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[PARTE I]
CAP 1 - Caratteristiche e funzioni del diritto penale
1) Premessa
Il diritto penale, per definizione, è quella parte del diritto pubblico che disciplina i fatti che costituiscono reato.
Si definisce quindi reato ogni “fatto umano” riconnesso a sanzioni penali, le quali possono essere:
- pena
- misura di sicurezza
Entrambe, tendono al duplice obiettivo di difendere la società e risocializzare il delinquente.
Sono leggi penali quelle che riconnettono sanzioni penali alla commissione di determinati fatti.
[N.B. Riassumendo: reato, pena e misura di sicurezza costituiscono i tre pilastri dell’edificio moderno del diritto penale].
Alla luce di tali articoli, allora, il ricorso alla pena trova giustificazione soltanto se rivolto a tutelare beni socialmente
apprezzabili dotati di rilevanza costituzionale. La necessità della legittimazione in chiave costituzionale della tutela
penale è sentita soprattutto (ma non solo) in relazione alla sanzione detentiva.
2.3.1) Beni di rilevanza costituzionale implicita
La tutela penale è legittimamente estensibile anche a beni giuridici che trovino riconoscimento costituzionale solo
implicito, cioè siano legati da un “nesso funzionale” di tutela con i beni costituzionalmente previsti, tale per cui la tutela
apprestata ad un bene privo di rilievo risulti finalizzata alla salvaguardia di un bene espressamente contemplato dalla
Costituzione (ex: la protezione di un bene tradizionale come la fede pubblica, che è privo di dignità costituzionale esplicita, ma che
può essere riconosciuto come strumentale rispetti alla tutela esplicita di altri beni ).
[N.B. Poi esistono beni, che pur non essendo menzionati dalla Costituzione, rientrano nel sistema dei valori che appartengono alla
dimensione effettuale dell’ordinamento costituzionale (ex: la pietà verso i defunti) o beni la cui tutela è prodromica alla tutela di beni
costituzionalmente rilevanti (così i reati di falso tutelano la fede pubblica che permette di tutelare beni quali il patrimonio o l'economia,
esplicitamente costituzionali).
Risulta conseguentemente ammissibile la tutela di beni di nuova emersione (ex: la tutela dell'ambiente)].
L’idea di assumere a legittimi oggetti di tutela penale i soli valori dotati di rilevanza costituzionale, esplicita o implicita,
non comporta l’obbligo di creare fattispecie penali finalizzati alla sua salvaguardia. Il riferimento alla rilevanza
costituzionale offre solo un criterio di legittimazione negativa, nel senso che risulta delimitata l’area di ciò che non
potrebbe costituzionalmente mai assurgere a reato. Ma, accertato che il bene è sussumibile fra i valori costituzionali,
la scelta del se e come punire spetta al legislatore che terrà conto di ulteriori criteri.
Soccorrono qui i criteri di sussidiarietà (se la tutela del bene sia assicurabile mediante tecniche sanzionatorie
extrapenali) e meritevolezza di pena (se il disvalore dell’aggressione è tanto forte da giungere alla intollerabilità).
2.5) La teoria costituzionalmente orientata del bene giuridico ha una funzione direttiva, suggerendo al legislatore
direttive programmatiche di tutela e alla Corte costituzionale criteri di controllo della legittimità per:
- restringere l'area del penalmente rilevante. Cioè, non possono infatti costituire reato: condotte che corrispondono
all'esercizio di libertà fondamentali, purché non si tratti di incriminazioni poste a tutela di interessi-limite; condotte
immorali. [N.B. La Costituzione non ha infatti il compito di educare coercitivamente i cittadini. Di qui l'emergere di indicazioni a
favore della soppressione di fattispecie esistenti a tutela di ordine pubblico, religione, buoncostume];
- ampliare l'area del penalmente rilevante, elevando a reati fatti che ledono beni quali l'ambiente, che la coscienza
sociale vorrebbe più protetti. [N.B. Non parliamo di funzione propulsiva del diritto penale, quanto più di una funzione finalizzata
a garantire o rafforzare la tutela di beni già venuti ad esistenza].
2.6) Gli orientamenti teorici più recenti tendono a ridimensionare il ruolo del bene giuridico. Welzel sostiene che la tutela dei beni
giuridici sia solo un fine indiretto del diritto penale, il cui obiettivo primario è formare i cittadini da un punto di vista etico sociale,
predisponendoli all'osservanza delle leggi: la protezione dei beni giuridici sarebbe un obiettivo indiretto, incluso nello scopo primario.
Nuovi apporti vengono dal campo della sociologia. Amelung ad esempio ha riproposto la teoria sociologica, dottrina della dannosità sociale
di ascendenza illuministica, definendo il reato come fenomeno che ostacola il funzionamento del sistema sociale.
Il reato è inteso, quindi, come un fatto socialmente dannoso, più che un fatto lesivo di un bene giuridico.
3) I principi di “sussidiarietà” e di “meritevolezza di pena”
[N.B. la dottrina contemporaneo è quasi unanime nel riconoscere che l’esistenza di un bene meritevole di tutela non basta ancora a
giustificare la creazione di una fattispecie penale finalizzata alla sua salvaguardia].
La fattispecie penale è condizionata dall’esistenza di ulteriori presupposti:
• Si parla di carattere sussidiario del diritto penale per esprimere appunto l'idea dello strumento penale come
estrema ratio, cioè il ricorso alla sanzione penale è giustificato quando è:
- necessario dal momento che gli altri strumenti di tutela di natura civile o amministrativa sarebbero insufficienti;
- conforme allo scopo, in grado cioè di raggiungere l'obiettivo di tutela.
In questo senso il principio di sussidiarietà costituisce una specificazione del più generale principio di proporzione, che
ammette il ricorso a misure restrittive dei diritti dei singoli nei casi di “stretta necessità”, vale a dire quando queste
risultino indispensabili per la salvaguardia del bene comune.
[N.B. Il principio di sussidiarietà è stato espressamente recepito in una Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 19
dicembre 1983 la quale fornisce i criteri orientativi che il legislatore dovrebbe seguire nell'optare tra sanzione penale e sanzione
amministrativa.] Sussistono due accezioni a tale principio:
- concezione ristretta il ricorso allo strumento penale appare ingiustificato quando la salvaguardia del bene in
questione sia già ottenibile mediante sanzione di natura extrapenale. A parità di efficacia il legislatore dovrebbe optare
per quello che comprime meno i diritti del singolo.
- concezione più ampia la sanzione penale sarebbe comunque da preferire anche nei casi di non strettissima
necessarietà, tutte le volte in cui si ravvisa la necessità di una più forte riprovazione del comportamento criminale e di
conseguenza di una più energica riaffermazione dell'importanza del bene tutelato.
[N.B. La concezione ristretta corrisponde ad una visione più moderna del diritto penale e consente di raccordare meglio la tutela
penalistica alle altre tecniche di tutela extrapenale].
• Principio di meritevolezza della pena: la sanzione penale deve essere applicata non in presenza di qualsivoglia
attacco ad un bene degno di tutela, bensì nei soli casi in cui l'aggressione raggiunga un tale livello di gravità da risultare
intollerabile. Deve essere quindi punito solo l'attacco a beni degni di tutela e solo nei casi in cui l'aggressione ragiona un
livello di gravità tale da risultare intollerabile.
[N.B. Un criterio plausibile di applicazione del principio potrebbe essere il seguente: quanto più alto è il livello del bene all'interno
della scala gerarchica nella Costituzione, tanto più giustificato risulterà asserire la meritevolezza di pena dei comportamenti che
ledono o pongono in pericolo tale bene; mentre, quanto più basso è il valore del bene, tanto più giustificato apparirà limitare la
reazione penale a forme particolarmente gravi di aggressione].
4) Il principio di frammentarietà
Tale principio opera a tre livelli:
- il diritto penale punisce solo specifiche forme di aggressione al bene tutelato, non ogni aggressione da parte di terzi
(ad esempio nei delitti contro il patrimonio non punisce le violazioni contrattuali ma solo la truffa e il furto);
- la sfera di ciò che è penalmente rilevante è più ristretta rispetto alla sfera di ciò che è qualificato “antigiuridico” alla
stregua dell'intero ordinamento (es. violazioni contrattuali sono illeciti civili ma non penali);
- la sfera del penalmente rilevante non coincide con quella di ciò che è moralmente riprovevole (es. pornografia).
[N.B. Il modo di operare di tale principio è riconducibile al processo genetico delle fattispecie incriminatici. Alcuni comportamenti
umani si ripetono nel tempo con modalità pressoché uguali, si traducono infine in "forme tipiche" di aggressione ai beni socialmente
rilevanti. La stessa tendenza alla riproduzione stereotipica delle forme di aggressione ai beni induce a configurare corrispondenti "tipi
di autore" (in base alla modalità di condotta e struttura psicologica dell'agente). La limitazione del controllo penale a specifici
comportamenti garantisce di evitare il rischio di costruire un diritto penale fondato sulla personalità soggettiva del tipo di autore].
Sono state mosse anche alcune obiezioni al principio di frammentarietà:
- in prospettiva di prevenzione generale la frammentarietà della tutela contrasterebbe con l'esigenza di reprimere tutti
i comportamenti capaci di ledere il bene protetto, anche se non formalmente tipizzati. Per ovviare a tale problema la
giurisprudenza non di rado indulge verso “interpretazioni estensive” delle fattispecie incriminatici (es. art.378
favoreggiamento personale, in cui si ricomprende anche il comportamento omissivo);
- dal punto di vista della prevenzione speciale la frammentarietà contrasta con l'esigenza di risocializzazione.
Se la pena deve tendere sia ad impedire la recidiva, sia a riorientare il reo secondo il sistema di valori dominanti, allora
sarebbe più coerente penalizzare tutte le condotte lesive di beni assunti a punti di riferimento del processo rieducativo.
In realtà, la frammentarietà riflette la concezione dello strumento penale come “estrema ratio”.
5) Il principio di autonomia
[Una tesi, elaborata dal tedesco Karl Binding e portata avanti in Italia da Grispigni, attribuiva al diritto penale un carattere
ulteriormente sanzionatorio rispetto a divieti contenuti in altri rami del diritto. Esso avrebbe in questo senso una funzione secondaria
ed accessoria. Ogni condotta costituente reato sarebbe sempre e in ogni caso vietata da un'altra norma di diritto privato o pubblico: la
sanzione penale serve così di completamento e di rafforzamento all'altra sanzione non penale, stabilita dalla norma giuridica che
"antecedentemente" al diritto penale ha vietato la stessa condotta.
Dunque il diritto penale non potrebbe precedere, ma può soltanto intervenire successivamente agli altri settori dell'ordinamento].
La tesi del carattere sanzionatorio, o ulteriormente sanzionatorio è respinta: non è sostenibile l'idea di una
subordinazione del diritto penale ad altre branche del diritto: il giudice penale non è vincolato dalle precedenti valutazioni
di altri giudici per cui è indifferente che la sanzione penale sia o meno preceduta da altri tipi di sanzione.
Anche quando l'illecito penale è costruito su di un evento lesivo che fa contemporaneamente da presupposto a illeciti
extrapenali, la sua autonomia può riemergere sotto due profili:
- il primo si ricollega al principio della frammentarietà, come abbiamo già visto, l'illecito penale non abbraccia qualsiasi
lesione del bene protetto, ma rimane circoscritto a specifiche forme di aggressione tipizzate dalla fattispecie
incriminatrice, si caratterizza come "illecito di modalità di lesione".
- In secondo luogo, anche quando il diritto penale richiama indirettamente concetti o categorie propri di altri settori
dell'ordinamento (es. reati in materia societaria), le specifiche esigenze dell'imputazione penalistica possono richiedere che
il significato di questi concetti venga ricostruito in via autonoma (o parzialmente autonoma).
9) Riserva di codice
Il codice penale è andato subendo, nel corso dei decenni, un ridimensionamento della sua centralità normativa per effetto della
proliferazione di leggi speciali settoriali disseminate. Dato che alcuni settori dottrinali sono convinti della persistente necessità di restituire al
codice un ruolo centrale, il d.lgs. 21/2018 ha introdotto nel codice penale un nuovo art.3 bis intitolato “riserva di codice” e contenente la
seguente regola: “nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale
ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico l’intera materia cui si riferiscono”.
Tale regola risponde all’esigenza che le leggi penali siano allocate in testi normativi rispondenti a requisiti di precisione, organicità e
sistematicità.
Ma, come emerge dalla lettura dell’art.3 bis, si tratta di una riserva di codice solo “tendenziale”: nuove norme penali potranno trovare posto,
oltre che nel codice, anche in leggi settoriali, purché disciplinanti in maniera organica la materia cui si riferiscono.
