in base
al principio di equivalenza: la durata è uguale al quella della pena principale inflitta, ma non può superare i
limiti minimo e massimo stabiliti dalla legge per ciascuna specie di pena accessoria. Di regola gli effetti della
pena accessoria si producono solo una volta esaurita l’esecuzione della pena detentiva o della misura di
sicurezza detentiva. La sospensione condizionale della pena sospende, oltre all’esecuzione della pena
principale, anche l’esecuzione della pena accessoria; l’inosservanza delle pene accessorie costituisce un
autonomo delitto.
Contenuto interdittivo: funzione di prevenzione generale e speciale: mirano a prevenire situazioni che, per
un dato soggetto, potrebbero risultare criminogene. Funzione stigmatizzante: residuo storico delle pene
infamanti. Modalità di applicazione: qualora la pena accessoria sia integralmente predeterminata dalla
legge (nella specie, durata, modalità esecutive), in mancanza di una statuizione espressa nella sentenza di
condanna, può essere applicata dal giudice dell’esecuzione, su disposizione del p.m.. Il c.p.
precedentemente prevedeva l’istituto dell’applicazione provvisoria di pene accessorie, una forma di
anticipazione di tali pene rispetto alla pronuncia della condanna.  disciplina abrogata e sostituita
dall’applicazione di “misure cautelari personali a carattere interdittivo”. Nel caso in cui con la sentenza di
condanna/patteggiamento sia applicata la “sospensione condizionale della pena”, oltre all’esecuzione della
pena principale è sospesa anche quella della pena accessoria. Le singole pene accessorie ex art 19 c.p.:
Interdizione dai pubblici uffici: priva il condannato: del diritto di elettorato attivo/passivo e di ogni altro
diritto politico; degli uffici ricoperti a seguito di nomina o incarico da parte dello Stato o altre ente pubblico
e della relativa qualità di pubblico ufficiale; dei gradi e delle dignità accademiche; dei titoli cavallereschi e
delle decorazioni. L’interdizione può essere “perpetua” o “temporanea (nel qual caso deve avere durata
compresa tra 1 e 5 anni). A) consegue alla condanna all’ergastolo o alla reclusione non inferiore a 5 anni,
nonché alla dichiarazione di abitualità/professionalità/ tangenzialità a delinquere. B) consegue alla
condanna alla reclusione non inferiore a 3 anni, nel qual caso ha una durata pari a 5 anni, nonché alla

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condanna per un delitto realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica
funzione o a un pubblico servizio. Interdizione da una professione o da un’arte: privazione della capacità di
esercitare una professione, arte o mestiere per cui è richiesto una speciale abilitazione. La “decadenza”
colpisce chi sia già in possesso dell’abilitazione; la “privazione della capacità” di esercizio si indirizza a chi
non sia attualmente titolare dell’abilitazione. Tale pena consegue alla condanna per delitti commessi con
“abuso dei poteri o violazione dei doveri” inerenti l’esercizio della professione. Durata: si determina in base
al principio di equivalenza; è compresa tra 1 mese e 5 anni. Sospensione dall’esercizio di una
professione/arte: non comporta la decadenza dal titolo: il condannato, eseguita la pena, riacquista
automaticamente la titolarità del diritto, ovvero l’interesse legittimo a richiedere l’autorizzazione. Deriva da
una condanna per una contravvenzione commessa con abuso dei poteri o violazione dei doveri. Pena
inflitta non inferiore ad 1 anno di arresto. Durata: fra 15 giorni e 2 anni; principio di equivalenza.
Interdizione legale: priva il condannato della capacità d’agire, limitatamente ai diritti patrimoniali: il
soggetto conserva la titolarità di tali diritti, ma può esercitarli o disporne solo attraverso un tutore. Tale
pena consegue di diritto alla condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni
pronunciata per un delitto non colposo. Durata pari alla pena principale. Interdizione temporanea dagli
uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese: comporta la perdita temporanea della capacità di
esercitare uffici direttivi o di rappresentanza delle persone giuridiche e delle imprese: es amministratore,
sindaco, institore, procuratore. Presupposto è la condanna alla reclusione non inferiore a 6 mesi per delitti
commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti l’ufficio. Durata: equivalenza, no min/max.
Sospensione dall’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese: una volta eseguita la
pena, il condannato torna automaticamente ad esercitare i poteri e le funzioni connesse all’ufficio. Questa
pena consegue alla condanna all’arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o in violazione
dei doveri inerenti l’ufficio. Durata: equivalenza; tra 15 giorni e 2 anni. Incapacità di contrattare con la p.a.:
investe contratti sia di diritto privato che di pubblico. L’incapacità non si estende ai contratti che abbiano
per oggetto la prestazione di un pubblico servizio. Presupposto: condanna per delitti quali: associazione per
delinquere, associazione di tipo mafioso, alcuni delitti contro la p.a. Durata: equivalenza; tra 1 anno e 5
anni.
Estinzione del rapporto di lavoro o di impiego: cessazione del rapporto nei confronti del dipendente di
amministrazioni o enti pubblici o di enti a prevalente partecipazione pubblica. Presuppone la condanna alla
reclusione non inferiore a 2 anni per i delitti di peculato, concussione, corruzione ecc.
Decadenza dalla responsabilità genitoriale: perdita definitiva dei poteri conferiti dalla legge ai genitori nei
confronti dei figli: in particolare vi è la privazione della titolarità dei diritti e delle facoltà di carattere
personale nei confronti dei figli, nonché dei diritti sui beni del figlio attribuitigli dal cc (amministrazione e
usufrutto legale sui beni). Tale pena consegue alla condanna all’ergastolo e alla condanna per alcuni delitti
contro lo stato di famiglia, in materia di schiavitù, di pornografia e prostituzione minorile. Durata perpetua.
Sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale: consegue alla condanna alla reclusione per un
tempo non inferiore a 5 anni, nonché alla condanna per un qualsiasi delitto commesso con “abuso della
potestà dei genitori”. Durata temporanea: se deriva dalla condanna alla reclusione non inferiore a 5 anni,
ha durata pari a quella della pena principale; se deriva dalla condanna per un delitto commesso con abuso
ella potestà dei genitori, ha durata doppia di quella della pena principale. Pubblicazione della sentenza di
condanna: si esegue – d’ufficio, a spese del condannato e per una sola volta – nel sito internet del Ministero
della giustizia, per 15 giorni. Quando si tratti di sentenza di condanna all’ergastolo, la pena accessoria
comporta altresì la pubblicazione mediante affissione all’albo del comune in cui è stata pronunciata, in
quello in cui il delitto fu commesso e in quello in cui il condannato aveva l’ultima residenza.
Gli effetti penali della condanna: ulteriori conseguenze sanzionatorie che si ricollegano alla pronuncia di
una sentenza di condanna. Ad es l’art 2 co 2 c.p. fa discendere dall’abolizione di un reato, per il quale sia
stata pronunciata condanna definitiva, non solo la cessazione dell’esecuzione della pena principale e delle
pene accessorie, ma anche il venir meno degli effetti penali della condanna. Art 20 c.p.: “le pene accessorie
conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa”.  gli effetti penali della condanna sono un
genus, nel quale ritroviamo, come species, le pene accessorie. Caratteristica comune: sono “conseguenze
automatiche della condanna”. Gli effetti penali hanno una particolare “resistenza” alle cause estintive della

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pena, ben superiore a quella delle pene accessorie (ad es la sospensione condizionale della pena, l’indulto e
l’amnistia impropria travolgono le pene accessorio ma non gli effetti penali).
Corte di cassazione sent 2005: gli effetti penali della condanna si caratterizzano per essere conseguenza
soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna; per essere conseguenza derivante direttamente dalla
sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della p.a.; per la natura sanzionatoria
dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale.
Su quest’ultimo profilo, cioè sulla riconducibilità agli effetti penali della condanna anche di conseguenze
extrapenali, appare più plausibile la tesi restrittiva: la legge non parla infatti di effetti della condanna
penale, bensì di effetti penali della condanna. Rapporti pene accessorie ed effetti penali della condanna: le
prime conseguono alla condanna in modo certo ed indefettibile, i secondi danno vita ad uno status
comportante un effettivo pregiudizio per il condannato solo in via eventuale, a condizione cioè che nei suoi
confronti si apra un nuovo procedimento penale, per un altro reato. Definizione definitiva: conseguenze
sanzionatorie automatiche di una sentenza definitiva di condanna, incidenti sulla sfera giuridico-penale del
condannato, e la cui operatività è subordinata alla commissione di un nuovo reato da parte del condannato
e all’instaurarsi di un nuovo procedimento penale. La recidiva non è un effetto penale della condanna, ma
produce alcuni effetti penali. Uno comune a tutte le forme di recidiva (semplice, aggravata e reiterata) è
l’esclusione del condannato ultrasettantenne dalla detenzione domiciliare. Recidiva aggravata e reiterata:
precludono l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto (salvo che la legge che concede l’amnistia non
disponga diversamente), impediscono la prescrizione della pena della reclusione e della multa, raddoppiano
i termini per la prescrizione dell’arresto e dell’ammenda, rendono più gravose le condizioni per
l’ammissione alla liberazione condizionale e alla riabilitazione. Sola recidiva reiterata: trattamento meno
favorevole circa le circostanze attenuanti generiche, il concorso di circostanze, il concorso formale di reati e
il reato continuato, la prescrizione del reato, i permessi-premio; può accedere al patteggiamento solo a
condizione che la pena sia contenuta entro il limite di 2 anni. Delinquente abituale, professionale o per
tendenza: raddoppio termine di prescrizione del reato in caso di atti interruttivi, non concedibilità della
sospensione condizionale della pena, sospensione del procedimento con messa alla prova e del perdono
giudiziale, inapplicabilità amnistie e indulto. La commisurazione della pena: vd schema. In senso lato:
abbraccia tutti gli ulteriori momenti (come quello dell’applicazione delle pene sostitutive e delle misure
alternative) in cui il potere discrezionale del giudice concorre a determinare la pena da eseguirsi in
concreto. art 133: richiamando l’intensità del dolo, implicitamente invita il giudice a prendere in
considerazione: a) il ruolo che la rappresentazione dell’evento ha avuto nella determinazione ad agire o ad
omettere (a seconda che l’evento abbia costituito lo scopo dell’agente, ovvero sia stato soltanto
rappresentato come sbocco, certo o possibile, dell’azione o omissione); b) il grado di complessità della
deliberazione che ha portato alla condotta illecita, valutato in primo luogo in base al lasso di tempo in cui si
è perfezionato il processo volitivo; c) la consapevolezza, da parte dell’agente, dell’antigiuridicità e/o
dell’antisocialità del fatto. Il giudizio sul “grado della colpa” verterà, innanzitutto, sulla misura in cui il
soggetto si è discostato dal modello di comportamento richiesto in generale dall’ordinamento per quel
determinato tipo di attività. Si dovrà quindi considerare se una determinata posizione sociale o
professionale, o altre caratteristiche individuali, valgano ad indiziare nell’agente particolari capacità nel
prevedere e prevenire eventi del tipo verificatosi. In tali ipotesi, a parità di divergenza fra la diligenza
dimostrata e quella obiettivamente doverosa, varia il grado della colpa. Da notare che il “concorso di colpa
della vittima” può attenuare la colpa dell’agente. Co 2: concetto di “capacità a delinquere”: attitudine del
soggetto al fatto commesso (si guarda al passato) vs attitudine del soggetto a commettere nuovi reati. 
guardando alla Cost, si deve preferire la seconda linea di pensiero. Rapporti fra il co 1 e 2; ossia la possibilità
di individuare un principio d’ordine fra i criteri fattuali di commisurazione della pena indicati dall’art 133
c.p.: dall’art 27 co 1 cost (principio di colpevolezza) può ricavarsi una gerarchia all’interno dei criteri di
commisurazione di cui all’art 133 co 1 c.p.: posizione preminente, fra gli indici di gravità del reato, a quelli
attinenti la colpevolezza (intensità del dolo e grado della colpa): la gravità del reato dovrebbe essere
valutata dal giudice all’interno dei limiti segnati dalla colpevolezza (es chi provoca per colpa un incendio ma
non poteva rendersi conto che al di là della strada vi è un campeggio). Dall’art 27 co 3 cost, può trarsi
un’indicazione a favore dell’esclusiva rilevanza in bonam partem delle considerazioni di prevenzione
speciale: considerazioni relative alla capacità a delinquere del reo non potrebbero fondare l’applicazione di

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pene eccedenti la misura corrispondente alla gravità del fatto colpevole, ma potrebbero soltanto suggerire
l’applicazione di pene inferiori. La peculiarità della commisurazione delle pene pecuniarie: determinazione
della specie e dell’ammontare della pena all’interno della cornice edittale ai sensi degli artt. 132, 133 e 133
bis c.p. art 132: Potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena: limiti. Nei limiti fissati dalla
legge, il giudice applica la pena discrezionalmente (trattasi di una discrezionalità vincolata, intesa quale
realizzazione nel caso concreto dei giudizi di valore già espressi dalle legge, e pertanto soggetta ad un
controllo di legittimità); esso deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere discrezionale (tale
norma fonda un obbligo di motivazione sulla misura della pena, spesso eluso dalla giurisprudenza, la quale
ritiene indispensabile una motivazione rigorosa solo quando la pena venga applicata in misura compresa fra
il medio e il massimo edittale. Nell’aumento o nella diminuzione della pena non si possono oltrepassare i
limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente determinati dalla legge.
Art 133: Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena. Nell’esercizio del potere discrezionale indicato
nell’articolo precedente, il giudice deve tenere conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla
specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del
danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della
colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a
delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla
vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) delle
condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. L’art 11 nulla dice sui criteri finalistici di
commisurazione della pena: non chiarisce, cioè, quale scopo possa legittimamente perseguire la pena nella
fase della sua commisurazione. Indicazioni al riguardo possono essere ricavare dalla costituzione: il giudice
deve assumere la rieducazione come criterio finalistico di commisurazione della pena, entro i limiti della
colpevolezza per il singolo fatto concreto. Nel rispetto della dignità della persona del condannato e del
divieto di responsabilità per fatto altrui, il giudice non può infliggere pene esemplari, ispirate a una logica di
prevenzione generale. Art 133 bis: Condizioni economiche del reo; valutazione agli effetti della pena
pecuniaria. Nella determinazione dell’ammontare della multa o dell’ammenda il giudice deve tenere conto,
oltre che dei criteri indicati dall’articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo. Per la
commisurazione della pena pecuniaria si deve tener conto anche delle condizioni economiche del reo,
rilevanti alla stregua del tradizionale modello della somma complessiva. Il giudice può aumentare la multa o
l’ammenda stabilita dalla legge sino al triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni
economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia
eccessivamente gravosa. Le condizioni economiche del reo possono avere anche un rilievo ultraedittale,
determinando l’applicazione di una pena sia superiore ai massimi, sia inferiore ai minimi previsti nella
norma incriminatrice. (Articolo aggiunto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689). in questo caso la funzione
rieducativa assume in via esclusiva la forma dell’intimidazione-ammonimento.
L’art 133 bis c.p. interessa la commisurazione della multa e dell’ammenda comminate dalla legge come
pene principali, e non anche la commisurazione delle pene pecuniarie sostitutive della pena detentiva (per
queste ultime vi è lo schema dei “tassi giornalieri”, ovvero il numero dei tassi si determina in base ai criteri
ordinari, comuni alla pena detentiva, mentre il loro ammontare si determina in base alle condizioni
economiche del soggetto). L’art 133 bis si rifà al modello della “somma complessiva”, nel quale le condizioni
economiche operano contemporaneamente e sullo stesso piano rispetto ai restanti criteri fattuali di
commisurazione, senza che sia possibile discernere quale incidenza assumano le condizioni economiche, da
un lato, la gravità del reato e la capacità a delinquere del reo, dall’altro, nella determinazione
dell’ammontare della pena pecuniaria. L’art 133 bis non fornisce alcuna definizione delle condizioni
economiche del reo, rinunciando ad individuare gli elementi che concorrono a costituirle. Si ritiene che il
giudice debba riferirsi al “reddito” del soggetto al tempo della condanna, nonché al suo “patrimonio”. Tra le
componenti passive delle condizioni economiche del reo, il giudice dovrà tener conto delle “obbligazioni
pecuniarie” gravanti sul soggetto, in particolare degli “obblighi derivanti da reato” (risarcimento danni,
rimborso spese processuali, pagamento dell’onorario al difensore), degli “obblighi di alimenti nei confronti
dei familiari”, dei “debiti d’imposta” e dei “debiti per esigenze essenziali”.
Circa l’accertamento: nei Paesi che hanno adottato i tassi giornalieri, ci si fonda sulle “dichiarazioni” fornite
dal soggetto: solo quando vi siano fondati motivi per dubitare della veridicità delle affermazioni fornite dal

