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Riassunto di "Elementi di

diritto penale. Parte generale"


- Cadoppi e Veneziani
Diritto Penale
Università degli Studi di Roma La Sapienza
167 pag.

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Introduzione

Capitolo 1

Il diritto penale

Diritto penale, scienza penale, materia (insegnamento) penale.

Il diritto penale va subito distinto dalla scienza penale. Il primo è una branca
dell'ordinamento giuridico positivo, ossia una parte del diritto vigente nello
Stato. La seconda non è altro che una disciplina di studio, che si occupa sotto il
profilo scientifico delle materie penalistiche. La materia di insegnamento del
diritto penale, all'Università, deve occuparsi dell'uno e dell'altro aspetto: quello
del diritto penale come diritto positivo; e quello del diritto penale come scienza.
Il diritto positivo ( penale ma non solo) non è qualcosa di oggettivamente
descrivibile secondo il "metodo sperimentale". Ciò implica sempre un certo
margine di soggettività e di valutatività da parte di chi si accinge ad un'opera
di questo genere. Bisogna spiegare ora la differenza tra diritto penale come
branca del diritto positivo e diritto penale come scienza. Questi due tipi di
diritto penale si contamineranno inevitabilmente tra loro, nel senso che la
nostra interpretazione dei dati dell'ordinamento penale sarà condizionata dalla
nostra opinione scientifica sul punto.

Il diritto penale.

Parlando del diritto penale come ramo dell'ordinamento giuridico positivo, ogni
ragionamento o discorso che faremo su di esso nel corso di questa opera dovrà
essere necessariamente ancorato al diritto positivo (ius positum). Si farà
sempre riferimento al diritto vigente oggi in Italia. Le due fonti più importanti in
materia, sono la Costituzione italiana (1947) ed il codice penale c.d.
"Rocco" (1930). Il diritto penale è quella branca del diritto pubblico le cui norme
concernono i reati e le sanzioni penali. In Italia vige il principio di stretta
legalità. Le norme rilevanti per il diritto penale possono essere solamente le
leggi, emanate dal Parlamento. I reati si dividono in delitti e contravvenzioni. Le
sanzioni penali comprendono sia le pene (stricto sensu intese) che le misure di
sicurezza.

Diritto penale ed altre branche del diritto

Per capire più chiaramente cosa sia il diritto penale è opportuno distinguerlo
dalle altre branche del diritto. Innanzitutto, bisogna distinguerlo dal diritto
civile.

Piano formale: E' dalla sanzione che si può capire se si versi nell'una o nell'altra
ipotesi. Le sanzioni penali infatti sono tassativamente elencate dal codice
penale (art. 22 ss.), e sono, per limitarci alle c.d. "pene principali", l'ergastolo,
la reclusione, la multa (per i delitti); nonchè l'arresto e l'ammenda (per le

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contravvenzioni). L'ergastolo e l'arresto sono pene detentive, nel senso che
presuppongono la detenzione del condannato e sono appannaggio esclusivo
del diritto penale. Queste pene vanno distinte da quelle pecuniarie, cioè quelle
che consistono nell'obbligo del pagamento di una somma di denaro, versata
allo Stato, e cioè la multa e l'ammenda. La più comune pena pecuniaria è il
risarcimento del danno.

Piano sostanziale: La differenza tra diritto penale e civile si dispiega anche


sotto un profilo sostanziale, sia sul piano degli illeciti che sul piano delle
sanzioni. Sul piano degli illeciti, va detto che reato e torto civile sono entrambi
fatti illeciti, nell'ambito dell'ordinamento giuridico. Ma il reato è cosa ben più
grave dell'illecito civile. Il reato, per la sua gravità, danneggia la società e
dunque lo Stato stesso. Il torto civile, invece, implica un danno tra privati, di cui
lo Stato si interessa solo per apprestare la tutela dell'ordinamento giuridico a
chi tra i due ha subito il danno. Nel processo penale, una parte è l'imputato, e
l'altra parte è sostanzialmente lo stato, rappresentato dal Pubblico Ministero;
mentre nel processo civile, entrambe le parti, di norma, sono private. Quanto
alle sanzioni, esse sono proporzionate, per gravità e natura, al tipo di illecito.
Nel diritto penale, sono severe, hanno natura punitiva e consistono nella
privazione della libertà personale del delinquente. Ciò è confermato dalle
stesse pene pecuniarie, che nel diritto penale non vengono versate alla vittima.
Le sanzioni civili, invece, sono meno terribili, non hanno natura punitiva, e
consistono nella riparazione del danno al danneggiato, mentre lo Stato non
percepisce nulla dall'autore del torto civile. Nell'ambito penale, per determinare
la pena giusta, è importante appurare l'elemento soggettivo, cioè il grado di
partecipazione soggettiva al fatto commesso dall'imputato. (Es. Omicidio: è
fondamentale accertare se il soggetto ha agito con dolo o con colpa. Se ha
agito con dolo, vi sarà un omicidio doloso, per cui è prevista una pena non
inferiore ai ventuno anni (art. 575 c.p.); se, invece, il soggetto ha agito solo con
colpa, si avrà un omicidio colposo, con la pena minima di 6 mesi e massima di
5 anni ( art. 589 c.p.)). Nell'ambito civile, invece, il risarcimento del danno è
commisurato all'ammontare del danno arrecato. (Es. L'omicidio doloso,
nell'ambito civile, non comporta necessariamente una sanzione più elevata
rispetto all'omicidio colposo). Per tornare all'esempio fatto, l'omicidio
rappresenta allo stesso tempo un delitto ed un illecito civile. Alcuni principi
costituzionali valgono solo per il diritto penale, e non per il diritto civile.

Occorre distinguere, ora, il diritto penale da quello amministrativo, ed in


particolare dal diritto punitivo amministrativo. Il che equivale a distinguere i
reati dagli illeciti amministrativi.

Piano formale: Anche qui il criterio distintivo si basa sui nomi diversi delle
sanzioni. Nel diritto amministrativo non sono previste pene detentive, e le pene
pecuniarie non prendono il nome nè di multa nè di ammenda, ma si chiamano
sanzioni amministrative o sanzioni pecuniarie.
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Piano sostanziale: Vi sono alcuni punti in comune tra i due tipi di illeciti e fra le
due categorie di sanzioni. Quanto agli illeciti, si tratta in entrambi i casi di
illeciti che interessano la collettività, e non un terzo danneggiato. Quanto alle
sanzioni, entrambe hanno carattere punitivo, e non meramente risarcitorio.

Sotto il profilo della disciplina, la legge di riferimento per il sistema punitivo


amministrativo - l. n. 689 del 1981- prevede per l'illecito amministrativo
principi e regole molto simili a quelle predisposte dal codice penale e dalla
stessa Costituzione per i reati. Il legislatore ha, quindi, deciso che molte delle
regole del diritto penale debbano valere anche per gli illeciti amministrativi.
L'autorità competente per irrogare le sanzioni amministrative non è il giudice
penale, ma l'autorità amministrativa di volta in volta designata dalla legge.
Qualora il soggetto colpito dalla sanzione faccia opposizione, si avrà un vero e
proprio processo davanti all'autorità giudiziaria, non davanti al giudice penale
ma a quello civile.

Principale differenza sostanziale: diversa gravità dell'uno e dell'altro. L'illecito


penale è più grave di quello amministrativo. Questa differenza risulta palese se
si prende come esempio delitti gravissimi come l'omicidio.

Il diritto penale va distinto ancora dal diritto processuale penale . Il primo si


occupa dei delitti e delle pene, cioè dei reati e delle rispettive sanzioni. Il
secondo predispone le regole processuali per l'accertamento dei reati e per
l'irrogazione delle sanzioni.

E' bene distinguere il diritto penale dal diritto penitenziario, il quale si occupa
delle regole per le modalità di esecuzione della pena, e che sono disciplinate
dall'ordinamento penitenziario.

Infine, il diritto penale non va confuso con il diritto delle misure di prevenzione.
Si tratta di misure come il rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la
sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, il divieto ed obbligo di
soggiorno, destinate ad essere applicate a soggetti che si siano dimostrati
pericolosi, ma in assenza della commissione di un reato. Distinzione principale:
presupposto dell'irrogazione di una pena criminale è la realizzazione di un
reato, mentre per l'applicazione di queste misure preventive ciò non occorre.
Queste misure possono essere afflittive (aspetto repressivo più che
preventivo).

Diritto penale, sicurezza sociale e garanzia.

Il diritto penale è quella branca del diritto le cui norme concernono i reati e le
sanzioni penali. Andrebbe forse più correttamente denominato, come si è fatto
per secoli, diritto criminale, nel senso che esso si occupa dei crimini e dunque
degli illeciti più gravi in assoluto. Nasce perchè l'ordinamento giuridico deve
necessariamente reagire contro il crimine, cercando di limitarlo al minimo,
proteggendo in tal modo la società civile. La prima istanza che il diritto penale

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persegue è quella di protezione della collettività dal crimine. In sostanza, il
diritto penale è il diritto che più di ogni altro ha a che fare con la sicurezza
sociale. Non è un caso che il Carmignani lo avesse definito il "diritto delle leggi
della sicurezza sociale". Mira a tutelare i cittadini in uno dei diritti più
importanti che lo Stato deve loro assicurare: quello della sicurezza. La
necessità di proteggere la collettività dal crimine è l'unica giustificazione del
diritto penale, che, diversamente, non avrebbe senso e sarebbe inutilmente
vessatorio per i destinatari delle sue sanzioni. Nel perseguire il fine di sicurezza
sociale, il diritto penale deve tener conto del fatto che, utilizzando le sanzioni
più dure che l'ordinamento conosca, crea problemi sul piano della garanzia.
L'inflizione di pene così dure è potenzialmente produttiva di perdite di diritti
inalienabili dei cittadini, quali la stessa libertà personale. Il diritto penale deve
barcamenarsi tra due opposte esigenze: quella della sicurezza sociale e quella
della garanzia. Il perseguimento della prima ridurrebbe intollerabilmente la
seconda; il rispetto a tutti i costi della seconda vanificherebbe la prima.

La scienza penale

Si diceva che la scienza penale è cosa diversa dal diritto penale. La prima è
una disciplina del sapere; la seconda una parte del diritto positivo del nostro
Paese.

Oggetto, natura e funzioni della scienza penale.

E' assai importante per uno studioso del diritto penale occuparsi della storia del
diritto penale, del diritto penale comparato, e della politica criminale. La storia
del diritto penale è quella disciplina che si occupa sia della storia del diritto
penale positivo (es. codificazione penale), sia della storia della stessa scienza
penale. Quanto al diritto penale comparato, essa è quella disciplina che si
occupa sia dello studio del diritto positivo delle altre nazioni, sia della scienza
penale delle altre nazioni, sempre che vi sia comparazione col nostro diritto. Se
manca l'aspetto comparatistico, è più corretto parlare di diritto penale
straniero. La storia del diritto penale ed il diritto penale comparato non sono
che due aspetti della stessa disciplina comparatistica. La comparazione può
essere diacronica (concerne tempi diversi) e si ha la storia del diritto; oppure,
può essere diatopica (concerne luoghi diversi) e si ha il diritto comparato. Se il
ius conditum può anche essere studiato senza un'adeguata conoscenza della
storia del diritto e della comparazione, il ius condendum può essere affrontato
solo attraverso il ricorso alla storia e alla comparazione. Quando si parla di
riforma, è necessario far ricorso alla politica criminale. Questa può essere
definita come quella branca del diritto penale (inteso come scienza penale) che
si occupa in particolare della ricerca dei mezzi più idonei per contrastare il
crimine. Oggi, l'opinione maggioritaria propende per l'inclusione della stessa
politica criminale nell'ambito della scienza penale in genere. Ciò in quanto è
vero che la politica criminale è materia che risente fortemente della natura

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politica di essa. Non è detto che uno studioso del diritto penale non debba o
non possa avere idee politiche attinenti alla materia di cui proprio lui è
l'esperto. La scienza penale non deve nè può essere considerata a tutti gli
effetti una vera scienza. Il diritto è in gran parte dipendente da scelte politiche
del legislatore. Esempio: dolo (art. 43 c.p.): il lancio di sassi dal cavalcavia di
un'autostrada con morte di un automobilista. Non è possibile reperire
parametri puramente oggettivi per affermare con certezza che in un tale caso
vi sia dolo o colpa cosciente. Le interpretazioni delle regole e delle figure
rilevanti per il diritto penale non vanno giudicate in termini di giusto e
sbagliato, ma casomai di più o meno plausibile, più o meno ragionevole, più o
meno coerente con l'impostazione generale in base alla quale il singolo
studioso organizza la sua concezione del sistema penale. Il diritto penale
sarebbe inquadrabile nell'ambito di una serie di dogmi, che rappresenterebbero
regole pure di teoria generale del diritto penale insuscettibili di negazione. La
dogmatica penale sarebbe addirittura cosa indipendente dall'assetto del diritto
positivo. La scienza del diritto penale, nei secoli, grazie all'evoluzione della
dogmatica, ha fatto grandi passi avanti nella costruzione di una sorta di
grammatica comune (Fletcher), di linguaggio che in qualche modo va al di là
dei contenuti contingenti del diritto positivo. Non determina i contenuti del
diritto penale, che sono variabili a seconda dei vari diritti positivi. La dogmatica
rappresenta uno dei vari strumentari o bagagli di conoscenza di cui la scienza
penale si giova nell'ambito della sua multiforme funzione. Si utilizza spesso il
termine dottrina penale. E'usato come sinonimo di scienza penale e
rappresenta in effetti il frutto del lavoro degli studiosi di questa branca del
diritto. Questo termine viene impiegato per indicare uno dei tre formanti
principali del diritto penale: la dottrina, la legislazione e la giurisprudenza. Solo
la legge e la giurisprudenza contribuiscono direttamente alla formazione del
diritto.

Scienza penale ed altre scienze affini

Bisogna ora parlare della criminologia. Questa branca del sapere, appartenente
alle scienze criminali, si occupa del crimine non dal punto di vista dei valori e
delle norme come la scienza penale, ma dal punto di vista dei fenomeni. Essa
studia il crimine come dato da esaminarsi sotto un profilo empirico-conoscitivo.
Si suddivide in tre sottosettori:

- criminologia critica, che si occupa dell'analisi critica dei processi selettivi di


criminalizzazione e dei meccanismi e finalità dei controlli sociali;

- criminologia eziologica, che si occupa delle cause del crimine. Essa si divide
a sua volta in antropologia criminale, che studia la criminalità come fenomeno
individuale, valutando i fattori biologici (biologia criminale) o psicologici
(psicologia criminale) che spingono l'uomo al delitto, ed in sociologia criminale.

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Quest'ultima studia la criminalità come fenomeno sociale, individuando le
cause sociologiche del crimine.

- criminologia clinica, che si occupa della diagnosi, prognosi e trattamento del


singolo delinquente.

Per certi versi scienza penale e criminologia si sovrappongono, entrambe


concorrono nella costruzione di una superiore scienza penale integrata
(Gesamtestrafrechtswissenschaft). Va poi considerata la medicina legale, che
è costituita da quell'insieme di cognizioni mediche che occorrono nello studio e
nell'applicazione del diritto. In essa rientra la psichiatria forense, che studia le
infermità psichiche ed altri disturbi della personalità; è di grande utilità al
penalista. Altre discipline di interesse del penalista sono la psicologia
giudiziaria e la polizia scientifica.

Quali sono i rapporti fra la scienza penale e la filosofia del diritto?

I nessi fra le due materie ci sono e sono assai consistenti. Si pensi a tematiche
quali la pena o la colpevolezza o problemi più circoscritti ma non meno
complessi come l'eutanasia. Si tratta di questioni che hanno profondi risvolti
filosofici, ma che hanno anche implicazioni penali di immediato rilievo.

La "materia" penale

Detto cosa sono il diritto penale e la scienza penale, resta da vedere cosa
comprenda la materia penale, intesa come materia di insegnamento
universitario. La materia penale non può che limitarsi alla descrizione sintetica
dei contenuti del nostro diritto positivo; accompagnata da una esposizione
anch'essa sintetica delle principali teorie elaborate dalla scienza penale sui vari
istituti descritti. La presente parte dell'opera concernerà solo la parte generale,
e cioè quegli istituti e quegli argomenti del diritto penale che hanno appunto
carattere generale. Lo stesso codice penale è suddiviso in parte generale e
parte speciale. Per parte generale e in genere della materia penale, si intende
qualcosa di più della semplice parte generale del codice. Parte generale
significa ogni argomento di carattere generale utile alla comprensione della
parte speciale del diritto penale.

Diritto penale e diritto criminale

Tradizionalmente, il diritto penale si chiamava diritto criminale (ius criminale).


L'aggettivo criminale continuò ad essere utilizzato dalla dottrina maggioritaria
italiana fino alla seconda metà dell'Ottocento. Carrara adottò la terminologia
tradizionale. Prese posizione sul punto, distinguendo la scienza criminale dalla
scienza penale, ed evidenziando che solo la prima, in Italia e all'estero, aveva
raggiunto risultati appaganti e coerenti sotto il profilo scientifico. La nostra

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disciplina si occupa dei delitti e delle pene (Beccaria). Oggetti della nostra
branca del diritto non sono solo gli illeciti (reati, crimini, delitti), ma anche le
sanzioni (pene). Entrambe le terminologie -penale e criminale- sarebbero
corrette. Utilizzando l'espressione penale, si enfatizza l'aspetto delle sanzioni
che caratterizzano la materia; utilizzando il termine criminale, si enfatizza
l'aspetto degli illeciti che connotano la nostra disciplina. Sarebbe più
appropriato utilizzare il termine criminale, ma, oggi, l'espressione corrente è
diritto penale.

Capitolo 2

Cenni storici

Storia e diritto penale: le costanti e le variabili

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Va sottolineata l'importanza della storia nell'ambito dello studio del diritto
penale. Solo attraverso lo studio della storia, ad es., ci si può rendere conto di
quanto le teorie penalistiche e la legislazione penale siano variabili nel tempo.
A questo proposito, il Nuvolone aveva distinto tra le costanti e le variabili del
diritto penale. Le prime concernevano quegli aspetti del diritto penale che
potevano dirsi costanti nel corso della storia (punibilità dell'omicidio). Le
seconde riguardavano quei profili del diritto penale per loro natura variabili nel
tempo (punibilità di certi illeciti economici). In realtà, nulla nel diritto penale è
del tutto costante. E' vero che vi sono aspetti del diritto penale più o meno
variabili, ma la regola è la variabilità. La storia consente di guardare
all'oggetto di studio in una prospettiva dinamica ed è questa l'unica prospettiva
corretta nell'ambito di una disciplina in continuo divenire.

Storia della scienza penale, storia della legislazione penale, e storia


della giurisprudenza penale.

Nell'ambito della storia, è bene distinguere in primo luogo fra storia della
scienza penale e storia della legislazione penale. La prima è la storia del
pensiero penalistico attraverso i secoli. E' la storia del diritto che si trova negli
scritti di dottrina penale: tanto che si può dire che scienza penale e dottrina
penale siano per certi versi veri e propri sinonimi. La dottrina, però, è cosa
diversa dalla legislazione. La storia delle legislazioni penali è la storia delle
leggi scritte in materia penale. Essa ha risentito dello sviluppo della scienza,
ma per di più delle esigenze e delle istanze del potere costituito. Le due cose
vanno comunque tenute distinte. Diversa ancora dalle prime due è la storia del
diritto positivo. Una storia del diritto positivo fatta bene non dovrebbe essere,
dunque, nuda storia delle legislazioni, ma soprattutto dovrebbe essere storia
della giurisprudenza sviluppatasi su tali disposizioni di legge scritta.
L'importante è avere la consapevolezza del fatto che il diritto è il prodotto di
più fattori, e ciò non vale solo per il diritto presente, ma per il diritto passato.

L'epoca del diritto comune

Si legge talvolta negli scritti dedicati alla storia del diritto penale che questo
nascerebbe con l'Illuminismo. Con esso, si affermano alcuni dei principi più
importanti del moderno diritto penale; e, primo fra tutti, si attesta il principio di
legalità. L'enorme edificio del sapere penalistico non si esaurisce in tali pur
notevoli principi. E' fatto anche di regole, di istituti, e di nozioni che si sono
sviluppate nel corso dei secoli sin dal diritto romano. L'omicidio, ad es, non
nasce con l'Illuminismo. Già esisteva prima, e già da secoli aveva ricevuto dalla
dottrina, dalla legislazione e dalla giurisprudenza una serie di progressivi
sviluppi che ne facevano una figura fortemente delineata. Lo stesso si potrebbe
dire del dolo.

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Linee-guida del periodo pre-illuministico:

- scienza--> la dogmatica del diritto criminale si è sviluppata nel tempo, grazie


all'apporto plurisecolare di generazioni di giuristi. Si può parlare già di dottrina
criminalistica ai tempi dei romani e poi nel Medioevo. Per secoli i criminalisti si
dedicarono soprattutto alla parte speciale, ossia allo studio delle singole figure
di reato (omicidio, furto, rapina, stupro, ecc.). Per arrivare a concepire una vera
parte generale del diritto penale si deve attendere il '500, periodo in cui Tiberio
de Ciani (ritenuto il fondatore della parte generale) trattava già tematiche che
si trovano oggi nei principali manuali di diritto penale- parte generale, quali il
dolo, la colpa, ecc. E' in questo periodo, dunque, nello splendore del
Rinascimento, che l'Italia viene definita come " culla del diritto penale". Nel
corso del '600- '700, l'Italia non è più la culla del diritto penale, poichè questo
studio si porta altrove.

- legislazione--> nel lungo periodo del diritto comune, la legislazione


rappresentava solo una delle fonti del diritto, anche penale. Le leggi scritte
erano soprattutto quelle romane del Digesto Giustinianeo. Tra queste, c'erano i
cosiddetti libri "Terribiles" che contenevano le norme penali. Esse venivano poi
integrate con norme statutarie che le singole comunità si davano. Le opinioni
dei doctores e le decisioni giurisprudenziali colmavano le lacune delle leggi e
avevano grande autorità, ma creavano uno stratificarsi di varie fonti normative
e di conseguenza grande confusione. Dal XIII sec. sino al 1700 le leggi penali,
sempre incerte, furono caratterizzate da una severità sia quanto ai precetti
(comandi e divieti imposti dalle norme) sia in quanto alle sanzioni.

a) Precetti: il diritto penale puniva meri atteggiamenti interiori, lesa maestà


(ribellione al sovrano), comportamenti semplicemente derivanti da precetti
morali o religiosi, quali magia, eresia, blasfemia, e ogni comportamento
sessuale irrituale, quale omosessualità, bestialità, stupro.

b) Sanzioni: erano previsti supplizi atroci e crudeli, quali la pena di morte e i


lavori forzati a vita, oppure pene infamanti quali la gogna o il marchio, o ancora
la tortura. Alle misure propriamente penali, si univa spesso la confisca generale
dei beni del condannato, con effetti anche sulla famiglia del reo, e dunque
persone innocenti, con violazione del principio attuale della personalità e della
responsabilità penale.

- giurisprudenza--> fino al XVI sec. erano soprattutto i doctores ad imporre le


loro interpretazioni delle leggi scritte o non scritte, successivamente questa
autorità passò nelle mani dei collegi giudiziari più illustri d'Europa.

Illuminismo e diritto penale

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L'epoca d'oro del diritto penale coincide con l'Illuminismo e quindi con la
seconda metà del'700.

- scienza--> i filosofi entrano nel vivo della questione criminale e affrontano


l'assetto del diritto penale. Montesquieu, in Francia, aveva posto le basi
filosofiche-politiche della riforma penale. In Italia, Beccaria nel suo Libro "Dei
delitti e delle pene", delineò le coordinate di un nuovo diritto penale, cercando
di combattere lo stato di incertezza e confusione delle norme, l'eccessiva
severità del sistema punitivo. Erano tre i principali filoni su cui si sarebbero
sviluppate le dottrine dell'illuminismo penale: certezza del diritto,
umanizzazione del diritto, costruzione di un diritto penale laico. Fondamento di
questi tre principi era il rapporto tra Stato e cittadino e il contratto sociale alla
sua base. Il cittadino si impegnava con lo Stato a cedere parte delle sue libertà,
per riceverne protezione e sicurezza. Pertanto ogni precetto penale poteva
limitare la libertà dei cittadini allo scopo di rendere il sistema capace di
proteggere i cittadini.

a) Certezza del diritto: Beccaria ritiene che i cittadini avessero diritto di


conoscere le leggi penali in modo tale da poter orientare poi le loro azioni,
scegliendo tra lecito ed illecito, ed essendo a conoscenza delle sanzioni per
ogni tipo di reato.

b) Umanizzazione: il cittadino non avrebbe mai ceduto allo Stato il potere di


infierire su di lui con crudeli tormenti, supplizi e pene di morte. Pertanto la
pena doveva essere dolce e proporzionata, pronta e certa.

c) Laicizzazione: essa è collegata al fondamento contrattualistico della potestà


punitiva, pertanto bisognava punire il cittadino solo in caso di commissione di
illeciti capaci di arrecare danno ad altri o alla collettività.

- legislazione--> verso la fine del '700, anche i legislatori cominciarono a


cambiare rotta. Si stava realizzando il passaggio alle grandi codificazioni
moderne, che si realizzeranno poi nell'Ottocento. Si affermano i primi
documenti che abolivano la pena di morte e soprattutto i delitti di lesa maestà.
Nel 1787 venne approvato il primo codice penale, quello austriaco di Giuseppe
II, che aboliva la pena di morte, salvo casi eccezionali. Nel 1789, in Francia, si
approvava la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che contiene
numerosi principi di matrice penalistica ( es. la legge deve proibire le azioni
nocive alla società; ciò che non è vietato dalla legge non è vietato all'individuo
umano).

- giurisprudenza--> secondo il pensiero illuministico il giudice avrebbe dovuto


ridursi ad essere una "bocca della legge", anche se si ammetteva che un certo
margine di attività interpretativa non poteva essere sottratto ai giudici.
Comunque si mirava a limitare lo spazio di discrezionalità dei giudici, cercando
di affermare il principio della riserva di legge.

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L'Ottocento

E' il secolo delle grandi codificazioni penali.

- scienza--> si affaccia sul palcoscenico della scienza penale il metodo di


studio della cosiddetta "scuola classica", impregnata sulla bipartizione tra
elemento oggettivo e soggettivo del delitto. Nella seconda metà del secolo
compare nella scuola classica Francesco Carrara, il più grande criminalista
italiano di tutti i tempi. Altro esponente è Luigi Lucchini, il principale
compilatore del codice Zanardelli del 1889 e critico dei sostenitori della scuola
positiva, una scuola che si affacciò sulla scena della dottrina penale nell'ultimo
quindicennio del secolo. Uno degli esponenti più famosi Cesare Lombroso
sosteneva che il delitto era il prodotto di malformazioni genetiche riscontrabili
nei tratti fisiognomici dei delinquenti. Perno della dottrina penale della Scuola
positiva era costituito dalla considerazione che il delinquente fosse
riconoscibile da tratti genetici, psicologici, sociologici, tali per cui dovessero
essere previste misure di sicurezza capaci di curare o segregare per sempre il
delinquente.

-legislazione--> il primo vero e proprio codice emanato in un territorio che


poi, con l’unità, avrebbe fatto parte dell’Italia, può ritenersi il codice penale di
Piombino del 1808, che precedette il codice penale napoletano del 20 maggio
1808. Sia l’uno che l’altro codice avevano tratto ispirazione dal progetto di
codice penale che fu realizzato a Milano nel 1806. Questo doveva essere il
codice penale per il regno d’Italia napoleonico, ma il codice penale francese fu
talmente influente da essere imposto anche all’Italia. Il codice penale francese
del 1810 fu un codice di estrema importanza nella storia del diritto penale
europeo ed italiano. Esso era decisamente autoritario, dotato di una parte
generale più scarna, imperniato sui divieti e comandi caratterizzati da un
lessico normativo secco ed efficace.Con la Restaurazione, e dunque dopo il
1814, i vari Stati italiani si diedero a progettare i vari Codici penali. Il primo
Stato fu il Regno delle due Sicilie, con il codice del 1819, ispirato al modello
francese e migliorato nel processo di umanizzazione delle pene che trovava le
sue radici nell’illuminismo. Un anno dopo fu emanato il codice penale
parmense. Nel 1832 venne emanato il regolamento penale gregoriano per gli
Stati della Chiesa, caratterizzato da una forte impronta confessionale e dalla
durezza delle pene. Nel regno di Sardegna, nel 1839, fu emanato il codice
Albertino che prese come modello il codice francese. Nel 1853 nel Granducato
di Toscana si realizzò il primo vero codice penale ispirato ad un modello
germanico, caratterizzato da soluzioni tecniche all’avanguardia, da un dettato
legislativo felice e da una particolare attenzione all’istanza dell’umanizzazione.
Il 1859, nella Torino sabauda, si procedette alla sostituzione del codice sardo
del 1839 con il cosiddetto codice sardo-italiano esteso poi al resto d’Italia. A
quel punto cominciarono i lavori preparatori per la compilazione del primo vero

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codice penale dell’Italia unita conclusi nel 1889, il Codice Zanardelli, in cui fu
abolita la pena di morte.

-giurisprudenza--> la realizzazione dei codici penali ottocenteschi non riuscì


nell’intento di eliminare l’apporto interpretativo dei giudici. Alcuni importanti
tribunali italiani, impostati sul modello della corte di cassazione francese o su
quello della corte di revisione tedesca, svolsero il loro compito integrativo dei
dettati codicistici in modo assai encomiabile. Si cercò di limitare lo strapotere
dei giudici e di contenere i contrasti giurisprudenziali. Il principio di legalità
vietava già allora ai magistrati di utilizzare l’analogia sfavorevole al colpevole:
cosicché ai giudici non era concesso di creare nuovi reati. Sotto il secondo
profilo si attribuì per gran parte dell’ottocento notevole importanza alle
decisioni giudiziarie dei più alti tribunali dello Stato sicché esse venivano a
costituire di norma veri e propri precedenti vincolanti. Già nel corso
dell’ottocento si pose in concreto il problema dei contrasti giurisprudenziali,
soprattutto all’indomani dell’unità d’Italia, quando coesistevano in un’unica
nazione due diversi codici penali e ben 5 corti di cassazione. Solo nel 1889 fu
istituita a Roma la cassazione unica penale.

Il Novecento

La storia del diritto penale del novecento è la storia recente del nostro diritto
penale. Esso è il secolo che ha visto importanti conquiste di civiltà da parte del
nostro diritto penale, ma molti nodi erano ancora rimasti sostanzialmente
irrisolti. Visto il perdurare della diatriba tra scuola classica e scuola positiva si
affermò una cosiddetta terza scuola che mirava ad una mediazione tra le due.
Uno dei maggiori esponenti di tale scuola fu Arturo Rocco il quale decise di
tornare a dedicarsi agli istituti più classici della parte generale del diritto, (dolo,
colpa, ecc) ed allo studio delle fattispecie penali, ossia dei reati. Un tale studio
avrebbe dovuto svolgersi appunto da tecnici del diritto, lasciando da parte ogni
taglio critico o filosofico. Il cosiddetto tecnicismo giuridico ebbe decisamente
sopravvento durante il ventennio fascista. Infatti un tale approccio al diritto
penale era l’ideale per l’esaltazione del diritto positivo vigente e cioè per le
leggi emanate durante il fascismo, fra cui il codice Rocco. All’indomani della
caduta del regime fascista cominciarono a manifestarsi le prime convincenti
reazioni ad indirizzo tecnico giuridico. L’entrata in vigore della costituzione del
1948 stimolava i penalisti di casa nostra a ripensare al diritto penale, ed allo
stesso codice Rocco, in termini di compatibilità con la costituzione stessa. Solo
all’inizio degli anni ‘70 verrà riformulata l’intera teoria del reato fondandola sui
principi emergenti della nostra carta costituzionale.
Quanto alla legislazione, nei primi decenni del novecento campeggia ancora il
codice Zanardelli. Il governo fascista poi decise di procedere ad una
ricodificazione del diritto penale, sotto la regia del ministro guardasigilli Alfredo
Rocco, grazie all’apporto tecnico di valenti penalisti come Arturo Rocco,

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Vincenzo Manzini, fu emanato un nuovo codice penale. Esso entrò in vigore
nell’ottobre del 1930 congiuntamente con un nuovo codice di procedura
penale. Il codice Rocco è ancora in vigore, nonostante vari rimaneggiamenti.
Esso derivava dal codice del 1889, ma indubbiamente le innovazioni furono
molte, spesso nel segno dell’involuzione autoritaria e dell’istanza repressiva
liberticida. In primo luogo nell’ambito delle sanzioni fu reintrodotta la pena di
morte. Alle prime vennero affiancate le misure di sicurezza. Vennero previste
pene assai elevate ed eliminate le circostanze attenuanti generiche. La parte
generale era indubbiamente ben congegnata, anche se talora piena di
definizioni e regole sin troppo articolate. La parte speciale poneva l’accento sui
diritti contro la personalità dello stato e relegava all’ultimo posto i delitti contro
la persona. Proliferavano delitti tipici di una dittatura, quali reati politici, reati di
opinione e così via. Il codice Rocco non abbandonò del tutto i postulati di
carattere liberale che contraddistinguevano in codice Zanardelli: si pensi alla
riconferma dei principi di legalità. Successivamente alla caduta del regime
fascista si pose il problema dell’abrogazione del codice del 1930, ma questo
non venne, per vari motivi, mai realizzata. Quanto alla giurisprudenza nel corso
del XX secolo essa ha continuato a svolgere l’attività di formazione del diritto
positivo italiano. Nel periodo fascista la supremazia della legge riuscì ad
imbrigliare maggiormente i giudici, i quali vennero sottoposti a controlli da
parte del governo e i vertici della magistratura si allinearono al partito di
governo. Dopo la caduta del regime fascista, negli anni 60, si cominciò a
manifestare il fenomeno della cosiddetta supplenza giudiziaria, ossia un
maggiore intervento da parte di giudici che, di fronte alla lentezza delle riforme
legislative, intervenivano anticipando essi stessi le riforme auspicate tramite
azzardate letture creative della legge penale, comportando violazioni del
principio di legalità. Tutto ciò comportò un lento degrado della certezza del
diritto penale, poiché in certi settori fu sostituito dal cosiddetto diritto penale
giurisprudenziale, fatto dai giudici, un diritto incerto e variabile pur di fronte a
casi analoghi o talora identici. Ad oggi questo fenomeno si è affievolito.

Capitolo 3

Il quadro attuale

Distingueremo anche in questo caso scienza, legislazione e giurisprudenza.

La scienza

Si diceva poc'anzi che la dottrina italiana, dagli anni Settanta del secolo scorso,
ha incominciato a riscrivere un diritto penale dal nuovo volto, e cioè impostato
sulla Costituzione. Se l'approccio costituzionale ha dato molto alla nostra
scienza penale, non si può dire che questa sia stata l'unica preoccupazione dei
criminalisti di casa nostra.

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Principali nuovi oggetti di studio dei doctores:

a) scienze empiriche come la sociologia, la psicologia e la stessa criminologia.


La Costituzione non può offrire risposte a tutte le domande e ogni tesi
penalistica esposta ha bisogno, per funzionare, di un qualche supporto
empirico.

b) giurisprudenza: ai tempi del Carrara, la giurisprudenza era considerata poco


importante, per una cieca fiducia giusnaturalistica nella ragione della dottrina,
capace di costruire una nozione assoluta e vera di reato come ente giuridico.
Oggi, la giurisprudenza conta sempre di più, nel senso che è sempre più chiaro
che è l'interpretazione offerta dai giudici al diritto scritto a rappresentare il vero
e proprio diritto vivente e vigente nella nazione. Si può ritenere che lo studio
orientato alla prassi giurisprudenziale diverrà sempre più importante in futuro,
e che l'analisi della c.d. law in action ( diritto in azione) prenderà sempre più
piede, mettendo a nudo l'insufficienza della c.d. law in the books (diritto dei
libri).

c) riforma: superato il tecnicismo giuridico, la dottrina italiana si è sempre più


resa conto dell'importanza di dedicarsi, oltre che al commento ed all'esegesi
delle leggi vigenti, anche alla loro critica. E la critica di una legge ( se non è
distruttiva ma mira anche ad essere costruttiva) implica il suggerimento di
proposte di riforma.

d) storia del diritto penale: Sergio Vinciguerra ha cominciato, nei primi anni '90,
a ripubblicare i codici italiani preunitari in ristampa anastatica, facendo
precedere la ristampa da interessanti interventi di storici del diritto e di
criminalisti. L'abbandono del metodo tecnico giuridico porta con sè quasi
automaticamente un rifluire dell'interesse dei penalisti verso quei territori di
indagine che i tecnico-giuridici disdegnavano, quali appunto la storia del diritto.
L'attenzione per la riforma penale implica l'utilizzo della storia: infatti non si
può pensare al futuro del diritto penale senza conoscerne il passato.

e) comparazione: il decennio da poco trascorso (ultima decade del secolo XX)


può definirsi l'epoca dello splendore del diritto penale comparato. Non solo si è
ripresa l'antica tradizione di tradurre in italiano numerosi codici penali stranieri,
ma si sono addirittura pubblicati nella nostra lingua, ad opera di autori italiani
e non, manuali di diritto penale straniero (tedesco, inglese, irlandese,
scozzese). La globalizzazione spinge quasi naturalmente gli studiosi ad
occuparsi del diritto penale straniero, che sempre più tende a ridiventare diritto
comune delle nazioni più industrializzate. Lo sviluppo del diritto penale
internazionale, e del diritto penale europeo, contribuiscono all'accrescimento
della dimensione transnazionale dello studio del diritto penale, e dunque allo
sviluppo del diritto penale comparato, inteso in senso lato.

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f) diritto penale europeo: Viene studiato sotto vari aspetti; in primo luogo, in
riferimento alle attuali interconnessioni fra diritto europeo e diritto penale,
nell'ambito del ius conditum. In secondo luogo, pullulano gli studi de iure
condendo, orientati a valutare se ed in quale misura il diritto penale possa
europeizzarsi senza snaturarsi. Si è realizzato una sorta di mini-codice penale
europeo, concernente la protezione degli interessi finanziari dell'Unione
Europea, ma completo di parte generale, parte speciale, e norme processuali
(corpus juris). Altre iniziative sono sorte in argomento, tra cui l'idea di
compilare una sorte di codice penale modello per l'Europa, per la realizzazione
di eventuali codici futuri in Europa.

g) diritto penale internazionale: soprattutto a seguito dell'approvazione della


Corte penale internazionale con la Convenzione di Roma del 1998, si è riaccesa
l'attenzione degli studiosi sul c.d. diritto penale internazionale, ossia su quella
branca del diritto che si occupa della punizione dei crimini di guerra, contro la
pace e contro l'umanità.

La legislazione

Ancora oggi è vigente in Italia il codice Rocco del 1930, formato da 734 articoli,
diviso in tre libri, il primo concernente la parte generale, ed il secondo ed il
terzo la parte speciale. La parte generale è compendiata in 240 articoli, e si
divide in 8 Titoli, concernenti rispettivamente: il I, la legge penale; il II, le pene;
il III, il reato; il IV, il reo e la persona offesa dal reato; il V, la modificazione,
applicazione ed esecuzione della pena; il VI, l'estinzione del reato e della pena;
il VII, le sanzioni civili; l'VIII, le misure amministrative di sicurezza. La parte
speciale copre la parte restante del codice, ed è divisa in due libri (secondo e
terzo). Il secondo libro concerne i delitti, ed è diviso in 14 Titoli, concernenti
rispettivamente: il I, i delitti contro la personalità dello Stato; il II, i delitti
contro la pubblica amministrazione; il III, i delitti contro l'amministrazione della
giustizia; il IV, i delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei
defunti; il V, i delitti contro l'ordine pubblico; il VI, i delitti contro l'incolumità
pubblica; il VII, i delitti contro la fede pubblica; l'VIII, i delitti contro l'economia
pubblica, l'industria e il commercio; il IX, i delitti contro la moralità pubblica e il
buon costume; il IX bis, i delitti contro il sentimento per gli animali; il X, i delitti
contro l'integrità e la sanità della stirpe; l'XI, i delitti contro la famiglia; il XII, i
delitti contro la persona; il XIII, i delitti contro il patrimonio. Il terzo libro
concerne le contravvenzioni, ed è diviso in 2 Titoli, riguardanti rispettivamente:
il I, le contravvenzioni di polizia; il II, le contravvenzioni concernenti l'attività
sociale della pubblica amministrazione. Si è aggiunto anche un II-bis, dedicato
alle contravvenzioni riguardanti la tutela della riservatezza. Non si deve
credere che il codice esaurisca la materia penale, se il codice contiene qualche
centinaio di reati, la normativa extracodicistica (leggi speciali o
complementari) ne contiene svariate migliaia. Ma se molte sono state le leggi
penali degli ultimi decenni, è anche vero che la riforma vera del nostro diritto

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penale è ancora da attuarsi. Sin dai primi anni successivi alla II seconda guerra
mondiale si cominciarono ad elaborare progetti di nuovi codici penali:

- Progetto Pagliaro (1992): riguarda sia la parte generale che la parte speciale.
Si tratta di uno "Schema di delega legislativa per l'emanazione di un nuovo
codice penale". A causa dell'impostazione di semplice schema di legge-delega,
ma soprattutto per ragioni politico-istituzionali, non ha prodotto alcun risultato
in Parlamento.

- Progetto Riz (1995): disegno di legge di iniziativa parlamentare concernente


solo la parte generale. Anche in questo caso, nulla di fatto.

- Progetto Grosso (1998): approntato nel settembre 2000 e riveduto nel maggio
2001. Riguarda solo la parte generale. Non manca di senso pratico ed evita
saggiamente inutili barocchismi. Sarà un utile punto di riferimento per la
riforma del codice penale italiano.

- Progetto Nordio (2004)

- Progetto Pisapia (2006)

La giurisprudenza

La giurisprudenza non cessa di contribuire attivamente alla formazione del


nostro diritto penale. Gli stessi giudici vanno pian piano accorgendosi
dell'eccessivo numero di contrasti giurisprudenziali che si registrano in materia
penale. E' chiaro come ciò rischi di minare in radice la certezza del diritto.
Alcuni illustri esponenti della magistratura suggeriscono l'opportunità di
attribuire maggiore valore a certe importanti decisioni, ad es. a quelle delle
Sezioni Unite della Cassazione.

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Parte prima

Principi costituzionali

Capitolo 1

Premessa: i principi costituzionali fondamentali in materia penale

La principale fonte del nostro diritto penale è il codice penale. Anche la


Costituzione italiana, però, detta numerosi principi che hanno importanti
ripercussioni sul nostro diritto penale. Contiene alcuni principi cardine di
importanza centrale per guidare sia lo studioso che il pratico alla comprensione
della natura e della funzione del nostro diritto penale odierno. I principi
costituzionali rilevanti per il diritto penale sono assai numerosi. Si tratta di
principi caratteristici della branca penalistica, e capaci di contribuire a
differenziare la stessa nozione di reato rispetto ad altre categorie di illeciti. Tali
principi sono i parametri attraverso i quali si può costruire una teoria generale
del reato moderna. Ci si occuperà del principio di legalità, del principio di
offensività e del principio di colpevolezza.

Capitolo 2

Il principio di legalità

Il principio di legalità: profili introduttivi

Principio di legalità: "Nullum crimen, nulla poena, sine praevia et clara lege
poenali" ( Nessun reato, nessuna pena, senza una previa e chiara legge penale
(Feuerbach)). E' il principio, affermatosi soprattutto con l'Illuminismo, in base al
quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore
prima della commissione del fatto, legge che chiaramente deve vietare la
commissione di quel fatto e che deve prevedere una pena in caso di
trasgressione del divieto. Si propone come principio garantistico; implica da un
lato la restrizione della libertà dei cittadini, poichè vieta la commissione di
determinate azioni e comporta l'uso di pesanti sanzioni. Il cittadino deve essere
garantito contro gli abusi che lo Stato potrebbe fare del diritto penale, il quale,
usato al di fuori del principio di legalità, si trasformerebbe in puro uso della

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violenza e della forza da parte dello Stato nei confronti dei cittadini. Se lo Stato
impiegasse i ruvidi mezzi del diritto penale al di fuori della legalità, sarebbe
sostanzialmente uno Stato-delinquente esso stesso. Il principio di legalità non
è stato accolto da tutti gli Stati in tutte le epoche. Stati autoritari o forse,
meglio, totalitari, si sono spesso sbarazzati del principio di legalità, reprimendo
condotte non formalmente vietate dalla legge, o punendo con leggi retroattive
fatti che al momento della commissione non costituivano reato. Esempi famosi:
costituiti dal diritto penale dell'Unione Sovietica e da quello della Germania
nazista. Il principio di legalità costituisce un diritto umano fondamentale e
questo è confermato dal fatto che quasi tutte le costituzioni e/o le carte dei
diritti umani lo hanno consacrato fra i principi più importanti come la
Costituzione federale del 1787, la francese Dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino del 1789, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) del
1950, ecc. La nostra Costituzione sancisce il principio di legalità all'art. 25.

Art. 25, comma 2: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che
sia entrata in vigore prima del fatto commesso". (rilevanza costituzionale del
principio di legalità)

Art. 1: "Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente
preveduto come reato dalla legge, nè con pene che non siano da essa
stabilite".

Art. 2, comma 1: "Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la
legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato".

Il principio di legalità ed i tre sottoprincipi di riserva di legge, di irretroattività e


di determinatezza.

Il principio di legalità è costituito da più di un principio. Si tratta di più


sottoprincipi di un unico principio sovraordinato. I sottoprincipi in questione
sono tre: il principio di riserva di legge, il principio di irretroattività, il principio
di determinatezza.

Principio di riserva di legge: Beccaria, aderendo alla concezione


rousseauiana del contratto sociale, evidenzia che è solo la legge che deve
decidere quali azioni dei cittadini debbano essere vietate. Il legislatore è infatti
il naturale depositario delle volontà dei cittadini stessi, che hanno sottoscritto
quel contratto sociale, sacrificando parte della loro libertà in favore della
collettività organizzata. La Costituzione dispone all'art. 25, comma 2 che l'unica
fonte del diritto in materia penale è la legge. Si tratta in sostanza di una vera e
propria riserva di legge. Occorre ora capire se si tratta di riserva assoluta o
relativa; e cosa si debba intendere esattamente per legge. Quest'ultima, il cui
creatore è il Parlamento, offre maggiori garanzie dal punto di vista della
democraticità. Nell'ambito dei tre organi della classica tripartizione dei poteri -
Parlamento, Governo, e Magistratura- è solo il primo a garantire la

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partecipazione sia alla maggioranza che alle minoranze, e ciò è di vitale
importanza nel momento in cui in gioco vi è la stessa libertà dei cittadini. Solo
il Parlamento (potere legislativo) deve avere la prerogativa di scegliere sino a
che punto questa libertà va limitata. Governo- potere esecutivo; magistrato-
potere giudiziario. Il diritto penale deve rispecchiare il più possibile le norme di
cultura (Kulturnormen) diffuse nella coscienza sociale.

Riserva assoluta: se, in materia penale è il Parlamento che deve effettuare le


scelte incriminatrici e sanzionatorie. La legge deve disciplinare ogni aspetto
della materia.

Riserva relativa: il legislatore deve solamente fissarne le linee fondamentali,


potendo rinviare al potere esecutivo per taluni aspetti della normazione.

E' anche vero che ad intendere la riserva assoluta in senso troppo rigoroso, si
dovrebbe arrivare alla conclusione di negare anche una minima possibilità di
intervento da parte dell'esecutivo nell'ambito della legislazione penale. E ciò
potrebbe portare seri problemi pratici. Esempio: si pensi a una norma come
l'art.650 c.p., che prevede il reato di "inosservanza dei provvedimenti
dell'autorità": "Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato
dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico
o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto
fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 206". La norma penale rinvia a
provvedimenti di volta in volta emanati dall'Autorità. Il legislatore non può
specificare in una sola norma tutti i divieti, deve lasciare all'autorità
amministrativa (sindaco, prefetto) la facoltà di prevedere divieti specifici a
seconda delle specifiche esigenze in concreto emergenti; ha operato alcune
scelte fondamentali, capaci di fornire già a livello di fattispecie legale
un'immagine sufficientemente compiuta dell'oggetto del divieto, specificando
che il provvedimento deve essere legalmente dato, e deve essere dettato da
ben specifiche ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o
d'igiene.

Norme penali in bianco: Il legislatore, pur delineando i tratti essenziali della


fattispecie e fissando la sanzione, lascia la descrizione del fatto tipico
sostanzialmente in bianco. Sono rispettose della riserva di legge solo se il
legislatore ha fissato una volta per tutte nella norma determinazioni sufficienti
del precetto, che in sostanza viene ad essere integrato nella sua fisionomia
concreta dalla fonte di grado inferiore. Esempio: si pensi all'ipotesi con cui il
legislatore punisce lo spaccio di determinate sostanze stupefacenti. Egli non
potrebbe elencare tutte le sostanze stupefacenti vietate pensando che un tale
elenco sia esaustivo anche per il futuro. Al fine di permettere l'adeguamento
dell'elenco man mano che nuove sostanze stupefacenti compaiono sul
mercato, il legislatore è costretto a demandare all'esecutivo il compito di

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aggiornare l'elenco. Questo può avvenire con una certa tempestività solo
attraverso una delega all'esecutivo.

Un ultimo problema concerne l'estensione della nozione di legge. Per legge, si


deve intendere la legge in senso formale od in senso materiale? Prevale la
seconda teoria comprensiva di decreti-legge (d.l.) e decreti legislativi (dlgs).
Dlgs--> presuppone una legge delega del Parlamento che fissi i principi cui
l'esecutivo deve attenersi. D.l.--> usato solo in casi straordinari e di urgenza,
perde efficacia ex tunc se non convertito entro 60 giorni.