[N.B. Proprio per conferirle efficacia davvero vincolante nei confronti del legislatore ordinario, l’idea della riserva di codice era stata in
origine concepita come riserva da prendere con legge costituzionale: in modo che il giudice delle leggi potesse rilevarne l’eventuale
violazione da parte del legislatore ordinario. L’averla introdotta invece nell’art.3 bis del codice, quindi con legge ordinaria, costituisce una
scelta politica che ne indebolisce non poco la portata vincolante poiché se il futuro legislatore dovesse per una qualsiasi ragione ritenere di
allocare nuove leggi penali fuori dal codice o fuori dai testi normativi organici, nessun rimedio giuridico sarebbe azionabile].
CAP 2 - La funzione di garanzia della legge penale
1) Premesse generali
[CASO 1: IN UNA GIORNATA MOLTO CALDA UN UOMO SI IMMERGE NUDO IN UNA FONTANA DI HYDE PARK. DENUNZIATO, È CHIAMATO A
RISPONDERE PENALMENTE PER VIOLAZIONE DELLE NORME CHE IMPEDISCONO DI INDOSSARE ABBIGLIAMENTI CONTRARI AL BUON COSTUME.]
Il principio di legalità ha una genesi squisitamente politica. La sua matrice risale alla dottrina del «contratto sociale» e
si giustifica con l’esigenza di vincolare l’esercizio del potere esecutivo e giudiziale. Il pensiero illuministico si pone come
assertore in chiave “garantistica” del vincolo del giudice alla legge, in quanto corollario della divisione dei poteri.
L’idea della tutela dei diritti di libertà si esprime fondamentalmente nel “divieto di irretroattività” della legge penale.
[N.B. Il divieto, che nella sua originaria conformazione è riferito più alla sanzione che alle regole di comportamento, trova suo
riconoscimento nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789].
La traduzione in termini giuridici del principio di legalità avviene ad opera del criminalista tedesco Anselm Feuerbach
che lo sintetizza nella formula “nulla poena sine lege”. Egli ne dà anche una giustificazione tecnica, collegando il
principio alla funzione di prevenzione generale della pena per cui, se la pena deve fungere da deterrente alla
commissione di reati, occorre che i cittadini sappiano “prima” cosa è punito.
[N.B. Grazie a tale impostazione il principio di legalità trova coerente giustificazione di ordine scientifico (strumento di “prevenzione
generale”), rimanendo al contempo chiara la sua connessione coi principi liberaldemocratici (vincolare l’esercizio del potere).
Inoltre, bisogna, guardarsi dal rischio di privilegiare la dimensione tecnica del principio di legalità, sottovalutandone la dimensione
ideologica. Infatti, nell’Italia fascista si diffuse la tesi che il principio di legalità fosse da considerare una regola di mero significato tecnico].
Nel nostro ordinamento il principio di legalità è disciplinato:
► all'articolo 25 II comma della Costituzione "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso";
► dall'articolo 1 del codice penale "Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto come reato
dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite ".
[N.B. Dal raffronto letterale tra le due norme si rileva che la disposizione costituzionale non menziona l’avverbio «espressamente»
ne fa alcun riferimento alle «pene». La diversa formulazione non deve trarre in inganno, se si fa, infatti, riferimento alla ratio
sottesa, la disposizione non può avere altro significato che quello della corrispondente norma penale].
[Il significato di garanzia (aspetto ideologico) e quello tecnico (prevenzione generale) danno luogo a tensioni conflittuali plasticamente
rappresentate nell’episodio di Hyde Park. Analizzando la ratio della norma, è ovvio che il comportamento dell’uomo rientra tra quelli che la norma
dovrebbe reprimere, ma è altrettanto ovvio che per quanti sforzi interpretativi si compiano, l’essere «nudi» non è assimilabile all’essere «vestiti».]
Da qui si può ricavare che, in linea generale, l’incompletezza della tutela di un bene costituisce sempre un male minore
rispetto ai rischi per la libertà personale.
Il principio di legalità si riferisce sia al legislatore che al giudice, e si articola in quattro sotto-principi:
• riserva di legge;
• tassatività;
• irretroattività della legge penale;
• divieto di analogia.
Il principio della «riserva di legge» esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una «legge
preesistente» che lo configuri come reato; esso, dunque, tende a sottrarre la competenza penale al potere esecutivo.
Nel moderno Stato di diritto il principio della riserva di legge si giustifica quale esigenza di garanzia per il cittadino, non
quale esigenza di certezza del diritto come argomentava in epoca assolutistica. Solo il procedimento legislativo appare
odiernamente come lo strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale: esso consente di tutelare
i diritti delle minoranze e delle forze politiche di opposizione mediante il pubblico dibattito in aula e, nello stesso tempo,
evita forme di arbitrio del potere esecutivo e del potere giudiziario.
[N.B. La ratio democratica del principio di riserva di legge abbisogna che: la discussione democratico parlamentare assicuri un autentico
confronto secondo un «modello di razionalità discorsiva» evitando forme di prevaricazione ed abuso sostanziale dell’istituto parlamentare
«Tirannia della maggioranza» (reiterazione del voto di fiducia). È necessario che le scelte politico-criminali sia oggetto di dibattito pubblico].
Nell’ordinamento italiano il principio della riserva di legge non è stato sempre inteso con la motivazione ideologica in esso sottesa,
ma, soprattutto negli anni ‘50, sono prevalse interpretazioni ispirate a “logiche conservazionistiche” del vecchio ordinamento.]
Infatti, considerato che nella tradizione legislativa italiana è frequente il fenomeno dei precetti penali «primari» integrati
da fonti normative “secondarie”, si è tentato di ridimensionare il valore della riserva degradandola a relativa.
Questa concezione, per quanto recepita in alcune risalenti sentenze della Corte Costituzionale, non è da accogliere,
perché elude le esigenze di garanzie sottese al principio di riserva di legge.
Essa pertanto deve essere intesa come assoluta.
Due le versioni della riserva di legge assoluta in materia penale:
- una formulazione «elastica» considera che il carattere assoluto della riserva di legge non implica l’esclusione del
potere normativo secondario nella configurazione del modello di reato.
[N.B. Per giustificare l’assunto si è ricorso ad un espediente concettuale sostenendo che, quando un elemento della fattispecie è
determinato tramite rinvio ad un regolamento, la fonte secondaria degrada a “mero presupposto di fatto”. Questa impostazione è
inaccettabile perché svuota dall’interno la ratio politica sottesa al principio di riserva di legge, ed inoltre non si comprende come un
regolamento possa degradarsi a “fatto”].
- una formulazione «rigorosa» alla stregua della quale è escluso che il legislatore possa attribuire il potere normativo
penale ad una fonte di grado inferiore.
[N.B. La formulazione rigorosa è quella più rispondente alla ratio della riserva di legge, nondimeno non trova corrispondenza nello
standard normativo attuale.]
Da qui l’opportunità di concedere al potere regolamentare uno spazio limitato, dal quale esulino apprezzamenti e
valutazioni di tipo politico nella scelta dei comportamenti da penalizzare, ma nel quale siano consentiti accertamenti
tecnici o specificazione di dati.
5) Rapporto legge-consuetudine
Per consuetudine si intende la ripetizione generale, uniforme e costante di un comportamento accompagnata dalla
convinzione di ottemperare ad un precetto giuridico. La consuetudine non può in diritto penale svolgere un
“ruolo incriminatore o aggravatore” del trattamento penale. Non ammessa la consuetudine abrogatrice o desuetudine.
Parte della dottrina ammette invece la consuetudine integratrice (come ad esempio si afferma che l’obbligo di impedire
l’evento può anche scaturire da una fonte consuetudinaria): tale tesi va criticata nel senso che, se non si ammette
l'integrazione ad opera della fonte secondaria, non si vede perché ammettere quella ad opera della fonte
consuetudinaria.
Cosa diversa è il riferimento a criteri di valutazione dominanti nella comunità sociale (es. cosa debba intendersi per osceno).
È ammessa anche la consuetudine scriminatrice: le norme che configurano cause di giustificazione non hanno infatti
carattere specificatamente penale, per cui le situazioni scriminanti non sono necessariamente subordinate al principio
della riserva di legge (esempio: è ammissibile che l’esercizio di un diritto quale causa di giustificazione (art.51) abbia la sua fonte in
una norma consuetudinaria).
Procediamo all’analisi delle principali forme di interazione tra norme di diritto dell’Unione e diritto penale interno:
A) la forma più importante e frequente di interazione si è manifestata nei casi di conflitto (totale o parziale) tra norme di
diritto dell’Unione e legge penale italiana.
[N.B. Competente a mettere in evidenza i problemi di conflitto e compatibilità tra norma interna e diritto dell’Unione è il giudice nazionale.
Ciò richiede una previa attività di interpretazione. Se il giudice ha un dubbio circa l’interpretazione della norma UE, può effettuare un rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, alla quale spetta il monopolio dell’interpretazione del diritto UE stesso.
Quindi, il giudice a quo (secondo un orientamento consolidato della Corte cost.) è sempre tenuto a rivolgersi alla Corte di giustizia per
risolvere ogni questione relativa al diritto dell’Unione].
Laddove il conflitto si manifesti in forma di “incompatibilità evidente”, il giudice italiano è tenuto a disapplicare (non
applicare) la norma penale in contrasto con quella di fonte UE.
L’effetto della prevalenza della disposizione UE è di tipo limitativo o restrittivo del diritto penale interno.
B) Una seconda modalità di interazione consiste nella possibilità che le norme UE delineano i presupposti di applicazione
di fattispecie incriminatrici interne. Ciò è ammissibile nell’ipotesi in cui un regolamento di fonte europea specifichi o
concretizzi “tecnicamente” uno o più elementi di fattispecie già definiti nel nucleo essenziale dal legislatore nazionale.
Diversamente, è più problematica l’ipotesi in cui una norma sovranazionale si presti ad integrare elementi normativi
della fattispecie incriminatrice, con effetti espansivi della punibilità a svantaggio dell’autore del fatto, che potrebbe
comportare inevitabilmente un indebolimento del principio della riserva di legge.
C) Per completare il quadro delle interazioni tra diritto penale interno e diritto UE, bisogna considerare l’attività
ermeneutica ad opera dell’interprete giudiziale, con riferimento alla c.d. “interpretazione conforme” al diritto UE.
Si tratta, cioè, di quel canone ermeneutico secondo cui il giudice è tenuto a prescegliere quelle interpretazioni del diritto
interno che risultano in armonia col diritto sovranazionale.
L’interpretazione conforme è giustificata dal principio di “leale collaborazione” e di “fedeltà comunitaria”. Inoltre,
l’interpretazione conforme ha come propri confini quei casi in cui è in questione la compatibilità tra diritto interno e
norme sovranazionali.
[N.B. La Corte di giustizia ha affermato che l’obbligo in capo agli Stati di conseguire il risultato voluto da una direttiva si impone a tutti gli
organi dello Stato (compresi i giudici) i quali sono tenuti in base alle rispettive competenze a contribuire al conseguimento del risultato in
questione. Tale interpretazione è senz’altro legittima se ne derivano esiti applicativi in senso riduttivo della punibilità e quindi migliorativi
della situazione giuridica dell’imputato].
6.2.1) Analizziamo le più rilevanti forme di influenza che il diritto CEDU ha prodotto:
- il primo effetto consiste nell’innalzamento degli standard di garanzia, in vista di una più efficace protezione dei diritti
fondamentali dei soggetti che sono coinvolti in vicende penalmente rilevanti.
Tale impulso di “potenziamento della dimensione garantistica” si è manifestata nell’ambito, più interessante, del diritto
penale sostanziale, con alcune peculiarità inerenti i concetti di legalità penale e materia penale.
(per ulteriori approfondimenti vedi pag.82 e 83)
È inoltre da rilevare che l’incidenza delle norme CEDU sul nostro diritto penale è destinata ad esplicarsi sotto forma di
“effetti riduttivi” dell’area del penalmente rilevante. L’esigenza di dare più spazio alla più ampia esplicazione dei diritti
umani, liberandoli da eccessive compressioni, può comportare una restrizione della sfera di operatività dei precetti
penali, ovvero una mitigazione della risposta sanzionatoria.
[N.B. ad esempio, i casi in cui gli effetti riduttivi ricadono sulla sanzione sono: proibizione della tortura e dei trattamenti inumani e
degradanti; divieto di procedere all’espulsione dei cittadini extracomunitari che hanno commesso un reato; considerare illegittimo
l’automatismo con il quale l’ordinamento italiano prevede la perdita definitiva del diritto di voto, in conseguenze dell’interdizione
legale perpetua, da parte del condannato in caso di condanna all’ergastolo, ecc.]