121
soggetto, vengono disposte ulteriori indagini d’ufficio. I controlli saranno agevoli nei confronti dei lavoratori
dipendenti e dei soggetti a reddito fisso, mentre per altre categorie (lavoratori autonomi, imprenditori) ci si
potrebbe basare su “valutazioni a stima” da parte del giudice. Circa le obbligazioni pecuniarie gravanti sul
soggetto, l’onere di provarne l’esistenza incomberà comunque sull’imputato. Co 2. Vd schema. Il giudice
può tener conto una sola volta delle condizioni economiche del reo, e in particolare ai fini dell’aumento o
della diminuzione di cui al co 2. Onere della prova: accusa (aumentare la pena), imputato (diminuirla).
Natura giuridica aumenti/diminuzioni previsti dal co 2: le condizioni economiche del reo non integrano una
circostanza in senso tecnico, bensì rappresentano il criterio per un “atipico” adeguamento della pena a
situazioni particolari in cui il soggetto venga a trovarsi al momento dell’inflizione della multa/ammenda.
La commisurazione della pena nei procedimenti speciali: c.p.p. 1988 ha prodotto un’antinomia: il legislatore
esalta a parole il dibattimento, come luogo di formazione della prova, ma al tempo stesso predispone
congegni atti ad evitarlo, poiché la sua applicazione su larga scala finirebbe per soffocare il funzionamento
pratico della nuova giustizia penale. Il più vistoso stravolgimento dei meccanismi di commisurazione della
pena si verifica nell’applicazione della pena su richiesta delle parti (cd patteggiamento): analizziamo la
“sfera di applicabilità” di tale procedimento speciale ed il “ruolo riservato al giudice” rispetto all’accordo
sulla pena intervenuto fra le parti. 1) art 444 c.p.p.: ricomprende tutti i procedimenti nei quali potrebbe
esser applicata ex officio una pena sostitutiva; i reati punibili in concreto con una pena pecuniaria, di
qualsiasi ammontare. La richiesta delle parti può avere per oggetto l’applicazione di una pena detentiva:
per tale ipotesi sono previsti limiti quantitativi ( 5 anni di pena per il patteggiamento allargato, 2 anno per
quello ordinario). Il rispetto di tali limiti va verificato con il seguente procedimento: su un ammontare di
pena prescelto all’interno della cornice edittale si operano gli aumenti o le diminuzioni derivanti dalle
eventuali circostanze aggravanti o attenuanti: la pena così determinata deve essere ulteriormente
diminuita “fino ad un terzo” (in riferimento alla quantità di pena che può essere detratta, e non al risultato
dell’operazione). Tale rito speciale risulta utilizzabile per la maggior parte dei procedimenti penali,
abbracciando anche forme di criminalità molto gravi (omicidio, rapina, estorsione). Sussistendo i
presupposti illustrati, l’imputato ed il p.m. possono presentare la richiesta di cui all’art 444 c.p.p. indicando
la specie e l’ammontare della pena: la richiesta potrà essere subordinata alla concessione della sospensione
condizionale se la misura della pena non eccede i limiti previsti per l’applicabilità dell’istituto (di regola 2
anni di pena detentiva). 2) Il giudice, di fronte alla richiesta presentata dalle parti, deve innanzitutto
vagliare, “sulla base degli atti”, senza procedere ad alcun ulteriore accertamento, se debba pronunciare una
sentenza di proscioglimento. Non ricorrendo tale situazione, il giudice verificherà la correttezza: a) della
qualificazione giuridica del fatto, b) dell’applicazione delle circostanze, c) della loro comparizione. Inoltre,
qualora sia stata richiesta la sospensione condizionale della pena, vaglierà se tale istituto sia applicabile al
caso concreto. Il giudice potrà rigettare la richiesta formulata dalle parti in quanto ritenga scorretta
l’applicazione che esse hanno operato di circostanze a struttura discrezionale (come le attenuanti
generiche), ovvero in quanto non condivida le conclusioni tratte in sede di bilanciamento delle circostanze,
o in quanto non ritenga di poter formulare sull’imputato la prognosi favorevole alla quale è subordinata
l’applicabilità della sospensione condizionale della pena. Il giudice dovrà valutare la congruità della pena
indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione. Qualora l’accordo tra
imputato e p.m. abbia portato ad un trattamento sanzionatorio incoerente rispetto agli scopi costituzionali
della pena, il giudice dovrà rigettare tale richiesta e disporre che si proceda secondo il rito ordinario.
Riduzione pena fino ad un terzo (art 444): corrispettivo per il consenso da parte dell’imputato ad un rito più
rapido e meno garantito di quello ordinario; no funzione special-preventiva della pena; circa la prevenzione
generale vi sono effetti negativi nell’ambito della funzione di orientamento culturale (la concreta misura
della sanzione può risultare fortemente divaricata, per reati dello stesso tipo, a seconda del rito seguito).
Giudizio abbreviato: prevede una riduzione di pena nella misura fissa di un terzo. Nel caso della pena
all’ergastolo, questa è sostituita con la reclusione di anni 30. Ratio: dispensare un premio all’imputato per
la rinuncia al dibattimento. Procedimento per decreto: riservato ai reati punibili in concreto con pena
pecuniaria (anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva), su richiesta del p.m. la pena può essere
diminuita fino alla metà del minimo edittale: l’an e il quantum della diminuzione sono affidati alla
discrezionalità del p.m.. Una volta investito della richiesta del p.m., il giudice o la accoglie in toto o la
rigetta: non ha il potere di modificare la pena commisurata dal p.m.. Se il giudice accoglie la richiesta,

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pronuncia decreto di condanna con il quale applica la pena nella misura indicata dal p.m. esplicitando sia
l’entità della diminuzione della pena che le ragioni che l’hanno determinata. Ratio: rendere evidente
all’imputato il trattamento di favore che gli è stato praticato, così da dissuaderlo dall’instaurare il
dibattimento. Se l’imputato propone opposizione, il giudice può applicare una pena anche diversa e più
grave di quella fissata nel decreto di condanna. Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle pene
detentive: finalità di rieducazione del condannato (art 27 co 3 cost): cioè verso l’obbiettivo del suo
reinserimento nella società. La legge sull’ordinamento penitenziario (n 354/1975) ha cercato di dar vita ad
un sistema penitenziario rispondente alle indicazioni costituzionali, innanzitutto arginando l’azione de
socializzante del carcere (il defunto può indossare abiti propri, acquistare cibo, provvedere all’igiene
personale e fruire di una sfera di riservatezza), nonché aprendo il carcere verso l’esterno durante
l’esecuzione attraverso colloqui telefonici, contatti riservati con i parenti, accesso a giornali, radio e tv.
Infine, vengono introdotti gli istituti dell’affidamento in prova e della semilibertà. L n 663/1986 Gozzini
(modifiche alla l pen e alle misure privative e limitative della libertà): introduzione “detenzione
domiciliare”, ampliamento ambito applicativo dell’affidamento in prova e della semilibertà, esecuzione
progressiva della pena detentiva, permessi premio. Circa i permessi distinguiamo: a) permessi ispirati ad
esigenze di umanizzazione della pena, che possono essere accordati nel caso di imminente pericolo di vita
di un famigliare o di un convivente, ovvero per altri eventi famigliari di eccezionale gravità; b) permessi
premio finalizzati sia a scongiurare gli effetti desocializzanti del carcere, sia a garantire ordine e disciplina al
suo interno, concessi per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro ai condannati che
hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolosi. Questi rispondono all’idea di
esecuzione progressiva della pena detentiva (i condannati alla reclusione superiore a 4 anni ne possono
fruire solo dopo aver scontato almeno un quarto di pena; quelli all’ergastolo dopo almeno 10 anni).
L n 165/1998 Simeone: riforma ulteriore delle misure alternative alla detenzione. L’innovazione riguarda la
sospensione dell’esecuzione delle pene detentive fino a 3 anni (ora 4 nei casi in cui potrebbe essere
applicata la detenzione domiciliare, 6 quando si tratti di pena inflitta per reati commessi in stato di
tossicodipendenza); previsione della possibilità di applicare l’affidamento in prova prescindendo
dall’osservazione della personalità in istituto nei confronti di tutti i condannati; ampliamento area
applicativa della detenzione domiciliare. L n 251/2005 ex Cirielli: restrizioni all’accesso a istituti di favore
(permessi-premio e misure alternative alla detenzione) previste per il recidivo; introduzione di una nuova
ipotesi di detenzione domiciliare. In sintesi, le riforme succedutesi a partire dal 1998 hanno ampliato
notevolmente l’ambito applicativo delle misure alternative, ricomprendendovi anche forme di criminalità
medio-grave. Tale ampliamento non è stato però accompagnato dal necessario rafforzamento degli organi
di polizia e del servizio sociale deputati al controllo e al sostegno del condannato. Nuovo regolamento del
2000 recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà:
interventi sulla disciplina del lavoro all’esterno e dei colloqui; disposizioni circa il trattamento dei detenuti
stranieri, dei quali devono esser tenute in considerazione le difficoltà linguistiche e le differenze culturali.
Le misure alternative alla detenzione: in un momento successivo alla pronuncia della condanna, se si tratta
di condanna alla reclusione, arresto e a determinate condizioni all’ergastolo, il tribunale di sorveglianza può
disporre che tale pena venga eseguita con particolari modalità, artt. 47 ss. Ord. Penit. Designati dalla legge
come misure alternative alla detenzione. artt. 47 ss. ord penit: affidamento in prova al servizio sociale(per
un periodo di prova di durata pari a quello della pena detentiva da scontare e con sottoposizione ad una
serie di obblighi e divieti), detenzione domiciliare(espiazione della pena presso la propria abitazione o in
luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza con sottoposizione a una serie di obblighi e divieti);
esecuzione della pena detentiva presso il domicilio: applicabile ai condannati a pena detentiva (anche
recidivi reiterati) che siano in attesa di esecuzione di una pena detentiva non superiore a 18 mesi o che
stiano scontando la pena in carcere a condizione che il residuo non sia superiore a 18 mesi. Semilibertà:
facoltà di uscire dall’istituto di detenzione per il tempo strettamente necessario a partecipare ad attività
lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale con sottoposizione a una serie di obblighi e
divieti. Espulsione dello straniero: privo del permesso di soggiorno che deve scontare anche come pena
residua una pena detentiva non superiore a 2 anni. Nella prassi hanno larga applicazione l’affidamento in
prova e la detenzione ai domiciliari. Tali misure non sono tipi autonomi di pena, bensì “modalità di
esecuzione della pena detentiva”; parlano in questo senso due considerazioni: a) l’applicazione delle misure

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alternative non è disposta dal giudice di cognizione che pronuncia la condanna e infligge la pena, bensì da
un giudice diverso (il tribunale di sorveglianza) in un momento successivo alla condanna; b) l’applicazione
delle misure alternative presuppone di regola l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva (vi sono
eccezioni). L’accesso a tali misure è precluso, ai sensi dell’art 4 bis ord penit, agli autori di alcuni reati di
particolare gravità, che mantengano collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Una serie di
restrizioni all’accesso a tali misure è prevista nei confronti del recidivo reiterato il quale, tra l’altro, non può
usufruire più di una volta dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare e della semilibertà.
A norma del tu immigrazione, nei confronti dello straniero privo di permesso di soggiorno che deve
scontare una pena detentiva non superiore a 2 anni (anche come pena residua) può essere disposta
l’espulsione a titolo di misura alternativa. Allo straniero, privo del permesso di soggiorno, può esser
concesso, inoltre, l’affidamento in prova al servizio sociale. Affidamento in prova al servizio sociale (art 47):
il condannato viene sottoposto ad un periodo di prova di durata pari a quella della pena detentiva da
scontare: durante tale periodo egli soggiace ad una serie di obblighi e divieti e nel contempo è affidato,
fuori dell’istituto penitenziario, al servizio sociale, che svolge funzioni di controllo e di aiuto. Se la prova ha
esito positivo si estingue la pena e viene meno ogni effetto penale della condanna. All’atto dell’affidamento,
il tribunale di sorveglianza può dettare “prescrizioni” relative ai rapporti del condannato con il servizio
sociale, al lavoro, alla libertà di locomozione, alla dimora, alla frequentazione di determinati locali o
persone: questa serie di obblighi e divieti non ha carattere né vincolante né tassativo: al condannato può
essere imposta qualsiasi prescrizione che gli impedisca di svolgere attività o di avere rapporti personali che
possano portare al compimento di altri reati. Il tribunale di sorveglianza è invece tenuto a disporre che
l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato ed adempia agli obblighi di
assistenza familiare. Ambito applicativo: la pena detentiva inflitta (al netto della parte già espiata o
altrimenti estinta) non deve superare 3 anni. Tale limite è stato elevato a 4 anni, a condizione che il
condannato abbia serbato un comportamento che lo faccia apparire meritevole dell’applicazione della
misura. Per l’ammissione alla misura alternativa non è più indispensabile che il condannato abbia trascorso
un periodo in carcere destinato all’osservazione della personalità: la legge Simeone ha stabilito che
l’affidamento possa essere disposto anche senza osservazione della personalità in istituto (eccezione per gli
autori di delitti sessuali). Per poter concedere l’affidamento in prova è necessario che il tribunale di
sorveglianza ritenga che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione
del pericolo che egli commetta altri reati (prevenzione speciale nella forma della rieducazione e
neutralizzazione). Revoca provvedimento: un comportamento del condannato “contrario alla legge o alle
prescrizioni” impostegli, comporterà revoca solo se la violazione commessa appaia “incompatibile con la
prosecuzione della prova”: in tal caso spetta al tribunale di sorveglianza determinare la residua pena
detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo
comportamento durante il periodo trascorso in prova. Prassi: larga applicazione. Forme speciali dell’istituto
sono previste per i soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria (non è previsto
alcun limite di pena concreta), nonché per i tossico e alcool dipendenti (limite fissato in 6 anni di pena
detentiva ovvero in 4 anni nei casi dell’art 4 bis): contenuti di tipo quasi esclusivamente terapeutico.
Detenzione domiciliare (art 47 ter): introdotta dalla l Gozzini, comporta l’espiazione della pena detentiva
nell’abitazione del condannato, o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura,
assistenza o accoglienza. Il condannato è sottoposto a prescrizioni fissate dal tribunale di sorveglianza: il
condannato non deve allontanarsi dal luogo in cui espia la pena (salvo casi eccezionali) ed inoltre, ove il
giudice lo ritenga necessario, non deve comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o
che lo assistono. Se il condannato in regime di detenzione domiciliare si allontana dal luogo in cui sta
espiando la pena, risponde di “evasione” (la madre di prole di età non superiore a 10 anni ammessa alla
detenzione domiciliare speciale, risponde di evasione solo nel caso in cui l’assenza senza giustificato motivo
si protragga oltre le 12 ore. Ratio: esigenze connesse alla cura dei bambini). La condanna per evasione
comporta, inoltre, la “revoca” dal regime di detenzione domiciliare. La revoca è disposta anche in caso di
comportamento contrario alla legge o alle prescrizioni, ove il giudice ritenga quel comportamento
incompatibile con la prosecuzione della misura. Ulteriore causa di revoca è il venir meno delle condizioni
che hanno determinato l’ammissione del condannato alla detenzione domiciliare. In caso di revoca, dalla
pena detentiva da espiare verrà detratto il periodo trascorso in detenzione domiciliare. Circa il controllo sul