Si deve, ora, considerare il problema della legittimità delle leggi regionali quali
fonti del diritto penale. La risposta non può che essere negativa. Il diritto
penale è diritto penale italiano, sicchè -in conformità con la dottrina
maggioritaria- anche noi riteniamo che non vi debba essere spazio per le leggi
regionali quali fonti del ius criminale. In secondo luogo, occorre considerare
l'impatto della normativa europea sul nostro diritto penale, anche a seguito
dell'approvazione del Trattato di Lisbona del 2007. La nostra Costituzione
attribuisce al solo Parlamento italiano la potestà normativa in materia penale.

a) La potestà normativa penale resta di competenza nazionale, ma certe norme


europee, individuando aree di libertà del cittadino, possono paralizzare
l'operatività della norma incriminatrice individuando aree di libertà del cittadino
che vengono fatte operare attraverso la causa di giustificazione dell'esercizio
del diritto (art. 51 c.p.), in forza della prevalenza della norma europea.

b) L'Unione Europea può stabilire norme minime relative alla definizione di reati
e sanzioni in sfere di criminalità aventi dimensione transnazionale in un'ottica
di armonizzazione europea in campo penale.

c) Tali norme minime possono riguardare l'an della sanzione penale, ma anche
la configurazione del precetto, e la specie e la misura della pena.

d) In caso di inadempimento da parte del legislatore italiano, vi saranno per lo


Stato specifiche sanzioni sul piano del diritto europeo e la procedura di
infrazione.

e) Il giudice italiano non potrà supplire al mancato adempimento delle direttive


da parte del legislatore nazionale: ciò neppure nel caso in cui il legislatore
abbia abrogato una precedente normativa adeguata rispetto alla domanda di
tutela europea, sostituendola con altra normativa ad essa inadeguata.

f) Il giudice ordinario interno ha tuttavia l'obbligo di interpretare le norme


penali esistenti in maniera conforme al diritto dell'Unione.

g) In materia di interessi finanziari, il nuovo art. 86 TFUE sembra contemplare


una prima forma di competenza penale diretta dell'Unione, esercitabile
mediante regolamento. La normativa europea, comunque, non potrà mai

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derogare ai principi fondamentali di garanzia, sia quelli europei, che quelli del
diritto costituzionale interno.

Rapporto tra riserva di legge e consuetudine: non trovano posto nel nostro
sistema penale la consuetudine come fonte del diritto penale (perchè
produrrebbe una violazione della riserva di legge), la consuetudine abrogatrice
e quella scriminante.

Resta il problema dei limiti entro i quali le pronunce della Corte costituzionale
possono contribuire a definire l'estensione di una fattispecie penale. Se una
norma penale confligge con la Costituzione, essa non potrà essere disapplicata
direttamente dal giudice, nè da quelli di merito, nè da quello di legittimità
(Cassazione). Il giudice potrà peraltro rimettere la questione di costituzionalità
della norma alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sul punto.

Norme di favore: disposizioni che riservano per determinate classi di soggetti


o di condotte un trattamento irragionevolmente più favorevole di quello ad
esse riservate da una disposizione generale vigente nell'ordinamento. La
norma di favore si pone in un rapporto di compresenza e specialità ad una
norma penale, alla quale sottrae senza giustificazione determinati gruppi di
soggetti o di condotte.

Il principio di irretroattività

Principio di irretroattività: esplicitato per la prima volta da Jeremy


Bentham, sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., e dall'art. 2, comma 1, c.p. Esso
comporta il divieto della retroattività della legge penale: il legislatore non può
confezionare una legge penale per andare a punire fatti già commessi in
precedenza, ma può solo predisporre pene per fatti ancora da commettere.
Esempio: uccidere un cane oggi non è reato, salvo che non avvenga tramite
maltrattamenti o che il cane non appartenga ad altri. SeTizio uccidesse il suo
cane oggi e il legislatore introducesse tra un mese il reato di "cinocidio", la
nuova fattispecie non potrebbe essere estesa al caso di Tizio, ma solo per casi
successivi. Alcuni problemi che nascono in relazione a tale principio:

1) il principio implica anche il divieto di un inasprimento sanzionatorio


retroattivo, oppure riguarda solo il caso in cui il legislatore ex novo preveda un
nuovo reato? Il principio si estende anche al caso in cui il legislatore si limiti a
prevedere un aumento di pena: dunque anche gli inasprimenti sanzionatori
devono riguardare solo il futuro.

2) nel caso in cui il legislatore decida, in relazione ad un certo reato, di


diminuire le pene cosa accadrebbe? Il cittadino ha diritto a non essere trattato
peggio rispetto a come viene trattato dalla legge in vigore nel momento in cui
egli commette il fatto. Questa considerazione nasce dall'esigenza di mantenere

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la certezza del diritto e garantire il cittadino dagli arbitri dello Stato nella
repressione penale. Infatti, ove il cittadino possa essere trattato peggio di
quanto non lo sia nel momento in cui egli commette il fatto, questo creerebbe
incertezza sul diritto, nel senso che se l'azione che il soggetto sta per
commettere è lecita, essa in futuro non potrà essere dichiarata
irretroattivamente illecita. Diverso è il caso di eventuale miglioramento di tale
trattamento, poichè il cittadino potrà ottenere benefici dal mutamento della
legge. E' ancora aperto il problema dell'eventuale obbligo di retroattività di
queste norme di favore. Esso non deriva immediatamente dal principio di
irretroattività ma più che altro dal ricorso al principio di uguaglianza (art. 3,
Cost.). Si pensi infatti all'ipotesi dell'abolitio criminis, ovvero dell'abrogazione di
un reato da parte di una legge. Se l'abolizione concernesse solo fatti commessi
successivamente all'entrata in vigore della legge, coloro che hanno commesso
il fatto prima verrebbero certamente trattati peggio. Un principio di obbligatoria
retroattività potrebbe trovare ulteriore e forse più convincente legittimazione
costituzionale, ove si considerasse il precetto di cui all'art. 27, comma 3, Cost,
il quale sancisce il fine rieducativo della pena. Infatti, una modifica favorevole
da parte del legislatore farebbe pensare che quel comportamento, rispetto al
passato, venga ritenuto meno grave o addirittura lecito sotto il profilo penale,
e quindi chi sia stato condannato in base alle pene previste al momento della
commissione del fatto sarebbe costretto a continuare a scontare una pena non
ritenuta più giusta dallo stesso legislatore. Recentemente, la Corte Europea dei
diritti dell'uomo di Strasburgo ha affermato che l'art. 7 CEDU contiene,
implicitamente, il principio di retroattività delle norme penali favorevoli. Altra
questione degna di discussione è se il principio di irretroattività si estenda
anche alle leggi processuali. Casi spinosi sono, di recente, quelli in cui sono
state emanate leggi più severe in tema di custodia cautelare, facendole
retroagire nei confronti di soggetti che avevano commesso il reato prima
dell'entrata in vigore delle leggi stesse. Le Sezioni Unite della Cassazione sono
intervenute sancendo la retroattività di simili norme pur sfavorevoli al reo. La
ratio del principio è quella di salvaguardare la sicurezza giuridica dei cittadini,
per permettere loro di effettuare scelte d'azione consapevoli e conoscere la
legge penale che le regola. Si può sostenere che laddove le norme processuali
contribuiscano a peggiorare sostanzialmente la posizione del reo, questi abbia
diritto a fruire del divieto di retroattività delle norme sfavorevoli. Tra queste
norme potrebbero rientrare quelle in tema di custodia cautelare e ciò potrebbe
trarre conferma dal rilievo che il tempo, trascorso in stato di custodia cautelare,
deve sottrarsi dal computo della pena finale da scontarsi. Viene poi il problema
delle misure di sicurezza. La dottrina ammette in linea generale la retroattività
delle misure di sicurezza, peraltro tenendo fermo il presupposto che il reato a
cui esse conseguono fosse tale anche nel momento della commissione del
fatto. Esempio: se un fatto x oggi costituisse reato, il legislatore tra un mese
potrebbe rendere applicabile a quel fatto- reato una misura di sicurezza prima
non contemplata, oppure prevederne una diversa e anche più gravosa.
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L'importante è che non vengano previste misure di sicurezza per un fatto y che
nel momento in cui fu commesso non fosse nemmeno penalmente illecito.
Laddove una misura di sicurezza fosse una sorta di pena camuffata, il principio
di irretroattività dovrebbe riprendere pieno vigore. Considerando la natura delle
infrazioni, la natura delle sanzioni e il grado di severità che la sanzione
raggiunge in concreto, alcune misure che sono classificate come misure di
sicurezza potrebbero rientrare nella nozione di pena di cui alla CEDU ed essere
così sottoposto ai principi validi alla materia penale. Tra queste pene camuffate
rientra la confisca, che nel nostro ordinamento è considerata come misura di
sicurezza. L'irretroattività può essere espressa o occulta. Espressa quando una
legge dispone tout court per il passato in questo caso una tale legge sarebbe
da dichiararsi immediatamente incostituzionale. E' occulta quando non è una
legge che dispone per il passato, ma è un giudice che, in una sentenza,
estende l'interpretazione di una norma sino a coprire casi che non erano fatti
rientrare in quella norma. Esempio: se nell'omicidio possono rientrare come
vittime solo gli esseri umani, un giudice potrebbe un giorno includere
nell'interpretazione anche una scimmia particolarmente intelligente? Se Tizio
aveva ucciso una scimmia prima della nuova interpretazione e viene
condannato da quel giudice, si può parlare di violazione del principio
costituzionale di irretroattività? Si tratterebbe di una tematica nuova, ancora
senza soluzioni, ma che deve tenere presente che ogni forma di produzione
giuridica è sottoposta al divieto di retroattività e quindi al soddisfacimento dei
requisiti di accessibilità e prevedibilità delle soluzioni adottate dai giudici. Il
principio di irretroattività può trovare deroghe in relazione a crimini di guerra
contro la pace o l'umanità? Il problema si è posto in seguito alla II guerra
mondiale. Infatti al Processo di Norimberga si è proceduto a condanne che
suscitarono critiche in relazione alla violazione del principio dell'irretroattività
della legge penale. In realtà sarebbe impossibile pensare ad un'applicazione
del diritto penale internazionale senza eccezioni nell'applicazione di taluni
principi. Lo Statuto di Roma del 1998, con cui è stata istituita la Corte penale
internazionale, parrebbe risolvere il problema, dal momento che esso codifica,
per la prima volta, le fattispecie criminose rilevanti in materia e sancisce il
principio di legalità.

Il principio di determinatezza

Tra i sottoprincipi del nullum crimen sine lege, viene il principio di


determinatezza, denominato a volte anche di tassatività o di precisione. Mentre
il principio di riserva di legge concerne soprattutto i rapporti fra potere
legislativo e quello esecutivo, il principio in questione riguarda i rapporti fra il
potere legislativo e quello giudiziario. Se la legge non fosse sufficientemente
chiara, il giudice, nell'interpretarla, sarebbe arbitro del significato da attribuire
alla legge. Oltre che al principio di riserva di legge, il principio di
determinatezza è legato anche a quello di certezza del diritto (penale). Solo
leggi chiare e determinate possono dare certezza del diritto. Questo era un

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punto su cui aveva insistito già Beccaria. Egli, infatti, voleva che tutti i cittadini
potessero conoscere in anticipo la legge onde poter compiere meditate scelte
d'azione e voleva, dunque, che i giudici non avessero alcun potere
interpretativo. La dottrina italiana ha da tempo riconosciuto l'importanza di
questo principio, e pian piano la stessa Corte Costituzionale lo ha accolto. Tra i
vari interventi della Corte va segnalata la dichiarazione di incostituzionalità
della norma del codice penale che prevedeva il delitto di plagio (art. 603 c.p.),
avvenuta nel 1981 (Sent. n. 96).

Tecniche volte ad assicurare la tassatività:

1) nell'operare le sue scelte normative, il giudice non si deve allontanare


troppo dal comune sentire sociale. Una norma lontana dalla public opinion
darebbe luogo ad incertezze applicative.

2) utilizzo, nella redazione della fattispecie, della tecnica di normazione


sintetica, imperniata sulla descrizione del nucleo essenziale di disvalore del
fatto, attraverso un'astrazione sintetica dei casi concreti

3) utilizzo di definizioni legislative. Il nostro codice abbonda di simili definizioni


sia nella parte generale (es. dolo e colpa) che in quella speciale (es. pubblico
ufficiale).

- NO alla tecnica della casistica che porterebbe a codici enciclopedici e


lacunosi.

L'utilizzo di tutte queste tecniche non è comunque in grado di infondere alla


legge penale una determinatezza assoluta. Essa, infatti, deve rappresentare un
obiettivo cui la norma scritta deve tendere, seppure con la consapevolezza che
tale obiettivo non sarà mai raggiunto del tutto. Laddove la legge manchi in
maniera plateale tale obiettivo interverrà la Corte Costituzionale per
dichiararne l'incostituzionalità.

Altro problema legato al principio di determinatezza è quello dell'analogia, cioè


quel procedimento attraverso il quale il giudice, di fronte ad un caso concreto
non rientrante in alcuna norma di legge, utilizza una norma e la estende
analogicamente, appunto, per farvi rientrare quel caso. Esempio: se una norma
vietasse di rubare l'uva del vicino, la si potrebbe estendere analogicamente per
punire un caso di furto di vino. L'analogia va distinta dall'interpretazione; e,
mentre, l'interpretazione in materia penale è ammessa, l'analogia è vietata
( ma ammessa in materia civile). Il motivo per cui l'analogia è vietata in ambito
penale è da ricollegarsi al principio di determinatezza. Se tale principio esprime
il primato assoluto del potere legislativo e giudiziario, e sottende un'istanza
fondamentale di certezza del diritto, è chiaro che l'ammissibilità dell'analogia
andrebbe contro tali esigenze. Si discute a livello di teoria generale del diritto
se l'analogia costituisca un tipo di interpretazione, oppure rappresenti
addirittura una fonte del diritto. Se quest'ultima tesi fosse corretta, sarebbe
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ancora più chiaro il motivo per cui l'utilizzo dell'analogia in materia penale
andrebbe considerato contrastante col principio di determinatezza. Bisogna
distinguere fra due forme di analogia:

- in malam partem: implica un'estensione analogica di una norma con effetti


sfavorevoli al reo. L'ammissibilità in materia penale è pacifica. Esempio: si
pensi al caso in cui una norma che vieta il furto dell'uva venga estesa a punire
il furto del vino.

- in bonam partem: si ha quando la norma estesa analogicamente produce


effetti favorevoli al reo. Quanto all'ammissibilità dell'analogia in bonam parte,
la dottrina numericamente maggioritaria forse è favorevole. Esempio: si pensi
all'ipotesi in cui una norma che prevede un'esenzione da pena in caso di
legittima difesa venga estesa al diverso caso della vendetta nei confronti
dell'aggressore. La possibile estensione analogica di norme favorevoli al reo
potrebbe produrre diseguaglianze di trattamento fra i consociati. Ad un
imputato, ad esempio, potrebbe applicarsi analogicamente la legittima difesa;
mentre in relazione ad un altro imputato, di fronte ad identico caso, un diverso
giudice potrebbe non ritenere l'analogia fra la norma che prevede la legittima
difesa ed il caso di specie. Risultato: una grave disparità di trattamento fra i
due imputati, ed il principio di determinatezza deve porsi come baluardo dello
stesso principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

Corollario del principio di determinatezzaprincipio di frammentarietà: il


legislatore, nel formulare le fattispecie penali, deve costruirle in termini di
tipicità, ossia deve individuare dei tipi di condotte lesive e limitare ad essi la
punibilità. Esempio: la truffa (art. 640 c.p.) si realizza se il soggetto, con artifizi
o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto
con altrui danno. Nell'esempio fatto un giudice potrebbe anche punire Tizio,
che non restituisce a Caio un debito di 5 euro. Il principio di frammentarietà
impone che il legislatore (nell'ambito della tutela dei beni giuridici) selezioni le
condotte lesive del bene giuridico, ossia offensive, che desidera sottoporre a
pena. Ciò può essere talora produttivo di lacune, non colmabili, come si è
visto, con l'analogia.

Postilla su principio di legalità e pena

Il principio di legalità concerne sia il reato che la pena, anch'essa da


determinarsi per legge. Le pene vengono stabilite, nei singoli articoli del
codice, esplicitando un minimo ed un massimo: sono i cc.dd. limiti edittali della
pena stessa. Il giudice dovrà decidere, nel caso giudiziario concreto, quale sia
la misura più appropriata da applicarsi tra quel minimo e quel massimo,

Legalità e misure di prevenzione

Il tema dell'estensione del principio di legalità alle misure di prevenzione si è


rivelato storicamente piuttosto dibattuto, non essendo qualificate le stesse

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come vere e proprie pene da parte del legislatore. Si tratta di misure che
vengono applicate a determinati soggetti socialmente pericolosi anche solo
sulla base di indizi della commissione di reati e a prescindere dal pieno
accertamento probatorio di tali illeciti. Sebbene la Corte Costituzionale abbia
affermato che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione
(limitative) è necessariamente subordinata all'osservanza del principio di
legalità e all'esistenza della garanzia giurisdizionale, tale considerazione del
principio di legalità appare aver riguardato soprattutto i corollari della riserva di
legge e della determinatezza. Proprio la ritenuta natura ante delictum e la
funzione spiccatamente preventiva, sono stati gli argomenti che hanno
giustificato un'applicazione delle misure di prevenzione non solo svincolata
dall'accertamento della colpevolezza del preposto, ma anche in chiave
retroattiva.

Capitolo 3

I principi di materialità e di offensività

Premessa

Il principio di legalità riguarda soprattutto il problema delle fonti del diritto


penale. In sostanza, esso è più che altro legato al tema della norma penale e
alla nozione di reato. Sia il principio di materialità che il principio di offensività
paiono di grandissima importanza al fine di poter visualizzare l'immagine del
reato. Ogni reato ha una sua specificità, ma vi sono alcuni requisiti che devono
caratterizzare tutti i reati. Vi sono due requisiti che sono derivati da due
fondamentali principi costituzionali, e cioè il principio di materialità e quello di
offensività. Si tratta fra l'altro di principi fra loro collegati.

Il principio di materialità

Il principio di materialità si esprime nella massima latina nullum crimen sine


actione ( nessun reato senza azione). Si sostanzia nell'esigenza che ogni reato
consti quantomeno di un fatto che sia in qualche modo osservabile, che abbia
insomma riscontri esterni oggettivi. Esempio: una legge penale potrebbe punire
colui che desidera la donna d'altri. Il desiderio, però, non si manifesta
all'esterno, ma si sostanzia in un puro pensiero. Ecco: in questo caso non
sarebbe rispettato il principio di materialità. Infatti, il mero pensiero non è
qualcosa di riscontrabile esternamente in modo oggettivo, ma è qualcosa che
riguarda il solo "foro interno" cioè la coscienza del soggetto. Cogitationis
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poenam nemo patitur: nessuno può patire una pena per il mero pensiero. Il
principio di materialità non trova riscontro in un articolo particolare della
Costituzione ma è supportato dall'intero tessuto della Carta Costituzionale. In
particolare, uno spunto lo si trae proprio dall'art. 25, comma 2, quando si parla
di fatto commesso. Pare trovare conforto nello stesso principio di laicità dello
Stato e dell'ordinamento giuridico, che permea l'intera Costituzione
repubblicana italiana. Principio che impone di disegnare un'immagine del reato
diversa rispetto a quella del peccato. Manifestazione esterna vs atteggiamento
interno. Questa concezione oggettivistica del diritto penale è la stessa che
lascia impunito il mero accordo per commettere un reato nonchè il reato
impossibile, e che punisce il tentativo con pena inferiore rispetto a quella
prevista per il reato consumato. La nostra, comunque, non è una concezione
annoverabile tra i sistemi oggettivi puri poichè uno spazio determinato è
concesso all'aspetto soggettivo del reato. Possiamo dunque parlare di sistema
misto. Infine, il principio di materialità trova conforto nel principio
costituzionale di offensività.

Il principio di offensività

Il principio di offensività è riassumibile attraverso la massima nullum crimen


sine iniuria (nessun reato senza offesa). Evidenzia il fatto che un reato deve
essere offensivo di qualcosa. Non avrebbe senso elevare a reato un fatto che
non arrecasse danno a nessuna persona, a nessuna cosa. o eventualmente alla
società stessa nel suo complesso. Ciò contrasterebbe prima ancora che con la
Costituzione, con lo stesso buon senso.

Reato come offesa (1) vs reato come violazione di un dovere (2).

(1) Accolto dalla stessa Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del
1789. Divenne, nel mondo anglosassone, il manifesto della concezione liberal
del diritto (penale).

(2) Tipico degli ordinamenti totalitari, od impostati sul fanatismo religioso. Al


sovrano, come al capo religioso, non interessa impedire che i cittadini arrechino
danno ad altri, ma piuttosto essi esigono dai sudditi o dai fedeli l'obbedienza
cieca, la fedeltà assoluta e dunque una semplice violazione del dovere di
obbedienza/fedeltà sarà sufficiente ad integrare un delitto (es. concezione del
reato nella Germania nazionalsocialista).

Il bene giuridico

Il principio di offensività è stato riempito di contenuti diversi in epoche ed in


sistemi penali diversi.Diverse tesi:

1) In Italia, sino alla fine dell'Ottocento, prevalse la concezione del reato come
violazione o lesione di un diritto soggettivo. Si riteneva che si potessero
reprimere con la sanzione penale solo quelle condotte che arrecavano una

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diminuzione ad un diritto soggettivo altrui. In questo modo, occorreva sempre
trovare un soggetto capace di essere portatore di quel diritto soggettivo leso
dal fatto delittuoso.

2) A partire dalla metà dell'Ottocento, soprattutto in Germania, ci si cominciò


ad allontanare dall'ancoraggio al diritto soggettivo e si elaborò l'idea del bene
giuridico. In Italia, il Carrara aveva imperniato la sua costruzione del reato sulla
lesione del diritto soggettivo; ma già a partire dalla fine dell'800, cominciò
anche da noi ad affermarsi la teoria del bene giuridico. La nozione di bene
giuridico prende spunto da un oggetto di riferimento della legislazione penale.
Un oggetto che peraltro ha un valore per la collettività, perchè ne rappresenta
un interesse. Esempio: la vita, in quanto bene giuridico, è oggetto di protezione
penale, perchè rappresenta un valore per la nostra società; ciò corrisponde al
fatto che la società ha interesse a preservare la vita di tutti: non a caso,
oggetto giuridico è sinonimo di bene giuridico. Ciò che è discusso è soprattutto
se il principio secondo il quale non si può avere reato senza lesione di un bene
giuridico sia o non sia costituzionalizzato: se possano essere tutelati beni
giuridici estranei alla Costituzione, e se infine vi sia qualche altro punto di
riferimento onde individuare i beni giuridici degni di essere protetti dal ius
criminale.

Il reato come offesa ad un bene giuridico, come principio


costituzionale

Che il principio di offensività abbia rilevanza costituzionale, e che quindi ogni


reato debba ledere un bene giuridico, è acquisizione della dottrina dominante
in Italia. Concepire un modello di reato imperniato sulla violazione del dovere o
su qualche atteggiamento interiore del soggetto, sarebbe certamente
contrastante con l'assetto stesso della Costituzione, che configura uno Stato
laico, tollerante, nel quale la libertà dei cittadini è bene supremo.

Principio di autonomia personale: presuppone che gli individui siano del


tutto liberi di effettuare autonome e libere scelte d'azione, anche se tali scelte
siano censurabili perchè non ortodosse rispetto alla morale comune. Solo se
tali azioni producono un danno, ad altri o alla società, può essere legittimo
l'intervento del diritto penale. (chiave di volta del pensiero liberal
anglosassone).

Si è detto che il principio di offensività richiede che il reato comporti una


lesione del bene giuridico.

-Ma a chi è rivolto questo principio? Al legislatore o al giudice? In prima battuta


al legislatore. Quando egli crea una nuova fattispecie penale, deve assicurarsi
che il fatto previsto come reato, in ogni sua forma di realizzazione, comporti la
lesione di un bene giuridico. Esempio: un legislatore non potrebbe vietare a
chiunque di parlare ad alta voce per strada, sotto minaccia di sanzione penale.

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- Nel caso in cui il legislatore non si adegui al principio di offensività e preveda
come reato un fatto inoffensivo di alcun bene giuridico? Si torni all'esempio del
legislatore che vieta di parlare ad alta voce per strada. In questo caso, sarebbe
difficile riscontrare immediatamente un bene giuridico leso dalla commissione
di un simile fatto. I casi sono due. O la Corte Costituzionale dichiara
incostituzionale la norma per contrasto col principio di offensività. Oppure è il
giudice ordinario che deve cercare di ritoccare interpretativamente il precetto
onde renderlo più conforme al principio di offensività. Tornando all'esempio
fatto qui, il giudice potrebbe reinterpretare la norma nel senso di restringere il
concetto dell'alta voce ai soli casi di schiamazzi, e quindi di applicare la norma
in casi di disturbo della quiete pubblica.

-Nell'ipotesi della messa in pericolo di un bene giuridico? Esempio: scoppio di


una bomba in una piazza che può provocare anche solo un boato, senza
provocare vittime. Si può dire qui che manca la lesione di un bene giuridico e
che dunque non è legittimo punire un tale episodio criminoso? Si deve ritenere
che anche la messa in pericolo di un bene giuridico possa essere sufficiente a
realizzare il principio di offensività.

La teoria dei beni giuridici costituzionali come unici possibili beni


tutelabili

Limitenon tutti i beni giuridici possono essere degni di tutela penale

a) Il catalogo dei beni rilevanti quali beni giuridici tutelabili dal diritto penale si
restringe ai soli beni di rango costituzionale.

Limitela Costituzione è del 1948, periodo in cui non erano emersi alcuni beni
che sarebbero poi emersi con forza nelle decadi successive (es. ambiente,
come bene giuridico a sè stante, non è contemplato dalla Costituzione)

b) Includere tra i beni giuridici di rilievo costituzionale non solo quelli espliciti
ma anche quelli impliciti ( es. l'ambiente doveva dirsi implicitamente contenuto
nella Costituzione, che d'altra parte tutela sia il paesaggio (art.9, comma 2), sia
la salute (art. 32), nonchè la vita umana).

Limite maglie troppo larghe per fungere da chiara guida al legislatore.

Partendo da un'enfatizzazione del ruolo di extrema ratio del diritto penale,


alcuni autori hanno proposto di riservare la tutela penale ai soli diritti umani
fondamentali. Così, si realizzerebbe un diritto penale minimo, che avrebbe
anche il pregio di limitare l'utilizzo della sanzione penale, la più dura delle
sanzioni. Particolarmente fecondo si è mostrato l'utilizzo di punti di riferimento
di carattere sociologico, ruotanti attorno al problema del consenso sociale.
Numerosi autori hanno evidenziato che il diritto penale funziona solo se si trova
in sintonia con la coscienza sociale. Collegata a questo tema è la questione
della c.d. funzione promozionale del diritto penale. Alcuni autori hanno

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sostenuto l'opportunità che il diritto penale svolga compiti non solo di tutela, di
protezione dell'esistente. Esso dovrebbe svolgere compiti di sviluppo sociale,
attraverso l'incentivazione di comportamenti utili al progresso della società. I
sostenitori di questa tesi rinunciano all'utilizzo del bene giuridico. A questa
teoria si può opporre il rilievo che il diritto penale non è diritto raffinato, capace
di svolgere delicati compiti di ingegneria sociale. Negata così legittimazione
alla concezione promozionale del diritto penale, il bene giuridico torna ad
assumere il suo ruolo-guida della politica criminale. E sotto il profilo
contenutistico lo stesso bene giuridico si riaggancia alla coscienza sociale,
unico parametro per evitare che il bene giuridico scompaia o serva a funzioni
autoritarie.

Soluzionebeni costituzionali impliciti filtrati attraverso le Kulturnormen (norme


di cultura). In base a tale tesi, il diritto penale dovrebbe conformarsi il più
possibile alle norme di cultura, ossia alle norme sociali diffuse nella collettività
in un dato momento storico. E così gli stessi beni giuridici tutelabili dal diritto
penale sarebbero in definitiva solo quelli che la coscienza sociale ritiene degni
di tutela. La tesi funziona solo in negativo. Nel senso che il legislatore sarebbe
solo vincolato dalla public opinion a non prevedere come reato un fatto che la
coscienza sociale non giudica degno di repressione penale. Non vale il
contrario: ossia il legislatore, una volta appurato che la coscienza sociale
ritiene degno di repressione penale un certo fatto, non sarebbe vincolato a
prevederlo come reato. Il parametro attraverso cui valutare l'atteggiamento
della pubblica opinione sarebbe il seguente: si tratterebbe di appurare se una
parte preponderante della collettività ritiene che un fatto sia criminoso, e cioè
meriti la sanzione detentiva. Solo in questo caso il legislatore sarebbe
legittimato a porsi il problema ulteriore se in effetti sia opportuno ricorrere alla
tutela penale. Il bene giuridico si plasma secondo le Kulturnormen diffuse nella
coscienza sociale. E i beni giuridici così individuati dovrebbero preventivamente
trovare una qualche collocazione anche implicita a livello costituzionale. Ma tali
beni di rilievo costituzionale riceverebbero dal confronto con il parametro del
consenso sociale una caratterizzazione più chiara e definita. Si parla di
concezione costituzionale-culturale del bene giuridico. Questa concezione deve
servirsi dell'apporto delle indagini demoscopiche, che spesso rivelano la
straordinaria sensibilità del quisque de populo in rapporto ad una materia quale
il diritto penale. Una tale configurazione del bene giuridico trova avvallo in
varie norme della Costituzione (es. art. 27, comma 3), ma è la stessa intera
fisionomia della nostra Carta Costituzionale che sembra legittimarla. La stessa
Corte costituzionale l'ha confermata autorevolmente nella Sent. n. 364/88, in
tema di ignorantia legis, laddove l'estensore Renato Dell'Andro, ha evidenziato
la necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela
della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di
tutela, dirette alla tutela di valori almeno di rilievo costituzionale e tali da
essere percepite anche in funzione di norme extrapenali di civiltà,

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effettivamente vigenti nell'ambiente sociale nel quale le norme penali sono
destinate ad operare.

Rapporto fra cultura e diritto penale: nelle attuali società multietniche e


multiculturali sopravvivono costumi fortemente in conflitto con le Kulturnormen
della maggioranza. Esempio: alcune popolazioni provenienti dall'Africa usano
praticare a bambine o giovani donne varie forme di mutilazioni genitali
femminili. Si tratta di comportamenti in sintonia con la cultura, o a volte con
costumi religiosi, della comunità in cui i soggetti attivi del reato si trovano
inseriti. Simili reati vengono denominati reati culturali. Il problema principale
relativamente a questa categoria di illeciti penali, consiste nel verificare se i
loro autori debbano essere puniti per il fatto che hanno commesso, e in che
misura. In alcune giurisdizioni anglosassoni ( Australia, Canada, USA, ecc..), da
qualche decennio, si è elaborata in proposito sia dalla giurisprudenza che dalla
dottrina la teoria delle c.d. cultural defenses (esimenti culturali). Spesso i reati
culturali sono di una certa gravità, e difficilmente si può ipotizzare la non
punibilità dell'autore, salvi rari casi di ignoranza inevitabile della legge penale.
Il legislatore italiano invece di prevedere una qualche attenuante per chi, per
motivi culturali, pratica tali pur deprecabili azioni, ha creato una fattispecie ad
hoc, punita più gravemente rispetto alle comuni lesioni personali (art. 583-bis,
c.p.).

Ricadute pratiche del principio di offensività sul nostro diritto penale


ed altre questioni

Vi sono delle categorie di reati particolarmente a rischio sotto il profilo


dell'offensività. Si pensi ai reati di pericolo astratto o presunto, a certi reati a
dolo specifico, ai delitti di attentato, ai reati di sospetto, ai reati senza vittime,
ai reati omissivi propri ecc.. Il legislatore, nel prevedere reati di simile natura,
dovrà muoversi con particolare cautela. Egli in linea di massima dovrà
astenersi dal prevedere simili tipi di illeciti, salvo che esigenze irrinunciabili di
tutela lo impongano. Esempio: i reati di pericolo presunto o astratto dovranno
essere utilizzati solo se, appurata una fondamentale esigenza di tutela, si
riscontri l'impossibilità di realizzare quelle esigenze tramite la previsione di un
reato di danno o di pericolo concreto. Anche il giudice in questo campo ha
precisi doveri. Se giunge al suo cospetto una fattispecie sospetta dal punto di
vista dell'offensività, egli dovrà cercare di reinterpretare la fattispecie alla luce
del principio di offensività. Esempio: nel reato di incendio, il giudice può
ritenerlo integrato solo laddove il fuoco per la sua violenza e capacità diffusiva,
sia effettivamente idoneo a creare pericolo per la pubblica incolumità. Il
parametro dell'offensività è il primo parametro cui deve guardare il legislatore
quando crea una fattispecie penale. Ma anche laddove il legislatore appuri che
un fatto sia offensivo per il bene protetto, la sua opera non è finita. Egli
dovrebbe accertarsi che l'impiego della sanzione penale sia davvero necessario
per fronteggiare il fenomeno che egli mira ad impedire. Ove riscontri viceversa

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che anche una diversa e meno terribile sanzione (es. sanzione amministrativa
o civile) sia sufficiente per contrastare il fenomeno, dovrebbe prevedere quella
sanzione minore e non la sanzione penale. Questo principio si chiama principio
di sussidiarietà (deriva dal principio più generale dell'extrema ratio). In tema di
offensività, si può evidenziare che, laddove in concreto un fatto si mostri
totalmente inoffensivo, il giudice dovrebbe ritenerlo atipico, cioè non conforme
alla fattispecie astratta prevista dal legislatore. Dalla mancanza di offensività o
inoffensività, si deve distinguere l'altro fenomeno della c.d. esiguità. Il fatto è
esiguo quando è lesivo del bene giuridico, ma in misura particolarmente
scarsa. Tale principio, definito anche irrilevanza del fatto, è peraltro previsto in
settori particolari: ad es. nel diritto penale minorile (art. 27 d.P.R. n. 448/1988),
e nell'ambito dei reati di competenza del giudice di pace (art. 34, d.lgsl. n.
274/2000). Quanto alle prospettive di codificazione del principio di offensività,
esso venne previsto nell'ambito di un progetto di revisione della Costituzione
realizzato nel 1998 ad opera della c.d. commissione bicamerale. Il progetto non
venne approvato. Nel progetto Grosso, esso è previsto come criterio di
applicazione della legge penale all'art. 22 ("Le norme incriminatrici non si
applicano ai fatti che non determinano un'offesa del bene giuridico").

Limiti del diritto penale, bene giuridico e harm principle

Bisogna parlare ora dei rapporti fra offensività e bene giuridico da un lato, e
harm principle (principio del danno) dall'altro. Si tratta di una tesi che trova le
sue radici nel pensiero di John S. Mill e del suo On Liberty, manifesto delle
dottrine liberal anglosassoni. Mill sosteneva che l'unica buona ragione per
esercitare il potere punitivo era l'obiettivo di impedire il danno ad altri. Lo Stato
non avrebbe potuto legittimamente vietare ai cittadini di recare danno a sè
stessi. Le tesi di Mill si basavano sul principio di autodeterminazione. Ciascuno
è libero di fare ciò che vuole, fino a che le sue azioni restano in una sfera auto-
diretta, ma nel momento in cui un soggetto agisce arrecando danno ad altri, lo
Stato può intervenire per prevenire o reprimere simili comportamenti. La
dottrina dell'harm principle è stata successivamente accolta da molti filosofi e
giuristi come Hart e Feinberg. Secondo quest'ultimo, l'harm principle non solo
giustificherebbe l'intervento del diritto penale, ma anche il c.d. offence
principle cioè quello che si potrebbe tradurre come il principio della molestia. In
sostanza, a certe condizioni, sarebbe giustificato intervenire con il diritto
penale anche per impedire che i cittadini arrechino ad altri gravi forme di
molestie. Egli è molto categorico nel negare legittimazione ad altri due principi
che secondo alcuni potrebbero fondare la pretesa punitiva: ovvero il principio
paternalistico e il principio moralistico. Il paternalismo non giustificherebbe la
repressione penale. Nel caso in cui con una propria azione il cittadino rechi
danno solo a sè stesso, costui non potrà essere punito. Con riferimento al
moralismo giuridico, Feinberg ritiene che non sia giustificabile la repressione
penale di condotte meramente immorali, che non producono danno o grave
molestia ad altri. Queste prospettive liberal di stampo anglosassone sembrano
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utili anche ai giuristi continentali pur abituati a ragionare soprattutto in termini
di offensività e di bene giuridico. Il bene giuridico presenta molti aspetti di
ambiguità, e in numerose ipotesi non è capace di fornire al giurista una risposta
chiara sulla legittimità dell'intervento punitivo.

Capitolo 4

Il principio di colpevolezza

Nozioni introduttive

In un sistema penale moderno, è del tutto pacifico che nessuno possa essere
chiamato a rispondere per un fatto altrui (commesso da altri). Esempio
estremo: il figlio non può essere punito per il reato commesso dal padre.
Occorre, invece, che il fatto possa essere considerato proprio del soggetto che
si vuole colpire con la sanzione penale. La prima condizione necessaria affinchè
si possa affermare che la responsabilità penale (per fatto proprio) è dunque che
il reo abbia materialmente realizzato il fatto previsto dalla legge come reato.
Così come non è possibile accontentarsi del divieto di responsabilità per fatto
altrui, nemmeno può bastare la materiale realizzazione del fatto, ovvero
l'oggettiva causazione di un certo risultato lesivo (es. la morte di un uomo).
Occorre qualcosa in più, che si identifica in primis in un legame soggettivo tra il
fatto e l'autore; ciò incarna la base del principio di colpevolezza: nullum crimen
sine culpa (nessun crimine senza colpevolezza). Il fatto deve poter essere
considerato proprio del soggetto agente non soltanto perchè da questi
materialmente cagionato, ma anche perchè si tratta di un fatto (proprio)
colpevole. Sembra opportuno prendere in considerazione la norma
costituzionale, in cui il principio di colpevolezza si trova sancito.

L'art. 27 Cost. e il principio di personalità della responsabilità penale


come (mero) divieto di responsabilità per fatto altrui

Art. 27, comma 1 Cost. : la responsabilità penale è personale.

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Questa affermazione è stata intesa come equivalente di un divieto di
responsabilità penale per fatto altrui. All'epoca dell'entrata in vigore della Carta
costituzionale, non mancavano norme incriminatrici che prevedevano la
punibilità di un soggetto per un fatto commesso da altri. Esempio: per i fatti
commessi col mezzo della stampa periodica, chi riveste la qualità di direttore o
redattore responsabile risponde per ciò solo, del reato commesso, salva la
responsabilità dell'autore della pubblicazione (art. 57. versione originaria del
codice Rocco).

l. n.127 del 1958 ha riformulato l'art. 57 c.p., individuando il fatto proprio, di cui
può essere chiamato a rispondere il direttore o il vicedirettore responsabile del
periodico: fatto consistente nell'omissione del controllo, sul contenuto del
periodico, necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano
commessi reati.

L'art. 27 Cost. ed il principio di colpevolezza come responsabilità per


fatto proprio colpevole

L'art. 27 Cost. va interpretato in modo diverso e più pregnante. Esso non si


limita a sancire il divieto di responsabilità per fatto altrui, e la necessità che la
responsabilità penale discenda da un fatto proprio dell'agente. In realtà, l'art.
27 Cost. consacra il principio di colpevolezza, inteso nel senso che la
responsabilità per fatto materialmente proprio deve essere anche una
responsabilità per fatto proprio colpevole. La svolta decisiva è stata segnata
dalla storica sentenza n. 364 del 1988, della Consulta, che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dalla
inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile. La
pronuncia menzionata ha riconosciuto, per la prima volta nella storia della
giurisprudenza della Corte, il rilievo costituzionale del principio di colpevolezza.
La colpevolezza come principio costituzionale ha una valenza garantistica, che
si traduce in un limite al legislatore ordinario nell'incriminazione dei fatti
penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i
requisiti subiettivi minimi di imputazione, senza la previsione dei quali il fatto
non può legittimamente essere sottoposto a pena. A che cosa allude la Corte
costituzionale, quando parla di requisiti subiettivi minimi di imputazione?
Perchè sia rispettato il principio di colpevolezza, occorre che in rapporto
(almeno) agli elementi più significativi della fattispecie di reato sussista il dolo
o quantomeno la colpa. In relazione a questa tematica, la Corte costituzionale
ha valorizzato il collegamento sistematico tra il già ricordato comma 1 dell'art.
27 Cost., ed il comma 3 del medesimo articolo: non solo la responsabilità
penale è personale (comma 1), ma altresì "Le pene (...) devono tendere alla
rieducazione del condannato" (art. 27, comma 3, Cost.). Collegando il primo al
terzo comma dell'art. 27 Cost. agevolmente si scorge che, comunque si intenda
la funzione di rieducazione di quest'ultima (cioè della pena), essa postula
almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della
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fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione, di chi, non essendo
almeno in colpa (rispetto al fatto), non ha certo bisogno di essere rieducato. In
definitiva, quindi, ne risulta confermato che si risponde penalmente soltanto
per il fatto proprio, purchè si precisi che per fatto proprio non s'intende il fatto
collegato al soggetto, all'azione dell'autore, dal mero nesso di causalità
materiale. Ciò comporta la necessità di una sistematica revisione delle ipotesi
di responsabilità oggettiva presenti nell'ordinamento penale: ipotesi, cioè, in
base alle quali certi elementi della fattispecie vengono imputati al reo in
presenza di un mero nesso di causalità materiale. Il principio di colpevolezza
esige che il fatto proprio, del quale deve rispondere penalmente un individuo,
debba essere anche colpevole.

Principio di colpevolezza e legalità

Il principio costituzionale di colpevolezza presenta chiari collegamenti con il


principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.): " Nelle prescrizioni tassative del
codice, il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa
gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti
riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è
indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere
scelte d'azione. A nulla varrebbe garantire la riserva di legge statale, la
tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di
fatti che non può comunque impedire, o in relazione ai quali non era in grado,
senza la benchè minima sua colpa, di ravvisare il dovere di evitarli nascente
dal precetto. Il principio di colpevolezza costituisce il secondo aspetto del
principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto". Viene
sviluppato dalla dottrina il c.d. principio di riconoscibilità del contenuto
precettivo delle norme penali: le leggi penali non solo devono essere precise e
preesistere alla commissione del fatto, ma devono anche risultare riconoscibili
dal cittadino. Solo così le norme penali possono avere un'effettiva efficacia
motivante nei confronti dei consociati.

Parte Seconda

La legge penale e la sua applicazione

Capitolo 1

Premessa

Il nostro codice nell'ambito della parte generale e dunque del primo libro, che
si occupa di reati in generale, dedica il primo titolo alla legge in generale. Le
prime disposizioni del nostro codice si occupano dei principi di legalità e di
istituti ad esso legati, quali la disciplina della legge penale nel tempo e nello
spazio.

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La prima parte del riassunto si occupa del principio di legalità attraverso i
principi costituzionali, in questa parte si affronta il problema della legge penale
e della sua applicazione.
In particolare si considera la legge penale e cioè l’apparato normativo dedicato
dal nostro ordinamento al diritto penale.
In proposito si pongono almeno tre generi di questioni.
Si deve considerare rapporto tra la legge penale ed il tempo.
Si prende in esame rapporto tra la legge penale e lo spazio.
La legge penale deve essere considerata non solo nella sua sfera temporale e
spaziale ,a anche nella sua effettiva e pratica portata applicativa.

Capitolo 2

La legge penale nel tempo

Premessa e abolitio criminis

L'art. 2 comma I del c.p. disciplina la tematica della successione di leggi penali
nel tempo.
Il contenuto minimo di tale art. afferma il principio costituzionale di
irretroattività, disponendo che “nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.
Il suddetto art. 2 comma II afferma che “nessuno può essere punito per un fatto
che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e se vi è stata una
condanna necessitano di esecuzione e gli effetti penali”.
È la cosiddetta abolitio criminis, cioè abolizione del reato: un fatto previsto
dalla legge come reato all’epoca in cui viene realizzato, ma successivamente la
legge muta e non prevede più come reato quello stesso fatto. Questo viene
quindi trasformato in un illecito meramente amministrativo o addirittura
considerato lecito. In questo caso si esprime la piena retroattività della legge
posteriore, quando risulta essere favorevole per il soggetto agente.
L’abolitio criminis travolge anche una sentenza passata in giudicato, e di
conseguenza è indifferente che la nuova legge entri in vigore prima o dopo la
sentenza. Nel caso in cui ci sia un processo ancora in corso, il giudice deve
pronunciare una sentenza di assoluzione, con la formula “perché il fatto non è
più previsto dalla legge come reato”.
Inoltre con legge 85/2006 è stato inserito un nuovo terzo comma dell’art. 2 che
afferma che “se vi è stata una condanna a pena detentiva e la legge posteriore
prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva ai sensi dell’art.
135 si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria”. Ad
esempio l’art. 299 c.p. prevedeva, per il delitto di vilipendio alla bandiera
nazionale o ad altro emblema dello Stato, la pena della reclusione da uno a tre
anni. In forza dell’art. 6 della legge 85/2006 la pena è ora un’ammenda da €
100 a € 1000.

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Successione di leggi richiamate da elementi normativi della fattispecie
penale e da norme penali in bianco.

Vi sono fattispecie incriminatrici che contengono elementi cosiddetti normativi,


il cui contenuto si determina alla luce di altre norme giuridiche. Ad esempio il
furto consiste nell’impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la
detiene, secondo l’art. 624 c.p. Per sapere se la cosa mobile è altrui però
bisogna fare riferimento alle norme civilistiche che disciplinano la proprietà.
Può accadere che la norma penale che contiene l’elemento normativo rimanga
intatta nella sua formazione, e che mutino nel tempo le norme penali o
extrapenali richiamate dall’elemento normativo stesso. In tal caso non si
verifica un’abolitio criminis, in quanto la nuova legge elimina o modifica
disposizioni che hanno una limitata influenza sul precetto penale: nulla
aggiungono e nulla tolgono, infatti, al significato generale di disvalore del fatto.
Ad esempio se Tizio incolpa Caio sapendolo innocente di un fatto che all’epoca
della denuncia calunniosa è previsto dalla legge come reato, il delitto di
calunnia ascrivibile a Tizio non viene meno qualora, in epoca successiva, il fatto
oggetto della falsa incorporazione venga depenalizzato. In tal caso, resta
integro il giudizio astratto di disvalore riguardante il fatto di calunnia espresso
dall’ordinamento.

Ai sensi dell'art. 2 comma IV “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato
e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più
favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile”. È
questo il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo in senso stretto.
La nuova legge non abolisce l'incriminazione vigente all'epoca del tempo in cui
fu commesso il delitto: il fatto continua ad essere previsto dalla legge come
reato e il giudice deve decidere quale legge, tra quelle che si sono succedute,
è più favorevole al reo e applicarla.
Laddove la nuova legge imponga un trattamento più severo vige il principio di
irretroattività e continua ad applicarsi la vecchia legge più favorevole.
Laddove la nuova normativa preveda un trattamento meno severo verrà
applicata.
Normalmente le leggi da porre a confronto sono due, quella vigente all’epoca
del fatto e quelle entrate in vigore successivamente, a meno che non esistano
una o più leggi intermedi, che potranno essere considerate al fine di
individuare la normativa più favorevole al reo.
La legge più favorevole va individuata in concreto e non può scaturire da una
sorta di mosaico composto da tessere estrapolate da dalle varie leggi in
comparazione, da cui appunto vengano selezionati frammenti di disciplina più
favorevoli al reo. Il giudice deve decidere quale legge, tra quelle che si sono
succedute, è più favorevole al reo e applicarla in toto, e non può creare una
nuova terza legge (divieto di tertia lex).

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Distinzione tra abolitio criminis e successioni di leggi penali in senso
stretto

In alcuni casi risulta difficile capire se ci si trovi dinnanzi ad una abolitio


criminis o ad una successione di leggi penali.
In molti casi è evidente quando intervenga un’abolitio criminis: ciò accade ogni
qual volta venga soppressa nella sua integralità una fattispecie incriminatrice
ovvero un reato venga trasformato in un illecito amministrativo. Ad esempio il
reato di guida senza patente oggi punito con sanzione amministrativa.
In altrettanti casi è facile constatare una successione di leggi penali nel tempo
che si verifica quando il fatto tipico di reato permane identico nella legge
vigente al tempo della commissione del delitto e in quelle posteriori, variando
unicamente la disciplina sanzionatoria.
Tuttavia capita di frequente di imbattersi in leggi penali che espressamente
abrogano determinate fattispecie di reato, senza che per ciò stesso si verifichi
un’abolitio criminis ai sensi dell’articolo 2: questo perché la nuova legge non si
limita ad abrogare vecchie figure di reato, ma al contempo ne introduce di
nuove.
Pertanto sono stati elaborati vari criteri per distinguere un’abolitiocriminis da
una successione di leggi in senso stretto.
1) Primo criterio è quello della continuità del tipo di illecito. Secondo tale
criterio si confrontano le due norme e se quella successiva riproduce il
contenuto offensivo della precedente, vi è una successione di leggi penali nel
tempo in senso stretto. Se invece vi è una soluzione di continuità allora si deve
concludere nel senso di un’abolizione del reato.
Ad esempio l’articolo 520 c.p. puniva il pubblico ufficiale che si fosse congiunto
carnalmente con persona arrestata di cui avesse avuto la custodia per ragione
del suo ufficio.
Tale articolo venne abrogato con la legge 66/1996. La stessa legge peraltro
introduceva nuove forme di realizzazione della violenza sessuale e cioè la
costrizione mediante abuso di autorità. Ipotesi è quella di Tizio, pubblico
ufficiale, sedotto dalla bellissima carcerata Caia che in tal modo voleva
procurarsi indebiti favori. Tizio sarebbe stato punibile in base alla vecchia
normativa, ma non in base alla nuova fattispecie. Questo caso specifico,
classificabile secondo il criterio della continuità del tipo di illecito come mera
successione di leggi, pare meglio inquadrabile nella vera e propria abolitio
criminis.
2) secondo criterio della continenza o piena continenza: la nuova norma
succede a quella previgente, con applicabilità della disciplina più favorevole e
con il limite del giudicato, soltanto laddove la fattispecie successiva sia
integralmente contenuta in quella precedente.
3) terzo criterio della specialità: qualora la fattispecie incriminatrice abrogata
sia speciale, o rispetto ad altra fattispecie introdotta contestualmente o
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rispetto ad altra fattispecie già presente nell’ordinamento, appare corretto
ravvisare una successione di leggi penali in senso stretto. Ad esempio è stato
abrogato il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, ma non quello di ingiuria.
L’oltraggio altro non era che un’ingiuria rivolta ad un pubblico ufficiale, ossia la
fattispecie di oltraggio era speciale rispetto a quella di ingiuria, perché ne
riproduceva il contenuto, con in più un elemento peculiare specializzante, dato
dalla particolare qualifica della vittima, cioè il soggetto passivo, il pubblico
ufficiale.
Teoricamente il criterio della specialità dovrebbe valere anche nel caso inverso,
ossia quando viene abrogata una norma definibile generale rispetto a quella
speciale contestualmente varata: in tal caso si ha una successione di leggi
penali nel tempo, limitatamente a quella parte di fattispecie che mantiene
rilevanza penale in base al confronto con la nuova disposizione.