In realtà, tale prospettiva di rafforzamento della tutela si manifesta anche in direzione opposta, e cioè maturando la
tendenza contraria ad individuare nel diritto penale un efficace strumento di protezione degli stessi diritti fondamentali,
con conseguente utilizzazione delle norme CEDU come fonte di effetti non solo riduttivi, ma anche “espansivi” della
punibilità nell’ambito degli ordinamenti interni. Quindi, anche dalla CEDU e dalla relativa giurisprudenza sorgono
obblighi positivi di tutela penale che comportano un ampliamento degli spazi di intervento punitivo.
[N.B. Ovviamente vi è da segnalare che questa “proliferazione degli effetti espansivi della punibilità di fonte giurisdizionale” manca di
quella legittimazione democratica, che rappresenta comunque la principale ratio di garanzia del principio di riserva di legge in materia
penale, così come previsto dalla Costituzione.]
Ratio del principio di tassatività: il principio di legalità sarebbe rispettato nella forma ma eluso nella sostanza se la legge
che eleva a reato un dato fatto lo configurasse in termini così generici da non lasciare individuare con sufficiente
precisione il comportamento penalmente sanzionato. Appartiene, dunque, alla stessa “ratio” del principio di legalità
l’esigenza di tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie.
Mentre il principio di legalità riguarda la “gerarchia delle fonti in materia penale”, il principio di determinatezza riguarda
le “tecniche di formulazione” delle fattispecie criminose e tende a salvaguardare i cittadini contro eventuali “abusi del
potere giudiziario”.
• Il principio di determinatezza fa da “riscontro” (pendant) al criterio della frammentarietà: se la tutela penale è
apprestata solo contro determinate forme di aggressione ai beni giuridici, è necessario che il legislatore specifichi con
sufficiente precisione i comportamenti che integrano le modalità aggressive punite. Cioè la determinatezza della
fattispecie incriminatrice rappresenta una imprescindibile condizione affinché la norma penale possa fungere da guida
dei comportamenti del cittadino.
Ma la giustificazione del principio di tassatività non si ferma al “diritto penale sostantivo”, ma arriva al “diritto
processuale” in quanto la sua elusione pregiudicherebbe lo stesso principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Principio di tassatività e caratteristiche dell’ordinamento penale vigente.
Tra principio di tassatività ed ordinamento penale vigente esiste uno scarto sensibile in gran parte rinvenibile nella
“carenza di sufficiente determinatezza” oltre che in un “eccesso di autolimitazione” della Corte Costituzionale.
[N.B. Infatti, nella quasi totalità dei casi la Corte ha respinto le eccezioni sollevate sotto il profilo della violazione del principio di tassatività
facendo leva su criteri discutibili. Questo a causa della preoccupazione di creare dei vuoti di tutela ed entrare in conflitto con il legislatore.
A ciò si è aggiunta la remora derivante dalla obiettiva difficoltà di stabilire con precisione, in rapporto alle varie fattispecie incriminatrici, il
confine tra sufficiente determinatezza (o indeterminatezza tollerabile) e indeterminatezza confliggente col principio di tassatività.
a) Secondo un filone giurisprudenziale, piuttosto risalente, la Corte ha operato il salvataggio delle norme in base al criterio del “significato
linguistico”. In altri termini, al giudice sarebbe sempre possibile rintracciare un significato determinato dei termini impiegati
corrispondente al normale uso linguistico.
b) Un altro filone fa leva sull’argomento del “diritto vivente”, che consiste nell'interpretazione prevalente che la giurisprudenza conferisce
a una determinata norma incriminatrice, o in mancanza, nel rapporto dialettico tra le diverse interpretazioni giurisprudenziali (cioè,
competerebbe al giudice scegliere la soluzione ermeneutica preferibile). Così facendo però si rischia di attribuire un ruolo eccessivo alla
giurisprudenza ordinaria che viene caricata del ruolo di supplire alle mancanze del legislatore.
c) Non mancano però nella giurisprudenza costituzionale prese di posizione che si segnalano per un’apertura maggiore verso il principio di
tassatività. Si segnala in questo senso la fondamentale sentenza sul plagio n. 96/81 che ha avuto il merito di precisare che la tassatività non
attiene solo alla “formulazione linguistica o intelligibilità” della norma, ma anche alla “verificabilità empirica” del fatto da essa disciplinato.
Ovviamente, deve infatti ritenersi implicito anche l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà:
sarebbe assurdo ritenere che possano considerarsi determinate in coerenza col principio di tassatività della legge, norme che esprimano
situazioni e comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili, e tantomeno concepire disposizioni che ordinino o puniscano
fatti che devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili].
Del resto l'ambiguità spesso riscontrabile nella normativa penale (specie in quella più recente) è una diretta
conseguenza della tendenza compromissoria che caratterizza l'attuale attività legislativa: l'esigenza di bilanciare beni e
interessi di cui sono portatrici forze politico-sociali confliggenti, che si traduce, a livello di redazione delle fattispecie
penali, in formulazioni spesso troppo generiche e incerte, con l’intento di scaricare sul potere giudiziario il compito di
mediare tra opposte esigenze di tutela difficilmente compatibili in sede politica. Di qui la ricorrente tentazione della
giurisprudenza di colmare le lacune e risolvere le ambiguità.
Il principio di tassatività serve allora come freno a questa tendenza, in salvaguardia dei cittadini, contro eventuali abusi
del potere giudiziario.
Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore.
Tale principio si collega con il principio di legalità, laddove, secondo gli illuministi, appariva gravemente lesivo del diritto di
libertà del cittadino consentire allo Stato di incriminare un’azione che, al momento della sua commissione, non era
penalmente sanzionata, anche se già contraria alla morale o persino al diritto.
Il principio in esame è previsto per tutte le leggi: l'art.11 delle disposizioni preliminari del codice civile stabilisce "la legge
non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Ma esso ha rango costituzionale solo per le leggi penali.
L'art.25 della Costituzione stabilisce infatti che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso". Il principio assume il significato di garanzia del cittadino nei confronti dei detentori del potere
legislativo.
A livello di legislazione ordinaria, il principio si riconosce nell’articolata disciplina nell’art.2 del codice penale:
- il co.1 ribadisce l’irretroattività della norma incriminatrice (cioè penale) [si collega all’art.25 Cost];
- i co.2 e 3 sono ispirati dal diverso principio di retroattività della norma più favorevole al reo successivamente emanata.
[N.B. Ci si domanda se vi sia contrasto tra divieto di irretroattività costituzionalizzato e il principio di retroattività della norma più
favorevole al reo contenuto nell’art.2. Il contrasto sussiste solo sul piano formale. Difatti, la “ratio” sottesa al principio codicistico
della applicabilità della norma più favorevole è identica a quella che riconosce il principio costituzionale di irretroattività: in entrambi i
casi, all’ordinamento sta a cuore al singolo la libertà o, comunque, maggiori spazi di libertà.
In ogni caso il principio di retroattività della legge più favorevole può dirsi costituzionalizzato anch’esso in base all’art.3 della
Costituzione con riferimento alla parità sostanziale di trattamento: sarebbe, difatti, irragionevole continuare a punire (o punire più
gravemente) un soggetto per un fatto che chiunque altro può impunemente (o punito con minor gravità) commettere.
È da precisare che il divieto di retroattività riguarda il solo diritto penale sostanziale, non anche quello processuale.
Nel diritto sostanziale il divieto concerne tutti gli elementi dell’illecito penale: condizioni di punibilità, le modifiche in
malam partem, nonché le conseguenze penali.
• La legge 85 del 2006 (modifiche al codice penale in materia di reati di opinione) ha aggiunto all'art.2 c.p questo nuovo
co.3 con il quale ha disciplinato l'ipotesi della modifica nel tempo del trattamento sanzionatorio intervenuta dopo il
passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
«Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta
si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'art.135».
Il legislatore ha così innovato rispetto al precedente principio dell'intangibilità del giudicato.
[N.B. Innovazione che appare apprezzabile in quanto se è vero che il fatto continua a rimanere penalmente illecito è altrettanto
vero che la modifica rilevante al trattamento sanzionatorio non può rimanere priva di effetti anche dopo il giudicato. Pena
l’irragionevolezza manifesta della disciplina.
Ma che succede quando la pena detentiva passata in giudicato risulta di quantità superiore al nuovo massimo di pena pecuniaria?
La soluzione più congrua sarebbe quella di convertire la pena nel massimo della nuova pena pecuniaria].
13) Successione di leggi integratici di elementi normativi della fattispecie criminosa
Si discute se e in quali limiti la disciplina di cui all’art.2 sia applicabile alle modifiche normative che non incidono
direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie, ma che incidono solo in maniera “indiretta” o “mediata”.
[Esempio: si consideri il CASO 9. Premesso che il delitto di calunnia consiste nell’incolpare falsamente taluno di un reato, ci si chiede se il delitto di
calunnia permane o viene meno quando il fatto oggetto di falsa incolpazione, in seguito al mutare della disposizione, non costituisce più reato].
La soluzione è controversa, essendo registrabili orientamenti diversi:
a) secondo un orientamento restrittivo, a tutt’oggi prevalente, la disciplina dell’abolitio criminis ex co.2 art.2 è inapplicabile alla
abrogazione di norme integratrici di fattispecie incriminatrici; la legge abrogatrice, infatti, non introdurrebbe alcuna differente
valutazione dell’astratta fattispecie incriminatrice e del suo disvalore, ma eliminerebbero disposizioni penali o extrapenali che si
limitano ad influire sul caso singolo; all’interno di questo indirizzo rigoroso qualche autore perviene ad una soluzione diversa in caso
di norma penale in bianco; qui l’abolizione della disposizione implicherebbe un diverso giudizio sul disvalore astratto.
b) un altro orientamento, mediano, suggerisce di distinguere a seconda che l’elemento normativo sia o non in grado di incidere
sulla portata ed il disvalore astratto della fattispecie incriminatrice. (Così, ad esempio, nel caso della calunnia, la falsa incolpazione
continua a mantenere il suo carattere offensivo anche se il fatto non è più reato. Non così per il caso, ad esempio, di associazione
per delinquere. Se lo scopo dell'associazione cessa di costituire reato viene meno l'offensività del fatto).
Essendo difficile stabilire con certezza quale modifica mediata incida sulla fattispecie incriminatrice astratta, appare
preferibile la tesi estensiva che riporta alla disciplina dell’art.2 tutte le ipotesi fin qui considerate.
La disposizione integratrice, contribuendo a descrivere il fatto che costituisce reato, finisce sempre con l'incorporarsi
con la norma incriminatrice.
[N.B. Allo stesso risultato si perviene considerando che il concetto di “fatto” non può assumere significato diverso nel co.1 rispetto
al co.2 dell’art.2. Infatti, se nell’ipotesi di nuova incriminazione, il concetto di fatto ricomprende tutti i presupposti rilevanti per
l’applicazione della fattispecie incriminatrice, non si comprende per quale ragione lo stesso non debba valere rispetto all’abolizione
di incriminazione preesistente.]
Occorre, quindi, stabilire il concetto di leggi eccezionali non suscettibili di applicazione analogica sia “in malam partem”,
sia “in bonam partem”:
- sono da considerarsi “regolari” le norme che disciplinano situazioni generali in cui può versare chiunque al ricorrere di
determinati presupposti;
- ci si trova di fronte a norme “eccezionali” tutte le volte in cui viene introdotta una disciplina che deroga, relativamente
a casi particolari, all’efficacia della disciplina generale.
Applicando questo canone, non tutte le norme che prevedono cause di non punibilità hanno carattere eccezionale.
[Ad esempio, le cause di giustificazione o di esclusione della colpevolezza possono essere estese con procedimento analogico, dal
momento che sono dei presupposti generali di applicazione delle norme incriminatrici.]
È, invece, preclusa l’analogia rispetto alle cause di non punibilità che fanno riferimento a situazioni particolari o
riflettono motivazioni politico-criminali specifiche.
X [Ad esempio, il ricorso al procedimento analogico è escluso rispetto a:
- regole di immunità (le quali derogano al principio della generale obbligatorietà della legge penale rispetto a tutti coloro che si
trovano nel territorio dello Stato);
- cause di estinzione del reato e della pena (che derogano alla normale disciplina dell'illecito penale e delle conseguenze
sanzionatorie);
- cause speciali di non punibilità (che rispecchiano valutazioni politico-criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione
presa in considerazione e perciò non estendibile ad altri casi).]
Infine, rispetto alle circostanze attenuanti, il problema dell'applicabilità dell'analogia appare privo di importanza pratica
in seguito all'introduzione delle c.d. attenuanti generiche ex art.62 bis.
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3) Le ragioni della «problematicità» del vincolo del giudice alla legge penale.
L’esigenza di evitare l’arbitrio giudiziale è stata avvertita nell’ambito del pensiero illuministico. In base al principio
illuministico della separazione del potere, il giudice risulta vincolato alla legge penale.