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condannato, vi è la possibilità che si faccia ricorso a mezzi elettronici a condizione che le autorità preposte
al controllo abbiano la disponibilità di quei mezzi e che il condannato accetti di essere sorvegliato
elettronicamente. Campo di applicazione: 1) introdotta dalla l ex Cirielli: la misura si indirizza al condannato
alla pena della reclusione, il quale, all’inizio dell’esecuzione o nel corso di essa, abbia compiuto i 70 anni di
età, purché non sia stato mai condannato con l’aggravante della recidiva. E’ applicabile indipendentemente
dall’entità della pena inflitta, purché si tratti della reclusione. Risultano esclusi i condannati all’ergastolo e
all’arresto, nonché chi sia stato condannato alla reclusione per alcuni gravissimi reati (mafia, schiavitù,
violenza sessuale). 2) art 47 ter co 1, destinatari: la donna incinta o madre di prole di età inferiore a 10 anni,
con le convivente; il padre qualora la madre sia deceduta ovvero sia impossibilitata ad assistere il minore; la
persona gravemente inferma, che necessiti di costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;
l’ultrasessantenne se inabile anche parzialmente; il minore di anni 21, che abbia comprovate esigenze di
salute, studio, lavoro o famiglia. In tutti questi casi è necessario che la pena da espiare, se si tratti della
reclusione, non superi il limite di 4 anni; nessun limite quantitativo è previsto per l’arresto.
3) “detenzione domiciliare umanitaria”, introdotta dalla l Simeone, riguarda i casi in cui gli artt. 146 e 147
c.p. prevedono il rinvio dell’esecuzione della pena detentiva, qualunque sia l’ammontare della pena.
4) “detenzione domiciliare generica”, introdotta dalla l Simeone, applicabile a qualsiasi condannato (purché
la condanna non sia stata pronunciata per uno dei delitti di cui all’art 4 bis) che debba scontare una pena
detentiva non superiore a 2 anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, quando non
ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova e sempre che la detenzione domiciliare sia idonea ad
evitare il pericolo che il condannato commetta nuovi reati. 5) soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave
deficienza immunitaria che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura e assistenza.
6) “detenzione domiciliare speciale”: riservata alle madri di prole di età non superiore ad anni 10,
condannate ad una pena eccedente i 4 anni, che abbiano espiato almeno un terzo della pena, ovvero 15
anni nel caso di condanna all’ergastolo. E’ necessario accertare che non sussista un concreto pericolo di
commissione di ulteriori delitti e che vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Idem per il
padre, qualora la madre sia deceduta o impossibilitata. Carattere speciale: il condannato viene sempre
autorizzato a trascorrere parte della giornata all’esterno del domicilio ed è sottoposto ad interventi di
controllo e di sostegno da parte del servizio sociale. Prassi: nata come misura di carattere eccezionale,
ispirata ad una logica umanitaria, la detenzione domiciliare si è trasformata in uno strumento di deflazione
della popolazione carceraria. Tuttavia prospetta, oggi, seri problemi di effettività, legati ai controlli.
Esecuzione della pena detentiva presso il domicilio: istituto introdotto come misura temporanea nel 2010,
ma attualmente reso definitivo. La misura è applicabile a condannati a pena detentiva, anche recidivi
reiterati, che siano in attesa di esecuzione della pena o che stiano scontando la pena in carcere, in presenza
di una serie di condizioni: che la pena da eseguire (anche residua) non sia superiore a 18 mesi, che non vi
sia pericolo di fuga e che esista un domicilio idoneo ed effettivo. Si tratta di ipotesi in cui non possono in
concreto trovare applicazione né la sospensione condizionale della pena, né una pena sostitutiva, né una
delle misure alternative. Ratio: deflazione penitenziaria. Semilibertà (artt. 48 ss.): il condannato trascorre la
maggior parte della giornata all’interno di un istituto di pena (di regola specificamente destinato ad
accogliere soggetti in regime di semilibertà), salvo uscirne il tempo necessario per partecipare ad attività
lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Si tratta dunque di un correttivo agli effetti
de socializzanti della pena detentiva, che di regola interviene dopo l’espiazione in forma “chiusa” di una
parte della pena, secondo il modello dell’esecuzione progressiva delle pene detentive. Dispone l’art 50 ord
penit che “l’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del
trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società”.
Per il passaggio dall’esecuzione chiusa delle pane detentiva alla semilibertà, la legge richiede che il
condannato alla reclusione in misura superiore a 6 mesi abbia espiato almeno metà della pena; per
l’ergastolo è richiesta l’espiazione di almeno 20 anni di pena. L’espiazione di metà della pena non è però
necessaria per i condannati alla reclusione fino a 3 anni, quando il condannato abbia chiesto l’affidamento
in prova al servizio sociale e il tribunale di sorveglianza ritenga di non accogliere quella richiesta, ma di
poter ammettere il condannato al regime di semilibertà. In via di eccezione, la semilibertà può esser
applicata sin dall’inizio quando si tratti di condannato alla pena dell’arresto o alla pena della reclusione non
superiore a 6 mesi. La revoca può esser disposta in ogni tempo quando il soggetto non si appalesi idoneo al

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trattamento. Qualora il condannato, senza un giustificato motivo, non rientra in istituto: se l’assenza non
supera le 12 ore, vi è una punizione disciplinare e può essere proposta la revoca; se l’assenza si protrae più
a lungo, il condannato risponderà di una nuova forma di evasione.: e la condanna per questo delitto
comporterà anche la revoca del regime di semilibertà. Prassi: marginale. Liberazione anticipata: istituto che
comporta la detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata a beneficio del condannato a pena
detentiva (arresto, reclusione, ergastolo) che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione:
oltre a ridurre la durata della pena da espiare, tale istituto anticipa i tempi previsti dalla legge perché il
condannato possa essere ammesso ai permessi-premio, alla semilibertà e alla liberazione condizionale. La
detrazione di pena è stata momentaneamente aumentata (sino al 24 dicembre 2015) da 45 a 75 giorni, con
l’eccezione dei condannati per delitti di cui all’art 4 bis. L’esecuzione della pena detentiva per gli esponenti
della criminalità organizzata: l’insieme della normativa penitenziaria risulta suddiviso in 2 sottoinsiemi: il
primo, riguardante i condannati per reati di criminalità comune, si è progressivamente avvicinato al
modello dell’art 27 co 3 cost; il secondo, riguardanti i reati di criminalità organizzata, è ispirato ad una
logica di neutralizzazione in quanti si ritiene che il condannato per reati di criminalità organizzata, il quale
mantenga collegamenti con le organizzazioni criminali, non è disposto ad essere aiutato dallo Stato a
reinserirsi nella società nel rispetto della legge. Questa “bipartizione” è stata introdotta, a partire dagli anni
90, dalla cd “legislazione d’emergenza”: si è cosi delineato, in primo luogo, un sistema di preclusioni che
impediscono (o ritardano) l’accesso di determinate categorie di condannati all’ordinario sistema dei
benefici penitenziari. Art 4 bis ord penit: l’accesso alle misure alternative (fatta eccezione per la liberazione
anticipata), al lavoro all’esterno e ai permessi-premio risulta precluso: a) ai detenuti o internati per alcuni
reati di particolare gravità (associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione
finalizzata al traffico di stupefacenti, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, terrorismo) salvo che
siano collaboratori di giustizia o ricorrano altri elementi che escludano l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata; b) ai detenuti o internati per altri gravi reati (omicidio doloso, rapina aggravata)
qualora vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o
eversiva; c) ai detenuti o internati per delitti dolosi, quando il procuratore nazionale antimafia o il
procuratore distrettuale comunica l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.  l Simeone ha
escluso i condannati per i delitti di cui all’art 4 bis dalla sospensione dell’esecuzione della pena detentiva.
In secondo luogo, nei confronti degli autori dei reati di cui all’art 4 bis, se ricorrono elementi tali da far
ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’ordinamento
penitenziario prevede un regime detentivo speciale, caratterizzato da penetranti limitazioni dei rapporti
all’interno del carcere e delle comunicazioni tra detenuti e società esterna: si tratta del cd “carcere duro”, la
cui disciplina è contenuta nell’art 41 bis co 2 ord penit. Il Ministro della Giustizia ha la facoltà di sospendere,
in tutto o in parte, l’applicazione delle regole del trattamento e degli istituti, previsti dall’ordinamento
penitenziario, che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza: il
provvedimento può essere adottato quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ossia
per impedire i collegamenti con le associazioni criminali, terroristiche o eversive.
Tra l’altro, quali contenuti del regime detentivo speciale sono previste: a) misure per prevenire contatti
all’interno del carcere con membri dell’organizzazione di appartenenza ovvero contrasto con elementi di
organizzazioni contrapposte; b) limitazioni del numero, dei destinatari e della riservatezza dei colloqui; c)
limitazioni alla facoltà di ricevere beni provenienti dall’esterno; d) la censura sulla corrispondenza; e)
limitazioni della durata della permanenza all’aperto (cd ore d’aria) e del numero delle persone con le quali
avere contatti in quelle ore. Quanto alla durata, il carcere duro può essere disposto per un periodo di 4
anni, con possibilità di proroghe biennali. Prassi: nel 2015 sono 725 i detenuti sottoposti al regime del 41
bis. Le ipotesi di rinvio dell’esecuzione della pena: il c.p. prevede una serie tassativa di ipotesi nelle quali il
tribunale di sorveglianza “deve” rinviare l’esecuzione della pena (rinvio obbligatorio ex art 146) ovvero
“può” rinviarla (rinvio facoltativo ex art 147). Assume poi autonoma rilevanza l’ipotesi dell’infermità
mentale sopravvenuta alla condanna, disciplinata dall’art 148. Rinvio obbligatorio: art 146 c.p.:
“L’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita a) se deve aver luogo nei confronti di donna
incinta; b) di madre di infante di età inferiore ad anni 1; c) di persona affetta da AIDS conclamata o da grave
deficienza immunitaria ovvero altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni
di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della

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malattia così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili e alle terapie curative. Nei casi “a” e
“b” il differimento non opera o, se concesso, è revocato se la gravidanza si interrompe, se la madre è
dichiarata decaduta dalla potestà sul figlio, il figlio muore, viene abbandonato ovvero affidato ad altri,
sempreché l’interruzione di gravidanza o il parto siano avvenuti da oltre 2 mesi”. Tale art interessa in primo
luogo le pene detentive, ma si applica anche alla semidentezione e alla libertà controllata nonché alle pene
della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità. Rinvio facoltativo: art 147 c.p.: “L’esecuzione
di una pena può essere differita: a) se è presentata domanda di grazia, e l’esecuzione della pena non deve
essere differita a norma dell’art precedente; b) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere
eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica; c) se una pena restrittiva della libertà
personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a 3 anni. Nel caso “a”
l’esecuzione della pena non può essere differita per un periodo superiore complessivamente a 6 mesi, a
decorrere dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, anche se la domanda di grazia è
successivamente rinnovata. Nel caso “c” il provvedimento è revocato, qualora la madre sia dichiarata
decaduta dalla potestà sul figlio, il figlio muoia, venga abbandonato ovvero affidato ad altri che alla madre.
Il provvedimento di cui al co 1 non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto
pericolo della commissione di delitti”. Grave infermità fisica, 2 requisiti: a) gravità oggettiva della malattia;
b) possibilità di fruire, in stato di libertà, di cure diverse e più efficaci di quelle che possono essere fornite in
regime di detenzione. Tale art interessa in primo luogo le pene detentive, ma si applica anche alla
semidentezione e alla libertà controllata nonché alle pene della permanenza domiciliare e del lavoro di
pubblica utilità.
Rinvio dell’esecuzione della pena e detenzione domiciliare: art 47 ter ord penit: “Quando potrebbe essere
disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ex artt. 146 e 147 c.p., il tribunale di
sorveglianza, anche se la pena supera il limite di 4 anni, può disporre l’applicazione della detenzione
domiciliare, stabilendo un termine di durata di tale applicazione, termine che può essere prorogato.
L’esecuzione della pena prosegue durante la esecuzione della detenzione domiciliare”.
Potere discrezionale del giudice eccezionalmente ampio nella scelta tra differimento e detenzione
domiciliare. Si ritiene che il giudice debba assumere come regola l’ammissione alla misura alternativa e
soltanto come eccezione il provvedimento ex artt. 146 e 147 c.p., qualora l’immediata esecuzione della
pena, nella forma della detenzione domiciliare, non risponda né all’interesse pubblico né a quello del
condannato. Altre volte, invece, la giurisprudenza afferma che la detenzione domiciliare possa essere
applicata, in luogo del rinvio dell’esecuzione della pena, in tutti i casi in cui, malgrado la presenza di gravi
condizioni di salute, il condannato sia in grado di partecipare consapevolmente al processo rieducativo
attuato attraverso gli interventi del servizio sociale e residui un margine di pericolosità sociale che faccia
ritenere ancora necessario un controllo da parte dello Stato. Infermità psichica sopravvenuta alla
condanna: art 148 c.p.: “Se, prima dell’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale o durante
l’esecuzione, sopravviene al condannato una infermità psichica, il giudice, qualora ritenga che l’infermità
sia tale da impedire l’esecuzione della pena, ordina che questa sia differita o sospesa o che il condannato
sia ricoverato in un ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Il giudice può
disporre che il condannato, invece che in un ospedale psichiatrico giudiziario, sia ricoverato in un ospedale
psichiatrico civile, se la pena inflittagli sia inferiore a 3 anni di reclusione o di arresto, e non si tratti di
delinquente o contravventore abituale, o professionale, o per tendenza. Il provvedimento di ricovero è
revocato, e il condannato è sottoposto all’esecuzione della pena, quando sono venute meno le ragioni che
hanno determinato tale provvedimento”. Rapporti tra artt. 147 co 1 n 2 e 148: reciproca esclusione.
L’art 148 sembra ispirato alla salvaguardia non tanto di esigenze terapeutiche del condannato, quanto
dell’economia e funzionalità dell’esecuzione. Il ricovero in ospedale psichiatrico avviene non quando le
strutture sanitarie del carcere siano inadeguate a curare il condannato, ma allorché l’infermità sia tale da
impedire l’esecuzione della pena. La natura del provvedimento ex art 148 è stata innovata ad opera della
Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità dell’art 148 nella parte in cui prevede che il giudice,
nel disporre il ricovero del condannato in un ospedale psichiatrico giudiziario, in una casa di cura e di
custodia ovvero in un ospedale civile, ordini la sospensione della pena: ciò viola il principio costituzionale di
eguaglianza, comportando un’irragionevole disparità di trattamento tra il condannato e l’imputato colpito
da infermità mentale sopravvenuta, a beneficio del quale la giurisprudenza prevalente ammetteva lo