Leggi eccezionali e temporanee

“Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee non si applicano le disposizioni


dei capoversi precedenti”: questo è quello che afferma l'articolo 2 al comma V,
ossia non viene applicata la disciplina in tema di abolitio criminis e di
successione in senso stretto di leggi penali nel tempo.
Leggi eccezionali sono quelle promulgate allo scopo di affrontare situazioni di
emergenza quali calamità naturali, epidemie, penuria di beni di prima
necessità, ecc.
Si definiscono leggi temporanee quelle che contengono l’indicazione del
termine, fino alla scadenza del quale la legge stessa resta in vigore (termine
finale di efficacia).
Entrambe sono destinate a durare solo per un certo periodo, elastico per le
leggi eccezionali fino a quando persiste l’emergenza oppure predeterminato
per le leggi temporanee fino al termine finale di efficacia. In genere sono
dirette a introdurre nuove incriminazioni o trattamenti punitivi più severi. In
particolare le nuove incriminazioni o i trattamenti sanzionatori più severi
introdotti con la legge a durata temporale limitata, continuano ad essere
applicabili ai fatti commessi durante la vigenza di quella stessa legge, anche
dopo che, a seguito della spirale della stessa legge, sia subentrata una
disciplina penale più favorevole. Questo ovviamente per garantire che al
cessare delle esigenze che hanno decretato la necessità di ricorrere ad una
legge eccezionale o temporanea, non si possano applicare retroattivamente
leggi più favorevoli, poiché verrebbe meno il motivo della legge a durata
temporale limitata.

Decreti-legge decaduti o non convertiti in legge

Le disposizioni dell'ultimo comma dell'articolo 2 c.p. si applicano anche nei casi


di decadenza e di mancata ratifica del decreto-legge e nel caso del decreto-

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legge convertito in legge con emendamenti. Occorre tener presente ciò che
afferma la costituzione all’articolo 77 e cioè che i decreti perdono efficacia sin
dall’inizio se non vengono convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro
pubblicazione. Le Camere tuttavia possono regolare con legge i rapporti
giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.
Occorre ricomporre il quadro della disciplina in materia con particolare riguardo
all’ipotesi in cui il decreto-legge non convertito abroghi fattispecie di reato o
introduca un trattamento penale più favorevole. Bisogna distinguere i fatti
commessi prima dell’entrata in vigore del decreto-legge non convertito e i fatti
commessi nel periodo di vigenza del medesimo, rispettivamente i cosiddetti
fatti pregressi e fatticoncomitanti.
Per i fatti pregressi la perdita di efficacia ex tunc del decreto-legge non incontra
limitazioni: si considera che il decreto-legge non sia mai esistito e non si pone
neppure un problema di successione di leggi penali nel tempo. Il cittadino non
può aver fatto affidamento sulla disciplina introdotta dal decreto-legge poiché
si tratta di fatti realizzati in epoca del genere all’emanazione del decreto. I fatti
pregressi possono essere sanzionati in base alla normativa penale del tempus
commissi delicti.
Diversa è la situazione in caso di fatti commessi nel periodo compreso tra
l’emanazione del decreto e la vana scadenza del termine di 60 giorni previsto
per la conversione. In queste ipotesi le scelte di azione dei consociati sono
condizionate dalla normativa dettata con decreto-legge. Per i fatti concomitanti
si applicano comunque le norme più favorevoli dettate dal decreto legge
ancorché esso sia ormai decaduto. Ciò vale innanzitutto nel caso in cui decreto-
legge abbia abolito la fattispecie incriminatrice. Nelle more della conversione
ogni fatto che in tale fattispecie rientri è reputato penalmente irrilevante, ma
dopo lo spirare del termine di conversione senza che essa sia intervenuta, la
fattispecie penale riprende vigore. Essa non è applicabile ai fatti commessi
all’interno della parentesi temporale segnata dalla vigenza del decreto-legge
perché, se così fosse, si violerebbe il divieto di retroattività di una legge penale
sfavorevole.
Identico ragionamento vale quando decreto-legge non abroga alcuna
fattispecie, ma si limita ad introdurre una disciplina penale più favorevole
all’agente: chiunque abbia agito senza la lex mitior, anche se introdotta con
decreto-legge, acquisisce il diritto di essere trattato in base alla pena più mite.
Anche in questo caso applicare ai fatti concomitanti una disciplina più severa
formalmente in vigore (a causa della mancata conversione del decreto-legge)
in luogo della disciplina più favorevole sostanzialmente in vigore all'epoca della
realizzazione del fatto, si tradurrebbe nella violazione del divieto di retroattività
delle norme penali sfavorevoli al soggetto agente.

Dichiarazione di incostituzionalità di una norma incriminatrice

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È bene ricordare che quando la corte costituzionale dichiara l'illegittimità
costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la
norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione.
Pertanto “le norme dichiarate incostituzionali non possono aver applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e “quando in
applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata una
sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti
penali”. Ad esempio in seguito alla pronuncia di incostituzionalità della norma
relativa al delitto di plagio, se qualcuno fosse stato condannato in precedenza
con sentenza passata in giudicato, in seguito alla Sentenza della Corte
sarebbero cessati sia l’esecuzione che gli effetti penali della condanna.
Diverso e più problematico è il caso di una dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una norma più favorevole al reo. In questa occasione il giudice
delle leggi ha chiarito che la norma di favore, ancorché legittima, deve
comunque trovare applicazione rispetto ai fatti commessi sotto la sua vigenza
(fatti concomitanti), mentre rispetto ai fatti pregressi, commessi prima
dell’entrata in vigore della norma di favore, è possibile applicare il trattamento
sanzionatorio più rigoroso originariamente previsto.

Il tempus commissi delicti

Il tempus commissi delicti è il momento in cui il soggetto ha commesso il fatto.


Bisogna distinguere tra il tempo del commesso reato e il diverso concetto
della consumazione del reato.
Il primo concerne il problema dell’individuazione del momento in cui deve
ritenersi commesso il reato agli effetti della successione di leggi penali nel
tempo.
Il secondo concerne il problema dell’individuazione del momento in cui il reato
deve considerarsi consumato, ossia completo di tutti i suoi elementi essenziali,
agli effetti della realizzazione del fatto tipico.
In relazione all’individuazione del tempus commissi delicti, due sono le teorie
che si contrappongono.
Secondo la teoria della condotta, occorre far riferimento al momento in cui
l’agente ha posto in essere la condotta del reato.
Secondo la teoria dell'evento bisogna invece attendere sino al momento in
cui si sarebbe verificato l’evento del reato.
Se si parte dal principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, come
strettamente legato al principio di riconoscibilità dei precetti penali e della
sicurezza giuridica nell’ambito del rapporto tra Stato e cittadini, si comprende
come l’unico momento da prendere in considerazione per individuare il
momento in cui il soggetto abbia commesso il fatto sia quello in cui soggetto
pone in essere l’azione o l’omissione vietata. Infatti non avrebbe senso pensare

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di agganciare il tempus commissi delicti al verificarsi di un successivo risultato
dell’azione anche quando per la realizzazione dell’intero fatto di reato tale
risultato sia indispensabile. Così ad esempio nell’omicidio occorre che si
verifichi la morte di un uomo perché il fatto tipico sia consumato, ma ai fini del
momento del commesso reato rilevante ex art. 2 c.p. bisogna guardare al
momento della commissione dell’azione anche se la morte si verifica magari
molto tempo dopo.
Problemi particolari sorgono in relazione ai c.d. reati di durata, reati
permanenti,abituali. Ad esempio si pensi al sequestro di persona a scopo di
estorsione, reato permanente nel quale l’azione criminosa dura nel tempo, e si
immagini di una legge che reprime in modo più severo lo stesso fatto entri in
vigore durante il periodo di commissione del reato ossia mentre è in corso il
sequestro. Secondo la prevalente giurisprudenza, il tempus commissi delicti va
individuato nel momento in cui rapitori compiono l'ultimo atto che protrae la
situazione antigiuridica (la prigionia della vittima) con la conseguenza di
ritenere applicabile la legge più severa.
Pensiamo al caso dei sequestratori. Essi poniamo che abbiano rapito un
bambino in aprile e in giugno viene approvato una legge che aggrava le pene
per il diritto. A quel punto nel periodo di tempo tra l’approvazione della legge
centrale in vigore i sequestratori possono liberamente decidere se rilasciare il
bambino o se perseverare nella relazione finale. Se decidono di tenere
ulteriormente sotto sequestro il bambino nonostante la nuova legge, è giusto
che sia questa ad essere loro applicata. La nuova legge non retroagisce,
informa i delinquenti che se continueranno con la loro condotta antigiuridica
saranno loro applicabili le pene più gravi.

Capitolo 3

La legge penale nello spazio

La legge penale nello spazio: il principio di territorialità e il principio


di universalità

L'art. 3 comma I c.p. afferma che salvo eccezioni “la legge penale italiana
obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello
Stato”. L'art. 6 c.p. specifica più chiaramente che “chiunque commette un
reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana”.
Nel nostro sistema risulta accolto, in linea generale, il principio di
territorialità: la nostra legislazione penale si applica, perlomeno
tendenzialmente, ai fatti realizzati in territorio italiano. È indifferente che tali
fatti siano commessi da cittadini italiani o stranieri e che le vittime siano
italiane o straniere.

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Si parla di recepimento tendenziale del principio di territorialità, in quanto esso
risulta temperato dalla presenza di norme basate sul principio di
universalità, ovvero norme che fanno riferimento alla cittadinanza dell’autore
o della persona offesa, o ancora alla titolarità in capo allo Stato degli interessi
lesi.
Un’autorevole dottrina giunge alla conclusione che gli articoli 3 e 6 c.p.
esprimano non la regola generale ma piuttosto l’eccezione. Pertanto secondo
questa lettura il nostro codice penale recepisce il principio di universalità: la
legge penale italiana si applica dovunque, da chiunque e contro chiunque sia
commesso il fatto, salvo deroghe che riguardano una cerchia ristretta di reati,
a cui non si applica la legge italiana se commessi all’estero.

Cittadino italiano si considerano cittadini italiani coloro che hanno la


cittadinanza italiana e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato. Tutti gli altri
vengono qualificati come stranieri.
Territorio dello Stato è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e
ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Sono considerati territorio
dello Stato “le navi e aeromobili italiani, ovunque si trovino, salvo che siano
soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera”.

Reati commessi nel territorio dello Stato

Secondo il diritto penale dev'essere punito secondo la legge italiana colui che
commette un reato nel territorio dello Stato. Bisogna considerare a quali
condizioni un reato possa considerarsi commesso nel territorio dello Stato o
comunque assimilato dalla legge al territorio italiano (es. commesso a bordo di
una nave).
Fondamentale l’art. 6 comma II c.p.: tale norma non recepisce né il criterio
della condotta, per cui il reato si considera commesso nel territorio dello Stato
quando in esso è avvenuta l’azione o l’omissione, né il criterio dell’evento, per
il quale il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando in esso
si è verificato l’evento del reato.
Esso recepisce il criterio dell’ubiquità: il reato si considera commesso nel
territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi
avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento della
conseguenza dell’azione od omissione.
Quindi ad esempio se Tizio si trova in Italia e spara Caio che si trova in Austria
appena al di là del confine uccidendolo, oppure Tizio si trova in Austria e spara
a Caio che si trova in Italia appena al di qua del confine uccidendolo, in
entrambi i casi il reato, in virtù della teoria dell’ubiquità, va considerato
commesso nel territorio dello Stato. Inoltre taluni atti preparatori di un reato, di
per sé irrilevante ai fini della configurabilità del tentativo punibile, vengono
commessi sul territorio italiano, sono sufficienti a determinare l’applicabilità
della legge penale italiana, qualora il restante processo esecutivo si sia

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integralmente svolto all’estero, ossia tutti gli elementi tipici del reato siano
stati realizzati all’infuori del nostro territorio. Così ad esempio se Tizio acquista
una pistola in Italia allo scopo di uccidere Caio, dopodiché si reca in Germania,
dove incontra Caio e gli spara, l’omicidio si considera commesso nel territorio
dello Stato italiano, È sufficiente che sul territorio italiano si collochi un
qualsiasi frammento dell’iter criminoso, purché dotato di un significato
apprezzabile.
Secondo altri autori, questa situazione risulta controversa poiché in questo
modo si effettua una violazione della regola legale di cui all’art. 6 comma II c.p.
perché viene ad essere incluso nel concetto di azione anche un comportamento
atipico.

Reati commessi all’estero punibili incondizionatamente

In deroga al principio di territorialità o se si preferisce in applicazione del


principio di universalità taluni reati, pur se commessi in territorio estero, e a
prescindere dalla cittadinanza dell'autore, sono di regola senz'altro punibili
secondo la legge penale italiana, nel senso che non è richiesta alcuna
particolare condizione di procedibilità.
Si parla in proposito di reati incondizionatamente punibili secondo la legge
italiana e di procedibilità assoluta. In applicazione del criterio di ubiquità
devono ritenersi commessi all’estero quei reati i cui elementi costitutivi tipici
hanno trovato integrale realizzazione al di fuori del territorio dello Stato Italiano
e che comunque non si ricollegano causalmente a comportamenti antecedenti
avvenuti in Italia.
L’indicazione di reati si rinviene nell’art. 7 c.p.:
1) delitti contro la personalità dello Stato Italiano
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo
contraffatto
3) delitti di falsità in moneta avente corso legale nel territorio dello Stato o in
valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano
4)delitti commessi da pubblici ufficiali aa servizio dello Stato, abusando dei
poteri o violando i doveri inerenti alle funzioni
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni
internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana

Delitti politici commessi all’estero

Qualora venga commesso all'estero un delitto politico, che non sia un delitto
contro la personalità dello Stato italiano rientrante nell'ambito dell'art. 7 c.p., il
soggetto agente è punito secondo la legge italiana, sia che si tratti di un
cittadino italiano sia di uno straniero. Per procedere occorre la richiesta del
Ministro della Giustizia e se si tratta di delitto punibile a querela della persona
offesa occorre altresì che la querela sia stata proposta.

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Delitto politico è secondo l’art. 8 c.p. “ogni diritto che offende un interesse
politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato
politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici”. La
definizione di diritto politico comprende sia i diritti c.d. oggettivamente
politici, ovvero quelli che offendono un interesse politico dello Stato (diretti) o
un diritto politico del cittadino (indiretti), sia i diritti soggettivamente
politici, ovvero quelli comuni realizzati per motivi politici.
Si suole ritenere che il motivo sia politico quando il soggetto agisce per il
raggiungimento di un obiettivo che riguarda l’esistenza, la costituzione ed il
funzionamento dello Stato. La legge si accontenta che il diritto comune sia
determinato anche solo in parte da motivi politici.

Delitti comuni commessi all’estero

Prendiamo in considerazione i diritti comuni, non politici, commessi all’estero


che non rientrano nell'elenco di quelli incondizionatamente punibili.
Possono essere commessi sia dal cittadino (art. 9c.p.) che dallo straniero (art.
10c.p.).
Si richiede sempre la presenza del reo nel territorio dello Stato. Questa è una
condizione essenziale per giustificare l’intervento punitivo dello Stato in
rapporto a reati commessi all’estero che non recano un’offesa diretta ad
interessi pubblici.
Secondo l’articolo 9 “il cittadino che, fuori dei casi indicati nei due articoli
precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana
stabilisce l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo di tre anni, è
punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello
Stato”.
Se invece per il delitto è prevista una pena detentiva di minore durata, occorre
altresì la richiesta del ministro della giustizia oppure l’istanza o una querela
della persona offesa. Infine qualora si tratti di un delitto commesso a danno di
uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito su richiesta del
ministro della giustizia, sempre che l’estradizione di lui non sia stata concessa,
ovvero non sia stata accettata dal governo dello Stato in cui egli ha commesso
il delitto.
Quanto al delitto comune dello straniero all’estero si ravvisa la massima
espansione del principio di universalità. Viene disciplinata all’articolo 10
comma I, l’ipotesi in cui il reato sia lesivo di un interesse dello Stato italiano,
ovvero di un cittadino italiano “lo straniero che, fuori dei casi indicati negli
articoli 7 e 8 c.p., commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un
cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo o la
reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la legge
medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato e vi sia richiesta del
ministro della giustizia oppure istanza o querela della persona offesa”.

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Al comma II dell’articolo 10 si presuppone invece che il delitto sia commesso a
danno di uno Stato estero o di uno straniero. In tale prospettiva il colpevole è
punito secondo la legge italiana su richiesta del ministro della giustizia sempre
che si trovi nel territorio dello Stato, si tratti di delitto per il quale sia stabilita
una pena dell’ergastolo o reclusione non inferiore nel minimo a tre anni,
l’estradizione non sia stata conceduta oppure non sia stata accettata dal
governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto o da quello dello Stato a
cui egli appartiene.

Reato transnazionale la legge 146/ ha introdotto il reato transnazionale.


si considera reato transnazionali il reato punito con la pena della reclusione non
inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale
organizzato, nonché:
a. sia commesso in più di uno Stato
b. oppure sia commesso in uno Stato ma una parte sostanziale nella sua
preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro
Stato
c. oppure sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo
criminale organizzato e impegnato in attività criminali in più di uno Stato
d. oppure sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro
Stato.

Capitolo 4

L'interpretazione della legge penale.

Cenni introduttivi.

Anche la legge penale come quella civile, amministrativa ecc. dev'essere


interpretata per acquisire un significato preciso per risolvere i casi giudiziari.
Ad esempio l'interpretazione dell'art. 43c.p. è fondamentale per comprendere
e applicare le nozioni di dolo e colpa. Si pensi all'ipotesi del rapinatore che
scappando, senza neppure voltarsi spara e colpisce uccidendo il poliziotto che
lo inseguiva. Dall'interpretazione dell'art 43 dipende la sorte e in particolare
per valutare se si tratta di omicidio colposo o doloso. Nello specifico se si
estende l'interpretazione della nozione di dolo in modo da ricomprendere
anche il dolo eventuale allora l'omicidio verrà punito come omicidio volontario,
altrimenti se non si applica verrà punito come omicidio colposo. Le
conseguenze sono diverse: omicidio doloso è punibile con un minimo di 21anni
di reclusione, omicidio colposo con un minimo di 6mesi e massimo 5anni.
Ritornando all'interpretazione, oggi è la giurisprudenza e quindi il giudice a

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interpretare le norme e creare il cosiddetto diritto vivente, ossia quello
effettivamente applicato. E’ il cosiddetto "law in action", il risultato del lavoro
interpretativo che modifica il "law in books", ossia il "materiale grezzo" scritto
nei codici. L'interpretazione del giudice comunque non deve spodestare il
legislatore dal suo ruolo di produttore di diritto.

Criteri interpretativi.
L'art 12 delle preleggi del c.c. afferma che "nell'applicare la legge non si può ad
essa attribuire senso diverso da quello fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse e dall'intenzione del legislatore". Per
quanto riguarda l'interpretazione di norme di diritto penale sono stabiliti alcuni
criteri:
1) lessicale-semantico
2) storico
3) logico-sistematico
4) teleologico.

Criterio lessicale-semantico
La norma dev'essere interpretata sulla base del significato che essa ha oggi e
non quello d'origine poiché i costumi e le esigenze sociali cambiano nel tempo.
Poi in riferimento al principio di legalità e di tassatività l'interprete deve dare
un grosso peso al senso delle parole del legislatore. Si tratta comunque di un
criterio che spesso lascia in sospeso l'interpretazione della norma. Ad esempio
nel caso di atti sessuali di cui all'art 609bis c.p. quali sono gli atti da
ricomprendere anche il bacio?

Criterio storico
Esso utilizza la storia dell'istituto regolato dal legislatore e ricostruisce il
percorso storico seguito dal legislatore nel disciplinare una certa materia.
Tornando all'esempio precedente, l'espressione "atti sessuali" è recente, poiché
non era presente nel codice Rocco, e va ad unificare le due nozioni, usate nel
vecchio codice, di congiunzione carnale e di atti di libidine. Questo criterio
maggiore precisione di definizione ma non risolve il problema riguardante il
bacio.

Criterio logico-sistematico.
Secondo tale criterio bisogna interpretare una norma alla luce del contesto e
del sistema nel quale è inserita. Anche le norme speciali devono essere
interpretate secondo quelle generali. Così omicidio colposo e omicidio
volontario acquistano senso alla luce della lettura delle nozioni di dolo e di
colpa. Anche questo criterio non porta alla soluzione del nostro caso.
Criterio teleologico

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Esso fa riferimento al fine e allo scopo della norma. Non è sempre facile risalire
allo scopo del legislatore poiché l'approvazione di una legge è il risultato di una
serie di mediazioni all'interno di questo organo composito. Con questo criterio
si ricerca il bene giuridico protetto dalla norma, nel nostro esempio il bene da
proteggere è la libertà sessuale e bisogna capire se un bacio, e entro quali
limiti, può essere limitativo di tale libertà.

Interpretazione ed analogia: criteri distintivi.


L'analogia è vietata nel diritto penale. E’ assai importante capire quando
l'applicazione della legge da parte del giudice sia frutto di analogia o sia il
risultato di una attività interpretativa. Nel primo caso sarebbe vietata, il
secondo è effettivamente il compito del giudice. Analogia si ha quando di
fronte ad una lacuna della legge scritta, il giudice la colma applicando una
norma che disciplina un caso analogo. Ad esempio la legge afferma l'obbligo di
denunciare tutti i lupi di proprietà privata e il giudice, di fronte al caso del
possesso di un dingo australiano, decide di estendere la norma al caso di
specie. L'interpretazione alcune volte può rasentare l'applicazione analogica.
Ciò avviene soprattutto nei casi della cosiddetta interpretazione estensiva.
Essa è una normale interpretazione nell'ambito della quale il significato
apparente, iniziale, delle parole usate dalla legge è più ristretto del significato
attribuito alle stesse parole dall'interprete che risulta essere più ampio e più
esteso. Un esempio: se una norma durante un famoso festival del cinema
proibisse di girare nudi per strada, che cosa dovrebbe fare il giudice di fronte
ad una ragazza che gira vestita con vestiti di cellophane e dunque totalmente
trasparenti?

Il giudice potrebbe dire che l'aggettivo nudi indicato si estende ai casi in cui i
vestiti indossati dal soggetto siano completamente trasparenti. In questo caso
si ha una interpretazione estensiva della norma. La differenza rispetto
all'analogia è che le parole usate dal legislatore, in questo caso, non possono
essere estese nel loro significato a tal punto da ricomprendere il caso non
regolato dalla legge. In questo caso non si applica la norma ma se ne crea per
così dire un'altra. Nell'ipotesi dell' interpretazione estensiva si ritiene che le
parole usate dal legislatore possono essere estese nel loro significato fino a
ricomprendere il caso non regolato e pertanto si applica una norma già
esistente. Spesso comunque i nostri giudici approfittano della contiguità tra
queste due diverse figure per spacciare un'ipotesi vietata di analogia per casi
di interpretazione estensiva permessa. Proprio per questo, alcuni sostengono
che anche l'interpretazione estensiva debba essere vietata nel diritto penale.

Interpretazione e principio di legalità

Nel nostro sistema la creazione del diritto penale dovrebbe essere di esclusivo
monopolio del legislatore ma il giudice, che dovrebbe essere un applicatore

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meccanico della legge, in realtà deve sempre interpretare la legge stessa.
Questo problema si evidenzia in relazione ad ogni tipo di interpretazione poiché
come sosteneva il filosofo Hart ogni norma si compone di due parti: uno è il
nucleo centrale, nell'ambito del quale è facile orientarsi interpretativa, mentre
il secondo è l'alone marginale nell'ambito del quale si verificano i maggiori
problemi interpretativi. Ad esempio l'art 544 c.p. Che vieta l'uccisione di
animali a certe condizioni va interpretato nel senso che riguarda ovviamente
gli animali domestici più comuni come cani, gatti, ecc. Ma cosa dire riguardo
alle formiche certamente animali domestici? l'applicabilità di una simile norma
si potrebbe creare qualche imbarazzo. In questo caso siamo nell'ambito di
quello che Hart chiamava alone marginale della norma.

Parte Terza

Il reato

Capitolo 1

Nozioni generali

Il reato nozione formale e sostanziale.

Il reato formalmente è definibile come "quell'illecito cui la legge ricollega una


sanzione penale" laddove le sanzioni del diritto penale sono l'ergastolo la
reclusione e la multa per i delitti, l'arresto e l'ammenda per le contravvenzioni.
Questa definizione è sufficiente a fornire agli operatori del diritto uno
strumento per riconoscere un reato. Da un punto di vista sostanziale la storia
della scienza penale collega il concetto del reato inizialmente ad un substrato
etico-sociale, definendo come un comportamento immorale contrario al
"minimo etico". Nel creare una nuova norma di diritto penale si deve porre
particolare attenzione al rapporto tra i reati e la coscienza sociale. E’ normale
quindi che il diritto penale sia ancorato alle norme di cultura, morali, sociali
rilette alla luce di più moderne acquisizioni della scienza penal-sociologica.

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Anche la stessa Corte Costituzionale, in una fondamentale sentenza del 1988,
ha stabilito che deve esserci piena consonanza tra le norme di civiltà i
precedenti penali. E’ importante non confondere il piano della morale
individuale con quello della morale sociale in relazione alla criminosità di un
certo fatto. Si pensi alla bestemmia da molti ritenuta immorale, ma altro è
ritenere che sia opportuno che la bestemmia venga sottoposta a sanzione
penale.

Infatti un diritto penale laico ispirato al principio di offensività e di materialità


non deve punire la bestemmia perché essa non reca danni alla società. E’
evidente quindi che la morale sociale non giudica la bestemmia come
sottoposta a pena: il legislatore quindi non dovrebbe prevedere reati laddove
tali fatti non siano considerati criminosi dalla pubblica opinione ma non vale il
contrario perché il legislatore non è obbligato a prevedere come reati tutti quei
comportamenti che la gente considera degni di una sanzione penale.

Reati, illeciti civili e illeciti amministrativi.

Sotto il profilo formale, il reato si differenzia dell'illecito civile per le sanzioni


che l'ordinamento vi riconnette. L'illecito penale, reato, è corredato da sanzioni
penali (reclusione, multa ecc); l'illecito civile comporta sanzioni di tipo
civilistico, quali risarcimento del danno, riduzione in pristino ecc. Ci sono poi
differenze da un punto di vista sostanziale che attengono a requisiti
costituzionali e dunque profili comunque rilevanti dal punto di vista giuridico
formale: solo il reato deve rispondere principi costituzionali di legalità,
materialità, offensività e colpevolezza.
Legalità: per l'illecito civile non è prevista una riserva assoluta di legge ed è
inoltre ammessa l'analogia. Offensività: nel diritto civile la stella polare della
tutela non è il bene giuridico che abbiamo visto connotare il diritto penale, ma
è il diritto soggettivo.

E’ proprio la colpevolezza a connotare specificamente il reato rispetto


all’illecito civile. Infatti, il diritto penale deve porre l'attenzione sul reo
colpevole di aver commesso il reato. La responsabilità penale presuppone
quantomeno il dolo o la colpa, mentre la responsabilità civile pullula di ipotesi
di responsabilità oggettiva. Per questo la colpevolezza penale implica una
valutazione di rimproverabilità del reo del tutto assente in ambito civilistico.
Quanto alla distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo c'è una
differenza formale: solo al reato vengono riconnesse dall'ordinamento sanzioni
penali quali ergastolo, reclusione, multa, arresto e ammenda, cosa che non
accade per l'illecito amministrativo. Un'altra differenza si rinviene nei principi
costituzionali che entrano in gioco. Per l'illecito penale valgono i principi di
legalità, materialità, offensività e colpevolezza. Per l'illecito amministrativo la
legalità è per certi versi attenuata; quanto il principio di offensività e

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materialità, esso ha comunque connotazioni diversi e minori rispetto a quelle in
materia penale. Per quanto riguarda il principio di colpevolezza, il rapporto tra
reato e illecito amministrativo non presuppone che, per il secondo, vengano
soddisfatte le esigenze di colpevolezza, di individualizzazione della risposta
punitiva e di considerazione dell'autore del reato.

Va inoltre considerato la possibilità di una distinzione sostanziale tra reato e


illecito amministrativo, poiché il reato è più grave dell'illecito amministrativo.
Questa teoria viene contestata da una parte della dottrina poiché ravvisa una
distinzione puramente quantitativa, ritenuta insufficiente. Dal punto di vista
qualitativo, invece, è certo che al reato debbano corrispondere norme sociali o
di cultura che ritengono criminoso quel comportamento. Laddove la pubblica
opinione avverta la dannosità di un comportamento, ma non ritiene che esso
debba essere punito con una sanzione detentiva (poiché non criminoso), il
legislatore può disciplinarlo come illecito amministrativo. Ad esempio il
parcheggio in divieto di sosta, è ovviamente considerato come illecito
amministrativo poiché la pubblica opinione non ritiene che debba essere punito
con una pena detentiva. Diverso è il caso di un sorpasso in una curva cieca ad
alta velocità che secondo la pubblica opinione dovrebbe essere punito con una
sanzione penale e che invece è solo punito con una sanzione amministrativa.
Quindi è evidente come non tutti i fatti che la pubblica opinione ritiene
criminosi siano poi puniti con sanzione penale.

Delitti e contravvenzioni.

I reati si dividono in due categorie: delitti e contravvenzioni. Nel nostro


codice il secondo libro (art. 241-649) concerne i delitti, il terzo libro(art.
650-734bis) contiene le contravvenzioni. Sotto il profilo formale la distinzione
tra delitto e contravvenzioni è semplice: se il fatto è punito con la pena
dell'ergastolo, della reclusione, della multa siamo di fronte ad un delitto,
altrimenti se è punito con l'arresto o l'ammenda siamo di fronte ad una
contravvenzione. Per quanto riguarda invece una distinzione dal punto di vista
sostanziale , che si ravvisa intermini semplicemente quantitativi, i delitti sono
reati più gravi rispetto alle contravvenzioni. Inizialmente la distinzione tra
delitti e contravvenzioni corrispondeva sostanzialmente alla differenza che oggi
esiste tra reati e illeciti amministrativi e va precisato che gli illeciti
amministrativi non esistevano è che le contravvenzioni denominate
trasgressioni erano in sostanza riconducibili alla categoria degli illeciti di
polizia, non di competenza della magistratura ordinaria. In questo quadro i
delitti erano illeciti criminali a tutti gli effetti,
mentre le contravvenzioni non avevano spessore criminale. Quindi i delitti
erano corrispondenti ai mala in se, ovvero fatti che la stessa coscienza sociale
considerava malvagi a prescindere dalla loro qualificazione giuridica (omicidio,
stupro, rapina, ecc).

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Le contravvenzioni erano corrispondenti ai mala quia vetita, ossia fatti neutri
dal punto di vista morale che divenivano fatti riprovati in quanto vietati dal
legislatore. Quindi nei primi, la qualifica di illecito di un
comportamento precedeva la scelta del legislatore; nei secondi la qualifica di
illecito di un comportamento segue la scelta del legislatore. Oggi questo
criterio distintivo non sarebbe accettabile, più che altro perché sono gli illeciti
amministrativi che hanno preso il posto delle contravvenzioni nella scala
gerarchica degli illeciti. Le stesse
contravvenzioni, di fronte alla creazione di un sistema organizzato di illeciti
amministrativi, potevano addirittura rischiare l'estinzione tant'è che qualche
studioso ha prospettato l'idea della soppressione delle contravvenzioni. C'è chi
però si è opposto,evidenziando che il rapporto tra delitti e contravvenzioni
sarebbe una sorta di "binomio irriducibile", che permette di disciplinarle nel
nostro codice in maniera diversa: i delitti sono sempre punibili a
titolo di dolo, mentre l'elemento soggettivo delle contravvenzioni è la colpa;
il tentativo è configurabile nei delitti e non nelle contravvenzioni;
l'oblazione è ammissibile solo con riferimento a certe contravvenzioni e non ai
delitti.
Tenendo conto di queste differenze,i delitti sono incentrati sul modello del reato
di danno o di pericolo
concreto,mentre le contravvenzioni sono adattabili a contenere illeciti di
pericolo astratto,specie di indole precauzionale.
Lo schema contravvenzionale si adatterebbe a reati sul modello dell'esercizio di
attività o del possesso di cose pericolose senza autorizzazione o senza aver
effettuato certe denunce (es. armi). Inoltre oggi si sta scegliendo la via della
depenalizzazione, nel senso che alcune contravvenzioni e delitti sono stati
declassati alla competenza del giudice di pace. In pratica il binomio irriducibile
rischia davvero di ridursi.

Bipartizione e tripartizione

Il reato si manifesta come un qualcosa di unitario. Esso può essere considerato


analiticamente nei suoi ingredienti: la "ricetta"del reato li elenca e ne descrive
importanza e collocazione. In particolare esistono due tesi contrapposte: la
prima detta della bipartizione individua nel reato due ingredienti, l'altra detta
della tripartizione ne individua tre. Secondo la teoria bipartita (seguita dal1800)
il reato è composto da due elementi che sono l'elemento soggettivo e
l'elemento oggettivo. Secondo la teoria tripartita (seguita dagli anni Trenta e
oggi in voga), il reato è composto da tipicità, antigiuridicità e colpevolezza.
Alcuni sostengono anche una teoria della quadripartizione, aggiungendo il
quarto elemento della punibilità.

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Teoria della bipartizione: essa distingue tra elemento oggettivo ed elemento
soggettivo.
L'elemento oggettivo sarebbe composto da tutti i dati oggettivi del reato:
condotta, evento, nesso causale, ecc. L'elemento soggettivo del reato sarebbe
composto dal dolo o dalla colpa o da altro elemento di natura soggettiva, es.
preterintenzione.
Resta il problema di come classificare elementi, quali le cause di giustificazione
(es. legittima difesa). A detta di molti sostenitori della teoria della bipartizione,
essi andrebbero considerati quali elementi negativi del fatto all'interno
dell'elemento oggettivo del reato.

Teoria della tripartizione: essa distingue tra tipicità,


antigiuridicità,colpevolezza.
La tipicità sarebbe la conformità del fatto al tipo dell'illecito descritto dal
legislatore (ad esempio nella violenza sessuale, l'aver costretto altri con
violenza, minaccia o abuso di autorità a subire o compiere atti sessuali).
L'antigiuridicità si sostanzierebbe nell'assenza di cause di giustificazione, la cui
presenza eliminerebbe il contrasto del fatto col diritto.
La colpevolezza evidenzierebbe la rimproverabilità dell'agente e dunque si
sposterebbe sul piano della "possibilità di agire altrimenti"da parte del singolo
autore del reato (es. il pazzo che compie un omicidio per un delirio
allucinatorio).
La bipartizione ha il pregio della semplicità e immediatezza, mentre la
tripartizione coglie con più profondità alcuni tratti tipici del concetto di reato.
L'elemento della colpevolezza non trova posto all'interno della semplicistica
struttura bipartita.
Oggi come detto è seguita la teoria tripartita.

Adottata la tripartizione occorre analizzare i tre elementi del reato.

Tipicità: essa è anche detta "conformità al tipo" del reato e si sostanzia nel
fatto tipico.
Si pensi all'omicidio doloso. in questo caso la norma (art.575 c.p.) descrive un
fatto consistente nel cagionare la morte di un uomo. Questo fatto si dice tipico
perché appunto è conforme al tipo di fatto descritto nella norma.
Quindi la tipicità è l'insieme degli elementi fattuali, descritti dal legislatore
nell'ambito della singola disposizione incriminatrice. La tipicità rappresenta la
realizzazione normativa, a livello di singola fattispecie, dei principi
costituzionali di determinatezza e frammentarietà da un lato e di offensività
dall'altro.
La determinatezza e la frammentarietà si manifestano soprattutto nella
descrizione della condotta tipica costitutiva del reato, mentre l'offensività si
concretizza nell'evento o comunque nel risultato finale della condotta tipica da

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cui emerge e si staglia il bene giuridico specificamente protetto dalla norma
incriminatrice.
Un problema può porsi in relazione alla collocazione del dolo e della colpa
nell'ambito della tipicità.
Un esempio dovrebbe chiarire la questione: anche in questo caso l'omicidio può
essere doloso o colposo, ma non si tratta dello stesso fatto tipico realizzabile in
due diversi modi. Si tratta piuttosto di due diversi fatti tipici. La riprova è data
dal fatto che anche dal punto di vista delle norme di cultura un omicidio doloso
è ben altra cosa rispetto ad un omicidio colposo.
Si pensi alla differenza che ciascuno avverte tra i seguenti casi:

Tizio che per odio accoltella Caio e Mevio che, distratto per un attimo dal
passaggio di una bella ragazza, investe Sempronio con l'automobile. È ovvio
che tali fattispecie debbano essere collocate in due norme distinte e che di
conseguenza ci sia un' abissale differenza di pena tra l'una (dai 6 mesi ai 5 anni
per l'omicidio colposo) e l'altra(da un minimo di 21 anni per l'omicidio doloso).
Se anche il dolo e la colpa contribuiscono alla definizione del fatto tipico se ne
deduce che anche all'interno della tipicità possiamo distinguere tra elemento
oggettivo ed elemento soggettivo: nel tipo dell'omicidio doloso si potrà ad
esempio distinguere tra causazione della morte di un uomo(elemento
oggettivo) e dolo relativo (elemento soggettivo).
Dunque la bipartizione può giocare un ruolo all'interno della sistematica
tripartita, nel senso che nell'ambito della tipicità si può e si deve distinguere tra
elemento oggettivo e elemento soggettivo.

Antigiuridicità: essa si configura come contrarietà del fatto tipico al diritto. In


sostanza per la configurazione del reato non basta che vi sia il fatto tipico ma
occorre che essa sia realizzato contra ius.
Es. Tizio uccide volontariamente Caio con un colpo di pistola. Vi è il fatto tipico
dell'omicidio doloso; ma se Tizio ha agito spinto dalla necessità di difendersi da
Caio che, armato, lo aveva proditoriamente aggredito e che
lo voleva uccidere, non vi sarà il reato di omicidio perché Tizio ha agito in stato
di legittima difesa. In questo caso il comportamento di Tizio è conforme al
diritto dal momento che sussiste una causa di giustificazione.
Pertanto manca l'antigiuridicità. L'antigiuridicità insomma equivale all'assenza
di cause di giustificazione, che sono situazioni che giustificano la commissione
del fatto tipico da parte dell'agente.

Sono cause di giustificazione la legittima difesa, lo stato di necessità,il


consenso dell'avente diritto, l'esercizio del diritto,l'adempimento del dovere ed
entro certi limiti l'uso legittimo delle armi.
Esse giustificano pienamente il fatto, nel senso che esso diviene a tutti gli
effetti conforme al diritto e proprio per questo la dottrina maggioritaria, nel

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caso proposto, ritiene che l'omicidio giustificato dalla legittima difesa non
dovrebbe essere neppure risarcito nei confronti dei parenti superstiti di Caio.

Parte della dottrina ritiene che, almeno in certe ipotesi, le cause di


giustificazione avrebbero efficacia giustificante limitatamente al solo diritto
penale. L’assenza di antigiuridicità del fatto ha importanti ripercussioni in
materia di concorso di persone nel reato ed anche si riflette sulla stessa
disciplina delle cause di giustificazione.

Colpevolezza: consiste nella rimproverabilità del fatto all’agente,


rimproverabilità che si basa su di un giudizio normativo di esigibilità della
condotta conforme al diritto da parte del soggetto attivo del reato.
La colpevolezza si sostanzia nell’essere in grado di agire altrimenti da parte del
reo.
Esempio: se Tizio uccide Caio perché affetto da una forma di schizofrenia che
gli fa credere che Caio sia un serpente a sonagli, che rimprovero possiamo
muovere a Tizio per aver compiuto quell’omicidio? Egli infatti non ha colpa per
quello che ha fatto: non aveva colpevolezza al momento dell’azione.
Altro esempio: Tizio acquista una bombola per gas; il venditore non lo avverte
che chi detiene una simile bombola deve farne denuncia entro 24 ore
dall’acquisto all’autorità; Tizio omette la denuncia. Questo sarebbe un classico
caso di errore scusabile sul precetto.
La colpevolezza è, a differenza dell’antigiuridicità, requisito caratteristico del
solo diritto penale. Essa presuppone un giudizio di tipo individuale, e si ritaglia
sulla singola persona che incappa nella commissione di un fatto tipico ed
antigiuridico. Il fatto rimane invero (oltre che tipico) antigiuridico, ma il
soggetto che lo ha commesso con è punibile, nel senso di non rimproverabile.
Le cause di esclusione della colpevolezza si dicono anche scusanti: esse infatti
hanno il solo effetto di scusare il soggetto che ha realizzato il fatto, ma non
hanno la forza di giustificare quest’ultimo.
Esempio: se Tizio, impazzito, uccide Caio non sarà punibile ma Mevio, che
consapevole della pazzia di Tizio, gli porge una pistola per agevolare l’omicidio,
sarà punibile come complice del delitto commesso incolpevolmente da Tizio.
Non è sempre facile distinguere fra giustificanti – come si denominano talora le
cause di giustificazione - e scusanti.
Le giustificanti determinano il venir meno della contrarietà del fatto al diritto; le
scusanti lasciano sussistere tale antigiuridicità, ma escludono la
rimproverabilità del singolo agente per ciò che ha fatto. E il dolo e la colpa?
Essi si collocano già nell’ambito della tipicità. Ma vi è spazio per una
valutazione del dolo e della colpa anche all’interno della colpevolezza? Si può
dire che ad es. nell’ambito delle fattispecie dolose potranno essere presi in
considerazione in chiave di colpevolezza i motivi che hanno spinto il soggetto
a realizzare dolosamente quella azione. Quanto alla colpa, essa potrà rifluire
nella colpevolezza soprattutto in relazione alla c.d. “misura soggettiva” della

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colpa, e cioè a quell’aspetto della colpa che si parametra alle caratteristiche
individuali dell’agente.

Varie categorie di reati

Vi sono numerose categorie di reati che presentano tra loro differenze che non
bisogna trarre dal comportamento concreto dell'agente ma dalla
conformazione della fattispecie legale nella sua tipicità.

a) Reati formali (di pura condotta) e reati materiali (o di evento).


I reati formali sono reati che consistono nella semplice condotta umana,senza
che si produca alcun risultato separato da essa. L'evento è una modificazione
della realtà naturalistica prodotto da una condotta umana.
Ciò che caratterizza i reati formali o di pura condotta è che l'evento che si
produce è comunque coincidente con la condotta. Unici veri reati senza evento
sarebbero i reati omissivi propri o puri, es. omissione di
soccorso, nell'ambito dei quali si può parlare di non-evento ossia della mancata
produzione di un risultato che l'ordinamento pretendeva che l'obbligato venisse
a produrre.
I reati materiali o di evento sono invece caratterizzati dalla presenza di un
evento prodotto dalla condotta.
Ad esempio l'omicidio in cui con la sua condotta il soggetto attivo del reato
cagiona la morte di un uomo. Nei reati di evento si pone il problema del nesso
di causalità.
I reati di evento si dividono in due categorie"reati a forma libera" e "reati a
forma vincolata".
Reati a forma libera: sono quelli nell'ambito dei quali il legislatore non descrive
nella fattispecie un certo tipo di condotta che deve produrre l'evento. Si pensi
allo stesso omicidio in cui qualsiasi condotta viene ritenuta punibile dal
legislatore, purché produca l'evento morte. Per questo sono detti reati
"causalmente orientati".
Reati a forma vincolata: sono reati in relazione ai quali legislatore ritiene che si
realizzi l'evento tramite una certa azione ben precisa.

b) Reati commissivi e reati omissivi.


I reati commissivi o attivi sono quelli che si commettono mediante un'azione
positiva (es. furto).
I reati omissivi sono quelli che si commettono mediante un’ omissione(es.
omissione di denuncia).
I primi corrispondono ad un precetto negativo o divieto, i secondi
corrispondono ad un progetto positivo o comando.
I reati omissivi si dividono a loro volta in due categorie: reati omissivi proprio
puri e reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione.

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I reati omissivi propri sono caratterizzati dalla mera non effettuazione di
un'azione (es. denuncia) mentre i reati omissivi impropri sono integrati dal
mancato impedimento di un evento (omicidio realizzato dalla mamma che non
allatta il bimbo uccidendolo)

c) Reati dolosi e reati colposi.


I reati dolosi sono quelli che il legislatore descrive come punibili ad esclusivo
titolo di dolo (esempio omicidio volontario).
I reati colposi sono quelli che il legislatore descrive come punibili a titolo di
colpa(esempio omicidio colposo).
I delitti sono tutti i punibili a solo titolo di dolo, salvo che la legge disponga
espressamente altrimenti; le contravvenzioni sono punibili indifferentemente a
titolo di dolo o di
colpa.

d) Reati istantanei e reati permanenti.


La fattispecie tipica può essere costruita in modo che la condotta del soggetto
attivo del reato si risolva in unità di tempo; oppure, la condotta richiesta della
fattispecie può perdurare nel tempo. Nel primo caso abbiamo un reato
istantanee, nel secondo caso un reato permanente.
Esempi di reato istantaneo: furto e omicidio.
La durata maggiore dell'azione è in queste ipotesi una semplice variante
dell'esecuzione concreta del fatto. Ma non intacca la tipicità, che prevede
l'istantaneità della condotta. Nei reati permanenti è la stessa fattispecie tipica
che richiede un perdurare della condotta.
Esempio: delitto di sequestro. La giurisprudenza distingue sostanzialmente i
casi in cui il termine entro cui va effettuata l'azione è perentorio, da quelli in cui
è meramente ordinatorio.
Nelle prime ipotesi il reato sarebbe istantaneo; nelle seconde permanente.
Ma una simile soluzione non tiene conto del fatto che, nell'ambito delle
fattispecie di pura omissione i termini sono sempre perentori.
Da certa parte della dottrina si è proposto un criterio diverso: si dovrebbe
guardare alla fattispecie tipica, e vedere se essa richiede al soggetto un'azione
che in sé stessa è duratura, oppure no.

e) Reati abituali propri, reati abituali impropri e reati eventualmente


abituali.
I reati abituali propri sono quelli per la cui tipicità è prescritta la reiterazione
della condotta nel tempo. Un solo atto non è sufficiente ad integrare il reato.
Esempio classico è il reato di maltrattamenti in famiglia. Nell'ambito dei reati
abituali impropri viceversa, la
singola condotta può costituire reato; ma la reiterazione delle condotte integra
un reato diverso o un aggravamento di quel reato.
Esempi: incesto e relazioni incestuose.

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Altra categoria elaborata dalla dottrina e soprattutto utilizzata dalla
giurisprudenza è quella dei reati eventualmente abituali: tali illeciti postulano la
non punibilità anche della singola condotta; ma in caso di reiterazione non si
verificano più reati, sebbene la forma abituale dello stesso reato.
Esempio: sfruttamento della prostituzione.

f) Reati di danno e reati di pericolo concreto ed astratto.


I reati di danno sono quelli in cui la tipicità richiede una vera e propria lesione
al bene giuridico; i reati di pericolo sono quelli in cui la fattispecie si accontenta
della produzione di un pericolo per il bene protetto. Pericolo astratto o
presunto: non si ha un evento di pericolo, ed il pericolo per il bene giuridico è
presunto nella realizzazione del fatto tipico. In dottrina si distingue per talora
fra reati di pericolo astratto e presunto, ma si tratta di approfondimenti che non
possono essere svolti in questo lavoro.

g) Reati propri e reati comuni.


Taluni reati sono commissibili da chiunque: sono i cd reati comuni; altri possono
essere commessi solo da determinate categorie di persone: e si denominano
reati propri. Esempi: tra i primi si può menzionare il solito omicidio; tra i
secondi il peculato.
Che tipo di qualifica deve avere il soggetto attivo del reato perché si versi in un
ipotesi di reato proprio?
Vi sono varie opinioni: vi è chi limita tali qualifiche a qualifiche normativamente
rilevanti; vi è chi lo estende a persone che si trovano in un qualche rapporto di
vicinanza col bene giuridico protetto dalla norma.
Questa seconda opinione unifica in sostanza la categoria del reato proprio a
quella del reato a soggetto attivo delimitato, o ristretto.
Se si accedesse a questa opinione, si dovrebbe concludere che tutti i reati
omissivi propri sono anche reati propri: presuppongono tutti è un obbligo
giuridico in capo a qualche soggetto determinato.

h) Esistono poi ulteriori categorie di reati (esempio reati a dolo generico o


specifico; reati preterintenzionali; reati aggravati dall'evento;reati condizionati;
reati plurisoggettivi; reati di mano propria;reati-ostacolo, ecc..).

Trattazione separata delle varie tipologie di reati?