La convinzione dell’assoluto primato del vincolo alla legge ha caratterizzato anche il positivismo giuridico di marca
tradizionale, tendenza che, nel nostro paese, ha potuto atteggiarsi a teoria strumentale all’ideologia fascista postulando
che la stretta osservanza della legge si risolveva in un mero supporto attuativo delle scelte compiute dal legislatore.
L’idea positivistica del giudice mero esecutore della volontà legislativa continua, peraltro, a far parte del bagaglio
culturale della nostra giurisprudenza. Ma, gli studi più approfonditi sulla prassi dell’interpretazione, segnalano che il
vecchio ideale del giudice ridotto a “bocca” della legge non costituisce una realtà. Questo per diverse ragioni.
A dispetto del brocardo “in claris non fit interpetatio” (cioè: nella chiarezza non serve l’interpretazione), anche la formula
legislativa più chiara abbisogna di interpretazione, dato che ciò che veramente conta per il giudice non è il semplice
significato linguistico, ma l’obiettivo di tutela che con essa il legislatore intende perseguire.
È un dato inoppugnabile, infatti, che la tecnica legislativa va incontro agli stessi limiti oggettivi inerenti all’uso del
linguaggio: i segni linguistici non sempre riescono a riflettere tutte le sfaccettature dei dati reali che simboleggiano, per
cui è inevitabile un certo scarto tra linguaggio e realtà. Inoltre, la tendenziale uniformità tra linguaggio giuridico e
linguaggio comune espone le formule giuridiche agli stessi margini di ambiguità ed equivocità propri del lessico
corrente. Diventa, così, indispensabile per scegliere all’interno dello «spazio semantico» (area di significanza) di una
espressione linguistica, il significato più congruo alla volontà legislativa.
La necessità di una indagine ermeneutica è, del resto, imposta dallo stesso procedimento di sussunzione del caso
concreto nella norma generale ed astratta. I casi pratici presentano non di rado caratteristiche inedite, questo impegna
il giurista-interprete ad una continua reinterpretazione delle norme vigenti, per verificare se la portata della norma da
applicare sia tale da poter ricomprendere anche i nuovi casi emergenti.
[N.B. Occorre prendere atto che l'interpretazione risulta essere un momento creativo. Ciò non significa evidentemente legittimare una
determinazione arbitraria del diritto da parte dell'organo giudicante. Il principio costituzionale della sottoposizione del giudice alla legge rimane
un'irrinunciabile garanzia per la libertà dei cittadini. Ne deriva che non si potrà mai oltrepassare il limite letterale.]
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1. I principi che presiedono all’applicazione della legge penale nello spazio: premessa
Per determinare i limiti spaziali di applicabilità della legge penale, sono prospettabili 4 principi:
- principio di territorialità per il quale la legge nazionale si applica a chiunque, cittadino, straniero o apolide,
delinque nel territorio dello Stato.
- principio di difesa o tutela che rende applicabile la legge dello Stato cui appartengono i beni offesi o cui
appartiene il soggetto passivo del reato.
- principio di universalità a tenore del quale la legge nazionale si applica a tutti i delitti dovunque e da
chiunque commessi.
- principio di personalità in virtù del quale si applica sempre la legge dello Stato di appartenenza del reo.
Nel nostro ordinamento, nessuno dei principi predomina in modo assoluto e si assiste ad una combinazione di principi
diversi per contemperare la tutela di molteplici interessi.
[N.B. Il principio di stretta territorialità, dominante in passato, è andato subendo negli ultimi anni un sensibile ridimensionamento poiché si
è fatto sempre più ricorso allo strumento delle convenzioni internazionali e quindi l’ordinamento penale italiano ha concesso maggior
spazio al principio di universalità con conseguente incremento dei casi di punibilità di delitti commessi all’estero. Nella prospettiva di una
più efficace repressione internazionale di alcune gravi forme di criminalità è stata creata la Corte penale internazionale, organo
competente a giudicare di alcuni crimini di rilievo internazionale in via suppletiva rispetto all’azione delle giurisdizioni nazionali].
2. Reati commessi nel territorio dello Stato: concetto di territorio
L’art.6 comma 1 sancisce il principio di territorialità, affermando che è punito secondo la legge italiana “chiunque
commette un reato nel territorio dello Stato”.
La nozione di territorio è fornita dall’art.4: “Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e
ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato,
ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera”.
[N.B. Al riguardo il territorio dello Stato è costituito dalla superficie terreste compresa nei suoi confini politico-geografici oltre che dal mare
costiero e dallo spazio aereo. Il mare territoriale italiano si estende per 12 miglia marine dalla linea costiera e dalle linee rette che uniscono i
promontori, mentre, lo spazio aereo trova il suo limite nella zona c.d.ultratmosferica cioè sovrastante l’atmosfera terreste. Inoltre, fa parte del
territorio dello Stato anche il sottosuolo fino alle profondità raggiungibili con l’impiego di mezzi meccanici.]
Un concetto convenzionale di territorio vale per le navi e gli aeromobili, che si considerano come territorio dello Stato,
ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniere (art.4.2)
L’applicabilità di questo principio “della bandiera” è incondizionata per le navi e gli aeromobili di Stato, mentre per quelli privati
(civili e mercantili) è limitata alle ipotesi in cui essi si trovino in alto mare o in una zona non soggetta a sovranità straniera.
L’accoglimento del principio dell’ubiquità comporta, in tema di concorso di persone, che il reato si consideri commesso
nel territorio dello Stato, sia se l’azione venga iniziata all’estero e proseguita in Italia o viceversa, sia nel caso in cui, pur
essendo il reato eseguito interamente all’estero, un qualsiasi atto di partecipazione sia compiuto in Italia o viceversa.
[N.B. Problematica è l’applicabilità del principio di ubiquità rispetto al reato continuato poiché a fronte di un orientamento che
nega l’applicabilità della legge italiana a fatti commessi all’estero, in dottrina si è sostenuta la tesi dell’applicabilità dell’art.6 c.p.
tutte le volte in cui tale disciplina porti concreti vantaggi all’imputato].
• L’art.10 disciplina le ipotesi dello straniero che commette all’estero delitti comuni (diversi da quelli dell’art.7) a danno
dello Stato o di un cittadino italiano (art.10.1) oppure a danno di uno Stato estero o di uno straniero (art.10.2).
Se il reato è commesso a danno dello Stato o cittadino italiano, occorre che si tratti di un delitto punito con la reclusione
non inferiore nel minimo ad 1 anno, che il reo si trovi nel territorio dello Stato e che vi sia richiesta del Ministro della
giustizia oppure istanza o querela della persona offesa. La perseguibilità del reato commesso all’estero è subordinata
agli stessi requisiti richiesti per il caso in cui il fatto sia compiuto nel territorio dello Stato italiano quindi la proposizione
della querela insieme alla richiesta del Ministro rappresenta una condizione necessaria nel caso in cui essa sia prevista
dalla legge in via generale.
[N.B. Se il reato è commesso dallo straniero a danno di uno Stato estero o di un cittadino straniero, l’art.10.2 esige la presenza del
reo nel territorio dello Stato e la richiesta del Ministro e che sia prevista per il delitto la pena dell’ergastolo oppure la reclusione
non inferiore nel minimo a 3 anni e che l’estradizione non sia stata concessa o accettata].
3.1.
Il primo tentativo dottrinale di estrapolare dal codice l’offensività come principio generale dell’ordinamento
penale prende avvio con l’interpretazione dell’art.49 co.2 (per il quale la punibilità è esclusa quando, per la
inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa è impossibile l’evento dannoso o pericoloso).
I sostenitori della nuova “ermeneutica” tendono a reinterpretala come se essa affermasse un principio generale
per cui non può esservi reato senza effettiva lesione o messa in pericolo di un bene giuridico. Seguendo tale
interpretazione del art.49 co.2, che permette di riconoscere implicitamente il criterio dell’offensività (concezione
realistica dell’illecito), una parte della giurisprudenza ha escluso la punibilità del c.d. “falso grossolano o innocuo”.
Un’altra parte della dottrina però contesta la possibilità di ravvisare nel #49.2 la fonte normativa, a livello
codicistico, della concezione realistica del reato ancorata al principio di offensività.
3.2
A partire dagli anni ’70, si è individuata nella Costituzione la fonte legittimatrice del principio di offensività come
principio-cardine del sistema penale, scegliendo come norme-chiavi:
- l’art.25 comma 2
- i commi 1 e 3 dell’art.27
[N.B. gli stessi usati per l’elaborazione della teoria costituzionalmente orientata del bene giuridico].
Muovendo dal “combinato disposto” dei predetti articoli, la dottrina maggioritaria giunge a sostenere che il reato
non può incentrarsi su un atto di infedeltà all’autorità statale o sulla pericolosità soggettiva dell’autore;
esso deve consistere in un fatto socialmente dannoso, e cioè in un fatto oggettivamente lesivo (in forma di
“danno o di messa in pericolo”) di beni o interessi rilevanti, e per questo meritevoli e bisognosi di tutela.
■ Il principio di offensività opera su un duplice piano:
1) esso funge da criterio di conformazione legislativa dei fatti punibili, a livello di fattispecie incriminatrici
astratte. Esso vincola il legislatore a costruire i reati dal punto di vista strutturale come fatti che
incorporano un’offesa a uno o più bene giuridici.
2) criterio giudiziario-interpretativo: esso come tale impegna il giudice in sede applicativa a qualificare come
reati soltanto fatti che siano idonei anche in concreto a offendere beni giuridici.
[N.B. Tale duplice ruolo del principio di offensività è riconosciuto anche dalla Corte costituzionale ma essa tende a
ridimensionare l’apparente assolutezza di tale principio a fronte di esigenze di anticipazione di tutela ed ammettendo che
non sono incompatibili con tale principio neanche le fattispecie di pericolo presunto o astratto, purché la scelta legislativa di
tali modelli di incriminazione si fondi su collaudate regole di esperienza].
4. Delitti e contravvenzioni
Il codice Rocco opera una “summa divisio” nell’ambito degli illeciti penali, distinguendo i reati in:
- delitti rappresentano le forme più gravi di illecito penale;
- contravvenzioni rappresentano le forme meno gravi di illecito penale.
[N.B. Per molto tempo la dottrina si è sforzata di trovare un criterio sostanziale di differenziazione tra queste 2 figure e tale
ricerca è stata influenzata dalle concezioni politico-criminali dominanti.
● Secondo il punto di vista che risale al Beccaria, mentre i delitti offenderebbero la sicurezza pubblica e privata, coincidente
con l’integrità dell’insieme dei diritti di natura (“mala in se”), le contravvenzioni violerebbero solo leggi destinate a
promuovere il pubblico bene (“mala quia prohibita”). Tale impostazione, di marca giusnaturalistica, è lontana dagli
ordinamenti penali moderni che sono caratterizzati da delitti posti a protezione di interessi di pura creazione legislativa e
contravvenzioni finalizzate alla protezione di beni “preesistenti” all’attività di legiferazione.
● Secondo un’altra teoria, i delitti offenderebbero le condizioni primarie ed essenziali del vivere civile mentre le
contravvenzioni minaccerebbero le condizioni secondarie e contingenti della convivenza. Tale tesi non è attendibile poiché
anche le contravvenzioni possono aggredire le condizioni primarie della vita sociale e la differenza con i delitti potrebbe
essere il minor grado di offesa prodotto dalle contravvenzioni alle condizioni primarie della convivenza.
● Secondo un’altra tesi risalente ad Arturo Rocco, le contravvenzioni sono azioni o omissioni contrarie all'interesse
amministrativo dello Stato, ma neanche questo criterio permette una sicurezza differenziazione tra delitti e contravvenzioni
dal momento che esistono delitti posti a tutela di interessi amministrativi].
Il fallimento dei diversi tentativi intesi a rinvenire una differenza sostanziale fra delitti e contravvenzioni ha fatto
in modo che la differenza tra queste 2 forme di reato si poggiasse su un “criterio quantitativo”, cioè in ragione
della maggiore o minore gravità.
Il problema relativo ai criteri sostanziali di distinzione tra delitti e contravvenzioni è tornato d’attualità in via
indiretta a seguito del dibattito sul rapporto illecito penale e illecito amministrativo depenalizzato.
La legge 689/1981, che rivaluta l’illecito amministrativo, ha giustificato l’interrogativo se si possa superare la
bipartizione dei reati in delitti e contravvenzioni, trasferendo l’intero settore degli illeciti contravvenzionali nel
campo degli illeciti puniti con una sanzione pecuniaria amministrativa.
A prima vista, potrebbe sembrare una scelta politico-criminale opportuna dato che le contravvenzioni sono
considerate figure minori di illecito e meno gravi dei fatti costituenti delitti.