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scomputo del periodo di ricovero dai termini massimi di custodia preventiva. Con tale decisione la Corte ha
imposto lo scomputo del periodo di internamento: ha imposto che il periodo trascorso dal condannato
nell’ospedale psichiatrico giudiziario, nella casa di cura e custodia o nell’ospedale civile valga come
esecuzione della pena, detraendosi dalla durata complessiva della pena.  l’art 148 c.p. oggi non prevede
più un rinvio o una sospensione dell’esecuzione della pena, bensì un mutamento del suo regime esecutivo.
Il regime della detenzione domiciliare, applicato nei casi di infermità psichica sopravvenuta al condannato
a pena privativa di libertà, consente che tale pena venga eseguita presso un ospedale civile anche oltre il
termine fissato dall’art 148 c.p., che prevede questa possibilità soltanto per il condannato alla reclusione o
all’arresto inferiori a 3 anni: a norma dell’art 47 ter co 1, la detenzione domiciliare può applicarsi al
condannato all’arresto qualunque sia l’ammontare della pena, e al condannato alla reclusione fino ad un
massimo di 4 anni. Al di sopra dei 4 anni di reclusione permane l’alternativa secca fra carcere e ospedale
psichiatrico giudiziario. Le cause di estinzione della pena: vd schema. Disciplina comune: caso del concorso
di cause estintive che intervengano contemporaneamente ovvero in tempi diversi. A) opera la causa più
favorevole, cioè quella che ha un più ampio effetto estintivo; ma le eventuali sanzioni residue potranno
essere estinte dalle altre cause in concorso. B) deve applicarsi la causa estintiva intervenuta per prima; si
applicheranno anche quella o quelle successive, per far cessare l’esecuzione delle pene che non siano
ancora estinte in conseguenza della causa antecedente. Problema dell’applicabilità al delitto tentato delle
esclusioni di taluni tipi di reato dal campo di applicazione di cause di estinzione come l’amnistia impropria e
l’indulto. Soluzione del libro: le esclusioni abbracciano anche il delitto tentato (sia perché il tentativo non è
una figura di reato a sé ma solo una particolare forma di manifestazione di una figura di reato; sia perché la
ratio dell’esclusione di un determinato tipo di reato dal campo applicativo di una causa di estinzione risiede
nel peculiare disvalore di quel tipo di reato, che è qualitativamente invariato sia che il delitto giunga a
consumazione sia che si arresti allo stadio del tentativo). Infine, ci si chiede se l’esclusione di un’ipotesi
aggravata di reato dall’area applicativa di cause di estinzione come l’amnistia impropria o l’indulto venga
meno quando la circostanza aggravante risulti elisa nel giudizio di bilanciamento con una o più circostanze
attenuanti ai sensi dell’art 69 c.p.. Risposta negativa: l’esclusione permane perché il suo fondamento
politico-criminale è l’oggettiva astratta gravità dell’ipotesi circostanziata, che non viene intaccata
dall’eventuale presenza di una o più circostanze attenuanti, che potranno incidere solo sulla misura della
pena da infliggere nel caso concreto. Amnistia impropria: provvedimento generale di clemenza, adottato
con legge deliberata a maggioranza di 2/3 dei componenti di ciascuna camera (art 79 cost.). a differenza
della propria, interviene dopo la sentenza definitiva di condanna. L’amnistia impropria fa cessare
l’esecuzione delle pene principali e delle pene accessorie, mentre non estingue gli effetti penali della
condanna. Come per la propria, le figure di reato vengono individuate dalla legge con riferimento al
massimo della pena edittale (es: ogni reato per il quale è prevista una pena detentiva non superiore nel
massimo a 4 anni); possono essere previste esclusioni per tipi di reato; salvo diversa previsione contenuta
nella singola legge di amnistia, il provvedimento non si applica ai recidivi né ai delinquenti abituali,
professionali o per tendenza. L’amnistia impropria è applicata dal giudice dell’esecuzione e può essere
sottoposta, ove lo preveda la singola legge, a condizioni (sospensive o risolutive) o obblighi. Morte del reo:
principio di personalità della responsabilità penale. L’unica sanzione penale di cui può continuare
l’esecuzione è la confisca in quanto colpisce le cose e non la persona del condannato. La morte del reo non
comporta l’estinzione delle obbligazioni civili da reato, che si trasmettono agli eredi: fanno eccezione le
obbligazioni inerenti alle spese di mantenimento in carcere del condannato, nonché l’obbligo di rimborsare
le spese del processo penale. Prescrizione della pena: decorso un certo lasso di tempo dopo la pronuncia
della sentenza definitiva di condanna. Estingue la pena principale (tranne l’ergastolo), non estingue ne le
pene accessorie ne gli effetti penali della condanna. il termine decorre dal giorno in cui la condanna è
divenuta irrevocabile; nel caso in cui sia iniziata l’esecuzione della pena, e l’esecuzione si interrompa per un
fatto volontario del condannato, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno successivo a quello in cui il
condannato si è volontariamente sottratto all’esecuzione. La pena della reclusione si estingue in un tempo
pari al doppio della pena inflitta, entro i limiti minimo-massimo di 10 e 30 anni; la pena della multa si
estingue in 10 anni; se la multa è inflitta congiuntamente alla reclusione, la prescrizione matura per
entrambe le pene nel tempo stabilito per la reclusione. Per “pena inflitta” si intende la pena da scontare in
concreto. In caso di concorso di reati, e di reato continuato, si deve fare riferimento alla pena inflitta per i

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singoli reati. Le pene dell’arresto e dell’ammenda si prescrivono in 5 anni, anche nell’ipotesi in cui siano
applicate congiuntamente. Una disciplina speciale, più gravosa, è prevista per i recidivi (tranne per quelli
semplici) e per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; nei loro confronti sono imprescrittibili le
pene della reclusione e della multa, mentre le pene dell’arresto e dell’ammenda si prescrivono in un tempo
doppio rispetto a quello ordinario, cioè in 10 anni. Sono altresì imprescrittibili le pene della reclusione e
della multa se il condannato, durante il tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna
alla reclusione per un delitto della stessa indole. L’indulto: provvedimento generale di clemenza, adottato
con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 di ciascuna camera (art 79 cost.). estingue la pena principale (in
tutto o in parte) o in alternativa la commuta in altra pena principale meno grave. Non estingue gli effetti
delle pene accessorie salvo diversa previsione nel provvedimento di concessione. Non estingue gli effetti
penali della condanna. potere di clemenza originariamente attribuito al Presidente della Repubblica in forza
di legge di delegazione del parlamento, ma dal 1992 riservato in via esclusiva al parlamento, che lo concede
con legge approvata a maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera. La legge di concessione
fissa il termine iniziale di applicazione dell’indulto, che non può comunque essere applicato ai reati
commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge; la legge individua inoltre i tipi di pena e
la loro misura per l’applicabilità dell’indulto, eventualmente disponendo l’esclusione delle pene inflitte per
alcune categorie di reati. L’effetto è di condonare (cioè non fare eseguire), in tutto o in parte, la pena
principale inflitta con la sentenza di condanna, ovvero di commutarla, cioè sostituirla con un’altra pena
meno grave. Tutte le pene principali possono essere commutate o condonate. Quanto a quelle accessorie il
c.p. è nel senso che l’indulto non si estende a questa tipologia di pene, ma lo stesso codice fa salva la
possibilità che il provvedimento di concessione dell’indulto disponga diversamente. L’indulto non estingue
gli effetti penali della condanna. L’indulto impedisce che vengano disposte misure di sicurezza (a meno che
non si tratti della confisca o altre misure per le quali la legge stabilisce che possono essere ordinate in ogni
tempo), se invece la misura di sicurezza è stata già ordinata e si tratta di indulto totale, questo impedisce
l’esecuzione della misura di sicurezza, ovvero la fa cessare. Tale effetto dell’indulto non si produce se la
misura di sicurezza accede alla condanna alla pena della reclusione superiore a 10 anni. L’indulto è
applicato dal giudice dell’esecuzione (indulto proprio) o dal giudice di cognizione al momento della
pronuncia della condanna (indulto improprio); in quest’ultimo caso gli effetti estintivi si verificano solo al
momento del passaggio in giudicato della sentenza (l’applicazione dell’indulto è provvisoria e condizionata
alla formazione del giudicato). Nel caso di concorso di reati l’indulto si applica una sola volta sulla pena
cumulata, cioè dopo che il giudice dell’esecuzione ha cumulato le pene inflitte con una o con più sentenze.
Preclusioni soggettive: riguardano il recidivo, non semplice, nonché il delinquente abituale, professionale o
per tendenza: tali preclusioni operano a condizione che la legge non disponga altrimenti. L’indulto può
essere revocato se la legge che lo concede prevede condizioni risolutive; qualora venga sottoposto a
condizioni sospensive, il giudice dell’esecuzione sospende l’applicazione dell’indulto finché la condizione
non sia stata adempiuta entro il termine fissato dalla legge. In presenza dei presupposti per l’applicazione
sia dell’indulto che della sospensione condizionale della pena, il giudice deve applicare solo quest’ultima. La
grazia: provvedimento di clemenza individuale, che si rivolge ad uno o più singoli condannati, e la cui
concessione è riservata al pres della rep. Oltre che a seguito di domanda del condannato o di una cerchia di
soggetti indicati dal c.p.p., può essere concessa dal pres della rep anche in assenza di domanda. La
controfirma del Ministro della Giustizia è necessaria solo per la validità formale dell’atto del pres della rep,
e non vale a subordinare la concessione della grazia all’assenso del ministro, che non dispone di un potere
di veto. L’effetto estintivo della grazia può consistere sia nel condono totale o parziale della pena inflitta, sia
nella commutazione in altra e mono grave specie di pena. La portata estintiva della grazia è limitata alle
pene principali e può estendersi a quelle accessorie solo se il singolo decreto presidenziale disponga in
questo senso. Estingue in tutto o in parte la pena principale o la commuta in altra pena principale meno
grave. Non estingue le pene accessorie salvo diversa previsione del provvedimento di concessione. Non
estingue, in ogni caso, gli effetti penali della condanna. possibilità che il provvedimento di grazia sia
sottoposto a condizioni, l’inadempimento delle quali comporta la revoca della grazia; in tal caso il
condannato dovrà espiare la pena o la parte di pena a suo tempo condonata. Il condannato non può
rifiutare la grazia: questi ha l’obbligo, non il diritto di scontare la pena (ciò non vale per l’amnistia propria).
La non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale: concessa dal giudice se: è inflitta

129
una pena non superiore a 2 anni; oppure è inflitta una pena detentiva non superiore a 2 anni
congiuntamente con una pena pecuniaria che priverebbe complessivamente il condannato della libertà
personale per un tempo non superiore a 2 anni e mezzo; oppure se si tratta di una prima condanna (o di
una successiva condanna per reati commessi anteriormente ad una prima condanna, purché la pena inflitta
cumulata con quelle precedentemente irrogate non superi i predetti limiti quantitativi. Agli effetti penali
esclude la menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale rilasciato a richiesta dei privati,
non per ragioni elettorali. la certificazione dei precedenti giudiziari iscritti nel casellario può provocare
effetti di stigmatizzazione sociale qualora la certificazione venga richiesta da un privato.  finalità della non
menzione: evitando che la condanna venga resa nota nell’ambiente sociale, si evita il pregiudizio al buon
nome della persona e non si compromettono o intralciano le sue possibilità di lavoro. Soggetta a revoca
allorché il condannato commetta un nuovo delitto (non una contravvenzione), di qualsiasi specie o gravità.
La liberazione condizionale: è una sorta di causa sospensiva dell’esecuzione di una parte della pena
detentiva inflitta, concessa dal tribunale di sorveglianza alle condizioni di cui all’art 176in relazione a pene
detentive di lunga durata (almeno 5 anni) estingue gli effetti della pena principale ma solo all’esito della
prova e quindi dopo un tempo pari alla durata della pena residua o dopo 5 anni in caso di ergastolo. si
applica solo a chi ha scontato almeno 30 mesi o comunque la metà della pena inflittagli.  di conseguenza,
l’istituto non si applica alle pene detentiva di ammontare inferiore a 5 anni. Trattasi di una causa sospensiva
dell’esecuzione di una parte della pena principale inflitta, cui consegue l’estinzione della pena nel caso in
cui il liberato condizionalmente superi la prova alla quale è sottoposto: cioè se nel periodo corrispondente
alla durata della pena residua ovvero entro 5 anni dal provvedimento di liberazione condizionale,
trattandosi di condannato all’ergastolo, non commette un nuovo delitto, né una contravvenzione della
stessa indole, né viola gli obblighi inerenti alla libertà vigilata.
Le condizioni di ammissione riguardano in primo luogo l’ammontare della pena già scontata: trattandosi
della pena dell’ergastolo, il condannato deve aver scontato almeno 26 anni di pena; trattandosi della pena
della reclusione o dell’arresto, almeno 30 mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli. Se si tratta
di recidivo (non semplice) tali condizioni sono più gravose: il condannato deve aver scontato almeno 4 anni
di pena e non meno di ¾ della pena inflittagli. Una seconda condizione riguarda l’ammontare della pena
residua, che non deve superare i 5 anni Tali limiti non operano nei confronti del minore, nei confronti del
quale la liberazione condizionale può essere ordinata in qualsiasi momento dell’esecuzione della pena,
qualunque sia l’entità della pena inflitta. Terza condizione è l’aver adempiuto alle obbligazioni civili
derivanti dal reato (restituzioni, risarcimento del danno, rimborso delle spese). Tale condizione non opera
quando il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierla. Quarta condizione è che il
condannato, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far
ritenere sicuro il suo ravvedimento: il giudice deve attenersi ad indicatori esteriori quali la partecipazione
all’attività di lavoro e di studio, il fattivo intendimento di riparare le conseguenze dannose, le manifestazioni
di altruismo e solidarietà sociale. Vanno privilegiati parametri obiettivi di riferimento rispetto ad indagini di
tipo psicologico. La nozione di “ravvedimento” comprende il complesso dei comportamenti concretamente
tenuti ed esteriorizzati dal soggetto durante il tempo dell’esecuzione della pena, obiettivamente idonei a
dimostrare la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare in termini di certezza
un ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del
condannato all’osservanza delle leggi, in precedenza violate. Una volta che il giudice (tribunale di
sorveglianza) abbia disposto la liberazione condizionale, si aprono per il condannato due possibilità: 1)
estinzione della pena, che può prodursi dopo un arco di tempo pari alla durata della pena residua o dopo 5
anni dalla data del provvedimento nei confronti del condannato all’ergastolo. In tal caso sono anche
revocate le misure di sicurezza personali. 2) revoca della liberazione condizionale, che viene disposta dal
tribunale di sorveglianza se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa
indole, ovvero trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata. In tal caso, viene disposta l’esecuzione
di tutta o parte della pena residua, con una decisione del tribunale di sorveglianza che terrà conto sia della
qualità e gravità dei comportamenti che hanno portato alla revoca, sia del tempo trascorso in libertà
vigilata osservando le relative prescrizioni. La sospensione condizionale della pena: sospende l’esecuzione
delle pene principali e accessorie. È concessa dal giudice di cognizione, in presenza dei presupposti che
riguardano: il tipo e l’ammontare della pena inflitta (max 2 anni che diventano 2 anni e 6 mesi o 3 anni in

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casi particolari); i precedenti penali del condannato; la previsione dei suoi futuri comportamenti. Estingue la
pena principale ma solo all’esito della prova e quindi dopo 5 anni in caso di condanna per delitti, e 2 anni in
caso di condanna per contravvenzione. Estingue le pene accessorie ma solo all’esito della prova quindi
dopo 5 o 2 anni, come per la pena principale. Non estingue gli effetti penali. strumento per la lotta alla pena
detentiva breve. Originariamente riservato a chi riportasse condanna a una pena non eccedente i 6 mesi 
estensione area applicativa, sino all’attuale livello di 2 anni, che si innalza a 2 anni e mezzo per i cd giovani
adulti (individui tra i 18 e i 21 anni) e per gli ultrasettantenni, e fino a 3 anni per chi, al momento della
commissione del fatto, era imputabile, ma non aveva compiuto gli anni 18 (ratio ampliamento: deflazione
carceraria, riconoscimento degli effetti criminogeni anche alle pene detentive non propriamente brevi:
rinuncia condizionata all’esecuzione della pena, dal momento che i danni prodotti dall’esecuzione
potrebbero risultare superiori ai benefici). L’effetto della SC è quello di sospendere l’esecuzione delle pene
(principali e accessorie) inflitte con la sentenza di condanna; l’effetto estintivo è solo condizionato ed
eventuale, producendosi solo nel caso in cui il condannato superi la prova alla quale viene sottoposto nel
periodo fissato dalla legge (5 anni se si tratta di condanna per delitto, 2 anni se contravvenzione). Del tutto
improprio appare dunque l’inquadramento di questo istituto tra le cause estintive del reato: a differenza di
queste, la SC è disposta nella sentenza di condanna, presupponendo l’accertamento della responsabilità e
l’inflizione della pena. Essa non andrebbe inquadrata nemmeno tra le cause di estinzione della pena,
perché ciò che produce l’estinzione è il superamento della prova alla quale il condannato è sottoposto
durante il periodo di sospensione dell’esecuzione. La SC, la cui applicazione è riservata al potere
discrezionale del giudice, può essere disposta anche d’ufficio, indipendentemente da una richiesta
dell’imputato. Analogo potere è riservato al giudice d’appello. Il problema della concedibilità d’ufficio della
SC si pone in relazione alle condanne alla sola pena pecuniaria, allorché il soggetto non abbia interesse nel
caso concreto all’applicazione dell’istituto: in tal caso, la Corte di cassazione ha affermato che il giudice può
disporre d’ufficio la sospensione condizionale, ma è tenuto a motivare sull’utilità dell’applicazione
dell’istituto in ragione delle finalità di prevenzione speciale a cui è rivolta la SC della pena.
Riforma 2004  2 forme di SC: ordinaria e breve. L’applicabilità della SC della pena è subordinata alla
presenza di una serie di presupposti che riguardano: a) il tipo e l’ammontare della pena inflitta; b) i
precedenti penali del condannato; c) la previsione dei suoi futuri comportamenti. a) può trattarsi della pena
della reclusione o dell’arresto di ammontare non superiore a 2 anni; ove il condannato non avesse
compiuto i 18 anni al momento del fatto, la pena detentiva può raggiungere i 3 anni; nel caso in cui il reato
sia stato commesso da persona di età superiore agli anni 18, ma inferiore agli anni 21 ovvero
dall’ultrasettantenne, la pena detentiva soggiace al limite massimo di 2 anni e 6 mesi. La SC può applicarsi
anche in caso di condanna alla multa o all’ammenda (ratio: giustizia distributiva: il condannato a pena
pecuniaria non deve subire un trattamento deteriore rispetto al condannato a pena detentiva), applicata da
sola o congiuntamente alla pena detentiva: in tal caso, il rispetto dei limiti su indicati andrà verificato
ragguagliando la pena pecuniaria alla detentiva secondo il criterio, 250 € per un giorno di pena detentiva,
fissato dall’art 135 c.p.. Una pena pecuniaria, congiunta a pena detentiva, non può essere mai di ostacolo
alla sospensione della pena detentiva se quest’ultima, di per sé, rispetta i limiti indicati. In caso di condanna
a pena pecuniaria congiunta a detentiva il giudice deve procedere al ragguaglio e al computo della pena
pecuniaria solo quando ciò consenta la sospensione dell’intera pena inflitta: quando, invece, i limiti indicati
risulterebbero superati per effetto del ragguaglio e del computo della pena pecuniaria congiunta, il giudice
non deve provvedere al ragguaglio e, in presenza degli ulteriori presupposti “b” e “c”, ordinerà la
sospensione della sola pena detentiva, mentre la pena pecuniaria congiunta sarà interamente eseguita
(raggiungimento obbiettivi sia di deflazione penitenziaria che di deflazione processuale). La SC della pena
può essere disposta anche nel caso in cui la pena detentiva inflitta sia stata sostituita con una qualsiasi pena
sostitutiva. Non sono sospendibili le pene irrogate dal giudice di pace in quanto “diritto mite ma effettivo”.
b) preclusioni soggettive all’applicabilità della SC della pena, che riguardano: b1) chi ha riportato una
precedente condanna a pena detentiva per delitto (a meno che la pena da infliggere, cumulata con quella
irrogata con la prevedente condanna, rientri nei limiti); b2) chi è stato dichiarato delinquente o
contravventore abituale o professionale; b3) chi ha già fruito una prima volta della SC della pena, a meno
che la pena inflitta in occasione della nuova condanna, cumulata con quella precedentemente inflitta,
rientri nei limiti). In ogni caso, la SC della pena non può essere concessa più di due volte. c) la SC della pena,