Si ottengono quattro categorie di reati: i reati commissivi dolosi; i reati


commissivi colposi; i reati omissivi dolosi; i reati omissivi colposi. La dottrina
più moderna ha dimostrato che i principi e le regole dogmatiche che valgono
per gli uni non valgono necessariamente per gli altri; e che ciascuna di queste
categorie meriterebbe trattazione autonoma e separata.
Analizzeremo, nel prosieguo dell'opera, il reato, nei suoi elementi costitutivi
fondamentali.

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Essi sono,nell'ambito della tipicità: il soggetto attivo, la condotta, l'evento, il
nesso causale;
nell'ambito dell'antigiuridicità: le cause di giustificazione.
Infine, vi è la colpevolezza: il dolo e la colpa. Essi saranno trattati
sistematicamente all'interno della colpevolezza in cui saranno da considerare
anche altre figure quali l'errore sul precetto e l'imputabilità.

Sezione 1

La tipicità

Capitolo 1

La tipicità: Premessa

La tipicità non è altro che l'insieme degli elementi fattuali descritti dal
legislatore nell'ambito di una singola disposizione incriminatrice. La tipicità è il
primo degli elementi del reato. Essa, o conformità al tipo, è sostanzialmente
questione più di parte speciale che di parte generale. Tutti i reati sono costituiti
più o meno dagli stessi elementi, i quali presentano connotati di carattere
generale in quanto comuni a tutte o a gran parte delle fattispecie. Tutte le
fattispecie hanno un soggetto attivo; tutte hanno una condotta; molte
fattispecie hanno un evento. Ecco perché la descrizione di questi elementi della
tipicità è questione di parte generale. Elementi della conformità al tipo:

1) il soggetto attivo

2) la condotta

3) l'evento

4) il nesso causale

Capitolo 2

Il soggetto attivo

Il soggetto attivo del reato (ovvero autore, reo, agente, colpevole) è il primo
degli elementi costitutivi della tipicità, che designa colui il quale realizza gli
estremi in una fattispecie di reato. Il soggetto attivo dev'essere una persona
umana.In rapporto al reo, è stato elaborato il concetto di capacità penale.
Questa è posseduta da ogni individuo, a prescindere dalle sue caratteristiche

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(età, capacità di intendere e volere, ecc): chiunque è astrattamente capace di
commettere un reato.Nella dottrina più recente, tuttavia, si tende a
sottolineare la sostanziale inutilità di tali categorie concettuali. Infatti, la
nozione di capacità penale risulta priva di ricadute pratiche, proprio nella
misura in cui la si riconosca ad ogni essere umano, senza differenziazioni.Sulla
base delle caratteristiche del soggetto attivo richieste dalla norma per
integrazione del fatto tipico, si distingue tra reati comuni e reati propri. I reati
comuni sono realizzabili da chiunque, mentre si definisce proprio il reato di cui
può essere chiamato a rispondere soltanto chi rivesta una certa qualifica o
posizione.

Le immunità
L'art.3 c.p., oltre a sancire il principio di obbligatorietà della legge penale ("La
legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel
territorio dello Stato") fa "salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno
o internazionale": queste eccezioni danno luogo alle c.d.immunità.
Si distingue tra immunità di diritto pubblico interno ed immunità di
diritto internazionale, a seconda della fonte normativa da cui l'immunità
deriva. Vengono ulteriormente classificate, a seconda del loro contenuto, in due
categorie: le c.d. Immunità funzionali e le c.d. Immunità extrafunzionali.

Immunità funzionale: quando ha efficacia limitata ai soli fatti di rilievo penale


realizzati nell’esercizio delle funzioni cui essa si riferisce.
Immunità extrafunzionale: quando estende la propria efficacia anche al di là dei
fatti di reato compiuti nell’esercizio delle funzioni coprendo tutti i fatti posti in
essere da colui che beneficia dell’immunità stessa.
Talvolta si parla di immunità assolute, cioè che si estendono a tutti i reati.
Altra partizione è tra immunità sostanziali ed immunità processuali, a seconda
dell’oggetto ovvero dei modi e dei tempi dell’inibizione della risposta
sanzionatoria.

Immunità sostanziale: l’oggetto dell’inibizione è rappresentato dall’applicabilità


della sanzione.

Immunità processuale: viene ad essere preclusa la possibilità di sottoporre il


soggetto immune a procedimento penale, ovvero ad alcuni atti del
procedimento. Tale possibilità normalmente rivive e si riespande con la
cessazione dal ruolo da cui l’immunità deriva.

Immunità di diritto pubblico interno

Beneficiano di immunità di diritto pubblico interno:

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- Il Pres. della Repubblica, poichè ai sensi dell’art. 90 Cost. Egli “non è
responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per
alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.
Può essere chiamato a rispondere di reati compiuti al pari di qualsiasi cittadino.
Gode di un’immunità funzionale e non assoluta, limitata dalle ipotesi di alto
tradimento e attentato alla Costituzione. Si intendono i delitti richiamati all’art.
77 c.p.militare di pace e di cui all’art. 283 c.p.

- I membri del Parlamento


L’art. 68 Cost. Prevede che essi “non possono essere chiamati a rispondere
delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Anche
qui si tratta di immunità funzionale di tipo sostanziale che esclude ogni forma
di responsabilità sia penale che civile che disciplinare in rapporto a
manifestazioni del pensiero.
Essa protegge ciascun membro da conseguenze relative agli atti tipici del
relativo mandato, comprese dichiarazioni e valutazioni effettuate in sede di
divulgazione della propria attività istituzionale.
Nessuna immunità opera in caso di realizzazione di reati quali la corruzione e la
concussione, ovvero di fattispecie che non hanno nulla a che fare con la
manifestazione del pensiero.
I membri del Parlamento godono inoltre di un’immunità extrafunzionale,
sancita dall’art.68 Cost. che afferma che “senza autorizzazione della Camera di
appartenenza, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a
perquisizione domiciliare o personale, né può essere arrestato o privato della
libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una
sentenza irrevocabile di condanna, oppure sia colto nell’atto di commettere un
delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”. Analoga
autorizzazione è richiesta per sottoporre il parlamentare ad intercettazioni o
sequestro di corrispondenza. Si tratta di immunità processuali.

- Giudici della Corte Costituzionale, membri dei Consigli regionali, membri del
Consiglio superiore della Magistratura.

Immunità di diritto internazionale

Un’immunità proveniente dal diritto internazionale è riconosciuta al Sommo


Pontefice, che è anche capo di Stato estero, la Città del Vaticano.

E’ riconosciuta l’immunità a tutti i capi esteri che, in tempo di pace, si trovano


sul territorio italiano, in rapporto ai fatti previsti come reati dalla legge italiana,
purché realizzati nell’esercizio delle loro funzioni. In analoga situazione versano
i membri di governo stranieri, i rappresentanti di stati esteri in conferenze
internazionali o in organizzazioni intergovernative.

La natura giuridica dell’immunità

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Ciò che non va trascurato dal penalista è il problema attinente alla natura
giuridica delle immunità, perché la sua soluzione incide sulla disciplina
concretamente applicabile al caso concreto.

Esiste un denominatore comune di tutte le ipotesi di immunità ossia la generica


non punibilità del soggetto immune che discende dalla sottrazione di quel
soggetto al potere coercitivo dello Stato (immunità come causa di esclusione
della pena). Occorre indagare la ratio e il contenuto di ciascuna singola
previsione di immunità, per comprenderne la natura e farne prescrivere le
corrette conseguenze giuridiche. Così, le ipotesi di immunità sostanziale di tipo
funzionale, che si ricollegano alle funzioni svolte dal soggetto immune, sono
almeno tendenzialmente riconducibili al concetto di cause di giustificazione.

In altri casi, il fatto realizzato dal soggetto immune non si può considerare
lecito: esso è a tutti gli effetti un reato, ma il reo non viene punito per
l’esistenza di una causa personale di non punibilità.

L’individuazione dei soggetti responsabili negli e nelle imprese.

Quando si verifica un fatto di reato nel contesto dell’attività di un ente


collettivo o di un’impresa, si pone il problema di quale soggetto debba essere
chiamato a risponderne.
Per esempio, in un cantiere, un muratore, dipendente di un’impresa strutturata
in forma di società per azioni, cade da un ponteggio- essendo privo
dell’apposita attrezzatura antinfortunistica – e muore.
Chi può essere considero responsabile di omicidio colposo?

È necessario stabilire quale soggetto debba essere individuato come


responsabile, nell'ambito dell'impresa o dell'ente in genere, in base a fonti
normative di riferimento.
Nell’esempio poc’anzi riferito, il responsabile sarà il datore di lavoro.
Una volta individuato il soggetto responsabile in via primaria, non è detto
infatti che questi sia in concreto il vero soggetto attivo del reato: egli infatti
potrebbe aver delegato ad altri lo svolgimento di determinate funzioni, cui si
ricollega l’obbligo penalmente sanzionato. Oggi la disciplina della delega di
funzioni della datore di lavoro rinviene nel d. lgs. N. 81 del 2008.

Nell’art.16, espressamente indicati i limiti e le condizioni con cui la delega di


funzioni di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori è ammessa.
Si richiede:
a. Che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b. che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza
richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c. che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, non è il
controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
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d. che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo
svolgimento delle funzioni delegate;
e. che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.

La delega, alla quale deve essere dato risalto attraverso adeguata e


tempestiva pubblicità, non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di
lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni
trasferite. Si considera sufficiente che sia stato avventato ed efficacemente
attuato un modello di verifica e controllo aziendale sulle procedure interne
volte a prevenire i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché
alcuni specifici reati.
Il soggetto delegato può a sua volta nelle gare specifiche funzioni in materia di
salute e sicurezza sul lavoro, rispettando però le condizioni ed i limiti già visti
sopra.

In base all’art. 17, infine, il datore di lavoro non può delegare le fondamentali
attività di valutazione di tutti i rischi a cui sono esposti i lavoratori di
elaborazione di un documento con il quale si crea una sorta di mappa dei rischi
stessi, così come non può delegare la designazione del responsabile del
servizio di prevenzione e protezione dai rischi, il quale deve essere persona con
capacità e requisiti professionali adeguati alla natura dei rischi presenti sul
luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative.
Vi sono poi ulteriori ipotesi in cui l’obbligo per legge non è delegabile. Nel caso
ad esempio dell’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte
di una società a responsabilità limitata, si deve individuare il soggetto che
avrebbe dovuto presentarla in base alla normativa tributaria: una volta chiarito
che l’obbligo fa capo a tizio, nella sua qualità di amministratore e legale
rappresentante della società, questi non potrebbe difendersi dicendo di aver
delegato il compito di redigere e di presentare la dichiarazione ad altri soggetti.
In casi del genere, da un lato la legge consente di selezionare con precisione il
responsabile, e, dall’altro, l’obbligo di presentazione della dichiarazione nonna
è delegabile ad altri con un atto di autonomia negoziale.

La responsabilità penale delle persone giuridiche: spunti problematici.

Può una persona giuridica essere soggetto attivo del reato? Tradizionalmente,
al quesito si rispondeva in modo negativo, citando un noto brocardo: societas
delinquere non potest (=un ente non può delinquere):
Sul piano del diritto vigente, si vuole richiamare il disposto dell’art. 197 c.p.: sì
InnaA determinate persone giuridiche è previsto, al più, l’obbligo civile del
pagamento di una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria inflitta alla
persona fisica che ne ha la rappresentanza o l’amministrazione, in caso di
insolvibilità di quest’ultima, se ne deduce che gli enti collettivi in genere non
possono essere destinatari di una sanzione penale.

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Un ruolo centrale svolto, dall’art. 27, comma 1, Cost.: la responsabilità penale
è personale. In primo luogo, si paventa che l’affermazione della penale
responsabilità della persona giuridica collida con il significato minimo di tale
disposizione, ossia con il divieto di responsabilità per fatto altrui. L’ente
verrebbe a rispondere non per un fatto proprio, ma in conseguenza del
comportamento di un suo organo, la sanzione penale comminata alla persona
giuridica colpirebbe soggetti terzi, quali dipendenti, soci e i creditori.
In secondo luogo, si evidenzia una sorta di incompatibilità logica tra la
colpevolezza, come strumento per la personalizzazione della rimprovero
giuridico-penale pensato in funzione della persona umana, e l’impiego di tale
categoria nei riguardi di enti collettivi.
Negli ultimi anni, si registra l’esigenza di un ripensamento dell’intera tematica,
e da più parti si avverte la necessità di uno vero e proprio superamento del
tradizionale divieto di responsabilità penale degli enti collettivi. In questa
direzione meritano innanzitutto e licenze di esigenze di ordine politico-
criminale.
L’ illecito penale realizzato nel contesto di un’attività imprenditoriale che fa
capo a un ente spesso rappresenta l’espressione di scelte strategiche operate
dai vertici della persona giuridica, che permeano la politica d’impresa.
L’esperienza giudiziaria dimostra come quanto più complessa ed articolata sia
l’organizzazione interna dell’ente, tanto più arduo risulti il compito di
individuare il vero responsabile. La ripartizione dei compiti e la delega di
funzioni (dai vertici della struttura imprenditoriale ai dirigenti di livello inferiore)
fanno scivolare inesorabilmente verso il basso degli organigrammi aziendali il
rischio penale tradizionale, ossia quello che devono sopportare le singole
persone fisiche delegate.
Chi decide la politica di impresa può al tempo stesso esimersi dai rischi penali
che quella stessa politica comporta.
C'è chi sulla base di esigenze politico-criminali ha evidenziato ilcosto di tale
principio e ha proposto una spinta al superamento della regola per cui un ente
non può delinquere. Mentre le sanzioni penali checolpiscono le persone fisiche
si ripercuotono nei confronti anche di terziincolpevoli, appare più arduo
ricostruire una colpevolezza in capo alla persona giuridica che rispecchi il
disvalore soggettivo dell'illecito,in mancanza di dati psichici reali riconducibili
all'ente.
Ladifficoltà peraltro va circoscritta all'illecito penale doloso,mentre quanto ai
reati colposi la struttura normativa dei medesimi rendeeventuale la presenza e
la rilevanza del concreto atteggiamentopsicologico dell'autore. Non può essere
esclusa la possibilità dirielaborare la stessa nozione di colpevolezza o di
concepire una parallela categoria descrizione del reato il soggetto collettivo,
pur sempre nel
rispetto dei canoni costituzionali di riferimento.
Un ulteriore nodo da sciogliere è quello delle sanzioni applicabili alla persona
giuridica, ove se ne voglia ammettere la responsabilità penale.
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Una pena detentiva non avrebbe senso nei confronti di un ente, ma possono
trovare applicazione una serie di altre sanzioni, quali quella estremadello
scioglimento dell'ente, la pena pecuniaria, forme diinterdizione dall'esercizio di
determinate attività. In luogo dellapena è stato autorevolmente proposto il
ricorso a misure di sicurezza,quali confisca, sospensione dell'attività, revoca di
concessioni, comestrumenti da attuare sulla base di una valutazione di
pericolosità.
L'alternativa alla pena e alle misure di sicurezza è rappresentata dalla sanzione
amministrativa. Il panorama legislativo, di recente, ha registrato in materia
importanti innovazioni: in particolare il decretodel 2001 ha disciplinato la
"responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato". Un
impulso fondamentaleè venuto dalla necessità di adeguare la legislazione
interna ad impegniassunti a livello europeo, in materia ad esempio di lotta alla
corruzionein cui siano coinvolti funzionari comunitari o di Stati membri.
Meccanismo in forza del quale può sorgere la responsabilità da reato dell'ente:il
punto di partenza è che è un determinato tipo di reato venga commessoda una
persona fisica che riveste un determinato ruolo in senoall'ente.
La responsabilità dell'ente è una responsabilità connessa allacommissione
di reato da parte di un soggetto in carne ed ossa.
Taleconnessione deve essere duplice cioè oggettiva e soggettiva.
Dal punto divista oggettivo, si richiede che il reato, commesso dalla persona
fisica,sia stato realizzato nell'interesse o a vantaggio dell’ente,altrimenti l'ente
non risponde qualora le persone fisiche abbianoagito nell'interesse esclusivo
proprio o di terzi, diversidall'ente stesso.
Dal punto di vista soggettivo la persona fisicaautrice del reato deve essere
legata all'ente da un certo tipo di
rapporto.
A seconda del tipo di rapporto si distingue tra:
-soggetti inposizione apicale, ossia persone che rivestono funzioni di
rappresentanza,di amministrazione o di direzione dell'Ente o di una sua
unitàorganizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché persone
che esercitano la gestione e il controllo dell'ente stesso.
- soggetti sottoposti all'altrui direzione, ossia persone sottopostealla
direzione alla vigilanza di uno dei soggetti in posizione apicale.
Nella prima ipotesi vale il "principio di identificazione":l'ente si identifica
con il soggetto in posizione apicale, cioè se ilrappresentante agisce
commettendo un reato è come se il reato fossecommesso dall'ente.
Il nostro legislatore in questo caso ha introdotto un meccanismo diinversione
dell'onere della prova, per cui la regola è che l'enteè responsabile per il reato
commesso nel suo interesse o a suo vantaggio dalla persona fisica in posizione
apicale, ma è esente da responsabilitàse fornisce la prova che ricorrono una
serie di condizioni. Nella seconda ipotesi si delinea una vera e propria
fattispecie colposa, inparticolare di responsabilità dell'ente da reato in
posizionesubordinata, se la realizzazione del reato è stata resa

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possibiledall'inosservanza degli obblighi di direzione o di vigilanza che
fannocapo direttamente all'ente e l'ente adempia questi obblighi
adottando ed attuando efficacemente un modello, non solo di organizzazionee
di gestione, ma anche di controllo. Esempio: Tizio, legalerappresentante della
spa Alfa, e quindi soggetto in posizione apicale,corrompe un pubblico
funzionario affinché Alfa possa aggiudicarsi unimportante appalto. Ebbene Tizio
è responsabile del delitto di corruzionee al tempo stesso Alfa è responsabile
per l'illecito definitoamministrativo dipendente dal reato di corruzione. Qual è il
fattoproprio di Alfa che si vuole addebitare alla società?
In realtà si tratta del fatto commesso dalla persona fisica in posizioneapicale
che viene considerato, allo stesso tempo, fatto proprio ecolpevole, in quanto
realizzato con dolo, della persona fisica e fattoproprio e colpevole anche
dell'ente in base al duplice requisito cheil reato è commesso dalla persona
fisica nell'interesse della societàche si identifica in quella stessa persona fisica,
in quanto essa occupauna posizione apicale.
Si ipotizza invece che, in luogo di Tizio, sia Caio, dirigente di Alfa,soggetto in
posizione subordinata, a corrompere il pubblico ufficialeaffinché la società
posso aggiudicarsi l'appalto. Della corruzione èin questo caso responsabile
Caio. Dato che egli non occupa una posizione apicale, la fattispecie da
cuideriva la responsabilità della persona giuridica risulta più
complessa.Compongono infatti tale fattispecie: il reato commesso dal
dipendentenell'interesse della società, il rapporto che lega il dipendente
allasocietas, il fatto di "agevolazione colposa" propriodell'ente che avrebbe
dovuto correttamente adempiere a precisiobblighi di direzione e vigilanza.
È utile ricordare che la responsabilità dell'ente è autonoma rispetto alla
responsabilità penale della persona fisica. Pertanto l'ente èresponsabile a
prescindere dal fatto che l'autore del reato vengaidentificato. È inoltre
responsabile anche se l'autore del reato non èimputabile oppure anche se il
reato si estingue per una causa diversodall'amnistia, ad esempio morte del reo.
Va precisato che non tuttigli enti sono responsabili in base al decreto del 2001
e che solo alcunireati possono dar luogo a responsabilità dell'ente (modello
chiuso).
Tra i recenti aggiornamenti del catalogo dei reati si segnalano quello
checonfigura la responsabilità dell'ente in relazione a numerosi reatiambientali
e quello relativo ai delitti di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime,
commessi con violazione delle norme sulla sicurezzasul lavoro e la tutela della
salute.
Quando l'ente viene riconosciutoresponsabile allora deve essere sanzionato ai
sensi dell'art. 9 cheparla di sanzioni amministrative:
- sanzioni pecuniarie;
- sanzioniinterdittive quali interdizione dall'esercizio dell'attività,sospensione o
revoca di autorizzazioni e concessioni, esclusione daagevolazioni e
finanziamenti e revoca di quelli già concessi;
- confisca;
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- pubblicazione della sentenza.

L'accertamento della responsabilitàamministrativa dell'ente può aver luogo


secondo le forme le garanzie
atipiche del processo penale: indagini preliminari svolte dal PM, giudiziocon
conseguente sentenza di condannao esclusione della responsabilità è
demandato al giudice penale.

Il fattoche la responsabilità dell'ente consegue alla realizzazione di unreato, per


il quale continua a sussistere la responsabilità individualedella persona fisica
che lo ha commesso, e che l'accertamento dellastessa venga con i tipici
strumenti penalistici ha indotto a ritenere chela nuova normativa non sia
collocabile nella prospettiva di illecitopenale né in quella dell'illecito
amministrativo, poiché ha dato luogoalla nascita di un "tertium genus" che
coniuga i trattiessenziali del sistema penale di quello amministrativo.

Capitolo 3

La condotta

La condotta: nozioni introduttive

Con il termine condotta si intende una componente dell'elemento oggettivo o


materiale del reato: il reato consiste innanzitutto in un comportamento umano.
Nell'ambito della condotta, la distinzione fondamentale è tra condotte attive e
condotte omissive, ossia tra azione ed omissione. Talora si parla di azione in
senso ampio, comprendendo in tale concetto anche contegni puramente
omissivi (es: brocardo nullum crimen sine actione). Non esiste una sorta di
superconcetto comune di azione lato sensu intesa, in cui incasellare sia l'azione
in senso stretto che l'omissione. D'altra parte, anche il dolo e la colpa colorano
la stessa tipicità del fatto. Anche pensare ad un superconcetto di azione,
capace di incasellare indifferentemente le condotte dolose e le condotte
colpose, costituirebbe un errore sotto il profilo dogmatico. Per lungo tempo, la
dottrina penalistica ha ritenuto che un tale superconcetto di azione fosse
configurabile, ed anzi ha impostato l'intera dogmatica del reato su un siffatto
concetto superiore di azione. L'azione, in una simile prospettiva, era la pietra
angolare della teoria del reato. La dottrina aveva elaborato varie concezioni di
azione. In un primo tempo, la concezione più diffusa era quella causale,
secondo cui l'azione si sostanziava nella modificazione del mondo esterno
cagionata dalla volontà umana. Questa prospettiva presentava due difetti: da
un lato, non si adattava alla specificità dell'omissione, che, lungi dal produrre
una modificazione del mondo esterno, all'opposto produce la non modificazione
del mondo esterno; dall'altro, sistemando il dolo e la colpa al di fuori della
condotta tipica, non teneva conto del fatto che, all'opposto, anche il dolo e la

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colpa debbono partecipare a dare una fisionomia alla stessa tipicità. Una
concezione che ebbe grande fortuna in seguito fu quella (dello studioso Welzel)
dell'azione finalistica. L'azione sarebbe un'attività finalisticamente rivolta alla
realizzazione dell'evento tipico. La teoria finalistica ha avuto il merito di
evidenziare la dimensione di tipicità del dolo e della colpa; presenta, però, il
difetto di non potersi adattare, se non con molta difficoltà, ai peculiari schemi
dei reati colposi ed omissivi. Va segnalata la concezione sociale dell'azione,
secondo la quale la condotta sarebbe ogni comportamento socialmente
rilevante. Pur non presentando i difetti di quelle precedentemente considerate,
questa teoria non può mostrare grandi capacità selettive o descrittive. Si può
comunque ritenere che una qualsiasi condotta tipica (sia essa attiva od
omissiva, dolosa o colposa) deve possedere almeno alcuni caratteri minimi
fondamentali:

- la condotta deve essere umana, e cioè un animale non potrebbe mai essere
sanzionato ad opera del diritto penale;

- nessuno può essere punito per un mero atteggiamento interiore, o per uno
stato mentale che non sia estrinsecato in contegno esterno. Il comportamento
umano è soltanto quello che incide in qualche modo sul mondo esteriore.
Anche questa caratteristica essenziale della condotta è comune sia all'azione
che all'omissione, anche se, soprattutto rispetto ai reati omissivi propri,
possono esservi talora alcune tensioni con il suddetto principio;

- la condotta deve essere cosciente e volontaria (art. 42, comma 1, c.p.).

L'azione

L'azione (in senso stretto, ovvero in contrapposizione al concetto di omissione)


viene tradizionalmente definita e fatta consistere dalla dottrina come un
movimento del corpo del soggetto: sono azioni il movimento di un arto, uno
sguardo, il parlare, ecc. Talvolta l'azione penalmente rilevante consta di un
unico atto; talora, occorre invece una pluralità di atti corporei, fra loro
concatenati. Spesso si pone il problema di distinguere se ci si trovi dinnanzi ad
un'azione unitaria, ovvero ad una pluralità di azioni distinte. La soluzione non è
sempre agevole: come si vedrà trattando del concorso di norme e di reati, si
ritiene in genere di ravvisare l'unicità della condotta in presenza dei requisiti
congiunti del legame finalistico che deve avvincere singoli atti esecutivi, e della
contestualità dei medesimi, che debbono cioè susseguirsi senza apprezzabili
soluzioni di continuità temporale.

L'omissione

L'omissione è il non facere quod debetur, ossia il mancato compimento


dell'azione richiesta dalla norma. Il concetto giuridico-penale di omissione è
dunque un concetto normativo: solo con riferimento ad una norma che pone in

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capo ad un soggetto un obbligo di agire è possibile enucleare una condotta
omissiva.

Teoria del c.d. aliud agere: l'aspetto fisico e materiale dell'omissione andrebbe
colto nell'"azione diversa" che il soggetto effettivamente realizza, e che è
difforme rispetto a quella comandata. A questa teoria sono state mosse
obiezioni ritenute decisive. E' assai arduo individuare la pretesa azione diversa
da quella dovuta, giacchè nel periodo in cui il soggetto dovrebbe attivarsi per
ottemperare al comando legale, e non lo fa, ben può compiere un'infinità di
atti.

Esempio: se una mamma non allatta il proprio neonato, e questo muore, vi sarà
un'omissione penalmente rilevante, che dà luogo a responsabilità per omicidio.
In base a questa teoria, in un caso simile ciò che conta non sarebbe il mancato
allattamento realizzato dalla mamma, ma ad es. il fatto che nel tempo in cui
essa avrebbe dovuto allattare, invece aveva fatto la pasta per la pizza: ognuno
può capire che la pizza con la morte del bambino non ha nulla a che fare, se
non solo indirettamente ed accidentalmente.

Occorre piuttosto che il soggetto abbia effettivamente ed in concreto la


possibilità di compiere l'azione comandata. In caso di impossibilità di agire in
conformità al comando legale, il comportamento omissivo non può essere
ritenuto tipico, non integrandosi quindi il fatto di reato, nel suo profilo
oggettivo. La norma penale, nell'incriminare l'omissione, pone al contempo un
obbligo di agire. Tuttavia, qualora sia impossibile agire, detto obbligo cade
automaticamente; venuto meno l'obbligo, cade un presupposto dell'omissione
e, in definitiva la stessa condotta tipica omissiva.

Reati di azione, reati omissivi e reati a condotta mista

A seconda che la condotta consista in un’azione ovvero in una omissione, si


distingue tra reati di azione e reati omissivi. I reati omissivi, a loro volta,
possono essere di due tipi: reati omissivi propri o puri, e reati omissivi impropri
o impuri. Esistono altresì reati la cui condotta è mista, in parte di azione ed in
parte di omissione ( reati a condotta mista). Esempio: nell’insolvenza
fraudolenta si richiede che il soggetto, in una prima fase, contragga
un’obbligazione (con il proposito di non adempierla) dissimulando il proprio
stato di insolvenza, e che poi in effetti l’obbligazione non sia adempiuta. Il fatto
di contrarre un’obbligazione rappresenta un segmento attivo della condotta,
mentre il mancato adempimento è una omissione.

Reati omissivi impropri: l’obbligo di garanzia

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Con particolare riferimento ai reati omissivi impropri, va evidenziato che, nella
quasi totalità dei casi, la norma di parte speciale non descrive espressamente il
reato in forma omissiva. Esempio: si pensi all’omicidio (art. 575 c.p.): la
fattispecie è formulata in termini causali; il legislatore fa riferimento al
cagionare la morte, senza precisare attraverso quale tipo di condotta tale
risultato debba prodursi. Mentre è agevole riscontrare la tipicità di una
condotta attiva, che produce l’evento, più complesso è risolvere il problema
dell’eventuale conformità al tipo dell’omissione. A tal fine, l’omissione tipica
deve avere i caratteri dell’equivalenza rispetto alla condotta attiva. Il nostro
codice penale, all’art. 40 cpv., sia pur trattando apparentemente della causalità
dell’omissione, viceversa disciplina proprio il fenomeno dell’equivalenza tra
omissione ed azione, ai fini della conformità al tipo della condotta.

Art. 40 cpv : “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedirlo,


equivale a cagionarlo”.
Il codice richiede, al fine di questa equivalenza, il sussistere di un obbligo
giuridico di impedire l’evento.
La dottrina ha ritenuto che le fonti da cui può promanare l’obbligo giuridico di
impedire l’evento possano essere di tre tipi (c.d. trifoglio):
a) la legge;
b) il contratto;
c) l’attività pericolosa precedente.

Tre esempi: Tizia, mamma del lattante Caio, omette di allattare Caio,
producendone la morte: qui, è la stessa legge civile ad obbligare la madre ad
impedire che suo figlio muoia di fame. Tizio e Caia, genitori del bimbo
Sempronio, escono a cena e stipulano un contratto con la baby-sitter Mevia,
perché accudisca Sempronio durante la serata; Mevia si distrae e Sempronio
muore: qui è il contratto che attribuisce a Mevia l’obbligo di impedire l’evento.
Tizio, accanito fumatore, getta un cerino accidentalmente ancora acceso dietro
di sé, e dopo qualche minuto si accorge che sta prendendo fuoco il bosco;
omette peraltro di intervenire, direttamente o no, per spegnere le fiamme: qui
è il fare pericoloso precedente, anche se accidentale, che fa nascere in capo a
Tizio un obbligo di impedimento dell’evento. Le teorie che limitano a queste
ipotesi l’operatività dell’equivalenza fra azione ed omissione si dicono teorie
formali. Da qualche decennio a questa parte, si è superata da taluno la teoria
formale, accedendo a concezioni di tipo sostanziale, basate sulla c.d. dottrina
del garante.

Dottrina del garante: identifica l’equivalenza tra azione ed omissione nella


particolare posizione del soggetto omittente in relazione al bene giuridico da
tutelare. Questo soggetto sarebbe il garante del bene giuridico, in situazioni
rispetto alle quali il titolare del bene giuridico stesso non può, o non è in grado,
di intervenire da solo. Si pensi ancora al caso del lattante, il quale non è certo
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in grado di potersi alimentare da solo; la madre è colei che si trova nella
posizione migliore, per la vicinanza particolare che la lega al bene giuridico (la
vita del bambino), per tutelarlo, e ciò a prescindere da qualsiasi norma di legge
eventualmente riscontrabile sul punto. La teoria del garante individua in
sostanza soggetti che hanno obblighi di garanzia nei confronti della tutela del
bene giuridico. Il garante è tenuto all’impedimento dell’evento, e la sua
omissione deve essere ritenuta a tutti gli effetti equivalente ad un’azione
produttiva dell’evento stesso.

Sia la teoria formale che quella sostanziale menzionate hanno pregi e difetti. La
prima è maggiormente in linea con il principio di legalità, ma rischia talora di
non cogliere la particolare esigenza del caso concreto. La seconda è più a
rischio di violazione del principio di legalità, ma si presta a cogliere meglio le
esigenze sostanziali del caso concreto.

Reati a forma libera e reati a forma vincolata

Esistono reati a forma libera e reati a forma vincolata.

Reati a forma libera: (es. omicidio volontario) non vi è una precisazione legale
di particolari modalità di condotta: quest’ultima è descritta dalla norma in
modo tale che rilevi il comportamento consistente nel cagionare, con qualsiasi
mezzo, la morte di un uomo.

Reati a forma vincolata: la descrizione della condotta è più articolata, ad


indicare un certo percorso che conduce al risultato finale ( es. truffa).

Sia nei reati a forma libera, che in quelli a forma vincolata, è peraltro indubbio
che la condotta appare connotata da un suo autonomo disvalore. Nel reato,
infatti, non rileva solo il risultato finale (l’evento), ma anche il modo in cui il
bene è stato aggredito. Occorre rivolgere l’attenzione non solo alla lesione del
bene giuridico, ma anche alle modalità di lesione. ( Il reato è illecito di modalità
di lesione) Il disvalore della condotta e il disvalore dell’evento sono entrambi da
considerare nella valutazione del disvalore complessivo sotteso alla
realizzazione di un fatto di reato.

I presupposti della condotta. La situazione tipica nel reato omissivo

In molti reati, la condotta assume rilievo giuridico a prescindere da un più


ampio contesto in cui si inserisce: per esempio, nell’art. 588 c.p. si punisce
chiunque partecipa ad una rissa; nell’art. 582 si prevede il fatto di chi cagiona

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ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o
nella mente.
Si parla di presupposti della condotta ad indicare quegli elementi che debbono
preesistere o al più risultare concomitanti alla condotta, perchè questa assuma
il significato criminoso attribuitole dalla fattispecie incriminatrice. L’esatto
ambito di questa categoria dei presupposti della condotta è peraltro
controverso. Esempio: l’età minore di quattordici anni della vittima nel delitto di
compimento di atti sessuali con minorenne di cui all’art. 609- quater, comma
1, n.1; lo stato di gravidanza nella fattispecie di aborto.

Può essere difficile, talora, distinguere tra presupposti della condotta ed


oggetto materiale o soggetto passivo della condotta stessa intesi come la cosa
o la persona su cui ricade il comportamento tipico del soggetto attivo del reato.
Esempio: la condotta consiste nel compiere atti sessuali con il minore
infraquattordicenne; ma quest’ultimo, nella struttura della fattispecie, è
senz’altro il soggetto passivo del reato. Sembra possibile classificare il requisito
dell’età inferiore a quattordici anni vuoi come presupposto della condotta, vuoi
come caratteristica del soggetto passivo. Analoghe difficoltà si ripropongono
laddove si tratti di distinguere tra presupposti della condotta e peculiari
caratteristiche del soggetto attivo: si discute se siano da considerare
presupposti della condotta determinate qualifiche che il soggetto attivo deve
rivestire per essere legittimato alla realizzazione di determinati reati propri. In
primis è il caso delle qualifiche soggettive di pubblico ufficiale ed incaricato di
un pubblico servizio. Pare possibile operare una distinzione, tra elementi
costitutivi del reato quali il soggetto attivo, il soggetto passivo, l’oggetto
materiale da un lato; e i presupposti della condotta o dell’intero fatto, dall’altro.
Analizzare separatamente i presupposti così individuati (es. La qualifica di
pubblico ufficiale del soggetto attivo, l’età o lo stato di gravidanza del soggetto
passivo, il possesso dell’oggetto materiale), o studiarli all’interno della teoria
del soggetto attivo, di quello passivo, o dell’oggetto materiale del reato, come
predicati dei medesimi, è in sostanza rimesso ai gusti personali del singolo
interprete; quel che rileva concretamente è che questi presupposti così
circoscritti non fanno parte della condotta intesa come comportamento umano,
e che quindi non possono, a rigore, formare oggetto di volizione da parte
soggetto agente, ma soltanto di rappresentazione. Rientra nella categoria dei
presupposti della condotta anche quella che, nell’ambito delle fattispecie
omissive proprie, si suole denominare la situazione di fatto, ovvero la
situazione tipica, e che si definisce appunto come l’insieme dei presupposti dai
quali scaturisce l’obbligo di attivarsi. Si tratta di un elemento essenziale di ogni
modello omissivo puro, sia esso descritto espressamente dalla norma penale,
sia esso ricavabile implicitamente dalla norma medesima. Esempio: nel delitto
di omissione di soccorso, la situazione tipica (intesa come il contesto fattuale in
cui l’azione del soggetto obbligato si rende necessaria) è data dallo stato di
pericolo in cui versa la persona bisognosa di aiuto.

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Situazione tipica: stato di fatto che denota un pericolo di lesione di un certo
bene giuridico. E’ in questo quadro che si inserisce il comando penale: il
soggetto destinatario del comando deve attivarsi, nel senso indicato dalla
norma. Al pari degli altri presupposti della condotta, può formare oggetto di
rappresentazione da parte del soggetto attivo del reato ( che è qui omittente).

Oggetto materiale dell'azione: la cosa o la persona, sulla quale ricade l'attività


fisica del reo. Qualcuno preferisce parlare, quando la condotta del reo si
esplichi nei riguardi di una persona, di soggetto passivo della condotta.
Quest'ultimo deve essere tenuto logicamente distinto dal soggetto passivo del
reato anche se le due entità possono coincidere. Esempio: l'art. 642, comma 2,
c.p., prevede il delitto di mutilazione fraudolenta della propria persona,
consistente nel fatto di chi, al fine di conseguire un indennizzo di una
assicurazione, cagiona a sè stesso una lesione personale, o aggrava le
conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio. La condotta
attiva ricade su una persona che non ha nulla a che vedere con il soggetto
passivo del reato, inteso come vittima, cioè come titolare del bene giuridico
tutelato dalla norma incriminatrice, da individuare qui nell'assicuratore. In altri
casi, invece, soggetto passivo della condotta e soggetto passivo del reato
coincidono. Esempio: ipotesi di lesioni personali. Il soggetto passivo-vittima del
reato, quale titolare del bene che costituisce l'oggetto giuridico del reato
stesso, a sua volta non coincide sempre con il danneggiato, cioè con colui che,
in rapporto all'illecito penale realizzato, può far valere una pretesa risarcitoria
per averne riportato un danno. La vittima di lesioni personali è non solo il
soggetto passivo sia del reato che della condotta, ma rappresenta anche il
danneggiato (e può costituirsi parte civile nel processo penale per ottenere il
risarcimento dei danni patiti).

La suità (suitas), ovvero la coscienza e volontà della condotta

L'art. 42, comma 1, c.p. recita: " Nessuno può essere punito per un'azione od
omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con
coscienza e volontà". Noi riteniamo che la coscienza e volontà dell'azione
debba riferirsi già al concetto di azione (condotta), e dunque sistematicamente
afferire all'elemento oggettivo della tipicità. Questo articolo detterebbe i
requisiti minimi del concetto di azione, sotto il profilo dell'appartenenza
dell'azione stessa al soggetto che l'ha commessa. La condotta deve essere una
condotta umana. Ma oltre che provenire dall'uomo essa dev'essere attribuibile
ad un essere umano, in quanto sua. Ecco perchè si parla di suitas della
condotta. Una condotta non cosciente e volontaria nel senso dell'art. 42,
comma 1, c.p., non sarebbe da considerare propria dell'agente. La suitas deve
essere già considerata requisito della condotta. Anche l'elemento soggettivo
del reato si occupa del problema del rapporto di appartenenza della condotta
dell'autore. Nell'ambito del dolo, il soggetto deve volere la condotta, sicchè il
rapporto subiettivo fra autore e azione deve essere di carattere psicologico.

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Diversamente avviene nell'ambito della colpa che non richiede
necessariamente nel soggetto la volontà di realizzare la condotta stessa. Il
collocare la suitas già a livello di elemento oggettivo del reato può avere
ripercussioni sulla stessa formula di proscioglimento: essa, in caso di mancanza
di suitas, dovrebbe essere "perchè il fatto non sussiste". Viceversa, ove si
collocasse la suitas nell'ambito dell'elemento soggettivo del reato, la formula di
proscioglimento sarebbe " perchè il fatto non costituisce reato". Ciò con ogni
eventuale ripercussione sotto il profilo civilistico. Una volta ricondotta la suitas
a concetto unitario, e sistemata nell'alveo della condotta, resta il problema del
contenuto della suitas, e dunque della sua definizione. Per suitas, si deve
intendere dominabilità, impedibilità della condotta da parte del soggetto. Ci si
dovrà attenere a criteri particolarmente rigorosi nell'accertare la non
dominabilità o non impedibilità, dal momento che, come si è visto, in questo
ambito la mancanza di coscienza e volontà determina l'insussistenza di una
condotta tipica. Si possono risolvere anche ipotesi di mancanza di coscienza
del soggetto al momento della condotta, dovuta a vari fattori: sonnambulismo,
sonno, delirio, coma, malori improvvisi, ecc. E per lo stesso motivo si deve
riconoscere, tra le cause di esclusione della suitas, il costringimento fisico (art.
46 c.p.). Si consideri l'esempio di Tizio che prende il braccio di Caio, che aveva
in mano un coltello, e con forza bruta lo dirige verso il cuore di Sempronio,
uccidendolo. In questo caso Caio non agit, sed agitur ( non agisce ma è agito).
Lo stesso principio porta ad escludere la suitas ove ricorra la forza maggiore. Si
pensi all'ipotesi di Tizio, casellante, che deve abbassare le sbarre al passaggio
del treno, ma che, a causa di un terremoto, e del parziale crollo dell'edificio,
giace a terra con una gamba rotta, immobilizzato. Se il treno investe
un'automobile e qualcuno rimane ucciso, Tizio non solo non sarà nè in dolo nè
in colpa in relazione all'omicidio, ma non avrà commesso neppure un'omissione
cosciente e volontaria. L'ipotesi è del resto analoga a quella del costringimento
fisico: qui non è un terzo ma una forza esterna della natura che elimina la
suitas. Ecco perchè, a differenza dell'art. 46, comma 2, c.p., l'art. 45 non
prevede la punibilità di alcuno.

Capitolo 4

L'evento

Evento in senso naturalistico ed evento in senso giuridico.

Secondo una concezione, l'evento del reato è un evento naturalistico, ossia


l'effetto o risultato naturale della condotta umana rilevanteper il diritto.
L'evento è sempre un quid che incide sulla realtàfenomenica e che risulta
legato da un nesso di causalità materiale allacondotta umana tipica.

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Sono considerati "eventi in sensonaturalistico" effetti di tipo fisico (es. la
distruzione di unoggetto nella fattispecie di danneggiamento art 635) o
fisiologico (es. lamorte di un uomo nell'omicidio), trattandosi di visibili
modificazionidel mondo esteriore. Il novero degli eventi naturalistici può
allargarsianche agli effetti meramente psicologici della condotta umana. Se
siaccede alla concezione naturalistica dell'evento occorre distingueretra reati
di evento, che contemplano tra i loro elementi costitutivi unevento
naturalistico, e reati di mera condottanei quali un eventonaturalistico
manca. I confini tra reati di evento e reati di meracondotta non sono peraltro
pacifici basti dire che una parte delladottrina ravvisa la sussistenza di reati di
mera condotta basati su di una condotta attiva (es. evasione), mentre secondo
una diversa opinione gli unici reati senza evento (inteso come effetto tipico
della condotta tipica)sarebbero quelli di pura omissione. Secondo la prevalente
opinione,inoltre, l' evento naturalistico può essere rappresentato non
soltantoda un risultato esteriore lesivo dell'interesse protetto
(cosiddettoevento di danno) ma anche da una messa in pericolo del bene
giuridico(cosiddetto evento di pericolo): ciò limitatamente ai reati di
pericoloconcreto, nei quali il giudice deve stabilire se una situazione dipericolo
si sia o meno verificata, in conseguenza della condotta delsoggetto attivo. Alla
concezione naturalistica si contrappone quellagiuridica dell'evento, secondo
quest'ultima l'evento andrebbeidentificato nell'offesa (lesione oppure
esposizione pericolo)dell'interesse protetto dal diritto.
L'evento in senso giuridico, per i fautori della relativa concezione, è sempre
un elemento essenzialedel reato, sicché in quest'ottica non si potrebbe operare
unadistinzione tra reati con o senza evento: l'evento, inteso come offesadel
bene giuridico tutelato, non potrebbe mai mancare perché non potrebbeesserci
in astratto un reato inoffensivo. È vero che esistono reati, la
cui fattispecie astratta contempla unicamente condotte umane che
possonoapparire esangui sotto il profilo del disvalore: in questi casi
possonoesservi tutti gli estremi oggettivi di un fatto previsto come reato
dallegislatore senza che però quel fatto si connoti in terminisufficientemente
offensivi.
In termini generali si può osservare che la disputa sull'evento,naturalistico e
giuridico, sia frutto di un fraintendimento, poiché, a benvedere, entrambe le
concezioni possono coesistere una volta che sichiarisce che l'una e l'altra
riguardano tematiche diverse traloro.
Chi utilizza la concezione naturalistica dell'evento si occupasostanzialmente
della ricognizione degli elementi essenziali nellafattispecie tipica; chi utilizza la
concezione giuridica dell'eventosi occupa in realtà della prospettiva della
compatibilità dellafattispecie con il principio di offensività.
È chiaro che le dueprospettive possono avere punti di tangenza tra loro, ciò
non toglie che idue piani possono e debbono tenersi separati.
Di evento si parla anche inriferimento ad altri elementi il cui effetto potenziale
è quello diaggravare la responsabilità penale in rapporto a reati già perfetti:

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cosiddetto evento aggravante o aggravatore, nei delitti
aggravatidall'evento.
Evento può anche essere l'elemento di cui consta unacondizione obiettiva di
punibilità, ossia all'evento da cui dipende ilverificarsi della condizione.

Evento e reati omissivi. Reati omissivi propri ed impropri.

Sulla nozione di evento poggia la distinzione cardine tra reati omissivipropri o


puri e reati omissivi impropri o impuri.
I reati omissiviimpropri (detti anche commissivi mediante omissione)
sono caratterizzatidalla presenza nella loro struttura di un evento in senso
naturalistico:si tratta appunto dell'evento non impedito dal soggetto obbligato.
Es:se la mamma non allatta il suo bambino e questo muore, vi sarà un
delittoomissivo improprio che si sostanzia in un omicidio per omissione poiché
lamamma non ha impedito la morte del piccolo.
In altri termini in queste fattispecie omissive improprie, vi è un soggetto
garante del benegiuridico tutelato, nei cui confronti si dirige il comando penale
ditenere una certa condotta attiva per scongiurare l'evento. In talecontesto il
nucleo essenziale della violazione penalmente rilevanteconsiste nell'omesso
impedimento di quell'evento da parte delsoggetto obbligato, il quale non fa ciò
che invece dovrebbe fare.
I reatiomissivi propri presentano una struttura materiale priva di un evento:
lacondotta consiste in una pura omissione senza produzione di un
risultatoulteriore. In presenza di una certa situazione tipica, descritta
dallanorma penale, scatta nei confronti del soggetto obbligato un comando.
Esempio: devi presentare la dichiarazione dei redditi oppure devi
compierel'atto del tuo ufficio.
Quel comando impone al soggetto di attivarsi e di compiere una data
azioneentro un termine espresso o comunque da ricavare in via interpretativa,
masempre essenziale. Il reato omissivo proprio si realizza con il
mancatocompimento dell'azione comandata entro il termine.
Parte delladottrina ritiene che il reato omissivo proprio sia contraddistinto da
unnon-evento, ossia dalla mancata produzione di un risultato utile.
Èconsiderando questo non-evento che si riesce a recuperare la dimensione di
offensività delle fattispecie omissive pure, la cui carica lesiva per ilbene
giuridico tutelato si incentra sull'osservazione che il soggettoobbligato nulla ha
fatto per intervenire in positivo nel contesto di unasituazione di fatto pericolosa
per l'interesse ritenuto meritevole diprotezione.
Qualche autore adotta un differente criterio distintivo tra reati omissivipropri e
impropri basato sulla differente tecnica di tipizzazione legaledelle relative
fattispecie. In questa prospettiva il reato omissivoimproprio sarebbe
contraddistinto dalla carenza di una previsioneespressa, scaturendo sempre
dalla combinazione tra la clausola generaledell'art. 40 ("non impedire un

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evento che si ha l'obbligogiuridico di impedire, equivale a cagionarlo") con la
normaincriminatrice che prevede la corrispondente fattispecie di azione.
Unesempio con riguardo al mancato, omesso, impedimento di strepiti
dianimali: secondo il criterio distintivo prevalente, si tratta di reatoomissivo
improprio stante la presenza nella struttura della fattispecie diun evento non
impedito; secondo invece la diversa opinione, appenariferita, sarebbe
preferibile considerare questo reato una fattispecieomissiva propria, in quanto
frutto di una compiuta e autosufficienteprevisione legislativa.

Capitolo 5

Il nesso causale

Il nesso di causalità. la teoria della condicio sine qua non.


Perché un evento possa essere ricondotto alla responsabilità di un
individuo occorre che dal punto di vista materiale tra l’evento stesso
e la condotta umana del soggetto attivo sussista il c.d. nesso causale.
La teoria della condicio sine qua non: la condotta deve essere un
antecedente indispensabile, condizione necessaria per la realizzazione
dell’evento.
Art. 40 comma 1 cp: “nessuno può essere punito per un fatto preveduto
dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui
dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o
omissione”.
Per stabilire se una determinata azione sia nesso causale di un evento si ricorre
alla c.d. eliminazione mentale: occorre cioè eliminare mentalmente l’azione

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che in effetti si è verificata nella realtà e chiedersi se nella ipotesi in cui questa
non vi fosse stata, l’evento si sarebbe prodotto ugualmente oppure no.