Ma un’eventuale trasformazione di tutte le contravvenzioni in illecito amministrativo appare sconsigliabile.
Esistono tipi di illecito posti in una “zona intermedia”, i quali pur non integrando i requisiti richiesti dalla
qualificazione in termini di delitto, non tollerano una loro riduzione a mero illecito amministrativo per 2 ragioni:
- la semplice sanzione amministrativa apparirebbe poco proporzionata rispetto al rango del bene protetto o al
grado dell'offesa;
- sanzione amministrativa garantirebbe un'efficacia preventiva minore rispetto al ricorso alla sanzione penale.
Il mantenimento della distinzione tra delitti e contravvenzioni può trovare giustificazione nell’esigenza di
configurare modelli di disciplina penale differenziati in funzione delle peculiarità strutturali di determinati illeciti
La Circolare della Presidenza del consiglio dei ministri del 1986 stabilisce i criteri orientativi per la scelta tra delitti e
contravvenzioni. Il settore privilegiato della materia contravvenzionale dovrebbe circoscriversi a 2 categorie di illeciti:
a) fattispecie di carattere preventivo-cautelare che codificano regole di prudenza, diligenza, finalizzate alla tutela di
beni primari come la vita, l’integrità fisica (ad es.art.673 ss.).
Quanto all’indifferenza del dolo o della colpa (art.42 ult.comma), la circolare osserva che in tali fattispecie,
trattandosi di regole che disciplinano attività o situazioni pericolose, la loro inosservanza è significativa, quale che sia
l’elemento psicologico che sorregge l’azione.
b) fattispecie concernenti la disciplina di attività sottoposte a un potere amministrativo in vista del perseguimento di
uno scopo di pubblico interesse.
Quanto all’indifferenza del dolo o della colpa, in queste fattispecie l’atteggiamento psicologico rimane indifferente
poiché l’illiceità dipende da una valutazione operata dalla PA.
Inoltre, circa la non punibilità del tentativo, essa viene giustificata diversamente per le due fattispecie:
aa) per le prime fattispecie, viene giustificata con la loro natura intrinseca di reati di pericolo;
bb) per le seconde fattispecie, viene giustificata perché ciò che rileva penalmente non è l’azione diretta a realizzare
l’attività sottoposta al potere amministrativo, ma rileva proprio la realizzazione di questa attività.
[N.B. La Circolare avverte come il particolare regime giuridico delle contravvenzioni non presenti univocamente elementi di minore
gravità rispetto al regime previsto per i delitti, per cui sarebbe da escludere il “criterio quantitativo” per differenziare gli illeciti
contravvenzionali e gli illeciti delittuosi: cosi ad esempio, in termini di pena, se la contravvenzione può risultare meno grave del delitto
(essendo l’ammenda la più tenue delle sanzioni penali previste nel nostro sistema), ma può essere anche più grave (l’arresto è più incisiva
della multa).
La Circolare ha il merito di introdurre “elementi di razionalizzazione” per la scelta legislativa tra delitto e contravvenzione, ma il suo
limite consiste nella tendenza a privilegiare indicazioni provenienti dall'ordinamento vigente come se dovessero per forza valere
come direttrici-guida dell’attività del futuro legislatore].
Sul piano del diritto positivo il criterio più sicuro di distinzione tra le due figure (delitti e contravvenzioni) rimane
quello di “natura formale” che fa leva sul diverso tipo di sanzioni comminate, come stabilisce l’art.39 “I reati si
distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo
codice”;
e l’art.17 dispone che le pene principali stabilite per i delitti sono: • l'ergastolo; • la reclusione; • la multa.
Mentre, le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: • l'arresto; • l'ammenda.
I delitti richiedono, di regola, il dolo e la punibilità a titolo di colpa rappresenta l’eccezione (art.42 co.2).
Nell’ambito delle contravvenzioni si risponde “indifferentemente” a titolo di dolo o di colpa (art.42 co.4), a meno
che non si versi in quei casi eccezionali in cui è la stessa struttura del fatto contravvenzionale a richiedere di per
sé, necessariamente, il dolo (molestie o disturbo alle persone per petulanza o altro biasimevole motivo ex. art.660)
o la colpa (rovina di edifici o altre costruzioni ex art.676).
Quanto al tentativo, esso è di regola esclusivamente configurabile nell’ambito dei delitti.
[N.B. La distinzione può assumere rilievo anche in relazione alla professionalità, all’abitualità nel reato, alle misure di
sicurezza, alle cause di estinzione del reato e della pena, ecc.]
La delega non deve avere carattere fraudolento e deve risultare in modo certo e inequivoco, perciò a tale scopo si
richiede che essa risulti da atto scritto recante data certa e che sia accettata dal delegato per iscritto.
Inoltre, deve essere attribuita a persona tecnicamente competente rispetto alla natura delle funzioni delegate.
Essa deve comportare il trasferimento di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo necessari per lo
svolgimento dei compiti assegnati.
Inoltre, tale d.lgs. non considera come presupposto di legittimità della delega le dimensioni dell’impresa.
Il d.lgs. esplicita invece come requisito aggiuntivo di validità l'autonomia di spesa, cioè l'attribuzione al soggetto
delegato del potere di disporre autonomamente delle risorse finanziarie necessarie per poter svolgere le sue
funzioni.
Rispetto poi alla questione relativa all'individuazione dei soggetti titolari di funzioni dirigenziali nell'impresa, il
decreto dà rilievo all'investitura formale dei ruoli apicali (cioè datore di lavoro, dirigente e preposto) ma nel
contempo tiene conto dell'esercizio di fatto di funzioni dirigenziali.
Infine, sui soggetti deleganti incombe un obbligo di vigilanza ciò è sostenibile in base al principio secondo cui la
delega non libera il titolare originario, ma implica un dovere di controllo sugli adempimenti incombenti sul
soggetto delegato sia se l’impresa sia dotata di un idoneo sistema di controllo sia di imprese che non si dotano di
modelli organizzativi e di gestione.
Inoltre, il soggetto passivo può assumere rilevanza, oltre che per le sue caratteristiche, anche per la condotta
tenuta anteriormente, contemporaneamente oppure successivamente al reato.
Più di recente, si ricorre all’espressione reati senza soggetto passivo o senza vittima per indicare ipotesi di
incriminazione, dietro le quali non è facile individuare l’offesa ad un bene giuridico afferrabile, si pensi a certi reati
contro la moralità pubblica come il delitto di pubblicazioni oscene, offensivo di un indefinito comune sentimento
del pudore e ai c.d. reati ostativi cioè figure di illecito a pericolo astratto che incriminano atti che rappresentano
soltanto il presupposto di una concreta aggressione ad un ben definito bene oggetto di protezione
[N.B. La categoria del soggetto passivo del reato è andata negli ultimi tempi assumendo un’importanza crescente su un
triplice terreno dogmatico-interpretativo, politico-criminale e criminologico.
Dal punto di vista dogmatico-interpretativo, il riferimento alle caratteristiche del soggetto passivo viene utilizzato, da parte di
una recente dottrina per ricostruire alcuni settori della parte speciale del codice in maniera coerente con il principio del
diritto penale come “ultima ratio”.
Lo studio del soggetto passivo o vittima del reato forma oggetto di una branca della criminologia, la c.d. vittimologia.
L’approfondimento criminologico degli atteggiamenti e delle relazioni del soggetto passivo del reato può riuscire a far luce
sul complesso dei fattori implicanti nella genesi e nella dinamica del delitto.
L’arricchimento delle conoscenze empiriche in materia è utile sotto il profilo politico-criminale poiché fornisce al legislatore
futuro una base conoscitiva indispensabile per modellare la tutela penale tenendo conto anche del grado di vulnerabilità
delle vittime dei diversi reati.]
L’individuazione del soggetto passivo del reato assume rilevanza pratica ai fini:
- della presentazione della querela (artt.122 ss);
- dell’ammissibilità del consenso scriminante della persona offesa (art.50), se per la querela è sufficiente che la
presenti uno solo dei soggetti passivi, l’operatività del consenso è subordinata all’esistenza di una concorde
volontà di tutti i titolari dell’interesse protetto.
3) Fatto tipico
Nel diritto penale il concetto di fatto tipico (fattispecie, tipo delittuoso) va inteso in una accezione ristretta
comprendente il «complesso degli elementi che delineano il volto di uno specifico reato».
Per il legislatore costruire il concetto di fatto con i contrassegni che delineano il volto di uno specifico illecito penale,
significa, innanzitutto, rispettare il principio del “nullum crimen sine lege scripta”.
La categoria dogmatica del fatto tipico assolve, dunque, la funzione di garanzia di indicare al cittadino i fatti che la legge
impone che essi si astengano dal commettere per non incorrere in sanzioni penali.
Ma, ricordando la dialettica tra funzione ideologica e tecnica del diritto penale, il fatto tipico assolve anche funzioni di
tutela del bene giuridico; in questo senso, compito del fatto tipico è quello di circoscrivere specifiche forme di
aggressione ai beni penalmente tutelati.
In applicazione dei principi di legalità, tassatività, lesività, frammentarietà, sussidiarietà , si potrà dire che il fatto tipico
sarà categoria che serve:
- al legislatore, allorquando deve selezionare esattamente le forme e le modalità di offesa al bene giuridico che il
legislatore ritiene così intollerabili da giustificare il ricorso alla “extrema ratio” della sanzione punitiva;
- al giudice, allorquando sarà tenuto a verificare se il fatto commesso si sia svolto esattamente con quelle particolari
modalità legislativamente tipizzate.
Perché possa assolvere le funzioni suddette, il fatto tipico deve essere altresì idoneo a rispettare le esigenze poste dal
principio di materialità, cioè di quello che esige che il reato si manifesti con forme esteriori accertabili nella realtà
fenomenica. È necessario, cioè, che il legislatore eviti di creare tipi che siano privi di referenti empirici nella realtà
fenomenica, laddove il giudice non sarà in grado di accertare la sussistenza del fatto materiale.
[Si cita ad esempio il famoso caso di plagio, dichiarato incostituzionale proprio perché la fattispecie non riusciva a descrivere un fatto
materiale suscettivo di accertamento empirico nelle aule di giustizia].
5) Antigiuridicità
La tipicità o conformità alla fattispecie del fatto occorso fornisce solo un primo indizio del carattere antigiuridico.
C’è bisogno di un secondo filtro di valutazione, cioè bisogna determinare, alla stregua dell’intero ordinamento, se
quanto avvenuto è giustificato da un’altra norma. Questo secondo filtro è imposto dal “principio di unità del sistema
giuridico”, ciò che consentito in un settore dell’ordinamento non può risultare illecita in un altro settore dello stesso
ordinamento. Da ciò, occorre accertare se questa stessa azione non sia lecita in base a norme non penali.
Perciò, si circoscrivere l’ambito di tutela della norma penale e la si pone in relazione col complesso delle altre norme e
se ne chiarisce il reciproco condizionamento.
[Esempio: l’ufficiale giudiziario che procede ad un pignoramento, seppur commette un fatto conferme al delitto di furto nel sottrarre al
proprietario la cosa pignorata, non realizza un furto punibile perché esiste una precisa disposizione del c.p.c. che gli fa obbligo di compere
tale atto].
La rilevanza del giudizio di antigiuridicità in seno all’intero ordinamento è comprovata anche dalle norme di procedura
penale contenute negli artt.651 e 652 c.p.p. laddove il primo vincola giudice amministrativo e civile al giudicato penale
di condanna; il secondo dispone che la “sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato quando il
fatto è stato compiuto ex art. 51 c.p.”
Il giudizio di antigiuridicità si risolve nella verifica che il fatto commesso non è coperto da alcuna causa di giustificazione
o esimente. E se così non fosse, la presenza di una esimente annulla l’antigiuridicità indiziata dal primo filtro di
conformità al tipo.
Nella concezione tripartita del reato, come già accennato, la categoria dell’antigiuridicità ha “carattere oggettivo”.
Essa cioè, costituisce una qualità oggettiva del fatto tipico, che come tale prescinde ed è distinta dalla tipicità e dalla
colpevolezza.
[N.B. D’altra parte questo modo oggettivo di intendere l’antigiuridicità corrisponde alla stessa impostazione codicistica. Difatti, l’art.59 co.1
dispone che «le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o, per errore,
ritenute inesistenti».]
8.1
• Reati di evento la fattispecie tipizza un evento esteriore prodotto da un’azione ricollegabile in base al nesso di
causalità, ad esempio la morte di un uomo nel delitto di omicidio , art. 575 c.p.
Nell’ambito dei reati di evento si opera un’ulteriore distinzione:
- i reati a forma vincolata richiedono una condotta specifica (esempio è il reato di epidemia, in cui si specifica che essa deve
essere causata mediante la diffusione di germi patogeni ex art.438);
- i reati a forma libera possono essere posti in essere con qualsiasi condotta (esempio art.575 che punisce «chiunque
cagiona la morte di un uomo»).