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presuppone che il giudice formuli una “prognosi” favorevole sul futuro comportamento del reo, ritenendo
che si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il giudice dovrà tener conto dei criteri indicati nell’art 133 c.p.
e, in particolare, di quelli relativi alla capacità a delinquere. La SC della pena può essere subordinata
all’adempimento di uno o più obblighi, tassativamente previsti (art 165 c.p.): restituzioni, risarcimento del
danno, pubblicazione sentenza, eliminazione conseguenze dannose o pericolose del reato, prestazione di
attività non retribuita a favore della collettività, per un tempo determinato comunque non superiore alla
durata della pena sospesa (per quest’ultimo obbligo è necessaria la non opposizione del condannato).
In caso di seconda concessione, la SC della pena deve essere subordinata all’adempimento di almeno uno
degli obblighi elencati (prima della riforma 2004 era fatto salvo il caso dell’impossibilità di adempiere
l’obbligo; dal 2004 non più). L 2015 n 69: nei casi di condanna per i reati di peculato, concussione e
corruzione, la SCP è comunque subordinata al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato
(art 165 co 4 c.p.). Il termine per l’adempimento degli obblighi deve essere determinato dal giudice nella
sentenza di condanna (art 165 co 5). Ratio obblighi: circa quelli patrimoniali: attenuare la reattività della
vittima, compensando la mancata esecuzione della pena. Quanto all’eliminazione delle conseguenze
dannose o pericolose del reato, lo scopo è quello di placare la reattività collettiva. Art 168 c.p.: Revoca:
obbligatoria in 5 ipotesi. A) se la SP è stata concessa, anche con sentenza di patteggiamento, per più di 2
volte, ovvero se è stata concessa una seconda volta, allorché la pena inflitta, cumulata con quella irrogata
con la precedente condanna, supera i limiti fissati dall’art 163 (in questa ipotesi, la revoca è possibile in ogni
momento, anche dopo che la condanna a pena illegittimamente sospesa è divenuta irrevocabile). Inoltre,
la revoca è obbligatoria se entro 5 anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna che ha
disposto la SC, trattandosi di condanna per delitto, ovvero entro 2 anni, trattandosi di condanna per
contravvenzione, il condannato: B) non adempie entro il termine stabilito dal giudice gli obblighi imposti a
norma dell’art 165 c.p. (la revoca non deve essere disposta nel caso in cui l’adempimento risulti impossibile
per cause non imputabili al condannato); C) commette un delitto; D) commette una contravvenzione della
stessa indole per la quale venga inflitta la pena dell’arresto; E) riporta una nuova condanna definitiva per un
reato commesso prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto la SCP. Nelle ipotesi “c, d,
e” la revoca è obbligatoria solo se la pena applicata per il nuovo reato, cumulata con quella sospesa, supera
i limiti fissati dall’art 163 c.p.. Se tali limiti non vengono superati, la revoca è facoltativa: il giudice può
scegliere se revocare la SC o concederla per la seconda volta. Sottolineiamo che la sentenza di
patteggiamento costituisce titolo idoneo per la revoca della sospensione condizionale, precedentemente
concessa, anche nelle ipotesi “c” e “d”: la sent di patteggiamento è equiparata ad ogni effetto a una sent di
condanna. Qualora non intervenga alcuna causa di revoca, può affermarsi che la prova alla quale è
sottoposto il condannato abbia avuto esito positivo: si produce pertanto l’effetto estintivo previsto dall’art
167 c.p..  si estinguono le pene principali ed accessorie; permangono gli effetti penali della condanna.
Sospensione condizionale breve: sospende l’esecuzione delle pene principali ed accessorie. È concessa dal
giudice di cognizione, in presenza dei presupposti che riguardano: il tipo e l’ammontare della pena inflitta; i
precedenti penali del condannato; la previsione dei suoi futuri comportamenti; la realizzazione di condotte
riparatorie, prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Estingue la pena principale ma solo
all’esito della prova e quindi dopo 1 anno. Estingue le pene accessorie ma solo all’esito della prova e quindi
dopo 1 anno. Non estingue gli effetti penali, il condannato può però chiedere subito la riabilitazione.
l’esecuzione della pena rimane sospesa per 1 anno (anziché di 5 o di 2), indipendentemente dal fatto che la
condanna abbia ad oggetto un delitto o una contravvenzione. Differenze con la forma ordinaria: in primo
luogo, riguardano alcuni presupposti per l’applicabilità dell’istituto, ossia: a) l’ammontare della pena inflitta,
che non deve essere superiore ad 1 anno; b) la realizzazione da parte del soggetto di condotte riparatorie
prima della pronuncia della sentenza di primo grado (quindi, anche nel corso del giudizio): è necessario che,
entro tale termine, sia stato interamente riparato il danno, mediante il risarcimento di esso e, quando
possibile, mediante le restituzioni, ovvero che il colpevole si sia adoperato spontaneamente per elidere o
attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili. SC breve: carattere premiale.
Periodo di prova breve; la sua concessione non può essere subordinata ad obblighi; allo scadere del
termine di 1 anno il condannato, oltre a beneficiare dell’effetto estintivo, potrà già ottenere la
riabilitazione. Prassi: ordinaria frequente; breve sostanzialmente inapplicata. La riabilitazione: concessa dal
tribunale di sorveglianza, su richiesta dell’interessato, al fine di agevolarne il reinserimento sociale, purché:

132
siano decorsi almeno 3 anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo
estinta (termini più lunghi in caso di recidiva aggravata, recidiva reiterata, delinquenza abituale,
professionale o per tendenza); durante tale periodo il condannato abbia dato prova di buona condotta. Non
estingue la pena principale. Estingue le pene accessorie salvo diversa disposizione di legge. Estingue gli
effetti penali salvo diversa disposizione di legge. Le cause di estinzione della pena non importano
l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato, ad eccezione di quelle di cui agli artt. 196 e 197. La
morte del reo estingue le obbligazioni inerenti alle spese di mantenimento in carcere, nonché l’obbligo di
rimborsare le spese del processo penale. Il provvedimento di R non ha effetto retroattivo: ad es, il pubblico
impiegato destituito dai pubblici uffici a causa di una pena accessoria riacquista, con la R, solo la capacità di
concorrere a ricoprire i pubblici impieghi, e non già il diritto ad essere reintegrato nell’impiego perduto. Dal
giorno dl passaggio in giudicato della sentenza che concede la R le pene accessorie e gli effetti penali della
condanna non possono ancora dirsi estinti, ma solo “sospesi”: si estingueranno definitivamente una volta
decorso il periodo di tempo in cui sarebbe potuta intervenire la revoca. Termine triennale. Si innalza ad
almeno 8 anni nei casi di recidiva aggravata o reiterata. 10 anni per il delinquente abituale, professionale o
per tendenza (in tal caso decorre dal giorno in cui è stato revocato l’ordine di assegnazione a una colonia
agricola o casa lavoro). La R può essere ordinata anche in relazione a una sentenza di patteggiamento ed
anche per condanne con le quali sia stata disposta la sospensione condizionale della pena: se ordinaria il
termine di almeno 3 anni decorre dallo stesso momento dal quale decorre il termine di sospensione
dell’esecuzione della pena (dalla data in cui la sentenza di condanna diviene irrevocabile); se breve, la R può
essere concessa allo scadere del termine di 1 anno di prova, che decorre dal passaggio in giudicato della
sentenza di condanna. Caso in cui la R segua ad una condanna per delitto a pena sospesa: la riduzione da 5
ad almeno 3 anni del termine necessario per la R rende possibile la concessione della R prima che sia
decorso il periodo di prova di 5 anni? Anche in tal caso l’istanza di R può essere presentata decorsi almeno
3 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, ma è escluso che ciò comporti un’analoga riduzione del
termine di 5 anni previsto per l’estinzione del reato. “Prova di buona condotta”: accertamento di un dato di
fatto; non prognosi su futuri comportamenti del soggetto. Comportamento che non comporti significative
violazioni della legge penale.
Due condizioni ostative alla concessione della R: a) nei confronti del condannato non deve esser stata
disposta alcuna misura di sicurezza (eccezione “espulsione” e “confisca”) e, se disposta, essa deve esser
stata revocata. B) inadempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato (tranne nel caso di
impossibilità). Revoca: conseguente reviviscenza delle pene accessorie e degli effetti penali. Presupposto è
la commissione di un delitto non colposo entro 7 anni dalla sent definitiva che ha disposto la riabilitazione,
purché per il nuovo reato venga inflitta la reclusione non inferiore a 2 anni ovvero l’ergastolo. La revoca è
disposta dallo stesso giudice che pronuncia la condanna per il nuovo reato, ovvero dal tribunale di
sorveglianza: si tratta di un provvedimento “di diritto”, ossia è escluso ogni potere discrezionale del giudice
competente.

CAPITOLO 14 LE MISURE DI SICUREZZA


1.Sistematica
sanzioni penali, diverse dalle pene, imperniate sull’idea di pericolosità). Le misure di sicurezza possono
essere personali o patrimoniali. personali detentive: assegnazione a una colonia agricola o a una casa di
lavoro; assegnazione a una casa di cura e di custodia; ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario;
ricovero in un riformatorio giudiziario. Personali non detentive: libertà vigilata; divieto di soggiorno in uno o
più comuni o in una o più province; divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche;
espulsione dello straniero dallo stato. Patrimoniali: cauzione di buona condotta; confisca. MS personali
incidono sulla libertà personale e si rivolgono sia a soggetti imputabili o semimputabili pericolosi (in tal caso
la MS si cumula con la pena), sia a soggetti non imputabili pericolosi (la MS si applica in via esclusiva). L’art
215 co 4 c.p. disciplina i casi in cui la legge prevede una MS senza indicarne la specie: in tal caso il giudice
disporrà la libertà vigilata, a meno che, trattandosi di un condannato per delitto, ritenga di disporne
l’assegnazione a una colonia agricola o casa lavoro.
Le misure di sicurezza personali: disciplina generale: la loro introduzione è stata presentata come un
compromesso tra le varie scuole del diritto penale: in ossequio ai dettami della Scuola classica, la pena

133
doveva svolgere una funzione solo retributiva, mentre la finalità di prevenzione di nuovi reati, valorizzata
dalla Scuola positiva, doveva essere assolta da una nuova tipologia di sanzioni. Motivazione politico-
criminale: in una fase storica nella quale si registravano impennate delle forme più gravi di criminalità, si
mirava ad aggiungere alla pena un ulteriore e più penetrante strumento di contrasto della criminalità dei
plurirecidivi: era necessario predisporre una sanzione svincolata dai limiti garantistici propri della pena. In
effetti, le MSP, correlate non alla colpevolezza bensì alla pericolosità, si affiancavano alla pena come
un’ulteriore pena a tempo indeterminato e suscettibile di applicazione retroattiva (cd sistema del doppio
binario).  critica della “frode delle etichette”: chi era stato privato della libertà personale a titolo di pena
entrava in un altro stabilimento penitenziario a titolo di misura di sicurezza. La dubbia legittimità
costituzionale delle MS detentive: la Cost sottopone le MS al principio di legalità: riserva al solo legislatore
la possibilità di individuare dei casi nei quali possa essere applicata una MS (art 25 co 3 cost). Dato che la
Cost attribuisce alla pena una preminente finalità di prevenzione speciale, la distinzione tra pene e MS deve
fondarsi su una “diversità di contenuti”: può legittimarsi la presenza di MS detentive, finalizzate al pari delle
pene alla prevenzione speciale, solo in quanto le misure abbiano contenuti specifici e diversi. In caso
contrario (variante solo nominale, come nel nostro ordinamento), si riduce a strumento per aggirare i
principi di garanzia propri delle pene: di conseguenza, la previsione di MS detentive risulta incompatibile
con la Cost.  abolizione riformatorio giudiziario, prevedendo che il minore venga affidato ad una comunità
educativa (1988); chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle case di cura e di custodia (dl 2011 n
211): a partire dal 2015 le misure si eseguono in strutture residenziali a carattere sanitario. Dl 2014: la
misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia possa essere disposta
solo quando ogni altra misura risulti inadeguata rispetto alle esigenze di cura e di controllo della
pericolosità sociale; infine si è stabilito che la durata di qualsiasi MS detentiva non possa superare il
massimo della pena detentiva comminata per il reato commesso. Presupposti per l’applicazione:
commissione di un reato o di un quasi reato; pericolosità sociale. Reato: (ipotesi normale): se è l’autore è
imputabile o semimputabile, deve trattarsi di un reato al completo di tutti i suoi elementi costitutivi (fatto
tipico, antigiuridico, colpevole, punibile); se è l’autore è non imputabile, deve trattarsi di un reato al
completo di tutti i suoi elementi costitutivi (dolo compreso, quando richiesto), ad eccezione della sola
impunibilità. Non imputabile: le misure di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario e del riformatorio
giudiziario richiedono che sia stato commesso un delitto doloso: ci si chiede se il dolo che deve sorreggere
la realizzazione del fatto abbia una struttura coincidente con quella del dolo dell’imputabile. Giuri
maggioritaria risponde affermativamente, ritenendo configurabile il dolo in tutti i suoi elementi anche in
capo all’incapace di intendere o volere. Per contro, altra parte della dottrina esclude vi sia coincidenza
strutturale: il dolo rilevante ai fini delle misure dell’ospedale psichiatrico giudiziario e del riformatorio
giudiziario sussisterebbe anche se l’agente non si è rappresentato tutti gli elementi del fatto, essendo
caduto in un “errore condizionato”, cioè in un errore determinato dalla situazione patologica o
dall’immaturità dell’agente. Quest’ultimo orientamento muove dall’assunto della incompatibilità tra ciò che
la legge richiede perché sussista il dolo e l’incapacità di intendere o volere  non persuasivo: che possa
agire con dolo una persona incapace di intendere o volere è dimostrato dalla disciplina prevista altrove per
i reati commessi da chi agisca in stato di ubriachezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti: si applicherà
la pena prevista per questo o quel delitto doloso se, al momento del fatto, l’ubriaco giuridicamente
imputabile, ma naturalisticamente incapace di intendere o volere avrà agito con la rappresentazione e la
volizione di tutti gli elementi costitutivi del fatto. In conclusione riteniamo che il ricovero in un ospedale
psichiatrico giudiziario o in un riformatorio giudiziario possa essere disposto solo in presenza di un fatto
tipico, antigiuridico e punibile, commesso con dolo da parte di chi versi in una delle situazioni patologiche
indicate dall’art 222 c.p. ovvero da un minore non imputabile. Quasi reato: Fatto non preveduto dalla legge
come reato (c.d. quasi reato) (ipotesi eccezionale): reato impossibile; accordo per commettere un delitto,
che poi non viene commesso; istigazione a commettere un reato, se l’istigazione viene accolta, ma il reato
non viene commesso; istigazione a commettere un delitto, se l’istigazione non viene accolta. deroga alla
regola dell’art 202 co 1 c.p. (la misura di sicurezza è applicabile soltanto se è stato commesso un fatto
preveduto come reato) nei casi espressamente previsti dalla legge. L’autore di un quasi reato non viene
punito ma, se socialmente pericoloso, può essere assoggettato alla misura di sicurezza della libertà vigilata.