I limiti della teoria condizionalistica


a) la causalità addizionale
Vi sono situazioni peculiari in cui vi sono buone ragioni sia per dire che un
certo evento è stato causato da una certa condotta sia per affermare
che si sarebbe verificato ugualmente, senza quella condotta.
Si pensi alla contestuale presenza di due condotte, tenute da due distinti
soggetti uno all’insaputa dell’altro, ognuna delle quali sia da sola sufficiente a
produrre l’evento lesivo, che puntualmente si verifica.
Se la causalità è addizionale hanno efficacia causale quelle condizioni
dell’evento che, considerate nel loro insieme (cumulativamente) ne
rappresentano la condicio sine qua non e che configurerebbero in ogni caso
una condizione necessaria se considerate alternativamente (l’una
indipendentemente dall’altra).
Soluzione analoga deve valere nei casi in cui le due cause addizionali si
susseguono nel tempo.
…e la causalità alternativa ipotetica
Si postula che l’evento si sarebbe comunque verificato in conseguenza
di una causa ulteriore. Si applica il ragionamento condizionalistico: si guarda
l’evento per come verificatosi hic et nunc, senza ulteriori considerazioni di
altri eventi occorsi; viene comunque considerato come un evento lesivo del
bene giuridico.

b) l’insufficiente selettività della teoria della condicio. i correttivi della


causalità adeguata e della causalità umana.
Limite della teoria della condicio: la sussistenza del nesso di causalità
risulterebbe ravvisabile con eccessiva ampiezza. Infatti non si richiede che la
condotta umana sia unica causa dell’evento, ben potendo anzi normalmente
rappresentare una delle molteplici “concause” che, insieme, hanno contribuito
a cagionare l’evento. Si pone il problema di delimitare l’ambito delle condizioni
effettivamente rilevanti. È da rilevare una carente disciplina legale del rapporto
di causalità dettata dal nostro codice penale:
Art. 41 comma 1 cp “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o
sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione o omissione del
colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra azione od omissione
dell’evento”.
La Teoria della causalità adeguata afferma che non basta che l’azione
sia condizione necessaria in rapporto all’evento: occorre infatti che
l’azione possa anche dirsi “adeguata”, sia in generale idonea a
determinare gli effetti. Non si possono ricollegare casualmente eventi che,
al momento dell’azione, si presentavano come straordinari o atipici.

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La Teoria della causalità umana afferma che non c’è nesso causale in
rapporto ad eventi che sfuggono al dominio dell’uomo: manca cioè il rapporto
di causalità quando vi sono probabilità minime o insignificanti di verificarsi.
Le “cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento”
Art. 41 comma 2 cp: “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di
causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare
l’evento..”.

Il caso fortuito e la forza maggiore


Art. 45 cp “non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o
per forza maggiore”: si comprendono non solo fatti sopravvenuti ma anche
concomitanti o preesistenti. Si ritiene comunque che il caso fortuito trascenda
il rapporto causale, in quanto assenza di tipicità del fatto.
La sussunzione sotto leggi scientifiche
Nella determinazione del nesso causale, il giudice deve fare riferimento a
regole di esperienza dotate di una validità scientifica.
Distinguiamo tra leggi universali e leggi statistiche:
▲ leggi universali, si intendono quelle che affermano che la verificazione di
X è invariabilmente seguita dalla verificazione di Y, sicché è senz’altro
possibile concludere che X è causa di Y.
▲ leggi statistiche, riscontrano la consequenzialità di Y rispetto ad X in una
certa percentuale di casi.
In diritto penale una spiegazione causale fondata su leggi statistiche è
accettata purché contraddistinta da alto livello di probabilità razionale.
L’equivalente normativo della causalità nella prospettiva omissiva
Art. 40 “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo”.
Nei soli reati omissivi impropri si deve riscontrare la c.d. causalità omissiva;
ci deve essere un nesso causale tra condotta omissiva ed evento non impedito.
Quando la condotta è attiva ci si chiede, attraverso un procedimento logico di
eliminazione mentale, se l’evento si sarebbe verificato ugualmente se non ci
fosse stata l’azione.

In caso di condotta omissiva si procede ad un’aggiunta mentale.


Quale livello probabilistico è richiesto dal nostro ordinamento per affermare la
sussistenza della causalità?
Secondo le Sezioni Unite non è sufficiente un mero coefficiente di probabilità.
Occorre giungere alla certezza processuale che la condotta de qua sia stata
condizione necessaria dell’evento stesso, in base ad un criterio di “alto o
elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”. Qualora
dovesse residuare un ragionevole dubbio sul punto, l’esito del processo non
potrebbe essere che assolutorio.

L’imputazione oggettiva dell’evento

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Presuppone che il soggetto agente abbia cagionato con la propria
condotta l’evento (in base all’ormai noto meccanismo della condicio
sine qua non) e propone una serie di criteri di delimitazione della
rilevanza oggettiva del nesso causale.
La ratio di questa dottrina è evitare l’imputazione di eventi che siano il frutto
di seriazioni causali affatto anomale ovvero che si siano verificati in dipendenza
di fattori legati al caso.
aumento del rischio perché vi sia la possibilità di imputare oggettivamente
l’evento ad un certo autore, occorre il requisito del c.d. aumento del rischio,
ovvero la creazione di un pericolo disapprovato dall’ordinamento.
concretizzazione del rischio esigenza di estromettere dall’imputazione gli
eventi causali e segnatamente gli eventi la cui verificazione non rappresenta la
materializzazione di quello specifico rischio creato dalla condotta dell’agente.
Osservazioni conclusive
La responsabilità penale non deve essere legata al caso, ovvero il sistema
penale deve essere strutturato in maniera tale da ridurre al minimo possibile gli
spazi entro i quali la realizzazione degli estremi di un reato possa dipendere da
fattori casuali. Necessità di depurare il rapporto di causalità dalla
casualità.

Sezione II

L’antigiuridicità

Capitolo 1
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Premessa

Le cause di giustificazione o giustificanti o scriminanti o esimenti sono


situazioni che escludono l’antigiuridicità del fatto tipico.
Antigiuridicità: consiste nella contrarietà del fatto tipico all’ordinamento
giuridico. Le scriminanti, se presenti, rendono il fatto conforme al diritto.
Esempio: se Tizio uccide Caio in stato di legittima difesa, Tizio avrà commesso
un fatto tipico, ma non un reato, dal momento che mancherà un elemento
essenziale del reato: l’antigiuridicità. Ciò, nell’ambito della tripartizione. Nel
caso si accogliesse la bipartizione, in un simile caso mancherebbe un elemento
negativo del fatto e anche in un tale inquadramento dogmatico non si avrebbe
un reato. Le cause di giustificazione si distinguono dalle scusanti, o cause di
esclusione della colpevolezza. Quanto agli effetti da esse prodotte, il codice
si limita a dire che in tali ipotesi non è punibile chi ha commesso il fatto. Qui
non viene solamente meno la punibilità; è un elemento del reato che non si
verifica: dunque, viene meno la stessa esistenza del reato. Le giustificanti si
distinguono anche dalle mere cause di esclusione della punibilit à, che sono
situazioni nell’ambito delle quali il legislatore esclude non la stessa
configurabilità del reato, ma esclusivamente la punibilità dello stesso. Quanto
alla disciplina, le cause di giustificazione rilevano anche se sono
oggettivamente presenti, ma non conosciute dal soggetto.
Esempio: Tizio incontra Caio; non sa che questi ha una pistola nascosta nella
tasca e che sta per sparargli; e, pur non sapendo ciò, spara a Caio: nel nostro
sistema, in un simile caso, a Tizio (ignaro di agire in stato di legittima difesa)
sarà comunque applicabile la tale scriminante.
Si può verificare l’ipotesi inversa: Tizio incontra Caio che gli punta una pistola;
in realtà, si trattava di una pistola giocattolo, e Caio voleva solo fare uno
scherzo a Tizio; quest’ultimo però pensa che Caio faccia sul serio e al fine di
difendersi gli spara. Si può parlare, qui, di scriminante putativa, che esclude la
punibilità al pari della scriminante realmente sussistente.
Art. 55: si occupa della figura dell’eccesso colposo. “Quando, nel commettere
alcuni dei fatti preveduti dagli art. 51, 52,53 e 54, si eccedono colposamente i
limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla
necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Esempio: Tizio viene aggredito da Caio con un bastone, e reagisce sparandogli
un colpo di pistola. Ponendo il caso che Caio non avesse comunque in animo di
uccidere Tizio, vi è sproporzione fra la difesa e l’offesa ingiusta. La reazione
spropositata di Tizio non è voluta: essa è dovuta a colpa, o perchè Tizio ha
erroneamente valutato le intenzioni di Caio; o perchè Tizio ha ecceduto per un
errore nell’utilizzo dei mezzi di esecuzione del reato. Il legislatore ha, dunque,
ritenuto applicabile la fattispecie colposa, sempre che essa sia prevista dalla
legge penale. Un ulteriore punto, assai controverso in dottrina. Esiste una ratio

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comune che sottende a tutte le cause di giustificazione? Si è parlato del criterio
dell’interesse prevalente, o dell’interesse mancante. Parte della dottrina ha
espresso seri dubbi sulla possibilità di trovare questo fondamento comune a
tutte le scriminanti. Va ribadito che tutte creano il medesimo effetto, sotto il
profilo dogmatico: eliminano l’antigiuridicità. Ciò che le accomuna è il fatto che
chi agisce in forza di una scriminante non agisce contra ius, ma
conformemente al diritto: questo significa che il diritto ritiene giusto, in quanto
conforme alle aspettative dell’ordinamento, il comportamento del soggetto.
Una parte minoritaria della dottrina ritiene che vi siano ipotesi in cui le cause di
giustificazione eliminano la sola illiceità penale, e non rendono del tutto lecito il
fatto rispetto alle altre branche del diritto. Un accenno va riservato alla
tematica delle c.d. cause di giustificazione non codificate. Si tratta di ipotesi in
relazione alle quali le cause di giustificazione espressamente previste dal
codice penale non parrebbero applicabili. Si pensi all’attività terapeutica del
medico, alla violenza realizzata in contesti sportivi (es. Boxe). Taluni autori
ritengono di estendere analogicamente l’applicabilità di una o più cause di
giustificazione, al fine di escludere la punibilità del fatto. Ecco perchè si parla di
cause di giustificazione non codificate. L’analogia nel diritto penale non è
configurabile neppure se in bonam partem, sicchè non sarebbe possibile
ricavare analogicamente dagli artt. 50 ss c.p. alcuna ulteriore causa di
giustificazione non codificata. Ipotesi del genere sarebbero riconducibili già a
scriminanti codificate, senza bisogno di ricorrere a scriminanti nuove, non
codificate. Si tratterebbe non di estensione analogica di tali scriminanti
codificate, ma di interpretazione estensiva di esse.

Capitolo 2

La legittima difesa

Il fondamento
Art. 52 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato
costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il
pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata
all’offesa”. Una delle scriminanti più classiche, denominata un tempo
moderamen inculpatae tutelae ( limite della difesa incolpevole) e descritta
dalla massima latina vim vi repellere licet ( è lecito respingere la forza con la
forza).
Quale il fondamento della scriminante in parola? In questo caso si ha
un’aggressione da parte di un soggetto nei confronti di un altro. L’ordinamento
tratta con maggiore favore l’interesse dell’aggredito, rispetto all’interesse
dell’aggressore. La ratio della legittima difesa è da ravvisarsi nell’interesse
prevalente. Col passare dei secoli lo Stato ha incrementato le sue capacità di
protezione dei cittadini. Forze di polizia organizzate, numeri telefonici quali il

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112 e il 113. Nonostante gli sforzi per assicurare sempre più al cittadino il
preziosissimo e fondamentale diritto alla sicurezza personale, vi sono istanze
nelle quali il cittadino è costretto a difendersi da solo contro chi aggredisce un
suo diritto. Ecco il motivo della sopravvenienza della legittima difesa.
I requisiti
Consideriamo i vari requisiti della esimente:

L’offesa
Offesa:
1) deve derivare da una condotta umana, o comunque riconducibile ad una
persona. Anche contro un animale si può agire in stato di legittima difesa, ma
solo se la bestia è vigilata o custodita da qualcuno. Autore dell’aggressione può
essere anche un pazzo non imputabile o una persona non punibile perchè
immune.
Offesa ingiusta: si deve intendere offesa antigiuridica, non giustificata da
alcuna scriminante.
2. Deve essere diretta ad un diritto proprio od altrui.
3. Il pericolo per l’interesse aggredito deve essere attuale. Il codice Rocco
ha migliorato la dizione del codice del 1889, che parlava di pericolo imminente,
generando qualche confusione. Se la legge non richiedesse l’attualità del
pericolo, ci si potrebbe anche difendere da aggressori solo futuri o potenziali: il
che sarebbe inopportuno. Quando finisce l’attualità del pericolo? Esempio: il
ladro Caio penetra nel fondo di Tizio e gli ruba due galline; Tizio esce di casa,
intima a Caio di mollare la refurtiva, e Caio ubbidisce e scappa; a questo punto,
Tizio non potrebbe più agire in stato di legittima difesa, per la mancanza
dell’attualità del pericolo. Nell’ipotesi fatta il bene giuridico, a seguito
dell’abbandono della refurtiva da parte di Caio, non sarebbe più soggetto a
minaccia.
4. Si deve trattare di un pericolo e non di un danno già realizzato. Se i
cittadini potessero reagire a danno avvenuto, la loro sarebbe vendetta o
ritorsione e non legittima difesa.
5. L’offesa deve essere ingiusta. Non sarebbe ingiusta, ad esempio, l’offesa
del poliziotto Tizio che cerca di arrestare il malvivente Caio: qui la difesa di Caio
non sarebbe certo legittima, per mancanza dell’ingiustizia dell’offesa.
6. Si pone poi il problema della legittima difesa del provocatore. Esempio:
Tizio insulta brutalmente Caio; quest’ultimo reagisce cercando di pugnalare
Tizio; Tizio estrae la pistola e uccide Caio. La reazione di Caio è spropositata ed
imprevedibile rispetto alla provocazione di Tizio. Ecco che sussiste l’ingiustizia
dell’offesa, che è proprio dovuta alla sproporzione fra insulto e tentata
pugnalata.

La difesa
Reazione difensiva:

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- deve essere necessaria per salvare il diritto minacciato proprio o altrui. Chi
si difende deve usare la reazione meno lesiva per l’aggressore fra tutte quelle
idonee a scongiurare il pericolo.
- problema della fuga: se l’aggredito poteva fuggire e non è fuggito, reagendo
invece contro l’aggressore, si può dire che vi sia legittima difesa? La difesa non
era necessaria. Si dice che escluderebbe la legittimità della difesa il c.d.
Commodus discessus (fuga comoda). Esempio: il centometrista olimpionico
Tizio, aggredito con un pugnale dal paralitico Caio, non fugge e uccide Caio con
un colpo di mazza ferrata, la difesa non sarebbe necessaria, perchè Tizio
potrebbe fuggire comodamente. Se la fuga non espone l’aggredito a pericoli o
difficoltà di alcuna entità, egli sarà obbligato a fuggire, e non potrà accampare
la legittima difesa in caso di reazione.
Fuga ignominosa: se la fuga avesse leso l’onore o la reputazione dell’aggredito,
egli avrebbe ben potuto difendersi, e l’ordinamento non avrebbe mai potuto
imporgli una tale scappatoia.
- la legittima difesa entra in gioco quando lo Stato non è capace di intervenire
a protezione della sicurezza del cittadino. Ciò comporta due cose: primo, che
quando un cittadino è aggredito e può agevolmente ricorrere alle forze
dell’ordine lo deve fare, anche se ciò lo costringe ad es. ad una breve fuga;
secondo, l’interesse dell’aggredito deve essere valutato come preminente
rispetto a quello dell’aggressore e salvaguardato il più possibile.
- problema della proporzione fra difesa ed offesa. Sino a qualche tempo fa
la giurisprudenza si affidava al criterio dei mezzi. In base a tale criterio, si
doveva porre attenzione ai mezzi a disposizione dell’aggredito. Parte della più
recente dottrina pare critica nei confronti di una simile soluzione esegetica,
evidenziando che si dovrebbe guardare solo ad un criterio di proporzione fra
beni giuridici. Si può e si deve far ricorso alla comparazione fra beni giuridici in
gioco, ma anche i mezzi a disposizione possono avere un rilievo nel valutare la
complessiva vicenda del rapporto aggressore-difensore.
- proporzione fra beni e diritti: esempio--> la ragazza Tizia sta per essere
stuprata da Caio; se Tizia uccide Caio, non la si può condannare per omicidio,
asserendo che non vi era proporzione fra i beni (la libertà sessuale da un lato;
la vita dall’altro). Si deve aver riguardo al fatto che, in situazioni di legittima
difesa, la vittima è in sostanza abbandonata a sè stessa, nè si può ritenere che
in tali frangenti essa abbia “la bilancia in mano”.
Legittima difesa putativa: si verifica quando il difensore crede erroneamente,
per un errore sulla situazione di fatto, di trovarsi nella necessità di difendersi da
un pericolo attuale di una offesa, in realtà insussistente.
Offendicula: quei meccanismi o mezzi di difesa apprestati a protezione di una
proprietà. Es. Filo spinato sulle recinzioni; cane da guardia addestrato. Il criterio
per valutare questi ostacoli alle incursioni ladresche non dovrebbe essere tanto
legato alla rigida proporzione fra beni in gioco, quanto alla non insidiosità ed
alla non visibilità degli offendicula.

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La legittima difesa domiciliare (c.d. allargata)
A seguito dei menzionati conati di riforma, con la l. 13 febbraio 2006, n. 59,
sono stati aggiunti due commi all’art. 52 c.p. Il secondo ed il terzo comma
dell’art. oggi dispongono: “Nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo
comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente
articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa
un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a)
la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è
desistenza e vi è pericolo di aggressione. La disposizione di cui al secondo
comma si applica anche al caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni
altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o
imprenditoriale”. Quando si verifica una violazione di domicilio, si ritiene più
comprensibile che la vittima, aggredita in casa o nel proprio luogo di lavoro,
possa reagire con maggiore veemenza del solito al pericolo di lesione di un
diritto proprio o altrui.
Problema interpretativo più grande la legittima difesa domiciliare o allargata di
cui al comma 2 dell’art. 52 c.p. devia grandemente dagli schemi validi per la
legittima difesa normale, oppure tra la legittima difesa allargata e quella
tradizionale vi è, in fondo, poca differenza? Noi propendiamo per una lettura
moderata della nuova disposizione. Va detto che il comma 2 non deroga a tutti
i requisiti di cui al comma 1 dell’art. 52, ma solo a quello della proporzione, che
viene presunta iuris et de iure. Ciò significa che tutti gli altri requisiti debbono
sussistere: tra questi in particolare la necessità. Fra le varie reazioni difensive,
il difensore dovrà attuare quella meno lesiva dei diritti dell’offensore. A fronte
di una scriminante che rinuncia al requisito della proporzione, l’elemento della
necessità è da solo in grado di costringere chi fa uso legittimo delle armi a
limitarsi a produrre il danno minore nei confronti del soggetto nei cui confronti
l’uso delle armi è ammesso. In cosa si sostanzia la differenza fra le ipotesi di
legittima difesa domiciliare di cui al comma 2, rispetto a quella tradizionale di
cui al comma 1? Vi sono dei casi in cui la necessità da sola non basta a
risolvere il problema dei limiti della reazione difensiva. Il caso paradigmatico
proposto da quasi tutti i manuali è quello dell’uccisione del semplice ladro da
parte del difensore, quando questa si mostri in concreto necessaria per
impedire il furto. Entra in scena il requisito della proporzione.

Legittima difesa a tutela della propria o altrui incolumità esempio: Tizio


si trova in casa; Caio ne viola il domicilio, entrando di soppiatto da una finestra
aperta. Caio è un esile ragazzino evidentemente disarmato. Si getta contro
Tizio, ben più robusto di lui. Tizio potrebbe benissimo affrontare la
colluttazione, sapendo di uscirne con qualche ferita, ma di avere agevolmente
la meglio sul ragazzino. Per evitare di subire anche un minimo danno
all’incolumità fisica, Tizio prende la pistola e minaccia Caio di sparargli; Caio
non scappa e procede; a questo punto Tizio gli spara alle gambe e Caio cade a
terra. Si potrebbe, qui, anche ritenere non sussistente la legittima difesa.

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Infatti, in base ad una considerazione del rapporto fra i beni in conflitto, si
potrebbe ritenere sproporzionata una ferita di arma da fuoco alle gambe
rispetto a qualche ferita riportata in una colluttazione dall’esito così scontato.
Chi aderisse all’opinione cui accede la giurisprudenza maggioritaria, in base
alla quale si dovrebbe guardare ai mezzi a disposizione che ai beni in gioco, in
un caso simile riterrebbe forse sussistente la stessa proporzione.

Legittima difesa a tutela di beni: è il primo luogo da ribadire che non basta
il pericolo di aggressione ad un bene patrimoniale. Il pericolo per tale bene
rappresenta l’incipit dell’episodio. La norma postula che non vi sia desistenza
da parte del ladro; a nostro giudizio, questo significa che il difensore avrà
l’onere di intimare in qualche forma al ladro di desistere in modo che a questi
sia data la possibilità di scegliere fra la rinuncia all’azione illecita ed una
escalation criminosa. Occorre che il ladro non si dia per vinto, trasmodando dal
pericolo di offesa verso il patrimonio al pericolo di offesa verso la persona. E’ a
questo che allude il legislatore quando parla di pericolo di aggressione. Ad
interpretare diversamente la locuzione osta sia il criterio letterale che quello
sistematico. Quanto al primo, appare semanticamente molto più appropriato
parlare di aggressione nei confronti dell’incolumità fisica, piuttosto che nei
confronti del patrimonio. Quanto al secondo, da un lato, non si capisce che
progressione ci sia dal pericolo di un’offesa al bene patrimonio ad un pericolo
di aggressione allo stesso bene. L’interpretazione più corretta è quella secondo
cui per aggressione si intende qui un’aggressione fisica. Riteniamo che si
dovrebbe optare per l’interpretazione più in sintonia con la Costituzione e
l’ammettere una difesa armata del mero patrimonio sarebbe di difficile
compatibilità con quanto prescrive la nostra Costituzione. In caso di presenza di
un ladro all’interno del domicilio, il padrone di casa non è obbligato a subire il
furto; potrà legittimamente intimare al malvivente di andarsene, anche se, fin
dall’inizio, egli si renda conto che l’intimazione al ladro potrà suscitare una
reazione violenta di questo. Secondo alcune opinioni estreme, in questi casi, il
derubando si dovrebbe astenere dall’agire in tal modo, in quanto subire il furto
sarebbe per lui un ottimo commodus discessus. La nuova norma chiarisce che
in casi consimili il padrone di casa può legittimamente reagire, ma non
utilizzando mezzi violenti; prima, dovrà intimare al ladro di desistere; e solo se
questi insisterà, e si mostrerà addirittura pericoloso per la sua incolumità, potrà
far uso dell’arma. Meglio sarebbe stato introdurre una scusante in caso di
eccesso di difesa causato da panico o terrore, il che avrebbe maggiormente
avvicinato la nostra legislazione sul tema a quella più diffusa a livello europeo.

Capitolo 3

Lo stato di necessità

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L'art 54 comma I recita: "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi
stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né
altrimenti evitabile sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo". Si tratta
del cosiddetto stato di necessità.
Tipico esempio: il naufrago che butta giù il compagno di sventura della zattera,
ormai distrutta, per l'impossibilità della zattera di reggere entrambi.
Lo stato di necessità assomiglia alla legittima difesa, ma se ne differenzia per
vari tratti salienti: in primo luogo per il fatto che nello stato di necessità, il
soggetto non reagisce
contro l'aggressore ma contro il terzo innocente: si pensi all'ipotesi di Tizia che,
inseguita dallo stupratore Caio, ruba l'automobile di Mevio e scappa. Spesso
nello stato di necessità non è nemmeno presente un aggressore, come nel caso
dell'alpinista che taglia la corda che lo lega al compagno, caduto a causa del
franare di una
roccia, per evitare di cadere con lui nel burrone. Seconda differenza con la
legittima difesa è che il diritto in pericolo che fa scattare i presupposti per
l'esimente può essere, nello stato di necessità, solo un danno grave la persona,
mentre nella legittima difesa può essere un qualsiasi diritto. In terzo luogo
stato di necessità e legittima difesa differiscono per le conseguenze di
carattere civilistico: Chi agisce in stato di legittima difesa non è tenuto a dare
alcunché al danneggiato, mentre chi agisce in stato di necessità è tenuto a
corrispondere al danneggiato un'equa indennità. In particolare laddove
l'interesse salvato sia prevalente su quello sacrificato (es. furto auto per
sfuggire allo stupro) si ritiene che ci sia uno stato di necessità giustificante,
sulla base del criterio della prevalenza dell'interesse. Laddove invece ci sia
equivalenza tra gli interessi (es. zattera) o venga sacrificato addirittura
l'interesse prevalente si avrebbe uno stato di necessità scusante in base al
criterio dell'inesigibilità.

I requisiti. Presupposti necessitanti


Innanzitutto occorre la minaccia del pericolo attuale di un danno grave la
persona. Secondo alcuni, soprattutto in passato, si consideravano i beni
personali rilevanti per la configurazione della esimente. La più recente dottrina
maggioritaria propende per allargare il ventaglio dei beni tutelabili: tra questi
dunque non si deve solo includere la vita o incolumità fisica, ma anche l'onore,
la libertà sessuale, la libertà personale e più ampiamente ogni diritto della
personalità. Il danno che rischia di prodursi deve però essere grave. Non
potrebbe dunque Tizio, per evitare di prendersi un raffreddore a causa di un
improvviso acquazzone, violare il domicilio dello sconosciuto Caio,
commettendo il fatto di cui all' art. 614 c.p. Diverso sarebbe naturalmente il
caso di un vero e proprio tornado per cui potrebbe profilarsi lo stato di
necessità.

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Il pericolo non deve essere volontariamente causato dall'agente: si
pensi a Tizio che si catapulta nel centro storico di una città in automobile ai 100
km/h. Egli non potrebbe certo invocare lo stato di necessità se si trovasse
costretto per evitare di investire il pedone Caio a sfondare il carretto dei gelati
di Sempronio. Non occorre che il soggetto abbia voluto il pericolo in un senso
stretto letterale, ma basta che la sua azione cagioni per colpa il pericolo
necessitante. La volontarietà è dunque sinonimo di "non accidentalità", come
avviene rispetto ad altri istituti della parte generale (es ubriachezza).
Peraltro oggetto della causazione volontaria non deve essere un antecedente
remoto del pericolo attuale per il bene personale, ma lo stesso pericolo. Si
pensi a Tizio, giocatore d'azzardo, che finisce sul lastrico e il figlio Caio si
ammala gravemente. Ebbene, se Tizio ruba una medicina indispensabile per
salvarlo, non avendo i soldi per comprarla, potrà essere scriminato dallo stato
di necessità. Il suo vizio del gioco certamente ha causato volontariamente la
miseria della famiglia, ma non ha causato la malattia di Caio che concretizza il
pericolo necessitante. Inoltre non può invocare lo stato di necessità chi ha un
particolare dovere di esporsi al pericolo. Qui si fanno le ipotesi tipiche dei vigili
del fuoco, di poliziotti, di ogni altra persona i cui obblighi giuridici la espongono
al pericolo.

L'azione necessitata
Essa deve essere necessaria per salvare sé o altri dal pericolo. Questa
necessità va interpretata ancor più rigorosamente rispetto a quella di cui alla
legittima difesa.
Mentre nella legittima difesa colui contro cui si commette il fatto è un
aggressore, qui è un terzo innocente. Il pericolo non deve essere altrimenti
evitabile. Se è possibile trovare un'alternativa alla realizzazione del reato, la si
deve comunque percorrere.
In questa prospettiva si inquadra quella giurisprudenza che non accorda lo
stato di necessità, ad esempio a chi sfrattato da casa e senza soldi, occupa una
casa altrui. In questo caso si effettua spesso una valutazione in astratto,
mentre l'esistenza di una possibilità alternativa andrebbe valutata in concreto.
Infine per potersi applicare l’esimente il fatto commesso deve essere
proporzionato al pericolo anche il criterio della proporzione andrà valutato con
maggior rigore nello stato di necessità rispetto alla legittima difesa.

Lo stato di necessità scusante


In casi di sproporzione tra il pericolo corso ed il fatto commesso si potrebbe
tutt'al più pensare all'utilizzo di una forma di stato di necessità scusante: più
idonea ad essere trattata come scusante è l'ipotesi di chi salva un prossimo
congiunto da un danno grave alla persona.
Quanto all'ipotesi del danno grave ad un terzo in un prossimo congiunto la
dottrina è propensa all'eliminazione della soluzione legislativa.

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L'art 54 recita che "la disposizione della prima parte di questo articolo si
applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia, ma in
tal caso del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha
costretta a commettere. È questa l'ipotesi di coazione morale o costringimento
psichico. In questo caso si può ritenere che si tratti non già di scriminante, ma
di cause di esclusione della colpevolezza. In questo caso peraltro a differenza
che nel comune stato di necessità qualcuno sarà punito, ossia il terzo
minacciante.

Capitolo 4

Il consenso dell'avente diritto

Il consenso dell'avente diritto come cause di giustificazione e il


dissenso come elemento costitutivo di
taluni fatti di reato.
La causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto è prevista
dall'art 50c.p. "non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col
consenso della persona che può validamente disporne".
Occorre chiarire che in alcune ipotesi, in cui rileva il consenso della vittima solo
in apparenza, si pone un problema legato all'applicabilità dell'art 50 c.p. In
particolare bisogna tenere presente che, in alcuni reati, il dissenso dell'avente
diritto è un elemento essenziale del fatto di reato: l'esempio classico è offerto
dal delitto di violazione di domicilio, cioè il fatto di chi si introduce
nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze
di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo.
Quindi se taluno entra nella altrui abitazione, non contro la volontà del titolare
del diritto di esclusione, ma al contrario con il consenso di quest'ultimo sarebbe
scorretto dire che ci sia un fatto di violazione di domicilio scriminato e quindi
non punibile ex. Art 50 c.p., stante il consenso dell'avente diritto, poichè il
consenso preclude già in prima battuta l'interprete di ritenere la sussistenza
del fatto tipico ex. 614c.p.

Ratio e natura giuridica della causa di giustificazione del consenso


dell'avente diritto. Riflessi in tema di applicabilità dell'art 50c.p. ai
reati colposi
Quando si parla di consenso dell'avente diritto in funzione di scriminante,
l'ottica è ristretta alle ipotesi nelle quali la non punibilità deriva dal rilievo
accordato dall'ordinamento alla volontà del soggetto titolare dell'interesse
protetto, il quale consente la lesione del bene giuridico rendendo così lecito
una fattispecie che altrimenti sarebbe punibile. La ratio della causa di
giustificazione è ravvisata nella mancanza di interesse alla repressione del
fatto consentito, sia in capo al titolare individuale sia in capo allo Stato.

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Circa la natura giuridica del consenso dell'avente diritto, l'opinione oggi di gran
lunga prevalente reputa il consenso alla stregua di un atto giuridico in senso
stretto ossia quale atto dotato di una sua efficacia tale da escludere l'illiceità
del fatto. Il consenso è circondato da una serie di prerogative. Innanzitutto
l'individuazione della capacità di agire che deve essere posseduta dal
soggetto perché questi possa efficacemente esprimere il consenso. Inoltre
bisogna accertare, caso per caso, il possesso della capacità di intendere e
di volere e quindi il giudice deve verificare se il soggetto che ha dato il proprio
consenso sia in grado di rendersi conto del significato di tale atto dispositivo. In
altri casi, per legge, il soggetto consenziente deve aver superato una certa
soglia di età per poter consentire validamente la lesione di beni giuridici di cui
è titolare: ad esempio si richiede che il soggetto sia maggiorenne perché possa
rendere lecita, con il suo consenso, lesioni tipiche dei propri diritti
patrimoniali. Dalla natura non negoziale del consenso si può trarre argomento
per negare che debba esserci necessariamente una sorta di accordo tra
soggetto agente e potenziale vittima del reato, avente ad
oggetto le lesioni del bene di cui la vittima è titolare. Tale osservazione si
collega alla delicata tematica della rilevanza del consenso dell'avente diritto
nei reati colposi. Secondo alcune massime
giurisprudenziali si dovrebbe escludere l'operatività dell'art 50 c.p. in rapporto
ai fatti colposi. Vi sarebbe in questa prospettiva un'incompatibilità logica tra il
consenso-accettazione volontaria della lesione del bene e reato colposo,
caratterizzato in negativo dell'assenza di dolo e quindi dalla non volontarietà
della lesione stessa.
Es Tizio che accetta di salire sulla vecchia bicicletta arrugginita di Caio,
conoscendone la fragilità, e dunque acconsentendo ad un'eventuale caduta. La
bici si rompe, Tizio e Caio cadono, Tizio si procura lievi
escoriazioni. secondo questa opinione in questa ipotesi le lesioni colpose di
Caio non sarebbero scriminate dal consenso di Tizio, vista la colposità del fatto.

La disponibilità del diritto


Affinché il consenso abbia effetto scriminante, ai sensi dell'art 50c.p, è
necessario che sia manifestato da colui che in modo valido può disporre del
diritto leso o posto in pericolo. La legge penale non precisa quali sono i diritti
disponibili e quindi il compito di stabilire il limite entro il quale il consenso può
operare come causa di giustificazione sono demandati agli interpreti.
Si riconosce generalmente che indisponibili sono gli interessi statuali, il che
rende inefficace il consenso nell'ambito dei delitti contro la personalità dello
Stato, dei delitti contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione
della giustizia. Ciò vale per i reati privi di un soggetto passivo determinato,
quali reati contro l'ordine pubblico o contro la pubblica incolumità. Inoltre sono
considerati insuscettibili di consenso i reati contro la famiglia. Si considera poi
indisponibile il diritto alla vita: pertanto viene punito il fatto di chiunque
cagiona la morte di un uomo, anche se con il consenso di lui (omicidio del
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consenziente). Va comunque evidenziato che questa figura comporta pene di
gran lunga inferiori rispetto a quelle previste per l'omicidio doloso comune.
Nel primo caso la pena va da minimo 6 anni a massimo 15anni. Nel secondo
caso la pena minima è di 21 anni. In rapporto alla differente figura dell'omicidio
colposo, parte della dottrina mette la possibilità di esporre a pericolo lo stesso
bene -vita con efficacia scriminante, cioè in base al principio della c.d.
autodeterminazione responsabile. Es alcuni pescatori decidono di seguire il
capo equipaggio nonostante le pessime condizioni atmosferiche consiglino di
non prendere il mare; si ritiene che ove si verifichi la morte di un membro
dell'equipaggio, il comandante non debba rispondere di omicidio colposo,
qualora abbia adottato tutte le misure idonee a ridurre al minimo il rischio e
qualora risulti che la vittima fosse perfettamente informata del pericolo e
abbia accettato con piena libertà e autoresponsabilità. Tradizionalmente
oggetto di controversie è il diritto all'integrità personale nella sfera fisica.
L'art 5 c.c. afferma che "gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati
quando cagionano una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando
sono altrimenti contrari alla legge, ordine pubblico e buon costume".
Ovviamente atti di disposizione relativi del proprio corpo sono ammessi in
parte ( taglio di capelli, di barba, asportazione di pezzi di pelle ,ma sono vietati
in relazione se causano uno sfregio permanente o mutilazione). Sempre
soggette al limite dell'art. 5 sono anche le donazioni di parti del proprio corpo.
La dottrina penalistica dominante fa riferimento in effetti all'art 5 c.c. per
individuare i limiti della disponibilità dei beni relazione all'integrità fisica.
Tra i diritti solo parzialmente disponibili si annoverano il diritto all'onore e
alla dignità personale.
Tra i diritti disponibili si suole invece comprendere i diritti patrimoniali sicché
il consenso può risultare efficace nei reati contro il patrimonio, ma con
significative eccezioni. Ad esempio nel delitto di usura, l'usuraio viene punito
proprio per il fatto di farsi dare o promettere denaro o altri vantaggi usurari in
corrispettivo di una prestazione di denaro o altre utilità. Non sono invece
punibili un furto o una appropriazione indebita se i titolari del bene protetto
sono consenzienti rispetto al fatto che lede il loro diritto. Ampiamente
disponibili appaiono i diritti alla cosiddetta inviolabilità dei segreti privati
(segretezza della corrispondenza, segreto professionale, segreto scientifico e
industriale).

La validità del consenso. Consenso espresso e tacito, consenso


putativo, consenso presunto.
Il consenso non solo deve avere ad oggetto diritti disponibili, ma deve altresì
essere valido: ossia validamente prestato e quindi il consenso deve provenire
dal soggetto effettivamente legittimato ad esprimerlo, ossia del titolare
dell'interesse tutelato dalla norma penale. In altri termini da colui che
potrebbe essere considerato vittima del reato qualora il fatto non fosse

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giustificato dal consenso stesso. Occorre poi che il titolare dell'interesse abbia
la capacità di agire cioè la capacità naturale. Si ammette in genere che il
consenso possa essere manifestato, non solo del titolare, ma anche da un suo
rappresentante, legale o volontario, ancorché si discute sui limiti entro il
quale ciò possa avvenire. Secondo una tesi le uniche restrizioni sarebbero
costituite da un'intrinseca incompatibilità della rappresentanza con la natura
del diritto e dell'atto da consentire. Secondo una soluzione più restrittiva la
rappresentanza potrebbe solo in via eccezionale risultare conciliabile con il
carattere personale dell'interesse penalisticamente protetto. È necessario
inoltre che il consenso venga
manifestato dal titolare dell'interesse protetto. È pacifico in proposito che il
consenso possa essere espresso oppure anche tacito, ossia desumibile in
maniera certa e univoca dal comportamento del soggetto legittimato a
manifestarlo.
Si parla poi di consenso presunto per indicare l'ipotesi in cui il titolare del
l'interesse, in realtà, non ha manifestato il consenso, ma si può ritenere che il
titolare medesimo lo avrebbe senz'altro manifestato qualora fosse stato
interpellato. Diversa è la situazione in caso di consenso putativo: in
quest'ultima ipotesi colui che realizza un fatto materiale di reato agisce nel
convincimento erroneo che il titolare del bene protetto abbia prestato il
consenso alla condotta lesiva, mentre in realtà così non è. In questo caso, ove
ci sia un
consenso putativo si ricade nella tematica della supposizione erronea di una
causa di giustificazione. Qualora invece il consenso sia presunto le soluzioni
oscillano tra la negazione di ogni rilevanza del medesimo e il
riconoscimento di un efficacia scriminante di un siffatto consenso. Si pensi al
fatto di chi, nella prospettiva di una gestione di affari altrui, prenda conoscenza
del contenuto di una lettera diretta ad un amico, in assenza dello stesso e
nell'impossibilità di contattarlo preventivamente, confidando in maniera
ragionevole che l'amico acconsentirebbe alla violazione del segreto epistolare,
stante il carattere di estrema urgenza della comunicazione.
Il consenso deve essere libero, spontaneo e informato; non occorrono
particolari requisiti formali; esso deve intervenire prima della realizzazione del
fatto tipico, che esso vale a scriminare o al più contestualmente al fatto. Un
consenso successivo o ratifica non può giustificare il pregresso illecito, in
quanto una causa di giustificazione
non può spiegare effetti dopo che il delitto sia stato commesso. Occorre tener
presente che il consenso può essere sottoposto a particolari condizioni e
modalità e che è revocabile dal titolare e quindi deve per durare nel momento
in cui viene realizzata la condotta lesiva del bene.

Il cosiddetto consenso informato nel settore dell'attività medico-


chirurgica.

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Secondo un'opinione ampiamente condivisa, il trattamento medico può essere
reputato legittimo se e solo se il paziente abbia validamente consentito al
trattamento medesimo per cui è necessario che il paziente, per esprimere il
consenso, venga correttamente informato sui possibili effetti della terapia e
quindi sui risultati ipotizzabili, sui rischi e sugli effetti collaterali, sul rapporto
tra costi e benefici del trattamento. Il consenso informato rappresenta
dunque il presupposto di fatto affinché possa estrinsecarsi la libertà di
autodeterminazione terapeutica del paziente che trova fondamento a livello
costituzionale; essa implica il diritto di decidere consapevolmente, entro dati
limiti, la terapia cui sottoporsi senza subire l'iniziativa del medico, il quale anzi
ha il c.d. dovere di informazione.
Il consenso informato non è del tutto riconducibile al concetto di consenso
dell'avente diritto ex art 50 c.p. Quest'ultima scriminante non può avere ad
oggetto diritti indisponibili, mentre il paziente può senz'altro consentire a
trattamenti medici rischiosi per la sua stessa vita, nel rispetto delle leggi
mediche.
Nel nostro ordinamento manca una disciplina organica dell'istituto del
consenso informato. Quanto ai requisiti del medesimo si richiede che il
consenso sia:
- personale, proveniente dal destinatario del trattamento medico;
- espresso e specifico;
- non si reputa necessaria la forma scritta, potendo il consenso essere
manifestato anche oralmente purché in maniera inequivoca;
- revocabile.
È controverso il tema riguardante le conseguenze penali del trattamento
medico chirurgico arbitrario, effettuato senza il consenso del paziente.
In dottrina, secondo un'opinione, il consenso informato sarebbe richiesto a
tutela degli intangibilità corporale del paziente, secondo altri andrebbero
rapportato al diritto di autodeterminazione terapeutica.
Nel primo caso, a fronte di atti medici arbitrari si apre la possibilità di chiamare
a rispondere il medico per fatti di natura dolosa e segnatamente per il delitto di
lesioni personali e, in caso di morte conseguente, per il delitto di omicidio
preterintenzionale.
Chi colloca l'intervento medico effettuato in carenza di valido consenso nella
prospettiva delle offese alla libertà morale, giunge a conseguenze opposte. E
quindi in luogo di responsabilità penale a titolo doloso o preterintenzionale, sui
profilerebbe, nella maggior parte dei casi, addirittura l'irrilevanza penale del
fatto, stante da un lato la mancanza di una fattispecie incriminatrice ad hoc
che consenta di punire il trattamento medico arbitrario e d'altro lato le difficoltà
spesso insormontabili che si frappongono all'applicazione di altri reati contro la
persona. Di recente sul punto è intervenuta la Cassazione, confermando che
l'attività medico-chirurgica per essere considerata legittima necessita
dell'acquisizione del consenso informato rilasciato dal paziente, salve le

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eccezioni previste dalla legge, ma precisando che non ricorre alcuna fattispecie
penale nel caso in cui il
medico, pur in assenza di un valido consenso del paziente abbia agito secondo
le leggi dell'arte medica e l'intervento si sia concluso con esito benefico per la
salute del paziente, da intendersi come miglioramento della patologia da cui
egli stesso era affetto.

Capitolo 5

L'esercizio di un diritto

Il principio di non contraddizione


L'art 51 c.p. prevede che "l'esercizio di un diritto...esclude la punibilità". Questa
regola riproduce il contenuto secondo cui chi esercita il proprio diritto non
danneggia nessuno. L'ordinamento non può entrare in contraddizione con sé
stesso e quindi non può punire chi ha esercitato un proprio diritto (principio di
non contraddizione). La ratio viene ravvisata nella prevalenza di interesse di
colui che agisce nel corretto esercizio di un diritto, rispetto ad altri interessi
contrapposti. Il vero problema è legato
all'esatta individuazione dei limiti entro i quali il diritto viene esercitato: solo se
titolare del diritto si mantiene entro tali limiti, allora il fatto è realizzato
correttamente e quel diritto può dirsi scriminato e lecito; se detti limiti vengono
superati, si parla di abuso del diritto che non esclude l'illiceità del fatto.

La nozione di diritto ex art 51 c.p.


Di sicuro rientrano nella nozione di diritto, il cui esercizio rileva con le cause di
giustificazione, i diritti soggettivi in senso stretto (diritto di proprietà, diritto di
libera manifestazione del pensiero, ecc).
Prevale un'interpretazione estensiva del concetto di diritto ex art 51 c.p. nel
senso di ricomprendervi anche le facoltà legittime riconosciute al soggetto
dall'ordinamento. Anche riguardo alle fonti da cui può nascere il diritto o una
facoltà si crea un quadro nel quale rientrano le leggi statali, costituzione e leggi
ordinarie, i regolamenti e I provvedimenti giurisdizionali, ad es. una sentenza,
gli atti amministrativi, negozi giuridici di diritto privato e le norme di
produzione europea.
È discusso se il diritto possa derivare anche da una legge regionale: alla
soluzione negativa di alcuni, altri contrappongono il fatto che le scriminanti non
siano coperte dal principio della riserva di legge statale. Inoltre alcuni
includono anche la consuetudine tra le fonti dalle quali può derivare il diritto ex
art 51.

Esercizio del diritto violazione di un precetto penale? il problema del


conflitto apparente di norme

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Il contesto giuridico in cui l'art 51 c.p. è destinato ad operare èquello di un
conflitto apparente di norme, facenti parte tutte dellostesso ordinamento, che
sembrano contemporaneamente applicabili allo
stesso fatto: una norma sembra accordare al soggetto il diritto di realizzare
quel fatto, altra norma invece sembra vietarglielo. In realtà, proprio per il
principio di non contraddizione, queste norme non possono trovare
applicazione entrambe: è l'interprete che deve decidere quale di esse debba
prevalere sull'altra. Quali sono i criteri ai quali l'interprete deve fare
riferimento, allo scopo di risolvere il problema del conflitto tra norma che
riconosce il diritto e norma incriminatrice?
-criterio gerarchico, per cui la legge superiore deroga alla legge inferiore
-criterio cronologico, per cui la legge posteriore deroga alla legge anteriore
-criterio di specialità, per cui la legge speciale deroga alla legge generale.
Es. È penalmente vietato distruggere o deteriorare cose altrui (art. 635 c.p.
delitto di danneggiamento) ma è riconosciuta al proprietario di un fondo la
facoltà di tagliare le radici degli alberi del vicino che si addentrano nel suo
fondo (art.896 c.c.) quindi se Tizio taglia nel suo fondo le radici provenienti dal
fondo del vicino Caio realizza un fatto, al quale sembrano ad un tempo
applicabili sia la norma civilistica che quella penalistica.

I limiti scriminanti
Limiti interni e limiti esterni del diritto scriminante
I limiti interni sono limiti promananti dalla norma che lo configura. Coincidono
con la portata e l’ambito del diritto considerato in sé e per sé, ossia al di fuori
del rapporto con altre norme.
Limiti esterni: promanano da norme diverse da quella attributiva del diritto,
e che tutelano interessi differenti. Vanno ricavati non soltanto dalla legge
ordinaria che li attribuisce, ma anche dall’ordinamento complessivamente
inteso, compresa la legge penale.
Quanto invece ai diritti che trovano un diretto riconoscimento nella
Costituzione, non è possibile che norme di rango inferiore nella gerarchia delle
fonti, ne vengano a limitare l'operatività. Un limite in tal senso può derivare
soltanto da altre norme costituzionali. In tal caso è indispensabile operare un
delicato giudizio di bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco.

Un esempio di conflitto tra diritti di rango costituzionale diritto di


cronaca e diritto all'onore. Il diritto di critica.
La Costituzione garantisce a tutti il diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione tale
diritto di libera manifestazione del pensiero si può estrinsecare in vari
modi: oggetto di particolare approfondimento risulta essere l'esercizio del
diritto di cronaca da parte dei giornalisti.

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Spesso i mezzi di informazione diffondono notizie ed espongono fatti che per il
loro contenuto risultano di certo lesivi dell'onore e della reputazione di soggetti
che ne sono protagonisti. Ebbene chi offende l'altrui reputazione realizza un
fatto che è previsto dalla legge come reato (delitto di diffamazione). Si tenga
presente inoltre che anche il bene dell'onore individuale, è riconducibile
nell'ambito dei diritti inviolabili della persona, che nella Cost. trovano un
riconoscimento. Si profila dunque emblematico contrasto tra norme
confliggenti da risolvere in base ad un delicato giudizio di bilanciamento tra gli
interessi implicati.
Quando si può ritenere che il giornalista abbia correttamente esercitato il
diritto di cronaca ex art 21 Cost.? La legge non dice quale sia il confine tra
diffamazione e lecito esercizio del diritto di cronaca: l'individuazione spetta
dunque all'interprete. Secondo un consolidato orientamento della
giurisprudenza, ci si mantiene nella sfera del lecito esercizio del diritto di
cronaca quando innanzitutto la notizia narrata è vera o comunque verosimile.
È necessario che sussista un interesse pubblico-sociale alla conoscenza della
notizia stessa, tale da giustificare la divulgazione attraverso i mezzi di
informazione. Inoltre bisogna che il fatto sia esposto in maniera corretta dal
punto di vista formale, secondo canoni di obiettività e serenità, evitando
degenerazioni espressive che si traducono in offese gratuite. In questi casi
prevale il diritto di cronaca del giornalista, altrimenti si tratta di diffamazione.

Capitolo 6

L’adempimento di un dovere

Art. 51 c.p. “l’adempimento di un dovere imposto da una norma


giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la
punibilità”.
Come l’esercizio di un diritto, poggia sul principio di non contraddizione.
L’interprete deve stabilire quale sia il dovere prevalente nel concreto.

Fonte del dovere


-Norma giuridica: si intende qualsiasi precetto giuridico, emanato dal
legislatore o dall’esecutivo.
-Ordine dell’autorità: manifestazione di volontà, che proviene da un
superiore e che si rivolge ad un soggetto gerarchicamente
subordinato, finalizzata a che quest’ultimo tenga una determinata
condotta. Si tratta di un rapporto di diritto pubblico e necessariamente
legittimo.
È privo di efficacia scriminante l’ordine privato, impartito anche in un
rapporto di subordinazione di natura giuridica privatistica.
Il requisito della legittimità dell’ordine è limite fondamentale della scriminante
che rende lecita la condotta di chi impartisce e di chi esegue.

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Si distingue in:
• legittimità formale: vi deve essere competenza nell’emanazione
dell’ordine ed il rispetto dei requisiti di forma ex lege;
• legittimità sostanziale: attiene al merito ed alla presenza dei relativi
presupposti legali per la sua emanazione.
• Ordine illegittimomanca la legittimità (formale o sostanziale) o manca
l‘ordine emanato da un soggetto di diritto pubblico
Non deve essere eseguito in quanto la sua esecuzione non può essere
giustificata. Esecutore e ordinatore ne risponderebbero. Vi sono nr. 2
eccezioni:
• se per errore di fatto, l’esecutore abbia ritenuto di eseguire un ordine
legittimo (si paragona all’errore su legge extrapenale);
• se la legge non gli consenta alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine
(art. 51 ult. co.)