[N.B. La distinzione tra reati di evento a forma vincolata e a forma libera, assume rilevanza nel procedimento di conversione di un’ipotesi
commissiva di reato in un’ipotesi di mancato impedimento dell’evento ex art. 40 cpv : sono, infatti, convertibili solo le fattispecie causali
pure, cioè ricollegabili all’evento in base al nesso di causalità].
• Reati di azione consistono nel semplice compimento dell’azione vietata, senza che sia necessario attendere il
verificarsi di un evento causalmente connesso alla condotta.
Tra le questioni pratiche più importanti, ricordiamo quelle relative al momento consumativo del reato ed al tentativo,
nonché quelle relative al tempo e al luogo del commesso reato.
8.2
• Reati commissivi ed omissivi in funzione delle due forme tipiche della condotta umana, i reati si distinguono in
commissivi (o di azione) e omissivi, a seconda che la condotta tipica sia rappresentata da un agire positivo o da
un’omissione.
I reati di omissione vengono solitamente differenziati in:
- reato omissivo improprio ( o reato commissivo mediante omissione) ha luogo quando l’evento lesivo dipende dalla
mancata realizzazione di un’azione doverosa. Tale figura di reato rappresenta un completamento dei reati commissivi
costituiti da un’azione positiva e da un evento: difatti, l’art. 40 cpv. stabilisce che «non impedire un evento che si ha l’obbligo
giuridico di impedire equivale a cagionarlo ».
- reato omissivo proprio consiste nel mancato compimento di un’azione imposta da una norma penale di comando;
a prescindere dalla verificazione di un evento come conseguenza di tale omissione: esempio, l’omissione di soccorso.
8.3
• Reati istantanei in cui la realizzazione del fatto tipico integra ed esaurisce l'offesa, perché è impossibile che la
lesione del bene persista nel tempo (es. omicidio);
• Reati permanenti in cui il protrarsi dell’offesa dipende dalla volontà dell’autore (es. reato associativo).
Nei reati permanenti acquista rilevanza giuridica non solo l’attività del soggetto che realizza la lesione del bene, ma
anche quella successiva di mantenimento. Ne deriva che gli estremi della fattispecie di un reato permanente non sono
ancora realizzati senza il protrarsi, per un apprezzabile lasso di tempo, dello stato antigiuridico.
[N.B. La dottrina dominante respinge la concezione c.d. “bifasica” del reato permanente, laddove la “fase dell’instaurazione” si
realizza con un’azione e quella del “mantenimento” con un’omissione].
Il reato permanente cessa nel momento in cui si pone fine alla condotta volontaria di mantenimento dello stato
antigiuridico (oppure è ormai possibile porvi fine perché l’agente è stato arrestato).
Il reato permanente è un “reato unico” in quanto lesivo di un medesimo bene giuridico.
[N.B. La distinzione acquista importanza pratica sotto diversi profili: al momento della cessazione della permanenza la legge fa
riferimento ai fini della decorrenza del termine di prescrizione (art. 158), dell’applicabilità dell’amnistia, del termine per proporre
querela o della flagranza di reato (art. 328 c.p.p.)].
• Reati abituali sono i reati per la cui realizzazione è necessaria la reiterazione nel tempo di più condotte della
stessa specie. A differenza che nel reato permanente, caratterizzato dal perdurare nel tempo senza interruzione della
situazione antigiuridica prodotta dall'agente, nel reato abituale la reiterazione è intervallata.
Esempio è il reato di maltrattamenti in famiglia.
Si distingue tra:
- reato abituale proprio si ha quando le singole condotte autonomamente considerate sono penalmente irrilevanti;
- reato abituale improprio si ha quando ciascuna singola condotta è già di per sé reato.
[N.B. La natura abituale rileva ai fini della prescrizione (che decorre dall'ultima condotta integrante il reato), del termine per proporre
querela, dell'ammissibilità dell'amnistia].
8.4
A seconda che siano realizzabili da chiunque, oppure da soggetti qualificati, i reati si distinguono in comuni e propri.
• Reati comuni quelli che “chiunque” può realizzare.
• Reati propri quelli che possono essere commessi solo da chi riveste una particolare qualifica o posizione, idonea a
porre l’agente in una speciale posizione con il bene tutelato.
I reati propri sono ulteriormente differenziabili in:
- reati propri in senso puro cioè quando la qualifica o qualità dell’agente determina la stessa punibilità del fatto;
- reati propri in senso lato quando la qualità dell’agente comporta un mutamento del titolo di reato (esempio: quando
l’appropriazione indebita si trasforma in peculato quando l’agente è pubblico ufficiale).
[N.B. La distinzione tra reati propri e comuni rileva ai fini del dolo nonché nella disciplina del concorso di persone].
8.5
I reati si distinguono in:
illeciti di danno ed illeciti di pericolo, a seconda che la condotta criminosa comporti la lesione effettiva, oppure la
semplice messa in pericolo o lesione potenziale del bene giuridico tutelato penalmente.
• Come esempio paradigmatico di reato di danno si consideri il delitto di omicidio il bene aggredito (la vita) subisce una
completa distruzione per effetto dell’azione criminosa.
[N.B. il danno può anche consistere in una diminuzione del bene, come ad es. il reato di lesioni che menoma il bene dell’integrità
personale, oppure un reato di furto che danneggia il patrimonio altrui];
• Come esempio del reato di pericolo, si consideri il delitto di incendio preveduto dall’art.423 il fatto cagionato è
punito per i risultati lesivi che possono derivare a carico delle persone.
Esiste una correlazione tra la “natura del bene” e la “struttura di danno o di pericolo” del fatto di reato.
È chiaro che saranno maggiormente suscettibili di distruzione beni con un substrato materiale, vita, integrità fisica, patrimonio.
[N.B. La possibilità di accertare un effettivo nocumento decresce invece man mano che il bene protetto perde di spessore materiale e si sublima in
un'entità di tipo ideale. Il numero di reati di pericolo è negli ultimi anni aumentato, come conseguenza dell'evoluzione tecnologica (sono infatti
aumentate le attività rischiose che hanno richiesto norme cautelari)].
8.6
I reati di pericolo sono ulteriormente distinti in due categorie:
• I reati di «pericolo concreto» nei quali il pericolo (concepito come rilevante possibilità di verificazione di un
evento temuto) rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice, onde spetta al giudice, in base alle
circostanze del singolo caso, accertarne l’esistenza;
[Esempio è il reato di strage (in cui il giudice è investito del compito di accertare se gli atti compiuti al fine di uccidere presentino il
requisito “dell’effettiva pericolosità” dell'incolumità pubblica)].
• I reati di «pericolo astratto o presunto» laddove si presume, in base ad una regola di esperienza, che al
compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere del pericolo.
Il legislatore fa a meno di inserire il pericolo fra i requisiti della fattispecie e si limita a tipizzare una condotta al cui
compimento generalmente si accompagna la messa in pericolo di un determinato bene. Sicché accertata la presenza della
condotta tipizzata il giudice è dispensato dallo svolgere ulteriori indagini circa la verificazione del pericolo.
[Esempio è il reato di incendio di cosa altrui ex art.423 co.1 in cui il legislatore si limita a tipizzare il fatto, presumendo che l’incendio
sia nella generalità dei casi un accadimento di comune pericolo].
[N.B. Questa tradizionale bipartizione ha subìto tentativi di revisione nel corso degli ultimi anni. Nell'ambito del pericolo concreto si può
distinguere tra più concreto e meno concreto, a seconda che il giudice debba (a sua volta) verificare:
a) che uno o più soggetti passivi ben determinati abbiano subito una reale minaccia;
b) che l'azione realizzata sia generalmente idonea a ledere, a prescindere dalla circostanza che qualcuno dei soggetti titolari del bene
protetto sia stato di fatto lambito.
Per esemplificare questa seconda ipotesi delle due ipotesi alternative, si considera la fattispecie dell’art.440, che nonostante richieda il
coinvolgimento del giudice nell’accertamento dell’azione, si può essere indotti a ritenere che corrisponda di più al concetto di “pericolo astratto”].
Mentre i reati di pericolo concreto sollevano problemi, soprattutto dal punto di vista dell’individuazione dei criteri di
accertamento del verificarsi dell’evento concreto, quello di pericolo presunto (o astratto) sollevano dubbi di
costituzionalità. Infatti, i reati pericolo presunto, tipicizzano una condotta assunta come pericolosa in base ad una regola
di esperienza, ma non è escluso che, nel caso concreto, quell’evento non avesse a verificarsi. Da qui il rilievo che i
reati di pericolo presunto rischiano di reprimere la mera disobbedienza dell’agente ad un precetto penale, col rischio di
violare il principio di offensività, comprensivo sia della lesione sia dell'effettiva messa in pericolo del bene protetto.
Secondo l’autore, nell’affrontare il problema di tale costituzionalità dei reati a pericolo presunto, bisogna evitare di
sottovalutare:
- da un lato, le esigenze garantistiche soddisfatte dal principio costituzionale di offensività
- dall’altro, le ragioni politico-criminali e di tecnica legislativa che fanno sembrare in alcuni settori irrinunciabile il ricorso al
modello di reato di pericolo astratto.
In realtà, il problema sta tutto nella corretta individuazione dei settori, nel cui ambito appare consigliabile anticipare la
tutela sino alla soglia dell’astratta pericolosità.
[N.B. Nella stessa prospettiva di fondi si colloca anche la Corte costituzionale, la quale ha più volte affermato che le fattispecie di
pericolo presunto o astratto “non sono incompatibili in linea di principio con il dettato costituzionale”].
Il principio di precauzione nei reati di pericolo presunto o astratto.
La soglia della legittima anticipazione della tutela penale assume, oggi, particolare rilievo rispetto al problema della
possibile rilevanza penale del “principio di precauzione”, riconosciuto a livello normativo dai Trattati Europei.
Esso è relativo alle politiche ambientali ed entra in azione: “quando un’oggettiva e preliminare valutazione scientifica
stabilisca che è ragionevole temere che gli effetti potenzialmente pericolosi per l’ambiente e la salute…. siano
incompatibili con l’alto livello di protezione scelto dalla Unione”.
[N.B. Tale principio, non può tutt’oggi essere considerato un criterio sostanziale di per sé capace di imporre il ricorso a forme di tutela
penale. Esso ha maggiormente una funzione orientativa sul piano politico-criminale, che si presta a contribuire alla possibile
legittimazione di forme anticipate di tutela].
8.7
Abbiamo ulteriori distinzioni di diversa rilevanza pratica:
• Reati aggravati dall’evento per i quali è previsto un aggravamento di pena se dal fatto deriva come conseguenza
non voluta un evento ulteriore. Si pensi alla omissione di soccorso aggravata dalla morte della persona in pericolo.
• Delitti di attentato che consistono nel compiere atti o nell’usare mezzi diretti ad offendere un bene giuridico.
La caratteristica di questi reati è che la legge considera consumato il delitto pur in presenza di atti, al più, tipici rispetto ad
una fattispecie di delitto tentato. Si pensi all’attentato contro l’integrità dello Stato ex art.241.
[PARTE II]
PARTE II - REATO COMMISSIVO DOLOSO
CAP 1 – Tipicità
1) Premessa: la fattispecie ed i suoi elementi costitutivi
La fattispecie di reato: è il complesso di elementi che contraddistinguono ogni illecito penale: gli elementi costitutivi
delle fattispecie variano in funzione dei diversi tipi di reato.
• Come categoria che ricomprende e circoscrive il contenuto dei fatti punibili, la fattispecie legale assolve anzitutto una
«funzione di garanzia per il cittadino » in attuazione del principio di legalità e tassatività (artt.25.2 Cost. e 1 c.p.), la
fattispecie deve contenere tutti gli elementi che condizionano la punibilità:
- descrizione del fatto costituente reato;
- criteri di imputazione soggettiva (dolo o colpa);
- tutto ciò che è capace di influire sulle conseguenze penali.
[N.B. In seno alla funzione di garanzia che svolge la fattispecie di reato, tutto ciò che non rientra in una fattispecie legalmente
tipizzata non può costituire materia di divieto e non può integrare un illecito penale].
Ma nella scienza penalistica si parla di fattispecie anche in un’accezione più ristretta, che obbedisce di più all’esigenze
sistematiche di una “teoria analitica di reato”, coincidendo con il concetto di “fatto tipico”, quale categoria distinta (≠)
dall’antigiuridicità e della colpevolezza.