134
Pericolosità sociale: Pericolosità sociale: è la probabilità che il soggetto commetta in futuro reati; deve
essere sempre accertata in concreto dal giudice; deve sussistere al momento dell’applicazione e
dell’esecuzione della misura di sicurezza (e non al momento della commissione del fatto). Art 203 co 1 c.p.:
“Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non
punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che
commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”. La pericolosità sociale è dunque la probabilità (e
non la mera possibilità) che il soggetto commetta in futuro nuovi reati ovvero, nell’ipotesi di quasi reato,
che commetta reati. Il pericolo può riguardare qualsiasi reato, e non soltanto reati della stessa indole di
quello già commesso. Originariamente, la pericolosità sociale doveva essere di regola accertata dal giudice,
ma poteva essere anche presunta dalla legge  l Gozzini n 663/1986: “tutte le misure di sicurezza personali
sono ordinate previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa”:
la pericolosità sociale deve esser sempre accertata in concreto dal giudice. Il giudizio di pericolosità sociale
si articola in 2 momenti: 1) Analisi della personalità del soggetto; 2) Prognosi criminale, che deve essere
formulata sulla base di quanto accertato nel primo momento. La PS deve essere valutata in relazione non al
momento della commissione del fatto bensì al momento dell’applicazione della misura, quando il giudizio
viene operato dal giudice di cognizione, e al momento della esecuzione, quando viene operato dal
magistrato di sorveglianza. Criteri in base ai quali va stabilita la PS, art 203 co 2: “La qualità di persona
socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’art 133 c.p.”. Carattere estremamente
problematico di questo accertamento, al quale il giudice deve provvedere di regola da solo, senza
l’assistenza di un perito: di un perito il giudice può avvalersi solo per stabilire se il soggetto è incapace di
intendere o di volere per cause patologiche. Applicazione: le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in
vigore al tempo della loro applicazione. Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è
diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione. Le misure di sicurezza personali sono
applicate di regola dal giudice di cognizione, nella sentenza di condanna o di proscioglimento. Misure di
sicurezza personali o patrimoniali possono altresì essere applicate nell’ambito di una sentenza di
patteggiamento, qualora sia inflitta una pena detentiva superiore a 2 anni, sola o congiunta a pena
pecuniaria; al di sotto di tale limite, è applicabile soltanto la misura di sicurezza patrimoniale della confisca.
Quando una persona ha commesso più fatti di reato, per i quali siano applicabili più misure di sicurezza
della medesima specie, è ordinata una sola misura di sicurezza. Se invece le misure di sicurezza sono di
specie diversa, il giudice deciderà discrezionalmente, a seconda della minore o maggiore pericolosità della
persona, se applicare una sola misura o più misure. Esecuzione: se la misura di sicurezza è aggiunta a una
pena detentiva, la misura di norma va eseguita dopo che la pena è stata scontata o si è altrimenti estinta.
Se la misura è aggiunta a una pena non detentiva, o è applicata con sentenza di proscioglimento, si esegue
subito dopo il passaggio in giudicato della sentenza (di condanna o proscioglimento). Co 1: tale soluzione,
mentre è del tutto ragionevole quando si tratti di una MS non detentiva, appare invece irrazionale quando
si tratti di una MS detentiva. Secondo la stessa logica alla base dell’art 211 co 1, l’art 212 co 1 stabilisce che
“l’esecuzione di una MS applicata a persona imputabile è sospesa se questa deve scontare una pena
detentiva, e riprende il suo corso dopo l’esecuzione della pena”. Un’eccezione alla regola dettata dall’art
211 co 1 è prevista per il caso in cui la misura da applicare sia la casa di cura e di custodia: a norma dell’art
220 co 2 “il giudice, tenuto conto delle particolari condizioni di infermità psichica del condannato, può
disporre che il ricovero venga eseguito prima che sia iniziata o abbia termine la esecuzione della pena
restrittiva della libertà personale”. Co 2: vd schema. Se nei confronti dello stesso soggetto siano disposte
una misura di sicurezza detentiva ed una temporanea non detentiva, verrà eseguita prima la misura
detentiva e poi quella non detentiva. L’art 212 c.p., sotto la rubrica “casi di sospensione o di trasformazione
di MS”, oltre alle ipotesi in cui l’esecuzione di una misura personale deve essere sospesa per darsi
esecuzione a una pena detentiva, disciplina le ipotesi in cui nel corso dell’esecuzione di una misura
personale (detentiva o non detentiva) o della cauzione di buona condotta sopravvenga un’infermità
psichica. Se la MS in corso di esecuzione è una misura detentiva, il magistrato di sorveglianza, se ritiene che
l’infermità psichica sia ulteriore fonte di pericolo sociale, deve sostituire alla misura precedentemente
disposta quella dell’ospedale psichiatrico o della casa di cure e custodia (trasformazione della misura
originaria). Qualora la MS in corso di esecuzione sia invece una misura personale non detentiva o la
cauzione di buona condotta, al sopravvenire dell’infermità psichica l’esecuzione della misura cessa: il

135
soggetto viene ricoverato in un ospedale civile, dove verrà sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio
per malati mentali. Altre ipotesi in cui l’esecuzione della misura deve o può essere differita o sospesa sono
individuate dall’art 211 bis co che estende alle MS personali la disciplina dettata dagli artt. 146 e 147 in
tema di rinvio dell’esecuzione della pena. La legge attribuisce alle cause di estinzione della pena, l’effetto di
impedire sia l’applicazione che l’esecuzione delle misure di sicurezza personali. Durata e revoca: limite
minimo: può variare anche all’interno delle varie tipologie di misure; decorsa la durata minima, il
magistrato di sorveglianza procede al riesame della pericolosità e può disporre il prolungamento o la revoca
della misura; il riesame della pericolosità sociale può essere anticipato rispetto alla durata minima,
comportando la revoca anticipata della misura. Limite massimo: non è previsto nessun limite massimo per
le misure personali non detentive, la cui esecuzione si protrae fin tanto che permane la pericolosità; le
misure personali detentive non possono durare oltre il massimo edittale della pena detentiva prevista per
quel reato; non esiste nessun massimo quando si tratti di reato punito con l’ergastolo. La durata delle MS
personali (con eccezione dell’espulsione dello straniero) è sempre sottoposta a un limite minimo. Circa la
disciplina del limite massimo, si è messo fine al fenomeno del cd “ergastolo bianco”: autori di reati di bassa
gravità rimanevano per molti anni internati negli ospedali psichiatrici giudiziari: per mancanza di cure e di
prognosi favorevoli di non recidività correvano il rischio di restarvi per sempre. Inosservanza: nei casi in cui
l’internato si sottragga volontariamente all’esecuzione delle MS della colonia agricola, casa di lavoro o
riformatorio giudiziario, allontanandosi arbitrariamente dall’istituto o non rientrandovi al termine della
licenza concessagli, la legge prevede, come sanzione, che ricominci a decorrere il periodo minimo di durata
della misura di sicurezza a partire dal giorno in cui a questa è data nuovamente esecuzione; tale sanzione si
applica a condizione che il magistrato di sorveglianza accerti nuovamente la pericolosità sociale. Nessuna
sanzione è prevista, in considerazione delle patologie di cui soffrono tali soggetti, per chi si sottragga
volontariamente all’esecuzione delle misure dell’ospedale psichiatrico giudiziario o della casa di cura e di
custodia. L’inosservanza delle MS personali non detentive è disciplinata in modo autonomo per ciascuna
misura: di regola la sanzione consiste nell’aggiunta di una nuova misura di sicurezza ovvero nella
sostituzione della misura con altra più grave.

ESEMPI DI MISURE DI SICUREZZA PERSONALI E SOGGETTI DESTINATARI DELLA MISURA


Soggetto imputabile socialmente pericoloso: condanna alla pena principale: pena detentiva inflitta ad uno
dei soggetti di cui all’art 216 c.p. misura di sicurezza: colonia agricola o casa di lavoro (da eseguirsi dopo la
pena detentiva); pena principale: pena detentiva superiore ad un anno. Misura di sicurezza: libertà vigilata.
Soggetto semimputabile socialmente pericoloso: condanna alla pena principale (diminuita fino a 1/3: pena
detentiva per maggiorenni semimputabili. Misura di sicurezza assegnazione a una casa di cura e di custodia;
la misura si esegue oggi presso un REMS. Condanna principale: pena detentiva per minore tra i 14 e i 18
anni, autore di un grave delitto doloso. Misura di sicurezza: riformatorio giudiziario. Pena principale: pena
detentiva superiore ad un anno per altri semimputabili. Misura di sicurezza: libertà vigilata. Soggetto non
imputabile socialmente pericoloso: proscioglimento: soggetto maggiorenne, autore di un grave delitto
doloso, prosciolto per vizio totale di mente determinato da infermità psichica, o per intossicazione cronica
da alcol o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo. Misura di sicurezza: ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario, da eseguirsi presso un REMS, se ogni altra misura risulta inadeguata.
Proscioglimento: minore non imputabile, autore di un grave delitto doloso. Misura di sicurezza:
riformatorio giudiziario (comunità educativa). Per le altre ipotesi di proscioglimento la misura di sicurezza è
la libertà vigilata.
LE SINGOLE MISURE DI SICUREZZA PERSONALI
L’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro: riservata a soggetti imputabili condannati a
pena detentiva, ritenuti socialmente pericolosi, rappresenta un’unica MS con differenti modalità esecutive.
La CA e la CL sono idealmente distinte in base al tipo di attività che dovrebbe svolgere chi vi è sottoposto ed
i criteri di scelta dovrebbero essere offerti dalle condizioni e attitudini di tale persona (la scelta dovrebbe
dipendere, in gran parte, dal lavoro svolto in precedenza). Tale misura deve essere eseguita dopo che la
pena è stata scontata o si è altrimenti estinta: rappresenta nella sostanza un “prolungamento della pena
detentiva”. Vi è una CL a Sulmona (L’Aquila) e una CA a Isili (Cagliari). Destinatari (art 216 c.p.): a)
delinquenti abituali, professionali o per tendenza; b) coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti

136
abituali, professionali o per tendenza, e non essendo più sottoposti a una MS, commettono un nuovo
delitto non colposo, che sia ulteriore manifestazione della abitualità, professionalità o tendenza a
delinquere; c) le persone condannate o prosciolte negli altri casi indicati espressamente dalla legge. Altri
casi indicati dalla legge riguardano: a) la persona sottoposta a MS detentiva che sia stata colpita da
infermità psichica, qualora, al momento della cessazione dell’infermità, sia ancora socialmente pericolosa;
b) il minore sottoposto al riformatorio giudiziario, quando la misura deve applicarsi o estinguersi dopo che il
soggetto ha raggiunto i 18 anni: tale provvedimento verrà adottato qualora il giudice non ritenga sufficiente
la libertà vigilata; c) il minore delinquente abituale, professionale o per tendenza, 18enne dopo che sia
stata applicata o eseguita la misura del riformatorio giudiziario; d) colui che, sottoposto a libertà vigilata,
abbia commesso gravi o ripetute trasgressioni degli obblighi inerenti a quella misura. Abitualità: vd artt. 102
e 103 c.p.. Professionalità: vd art 105 c.p.. Tendenza: vd art 108 c.p.. Durata minima: 2 anni per i
delinquenti abituali, 3 per i professionali, 4 per quelli per tendenza, 1 anno per le altre ipotesi. Va ricordato
che, in base all’art 69 co 4 ord penit, il magistrato di sorveglianza può revocare la misura di sicurezza anche
prima che siano scaduti quei termini, qualora accerti che sia venuta meno la pericolosità sociale
dell’internato. Durata massima: eguale al massimo della pena edittale per il reato commesso.
L’assegnazione a una casa di cura e di custodia: rivolta a soggetti semimputabili socialmente pericolosi, da
eseguirsi in aggiunta alla pena detentiva e dopo che tale pena sia stata scontata o si sia altrimenti estinta (a
meno che il giudice, tenuto conto dell’infermità psichica, disponga che il ricovero venga eseguito prima di
tale momento). Finalità: cura e trattamento dello stato di pericolosità e delle cause che sono all’origine
della diminuzione della capacità di intendere e volere (ibrido di istanze curative e custodialistiche). In realtà,
l’istituzione della casa di cura e custodia non è mai venuta ad esistenza: si trattava di reparti degli ospedali
psichiatrici giudiziari, dei quali condivideva le gravi disfunzioni. Inoltre il regime della CCC era praticamente
indifferenziato per le varie categorie di ricoverati. Infine, la componente curative era relegata in secondo
piano, cosicché anche la CCC rappresentava un mero duplicato del carcere, finalizzato a soddisfare esigenze
di neutralizzazione e difesa sociale.  2015: chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari: le misure di
sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a CCC sono eseguite
esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie designate come “residenze per l’esecuzione delle misure
di sicurezza” (REMS). Destinatari: soggetti semimputabili, cioè la cui capacità di intendere o volere al
momento del fatto era grandemente scemata: il condannato per delitto non colposo ad una pena diminuita
per cagione di: a) infermità psichica; b) cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; c)
sordomutismo. Sono esclusi i disturbi mentali determinati occasionalmente da infermità fisica. Richiedendo
la condanna alla pena diminuita, la legge esclude che la misura possa esser disposta quando il giudice, in
sede di giudizio di bilanciamento, ritenga l’aggravante equivalente o prevalente rispetto all’attenuante della
semimputabilità, con il risultato che il soggetto non viene condannato a una pena diminuita (disparità di
trattamento tra soggetti affetti da identiche patologie). Tale misura non può essere applicata nei confronti
dei minori di età compresa fra 14 e 18 anni (essendo la CCC una sezione dell’ospedale psichiatrico
giudiziario). Durata minima: a) 1 anno, quando la pena stabilita dalla legge non è inferiore nel minimo a 5
anni di reclusione; b) 3 anni, quando la pena è quella dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel
minimo a 10 anni; c) 6 mesi, se si tratta di un altro reato punito con pena detentiva (delitto doloso punito
con la reclusione inferiore nel minimo a 5 anni, delitto colposo o contravvenzione punita con l’arresto). Nel
caso “c” il giudice può sostituire al CCC la misura della libertà vigilata, a meno che si tratti di condannati a
pena diminuita per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti. Altri destinatari: ubriachi abituali e le
persone dedito all’uso di sostanze stupefacenti, che siano stati condannati alla reclusione per un delitto
commesso in stato di ubriachezza ovvero sotto l’azione di una sostanza stupefacente, qualora siano ritenuti
socialmente pericolosi (durata minima 6 mesi). Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (art 222
c.p.): si mira al trattamento della pericolosità sociale e alla cura delle infermità di chi, avendo commesso un
delitto doloso, punito in astratto con la reclusione superiore nel massimo a 2 anni, sia stato prosciolto per
vizio totale di mente determinato da infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da
sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo: è inoltre necessario che il soggetto sia stato ritenuto
socialmente pericoloso (in precedenza ciò era presunto, ora è necessario l’accertamento). Realtà dei 6
OPG: istituti che si differenziavano solo marginalmente dal carcere vanificando le funzioni di cura degli
internati, per servire unicamente una funzione repressiva e segregante. L’OPG non si applica quando sia