Il c.d. ordine illegittimo insindacabile


In linea generale, l’ordine del superiore è sempre sindacabile. Solo in
determinati rapporti (di tipo militare o assimilati) caratterizzati da un vincolo di
subordinazione molto forte, può sussistere insindacabilità.
È sempre possibile e doveroso sindacare la legittimità formale dell’ordine
qualora si manifesti palesemente criminoso. Ne risponderebbe unicamente
colui che ha impartito l’ordine criminoso.
L’art. 51 comma 4 prevede non già una causa di giustificazione bensì
una causa di esclusione della colpevolezza o scusante per l’esecutore
dell’ordine.

Capitolo 7

L’uso legittimo delle armi

Sussidiarietà e limiti soggettivi della scriminante


Art. 53 comma 1 c.p. “Ferme le disposizioni contenute nei due articoli
precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di
adempiere a un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare
uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è
costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una
resistenza all’Autorità, e comunque impedire la consumazione dei
delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro
ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di
persona.”
La clausola di riserva iniziale (ferme le disposizioni dei primi due articoli)
rileva il carattere sussidiario della causa di giustificazione in esame, ampliando
la sfera entro cui è lecito fare uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica,
anche oltre i limiti propri delle scriminanti ex artt. 51 e 52 c.p.

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La normativa si rivolge a quei pubblici ufficiali appartenenti alla forza pubblica;
sono equiparati ex art. 53 c.p. “qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal
pubblico ufficiale, gli presti assistenza”.
Occorre inoltre che il pubblico ufficiale agisca al fine di adempiere un
dovere del proprio ufficio: lo scopo lecito deve risultare strumentale al
corretto adempimento del dovere che fa capo al pubblico ufficiale.

Presupposti oggettivi
1. necessità di respingere una violenza all’Autorità: alla violenza fisica si
estende anche la coercizione psichica o minaccia, qualora sia seria e
particolarmente grave;
2. necessità di vincere una resistenza all’Autorità : la resistenza può essere
attiva o passiva. Per la resistenza passiva è comunque necessario la
sussistenza di un concreto rapporto di proporzionalità.
3. necessità di impedire la consumazione dei delitti di strage, naufragio,
sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario,
rapina a mano armata e sequestro di persona (introdotto con riforma nel
1975);
4. necessità di una proporzione tra interesse leso ed il bene che
l’adempimento dell’ufficio è diretto a soddisfare; ovvero l’uso delle armi non
leda un interesse di rango superiore rispetto al diverso interesse tutelando.
La violenza o la resistenza debbono essere attuali e l’utilizzo del mezzo di
coazione fisica debba essere necessario, individuando quindi l’utilizzo delle
armi unicamente come extrema ratio.

Sezione III

La colpevolezza

La colpevolezza come categoria dogmatica


Il termine colpevolezza è sancito dall’art. 27 della Costituzione: è una
categoria dogmatica, è uno degli elementi in cui si suole scomporre il
reato in sede di analisi sistematica.
concezione tripartita del reatoFatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza.
Colpevolezza: è l’insieme di tutti i fattori dai quali dipende la
possibilità di muovere un rimprovero (giuridico-penale) al soggetto
agente.
Non basta allora che:
• sia commesso un fatto illecito (TIPICITÀ);
• in relazione al quel fatto il soggetto versi in dolo oppure in colpa, laddove
punibile (ANTIGIURIDICITÀ).
Per poter imputare il fatto all’autore occorre verificare:

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1. se il soggetto fosse o meno capace di intendere e di volere nel momento
in cui lo ha realizzato (ovvero se fosse o meno imputabile);
2. se la norma penale violata fosse o meno conosciuta o comunque
riconoscibile dall’agente;
3. se il soggetto fosse o meno in grado di motivarsi secondo le norme
giuridiche, oppure se circostanze anomale, concomitanti alla commissione
del fatto, rendessero inesigibile una condotta osservante del precetto
(valutazione di esigibilità/inesigibilità), nei limiti di specifiche previsioni
legali che vi diano ingresso.

Concezione psicologica e concezione normativa della colpevolezza


Il codice penale non contiene una definizione di “colpevolezza”, né
utilizza questo termine.
Le concezioni psicologiche, diffuse nel passato, finiscono per identificare la
colpevolezza nell’elemento soggettivo del reato.
Le concezioni normative, che estendono l’orizzonte alla tematica della
rimproverabilità del soggetto agente (anche oltre i confini del dolo e della
colpa) si prestano ad una graduazione della colpevolezza e della relativa
intensità del rimprovero.

Colpevolezza con riguardo al “se” rimproverare. Le cause di


esclusione della colpevolezza (o scusanti)
La non punibilità che discende da una causa di esclusione della
colpevolezza (o scusante) presuppone un “fatto tipico” (doloso o
colposo) e antigiuridico.
Il fatto comunque non è giustificato, non è lecito: l’autore di quel fatto però è
scusato dall’ordinamento, tenuto conto dei riflessi psicologici della situazione
esistenziale che il soggetto agente si trova a vivere.
Nelle cause di esclusione della colpevolezza non si parla neanche di reato, in
quanto viene a mancare un elemento costitutivo del reato; fanno leva sul
concetto di inesigibilità: una condotta è inesigibile quando il soggetto
astrattamente potrebbe realizzarla ma ad un costo che lo stesso ordinamento
reputa essere troppo elevato ed inaccettabile nella prospettiva di quel
soggetto. Questi casi di inesigibilità sono un numero chiuso: al legislatore è
rimessa la tecnica di tipizzazione della singola clausola di esclusione.
Colpevolezza con riguardo al “quanto” rimproverare: rinvio
Un soggetto è più o meno rimproverabile giuridicamente a seconda:
• dei motivi che lo hanno spinto ad agire in un certo modo;
• dei condizionamenti sociali o psicologici che si trovano riflessi nel fatto
materiale commesso;
• dell’intensità del dolo e del grado della colpa.
Di fatto il quantum della colpevolezza incide sulla misura della pena in
concreto irrogabile dal giudice.
La colpevolezza è correlata alla commisurazione della pena, alla quale si rinvia.

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Colpevolezza d’autore e colpevolezza per il fatto
colpevolezza per il fatto: il reo deve essere rimproverato per ciò che
ha fatto, in relazione al singolo fatto tipico concretamente commesso.
Non è ammessa ovviamente la colpevolezza d’autore, ovvero una
commisurazione del rimprovero che si leghi e si conformi unicamente alle
qualità soggetto-sociali del reo (modo di essere o condotta di vita).

Capitolo 2

Il dolo e l’errore

Il dolo è la forma più classica di imputazione soggettiva del reato:


quantomeno nei delitti la regola è nel senso della punibilità ad esclusivo titolo
di dolo (art. 42 comma 2).
Solo se il legislatore deroga espressamente a questa regola è configurabile la
punibilità per colpa.
Le contravvenzioni in linea generale sono punibili indifferentemente a titolo di
dolo e di colpa.
Art. 43 c.p. definizione di dolo: il delitto “è doloso, o secondo
l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del
delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione o omissione”.

La struttura del dolo


I due poli necessari attorno cui ruota il dolo sono:
1. rappresentazione: si riferisce in particolare, dal punto di vista dell’oggetto,
ai presupposti della condotta e agli elementi c.d. “concomitanti” ad essa,
oppure alle caratteristiche del soggetto passivo del reato (esempio: il sapere
che è merce rubata nella ricettazione).
2. volontà: è il carattere più rilevante di distinzione tra dolo e colpa. Oggetto di
volizione deve essere anzitutto:
▲ una condotta;
▲ l’evento.
A seconda della intensità della violazione, si distinguono due specie di dolo:
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▲ intenzionale (o diretto): qui la volontà è piena e completa;
▲ eventuale (o indiretto): segna il confine tra dolo e colpa “cosciente”. In
certi casi rappresenta la soglia minima di punibilità.
La colpa cosciente postula che il soggetto abbia agito “nonostante la
previsione dell’evento”.
Sia nella colpa cosciente che nel dolo eventuale l’evento è preveduto.

Oggetto del dolo

L’art. 43 c.p. parla di evento come unico oggetto del dolo.


Ma è opinione comune che debba essere l’intero fatto tipico del reato a
dover essere investito dal dolo;
L’errore esclude per definizione il dolo.
Oggetto del dolo è solo il fatto tipico, limitatamente all’elemento
oggettivo.
Nei reati omissivi propri il dolo è costituito da:
• situazione tipica, che deve essere conosciuta;
• condotta, ossia omissione. Esempio: omission di soccorso in cui si nota
una persona in pericolo e si decide di non soccorrerla.
Vi sono alcuni reati omissivi puri nell’ambito dei quali il soggetto difficilmente,
senza la conoscenza del comando penale, si accorge di aver compiuto
un’omissione.
Quanto ai reati commissivi mediante omissione od omissivi impropri,
qui l’oggetto del dolo viene individuato negli elementi seguenti:
• obbligo giuridico di garanzia (es. casellante custode del passaggio a
livello)
• situazioni tipica che attiva nel caso concreto l’obbligo di agire (imminente
passaggio del treno)
• omissione dell’azione impeditiva dell’evento (omission di non abbassare
le sbarre)
• evento (incidente e uccisione di un uomo che attraversava)
Il dolo eventuale è configurabile (mamma che per andare dell’amante accetta il
rischio che il suo piccolo rimanga incustodito).

Accertamento del dolo

È particolarmente difficileperché il dolo, essendo rappresentazione e


volontà del fatto, è costituito in sostanza da atteggiamenti psicologici
del soggetto. Si dovrà ricorrere a massime di esperienza.
Al solo fine della ricostruzione del dolo appare importante anche la
ricostruzione del movente, e cioè dei motivi che hanno spinto l’agente a
compiere quel fatto (poiché di per sé i motivi sono irrilevanti)
Ancor più complesso risulta essere l’accertamento del dolo eventuale, sebbene
si adotti la teoria dell’accettazione del rischio.

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Si deve accertare che:
▲ il soggetto abbia posto in essere una serie di contromisure atte ad impedire
il verificarsi dell’evento;
▲ che il soggetto rientri nei c.d. casi di rischio schermato da speciali capacità
del soggetto o dalla sua esperienza (vedi il lanciatore di coltelli che riepte da
anni lo stesso esercizio con la stessa partner).

Le forme del dolo

Dolo intenzionale (o diretto) - Dolo eventuale (o indiretto)

Dolo generico: sono quelli in cui l’oggetto del dolo coincide con il fatto tipico
oggettivo.
Dolo specifico: l’oggetto del dolo investe elementi (di solito uno) che non
appartengono al fatto oggettivo tipico (esempio: per la truffa si richiede il
conseguimento del profitto; si distingue dal furto che è commesso al fine di
arricchirsi e ha dolo specifico).
La distinzione opera a seconda della diversa tipicità astratta. Di solito il
legislatore evidenzia l’impiego del dolo specifico attraverso locuzioni del tipo:
“al fine di..”, “allo scopo di..” ecc.. anche se simili formule possono talora trarre
in inganno.
Dolo generico: la finalità dell’agente si obiettivizza nel fatto tipico trovando
perfetto riscontro in esso.
Dolo specifico: la finalità non trova riscontro in un elemento oggettivo del
fatto e dunque resta nel limbo delle intenzioni. Rischio di un diritto penale
dell’autore o dell’intenzione, invece di essere un diritto penale del fatto e delle
intenzioni.

La nozione di dolo generico non va confusa con il “dolo generale”, che viene
utilizzato per ascrivere a titolo di dolo un fatto che in realtà non può dirsi
pienamente voluto dal soggetto agente.

L’intensità del dolo

La dottrina ritiene che vi siano diversi livelli di intensità del dolo.


Art. 133 c.p. detta al giudice criteri di commisurazione della pena e menziona,
nell’ambito della gravità del reato, l’intensità del dolo.
Essa può essere desunta dal livello di adesione alla realizzazione del fatto da
parte dell’agente. Questo si riscontra nella prospettiva dei due elementi della
struttura del dolo:
1. la rappresentazione: tanto più è chiara e netta tanto più è intensa;
2. la volontà: tanto più la volontà è univoca tanto più è intensa.

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Determinante è anche la durata della risoluzione criminosa nel
soggetto.
• dolo d’impeto che è l’ipotesi meno intensa del dolo;
• dolo di proposito che rappresenta un’ipotesi intermedia;
• dolo premeditato che rappresenta la massima intensità del dolo.

Errore sul fattoderiva da falsa rappresentazione della realtà che fa compiere


un atto che non si sarebbe compiuto. Esclude il dolo perché mancano volontà
e rappresentazione.

Consiste nella mancata o falsa rappresentazione di uno o più elementi


del reato.
Si distingue dall’errore sul precetto il soggetto non erra sul fatto da lui
commesso, ma sulla qualificazione giuridico-penale di quel fatto.
Errore sul fatto: esclude sempre il dolo.
Non manifesta alcuna volontà di lesione di beni giuridici, deriva da una falsa
rappresentazione della realtà, che induce il soggetto a fare qualcosa che non
avrebbe mai fatto.
Esclude il dolo, mancando gli elementi essenziali di rappresentazione e volontà.
(Es. Tizio va a caccia e scambia l’amico Caio per un fagiano e gli spara: errore
sul fatto che elimina il dolo)
Art. 47 c.p. “L’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la
punibilità dell’agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla
legge come delitto colposo”.
L’errore deve essere essenziale, ovvero deve insistere su elementi che
caratterizzano la stessa sussistenza del reato. Può essere colpevole o
incolpevole
Vi sono limitatissime eccezionali ipotesi che lasciano sussistere il dolo
anche in caso di errore su di un elemento essenziale del fatto (art. 609
sexies errore sull’età del minore di 14 anni nell’ambito del delitto di atti
sessuali).

Errore sul precetto: non rileva a beneficio del reo, dal momento che si
risolve in una ignoranza della legge penale che, in base all’art. 5 c.p., non
scusa salvo si tratti di ignoranza inevitabile (comporta una esclusione della
colpevolezza).
Il soggetto volendo esattamente realizzare il fatto posto in essere,
vuole per ciò stesso ledere quel bene giuridico tutelato, pur non
percependone l’illiceità.

Errore in generale: all’errore è da parificare l’ignoranza.

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Il dubbio non è equivale all’errore: l’incertezza non può considerarsi
equivalente ad una falsa rappresentazione della realtà.
L’errore poi può vertere sugli elementi di fatto di una causa di giustificazione :
scriminante putativa.
È esclusa la punibilità a titolo di dolo e se l’errore è dovuto a colpa (e se la
fattispecie lo prevede) la punibilità è a titolo di colpa.

Errore sugli elementi degradanti del fatto: l’elemento degradante è


quell’aspetto (ad esempio il consenso della vittima nell’omicidio del
consenziente) che determina il “degradare” della fattispecie (più grave) in una
meno grave. In caso appunto di errore la soluzione del problema potrebbe
essere condizionata dalla funzione svolta dall’elemento degradante all’interno
della singola fattispecie di parte speciale.
• talora l’elemento degradante riduce la stessa offensività del fatto,
configurandosi come una sorta di causa di giustificazione parziale (es.
Omicidio di Caio effettuato da Tizio, erroneamente convinto che Caio glielo
abbia chiesto);
• altre volte l’elemento attiene alla minore rimproverabilità del fatto,
configurandosi come una sorta di scusante parziale.
Errore su elementi descrittivi del fatto: errore di percezione (sparare ad un
uomo invece che ad un animale)
Errore su elementi normativi del fatto: errore di valutazione (altruità della
cosa nel furto).
Errore su legge extrapenale: L’art. 47 comma 3 c.p. “l’errore su legge
diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore
sul fatto che costituisce il reato”
Non sempre l’errore su legge extrapenale cagiona un errore sul fatto, talvolta
produce un errore sul precetto. In caso di errore sul fatto ex art. 43 si esclude il
dolo; in caso di errore sul precetto, in base all’inescusabilità dell’ignoranza legis
ex art. 5 c.p., non verrà meno il dolo.
Importanza della distinzione tra errore sul fatto ed errore sul
precetto:
• l’errore è sul fatto, quando il soggetto agisce ritenendo di fare qualcosa di
diverso da quello che fa e quando il comportamento mostra “sensibilità” per
il bene giuridico protetto;
• l’errore è sul precetto, quando il soggetto agisce ritenendo di fare
esattamente ciò che fa e quando il suo comportamento mostra insensibilità
nei confronti del bene giuridico tutelato.
L’errore è da considerarsi sul precetto anche quando cade sugli
aspetti normativi di una causa di giustificazione.
Errore determinato dall’altrui inganno: art. 48 c.p. “le disposizioni
dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il
reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso
dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo.
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Capitolo 3

La colpa

Art. 43 comma 1 c.p. il delitto “è colposo, o anche contro l’intenzione,


quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si
verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per
inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Perché un delitto sia punibile a titolo di colpa occorre una espressa previsione
legislativa (art. 42 comma 2 c.p.).
Le contravvenzioni viceversa sono di regola punite indifferentemente
a titolo di dolo o di colpa (art. 42 ult. comma).

I requisiti della colpa: generalità

Requisito negativo: il soggetto non deve versare in stato di dolo. L’art.


43 richiede che non sia voluto l’evento del reato.
La definizione legale di colpa è imprecisa:
• tiene conto solo dei delitti colposi d’evento, non considerando quelli di mera
condotta;
• in merito ai reati di evento, ciò che non deve essere voluto non è
necessariamente l’evento ma può essere anche soltanto un altro elemento
del fatto materiale tipico.
Requisito positivo. È costituito:
• dalla inosservanza di regole di condotta (o se si preferisce dalla
violazione di un dovere obiettivo di diligenza);
• dalla rimproverabilità della suddetta inosservanza al soggetto
agente, in base ad un giudizio “personalizzato”.

Violazione del dovere obiettivo di diligenza

Svolgere una attività richiede il rispetto di determinate regole precauzionali.


Scopo di queste regole è quello di prevenire ed evitare che venga arrecato un
pregiudizio ad interessi meritevoli di tutela o quanto meno di ridurre il rischio
entro margini tali da renderlo accettabile, ovvero consentito in base ai
parametri sociali di riferimento.
Un obbligo di astensione scatta laddove il soggetto non abbia le necessarie
competenze tecniche.
Le regole di diligenza ovvero “di esperienza” ovvero cautelari altro non sono
che la cristallizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel
tempo, definibile altrimenti come esperienza.
Prevedibilità ed evitabilità costituiscono il fulcro del concetto di colpa
giuridica.

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Colpa generica e colpa specifica

Le regole cautelari possono essere “non scritte”.


Colpa generica cristallizzazione del giudizio di prevedibilità ed evitabilità non
sancita in una disposizione ma che va desunta dall’esperienza della vita sociale
nel settore di riferimento.
L’art. 43 ne fa riferimento parlando della negligenza, imprudenza ed
imperizia.
• Negligenza: trascuratezza in rapporto ad una regola di condotta che
prescrive di attivarsi in qualche modo non ci si attiva nel modo richiesto
• Imprudenza: quando la regola cautelare richiede di astenersi dall’agire,
ovvero di agire osservando determinati accorgimenti, mentre in realtà il
soggetto agisce senza le debite cautele non si seguono le cautele
• Imperizia: racchiude in sé negligenza e imprudenza, ma con riguardo
ad attività c.d. “qualificate”, che richiedono cioè particolari cognizioni
tecnico-professionali si agisce senza requisiti professionali richiesti.

Colpa specifica In altri casi invece la regola cautelare è anche stata


cristallizzata in un precetto normativo: è basata sulla inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini e discipline.
• Leggi: sia le leggi in senso formale sia gli atti equiparati.
• Regolamenti: sono gli atti amministrativi aventi carattere normativo.
• Ordini: sono invece prescrizioni più specifiche, rivolte ad un destinatario
pre-individuato o ad una serie di soggetti determinati.
• Discipline: rappresentano norme generali, emanate sia da autorità
pubbliche che private, dirette a regolamentare l’esercizio di date attività,
per lo più all’interno di una certa struttura.

Giudizio di rimproverabilità ed evitabilità: la “misura oggettiva” della


colpa

Vi sono due modalità:


1. le regole di condotta devono essere individuate mediante il criterio
oggettivo della prevedibilità ed evitabilità secondo la miglior scienza ed
esperienza del momento storico;
2. “homo eiusdem professionis et condicionis”: astratta figura di un agente
modello, esperto ed accorto, che si ipotizza svolga quella stessa attività.

La regola cautelare oggettiva consente di individuare le stesse condotte


“colpose”: si può qualificare, infatti, una certa condotta come colposa,
ogniqualvolta essa non rispetti la regola precauzionale.
La colpa dunque attiene direttamente alla tipicità del reato ed il
giudizio di prevedibilità/evitabilità serve a forgiare la struttura ed il
contenuto del comando o del divieto penale.

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La rimproverabilità del fatto a titolo di colpa: la “misura soggettiva”
della colpa

La regola cautelare va ricostruita con rigore, per pretendere un rispetto


assoluto da parte dei consociati.
Nel momento in cui quel dovere di diligenza è stato violato, è altrettanto
naturale rivolgere l’attenzione all’agenteconcreto, per stabilire se fosse
effettivamente in grado di uniformarsi a quel rigoroso standard oggettivo.
Fino a che punto deve essere personalizzato un rimprovero di colpa?
Possono essere utilizzate due metodologie:
1. ricavare pluralità di figure di agenti-modello più specifiche ed analitiche, che
si prestino a meglio valorizzare caratteristiche peculiari del soggetto agente;
2. valorizzare determinate caratteristiche fisiche o intellettuali, in modo da non
elevare un rimprovero penale a chi abbia violato una regola cautelare di
fatto inesigibile a causa di limiti di quello stesso soggetto, al medesimo non
imputabili.

Il contenuto della regola cautelare

Può imporre addirittura comportamenti astensivi.


Si distingue:
1. Regole cautelari proprie: basate su di un giudizio di prevedibilità
dell’evento e di evitabilità del medesimo con probabilità confinante con la
certezza se vengono seguite non si verifica certamente o quasi certamente
l’evento
2. Regole cautelari improprie: a fronte della prevedibilità dell’evento,
impongono di adottare precauzioni che non garantiscono un azzeramento
del rischio ma solo una riduzione se seguite c’è una riduzione di possibilità
che si verifichi.
Laddove, per l’adempimento di particolari obblighi giuridici, un soggetto debba
od intenda avvalersi dell’operato d’altri (c.d. delega di funzioni) egli dovrà
scegliere persone idonee e svolgere un idoneo controllo.
Altrimenti sarebbe soggetto:
• culpa in eligendo (nello scegliere)
• culpa in vigilando (nel vigilare)

Il comportamento alternativo lecito e lo scopo di protezione della


regola cautelare violate

In sede di accertamento di condotta indiziata di colpa, si effettua la verifica


del comportamento alternativo
lecito: qualora il soggetto si fosse comportato in maniera osservante della
regola cautelare, l’evento stesso si sarebbe verificato oppure no?

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Per ascrivere l’evento cagionato a titolo di colpa al soggetto attivo non basta la
sussistenza del nesso causale ma è necessario che il comportamento
alternativo lecito sia idoneo ad evitare l’evento dannoso.
La responsabilità colposa va esclusa soltanto se, in base ad un giudizio
ipotetico, si possa dire con certezza (o con probabilità confinante con la
certezza) che l’evento non si sarebbe comunque evitato.

Principio dell’affidamento

Il problema è quello di stabilire se, e fino a che punto, il destinatario di


una norma cautelare/obbligo di diligenza possa “fare affidamento” sul
fatto che altri soggetti, con i quali interagisce, si comportino in
maniera osservante delle regole cautelari.
Non si può prescindere da una considerazione del contenuto e dei limiti degli
specifici obblighi di cautela, legati alle peculiarità dei singoli casi concreti,
anche se dalla elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sono ricavabili
alcune indicazioni di ordine generale (esempio nella attività medica svolta in
equipe in cui il principio trova piena applicazione).

Colpa propria e colpa impropria

Quando l’agente risponde a titolo di colpa, pur avendo voluto l’evento


del reato:
1. Errore colposo sul fatto del reato (art. 47 comma 1) L'errore sul fatto
che costituisce il reato esclude la punibilita' dell'agente. Nondimeno, se si
tratta di errore determinato da colpa, la punibilita' non e' esclusa, quando
il fatto e' preveduto dalla legge come delitto colposo.
2. Eccesso colposo nelle cause di giustificazione (art. 55) quando nel
commettere alcuni dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54 si
eccedano colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine
dell'autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come
delitto colposo
3. Erronea supposizione colposa in una causa di giustificazione, in realtà
inesistente (art. 59 ult. co.) se l’agente ritiene per errore esistenti cause
di giustificazione, queste sono sempre valutate a suo favore. Tuttavia, se
l’errore in cui versa l’agente è determinato da colpa, la punibilità non è
esclusa quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.
In questi casi ricorre l’elemento negativo che funge da presupposto della
colpa, dato dall’assenza di volontà (di almeno un elemento) del fatto (e non
dell’evento: impropria dunque la definizione di delitto colposo che si legge ex
art. 43).

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Il soggetto vuole l’evento ma si rappresenta/vuole un fatto diverso
rispetto al fatto tipico.
Si ha un vero e proprio delitto colposo e non un delitto doloso equiparato al
corrispondente modello colposo soltanto quoad poenam (quanto alla pena); al
soggetto agente si rimprovera non la volizione dell’evento, bensì di aver agito
con leggerezza.
Esempio: gioielliere che si difende sparando ad un cliente che stava soltanto
tirando fuori un cellulare dalla tasca.

Colpa cosciente (con previsione) e colpa incosciente

La colpa incosciente (la forma più frequente) si ha quando l’evento non solo
non è voluto ma nemmeno previsto dall’agente.
La colpa cosciente (con previsione) si ha quando l’agente non voglia
commettere il reato, ovvero realizzare l’evento, ma tuttavia lo “rappresenta” e
lo prevede come possibile conseguenza della sua condotta.
La colpa cosciente è una circostanza aggravante comune ex art. 61 nr.
3 (“Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze
aggravanti speciali….”).
La colpa con previsione pone delicati problemi applicativi in considerazione del
dolo eventuale.

Il “grado” della colpa

Art. 133 il giudice, nel procedere alla commisurazione della pena, deve tener
conto fra l’altro della gravità del reato, desunta da una pluralità di indici,
tra i quali vi è il “grado della colpa”:
• si tratta di stabilire quanto la condotta imprudente, negligente o imperita
diverga da quella osservante la regola cautelare;
• tenere presenti le cause soggettive per le quali l’agente in concreto non
ha rispettato il dovere oggettivo di diligenza;
• effettivo atteggiamento psicologico dell’agente (eventuale previsione
appunto).

Capitolo 4

La preterintenzione e la responsabilità oggettiva

L’omicidio preterintenzionale è la tipica ipotesi di responsabilità oggettiva


prevista dall’Ordinamento penale che espressamente stabilisce che in casi
eccezionali (e tassativamente indicati), il soggetto è chiamato a rispondere dei

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risultati della proprie azioni e ciò anche se di fatto non possono essergli mosse
contestazioni in ordine agli stessi, neppure di semplice leggerezza.

La responsabilità oggettiva ed il principio costituzionale di


colpevolezza

L’art. 27 Cost. sancisce il principio della colpevolezza.


La Corte Costituzionale ha affermato che debba sussistere quanto meno la
colpa in rapporto agli elementi più significativi della fattispecie tipica (sent. 364
del 1988). Nullun crimen sine culpa.
La responsabilità oggettiva, senza né dolo né colpa, è per sua natura
antitetica rispetto alla responsabilità colpevole (che presuppone il
dolo o quantomeno la colpa).
La Corte non ha reso inapplicabile ogni forma di responsabilità oggettiva, ma
ha effettuato una distinzione:
• responsabilità oggettiva pura o propria;
• responsabilità oggettiva spuria o impropria (può convivere con il principio di
colpevolezza).
Con la sentenza 1085 del 1988, in tema di furto d’uso, la Corte ha preso una
posizione più netta contro la responsabilità oggettiva.
Ha affermato che “chi si pone in una situazione di illiceità deve
rispondere anche delle conseguenze casuali della propria condotta”
contrasta con l’art. 27 comma 1 Cost. (Perché l'art. 27, primo comma, Cost, sia
pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale,
e indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a
contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati
all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed e altresì
indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso
agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati.)
La responsabilità penale deve essere autenticamente personale, per
tanto risulta indispensabile che:
• tutti e ciascuno degli elementi, che concorrono a contrassegnare il disvalore
della fattispecie, siano soggettivamente collegati all’agente (investiti di dolo
o colpa);
• tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili
e soggettivamente disapprovati.

La preterintenzione

Il codice ex art. 43 afferma che il delitto “è preterintenzionale, o oltre


l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento
dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.

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Nell’impianto del codice penale, la responsabilità preterintenzionale
rappresenta una figura a sé, distinta dalle altre responsabilità per
dolo, colpa e oggettiva;
Il dolo è presente ma viene a mancare solo rispetto all’evento
ulteriore causato ma non voluto.
La struttura del delitto preterintenzionale si caratterizza per un dolo
misto a colpa:
1. volontà di un fatto-base “minore”;
2. mancanza di volontà dell’evento ulteriore, ma tale evento sia prevedibile ed
evitabile in concreto.

Delitti aggravati dall’evento e circostanze aggravanti

Si intendono i delitti per i quali è previsto un aumento di pena,


qualora si verifichi un evento ulteriore rispetto ad un fatto-base, che
già di per sé costituisce reato.
Si distinguono le seguenti ipotesi:
1. è indifferente che l’evento aggravante sia voluto o non voluto dall’agente
(es. Calunnia di un soggetto innocente, per cui chi calunnia risponde di
aggravante se l’innocente dovesse essere inizialmente condannato ad una
pena superiore)
2. l’evento aggravante non deve essere voluto dal soggetto agente
(maltrattamenti in famiglia e morte del familiare).
In generale tutte le ipotesi di delitti aggravati dall’evento sono state
considerate come la maggiore e la più tipica applicazione della
responsabilità oggettiva, in quanto l’evento aggravante viene posto a carico
dell’agente previa verifica del mero nesso di causalità materiale e sulla base
del già ricordato principio del versari in re illicita.
Le ipotesi sub b. presentano evidenti analogie di struttura con lo schema del
delitto preterintenzionale.
La riforma del codice è avvenuta nel 1990 con la L. 19: “le circostanze che
aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da
lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per
errore determinato da colpa.”
Ha eliminato la regola generale dell’imputazione per mera responsabilità
oggettiva delle circostanze aggravanti,sostituendovi l’imputazione per colpa :
l’evento aggravante è qualificato come circostanza del reato, anziché quale
evento di un’autonoma fattispecie lato sensu preterintenzionale.

Aberratio ictusdivergenza tra fatto voluto e fatto realizzato

Aberratio ictus monolesiva


Art. 82 c.p. (Offesa di persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta):
“Quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per

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altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale
l’offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il
reato in danno della persona che voleva offendere, salve, per quanto
riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni
dell’articolo 60”. Divergenza tra ciò che il soggetto attivo ha voluto e ciò che
ha effettivamente realizzato: rileva il fatto che si è rappresentato e che ha
posto in essere, non l’identità della vittima. Alcuni autori affermano che qui
ricorra una fictio iuris.
Es. Tizio vuole uccidere Caio, ma sparando colpisce Sempronio perché sbaglia
mira o perché Caio si scansa. Viene valutata la circostanza dell’intenzione
realizzata di uccidere un uomo e non ha peso l’identità della vittima.

Aberratio ictus plurilesivaoltre a danneggiare la persona/cosa voluta, si


commette un’altra offesa a persona/cosa non voluta
Art. 82 comma 2: “qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche
quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena
stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà”.
In questo caso l’offesa arrecata e voluta determina responsabilità a titolo di
dolo; invece l’offesa arrecata al soggetto diverso rispetto alla vittima designata
sarebbe imputata all’agente a titolo di responsabilità oggettiva.
La colpa è, in via interpretativa, da ritenere necessaria ai fini di una
imputazione conforme al principio di colpevolezza dell’offesa cagionata alla
persona diversa, non necessitando una declaratoria di incostituzionalità.

Aberratio delictie morte come conseguenza di altro delitto

Art. 83 comma 1: “fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, se,


per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra
causa si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole
risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo”.
È una ipotesi di divergenza tra il voluto ed il realizzato, che ha in comune con
l’aberratio ictus il c.d. errore-inabilità ma che ne diverge in quanto non
riguarda la persona offesa e, in definitiva, il tipo di reato posto in essere .
La disciplina legale è nel senso che il soggetto agente deve rispondere del
diverso reato realizzato, e non voluto, sempre che tale fatto sia previsto dalla
legge come reato colposo. Il fatto causato viene appunto punito come se fosse
colposo.
Art. 83 comma 2: “se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto, si
applicano le regole del concorso di reati”. La disciplina della aberratio
propone il tema della presenza o meno della responsabilità oggettiva e della
sua corrispondenza con il principio di colpevolezza.

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Art. 586 (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto): “quando
da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza
non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si
applicano le disposizioni dell’art. 83 ma le pene negli articoli 589 e
590 sono aumentate”.
Anche qui una interpretazione conforme al principio della colpevolezza non può
prescindere dalla verifica della colpa, e nella specie della prevedibilità in
concreto dell’evento ulteriore. Es. lo spacciatore che vende droga al cliente che
muore per l’assunzione. Lo spacciatore risponde di cessione di sostanza
stupefacente e se poteva prevedere l’evento ulteriore anche di omicidio
colposo aggravato.

Reati a mezzo stampa

Art. 57: “salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori


dei casi di concorso, il direttore o vice-direttore responsabile, il quale
omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il
controllo necessario ad impedire che, con il mezzo della
pubblicazione, siano commessi dei reati è punito, a titolo di colpa, se
un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in
misura non eccedente ad una terzo”.
L’opinione prevalente ritiene necessario che il soggetto abbia violato con vera
e propria colpa i doveri di controllo che gli competono e, che a causa di tale
negligente omissione, egli abbia impedito la commissione di un reato con il
mezzo della pubblicazione.
Il sistema tende ad una tendenziale imputazione almeno per colpa.

La scusabilità dell’ignoranza inevitabile della legge penale. Rinvio

La svolta storica in tema di colpevolezza è stata segnata dalla sentenza n. 364


del 1988, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 5 c.p., laddove non esclude l’inescusabilità
dell’ignoranza della legge penale i casi di ignoranza inevitabile e
quindi incolpevole.

Le condizioni obiettive di punibilità. cenni e rinvio.

Sono una categoria dogmatica molto controversa.


Art. 44 “quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi
di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento
da cui dipende il verificarsi della condizione è da lui non voluto”.

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Vi è la difficoltà in alcune fattispecie di considerare un certo elemento evento-
condizione di punibilità o evento vero e proprio del reato:
• l’evento vero e proprio soggiace alle regole consuete in materia di
imputazione soggettiva (per dolo o colpa);
• l’evento/condizioni di punibilità determina, con il suo realizzarsi, la punibilità
del fatto a prescindere dalla sussistenza di un legame soggettivo tra la
condizione stessa ed il soggetto agente.

Le condizioni obiettive di punibilità si distinguono in:


• estrinseche;
• intrinseche, attinenti al profilo offensivo dell’illecito, da alcuni ritenute
ipotesi di responsabilità oggettiva non compatibili con il principio di
colpevolezza;

La mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore della cosa


sottratta nel furto d’uso

Un’ipotesi di responsabilità oggettiva è stata ravvisata dalla Corte


Costituzionale nella norma che incrimina il furto d’uso (sanzionato meno
gravemente del furto comune).
L’art 626 comma 1 nr. 1 prevede il fatto di chi si impossessa della cosa mobile
altrui sottraendola a chi la detiene “al solo scopo di farne un uso momentaneo”
e “questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.
Di fatto la Corte ha equiparato alla volontaria restituzione della cosa mobile
altrui la mancata restituzione dovuta al caso fortuito o alla forza maggiore: è
punita in maniera più favorevole (Es. Tizio si impossessa dell’auto di Caio per
fare un giro con l’intento di restituirla, ma poco prima di restituirla è fermato
dalla polizia. Se Tizio vuole restituire la macchina allora la sua volontaria
restituzione è equiparata alla mancata restituzione per caso fortuito o forza
maggiore).

Responsabilità oggettiva e concorso di persone nel reato: rinvio

Anche alcune norme di parte generale in tema di concorso di persone nel reato
debbono essere tenute in considerazione nella prospettiva del tema della
responsabilità oggettiva.
Art. 116 (responsabilità del concorrente per reato diverso e più grave
di quello voluto): è intervenuta una sentenza della Corte Costituzionale nr. 42
del 1965.
Art. 117 un soggetto (c.d. extraneus) può rispondere di un reato diverso e più
grave di quello da lui voluto in dipendenza di una qualifica soggettiva del
soggetto intreaneus, a lui sconosciuta.

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La “rilettura” delle ipotesi di responsabilità oggettiva come ipotesi di
responsabilità colpevole

La rilettura del varie ipotesi di responsabilità oggettiva per ricondurle nell’alveo


della responsabilità colpevole potrebbe determinare una sproporzione tra
misura della pena e grado della colpevolezza, sollevando problemi
costituzionali in materia di uguaglianza e pari trattamento ex art. 3 Cost.
Inoltre una mera reinterpretazione costituzionalmente orientata comporterebbe
il rischio che la giurisprudenza o parte di essa non sempre possa percorrere
tale via interpretativa, rimanendo da un lato ancorata a schemi di
responsabilità oggettiva, spesso mascherati dal concetto di colpa presunta, e
dall’altro rischiando il proliferarsi di sentenze contraddittorie e di conseguente
perdita di certezza del diritto.

L’ignoranza dell’età della persona offesa nei reati sessuali

La riforma dei reati sessuali del 1996, ha posto in evidenza l’art. 609 sexies: si
esclude la possibilità di invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età
della persona offesa. Il legislatore ha riconfermato (l’art. 539 a suo tempo
abrogato) una norma palesemente incostituzionale per violazione del principio
di colpevolezza. Esempio: caso limite di un diciottenne che ha rapporti con una
tredicenne consenziente non si è scusati se si commettono abusi su minori
danni 14, anche se consenzienti e ignorando l’età per propria colpa. La norma
comunque, quantomeno nella parte in cui non scusa il soggetto indotto in
errore dal minore, è incostituzionale ma ancora la Corte non si è pronunciata.

Capitolo 5

L’errore sul precetto

Nell’impianto originale del codice Rocco, il principio “ignorantia legis non


excusat” non ammetteva deroghe.
La giurisprudenza aveva elaborato autonomamente la teoria della c.d. buona
fede, derogando in alcuni casi al severo art. 5.

Intervento della Corte Costituzionale


Sentenza nr. 364 del 1988. Estensore: Renato dell’Andro. Parziale
incostituzionalità dell’art. 5 c.p.
Si introduce “salvo che si tratti di ignoranza inevitabile”.
Il cittadino, che si trovi in condizioni di ignoranza inevitabile, non può
essere rimproverabile poiché la mancata e accertata conoscibilità del
precetto non ha permesso al precetto stesso di svolgere

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quell’efficacia motivante del comportamento che il precetto stesso
dovrebbe avere.

I criteri di scusabilità dell’ignoranza


Sono stati delineati direttamente dalla Corte a motivazione della sentenza.
1. mala quia vetita, ovvero quei reati di creazione legislativa (reati
ambientali, fiscali, reati omissivi puri), non i mala in séovvero delitti
naturali;
2. restano validi i parametri creati dalla giurisprudenza con il criterio della c.d.
buona fede nelle contravvenzioni ed in certi delitti;
3. precedenti assoluzioni per il medesimo fatto o atteggiamento
estremamente caotico degli organi giudiziari;
4. scarsa socializzazione del singolo.
Nell’ambito dei reati omissivi, in caso di dubbio, ancorché circostanziato, si
costringerebbe sostanzialmente i cittadini ad agire pur nell’incertezza della
sussistenza dell’obbligo, il che sembrerebbe imporre un peso troppo grande
alla libertà dei cittadini. In questo ambito parte della dottrina ritiene che,
anche in caso di dubbio, l’errore possa essere ritenuto inevitabile.

Capitolo 6

L’imputabilità

L’imputabilità nella sistematica del codice penale


Art. 85 c.p.Capacità di intendere e di volere: “Nessuno può essere
punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento
in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha
capacità di intendere e di volere.”
Il concetto di imputabilità viene ricostruito in modo differente dalla dottrina che
intende la colpevolezza non in senso psicologico, bensì normativo, quale
rimproverabilità giuridico-penale.
In quest’ottica, l’imputabilità è più di una mera qualifica soggettiva del reo
(punibile in quanto imputabile); essa rappresenta infatti la condizione
dell’autore che rende possibile la rimproverabilità del suo fatto. In altri
termini l’imputabilità è “capacità di colpevolezza” non essendovi
colpevolezza senza imputabilità.
In difetto di imputabilità non c’è neppure reato.

La capacità di intendere e la capacità di volere


Ex art. 85basta l’assenza o di intendere o di volere per non ammettere
imputabilità.
Capacità di intendere: idoneità del soggetto a rendersi conto del significato
sociale della propria condotta.

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Capacità di volere: attitudine della persona a determinarsi in materia
autonoma, in conformità del proprio giudizio.
Il codice contiene delle disposizioni quali cause di esclusione o di
diminuzione dell’imputabilità.

Imputabilità e soggetti minorenni


Art. 97: “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.
È una presunzione assoluta, motivata da immaturità psichica
dell’infraquattordicenne.
Tra i quattordici e i diciotto si tratta di accertare in caso concreto la presenza
della capacità suddetta. Qualora sia imputabile è prevista una diminuzione di
pena.

Vizio totale di mente


L’imputabilità è esclusa in presenza di vizio totale di mente (art. 88).
Se il vizio è parziale l’imputabilità è diminuita.
• accertare una infermità
• esistenza della stessa al tempus commissi delicti
Se si intende l’imputabilità come presupposto o comunque come un elemento
della colpevolezza e segnatamente se si muove da un concetto normativo di
colpevolezza-rimproverabilità, sembra necessario rapportare tutti gli elementi
della colpevolezza al fatto di reato di volta in volta concretamente realizzato e
dunque anche l’imputabilità: ad una più ampia nozione di colpevolezza del
fatto, si deve accompagnare anche un’imputabilità per il fatto, ossia affermata
come sussistente, o negata, a seconda che vi sia o meno la “capacità di
intendere e di volere” in rapporto al singolo fatto di reato.
Concetto della c.d. imputabilità settoriale, che può essere affermata in
relazione ad un determinato fatto e negata in rapporto ad altro e diverso fatto.
Concetto della c.d. divisibilità della capacità di intendere e di volere: non
solo la capacità di intendere e volere deve essere presente nel soggetto al
momento del fatto ma lo deve essere anche con riferimento al singolo fatto
concreto posto in essere.
Rapporto eziologico tra causa del vizio di mente e fatto realizzato: quando la
malattia colpisce soltanto un settore della personalità psichica dell’individuo,
lasciando inalterati tutti gli altri, l’imputabilità è esclusa quando l’atto
criminoso rappresenti la conseguenza dell’anomalia.
Non sarebbe dunque esclusa quando il delitto venga compiuto in un campo del
tutto diverso a quello che interessa il settore psichico alterato.
Ex lege sono irrilevanti nella prospettiva delle valutazioni di esclusione o di
riduzione dell’imputabilità i c.d. stati emotivi o passionali (art. 90): essi
potranno avere rilevanza nella commisurazione della pena in senso stretto.

Ubriachezza (criteri severi)

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Art. 91 Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore:
“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non
aveva la capacità di intendere e volere, a cagione di piena ubriachezza
derivata da caso fortuito o forza maggiore.”
È prevista una mera diminuzione della pena, invece, “se l’ubriachezza non era
piena, ma era tale tuttavia da scemare grandemente, senza esclusione, la
capacità di intendere e di volere (art. 91). Si parla di ubriachezza accidentale o
incolpevole.
Art. 92 comma 1 “l’ubriachezza non derivata da caso fortuito o forza
maggiore non esclude né diminuisce l’imputabilità”, sia essa
volontaria o colposa.
Nel caso in cui sia preordinata alla commissione del reato, ovvero ubriachezza
preordinata, questa comporta un inasprimento della pena.
L’ubriachezza può essere abituale, nel caso in cui il soggetto sia dedito al
consumo di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza: vi è un
inasprimento della pena.
L’intossicazione cronica da alcool comporta una alterazione mentale pressoché
irreversibile, tale da rendere il soggetto alcolizzato un vero e proprio malato di
mente, rinvio all’artt. 88 e 89, per cui si rinvia all’esclusione di imputabilità per
vizio totale o parziale di mente.

L’azione di sostanze stupefacenti


La disciplina è la stessa in tema di ubriachezza per ciò che attiene
all’imputabilità dell’autore. Il tossicomane è considerato alla pari di un
alcolizzato abituale. L’intossicato cronico è valutato in relazione alle norme sul
vizio di mente.

Il sordomutismo
Art. 96 “non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il
fatto, non aveva per causa della sua infermità la capacità di intendere e di
volere.
La legge non prevede alcuna presunzione di inferiorità psichica del sordomuto:
la capacità di intendere e di volere va verificata in concreto, caso per caso.
Oggi si parla letteralmente di sordo.

La volontaria determinazione dello stato di incapacità di intendere e


di volere, allo scopo di commettere un reato

Art. 86 “Se taluno mette altri nello stato di incapacità di intendere e di


volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla
persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di
incapacità”.
Art. 87 (Stato preordinato d’incapacità di intendere e di volere).

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Si tratta di una ipotesi della c.d. actio libera in causa. Il fatto è realizzato in uno
stato di non imputabilità, ma si considera ugualmente punibile, perché l’agente
con una sua libera scelta si è posto nell’incapacità di intendere e di volere,
innescando così il meccanismo causale che sfocia nel reato (obiettivo
perseguito dal soggetto fin dal momento in cui si è posto in stato di piena
incapacità).

Articolario importante
Art. 91 - Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore
Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la
capacità d'intendere o di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da
caso fortuito o da forza maggiore.
Se l'ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente,
senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, la pena è diminuita.
Art. 92 - Ubriachezza volontaria o colposa ovvero preordinata
L'ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude
ne diminuisce l'imputabilità.
Se l'ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di
prepararsi una scusa, la pena è aumentata.
Art. 93 - Fatto commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti
Le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche quando il fatto
è stato commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti.
Art. 94 - Ubriachezza abituale
Quando il reato è commesso in stato di ubriachezza, e questa è abituale, la
pena è aumentata.
Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito
all'uso di bevande alcooliche e in stato frequente di ubriachezza.
L'aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo articolo si applica
anche quando il reato è commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti da
chi è dedito all'uso di tali sostanze.
Art. 95 - Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti
Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero
da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88
e 89.
Art. 96 – Sordomutismo
Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto,
non aveva, per causa della sua infermità la capacità d'intendere o di volere.
Se la capacità d'intendere o di volere era grandemente scemata, ma non
esclusa, la pena è diminuita.

Capitolo 7

Le altre cause di esclusione della colpevolezza

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Le altre cause di esclusione della colpevolezza, o scusanti, rappresentano
fattori in presenza dei quali l’ordinamento si astiene dal muovere un
rimprovero giuridico-penale all’autore dell’illecito: quel reato non si
configura per difetto di colpevolezza.
Il fondamento ruota intorno al concetto di inesigibilità: l’autore è scusato
perché la legge non considera esigibile l’osservanza del precetto.
Le scusanti rappresentano un numero chiuso e non sono suscettibili di
applicazione analogica.
Oltre a:
• errore inevitabile sul precetto penale;
• difetto di imputabilità.
Ci sono:
1. costringimento psichico;
2. ordine criminoso insindacabile;
3. provocazione in rapporto ai delitti di ingiuria e di diffamazione.

• Il costringimento psichico è previsto dall’art. 54 comma 3, secondo


cui: “la disposizione della prima parte di questo articolo (ovvero
punibilità non derivante da stato di necessità) si applica anche se
lo stato di necessità è determinato da altrui minaccia”.
Per quanto lo stato di necessità appaia quale causa di giustificazione, la non
punibilità in caso di costringimento psichico è stata interpretata da una
parte della dottrina più recente quale causa scusante.
Si deve immaginare una minaccia tale da non annullare del tutto la volontà
della vittima, ma da lasciare un margine di scelta. La nozione di scusante può
essere ritenuta fondamento della non punibilità di chi sia stato costretto da
terzi a porre in essere un fatto di reato in presenza di determinate condizioni,
dinnanzi alle quali la legge reputa inesigibile, per quanto astrattamente
possibile, resistere alla costrizione, tenuto conto della alterazione del processo
motivazionale del soggetto agente.
• Il c.d. ordine criminoso insindacabile è una scusante individuata ex
art. 51 comma 4.
• La provocazione in rapporto ai delitti di ingiuria e diffamazione -
Art. 599 comma 2 “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti
ex artt. 594 e 595 nello stato d’ira determinato da un fatto
ingiusto altrui e subito dopo di esso”.

Parte Quarta

Forme di manifestazione del reato

Capitolo 1

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Le forme di manifestazione del reato: premessa

Le manifestazioni del reato si sostanziano nelle figure delle:


• circostanze del reato;
• tentativo;
• concorso di persone.

Capitolo 2

Le circostanze del reato

Nozione di circostanza
Non vi è una definizione codicistica: il codice contiene una serie di
disposizioni di parte generale (artt. 59 e ss) che dettano una analitica disciplina
in materia di circostanze del reato.
La circostanza è un elemento accessorio, rispetto al reato compiuto in
tutti i suoi elementi essenziali.
Gli elementi costitutivi sono necessari ed indispensabili per la realizzazione
del reato.
Le circostanze rappresentano elementi accidentali ed eventuali. Se ricorrono il
reato assume quella particolare forma di manifestazione che va sotto il nome di
reato circostanziato.
La loro caratteristica fondamentale si coglie sul piano degli effetti giuridici:
incidono in maniera qualitativa e quantitativa sulla pena edittale,
comportandone una modificazione attenuante o aggravante.