■ Concezione classica della fattispecie (“fattispecie obiettiva”, di cui Beling è principale esponente):
La tendenza a ricostruire la fattispecie secondo il “criterio di natura oggettivo materiale” derivava dall’influsso scientifico-
positivistico che tendeva a ricostruire il reato secondo gli schemi delle “scienze naturalistiche”; inoltre tale modello ricostruttivo
rispondeva a preoccupazioni di matrice liberal-garantistica volte alla creazione di una categoria dogmatica idonea a segnare il
discrimine tra ciò che è lecito e ciò che è punibile.
Tale fattispecie obiettiva descriverebbe solo:
- elementi «oggettivi» in quanto coincidenti con i requisiti relativi alla realizzazione materiale del fatto: condotta, nesso causale,
evento.
- elementi «descrittivi» ovvero quelli che descrivono nei segni esteriori la fattispecie di reato.
In seguito con il tramonto dei modelli delle “scienze naturalistiche” e della concezione belinghiana, si affermò un “metodo
teleologico” nell’elaborazione delle dottrine di reato, che valorizza l’apertura ai valori ed alla funzione politico-criminale e con le
nuove teorie nasce la differenza fra elementi “normativi” cioè quei requisiti che non rappresentano dati della realtà esterna, ma
il risultato di una qualificazione giuridica o etico- sociale operata alla stregua di una norma diversa ≠ da quella incriminatrice
(esempio: “altruità” della cosa nel delitto di furto), ed elementi “subiettivi” la cui individuazione ha alla base la constatazione
che non è possibile individuare il reato in questione se non si prendono in considerazione anche le componenti soggettive.
(Es: è qualificabile “furto” la semplice sottrazione materiale della cosa altrui senza riguardo all’intenzione dell’agente?) .]
Il contenuto degli elementi soggettivi al fatto tipico si estende alla “costruzione” dei diversi reati.
Infatti, le differenze strutturali fra reati dolosi e colposi, non si fermano alla colpevolezza, ma emergono già a livello di
definizione del fatto tipico, per cui dolo e colpa (quali elementi soggettivi) finiscono con l’assumere una doppia rilevanza
sistematica: cioè appartengono alle due categorie dogmatiche della “tipicità” e della “colpevolezza”.
[N.B. Ricapitolando, la categoria del fatto tipico ricomprende sia elementi obiettivi (“descrittivi” e “normativi”), sia elementi a
carattere soggettivo. Beninteso, le suddette distinzioni non devono essere intese in maniera rigida.
Delimitazioni rigorose non sono sempre tracciabili né tra gli elementi descrittivi e normativi, né tra gli elementi obbiettivi e
subbiettivi. (Ad esempio, si consideri che la stessa nozione di uomo solleva problemi di natura valutativa allorché si tratta di stabilire se in essa
rientri il feto o il mostro, analogamente se nel concetto di cosa rientri anche l’animale etc.)].
2) Concetto di azione
L’azione umana è la base su cui poggia la costruzione dogmatica del reato commissivo doloso, tuttavia il suo ruolo, in
passato, era sopravvalutato: infatti sino ad un quarantennio addietro, nella teoria del reato, dominava l’idea che la
definizione dogmatica dell’azione assurgesse a tema centrale della ricerca dottrinale e ad essa la dottrina affidava 2
compiti fondamentali:
1. fornire una nozione unitaria del concetto di azione, valida per tutti i tipi di azione (omissiva, commissiva, dolosa,
colposa)
2. orientare la collocazione dogmatica degli elementi costitutivi del reato.
Da questa convinzione l’elaborazione di numerose teorie nel tentativo di definire dogmaticamente gli elementi del
reato. Si confrontavano:
2.1) Teoria causale dell’azione (fine del XIX secolo e l’inizio del XX): l’azione consiste in una modificazione del mondo
esterno causata dalla volontà umana, il dolo è solo un elemento della colpevolezza e non anche dell’azione.
Critica: l’omissione, a differenza della commissione, non modifica la realtà esterna.
Inoltre, il dolo, come si è visto, non esaurisce la sua funzione sul piano della colpevolezza, ma funge da componente dell’azione,
concorrendo a definire anche il fatto tipico.
2.2) Teoria finalistica dell’azione (Welzel): l’azione è l’agire consapevolmente orientato verso uno scopo, per
questo l’uomo può prevedere le possibili conseguenze del suo operare.
Il dolo è elemento costitutivo dell’azione, e quindi del fatto tipico, non lo è della colpevolezza.
Critica: non sempre l’azione è il frutto di uno schema mezzo-scopo, si pensi ad un’azione impulsiva.
Inoltre, lo schema finalistico non regge nel caso dei reati colposi e dei reati omissivi dove il rimprovero penale non è dovuto ad
un’azione diretta ad uno scopo ma ad un’azione compiuta male o da una non azione.
Il dolo è elemento del fatto tipico, ma anche della colpevolezza.
2.3) Teoria sociale dell’azione: l’azione è una “reazione non condizionata” da un avvenimento o stimolo esterno.
Questa concezione in pratica fa leva sulla possibilità di scegliere il modo in cui reagire agli stimoli provenienti
dall’ambiente esterno e permette di adattare tale concetto a tutte le forme delittuose.
Critica: tuttavia proprio la sua genericità è il suo punto debole, perché non dà alcuna informazione sulle caratteristiche che deve
avere il comportamento criminoso. La sua unica funzione sarebbe quella di escludere dalla sfera del penalmente rilevante le azioni
compiute in condizione di piena inconsapevolezza.
► costringimento fisico stabilisce l’art.46 c.p. “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto,
mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta
risponde l'autore della violenza “.
Il costringimento fisico costituisce una specificazione della forza maggiore: cioè si tratta di una forza irresistibile che
promana non già dalla natura, ma dall’uomo il quale si serve materialmente di un altro essere umano come strumento
per la realizzazione dell’obiettivo criminoso. (Ad esempio, Tizio costringe con la forza Caio a falsificare un documento.
Perché sia applicabile l’art.46 occorre che la volontà dell’agente materiale sia coartata in maniera assoluta; mentre se sussistono margini di
scelta, si ricade nella diversa ipotesi della coazione morale ex art.54).
Ritornando al costringimento fisico, proprio perché il soggetto è materialmente coartato e mero strumento nelle mani di
chi esercita la violenza, manca in radice la possibilità criminosa come “effettiva opera” del suo autore materiale, dato
che il vero potere di signoria è esercitato dal soggetto coartante, ex art.46 spetta a questo la responsabilità dell’azione.
4) Presupposti dell’azione
[N.B. La categoria dei presupposti dell’azione o del fatto è stata utilizzata in un’accezione fuorviante coincidente con i presupposti del reato].
■ Sono così considerati “presupposti” della azione: la stessa norma penale, il soggetto attivo, il soggetto passivo, ecc.
Il concetto di presupposti dell’azione deve invece essere circoscritto alle sole situazioni (di fatto o di diritto) che
debbono preesistere o essere concomitanti alla condotta, perché questa assuma un significato criminoso: (si pensi, ad
esempio, al precedente stato di gravidanza nel delitto di aborto; alla situazione di pericolo nell’omissione di soccorso; all’esistenza di precedente
matrimonio nel delitto di bigamia; ecc.)
Le circostanze predette, pure estranee alla condotta illecita in quanto tale, rientrano comunque nel fatto tipico come
elementi costitutivi.
I presupposti dell’azione possono indifferentemente riferirsi: al soggetto attivo specificandone un ruolo o una qualità
(Pubblico Ufficiale nei delitti contro la pubblica amministrazione), all’oggetto materiale della condotta (la natura di documento
nel reato di falsità in atti), al contesto che deve preesistere all’azione (la situazione di pericolo nell’omissione di soccorso), al
soggetto passivo (ad esempio la qualifica di Capo dello Stato nei delitti di cui all’art.276 e segg.).
L’utilità pratica della categoria dei presupposti dell’azione emerge sul terreno del dolo: trattandosi di elementi che
precedono l’azione criminosa non possono essere voluti, ma solo conosciuti dal reo.
L’azione commissiva dolosa sarà tale quando il reo abbia conosciuto antecedentemente all’azione la sussistenza dei
presupposti integrati nella fattispecie criminosa.
6) Evento
Reati di evento: nel linguaggio giuridico è evento il risultato esteriore causalmente riconducibile all’azione umana.
[Esempio: omicidio come lesione di un bene protetto (vita) che si materializza in una modificazione della realtà naturale (morte)
concettualmente e fenomenicamente separabile dalla condotta omicida].
È, questa, quella che passa sotto il nome di «concezione naturalistica dell’evento» (più ristretta); invece, nel linguaggio
comune l’evento è inteso in una accezione più ampia come un accadimento qualsiasi della realtà esterna.
Nella accezione tecnico-giuridica si parla, dunque, di evento naturalistico, esso può altresì consistere in un risultato
esteriore che si concretizza non già nell’effettiva lesione, ma nella messa in pericolo di un bene protetto. (Esempio: art.434
che incrimina chiunque commette un fatto per cagionare il crollo di una costruzione, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità)
È da specificare che l’evento di pericolo è configurabile solo in quei reati di pericolo concreto (nei quali il pericolo,
concepito come rilevante possibilità di verificazione di un evento temuto, rappresenta un elemento costitutivo della
fattispecie incriminatrice, onde spetta al giudice, in base alle circostanze del singolo caso, accertare se una effettiva
situazione di pericolo si è verificata come conseguenza dell’azione).
L’importanza della categoria “evento” emerge sul terreno del “rapporto di causalità”: l’evento naturalistico è il secondo
polo del “nesso causale” (il primo è l’azione) e quindi costituisce requisito del fatto tipico.
[N.B. Tuttavia, l’evento naturalistico può assumere funzioni ulteriori nella struttura dell’illecito penale: può rivestire, infatti, il ruolo
di circostanza aggravante di un reato già perfetto (si pensi alla morte come evento aggravante dell’omissione di soccorso), in altri può
assolvere la funzione di condizione obiettiva di punibilità (si pensi al pubblico scandalo nell’incesto)].
La fattispecie di un reato commissivo di evento ricomprende, tra i suoi elementi costitutivi, il “nesso di causalità” che
lega l'azione all'evento medesimo.
Tuttavia, il concetto di causalità non è univoco, ma varia in base al punto di vista prescelto dal soggetto dell’indagine:
[N.B. Infatti, il concetto di «relazione causale» dal punto di vista “naturalistico” non è controverso, esso indica l’insieme delle
condizioni materiali antecedenti, continue nello spazio e nel tempo, dalle quali dipende il verificarsi di un evento.
Difficoltà sorgono quando si vuole accertare se un soggetto possa essere considerato, in base al nesso di causalità che lo lega al fatto
avvenuto, «autore» di un evento penalmente rilevante].
L'imputazione di un evento lesivo richiede, infatti, quale primo presupposto, che il reo abbia materialmente contribuito
alla verificazione del risultato dannoso.
La causalità funge, dunque, da “criterio di imputazione oggettiva” del fatto al soggetto: il “nesso causale” tra condotta
ed evento, di regola comprova che l’azione e il risultato lesivo sono opera dell’agente, per cui, sussistendone gli altri
presupposti di natura psicologica, questi può essere chiamato a risponderne penalmente.
Considerato che il giudice è interessato al “rapporto di causalità” ai fini dell’imputazione si comprende come quelle
“teorie di causalità” che meglio si prestano a spiegare l’incidenza dell’agire umano sugli accadimenti esterni.
Il compito apparentemente sembra agevolato dal Codice Rocco che, a differenza degli altri codici, contiene una
disciplina esplicita del “nesso causale”: artt. 40 e 41 che si prestano a letture diverse (≠), perché non riescono ad
indicare un modello definito ed univoco di “causalità”.
Ciò spiega come mai buona parte degli sforzi dottrinali si siano indirizzati verso una ricostruzione dogmatica delle più
diffuse teorie causali, con l’obiettivo di appurare quale di queste il legislatore italiano avesse recepito.
[N.B. La dottrina ha finito con il perdere di vista gli aspetti centrali della problematica causale, infatti, da un lato ci si è accontentati
di sottolineare che l’azione del soggetto deve porsi come condizione necessaria dell’evento, senza pero chiarire i criteri che devono
presiedere all’accertamento del “nesso di condizionamento”, dall’altro, l’attenzione si è prevalentemente appuntata
sull’interpretazione del disposto dell’art.41 co.2., per il quale «le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono
state da sole sufficienti a determinare l’evento», senza tuttavia, aver sempre presenti i nessi intercorrenti con la previa definizione di
un ben definito “modello di causalità”].
10.1) In base a queste premesse diventa essenziale precisare quali «leggi generali di copertura» siano al giudice
veramente accessibili ai fini del processo penale. Esse sono:
a) leggi universali: sono quelle in grado di affermare che la verificazione di un evento è “invariabilmente”
accompagnata dall’accadimento di un altro evento. (Questo tipo di leggi soddisfa le esigenze di certezza).
b) leggi statistiche: si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro
evento soltanto in una certa “percentuale di casi”. (Sono leggi dotate di validità scientifica tanto più sono applicate e tanto
più ricevono conferma con ricorso a metodi di prova razionali e controllabili).