137
stato commesso un delitto doloso punito con la reclusione non superiore nel massimo a 2 anni ovvero
punito con la sola pena della multa, o un delitto colposo o contravvenzione. Crisi accertamento pericolosità
sociale: qualora esista qualche possibilità di prevedere futuri comportamenti devianti da parte dei
potenziali destinatari dell’OPG, tale possibilità è comunque circoscritta ai soli reati che siano manifestazione
della patologia mentale di cui soffre il soggetto, e che è all’origine del delitto doloso per il quale è stato
prosciolto: il giudice dovrebbe limitare la propria prognosi a una gamma di reati identici o affini a quello già
commesso. Se non compie tale azione, il giudice agirà inevitabilmente in modo arbitrario ed incontrollabile.
Corte cost, sent 2003: illegittimità costituzionale dell’art 222 c.p. nella parte in cui non consentiva al giudice
di adottare, in luogo del ricovero in un OPG, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad
assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale: la diversa misura
doveva essere la libertà vigilata. Dl n 52/2014: la misura del ricovero in OPG o in CCC può essere disposta
solo quando ogni altra misura risulti inadeguata rispetto alle esigenze di cura e controllo della pericolosità
sociale. Tale dl ha introdotto due regole attenenti ai criteri in base ai quali va stabilita la pericolosità sociale:
a) l’accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle
condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo; b) non costituisce elemento idoneo a supportare il
giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali. Dl n 211/2011: a
partire dal 31 marzo 2015 gli OPG sono chiusi e le misure di sicurezza del ricovero in OPG e
dell’assegnazione a CCC sono eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie designate come
REMS. Durata minima: 2 anni; 5 anni se si tratta di delitto doloso punito con la reclusione non inferiore nel
minimo a 10 anni; 10 anni nel caso di fatti delittuosi puniti con l’ergastolo. Il ricovero dei minori in un
riformatorio giudiziario: misura di sicurezza detentiva indirizzata ai minori socialmente pericolosi: finalità
educativa e di inserimento sociale. Di fatto eseguita in apposite sezioni degli istituti penitenziari minorili,
con un regime simile a quello carcerario: misura incapace di educare il minore, e anzi risultante non di rado
criminogena. Riforma del 1988: la misura si esegue attraverso l’affidamento coattivo del minore ad una
comunità educativa, che non può ospitare più di 10 minori, alcuni dei quali non sottoposti a procedimento
penale; al minore possono essere imposte prescrizioni inerenti allo studio, al lavoro o ad altre attività utili
alla sua rieducazione. Deficit attuale: problemi del controllo sul minore. Destinatari, in quanto riconosciuti
in concreto pericolosi: a) i minori degli anni 14 (ex lege non imputabili) e i minori degli anni 18 ritenuti dal
giudice non imputabili; b) i minori di età compresa fra 14 e 18 anni, riconosciuti imputabili dal giudice e
condannati a pena diminuita; c) i minori degli anni 18 dichiarati delinquenti abituali, professionali o per
tendenza. Con la riforma del 1988: la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario è applicata soltanto in
relazione a una ristrettissima gamma di gravi delitti dolosi (il relativo dolo ha una struttura coincidente con
quella del dolo dell’imputabile): delitti punita con pena massima di almeno 9 anni, violenza sessuale, alcune
ipotesi di furto aggravato, rapina, estorsione e alcuni delitti in materia di armi e stupefacenti. Quando non
si tratti di uno di tali delitti, è applicabile la libertà vigilata avente una peculiare forma riservata ai minori (es
prescrizioni per rieducazione).
Riforma 1988: ridefinizione della pericolosità sociale del minore: essa è presente solo quando, per le
specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussiste il concreto pericolo
che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza
collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata. Durata minima: 1 anno.
Il c.p. prevede che qualora il minore raggiunga i 18 anni prima dell’inizio dell’esecuzione o durante
l’esecuzione della misura, al riformatorio giudiziario è sostituita la libertà vigilata, salvo che il giudice ritenga
di ordinare l’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro.  questa è la situazione del minore
affidato coattivamente a una comunità educativa in quanto socialmente pericoloso: al compimento del
18esimo anno, se persiste la pericolosità sociale, rimane affidato alla comunità educativo fino a 25 anni; al
compimento del 21esimo anno può però essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva per
maggiorenni, qualora vi siano ragioni di difesa sociale. La libertà vigilata: misura di sicurezza personale non
detentiva, comportante sia l’imposizione di una serie di prescrizioni limitative della libertà personale, sul cui
rispetto vigila l’autorità di pubblica sicurezza, sia interventi di sostegno ed assistenza affidati al servizio
sociale. Funzione di prevenzione e reinserimento sociale. Il c.p.p. prevede per il vigilato: divieto di trasferire
la propria residenza o dimora in un comune diverso, senza autorizzazione del magistrato di sorveglianza;
obbligo di segnalare ogni mutamento di obbligazione nell’ambito del comune; obbligo di conservare la cd

138
“carta precettiva” e di presentarla quando richiesto. Altre prescrizioni derivanti dalla giurisprudenza:
cercare un lavoro; presentarsi al magistrato di sorveglianza quando richiesto; divieto di uscire di casa la sera
oltre una certa ora e la mattina prima di un’altra; divieto di accompagnarsi a persone pregiudicate e di
detenere armi o altri strumenti idonei ad offendere. Le modalità con le quali si esercita la vigilanza devono
essere tali da non rendere difficoltosa alla persona che vi è sottoposta la ricerca di un lavoro e da
consentirle di attendervi con la necessaria tranquillità. Art 229 c.p., “casi nei quali può essere ordinata la
libertà vigilata: a) condanna alla reclusione per un tempo superiore a 1 anno; b) casi in cui questo codice
autorizza una misura di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato”. Art 230, “casi nei
quali deve essere ordinata: A) se è inflitta la pena della reclusione per non meno di 10 anni: e non può, in
tal caso, avere durata inferiore a 3 anni; b) quando il condannato è ammesso alla liberazione condizionale;
c) se il contravventore abituale o professionale, non essendo più sottoposto a misure di sicurezza commette
un nuovo reato, il quale sia nuova manifestazione di abitualità o professionalità; d) negli altri casi
determinati dalla legge. Nel caso in cui sia stata disposta l’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa
di lavoro il giudice, al termine dell’assegnazione, può ordinare che il soggetto sia posto in libertà vigilata,
ovvero può obbligarlo a cauzione di buona condotta”. Destinatari: a) autore di un quasi reato; b)
contravventore abituale o professionale che, non essendo più sottoposto a misure di sicurezza, commette
un nuovo reato, il quale sia nuova manifestazione di abitualità o professionalità; c) colui che, essendo stato
sottoposto alla colonia agricola o casa di lavoro, venga dimesso da tale istituto: permanendo la pericolosità
sociale, ma in grado tale da non giustificare la proroga della misura di sicurezza detentiva; d) del
condannato a pena detentiva ammesso alla liberazione condizionale qualora sia socialmente pericoloso; e)
nei casi in cui la legge prevede una misura di sicurezza senza indicarne la specie. Durata minima: 1 anno.
Tale regola viene derogata: per il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a 10 anni, nonché
per il condannato all’ergastolo che non debba scontare in tutto o in parte la pena per effetto di indulto o
grazia la durata minima è di 3 anni. Per il condannato ammesso alla liberazione condizionale, la libertà
vigilata si protrae per tutta la durata della pena inflitta. Limite massimo: nessuno. Opera fin quando
permane la pericolosità sociale del soggetto. Violazione obblighi: il giudice può aggiungere alla libertà
vigilata la MS patrimoniale della “cauzione di buona condotta”. Qualora la violazione sia grave o ripetuta,
ovvero non venga prestata la cauzione, il giudice può sostituire la libertà vigilata con una MS più gravosa:
l’assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro, ovvero, per i minori, il ricovero in un riformatorio
giudiziario. Tale disciplina non si applica nel caso in cui si tratti della libertà vigilata disposta nei confronti di
chi ha fruito della liberazione condizionale: in tal caso vi è la revoca, appunto, della liberazione
condizionale. Divieto di soggiorno in uno o più comuni/province: misura di sicurezza personale non
detentiva. Per “soggiornare” si intende il fermarsi o il trattenersi in quei luoghi anche occasionalmente e
per un brevissimo lasso di tempo. Destinatari: se socialmente pericolosi, i condannati per alcune categorie
di delitti indicati dall’art 233 c.p.: delitti contro la personalità dello Stato, contro l’ordine pubblico,
commessi per motivi politici, delitti occasionati da particolari condizioni sociali o morali esistenti in un
determinato luogo. La misura può essere applicata qualunque sia l’entità della pena inflitta e ha durata
minima di 1 anno. Trasgressione: ricomincia a decorrere il termine minimo di durata. Nei casi più gravi, il
giudice può disporre la libertà vigilata. Art 16 cost: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente
in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per
motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata per ragioni politiche”. La
restrizione integrata dalla misura in esame è finalizzata a prevenire la commissione di reati che possono
essere favoriti dal soggiorno del soggetto in un dato luogo: tale finalità si riconduce alla nozione di pubblica
sicurezza.
Divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche: misura di sicurezza personale non
detentiva, finalizzata a combattere i fenomeni di criminalità legati all’alcoolismo. Divieto di recarsi
sistematicamente, e non solo sporadicamente, in tali luoghi. Destinatario, se socialmente pericoloso, è chi
venga condannato per un reato commesso in stato di ubriachezza, qualora questa sia abituale. Durata
minima: 1 anno.
Trasgressione divieto: applicazione, in aggiunta, della libertà vigilata o della cauzione di buona condotta.
Espulsione dello straniero e allontanamento del cittadino di uno Stato UE dal territorio dello Stato: misura
di sicurezza personali non detentive. Ciò è previsto anche in forma di misura amministrativa, disposta dal

139
Ministro dell’Interno o dal Prefetto. Allontanamento coattivo dal territorio dello Stato del soggetto
condannato alla reclusione per un tempo superiore a 2 anni (prima si richiedeva un tempo non inferiore ai
10 anni). Circa il delitto contro la personalità dello Stato, vi può essere espulsione/allontanamento quando
sia stata pronunciata condanna a una pena detentiva di qualsiasi ammontare. La sola misura di sicurezza
dell’espulsione può essere disposta verso chi sia stato condannato, a una pena detentiva di qualsiasi
ammontare per un delitto doloso per il quale la legge stabilisce la reclusione superiore nel massimo a 3
anni, ovvero per un delitto colposo, punito in astratto con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni.
La sola misura di sicurezza dell’espulsione può essere disposta nei confronti di chi venga condannato, a una
pena detentiva di qualsiasi ammontare, per un delitto in materia di sostanze stupefacenti. Tutto ciò è
subordinato all’accertamento in concreto della pericolosità sociale del reo, che il giudice deve compiere sia
al momento della condanna che al momento dell’esecuzione della misura. Le due misure in esame non
possono essere disposte verso chi sia stato condannato a pena sospesa. Il giudizio di pericolosità sociale nei
confronti del cittadino di uno Stato UE è sottoposto a particolari vincoli imposti dal diritto comunitario: si
richiede che la pericolosità sociale sia indiziata da motivi di sicurezza dello Stato (pericolo di agevolazioni di
attività terroristiche) ovvero da motivi imperativi di pubblica sicurezza. Corte EDU:
l’espulsione/allontanamento non sono consentiti, a meno che non si tratti di grave reato, quando tale
sanzione reciderebbe i legami familiari esistenti nel Paese (non vi è distinzione tra famiglia legittima e di
fatto). Destinatari: extracomunitari, apolidi, cittadini di altri Stati UE.
Autorità competente ad eseguire le misure è il questore, il quale provvede mediante accompagnamento
alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Per l’allontanamento del cittadino comunitario è previsto un iter
più complesso: entro 48 ore il questore comunica l’adozione del provvedimento al giudice di pace
competente, il quale entro 48 ore provvede all’eventuale convalida. Contro decisione del giudice di pace
l’interessato può proporre ricorso per cassazione, che peraltro non sospende l’esecuzione
dell’allontanamento. Trasgressione (ritorno o permanenza abusiva): autonoma fattispecie delittuosa, punita
con la reclusione da 1 a 4 anni. Trattandosi di un delitto, è necessario che il soggetto agisca con dolo.

MISURE DI SICUREZZA PATRIMONIALI


Aspetti comuni alle personali: principio di legalità, sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro
applicazione, sono applicabili ai fatti commessi all’estero alle condizioni di cui all’art 201 co 1 c.p., sono
ordinate dal giudice di cognizione nella sentenza di condanna o di proscioglimento e possono essere
disposte successivamente nei casi stabiliti dalla legge (in tale ipotesi competente ad ordinare la misura non
è il magistrato di sorveglianza, bensì il giudice d’esecuzione). Disciplina in comune limitatamente alla buona
condotta: applicazione subordinata al duplice presupposto della commissione di un fatto preveduto dalla
legge come reato (si applica quindi la disciplina relativa alle cause di estinzione del reato e della pena) e
della pericolosità sociale dell’agente (va accertata in concreto da parte del giudice e la misura può essere
revocata, ai sensi dell’art 207 c.p., qualora il giudice accerti che la pericolosità è cessata); sono applicabili le
disposizioni dell’art 200 co 2 e 3 c.p.. La cauzione di buona condotta: vd schema. Finalità: distogliere il
soggetto dal commettere nuovi reati prospettandogli, come deterrente, il danno patrimoniale conseguente
alla perdita della somma depositata ovvero all’esecuzione della garanzia prestata. La somma di denaro
depositata deve essere restituita, l’ipoteca cancellata e la fideiussione estinta se, durante l’esecuzione della
misura di sicurezza, il soggetto non commette alcun delitto né alcuna contravvenzione punita con l’arresto.
Nella prassi tale misura di sicurezza è assente. Destinatari di questa misura, che è prevista sempre in
alternativa o in aggiunta alla libertà vigilata, sono: a) colui che, essendo stato assegnato a una colonia
agricola o ad una casa di lavoro, venga dimesso da tale istituto: permanendo la pericolosità sociale, ma in
grado tale da non giustificare la proroga della misura di sicurezza detentiva; b) chi, sottoposto a libertà
vigilata, abbia violato gli obblighi impostigli; c) chi abbia trasgredito il divieto di frequentare osterie e
pubblici spacci di bevande alcooliche; d) chi abbia riportato condanna per esercizio di gioco d’azzardo, a
condizione che si tratti di un contravventore abituale o professionale (in tal caso la cauzione di buona
condotta si aggiunge alla libertà vigilata). Durata minima: 1 anno Durata massima: 5 anni. Al venir meno
della pericolosità sociale, la misura è comunque revocabile. Se il soggetto non deposita la somma né presta
le garanzie, il giudice sostituisce tale misura con la libertà vigilata. La confisca: vd schema. L’inquadramento