La ratio delle circostanze


La previsione legale mira a consentire di adeguare la pena all’effettivo
disvalore del fatto concreto, valutato anche in rapporto alle caratteristiche
soggettive del reo e ad un contesto più ampio, che può tenere conto di vari
fattori anche estranei al fatto di reato in senso stretto, vuoi antecedenti, vuoi
concomitanti, vuoi successivi.
Tale esigenza di adeguamento della risposta sanzionatoria deve comunque
passare, in un sistema improntato al principio di legalità, attraverso apposite
previsioni normative determinanti le situazioni ed i fattori “accessori”, capaci di
incidere sulla pena edittale, così incanalando e circoscrivendo il potere
discrezionale del giudice.

I criteri di identificazione delle circostanze


Le circostanze estrinseche sono facilmente individuabili in quanto
sono basate su fatti successivi ed eventuali del reato stesso.
Le circostanze devono porsi necessariamente in rapporto di specie a genere
rispetto alla fattispecie tipo.

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Detto rapporto di specialità è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini
della individuazione di una circostanza, giacché una figura autonoma di reato
può risultare speciale rispetto ad un’altra, proprio in virtù della specialità di un
suo elemento essenziale.
Manca un vero criterio risolutore e spesso distinguere tra elemento essenziale
e circostanza diventa un delicato problema interpretativo. La circostanza ha la
mera funzione di aggravare o di attenuare la pena edittale.
In particolare se un elemento è circostanza:
• va imputato al soggetto agente ex artt. 59 e 60 c.p.;
• è oggetto del giudizio di comparazione, con le circostanze di segno
opposto.

Delitti aggravati dall’evento


Qualora si riconosca all’evento aggravante la natura di circostanza, la disciplina
applicabile è quella dettata dagli artt. 59 e seguenti in tema di regole di
imputazione subiettiva, di “bilanciamento” con eventuali circostanze
attenuanti.

Le “circostanze”: precisazioni terminologiche


Possibili confusioni terminologiche:
• nell’art. 59 si fa anche menzione delle circostanze che escludono la
pena: sono vere e proprie cause di giustificazione e per tanto da tenere
distinte dalle circostanze del reato propriamente dette;
• circostanze improprie, ovvero indici ex art. 133 per la commisurazione
della pena in senso stretto, all’interno della cornice edittale; mentre per
commisurazione in senso ampio si intende la determinazione della pena
da infliggere nel caso concreto, anche alla luce delle circostanze del
reato;

La disciplina di imputazione delle circostanze (artt. 59 – 60)


Art. 59 comma 1 “le circostanze che attenuano la pena sono valutate a
favore dell’agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore
ritenute inesistenti”.
È il c.d. criterio obiettivo o operatività oggettiva.
Alcune circostanze sono strutturate in modo tale da richiedere
necessariamente un certo atteggiamento psicologico (circostanze c.d. di natura
soggettiva), come ad esempio l’attenuante per aver agito per motivi di
particolare valore morale o sociale.
L’art. 59 comma 2 prosegue dettando la regola secondo cui le circostanze
aggravanti sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui
conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore
determinato da colpa (riforma del 1990 perché vigeva il criterio
dell’operatività oggettiva).

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Si richiede in capo all’agente la previsione o quanto meno la prevedibilità
dell’aggravante: è stata eliminata una vasta area di responsabilità oggettiva.
Art. 59 comma 3 “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze
aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di
lui”: irrilevanza delle circostanze meramente putative, supposte ma non
esistenti.

L’errore sulla persona dell’offeso


Art. 60 comma 1 “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato,
non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che
riguardino le condizioni o le qualità della persona offesa o i rapporti
tra offeso e colpevole”. Es. se Tizio vuole uccidere Caio, sparandogli, ma
nell’oscurità sbaglia e colpisce il padre per errore, non gli si può imputare
l’aggravante del parricidio che comporta l’ergastolo.
Art. 60 comma 2 “qualora il soggetto abbia erroneamente supposto
l’esistenza di circostanze attenuanti concernenti le condizioni o
qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole, queste
sono valutate a favore del reo” (es. Tizio reagisce in stato d’ira alle
provocazioni di Caio, ma uccide Mevio, scambiandolo per Caio. Può beneficiare
dell’attenuante della provocazione).
Le disposizioni dei primi due commi non si applicano infine “se si tratta di
circostanze che riguardano l’età o altre condizioni o qualità, fisiche o
psichiche, della persona offesa”: per cui trova applicazione unicamente il
dettato ex art. 59.

L’applicazione delle circostanze.


Il concorso di circostanze.
Vi sono due tipi di concorso di circostanze:
• concorso omogeneo: presenza di due o più circostanze tutte dello stesso
segno o specie;
• concorso eterogeneo: presenza di una o più attenuanti e una o più
aggravanti.

Circostanze ad effetto comune e ad effetto speciale.


• circostanze ad effetto comune: quando la legge stabilisce la misura della
pena facendola dipendere da un calcolo frazionario (non oltre 1/3) operato
sulla pena-base del reato non circostanziato aggravano o attenuano di 1/3
• circostanze ad effetto speciale: quelle che importano un aumento od
una diminuzione della pena superiore ad 1/3 (art. 63 comma 3). Hanno una
disciplina sostanzialmente parificata a quella delle circostanze per le quali la
legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
Non vanno confuse con:
• circostanze comuni, quelle applicabili tendenzialmente a tutti i reati;

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• circostanze speciali, quelle previste in rapporto a uno o più reati
determinati.
Un collegamento comunque c’è:
• le circostanze comuni sono anche ad effetto comune;
• le circostanze speciali possono essere sia ad effetto comune che ad effetto
speciale o comportare una pena di specie diversa da quella del reato
semplice.
Art. 63 comma 1: “quando la legge dispone che la pena sia aumentata o
diminuita entro limiti determinati, l’aumento o la diminuzione si opera
sulla quantità di essa, che il giudice applicherebbe al colpevole,
qualora non concorresse la circostanza che le fa aumentare o
diminuire”. Quindi in un primo momento il giudice deve stabilire la pena
ritenuta congrua al caso, nei limiti della cornice edittale e in un secondo
momento considerare le circostanze, per cui si può verificare che uno riceva
una pena inferiore o superiore al limite edittale.

Primo momento di discrezionalità: stabilire la pena all’interno della cornice


edittale base.
Secondo momento di discrezionalità: considerare le eventuali circostanze.

Cumulo materiale
In caso di concorso omogeneo di più circostanze, “l’aumento o la diminuzione
di pena si opera sulla quantità di essa risultante dall’aumento o dalla
diminuzione precedente” (art. 63 c. 2).
In caso poi di concorso omogeneo tra circostanze a effetto comune e
circostanze che comportano una pena di specie diversa (c.d. pena autonoma),
ovvero di circostanze ad effetto speciale, il codice prevede la regola apposita:
“quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da
quella ordinaria del reato, o si tratta di circostanza ad effetto speciale,
l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena
ordinaria del reato ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta” (art. 63
c.3)

Cumulo giuridico
Se vi è concorso omogeneo ma le circostanze sono di specie diverse ovvero ad
effetto speciale, si applica soltanto:
• quella più grave tra le aggravanti;
• quella meno grave tra le attenuanti.

Il concorso eterogeneo di circostanze: i giudizi di prevalenza o di


equivalenza
Come risolvere il conflitto? La disciplina legale di questo “conflitto”
impone di soppesare e di bilanciare, mettendo a confronto
l’attenuante e l’aggravante.
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Si ottengono tre risultati:
1. Pareggio: “si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna
di dette circostanze” (art. 69 c.3);
2. Attenuanti (prevalgono): “non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti
per le aggravanti e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabiliti per
le circostanze attenuanti (giudizio di prevalenza, art. 69 c.2);
3. Aggravanti (prevalgono): “non si tiene conto delle diminuzioni di pena
stabilite per le circostanze attenuanti e si fa luogo soltanto agli aumenti di
pena stabiliti per le circostanze aggravanti (art. 69 c.1).

Gli artt. 61 e 62 dettano un catalogo di singole circostanze aggravanti


comuni (applicabili a qualsiasi reato) e circostanze attenuanti comuni.

Circostanze definite e circostanze indefinite


Definite: quando la legge ne descrive il contenuto, ovvero gli elementi oggetto
di valutazione positiva o negativa.
Indefinite: quando il contenuto del dato circostanziale non è precisato: in
questo caso il legislatore concede il massimo spazio alla discrezionalità del
giudice.
Le rare ipotesi di circostanze aggravanti indefinite sono considerate dalla
prevalente dottrina costituzionalmente illegittime, per violazione del principio
di determinatezza ex art. 25 comma 2 Cost.;
il problema invece si pone per le attenuanti indefinite, stante che il trattamento
che discende dall’applicazione di queste ultime è comunque più favorevole al
reo.

Le c.d. attenuanti generiche


Art. 62 bis: “il giudice indipendentemente dalle circostanze previste
nell’art. 62 può prendere in considerazione altre circostanze diverse,
qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
Sono considerate ai fini dell’applicazione di questo capo come una
sola circostanza la quale può anche concorrere con una o più delle
circostanze indicate nel predetto art. 62”.
Sono state introdotte nel 1944 e determinano la riduzione della pena fino ad
1/3. Sono delle circostanze indefinite, indeterminate nel contenuto che lasciano
al giudice ampia discrezionalità.
La prima norma del codice penale interessata dall'art. 1 della legge n.
251/2005 è l'art. 62 bis c.p. in tema di attenuanti generiche.
Viene inserito un nuovo comma con il quale viene operata una limitazione
nell'applicazione delle attenuanti generiche. In particolare nel caso in cui il
recidivo commetta altro delitto non colposo in relazione ai delitti indicati
nell'art. 407 comma 2 lett. a) del c.p.p., allorquando siano puniti con la pena
della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, non si terrà conto del

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criterio di cui al n. 3) del primo comma dell'art. 133 c.p e secondo comma,
avente ad oggetto l'intensità del dolo,grado della colpa e capacità a delinquere.
Va osservato che non tutti i reati indicati nell'art. 407 comma 2 lett. a) del
c.p.p. sono investiti dalla limitazione prevista dalla nuovo comma dell'art. 62
bis. Ne sono esclusi i delitti previsti dall'art. 291 ter del Testo Unico in materia
di repressione del contrabbando di t.l.e. puniti con una pena nel minimo di tre
anni di reclusione e l'ipotesi di partecipazione all'associazione anche se armata
punita nel minimo con quattro anni di reclusione. Ne consegue che per i delitti
previsti dal predetto Testo Unico la limitazione di cui al nuovo art. 62 bis è
limitata alle ipotesi di delitti commessi in forma associativa armata, ovvero se
commessi in forma associativa con l'uso di armi, con l'uso di mezzi di trasporto
alterati, con l'utilizzazione di società di persone o di capitali, ovvero di
disponibilità finanziarie costituite in Stati che non hanno aderito alla
Convenzione di Strasburgo dell'8/11/1990 ratificata con legge 9/8/1993 n. 328
in tema di repressione del riciclaggio o non hanno stipulato convenzioni di
assistenza con l'Italia avente ad oggetto il delitto di contrabbando .

La recidiva
È la ricaduta nel reato, definita dal codice ex art. 99 comma 1.
L'istituto della recidiva è completamente innovato dalla legge che ha sostituito
completamente l'articolo 99 c.p..
Con la nuova formulazione dell'art. 99 c.p. la recidiva è applicabile solo per
i delitti non colposi, laddove nella precedente formulazione la recidiva era
applicabile ai reati in genere.
Può evincersi dalla lettura della norma la distinzione tra:
Recidiva facoltativa, può essere:
• semplice;
• aggravata (nelle sua ipotesi tripartita al secondo comma);
• reiterata al IV comma. Il quinto comma fissa un aumento di pena nella
misura stabilita non inferiore ad un terzo.
Recidiva obbligatoria: impone l'aumento di pena per i delitti descritti nelle 8
ipotesi previste dall'art. 407 comma secondo lett a) del codice di rito.
Infine l'ultimo comma dell'art. 99 fissa il limite invalicabile all'aumento della
pena.

Art. 101 “agli effetti della legge penale, sono considerati reati della
stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione
di legge, ma anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizioni
diverse di questo codice, ovvero da leggi diverse, nondimeno per la
natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono
presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni”.

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La recidiva è reiterata “se il recidivo commette un altro reato” (art. 99
comma 4).
La recidiva è considerata dalla giurisprudenza come una circostanza
aggravante, soggetta quindi ai giudizi di prevalenza o di equivalenza fra
circostanze.

Non è più un istituto facoltativo, in seguito alla riforma del 1974, ma con la ex
Cirielli sono stati reintrodotti casi di obbligatorietà della applicazione
dell’incremento di pena:
1. per reati particolarmente gravi, quali quelli citati dall’art.407 cpp.
2. Incremento minimo per recidivi aggravati di un terzo della pena.

Recidiva:
L’articolo 99 c.p. prende in considerazione una delle circostanze legate alla
persona del colpevole. La norma prevede la cd. recidiva ovvero il fatto che il
reo “dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un
altro […]”.
Per la recidiva, il Codice prevede un aumento della pena in quanto tale
circostanza evidenzia un possibile nesso con concetto di capacità a delinquere
(art. 133 c.p.).
L’articolo 99 c.p. prevede tre ipotesi di recidiva:
1) semplice (art. 99 primo comma c.p.)quando, il reo, dopo una condanna
irrevocabile per un reato ne commette un altro. Il Codice prevede un
aumento di pena di 1/3 della sanzione da infliggere per il nuovo reato;
2) aggravata (art. 101 c.p.)quando il nuovo reato commesso dal reo è
della stessa indole di quello precedente (recidiva specifica), quando è
stato commesso entro cinque anni dalla condanna precedente
(infraquinquennale) o se è stato realizzato durante o dopo l’esecuzione
della pena o nel tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente
all’esecuzione della pena stessa. Il Codice prevede un aumento di pena
fino a un terzo e, aumento fino alla metà, se concorrono più circostanze;
ovviamente non devono essere violazioni della stessa fattispecie penale, ma è
sufficiente che abbiano caratteri fondamentali comuni.
3) reiterata (art. 99 quarto comma c.p.) quando il nuovo reato è commesso
da chi è già recidivo. In questi casi, l’Ordinamento, prevede l’applicazione di
un aumento della pena fino alla metà se si tratta di recidiva semplice o fino a
due terzi se si tratta di recidiva aggravata specifica o infraquienquennale e da
uno a due terzi se commesso durante o dopo l’esecuzione della pena o nel
tempo in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla giustizia.
Molte modifiche sono state apportate all’articolo 99 del codice penale. In
particolare, dopo la L. 251/2005 (cd. Legge ex Cirielli) si è introdotto
nell’Ordinamento una rigorosa risposta sanzionatoria a carico di chi ricade nel
crimine.

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Esiste poi una recidiva pluriaggravata, quando concorrono più elementi di
recidiva aggravata e si è puniti con aumento della pena della metà rispetto alla
sanzione ordinaria.

Capitolo 3

Il tentativo

Generalità: l’art. 56 c.p.


Art. 56 comma 1 “chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a
commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si
compie o l’evento non si verifica”.
Il soggetto agente vuole realizzare un delitto e pone in essere un
comportamento materiale a ciò finalizzato.
Quale è il confine tra il penalmente irrilevante e l’inizio di un tentativo
punibile?

L’inizio del tentativo punibile. Idoneità degli atti.


La mera ideazione, ovvero il concepimento del proposito di
commettere un reato, è di certo penalmente irrilevante, poiché non si
puniscono le intenzioni.
La fase ideativa deve essere seguita da una fase preparatoria ed una
esecutiva.
Il codice penale, ex art. 56, ha introdotto il riferimento alla idoneità ed alla
univocità degli atti.
Per idoneità degli attisi deve intendere innanzitutto un requisito di natura
oggettiva, il cui contenuto deve essere spiegato senza trascurare il fondamento
politico-criminale dell’incriminazione del tentativo: la ratio è quella di prevenire
l’esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato (c.d. teoria oggettiva).
• Gli atti idonei sono quelli dotati di una potenzialità lesiva: devono
essere comportamenti che abbiano una significativa potenzialità di
danno, ovvero una rilevante attitudine a conseguire l’obiettivo .
Il giudice deve ancorare il proprio giudizio ad una percezione e valutazione di
una figura astratta di uomo medio, calato nelle stesse circostanze di tempo e di
luogo in cui ha agito il soggetto in carne ed ossa, con integrazioni sulla base di
eventuali maggiori conoscenze dell’agente concreto.
La valutazione del giudice deve essere ex ante.

Univocità degli atti


Gli atti debbono essere idonei e “diretti in modo non equivoco a
commettere un delitto”.

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Secondo la teoria soggettiva, si avrebbe univocità quando in sede
processuale sia provato che gli atti concretamente realizzati sono stati sorretti
dal proposito criminoso di commettere il delitto progettato.
La teoria soggettiva, laddove sposta il ragionamento sul piano della mera prova
di atteggiamento psicologico, trascura il fatto che l’univocità rappresenta un
preciso requisito strutturale del delitto tentato.
Si preferisce la teoria oggettiva: non è sufficiente che gli atti siano idonei ma
occorre che essi presentino particolari connotazioni obiettive.
L’univocità degli atti ricorre quando gli atti stessi per sé soli rivelino
l’intenzione dell’agente; ovvero quando tale intenzione sia resa palese
dall’azione in sé e nel suo complesso, tenuto conto delle circostanze
di spazio e di tempo in cui si è svolta.
Si deve volgere lo sguardo a caratteristiche degli atti sganciate da uno stretto
collegamento con il dolo di fattispecie e semmai inserite in un contesto
soggettivo più ampio, quale può essere il piano criminoso del reo.
Non integrano gli estremi del tentativo, per difetto di univocità, comportamenti
(raccolta di informazioni, sopralluoghi, predisposizione di mezzi, rimozione di
ostacoli) che risultino logicamente e cronologicamente separati dalla fase finale
della condotta esecutiva.

Limiti di configurabilità del delitto tentato


Il delitto tentato è una fattispecie autonoma di reato, che scaturisce dalla
combinazione dell’art. 56 con la singola previsione, contenuta nella parte
speciale del c.p. o in altra legge, che contempla la corrispondente figura
consumata.
Il suddetto articolo esercita una funzione estensiva della sfera del penalmente
irrilevante, attraverso la criminalizzazione di fatti che non raggiungono il
momento della consumazione.
Limiti della configurabilità del tentativo:
1. solo i delitti e mai le contravvenzioni possono essere rilevanti quali
tentativi;
2. non si configura il tentativo per i delitti colposi;
3. non si configura per i delitti di attentato, poiché la semplice messa in
pericolo dell’interesse protetto determina il perfezionamento della
fattispecie (c.d. anticipazione della soglia penale);
4. non punibilità a titolo di delitto tentato dei reati di pericolo (si
punirebbe il pericolo di un pericolo);
5. non si configura per i delitti preterintenzionali (in essi deve mancare il
proposito di realizzare quell’evento più grave che ne segna la
perfezione);
6. non si configura per i reati unisussistenti (che si perfezionano con il
compimento di un solo atto) se non è perfezionato è penalmente
irrilevante;
7. per i reati omissivi proprinon si parla di tentativo.

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8. Per i reati omissivi impropriè pacifica la loro configurabilità in termini
di tentativo.

I reati omissivi propri si configurano al mancato compimento di un'azione


imposta dalla norma penale indipendentemente dal verificarsi o meno
dell'evento.
Nei reati omissivi impropri il soggetto non è punito per il mancato
compimento di un’azione, bensì perché dalla sua omissione è derivato un
evento che non avrebbe dovuto verificarsi; con tali reati, dunque, si viola
l’obbligo giuridico di impedire il verificarsi di un evento lesivo.

Tentativo e circostanze
Il semplice delitto tentato può assumere la forma di manifestazione
“circostanziata” allorquando le circostanze (non solo comuni ma
anche speciali) si siano compiutamente già realizzate a prescindere
dal fatto che il reato non sia giunto a consumazione (es. il tentato
omicidio può essere attenuato dalla provocazione e lo stato d’ira del soggetto
agente).
La circostanza dev’essere presente in tutti i suoi elementi strutturali e porsi
quale elemento accessorio rispetto al fatto del compimento di atti idonei diretti
in modo non equivoco a commettere un delitto.
La legge contempla il delitto tentato ma nulla dice in ordine a circostanze
“tentate”: per cui, qualora le circostanze non siano pienamente o affatto
compiute, non sono ammesse.

Delitto tentato e dolo. Il problema della compatibilità tra tentativo e


dolo eventuale
Il dolo del delitto tentato non differisce dal dolo del delitto
consumato, poiché l’agente vuole la fattispecie consumata non quella
tentata.
Viene valorizzata l’autonomia di struttura della fattispecie di tentativo rispetto
al corrispondente modello di reato consumato: autonomia di struttura che
poggia proprio sull’intenzione del reo di arrivare alla consumazione , il che
appare incompatibile con un atteggiamento di mera “accettazione del rischio”,
tipico del dolo eventuale.

La pena prevista per il tentativo


Art. 56 comma 3: il colpevole di delitto tentato è punito:
• con la reclusione non inferiore a 12 anni, se la pena stabilita è l’ergastolo;
• negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da 1/3 a 2/3.

Desistenza volontaria e recesso attivo

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Art. 56 comma 3 “Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione,
soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
costituiscano per sé un reato diverso”.
Art. 56 comma 4 “Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla
pena prevista per il delitto tentato, diminuita da 1/3 alla metà”.
(recesso attivo, pentimento operoso o ravvedimento operoso).

Il requisito della volontarietà non ha nulla a che fare con un effettivo


pentimento morale o con una valutazione positiva che l’ordinamento riserva ai
motivi in forza dei quali il soggetto si sia determinato a desistere o recedere
deve trattarsi du ina decisione autonoma e spontanea dell’agente.
Sia la desistenza che il recesso attivo presuppongono che vi sia un contesto
materiale e psicologico tale da far ritenere già integrato il delitto tentato.
Tentativo compiuto (delitto mancato): il soggetto ha realizzato tutti gli
estremi della condotta tipica, mancando solo l’evento (recesso attivo) . Es. Tizio
getta Caio nel fiume ma Caio sopravvive.
Tentativo incompiuto: il soggetto ha realizzato solo parte della condotta
tipica (desistenza volontaria).
La non punibilità del tentativo in caso di desistenza lascia intatta la penale
responsabilità, qualora gli atti già compiuti integrino di per sé un differente
reato ex art. 56 comma 3.

Il reato impossibile
Art. 49 comma 2La punibilità è esclusa “quando, per l’inidoneità
dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile
l’evento dannoso o pericoloso”.
Concezione realistica del reato
• dal punto di vista letterale l’art. 49 comma 2 parla di inidoneità
dell’azione, mentre nel tentativo l’idoneità ha per oggetto gli atti;
• dal punto di vista sistematico l’art. 49 ult. comma prevede in caso di
reato impossibile l’applicabilità di una misura di sicurezza;
Secondo la concezione realistica, la punibilità andrebbe esclusa, ex art 49
comma 2, non solo in caso di tentativo inidoneo, ma anche e più in generale
ogniqualvolta, pur essendosi realizzati integralmente gli elementi che
compongono la fattispecie criminosa (ovvero pur in presenza di un fatto tipico
giunto a consumazione), non sia in concreto riscontrabile una effettiva lesione
del bene giuridico protetto.
Tale teoria necessita una doppia verifica:
• presenza di un fatto tipico;
• concreta lesione/messa in pericolo del bene giuridico protetto.
Principio di necessaria lesività dell’illecito penale
L’art. 49 sul reato impossibile equivale alla disciplina del tentativo: dire che la
punibilità è esclusa quando è impossibile l’evento pericoloso o dannoso a causa

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dell’inidoneità dell’azione equivale a dire che un tentativo non è punibile se gli
atti realizzati non sono idonei.

Il reato putativo
Quando un soggetto agisce nella convinzione di commettere un reato,
mentre in realtà il suo comportamento è penalmente irrilevante.
Art. 49 comma 1 “non è punibile chi commette un fatto non costituente
reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”.
Rispetto dei principi di materialità e offensività.

Capitolo 4

Il concorso di persone nel reato

La fattispecie concorsuale
Art. 110 “quando più persone concorrono nel medesimo reato,
ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le
disposizioni degli articoli seguenti.”
L’art. 110 si combina di volta in volta con altre norme, creando una nuova ed
autonoma fattispecie tipica di reato concorsuale.
Si determina una estensione della sfera del penalmente rilevante, in quanto
questa nuova fattispecie concorsuale, come meglio si vedrà tra poco, consente
di ritenere punibili comportamenti che non potrebbero essere ricondotti alla
corrispondente fattispecie monosoggettiva.

Il modello unitario
È stato adottato dal legislatore per la disciplina del concorso di
persone nel reato: si prescinde dallo specifico ruolo rivestito da ciascuno dei
concorrenti, i quali soggiacciono indistintamente alla pena edittale
stabilita dalla fattispecie monosoggettiva di riferimento.
La differenza di ruolo e di apporto, psichico o materiale, può incidere sulla pena
da comminare a ciascun concorrente solo attraverso la commisurazione in
senso stretto (art. 133).
Il modello unitario comporta la necessità di rimettere in maniera ampia al
giudice il compito di definire i contorni della partecipazione penalmente
rilevante e di una verifica sul ruolo dei singoli concorrenti.
Art. 114 comma 1 “il giudice qualora ritenga che l’opera prestata da
taluna delle persone che sono concorse nel reato a norma degli art.
110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o
esecuzione del reato, può diminuire la pena”.

Fattispecie plurisoggettive necessarie ed eventuali


La nuova autonoma fattispecie che deriva rappresenta una fattispecie
plurisoggettiva eventuale, che consente di sanzionare come tipiche

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anche condotte che risulterebbero atipiche se rapportate alla forma di
incriminazione monosoggettiva.
L’attributo “eventuale” distingue le ipotesi che si fondano sulla combinazione
tra art. 110 e singola norma incriminatrice monosoggettiva dalle ipotesi che si
fondano sui reati c.d. a concorso necessario.
Si ha reato a concorso necessario quando, a prescindere dall’art. 110, la
singola fattispecie incriminatrice è strutturata in maniera tale da non potersi
configurare se non in presenza di una pluralità di soggetti.
Si distinguono in:
• fattispecie plurisoggettive necessarie proprie, tutte le persone
“necessarie” sono penalmente responsabili;
• fattispecie plurisoggettive necessarie improprie, si deve operare
una distinzione tra soggetti necessari punibili e soggetti necessari non
punibili.

Struttura della fattispecie di concorso di persone nel reato


I requisiti sono i seguenti:
1. 2 o più soggetti attivi;
2. realizzazione di un fatto di reato;
3. presenza di un contributo rilevante da parte di ciascuno;
4. elemento soggettivo minimo (almeno colpevolezza) in capo almeno ad uno
dei soggetti di cooperare con altri nella realizzazione di un reato.

Pluralità di concorrenti. il c.d. autore mediato


Un soggetto può essere considerato concorrente nel reato e nello
stesso tempo non risultare punibile.
Art. 112 ultimo comma “Gli aggravamenti di pena stabiliti nei numeri 1)
2) 3) di questo articolo si applicano anche se taluno dei partecipi al
fatto non è imputabile o non è punibile”.
Quindi un soggetto pur partecipe al fatto può risultare non imputabile o non
punibile.
Art. 119 comma 1 stabilisce che “le circostanze soggettive la quali
escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato
hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono”.
Si esclude che nel nostro ordinamento possa trovare applicazione la teoria
tedesca del c.d. autore mediato.
Autore mediato soggetto che non pone in essere direttamente il fatto tipico
ma si serve di altri per realizzarlo. Queste esigenze non si ritrovano nel nostro
sistema poiché innanzitutto la legge non recepisce un modello differenziato tra
“determinatore” e autore. L’opinione maggiore considera alla stregua ipotesi
speciali di concorso di persone nel reato (e non di autoria mediata) casi quali
quelli disciplinati dagli artt. 46, 48, 54 ult. comma, 86 e 111.

La realizzazione di un fatto di reato

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Deve comunque essere:
• un fatto tipico;
• antigiuridico.
Può anche essere un fatto di tentativo e in tal caso si ha un concorso di
persone nel delitto tentato.
Non va confuso con il c.d. tentativo di partecipazione atto di partecipazione
non seguito dalla effettiva commissione del reato né consumato né meramente
tentato (c’è accordo a commettere il reato, ma non è nemmeno tentato).
Nel nostro sistema il tentativo di partecipazione non è punibile, difettando
proprio il requisito della realizzazione di un fatto tipico.
Art. 115 “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più
persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non
sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto
dell’accordo” (comma 1); “Le stesse disposizioni si applicano nel caso
di istigazione a commettere reato, se la istigazione è stata accolta,
ma il reato non commesso” (comma 3).

Il contributo rilevante
Al fine di individuare la soglia minima per l’applicazione dell’art. 110 sono
stati elaborati vari criteri che creino delle distinzioni tra diverse figure
astratte di concorrenti e tra diverse forme di concorso.

Concorso materiale
Concorre materialmente al reato colui che personalmente:
• compie uno o più atti tipici del reato stesso;
oppure
• apporta un contributo materiale nella fase preparatoria oppure nella fase
esecutiva del reato.
Si distingue:
1. autore, chi realizza l’intera azione esecutiva con una condotta che di per sé
è tipica della fattispecie monosoggettiva;
2. coautore, colui che realizza insieme ad altri soggetti la condotta suddetta;
3. complice, o ausiliatore, è il concorrente la cui condotta di per sé non
integra gli estremi della fattispecie monosoggettiva ma rientra nella tipicità
di quella plurisoggettiva, apportatore di aiuto materiale nelle fasi
preparatorie o esecutive;

Concorso morale
Concorre moralmente nel reato colui che dà una spinta psicologica
alla realizzazione di un reato che materialmente è posto in essere da
altri soggetti.
Si distingue:

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1. determinatore, colui che fa insorgere in altri il proposito criminoso prima
inesistente;
2. istigatore, colui che rafforza o eccita in altri un proposito criminoso già
esistente, con sostegno psicologico all’attività altrui.
Nella partecipazione morale la soglia minima di rilevanza presuppone
che l’opera dell’istigatore venga ad incidere concretamente sulla
psiche del concorrente-autore materiale, anche solo rinsaldando il
preesistente proposito criminoso.
Anche il c.d. consiglio tecnico può tradursi in una forma di partecipazione
punibile.

L’elemento soggettivo nel concorso doloso


L’elemento soggettivo della fattispecie di concorso doloso non si esaurisce
nella rappresentazione e nella volizione del fatto: occorre altresì la
consapevolezza di concorrere con altri, nella prospettiva della
realizzazione del fatto stesso.
Generalmente è un vero e proprio accordo antecedente la commissione del
reato.

La cooperazione colposa e il concorso di persone nelle contravvenzioni


Art. 113 comma 1 “Nel delitto colposo, quando l’evento è stato
cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste
soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”.
In rapporto ai delitti una previsione espressa di punibilità della cooperazione
colposa è resa necessaria dall’art. 42 comma 2 “nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso
con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo
espressamente preveduti dalla legge”.
La regola per le contravvenzioni (art. 42 ult. comma) è che queste sono punite
sia per dolo che per colpa: quindi il concorso di persone nella contravvenzione
colposa può dirsi penalmente sanzionato già sulla base dell’art. 110, senza che
occorra una ulteriore previsione.
Il concorso di persone nel reato è configurabile sia nei delitti che nelle
contravvenzioni, sia a titolo di dolo che di colpa.
Il concorso colposo di persone nei delitti, seguendo la terminologia codicistica,
può denominarsi altresì cooperazione nel delitto colposo (cooperazione
colposa): ci deve essere un coefficiente psicologico (consapevolezza) della
convergenza della propria condotta con quella altrui.
Questa consapevolezza:
• contraddistingue la cooperazione colposa;
• è elemento idoneo a differenziarla dal concorso di condotte o cause
colpose indipendenti.

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Cooperazione di piu soggetti: vi è unitarietà del reato con pluralità di
soggetti;
Concorso di cause indipendenti: pluralità di reati (tanti quante sono le
cause indipendenti) con un unico evento.
Vi è difficoltà logica di conciliare la struttura normativa dell’illecito colposo, che
prescinde dalla sussistenza di dati psichici reali (ma solo eventuali, quali colpa
cosciente o con previsione), con la pretesa di introdurre un fattore psicologico
effettivo nel delitto colposo concorsuale.

L’agente provocatore
È colui che contribuisce in qualche misura alla realizzazione di uno o
più reati, insieme ad altro soggetto/i: con il proposito tuttavia di assicurare
questi ultimi alla giustizia.
Si tratta in genere di agenti o ufficiali di polizia giudiziari, appositamente
autorizzati in rispetto di particolari normative (quale ad esempio il DPR
309/90).

Concorso mediante omissione


Si può concorrere nel reato anche con una condotta omissiva: purché in capo
all’omittente sussista un preciso obbligo di garanzia diretto all’impedimento del
reato.

Concorso doloso nel delitto colposo e concorso colposo nel delitto


doloso
Non vi è alcuna norma di parte generale che preveda la cooperazione colposa
all’altrui fatto doloso. Inoltre non si può ritenere colposa la condotta che si
limita a fornire ad altri una mera “occasione” per delinquere.

Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti


Art. 116 comma 1 “qualora il reato commesso sia diverso da quello
voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde se l’evento
è conseguenza della sua azione od omissione”.
Si tratterebbe si una particolare ipotesi di aberratio in ambito concorsuale.
La Corte Costituzionale con sentenza interpretativa di rigetto sull’art. 116 e art
27 Cost. ha chiarito come la norma codicistica sia legittima qualora intesa nel
senso che non è sufficiente un rapporto di causalità materiale, bensì occorre
anche un rapporto di causalità psichica.
Ovvero il reato diverso può essere addebitato a colui che non lo ha voluto
soltanto qualora questi abbia comunque potuto rappresentarlo psichicamente,
come un prevedibile sviluppo del fatto voluto. Questo determina la
configurazione di un coefficiente di colpevolezza.
Art. 116 comma 2 “se il reato commesso è più grave di quello voluto, la
pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”.

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Mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti
Art. 117 “se per le condizioni o le qualità personali del colpevole o per
i rapporti fra il colpevole e l’offeso, muta il titolo del reato per taluno
di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso
reato. Nondimeno, se questo è più grave il giudice può, rispetto a
coloro i quali non sussistano le condizioni, le qualità o i rapporti
predetti, diminuire la pena”.
In definitiva si introduce una responsabilità oggettiva non facendo distinzione
tra ignoranza colpevole ed incolpevole.

Le circostanze aggravanti (art. 112)


1. se il numero delle persone è 5 o più, salvo casi diversamente disciplinati;
2. per chi ha promosso ed organizzato la cooperazione;
3. per chi nell’esercizio di autorità, direzione o vigilanza ha determinato a
commettere persone a sé soggette;
4. per chi ha determinato a commettere il reato minori di anni 18, infermi o
con deficienza psichica.

Le circostanze attenuanti (art. 114 comma 1)


1. minima partecipazione (non applicabile se presenti delle aggravanti);
2. per chi è stato determinato ex art. 112 nr. 3 e 4 (vedi sopra);
Il giudice può stabilire se applicare le attenuanti.

Valutazione delle circostanze aggravanti e attenuanti


Le circostanze accedono ad un reato completo di tutti i suoi elementi
costitutivi. Nei reati concorsuali si deve stabilire le circostanze per ogni singolo
concorrente.
Art. 118 “le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene
concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della
colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono
valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono” (inestensibilità
ai compartecipi).
Tutte le altre circostanze, si deduce, che siano ESTENSIBILI, occorre fare però
una distinzione tra circostanze oggettive e soggettive (art. 70)
Per le circostanze attenuanti vale il principio della loro operatività oggettiva.
Le aggravanti possono essere poste a carico del singolo solo se dal medesimo
conosciute o ignorate per colpa.
Inoltre l’art 118 non menziona tra la circostanze applicabili al solo soggetto a
cui si riferiscono talune delle circostanze soggettive disciplinate dall’art 70: si
ovvia interpretando estensivamente “circostanze inerenti alla persona del
colpevole”.

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Le cause “soggettive” ed “oggettive” di esclusione della pena
Art. 119 “le circostanze soggettive le quali escludono la pena per
taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto
riguardo alle persone a cui si riferiscono” (comma 1);
C. 2: “le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per
tutti coloro che sono concorsi nel reato”
• Sono oggettive le cause di giustificazione: il fatto commesso in
presenza di una di esse è un fatto lecito, per cui ogni concorrente non è
punibile;
• sono soggettive le cause di esclusione della colpevolezza, c.d. scusanti:
presuppongono un fatto illecito, realizzato con dolo o colpa, ma
l’ordinamento non considera rimproverabile l’autore in ragione di
un’anomalia nel processo motivazionale. Questa valutazione di
inesigibilità è strettamente personale;
è soggettivo il difetto di imputabilità in genere.

Cause di non punibilità in senso stretto: elidono la mera punibilità di un


reato completo di tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridico,
colpevole) in funzione di esigenze di opportunità politico-criminale.
La causa sopravvenuta di non punibilità ex art. 376 è stata ritenuta circostanza
di carattere soggettivo (art. 119 comma 1), che può operare nei confronti
dell’istigatore, concorrente nel reato di falsa testimonianza, esclusivamente
qualora questi abbia fornito un decisivo contributo causale alla neutralizzazione
del fatto lesivo dell’interesse alla realizzazione del giusto processo. In pratica
l’istigatore potrebbe beneficiare della non punibilità solo nel caso in cui la
ritrattazione sia il risultato del comportamento dell’istigatore stesso, che si sia
attivato per sollecitarla, allo scopo di annullare gli effetti del falso commesso
dall’autore materiale.

Il problema del c.d. concorso esterno nel reato associativo


Con particolare riguardo ai reati associativi (soprattutto riguardo al 416
bis) si deve analizzare il concorso esterno.
Un soggetto può senz’altro essere considerato partecipe
dell’organizzazione criminale anche a prescindere da una formale
affiliazione alla medesima. Diventa decisiva la valutazione in concreto di
tale contributo, per stabilire se il soggetto possa essere ritenuto responsabile
del delitto direttamente ai sensi della fattispecie associativa e non attraverso lo
schema del concorso esterno ex art. 110.

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Capitolo 5

Unità e pluralità di reati

Concorso formale e concorso materiale di reati


Si ha concorso formale quando gli estremi di due o più reati vengono
integrati dall’agente mediante una sola condotta;
Si ha concorso materiale quando le plurime violazioni vengono realizzate
dall’agente attraverso altrettante plurime condotte.
Si ravvisa unicità della condotta in presenza dei requisiti congiunti del
legame finalistico che deve avvincere singoli atti esecutivi, e della contestualità
dei medesimi che debbono cioè susseguirsi senza apprezzabili soluzioni di
continuità temporale.

Concorso omogeneo e concorso eterogeneo


- concorso formale omogeneo quando, con una sola azione od omissione,
risultano integrati più reati dello stesso tipo;
- concorso formale eterogeneo quando, con una sola azione od omissione,
risultano integrate differenti fattispecie criminose;
- concorso materiale omogeneo quando, con una pluralità di distinte azioni
od omissioni, viene violato ripetutamente ed in tempi diversi lo stesso precetto
penale;
- concorso materiale eterogeneo quando, con una pluralità di distinte azioni
od omissioni, vengono integrate in tempi diversi altrettante fattispecie
incriminatrici tra loro differenti.

La disciplina. Cumulo giuridico e cumulo materiale. Il reato continuato


Art. 81 comma 1 “è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la
violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione
od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più
violazioni della medesima disposizione di legge”.

Sistema del cumulo giuridico per il concorso formale di reati: si applica infatti
una pena calcolata sulla base della pena da irrogare per il reato (in concreto)
più grave e con un aumento che non deriva dalla sommatoria aritmetica delle
pene relative alle ulteriori fattispecie, bensì da una commisurazione effettuata
nell’ambito di una quota prefissa dalla legge.
L’art. 81 pone anche dei limiti massimi: “nei casi preveduti da questo
articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe
applicabile a norma degli articoli precedenti”.
È stato riformato nel 1974 l’articolo, prima era improntato al cumulo materiale,
che faceva la somma aritmetica delle pene.

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In caso di concorso materiale di reati, sia omogeneo che eterogeneo, la
disciplina è in linea di principio rappresentata dal cumulo materiale.
Si ritorna al cumulo giuridico qualora i vari reati risultino uniti dal c.d. vincolo
della continuazione.
Art. 81 cpv. “alla stessa pena soggiace (cumulo giuridico) chi con più
azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso,
commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di
diverse disposizioni di legge”.
Laddove con una pluralità di azioni od omissioni, vengano realizzate plurime
violazioni vuoi della stessa norma incriminatrice (concorso materiale
omogeneo) vuoi di norme incriminatrici differenti (concorso materiale
eterogeneo) si ha il c.d. reato continuato, qualora il soggetto abbia agito in
esecuzione di un medesimo disegno criminoso (unicità del disegno).
Il concorso formale riguarda sia le fattispecie dolose che colpose; il
reato continuato è istituto ristretto, per sua stessa essenza, alla prospettiva dei
soli reati realizzati in forma dolosa.

La determinazione della pena per il reato continuato solleva alcuni problemi:


per quanto riguarda il concorso omogeneo, è pacifico che si prenda come pena
base la pena commisurata al reato concretamente più grave sulla quale
calcolare l’aumento fino al triplo; per quanto riguarda il concorso eterogeneo
l’orientamento della giurisprudenza è che non vi siano limiti dell’applicabilità
del cumulo giuridico, ancorché l’aumento per la continuazione debba applicarsi
in rapporto a pene di specie o genere differente.
modifica dell'art. 81 c.p.
La legge 251/2005 ha introdotto un quarto comma con il quale per i
recidivi, nell'ipotesi di concorso formale e reato continuato, l'aumento
della pena non può essere inferiore ad un terzo della pena stabilità
per il reato più grave.

Concorso apparente di norme


È possibile che una condotta essenzialmente unitaria si presti ad
essere inquadrata in più fattispecie incriminatrici,mentre in realtà
risulta applicabile comunque una sola delle fattispecie incriminatrici
apparentemente coinvolte. Quando il reato è unico, nonostante che in
astratto il comportamento del soggetto agente sia riconducibile a due o più
fattispecie, ricorre il c.d. concorso apparente di norme.
Talora è la stessa disposizione incriminatrice di parte speciale a contenere una
“clausola di riserva” (o di sussidiarietà), la quale chiarisce come quella stessa
norma non debba trovare applicazione, qualora ricorrano gli estremi di un altro
reato (esempio “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”).
La clausola di riserva non è spesso idonea a risolvere tutti i problemi che si
possono prospettare in tema di concorso di norme o di reati.
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Si ritiene che la sopramenzionata clausola di sussidiarietà escluda
l’applicazione solo quando ci si trovi dinnanzi ad altro più grave reato, che però
sottenda anche ed al tempo stesso, il medesimo bene giuridico.
A volte la clausola è strutturata in maniera tale da fare salva l’applicazione non
già di altra e più grave fattispecie di cui ricorrano gli estremi bensì di una
specifica disposizione incriminatrice.
Oltre le clausole di sussidiarietà, spesso non contemplate o non chiarificatrici
dei dubbi, la disciplina di portata generale espressamente dedicata alla
soluzione del problema del conflitto apparente di norme è dettata dall’art. 15:
“quando più leggi penali regolano la stessa materia, la legge o la disposizione
di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo
che sia altrimenti stabilito”.
Rilevanza al principio di specialità: vi è concorso apparente di norme
quando si pongono in rapporto di genere a specie.
Norma speciale è quella che presenta tutti gli elementi che pure sono presenti
nella norma generale e in più dati caratterizzanti ulteriori: i c.d. elementi
specializzanti.
In tale prospettiva (di specialità ampiamente intesa) si parla di specialità in
concreto: quando un medesimo fatto concreto rientri in più modelli di reato,
non in rapporto di specialità; al tempo stesso non sarebbe ravvisabile un
concorso formale eterogeneo bensì un concorso apparente di norme, con
l’applicabilità della sola disposizione incriminatrice che in concreto possa dirsi
speciale.

A sostegno della nozione di specialità in concreto viene richiamato il


dato testuale dell’art. 15 laddove la norma fa riferimento a più leggi o
disposizioni penali che regolano “la stessa materia”: quest’ultima
locuzione ha trovato diverse interpretazioni, di seguito esposte.
• il riferimento alla stessa materia starebbe a significare che vi è concorso
apparente di norme tali da risolvere mediante il principio di specialità
solo qualora ricorra una sostanziale identità di bene giuridico tutelato
dalle fattispecie ipotizzabili (giurisprudenza).
• la locuzione significherebbe che il principio di specialità deve operare
anche quando un medesimo fatto concreto sia riconducibile in tutti i suoi
elementi a più figure di reato, a prescindere dalla sussistenza di un
rapporto di specialità tra i reati stessi, considerati nella loro astratta
configurazione.

La specialità può anche essere reciproca o bilaterale.


Nel rapporto unilaterale è sempre possibile individuare tra due norme quella
generale e quella speciale.
In quella reciproca invece le differenze tra generale e speciale riguardano e si
differenziano in determinati e singoli aspetti intranormativi. Ciascuna delle

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norme in astratto applicabili è contemporaneamente speciale, sotto certi profili,
e generale sotto altri.
Principio di sussidiarietà: sussidiaria è la norma che prevede la lesione
meno significativa e che quindi non è destinata ad avere applicazione. Laddove
più norme incriminatrici risultino astrattamente applicabili al caso di specie,
non vi sarebbe concorso di reati ma conflitto apparente, qualora le fattispecie
ipotizzabili sottendano stadi o gradi diversi di offesa del medesimo bene
giuridico tutelato.

Sussidiarietà espressa: quando la stessa norma incriminatrice contempla


una “clausola di riserva”.
Sussidiarietà tacita: quando manca una previsione del genere e il rapporto di
sussidiarietà va desunto interpretativamente.

Principio di assorbimento (o di consunzione ovvero ne bis in idem


sostanziale): in base ad una considerazione sostanziale del disvalore implicato
nelle violazioni in confronto, si può giungere, in applicazione del principio de
quo, a considerare un reato assorbito da altro e più grave reato; la cornice
edittale prevista per il reato “assorbente” appare proporzionata al disvalore
complessivo dell’episodio criminoso.

Il reato complesso
Detto anche reato composto o reato complesso in senso stretto , è
previsto e disciplinato dall’art. 84 comma 1 “le disposizioni degli articoli
precedenti (ossia quelle in tema di concorso di reati) non si applicano
quando la legge considera come elementi costitutivi o come
circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero, per
se stessi, reato.”
La legge unifica in una sola fattispecie di reato più fatti, i quali individualmente,
integrerebbero a loro volta un reato. Per cui questi fatti diventano:
• degli elementi costitutivi di reato;
• oppure delle circostanze aggravanti di un reato.
La regola è quindi che deve trovare applicazione soltanto la disposizione che
prevede il reato complesso (esempio sequestro di persona a scopo di
estorsione con morte del sequestrato rispetto al delitto di omicidio volontario).
Il reato complesso non è altro che una ipotesi di concorso apparente
di norme: una soltanto è la norma da applicare.

Reato complesso in senso ampio: individuato da parte della dottrina, si


avrebbe quando un reato comprenderebbe necessariamente un altro reato
meno grave

Reato progressivo e progressione criminosa. antefatto e postfatto


non punibili

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Nel reato progressivo si verificherebbe necessariamente una sorta di
passaggio da un minus ad un maius, ossia da un’offesa meno grave ad
un’offesa più grave dello stesso bene giuridico.
In casi del genere ci si trova di fronte a reati c.d. complessi in senso lato:
valgono le osservazioni svolte circa la pleonasticità della categoria.

La progressione criminosa prende le mosse da pluralità di fatti distinti


succedutisi nel tempo, integrando anche antefatti e postfatti punibili e non
punibili.
È diffuso il convincimento che debba trovare applicazione soltanto la
norma che prevede il trattamento più severo. Si tratta dunque di un
conflitto apparente di norme, da risolvere facendo applicazione di un criterio
sostanziale di valore, quale è appunto il principio di assorbimento.
Si rivelano quindi come nozioni sovrabbondanti.

norme a più fattispecieIl reato è uno solo, ma può essere realizzato con
pluralità di condotte tra loro alternative.
disposizione a più normesono una pluralità di fattispecie astratte di reato,
promananti da una unica disposizione

Parte Quinta

Pene, punibilita’ e misure di sicurezza

Capitolo 1

Nozioni introduttive

La pena deve coincidere con la misura minima necessaria per combattere il


delitto.
Le finalità della pena:
• prevenzione generale;
• retribuzione;
• prevenzione speciale.

La pena nel codice Rocco e nella Costituzione


Il codice Rocco, nella sua impostazione originaria, aveva predisposto
l’arsenale sanzionatorio tipico di uno stato autoritario. La pena di morte era
stata reintrodotta, tornando indietro rispetto alla scelta “abolizionista” del
codice Zanardelli. C’era il principio della deterrenza e indefettibilità della pena.
Erano state introdotte dei nuovi tipi di sanzioni, le misure di sicurezza.
Le misure di sicurezza sono state volute dalla Scuola Positiva: ritenevano i
soggetti “delinquenti” per natura e come tali non responsabili del loro crimine.