140
della confisca tra le misura di sicurezza è controverso: l’art 240 c.p. disciplina l’ipotesi generale di confisca,
applicabile in via di principio a tutti i reati; con questa forma di confisca coesistono nell’ordinamento
svariate ipotesi speciali previste, in relazione a singoli reati o singoli gruppi di reati, nei libri II e III del c.p. e
nella legislazione complementare. à ne segue che a fronte di identico effetto sostanziale, consistente
nell’ablazione del bene, diversa può essere la fisionomia dell’istituto in rapporto alla specifica disciplina
positiva. Quanto alla confisca di cui all’art 240 c.p., riteniamo che non vi siano ragioni sufficienti per
sovvertire le scelte del legislatore, che qualifica tale ipotesi di confisca come misura di sicurezza
patrimoniale (tale inquadramento è coerente con la finalità dell’istituto). Ciò non esclude che altre ipotesi
di confisca possano essere inquadrate diversamente in ragione delle loro finalità: è il caso della “confisca
per equivalente”, che ha una funzione repressiva e dunque presenta un sostanziale carattere di pena.
Sottolineiamo che la confisca è presente anche nel diritto amministrativo (es confisca del veicolo in caso di
guida senza patente). Presupposto della confisca ex art 240 c.p. è la pericolosità della cosa, da intendersi
come probabilità che, ove lasciata nella disponibilità del reo, la cosa costituisca per lui un incentivo alla
commissione di ulteriori illeciti. Nella confisca facoltativa tale presupposto va accertato in concreto dal
giudice; nella confisca obbligatoria la pericolosità della cosa è invece presunta dalla legge.
Provvedimento antecedente la confisca è il “sequestro preventivo”, misura cautelare reale che può essere
disposta, già nel corso delle indagini preliminari, in relazione alle cose di cui è consentita la confisca: il
sequestro deve invece essere disposto nel corso del procedimento penale relativo a delitti contro la p.a.
Mancando nell’art 236 c.p. un espresso richiamo all’art 207 c.p. (revoca delle misure di sicurezza) a
proposito della confisca, ne segue che questa misura ha durata perpetua (eccezione: confisca del veicolo):
infatti, mentre la pericolosità sociale può cessare, la pericolosità della cosa è immanente a quest’ultima,
non potendo cessare finché la cosa rimane nelle mani della persona. Confisca facoltativa, art 240 co 1: vd
schema. Finalità di prevenzione speciale: il giudice dovrà accertare in concreto la necessità di sottrarre al
reo quelle cose connesse al reato in quanto potrebbero costituire uno stimolo alla perpetrazione di nuovi
reati. “Cose che servirono a commettere il reato”: cose effettivamente utilizzate dal reo. “Cose che furono
destinate a commettere il reato”: cose che erano state predisposte per la commissione del reato, ma che in
concreto, per una qualsiasi ragione, non sono state utilizzate. Attraverso tali formule, il legislatore
circoscrive l’area applicativa della confisca ai soli reati dolosi: “servirono” e “furono destinate” esprimono
un’intenzione finalistica dell’agente. Circa la condizione “d” (vd schema), la cosa non può essere confiscata
se ne è proprietario un soggetto diverso dall’autore o da un concorrente nel reato: non rileva che un terzo
vanti diritti reali di godimento o di garanzia su una cosa altrui, né che il proprietario della cosa abbia
commesso non già il reato in questione bensì un reato presupposto o consequenziale (come il
favoreggiamento o la ricettazione). Non si considera “estranea al reato” la persona giuridica proprietaria
della cosa quando si tratti di reato commesso a vantaggio della persona giuridica, responsabile a norma del
d.lgs. 231/2001. Quando invece si tratti di un reato per il quale non è prevista la responsabilità dell’ente, es
reati tributari, la confisca può essere disposta nei confronti della persona giuridica a condizione che essa sia
in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale l’amministratore agisce
come effettivo titolare. Confisca obbligatoria: vd schema. Problema: può il giudice disporre la confisca nei
casi (diversi da quelli di cui all’art 240 co 2 n 2 c.p.) in cui si tratti di confisca obbligatoria, ma non sia stata
pronunciata una sentenza di condanna (perché ad es è intervenuta la prescrizione del reato)?  Corte Edu:
considerando che la confisca possa talora assumere i connotati di una pena, sottoposta quindi a date
garanzie, la Corte ha affermato che la sua applicazione mediante una sentenza che proscioglie l’imputato
per intervenuta prescrizione del reato viola l’art 7 CEDU. Di diversa opinione sono la Corte costituzionale e
la Corte di cassazione: nel caso in cui il processo si concluda con una sentenza dichiarativa di estinzione del
reato per prescrizione, la confisca potrà essere disposta a condizione che vi sia stata una precedente
pronuncia di condanna. Confisca per equivalente: ha per oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di cui
il colpevole ha disponibilità, per un valore corrispondente al prezzo, al profitto o al prodotto del reato.
Natura di tale forma di confisca: l’assenza di un rapporto di pertinenzialità tra il reato e i beni confiscati
implica il venir meno del presupposto della pericolosità della cosa confiscata: ne segue che la confisca per
equivalente non può propriamente considerarsi una misura di sicurezza, ma piuttosto una pena.  divieto di
applicazione retroattiva. La confisca per equivalente, finalizzata a privare in ogni modo l’autore del reato
dei vantaggi derivanti dalla sua attività criminosa, è destinata ad operare nei casi in cui la confisca diretta

141
dei proventi del reato non sia possibile per i più vari motivi (ad es perché i beni sono stati occultati,
consumato o non più identificabili). Nel caso di concorso di persone, la confisca per equivalente può essere
applicata per l’intero importo nei confronti di uno qualsiasi dei concorrenti, anche se il profitto o il prezzo
del reato non sia transitato nel suo patrimonio. La confisca per equivalente è stata introdotta nel 1996 per il
reato di usura; per poi essere estesa ad un’ampia gamma di reati (delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a.;
delitti in materia di contraffazione di marchi; alcuni reati sessuali; delitti di frode informatica; reati societari
ecc.). “Profitto confiscabile”: si identifica con il vantaggio direttamente e immediatamente derivante dal
reato nonché con i vantaggi derivanti dal reato in via indiretta e mediata. Nella determinazione del profitto
da reato, bisogna tener conto dei costi sostenuti dall’agente per commettere il reato? La Corte di
cassazione ha distinto a seconda che il profitto venga conseguito nell’ambito di “attività integralmente
illecite” ovvero “attività in se lecite”: nella prima sfera opererebbe il principio cd “del profitto lordo”; nella
seconda il principio cd “del profitto netto”.

D) LE SINGOLE MISURE DE SICUREZZA PATRIMONIALI (??????)


E) LA PREVENZIONE ANTE DELICTUM (????)

CAPITOLO 15 LA RESPONSABILITA’ DA REATO DEGLI ENTI

Ratio responsabilità: precedentemente vigeva il principio “societas delinquere non potest”: la persona
fisica, non anche quella giuridica, era in grado di commettere reati. Con l’avvento del nuovo millennio, il
tutto è mutato (societas delinquere potest): la grande maggioranza dei Paesi europei prevede oggi la diretta
responsabilità delle imprese: perlopiù responsabilità penale, autonoma rispetto a quella (eventuale) delle
persone fisiche che agiscano per l’impresa. Fattori alla base di questa svolta: sempre più pressante è la
necessità politica di fronteggiare la criminalità delle imprese: varie forme di attività imprenditoriali
generano patologie anche su scala internazionale, come i sottostanti rapporti economici, esponendo a
pericolo o ledendo beni individuali, collettivi e istituzionali. La risposta a tali patologie è avvenuta su scala
internazionale, europea e mondiale: una serie di normative (risoluzioni, convenzioni ecc.) ha impegnato gli
Stati membri dell’ONU o dell’UE ad introdurre nei loro ordinamenti la responsabilità diretta delle persone
giuridiche, autonoma nei criteri fondanti, e solo eventualmente cumulabile con quella delle persone fisiche
(talvolta non identificabili). I reati ascrivibili all’ente: nel nostro ordinamento la responsabilità da reato delle
persone giuridiche è stata introdotta dal d.lgs. 8 giugno 2001 n 231, attuativo della legge-delega n 300/2000
che ratificava e dava esecuzione ad una serie di convenzioni europee, in particolare in materia di
corruzione. Agli enti sono ascrivibili, fra gli altri, i seguenti reati: alcuni delitti contro la pubblica
amministrazione; truffa ai danni dello stato o di altro ente pubblico; ricettazione, riciclaggio, autoriciclaggio
e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita; reati societari e abuso di mercato; omicidio
colposo e lesioni colpose gravi o gravissime in materia di salute e sicurezza sul lavoro; reati ambientali;
contraffazione di marchi o brevetti e alcuni delitti contro l’industria e il commercio; delitti in materia di
diritto d’autore; reati informatici; falsità in monete; associazione per delinquere, associazione di tipo
mafioso, scambio elettorale politico mafioso, delitti commessi al fine di agevolare le associazioni mafiose,
associazione finalizzata al traffico di stupefacenti; sequestro di persona a scopo di estorsione; alcuni gravi
delitti transnazionali di criminalità organizzata; alcuni delitti in materia di armi; delitti commessi con finalità
di terrorismo o di eversione; delitti in materia di schiavitù; occupazione di lavoratori stranieri irregolari;
prostituzione minorile, pornografia minorile e adescamento di minorenni; mutilazione di organi genitali
femminili. A norma dell’art 26 d.lgs. 2001, la responsabilità dell’ente sorge anche se il reato ha la forma del
“tentativo”: in tal caso le sanzioni pecuniarie e interdittive sono ridotte da 1/3 alla metà. Inoltre, si applica
alla responsabilità dell’ente una particolare causa sopravvenuta di non punibilità: l’ente non risponde
quando volontariamente impedisce il compimento dell’azione o la realizzazione dell’evento”. Anche il
recesso attivo comporta dunque la non punibilità dell’ente, anziché la mera riduzione di pena. Enti ai quali
può essere attribuita la responsabilità: enti forniti di personalità giuridica; società; associazioni anche prive
di personalità giuridica. Sono esclusi: lo stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non
economici; enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. Natura responsabilità dell’ente: penale,
amministrativa o costituente un terzo modello? Parte della dottrina la considera “penale” per un triplice

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ordine di ragioni: 1) le garanzie di diritto sostanziale fornite all’ente sono quelle proprie del diritto penale:
legalità e irretroattività della disciplina sfavorevole, nonché retroattività della disciplina favorevole. 2) la
responsabilità per fatto proprio colpevole, richiesta dall’art 27 co 1 cost per la punizione dei reati, fonda
anche la responsabilità dell’ente, la cui colpevolezza è modellata sulle peculiarità di un soggetto operante
come “organizzazione”. 3) competente a giudicare della responsabilità dell’ente, assicurandogli le stesse
garanzie difensive previste per la persona fisica, è lo stesso giudice penale che giudica della sussistenza del
reato. Tuttavia si può obiettare che: 1) legalità e irretroattività della disciplina sfavorevole sono principi che
già regolano gli illeciti amministrativi delle persone fisiche; 2) la colpevolezza (imputabilità, dolo o colpa) è,
del pari, già richiesta per la responsabilità amministrativa delle persone fisiche; 3) il giudice penale è già
competente a conoscere del reato e dell’illecito amministrativo della persona fisica quando fra i due illeciti
vi sia connessione obiettiva. Contro la tesi della responsabilità penale dell’ente parla la disposizione dell’art
6 d.lgs. 2001 che, per le ipotesi in cui il reato sia commesso da un soggetto in posizione apicale, accolla
all’ente l’onere della prova (“l’ente non risponde se prova”) di aver adottato efficaci modelli di
organizzazione e gestione, idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, e di aver affidato a un
organismo dell’ente dotato di poteri autonomi il compito di un’efficiente vigilanza sul funzionamento dei
modelli di organizzazione: se davvero la responsabilità dell’ente avesse natura penale, tale disposizione
sarebbe costituzionalmente illegittima per contrasto con la “presunzione di non colpevolezza” stabilita
dall’art 27 co 2 cost che accolla all’accusa l’onere della prova della responsabilità penale. Anche se si
trattasse di un mero onere di allegazione delle fonti di prova (l’esibizione del modello organizzativo,
l’indicazione dei criteri adottati per renderlo efficace), in ogni caso il rischio della prova mancata ricadrebbe
sull’ente, e non sull’accusa: una disciplina intollerabile nel nostro sistema che, in caso di dubbio sulla
sussistenza di qualsiasi elemento che fonda la responsabilità penale, impone l’assoluzione. L’inversione
dell’onere della prova a carico dell’ente non trova nessun ostacolo di principio nell’inquadramento della
responsabilità come responsabilità amministrativa. Parla inoltre nel senso della responsabilità
amministrativa dell’ente il “nome delle sanzioni” comminate dalla legge: è risaputo che un fatto costituisce
reato solo quando la legge gli ricollega una sanzione che il legislatore designa con il nome di una delle pene
principali. Ora, nessuna delle sanzioni applicabili all’ente è designata dalla legge con il nome di una pena
principale: anzi, quelle sanzioni sono designate come “sanzioni amministrative” (ad es la sanzione
pecuniaria, invece di esser chiamata multa o ammenda, è denominata “sanzione amministrativa
pecuniaria”). In giurisprudenza, invece, prevale un orientamento secondo il quale la responsabilità da reato
dell’ente avrebbe natura di “tertium genus” nascente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa
con principi penali. Criteri di attribuzione della responsabilità da reato all’ente: il reato deve essere stato
commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente: 1)da soggetti in posizione apicale, cioè da persone con
funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa con
autonomia funzionale e finanziaria, o personale che esercitano, anche di fatto, il controllo o la gestione
dell’ente; 2) oppure da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti in posizione apicale,
sempre che tutti i suddetti soggetti non abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Nel primo
caso l’onere di provare l’assenza di una colpa d’organizzazione grava sull’ente: il dubbio nuoce all’ente. Nel
secondo caso l’onere della prova grava sull’accusa: il dubbio non nuoce all’ente. All’ente deve essere
rimproverabile una colpa d’organizzazione, cioè la mancata adozione o l’inefficace attuazione di un modello
di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, ovvero il mancato
affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli a un organismo
autonomo dell’ente. In alternativa a quanto appena detto, l’ente o sua unità organizzativa viene
stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in
relazione ai quali è prevista la sua responsabilità (esistenza di una politica di impresa finalizzata alla
commissione del reato). Interesse: va apprezzato ex ante, cioè al momento della commissione del fatto,
secondo un metro soggettivo. Vantaggio: va valutato ex post, secondo un metro oggettivo, alla luce degli
effetti concretamente prodotti dal reato. Quando si tratta di “reati colposi di evento” (omicidio colposo,
lesioni colpose): la giurisprudenza ha sottolineato come il vantaggio dell’ente possa risiedere non
nell’evento, bensì nella condotta che viola regole cautelari: va accertato in concreto se il soggetto abbia
agito per conto dell’ente attraverso sistematiche violazioni di norme cautelari, con conseguente
abbattimento dei costi inerenti all’attuazione di misure antinfortunistiche. Sottolineiamo il fatto che

143
l’adozione di un modello organizzativo è stata prevista come obbligatoria solo in alcune regioni (es Lazio per
gli enti che erogano prestazioni sanitarie). Reati commessi da soggetti in posizione apicale, onere
probatorio: esonero parziale dell’ente (vi è la confisca del profitto) qualora si dimostri che i soggetti in
posizione apicale in questione hanno agito eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di
gestione. Il dolo dell’ente: la colpa d’organizzazione è il criterio minimale sul quale si fonda la responsabilità
da reato dell’ente, nel senso che basta la colpa. E’ tuttavia possibile che il reato sia l’espressione di una
“politica d’impresa finalizzata alla commissione del reato”: in tal caso la responsabilità troverà il proprio
fondamento in una sorta di dolo dell’ente. Talora è la stessa legge a prevedere espressamente questa
forma di responsabilità per i casi in cui “l’ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati
allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato (è il caso, ad es, di taluni
reati ambientali o delle ipotesi delittuose di associazione per delinquere con carattere transnazionale). In
tali ipotesi la sanzione comminata è la dissoluzione dell’ente, nella forma della “interdizione definitiva
dall’esercizio dell’attività”. Autonomia della responsabilità dell’ente (rispetto alla responsabilità dell’autore;
il cumulo delle due responsabilità è solo eventuale): sancita dall’art 8 d.lgs. 2001. Ratio: difficoltà
identificazione del singolo autore del fatto del reato. A ciò si aggiunga il fenomeno patologico della
“irresponsabilità individuale organizzata”, espressione della tendenza ad adottare all’interno dell’ente
meccanismi che impediscono l’identificazione dell’autore del reato. Ipotesi in cui si configura un’autonoma
responsabilità dell’ente: quando l’autore del reato non è stato identificato; quando non è imputabile;
quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia. Le sanzioni comminate per gli enti: la
sanzione pecuniaria, commisurata per quote; sanzioni interdittive temporanee (interdizione dall’esercizio
dell’attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze e concessioni; divieto di contrattare con la
pubblica amministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o revoca di quelli già
concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi), sanzioni interdittive definitive ( interdizione definitiva
dall’esercizio dell’attività; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione o divieto di pubblicizzare
beni o servizi; la confisca, anche per equivalente, del prezzo o del profitto del reato; la pubblicazione della
sentenza di condanna. La prescrizione dell’illecito dell’ente: disciplina simile a quella prevista per gli illeciti
civili: 5 anni dalla consumazione del reato e inizio di un nuovo periodo di prescrizione dopo ogni atto
interruttivo. Sulla costituzione di parte civile contro l’ente: nel silenzio della legge, si è posto il problema se
il danneggiato da reato possa costituirsi parte civile nel procedimento contro l’ente chiamato a rispondere
a norma del d.lgs. 2001: prevale un orientamento negativo per diverse ragioni: da un lato, l’autonomo
illecito di cui l’ente deve rispondere non è produttivo di danni diversi e ulteriori rispetto a quelli che
derivano dal reato presupposto, per i quali l’ente potrebbe essere chiamato a rispondere come
responsabile civile ai sensi dell’art 2049 cc; d’altro lato, la disciplina del c.p.p. sulla costituzione di parte
civile non è applicabile neppure in via analogica, in quanto la mancata disciplina dell’istituto nell’ambito del
d.lgs. 2001 non costituisce una lacuna, bensì una consapevole scelta del legislatore. Sottolineiamo che
l’ente potrà essere citato come responsabile civile nel processo penale contro la persona fisica chiamata a
rispondere del reato presupposto: normalmente si tratterà di un processo riunito a quello instaurato nei
confronti dell’ente per l’accertamento della responsabilità da reato.

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