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Erano soggetti che per motivi biologici, antropologici, sociologici
commettevano delitti senza effettuare libere scelte, manifestando una
volontariamente incontrollabile pericolosità sociale.
I compilatori del codice Rocco hanno mediato fra istanze della scuola classica
(necessità della pena) e della scuola positiva. Il codice ha codificato il
sistema del doppio binario: le pene per la prevenzione generale e le misure
di sicurezza per la prevenzione speciale.
La Costituzione dedica alla pena l’art. 27 commi 3 e 4:
▲ no a trattamenti contrari al senso di umanità;
▲ no pena di morte, tranne il codice penale militare di guerra.
Non solo le misure di sicurezza ma anche le pene devono avere quale scopo la
rieducazione del reo e dunque devono e possono perseguire finalità di
carattere specialpreventivo.
Con rieducazione si intende risocializzazione e reinserimento del condannato
nella società.

Funzione di prevenzione generale


Concezione relativa della pena (la pena si giustifica in rapporto ad uno scopo:
la prevenzione generale).
Si sostanzia nell’impedire alla generalità dei consociati la commissione dei reati
o di ridurne il numero.
È una finalità determinante per il diritto penale che si prefigge come
scopo centrale la tutela dei beni giuridici.
▲ Prevenzione generale negativa mira a ridurre la commissione di reati
da parte della generalità dei consociati tramite la deterrenza ossia la
paura della pena, che deve consistere in uno svantaggio maggiore dei
vantaggi che il delinquente può prefigurarsi.
▲ Prevenzione generale positiva fa leva sul fatto che le sanzioni penali
in relazione a determinati fatti (reati), contribuisce a confermare nei
consociati il giudizio di disapprovazione di quei comportamenti.
Di solito infatti ci si potrebbe astenere dal delinquere anche per la sola
disapprovazione sociale che ne consegue.

Funzione retributiva
Introdotta dalla Scuola Classica: la pena, nella prospettiva della
retribuzione, serve a castigare un soggetto per ciò che ha commesso.
Si tratta di infliggere un male ad un uomo per il fatto che lui ha inflitto del male
ad altri.
Agisce non al fine di evitare reati futuri ma di punire reati già
commessi.
È chiaro che siamo vicini alla legge del taglione e alla vendetta.
Il diritto penale nasce proprio per sostituire la vendetta privata. È lo stesso
sentimento di giustizia diffuso fra la gente che richiede l’inflizione di un male
per compensare un altro male arrecato.
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Parte della dottrina comunque ritiene che la retribuzione abbia un notevole
ruolo nel calcolo della giusta pena, ovvero nella sua commisurazione. La
proporzione fra reato e pena troverebbe nella retribuzione una guida
importante: è il veicolo attuativo del principio di proporzione.

La funzione di prevenzione speciale


Mira ad impedire la recidiva del singolo delinquente.
• Prevenzione speciale negativa mira alla neutralizzazione del
condannato e alla eliminazione della possibilità materiale che il
condannato possa commettere altri reati.
• Prevenzione speciale positiva poggia sulla rieducazione/
risocializzazione del condannato, basato su saldi principi costituzionali.
Entra in gioco non solo nella fase esecutiva ma anche in quella di
commisurazione della pena ex art. 27 comma 3 Cost.
Le misure di sicurezza non hanno portato a grandi risultati.

La crisi del sistema sanzionatorio


Dal 1930 ha subito molte modifiche:
- 1944 abolizione della pena di morte
- 1944 riforma della sospensione condizionale
- 1975 emanazione dell’ordinamento penitenziario
Generalmente fine delle riforme è stato di rendere sempre più flessibile il
regime di detenzione della pena (esempio legge Gozzini sull’alternativa al
carcere).
Nel 1988 c’è stata l’introduzione del codice di procedura penale, con
l’introduzione di meccanismi “negoziali” (patteggiamento e rito abbreviato) che
hanno reso meno certa la pena e posto in crisi il principio di proporzione e la
stessa funzione di prevenzione generale.
Beccaria affermava che la pena dovesse essere certa e pronta.

Capitolo 2

Le pene principali

DELITTI

PENA DI MORTE: Prevista dal Codice Rocco fu abolita nel 1944


ERGASTOLOÈ previsto dall’art. 22 quale pena detentiva perpetua. Oggi il
condannato può essere ammesso a libertà condizionale dopo aver scontato 26
anni di pena (art. 176 comma 3) in caso di accertato ravvedimento.

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La L.663/1986 ha esteso agli ergastolani la semilibertà (dopo aver scontato 20
anni) e la liberazione anticipata.
Nella migliore delle ipotesi può accadere che il condannato venga rimesso dopo
15 anni in libertà.
RECLUSIONEÈ la pena detentiva temporanea prevista per i delitti.
L’art. 23 recita: “la pena della reclusione si estende dai 15 giorni a
ventiquattro anni”.
Questi limiti valgono per il giudice e non per il legislatore che può derogarli.
La reclusione è disciplinata dall’ordinamento penitenziario.
MULTAArt. 24 “la pena della multa consiste nel pagamento allo Stato di
una somma non inferiore a euro 50 né superiore a euro 50.000.”
Si tratta della pena pecuniaria prevista per i delitti. Può essere rateizzata. Oggi
il mancato pagamento determina sanzioni quali la libertà controllata e il lavoro
sostitutivo (L. 689/81).

CONTRAVVENZIONI

ARRESTOL’art. 25 recita “la pena dell’arresto si estende da 5 giorni a 3


anni”.
È la pena detentiva temporanea per le contravvenzioni.

AMMENDAArt. 26 “la pena dell’ammenda consiste nel pagamento dello


Stato di una somma non inferiore a euro 20 né superiore a euro
10.000”.
È la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni.

L’applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi


La legge 689/81 prevede il potere discrezionale del giudice in caso di
condanna di sostituire la pena detentiva con altra sanzione, meno affittiva, ed
entro certi limiti.
SEMIDETENZIONE (per pene non superiori a 2 anni):
• trascorrere almeno 10 ore al giorno in appositi istituti;
• divieto di detenere armi, munizioni ed esplosivi;
• sospensione della patente guida;
• ritiro del passaporto;
• obbligo di presentare agli organi di polizia, a richiesta, il provvedimento
ricevuto;
• 1 giorno di detenzione è uguale ad 1 giorno di semilibertà.
LIBERTÀ CONTROLLATA (per pene non superiori ad 1 anno)
Gli obblighi ed i divieti sono disciplinati nella L.689/81. Un giorno di pena
detentiva equivale a 2 giorni di libertà controllata.
PENA PECUNIARIA DELLA SPECIE CORRISPONDENTE (per pene non
superiori a 6 mesi)
▲ la reclusione si sostituisce con la multa;

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▲ l’arresto con l’ammenda.
Vi sono delle limitazioni sia in rapporto ai soggetti che in rapporto ai reati
commessi.

Sanzioni penali applicabili dal giudice di pace


D.Lgs 274 del 2000numerose fattispecie di reato sono state demandate alla
competenza del giudice di pace.
I reati puniti con la sola pena pecuniaria (multa e ammenda) non
subiscono innovazioni.
Per gli altri si parla di:
• pena pecuniaria della specie corrispondente;
• permanenza domiciliare;
• lavoro di pubblica utilità.
Sia la permanenza domiciliare che il lavoro di pubblica utilità vanno considerati
non già alla stregua di sanzioni sostitutive, bensì di vere e proprie pene
principali.

Capitolo 3

Le pene accessorie

I caratteri generali delle pene accessorie


Sono misure a carattere prevalentemente interdittivo, con una duplice
funzione, punitiva e preventiva.
Esse infatti da un lato accrescono l’afflittività della pena principale cui
accedono, e dall’altro mirano ad impedire la reiterazione del reato, proprio
mediante l’oggettiva eliminazione delle condizioni che potrebbero indurre al
recidivismo.
Rispondono ad esigenze di prevenzione negativa sia generale che
speciale.
Art. 20 “le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna, come
effetti penali di essa”.
Automatismo: conseguono ipso iure alla condanna e dunque prescindono,
almeno tendenzialmente, da una espressa menzione del giudice in sentenza.
Più correttamente si parla di astratta complementarietà laddove al giudice
è lasciato potere discrezionale circa l’an o il quantum o il quomodo della loro
applicazione.
Prima erano considerate indefettibili; ora, dopo la riforma del 1990, l’art.
166 prevede chela sospensione condizionale si estenda ipso iure delle pene
accessorie.
Il patteggiamento comporta la non irrogazione delle pene accessorie.

Le singole pene accessorie


Sono elencate all’art. 19 e distinte per i delitti e le contravvenzioni.

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Ulteriori pene accessorie sono previste nella legislazione speciale.
Delitti:
1. interdizione dai pubblici uffici;
2. Interdizione da una professione o un’arte;
3. Interdizione legale;
4. Interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;
5. Incapacità di contrattare con la p.a.;
6. Estinzione del rapporto di impiego o di lavoro;
7. Decadenza o sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori.
Contravvenzioni:
1. Sospensione dell’esercizio di una professione o di un’arte;
2. Sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese.

la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 19 comma 3) è pena


accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni.
Interdizione dai pubblici uffici, si sostanzia in una serie di privazioni quali:
• Diritto di elettorato attivo e passivo;
• Ogni pubblico ufficio o servizio;
• Ufficio di tutore o di curatore;
• Gradi e dignità accademiche.
Incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione ex art. 32
quinquies per condanne non inferiori a 3 anni per determinati delitti contro la
p.a. si ha l’estinzione del rapporto di lavoro.
Pubblicazione della sentenza penale di condanna mediante affissione:
• Nel comune ove è stata pronunciata
• In quello dove il delitto è stato commesso
• In quello dove il condannato aveva l’ultima residenza

Capitolo 4

La commisurazione della pena

In relazione alle singole figure di reato è previsto un massimo ed un


minimo della pena.

Parametri normativi e prassi applicativa


In sede di commisurazione della pena, il giudice agisce
discrezionalmente, dando conto di come e perché abbia inteso
irrogare quella certa pena (puntuale motivazione della sentenza).
Art. 132 comma 1 (potere discrezionale del giudice nell’applicazione della
pena: limiti) “nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena
discrezionalmente; esso deve indicare i motivi che giustificano l’uso di
tale potere discrezionale”.

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Si tratta di discrezionalità giuridicamente vincolata, poiché la legge fornisce al
giudice una serie di parametri.
Art. 133 si deve tener conto della gravità del reato (comma 1) e della capacità
a delinquere del colpevole (comma 2).
La gravità del reato va desunta:
dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da
ogni altra modalità dell’azione;
1. dalla gravità del danno o dal pericolo cagionato alla persona offesa dal
reato;
2. dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.
La capacità a delinquere del colpevole va desunta:
1. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2. dai precedenti giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo,
antecedenti al reato;
3. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
4. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
La prassi giudiziaria ha mostrato un appiattimento verso i minimi edittali della
pena.
L’art. 133 bis introdotto con la 689/81 (Condizioni economiche del reo,
valutazioni agli effetti della pena pecuniaria) prevede che “nella
determinazione dell’ammontare della multa o dell’ammenda il giudice
deve tenere conto, oltre che dei criteri indicati dall’articolo
precedente, anche delle condizioni economiche del reo. Il giudice può
aumentare la multa o l’ammenda stabilite dalla legge sino al triplo o
diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del
reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la sua
misura minima si eccessivamente gravosa”.

Commisurazione della pena e della colpevolezza


Esigenze sottese alla prevenzione possono spesso confliggere tra loro e
spingere in direzioni opposte quando si tratti di commisurare la pena in
rapporto al singolo caso concreto: è necessario trovare un punto di equilibrio.
Il principio costituzionale di colpevolezza copre non solo la colpevolezza come
elemento del reato, ma anche la colpevolezza che, come concetto graduabile,
segna il confine che non può essere oltrepassato in sede di commisurazione
della pena, quali che siano le esigenze preventive che suggerirebbero invece
una punizione più severa.

Pene fisse e pene proporzionali


Art. 27 “la legge determina i casi nei quali le pene pecuniarie sono
fisse e quelli in cui sono proporzionali. Le pene pecuniarie
proporzionali non hanno limite massimo”.

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PENE PECUNIARIE FISSE: quelle individuate a priori in un certo importo. C’è
una certa perplessità circa la legittimità costituzionale in materia di
personalizzazione della pena.
PENE PECUNIARIE PROPORZIONALI: moltiplicazione di un valore base per
un numero oppure un importo per un coefficiente. La proporzionalità ha
determinato perplessità per il non rispetto del principio di legalità e di
tassatività.
Entrambe le eccezioni sono sempre state respinte dalla Corte Costituzionale.

Capitolo 5

Le vicende della punibilità

L’importanza del rapporto tra reato e punibilità è dimostrato dalle tante


considerazioni in merito:
1. il reato è sempre un fatto punibile e la punibilità è il vero dato
caratterizzante dell’illecito penale;
2. alcuni scindono reato e punibilità, il cui prodursi non dipende da fattori
dell’illecito penale;
3. altri distinguono tra fattispecie in senso stretto (solo elementi
essenziali fatto antigiuridicità, colpevolezza) e in senso ampio (si
includono anche elementi che incidono solo sulla punibilità, ad esempio
le condizioni obiettive di punibilità);
4. di recente è stata sviluppata una analisi sistematica quadripartita: fatto,
colpevolezza, antigiuridicità e punibilità. In quest’ultima partizione
vi sono tutte quelle condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto tipico,
antigiuridico e colpevole, che possono fondare l’opportunità di punire.

Condizioni obiettive di punibilità


Art. 44 “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il
verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se
l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui
voluto”.
Il codice dispone che in relazione alle condizioni di punibilità, non è
richiesta la volontà da parte del reo.
Quali sono i criteri di individuazione delle condizioni obiettive di
punibilità?
▲ criterio letterale: se la norma prevede punibilità “se”, “qualora” si
verifichi un determinato accadimento;

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▲ criterio logico-formale al fine di escludere che possano essere
condizione quegli elementi legati da un nesso-psicologico (esempio
elementi che devono essere voluti dall’agente e quindi oggetto di dolo) o
da un nesso di causalità materiale con la condotta: in presenza di uno di
questi nessi, l’interprete dovrebbe optare per la qualificazione degli
elementi de quibus come elementi essenziali del fatto.
Questi criteri determinerebbero lo svuotamento della categoria “condizioni
obiettive di punibilità”. Hanno corretto numerose ipotesi di reato in una
dimensione costituzionalmente orientata.
Qualificando un elemento come essenziale del fatto lo si assoggetta alle
normali regole di imputazione soggettiva sottraendolo al regime di operatività
oggettiva ex art. 44 e ad eventuali contrasti con il principio di colpevolezza.
Oggi è possibile ammettere dei criteri di individuazione delle condizioni di
punibilità meno selettivi, grazie alle nuove prospettive che si sono aperte in
tema di colpevolezza a seguito della sentenza nr. 364 del 1988.
La dottrina ha operato delle distinzioni in tema di condizioni obiettive
di punibilità:
1. condizioni intrinseche (o improprie): contribuiscono alla lesione del
bene giuridico (esempio il pubblico scandalo nel delitto di incesto);
2. condizioni estrinseche (o proprie): non aggiungono nulla al disvalore
del fatto (esempio sorpresa in flagranza in rapporto alla contravvenzione
dell’ubriachezza).

In relazione alle condizioni intrinseche si pongono seri problemi di compatibilità


con il principio della colpevolezza. Con la sentenza si richiede, in merito agli
elementi più significativi della fattispecie il dolo o quando meno la colpa: le
ipotesi in cui valgono le condizioni intrinseche devono essere presenti quanto
meno per colpa, in merito alla semplice prevedibilità dell’evento.

In relazione alle condizioni estrinseche i problemi sulla colpevolezza sono


ridimensionati dal momento che non rientrano tra gli elementi più significativi
della fattispecie e non necessitano imputazione soggettiva neppure a titolo di
colpa. Vengono chiamate anche condizioni obiettive “proprie”.
Le condizioni intrinseche od improprie presentano delle peculiarità rispetto ai
normali elementi essenziali del fatto tipico.
L’elemento essenziale si imputa di norma (solo) a titolo di dolo, salva espressa
previsione di ipotesi colposa; al contrario, la condizione intrinseca od impropria,
pur accedendo ad un fatto in senso stretto doloso, andrebbe imputata in base
ad un coefficiente modellato sulla falsa riga della colpa.

Le cause di non punibilità in senso stretto


Sono una creazione dottrinaria. La non punibilità deve essere garantita per
evitarne l’abuso in senso estensivo o privativo.

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Vi sono casi in cui non si punisce un fatto, pur se tipico, antigiuridico e
colpevole, per un fattore esterno (ovvero la causa di non punibilità in senso
stretto) ed alla luce di ragioni di convenienza ed opportunità pratica.
Spesso nel codice penale si trova la locuzione “non è punibile” (o simile): tale
locuzione è assolutamente generica e fa riferimento ad una “punibilità” assai
latamente intesa. È l’interprete che deve stabilire la natura giuridica di quella
“non punibilità”.
Stabilire se la “non punibilità” dipenda da una causa di giustificazione o da
una causa di non punibilitàstrictu sensu ha delle implicazioni notevoli.
Le cause di non punibilità vengono distinte in:
• cause di non punibilità originarie, quelle coeve rispetto ai reati;
• cause di non punibilità sopravvenute, la cui causa si verifica in
epoca successiva alla consumazione del reato.
Le cause di non punibilità sopravvenute hanno conosciuto una particolare
fortuna nell’ambito della c.d. legislazione premiale, mediante la concessione di
impunità in presenza di condotte successive al reato, incentivate dal legislatore
in funzione di obiettivi di politica criminale ritenuti di particolare e preminente
interesse.

Distinzione tra cause sopravvenute di non punibilità e cause estintive


del reato
• alcuni inseriscono le cause sopravvenute di non punibilità tra i fatti
estintivi;
• altri affermano che nella parte generale c’è una disciplina apposita
per le cause estintive del reato non riferibile alle cause di non
punibilità.
Inoltre l’estinzione è riservata ai casi in cui il fattore sopravvenuto è ricollegato
ad interessi generali, mentre le cause di non punibilità rilevano soltanto un
comportamento personale dell’autore prossimo al tempo della consumazione o
contestuale.

Le cause di estinzione del reato e della pena


Il titolo VI del libro I del c.p. è infatti dedicato proprio alla “estinzione del
reato e della pena”. Si distingue tra estinzione del reato ed estinzione della
pena a seconda che la causa estintiva incida, rispettivamente, sulla c.d.
punibilità astratta oppure sulla punibilità concreta.
punibilità astratta: sussiste a partire dal momento in cui il reato è completo
in tutti i suoi elementi;
punibilità concreta: matura solo quando vi è una condanna che commina
ovviamente una pena.

causa estintiva del reato: interviene nel lasso temporale che va dalla
realizzazione del reato sino a che non sia passata in giudicato la condanna e

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“estingue” la punibilità astratta, ossia il potere statuale di punire e la correttiva
assoggettabilità a pena di colui che ha commesso il reato.
causa estintiva della pena: interviene dopo la condanna definitiva e tende
a cancellare gli effetti della pena comminata dal giudice nel caso concreto.
Talora la disciplina del c.p. non si presta ad essere ricondotta alla
schematizzazione concettuale appena delineata.
Esempio amnistia impropria che fa cessare l’esecuzione della condanna e delle
pene accessorie, incide sulla punibilità in concreto (causa estintiva della pena).
In generale il reato non può venir meno se ed in quanto considerato come
accadimento storicamente verificatosi. Non si può dire che le cause estintive
pene/reato cancellino tutte le conseguenze giuridiche dovute alla pronuncia
della sentenza di condanna.

Effetti del reato o della pena che sopravvivono alle cause estintive
Art. 2 comma 2 Abolitio criminis: “nessuno può essere punito per un
fatto che, secondo legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è
stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
La depenalizzazione di un reato (o le dichiarazioni di illegittimità) comporta la
più drastica ed integrale estinzione (da intendere effettiva cancellazione) di
quel complesso di effetti giuridici normalmente ricondotti alle nozioni di
punibilità astratta ovvero di punibilità in concreto.
Il reato estinto invece (non oggetto di abolitio) conserva , alla luce di
specifiche disposizioni normative, dei limitati effetti residui.
Art. 170 comma 1 “quando un reato è il presupposto di un altro reato,
la causa che lo estingue non si estende all’altro reato” ult. comma
“l’estinzione di taluno fra più reati connessi non esclude, per gli altri
l’aggravamento di pena derivante dalla connessione”.
Art. 106 comma 1 “agli effetti della recidiva e della dichiarazione di
abitualità o di professionalità del reato si tiene conto altresì delle
condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato
o della pena”, tranne che la causa estingua gli effetti penali (comma 2).

La morte del reo


La morte del reo rappresenta una causa estintiva del reato o della
pena, a seconda che intervenga, rispettivamente, prima o dopo la
sentenza definitiva di condanna (artt. 150 e 171 c.p.).
La morte del reo estingue tanto la pena principale quanto le pene accessorie e
gli altri effetti penali della condanna. L’obbligazione di rimborso delle spese per
il mantenimento in carcere (art. 188) e per le spese processuali (sentenza
Corte Cost.) non si trasmettono agli eredi.
Si trasmettono agli eredi le obbligazioni civili nascenti da reato.

La prescrizione
Modifica degli artt. 157 - 158 c.p.

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L'art. 6 della legge 251/2005 si occupa dell'istituto della prescrizione e
delle ipotesi di sospensione e interruzione della stessa.
L'istituto della prescrizione è completamente rimodulato dall'art. 6 della legge
in esame che innova l'art. 157 c.p.
Scompaiono le classi nelle quali erano suddivise le ipotesi di prescrizione.

Il primo comma fissa il tempo massimo di prescrizione in un periodo non


inferiore a:
• sei anni per i delitti;
• quattro anni per le contravvenzioni.
In ogni caso il decorso del tempo corrispondente alla massimo della pena
edittale estingue il reato.

Nei commi successivi la norma stabilisce:


• i criteri per la determinazione del tempo necessario a
prescrivere il reato;
• le eccezioni alla regola prevista dal primo comma.

Per la determinazione del tempo necessario a prescrivere il reato non si


tiene conto delle diminuzioni o degli aumenti di pena conseguenti
l'applicazione delle circostanze, salvo che per le circostanze aggravanti c.d. ad
efficacia speciale, per il cui caso si tiene conto dell'aumento massimo di pena
previsto per l'aggravante.
Non si applica il meccanismo di bilanciamento delle circostanze previsto dal
novellato art. 69 c.p.

Quanto alle eccezioni si fissa il termine massimo di 3 anni per i reati quando la
legge stabilisce pene diverse da quelle detentive . Discussa è l’opportunità che
tale ipotesi debba essere limitata ai reati di competenza del Giudice di Pace
che può irrogare sanzioni diverse da quelle detentive, quali, ad esempio, il
lavoro di pubblica utilità.
Altresì, la norma codifica un principio stabilito dalla Corte Costituzionale con la
sentenza n. 275 del 31/05/1990 che dichiarò l'illegittimità dell'art. 157 c.p.
nella parte in cui non prevedeva la rinunciabilità da parte dell'imputato alla
prescrizione.
Infine si stabilisce l’imprescrittibilità dei reati puniti con la pena dell'ergastolo,
anche per effetto dell'applicazione delle circostanze aggravanti.

Decorrenza del termine di prescrizione


Quanto alla decorrenza del termine di prescrizione l'art. 6 ha modificato l'art.
158 c.p. sopprimendo ogni riferimento al reato continuato con la conseguenza
che non vi è distinzione tra le ipotesi di concorso materiale del reato ed il reato
continuato quanto alla decorrenza del termine di prescrizione.

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Sospensione e interruzione della prescrizione
Ad una prima lettura dell'art. 159 sembrerebbe che il legislatore abbia
completamente innovato la disciplina della sospensione della prescrizione.
Invero, il nuovo art. 159 c.p., nella sostanza, introduce solo una nuova ipotesi
di sospensione della prescrizione per il caso di impedimento delle parti o dei
difensori ovvero su richiesta dell'imputato e del suo difensore. A tale scopo la
norma fissa il termine di differimento dell'udienza a 60 giorni dalla cessazione
dell'impedimento, fatte salve le ipotesi di sospensione per l'accertamento
dell'incapacità dell'imputato disciplinate dall'art. 71 c.p.p.
Trattasi della codificazione di un principio già statuito dalle Sezioni Unite della
Suprema Corte con sentenza del 2001 e confermato dalla Corte Costituzionale
con ordinanza n. 116/2002
Infine nelle ipotesi di sospensione a seguito di autorizzazione a procedere il
corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l'Autorità ha accolto la
richiesta.

In ordine all'interruzione della prescrizione, l'innovazione introdotta dall'art. 6


della legge in esame consiste nella fissazione di un prolungamento del termine
per il quale l'interruzione può avere luogo in taluni casi.
La riformulazione dell'ultimo comma dell'art. 161 c.p. non è di agevole lettura
per il rimando ad altre norme e per le eccezioni stabilite per taluni reati.
In buona sostanza l'interruzione non può superare i seguenti limiti:
• 1/4 del tempo necessario a prescrivere il reato;
• 1/2 del tempo necessario a prescrivere il reato per le ipotesi di recidiva
aggravata;
• 2/3 del tempo necessario a prescrivere il reato per le ipotesi di recidiva
reiterata;
• il doppio del tempo necessario a prescrivere il reato per le ipotesi di
dichiarata delinquenza abituale e delinquenza professionale.
A tale regola fanno eccezione i reati di associazione di stampo mafioso,
riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto o alienazione di schiavi,
sequestro di persona, delitti in materia di terrorismo

Prescrizione della pena (art. 172 e 173)


Presuppone che sia intervenuta una pronuncia irrevocabile di condanna. Dal
giorno della pronuncia irrevocabile decorrono i termini, di seguito indicati:
• la reclusione si estingue con il decorso di un tempo pari al doppio della
pena inflitta; in ogni caso non superiore a 30 e non inferiore a 10;
• la multa si estingue in 10 anni;
• l’arresto e l’ammenda si estinguono in 5 anni; nei casi ex art. 173 comma
1 i termini sono raddoppiati.
Quando vengono inflitte congiuntamente la pena detentiva e quella pecuniaria,
si ha riguardo solo al termine stabilito per la sanzione detentiva.
In rapporto a tali termini non operano né cause sospensive né interruttive.

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In caso di concorso di reati, si tiene conto ai fini di estinzione della pena di
ciascuno di essi ancorché le pene siano state inflitte con la medesima sentenza
(art. 172 comma 6).
Reclusione e multa non si estinguono se inflitte a soggetti recidivi (ex art. 99)
o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza; mentre i termini per la
prescrizione di arresto e ammenda raddoppiano.
L’estinzione di reclusione e multa è preclusa altresì se il condannato, durante il
tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna alla
reclusione per un delitto della stessa indole.

La remissione di querela
È una causa di estinzione del reato (art. 152 comma 1) in rapporto ai delitti
procedibili a querela della persona offesa. È una causa di improcedibilità
sopravvenuta che si colloca su di un versante processuale.
Comunque ci sono casi in cui la querela non può essere ritirata (in materia
esempio di reati sessuali) e nei casi in cui ne è possibile la revoca occorre
l’accettazione del querelato.

L’amnistia
È un provvedimento generale ed astratto ed insieme alla grazia e
all’indulto, è un atto c.d. di clemenza.
Lo stato rinuncia a punire certi reati.
Art. 151 comma 1, può essere propria ed impropria:
• propria, quando interviene prima della sentenza definitiva di condanna.
Estingue il reato ed ha efficacia estintiva completa;
• impropria, quando è successiva alla condanna medesima. Estingue la
pena ed ha efficacia estintiva più ridotta, facendo cessare l’esecuzione
della condanna e delle pene accessorie ma non gli effetti penali.
Unitamente all’indulto è prevista ex art. 79 della Cost. con legge
deliberata a 2/3 dei componenti di ciascuna Camera in ogni suo
articolo e nella votazione finale.

L’indulto
È un provvedimento generale ed astratto, c.d. atto di clemenza. È causa
estintiva della pena.
Ex art. 174condona in tutto o in parte la pena (principale) inflitta o la
commuta in altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue né le
pene accessorie (salvo che il provvedimento non disponga altrimenti) né gli
altri effetti penali della condanna.
L’indulto non presuppone una condanna irrevocabile.
Ove sussista un concorso di reati, per l’applicazione dell’indulto, occorre prima
cumulare le pene secondo le regole generali e poi calcolare l’indulto.
▲ può essere posto a condizioni e obblighi;

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▲ non si applica in caso di recidiva aggravata o reiterata, abitualità o
professionalità del reato o di tendenza a delinquere.

La grazia
È un provvedimento di clemenza ma particolare, riferito ad una
specifica persona.Ex art. 87 della Cost. è prerogativa del Presidente della
Repubblica. È causa estintiva della pena e presuppone una sentenza di
condanna passata in giudicato. Come l’indulto, la grazia condona in tutto
o in parte la pena principale inflitta o la commuta in altra specie di
pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie né gli effetti
penali della condanna.

La sospensione condizionale della pena


Presenta una struttura ed un meccanismo di operatività duplice.
1. incide sulla pena inflitta con sentenza di condanna (o patteggiamento),
attraverso una specifica statuizione del giudice. Quest’ultimo può
ordinare che la pena rimanga sospesa e dettare un termine ultimo
sempre che vi siano determinati presupposti e nel rispetto dei limiti
sanciti dalla legge. Gli effetti sospensivi del beneficio si protraggono per
5 anni (delitti) e per 2 anni (contravvenzioni).
2. può condurre all’estinzione del reato se nei termini stabiliti il reo:
- non commette un delitto o contravvenzione della stessa indole;
- adempie gli obblighi impostigli.
È una causa estintiva di reato.

Può essere revocata di diritto quando il condannato entro i termini di cui sub 1.
1. commetta un delitto o contravvenzione della stessa indole;
2. riporti altra condanna per un delitto commesso anteriormente tale che la
pena, cumulata a quella precedentemente sospesa, superi il limiti
massimi entro cui il beneficio è concedibile .
Il giudice può revocare la sospensione condizionale qualora nei casi sub b),
sebbene la pena comunque non superi i limiti massimi de quibus, esercitando
un potere discrezionale e tenendo conto dell’indole e della gravità del reato
commesso.
Scopo della sospensione condizionale: evitare l’effetto
criminogenetico delle condanne di breve durata.

La sospensione condizionale non può essere concessa per le pene detentive


superiori a 2 anni.
Il limite viene aumentato a:
• 3 anni qualora il reato sia stato commesso da un minore di 18 anni;
• 2 anni e 6 mesi se l’agente ha tra i 18 e 21 anni o oltre 70 anni.

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Sospensione speciale: “qualora la pena inflitta non sia superiore ad 1
anno e il danno inflitto sia stato riparato interamente, prima della
pronuncia della sentenza di I grado, mediante il risarcimento di esso
e, quando sia possibile, mediante le restituzioni, nonché qualora il
colpevole, entro lo stesso termine e fuori del caso previsto nel quarto
comma art. 56, si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per
elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da
lui eliminabili, il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena,
determinata nel caso di pena pecuniaria ragguagliandola a norma
dell’art. 135, rimanga sospesa per il termine di un anno”.

Art. 164 ult. comma “la sospensione condizionale della pena non può
essere concessa per più di una volta. Tuttavia il giudice nell’infliggere
una nuova condanna può disporne la sospensione condizionale
qualora la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la
precedente condanna anche per delitto, non superi i limiti ex art.
163”.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in
esame (art. 164 ult. comma) nella parte in cui non consente la concessione del
beneficio a chi abbia già riportato precedente condanna a pena detentiva per
delitto non sospesa e sempre che la pena da infliggere non superi i limiti ex
art. 163.
In ogni caso non può essere concessa per più di due volte.

La sua concessione è comunque oggetto di valutazione discrezionale affidata al


giudice. “La sospensione condizionale è ammessa soltanto se, oltre al rispetto
dei requisiti ex art. 133, il giudice presuma che il colpevole si asterrà dal
commettere ulteriori reati.”
Può essere soggetta dal giudice all’adempimento di determinati obblighi entro
un termine.
La sfera di operatività della sospensione condizionale coinvolge anche le
misure di sicurezza, eccetto la confisca.
Dopo la riforma del 1990 si estende anche alle pene accessorie.

L’oblazione
Rappresenta una causa estintiva del reato attraverso il pagamento di
una somma. Può essere:
• obbligatoria (art. 162), riguarda le contravvenzioni per le quali è
prevista la sola ammenda. Il pagamento di una somma pari ad 1/3 del
massimo edittale della pena, oltre alle spese del procedimento ed
entro un certo termine (prima dell’apertura del dibattimento ovvero
prima del decreto penale di condanna) estingue il reato. Non è
prevista alcuna valutazione del giudice.

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• discrezionale (art. 162 bis), riguarda le contravvenzioni punite con
pena alternativa (arresto o ammenda). Qui necessita la valutazione
del giudice a seconda della gravità del fatto. Non può essere ammessa
nei seguenti casi:
1. recidiva reiterata, abitualità o professionalità nelle contravvenzioni;
2. allorché permangano conseguenze dannose o pericolose del reato
eliminabili da parte del contravventore.
Sono previsti dei termini processuali.

La liberazione condizionale
L’esecuzione di una parte della pena resta sospesa per un periodo di
tempo determinato dalla legge: se il condannato rimesso in libertà
non commette un altro reato, la pena si estingue (artt. 176 e 177).
Il condannato deve:
• aver dimostrato buona condotta durante l’esecuzione della pena;
• aver scontato almeno la metà della pena inflitta, comunque non meno di
30 mesi (diventano 4 anni e 9 mesi in caso di recidiva aggravata o
reiterata);
• la pena residua non deve essere maggiore di 5 anni;
• aver adempiuto alle obbligazioni civili nascenti dal reato o dimostrarne
l’effettiva impossibilità all’adempimento;
• in caso di ergastolo, deve aver scontato almeno 26 anni;

I FASE: sospensione dell’esecuzione della pena e della misura di sicurezza


detentiva.
II FASE (in caso POSITIVO): estinzione della residua pena principale, revoca
delle misure di sicurezza personali. Rappresenta una causa di estinzione della
pena poiché non coinvolge anche le pene accessorie né gli effetti di condanna.
II FASE (in caso NEGATIVO): interviene la revoca della sospensione
qualora il beneficiato commetta un delitto o una contravvenzione della stessa
indole o qualora violi gli obblighi della libertà vigilata.

La riabilitazione
Elimina alcune conseguenze penali della condanna che
compromettono la piena capacità di agire.
Art. 178 “la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni effetto
penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti”.
Nella prospettiva degli effetti penali della condanna, la riabilitazione impedisce
che, del reato per cui vi è stata condanna, si tenga conto ai fini della recidiva.
Resta preclusa la possibilità di beneficiare della sospensione condizionale della
pena, del perdono, del beneficio della non menzione della condanna nel
certificato del casellario giudiziario.
Degno di nota è il recupero, da parte del condannato, delle facoltà perdute in
conseguenza della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.

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Art. 179è necessario che colui che aspira ad essere riabilitato “abbia
dato prove effettive e costanti della sua buona condotta”.
Questa può essere concessa quando siano decorsi almeno:
• 3 anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si sia estinta
(art. 179 comma 1);
• 6 anni per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza;
• 8 anni in caso di recidiva aggravata.
Fattori ostativi alla concessione:
• sottoposizione a misure di sicurezza;
• non adempimento delle obbligazioni civili.
La riabilitazione una volta concessa può essere revocata (art. 180) di diritto se
entro 5 anni commette un delitto non colposo punito nel minimo con la
reclusione non inferiore a 3 anni o altro delitto più grave.

La non menzione della condanna


Tra gli effetti penali si ha l’iscrizione della condanna nel casellario
giudiziario. Devono essere indicati tutti i precedenti nel caso in cui tale
certificato sia richiesto dalla A.G.; nel caso in cui richiederlo sia un privato il
condannato può usufruire del beneficio previsto dall’art. 175 c.p.
• si deve trattare della prima condanna;
• la pena inflitta non deve superare certi limiti.
Il giudice può ordinarlo in sentenza.

Il perdono giudiziale
• astensione dal giudizio;
• astensione dalla pronuncia di condanna.
Si applica solo ai minori di 18 anni ed in presenza di determinate
condizioni (art. 169).
Il minore non deve già essere stato condannato a pena detentiva per delitto,
ancorché sia avvenuta riabilitazione, né dev’essere delinquente o
contravventore abituale o professionale. La Corte costituzionale ha dichiarato
illegittimo l’art. 169 nella parte in cui non consente che il perdono non possa
essere concesso più di una volta; si ammette quindi una seconda concessione
in rapporto ad un reato commesso in epoca precedente alla prima sentenza di
perdono e sempre che il cumulo non superi il limite massimo consentito.
Il limite della pena è di 2 anni e 3 milioni di lire. Il giudice deve esprimere un
giudizio prognostico favorevole.
Il perdono giudiziale estingue immediatamente il reato e non è
revocabile.

Distinto è il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: si rivolge


sempre ai minori e può essere chiesto da p.m. laddove risulti:
• tenuità del fatto;
• occasionalità del comportamento;

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• pericolo per l’educazione del minore.
È una causa di non punibilità in senso stretto.

Diverso ancora è la sospensione del processo minorile con messa alla


prova: l’esito favorevole della prova, cui viene ammesso il minore, comporta la
dichiarazione giudiziale di estinzione del reato.

il patteggiamento
Detto anche “applicazione della pena su richiesta delle parti”, l’imputato
e il p.m. possono richiedere l’applicazione, nella specie e nella misura indicata,
di una:
• sanzione sostitutiva;
• pena pecuniaria, diminuita fino ad 1/3;
• pena detentiva, quando questa, tenuto conto delle circostanze e
diminuita fino ad 1/3, non supera i 5 anni, soli o congiunti a pena
pecuniaria.
Le parti possono concordare, entro i limiti suddetti, la pena con uno “sconto”
fino ad 1/3 rispetto al quantum che si ritiene debba essere comminato in
concreto.
effetti della sentenza di patteggiamento (art. 445 cpp):
• pena ridotta;
• non si devono pagare le spese processuali;
• non c’è applicazione delle pene accessorie e misure di sicurezza.
La sentenza conduce all’estinzione del reato.
Si estingue ogni effetto penale qualora le pene inflitte siano inferiori di una
certa misura ex art. 445 comma 2.

l’affidamento in prova al servizio socialeL’esito positivo del periodo di


affidamento estingue la pena e gli altri effetti penali.

la liberazione anticipataConsiste in una detrazione di una quota di pena (45


giorni) per ogni semestre di pena effettivamente scontato.

l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie


Una ulteriore causa estintiva è stata introdotta con il D.Lgs 274/2000
in relazione ai reati di competenza del giudice di pace.
Art. 35 dispone che “il giudice di pace, sentite le parti e l’eventuale
persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone
la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver
proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del
danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e
di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato”.

Capitolo 6

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Misure di sicurezza

Le misure di sicurezza rappresentano quei provvedimenti diretti a:


• riadattare il reo alla vita sociale;
• impedirgli di nuocere nuovamente.
Si caratterizzano per una spiccata funzione di prevenzione sociale, sia
essa positiva (nella risocializzazione) che negativa (nel materiale
impedimento che il soggetto possa nuocere nuovamente).
La dottrina più recente sottolinea come sia venuta meno la partizione tra pene
e misure di sicurezza, basata sulla considerazione dello scopo proprio delle une
e delle altre. Non sarebbe più possibile parlare delle pene solamente come
delle sanzioni legate solo all’idea retributiva e funzionali alla prevenzione
generale, e di misure di sicurezza che si pongono solo come strumenti che
“monopolizzano” le funzioni di rieducazione e di prevenzione speciale.
Attualmente vi è una incertezza di fondo:
• sullo spazio residuo da far occupare alle misure di sicurezza;
• sulla legittimità della “sopravvivenza” delle misure di sicurezza alla luce
degli odierni valori costituzionali.

Le origini storiche. il c.d. “doppio binario”


È una novità del codice del 1930, compromesso tra la scuola classica e la
scuola positiva. Le misure di sicurezza erano destinate ad integrare il
tradizionale sistema delle pene, laddove non siano applicabili o non
considerate sufficienti a prevenire la realizzazione di ulteriori reati da parte di
soggetti socialmente pericolosi.
Il soggetto imputabile, all’esito del processo penale, se riconosciuto
colpevole, viene condannato ad una pena alla quale si può aggiungere, in certi
casi, l’applicazione di una misura di sicurezza (previo riconoscimento della
concreta pericolosità sociale del soggetto).
CRISI: i giudici, pur potendo applicare misure di sicurezza, non le irrogano.
Tendenza all’appiattimento delle condanne ai minimi edittali.
Il soggetto non imputabilenon è punibile in quando considerato non capace
di intendere e di volere. È sanzionabile, qualora venga riconosciuto socialmente
pericoloso, con le misure di sicurezza.
CRISI: l’accertamento della pericolosità sociale necessita un, non poco
agevole, accertamento giudiziale di solito affidato ad un perito. Il giudice, che
ha come unico strumento la misura di sicurezza, nel caso in cui decida di
affidarsi alla perizia avente esito negativo, non ha altra scelta che disporne il
proscioglimento.

Natura giuridica
Le misure di sicurezza sono sanzioni penali, irrogate solo all’esito di
un procedimento giurisdizionale, così come le pene.
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A differenza della pena, è certo che l’idea del castigo è assente nel concetto di
misura di sicurezza, quale corrispettivo del male cagionato. Il reato (o quasi
reato) commesso è solo il presupposto oggettivo per l’irrogazione della misura,
che non riferisce al passato ma riguarda il futuro.
Questa infatti non è determinabile in maniera fissa e definitiva dal giudice della
cognizione, essendo destinata a cessare con il venir meno della pericolosità
sociale.

Le misure di sicurezza e il principio costituzionale di legalità


Art. 199 (sottoposizione a misure di sicurezza: disposizione espressa di legge)
“nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano
espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa
preveduti”.
Art. 25 Cost. ult. comma “nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.
1. casi stabiliti dalla legge (riserva di legge);
2. la legge deve indicare i casi e il tipo di misura (tassatività).
La tassatività è intesa in senso elastico con parziale sacrificio delle esigenze
di certezza, affinché le sanzioni in argomento possano assolvere in maniera
efficace alla loro funzione specialpreventiva.
Art. 200 “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al
tempo della loro applicazione (comma 1) e se la legge del tempo di cui
deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in
vigore al tempo dell’esecuzione” (comma 2)”.
Non è possibile applicare una misura di sicurezza in relazione ad un fatto che,
quando è stato realizzato, non era previsto né come reato né come quasi-reato.
Può invece essere applicata una misura di sicurezza ad un reato, per il quale
nel tempus commissi delicti non era prevista alcuna misura? Alcuni dicono di sì
visto che le norme di sicurezza sono proiettate a finalità future. Altri affermano
che sia impossibile applicare una misura di sicurezza originariamente non
prevista.

I presupposti di applicabilità
Sono di regola 2:
1. la realizzazione di un fatto previsto dalla legge come reato (presupposto
oggettivo);
2. la pericolosità sociale del reo accertata (presupposto soggettivo).
La pericolosità viene intesa come probabilità di ricadere nel crimine.
Il giudice deve operare in concreto un giudizio prognostico circa la probabilità
di recidiva.
Si parla anche della commissione di un quasi reato.
Possono essere oggetto di misura di sicurezza:
• coloro che ex art. 49 ult. comma hanno commesso un c.d. reato
impossibile;

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• coloro che ex art. 115 comma 2, in tema di concorso di persone nel
reato, hanno concluso un mero accordo per commettere un delitto.

La durata
Art. 207 comma 1 “le misure di sicurezza non possono essere revocate
se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere
socialmente pericolose”.
La durata è indeterminata (salvo eccezioni art. 237 comma 3), dura fintantoché
persiste la pericolosità sociale.

Le singole misure di sicurezza


La summa divisio è tra misure di sicurezza personali e patrimoniali. Quelle
personali si distinguono in detentive e non detentive:

misure di sicurezza personali


Art. 215 comma 1 misure di sicurezza detentive:
1. assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa lavoro;
2. ricovero in una casa di cura o di custodia;
3. ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario;
4. ricovero in un riformatorio giudiziario.
Art. 215 comma 2 misure di sicurezza non detentive:
1. libertà vigilata;
2. divieto di soggiorno in uno o più Comuni;
3. divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche;
4. espulsione dello straniero dal territorio dello Stato.
Artt. 216 e ss. riguardano la disciplina delle norme.

misure di sicurezza patrimoniali


L’art. 236 ne elenca 3:
1. cauzione di buona condotta;
2. confisca obbligatoria;
3. confisca facoltativa.

Il delinquente abituale
È un soggetto che, quanto al passato, ha ripetutamente commesso
atti criminosi, così da acquisire una sorta di familiarità o consuetudine
al delitto; e che quanto al futuro denota una spiccata pericolosità
sociale.
Art. 102 abitualità presunta dalla legge: “è dichiarato delinquente abituale
chi:
• presupposto: condanna alla reclusione in misura superiore
complessivamente a 5 anni per 3 delitti non colposi della stessa indole,
commessi entro 10 anni;

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• dichiarazione di abitualità: riporta altra condanna per delitto non colposo
della stessa indole commesso entro 10 anni successivi all’ultimo dei
delitti precedenti”.
Art. 103 abitualità ritenuta dal giudice: “salvi i casi ax art. 102, la
abitualità è pronunciata contro chi:
• presupposto: condanna per 2 delitti non colposi;
• dichiarazione di abitualità: riporta altra condanna per delitto non colposo
e qualora il giudice, tenuto conto della specie, della gravità dei reati, del
tempo di commissione, della condotta, del genere di vita del colpevole e
delle altre circostanze ex art 133, ritiene che l’agente sia dedito al delitto
”.

Il delinquente professionale
L’art. 105, che disciplina la professionalità nel reato, prevede che possa
essere dichiarato delinquente professionale chi:
• si trovi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità;
• è necessaria una ulteriore condanna;
• “viva abitualmente, anche solo in parte, dei proventi del reato”.

Il delinquente per tendenza


Art. 108 comma 1 “è tale chi, sebbene non recidivo o abituale o
professionale, commette un delitto non colposo, contro la vita o
l’incolumità individuale; il quale anche in base all’art. 133 riveli una
speciale inclinazione al delitto, per l’indole particolarmente malvagia
del colpevole.”

La conseguenza giuridica principale di queste dichiarazioni è la possibilità di


applicare, in aggiunta alla pena, le misure di sicurezza, previo accertamento
della effettiva ed attuale pericolosità sociale.

Capitolo 7

Conseguenze civili del reato

Le fonti delle obbligazioni civili da reato

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La commissione di reati comporta anche degli effetti che si producono sul
piano civilistico. Le principali fonti sono il codice civile e il titolo VII del
libro I del codice penale.

Previste dagli artt. 185 ss. c.p. sono le sanzioni civili a seguito di reato, si tratta
di vere e proprie obbligazioni civili e possono essere suddivise in due gruppi:
1. obbligazioni nei confronti delle vittime del reato (obbligo di restituzione e
risarcimento);
2. obbligazioni verso lo Stato (spese per il mantenimento in carcere e le
spese processuali).

Le obbligazioni nei confronti delle vittime: restituzione e risarcimento


del danno
Art. 185 comma 1 “ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle
leggi civili”. Per restituzione si intende:
• reintegrazione;
• oppure ripristino della situazione di fatto che preesisteva alla
realizzazione del reato.
Art. 185 comma 2 prevede che “ogni reato, che abbia cagionato un
danno patrimoniale o non, obbliga al risarcimento il colpevole e le
persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto
di lui”.
Questa disposizione rappresenta una fonte di responsabilità autonoma e
distinta rispetto a quella dettata dall’art. 2043 c.c.
Il danno patrimoniale si presta ad una valutazione economica ed è composto
dal danno emergente e dal lucro cessante.
Il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. deve essere risarcito solo nei casi
determinati dalla legge, compresi i reati.
Rientra nel danno non patrimoniale, ex art. 185 comma 2, il c.d. danno
morale, identificato nella sofferenza fisica, ovvero nel discredito o pregiudizio
sociale patito dalla vittima in conseguenza del reato.
È una entità materiale sottratta ad una puntuale valutazione economica.
È esplicitamente contemplata quale forma speciale di risarcimento del danno
non patrimoniale la pubblicazione della sentenza di condanna.

Le obbligazioni nei confronti dello stato


Art. 188 comma 1 “il condannato è obbligato a rimborsare all’erario
dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena
e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili,
presenti e futuri, a norma delle leggi civili”.
Ci potrebbe essere la remissione di debito per insolvibilità o per buona
condotta.
Tali obbligazioni non si estendono alla persona civilmente responsabile e non si
trasmette agli eredi del condannato.
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Profili di disciplina delle obbligazioni civili nascenti da reato
Le obbligazioni aventi ad oggetto le restituzioni e la pubblicazione della
sentenza di condanna sono espressamente qualificate dalla legge come
indivisibili, non suscettibili di adempimento parziale (art. 187 comma 1).
Solidarietà: “i condannati per uno stesso reato sono obbligati in solido al
risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale.”
Sussidiarietà delle obbligazioni civili per le pene pecuniarie (ovvero devono
risponderne anche altri soggetti non condannati): sorgono soltanto se il
condannato è insolvibile.
Il c.p. prevede che:
• l’obbligazione civile per le pene pecuniarie, in capo alla persona rivestita
dell’autorità sul dipendente;
• l’obbligazione civile per le pene pecuniarie, in capo alle persone
giuridiche;
Le obbligazioni civili per le pene pecuniarie di cui agli artt. 196 e 197 c.p. si
estinguono in caso di estinzione del reato o della pena: è una eccezione
rispetto alla regola generale che vale per le altre obbligazioni civili derivanti da
reato.

Le garanzie: cenni
A garanzia dell’adempimento delle obbligazioni civili nascenti da
reato, il codice penale contempla una serie di istituti:
• sequestro conservativo penale dei beni mobili e/o immobili dell’imputato,
nonché delle somme o cose al medesimo dovute; può essere evitato se
l’imputato offre idonea cauzione;
• azione revocatoria degli atti in frode a titolo oneroso o gratuito, anteriori
o posteriori rispetto all’azione;
• prelievo sulla remunerazione, per il lavoro prestato dal condannato in
carcere.

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