[N.B. Quindi, il punto più controverso della dottrina è proprio quello di accertare quale sia il “livello di probabilità sufficiente”, sotto
il profilo statistico e logico, per considerare attendibile la ricostruzione giudiziale del “nesso causale”].
Relativamente all’incertezza derivante dalle leggi statistiche, non si può pretendere che l’accertamento giudiziale della
“causalità” si uniformi sempre al rigore scientifico consentito dall’applicazione delle leggi universali.
[N.B. E ciò per diverse ragioni: nelle scienze naturali è raro che si sia in grado di spiegare tutte le condizioni necessarie di un evento alla
stregua di altrettante leggi scientifiche. Piuttosto la stessa limitatezza delle conoscenze umane induce a ricorrere ad una serie di
assunzioni «tacite» postulate come vere, mentre sono meramente supposte. Partendo dalle premesse postulate, l’accertamento
causale ha per oggetto solo «alcune» condizioni necessarie all’evento, mentre altre si suppongono per date: (accertamento con
clausola c.d. «ceteris paribus», cioè: a condizioni date o conosciute).
Il giudice, infatti, non dispone delle stesse cognizioni dello scienziato, inoltre il fatto criminoso di solito rinvia ad una serie
innumerevole di antecedenti: quindi, sarebbe irrealistico pretendere la «certezza deduttiva», stante l’impossibilità di rinvenire
altrettante leggi «universali» per ognuna delle condizioni implicate nell’evento”.
Da tutto ciò deriva che, in sede di accertamento giudiziale della causalità, è giocoforza che ci si debba accontentare di una misura di
certezza inferiore a quella garantita dall’applicazione di leggi universali.
E, dunque, posto che in sede di accertamento giudiziale è ancora più necessario fare ricorso ad assunzioni «tacite», la spiegazione
causale del giudice non avrà carattere certo, ma solo «probabile.
In altri termini il giudice sarà in grado solo di asserire che è «probabile» che la condotta dell’agente costituisca, “ceteris paribus”,
una condizione necessaria dell’evento. Inoltre, a sostegno del “carattere probabilistico” vi è anche il fatto che le relazioni causali
sottese ai fatti criminosi, sono spesso ricostruibili solo alla con delle leggi statistiche].
Alla stregua di queste premesse si può affermare che, ai fini dell’accertamento giudiziale della causalità, non occorre
che il giudice disponga di «leggi universali», ma è sufficiente che egli faccia ricorso a «leggi statistiche».
Proprio l’irrinunciabilità in sede processuale del ricorso a leggi statistiche solleva il problema delle loro «corrette
condizioni di impiego».
[N.B. Nell’affrontare il problema è utile una distinzione concettuale tra:
- «probabilità statistica», che si riferisce al tipo di evento (“causalità generale”), è ricavata dall’osservazione dei fenomeni ripetuti
nel tempo ed indica il grado di frequenza con cui la connessione tra certi antecedenti e conseguenti si verifica.
- «probabilità logica», si riferisce al singolo evento concreto (“causalità individuale”): indica il grado di fondatezza logica con cui si
può sostenere che la legge statistica trovi applicazione anche nel singolo caso oggetto del giudizio (essa riguarda la ricostruzione
causale dell’evento concreto ed implica che si possa escludere che quest’ultimo sia conseguenza di fattori causali alternativi).
Ricordiamo che dobbiamo stabilire quale livello di probabilità è sufficiente per considerare attendibile la ricostruzione
giudiziaria del nesso causale. A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca e generale perché la
percentuale di probabilità varierà da caso a caso.
La “teoria condizionalistica”, secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, ha cominciato a trovare
accoglimento nella prassi giurisprudenziale.
[N.B. Infatti in una sentenza della Cassazione del 2002 relativa alla responsabilità colposa del medico per decesso del paziente
(“sentenza Franzese”) ha introdotto, al fine di bilanciare prevenzione generale e garanzie individuali, la distinzione fra probabilità
statistica e probabilità logica, richiedendo la sussistenza di entrambe. Si afferma che “ai fini della prova giudiziaria della causalità,
decisivo non è il “coefficiente percentuale più o meno elevato di probabilità” desumibile dalla legge di copertura utilizzata; ciò che
conta è poter ragionevolmente confidare nel fatto che anche nel caso in esame la legge statistica trovi applicazione, stante l’alta
probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi”.
In pratica più elevato è il grado di “credibilità razionale” dell’ipotesi di spiegazione causale scelta, più è consentito utilizzare leggi o
criteri probabilistico-statistici con “coefficienti di probabilità” anche medio bassi].
Sebbene la giurisprudenza degli ultimi anni si è aperta in questo senso, ma resta difficile applicarlo: resta sui giudici il
rischio che anche dichiarando nelle motivazioni l’adesione ai principi di causalità condizionalistica, non ne facciano poi
un’applicazione coerente, facendosi influenzare da valutazioni circa la necessità di punire o meno, in base alle
particolarità dei casi volta a volta oggetto di giudizio.
10.2)
Da queste premesse l’autore commenta i casi di talidomide (CASO 12) e delle macchie blu della fabbrica di amianto (CASO
13), criticando le conclusioni cui sono giunti i giudici che, in entrambi i casi, hanno affermato l’esistenza del rapporto causale
facendo leva sulle loro certezze soggettive, senza, però, soddisfare le condizioni logiche imposte da una spiegazione scientifica
della causalità. Difatti:
[CASO 12 Nel caso della talidomide: la tossicità del farmaco appariva in partenza dotata di sufficiente sostegno teorico, lo dimostrava il
fatto che durante i dieci anni precedenti alla comparsa della talidomide parecchi scienziati avevano denunziato che non meno di 25
preparati contenenti la sostanza provocavano morte o malformazioni nei feti e gli effetti dannosi del farmaco erano confermati da
esperimenti scientifici compiuti sugli animali e su rapporti medici che in tutte le parti del mondo avevano dimostrato un nesso tra
l’ingestione della talidomide e la nascita di bambini malformati.
Orbene, in presenza di tali circostanze appariva razionalmente argomentabile una spiegazione su base statistica degli effetti dannosi del
farmaco.
CASO 13 Nel caso delle macchie blu: era dato riscontrare una serie di connessioni significative fra l’elevato numero di macchie blu
presenti nei luoghi dove era la fabbrica di alluminio a fronte di un’assoluta rarità in quelli dove tale tipo di produzione non aveva luogo.
Anche in questa ipotesi, in mancanza di conoscenze esaurienti sul completo meccanismo di produzione del fenomeno, soltanto una
spiegazione di tipo statistico avrebbe potuto condurre al riconoscimento di un nesso causale tra emissione dei fumi della fabbrica e
comparsa dei danni lamentati].
Per giungere credibilmente a tale risultato, non basterebbe limitarsi ad enumerare una serie di connessioni sia pur
significative, ma occorrerebbe verificare tali connessioni mediante “criteri di prova” idonei, in quanto dotati di un grado
di “controllabilità empirica”, a favorire l’applicabilità di una legge statistica.
Nel passaggio dal piano della “causalità generale” a quello della “causalità individuale”, occorrerebbe verificare che la
legge statistica può trovare effettiva applicazione anche nel singolo caso oggetto di giudizio, essendo da escludere con
ragionevole certezza spiegazioni causali alternative.
Obiezioni alla teoria della causalità adeguata La teoria dell’adeguatezza non sempre riesce a delimitare la
responsabilità. (Esempio: Tizio provoca una ferita gravissima a Caio, il quale quasi del tutto guaritone, muore invece in ospedale a causa
di un incendio: qui la ferita è grave, e, se considerata con prognosi postuma ma ponendosi mentalmente ex ante, risulta tanto grave da
essere adeguata a produrre l’evento morte, ma, in concreto, è sproporzionato accollare al feritore la morte dovuta all’incendio).
Una delle maggiori critiche mosse a tale teoria prende spunto dalla sua incapacità di risolvere casi in cui l’azione
criminosa appare “ex ante” idonea a cagionare l’evento e questo, tuttavia, si verifica per il sopraggiungere di circostanza
del tutto imprevedibile. La ragione di tale incapacità è dovuta al fatto che la teoria della causalità adeguata fallisce nella
descrizione dell’evento.
In altri termini, l’evento lesivo, quale secondo polo del rapporto causale, va considerato come evento “astratto” o
“concreto”? [Nel primo caso morte come evento così descritto dalla norma incriminatrice; nel secondo caso morte come
conseguenza dell’incendio].
14) Le concause
Il legislatore codicistico ha dedicato un’apposita norma, l’art.41, al fenomeno delle concause, ovvero al concorso di più
condizioni nella produzione di uno stesso evento; condizioni che, a loro volta, possono essere antecedenti,
concomitanti, successive rispetto alla condotta del reo.
[N.B. Normalmente accade che alla produzione di un evento concorrano più fattori causali, mentre è molto raro che una singola
azione del reo esaurisca da sola il processo causativo: perché l’azione umana assurga a “causa” in senso penale, basta che essa
costituisca una delle condizioni necessarie che concorrono a determinare l’evento tipico].
• Il co.1 e co.3 dell'art.41 enunciano due corollari della teoria condizionalistica (nesso causale azione evento):
a) il co.1 stabilisce che "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od
omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento ". Cioè, per l'esistenza del
rapporto di causalità basta che l'agente abbia posto in essere uno solo degli antecedenti necessari dell'evento.
[N.B. si tratta in pratica di una ripetizione di quanto già detto ex art.40 co.1] (Esemplificando, la responsabilità penale del feritore non
viene meno se il soggetto passivo del ferimento decede a causa di una preesistente cardiopatia).
b) Il co.3 stabilisce che "le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o
sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”. Cioè un'azione che è condizione necessaria dell'evento ne resta la causa
anche se tra i fattori causali c'è un fatto illecito altrui.
La disposizione di cui al co.3 non suscita particolari problemi laddove si afferma che la causa (concorrente) può anche
essere costituita da un fatto illecito altrui.
[Si pensi al caso di Tizio e Caio che, in concorso o all’insaputa l’uno dell’altro, sparano contemporaneamente o in tempo diversi sulla stessa vittima].
Più problematica la disposizione del secondo comma dell’art. 41:
c) Il co.2 stabilisce “le cause sopravvenute da sole sufficienti a produrre l’evento escludono il rapporto di causalità.”
In verità, la locuzione adottata dal legislatore sembra fare riferimento ad una causa che opera a prescindere da qualsiasi
legame con una precedente azione del soggetto.
Sennonché, se si adottasse questa interpretazione, il co.2 dell’art.41 finirebbe col diventare superfluo.
[N.B. Infatti, l’esclusione di un nesso causale penalmente rilevante dovrebbe già derivare dall’applicazione del principio
condizionalistico recepito nell’art.40, co.1 “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento
dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione“].
In base al principio ermeneutico della conservazione della norma, si impone una diversa interpretazione della
disposizione in parola da intendere come norma che tende a “temperare” gli eccessi punitivi derivanti da una rigorosa
applicazione del criterio condizionalistico.
In questo senso l’art.41, co.2 è l’unica norma che nell’ordinamento positivo può dare legittimazione a teorie causali
diversa dalla condicio.
Il temperamento emerge non in generale, ma in rapporto a quei casi che appaiono connotati da sviluppo causale che
fuoriesce dagli schemi di un’ordinaria prevedibilità.
In verità, il legislatore ha adottato la formula dell’art.41 co.2 con riferimento ai casi di cosiddetto decorso causale atipico.
Sono casi analoghi a quelli che hanno fatto sviluppare la teoria della causalità adeguata e dell’imputazione obiettiva
dell’evento e per superare le critiche mosse in riferimento a queste ecco che si può rivenire nell’art.41 co.2 la porta d’ingresso
per dare “cittadinanza” nel diritto penale vigente a teorie causali che esigono qualcosa di più del nesso condizionalistico in
senso stretto. Si ritiene che l’art.41 co.2 introduca un nesso causale penalmente rilevante che dovrebbe essere escluso in tutti
i casi in cui l’evento lesivo non è inquadrabile in una successione normale di accadimenti.
[Esempio: il ferito che muore in ospedale per incendio ma vedi anche: l’esempio del nipote che, volendo anticipare i tempi dell’eredità, spinge lo
zio a fare un viaggio rischioso durante il quale l’aereo, come auspicato dal nipote, cade uccidendo lo zio ricco.
In questo esempio il “nesso condizionalistico” sussiste, infatti l’evento del viaggio è collegato all’azione del nipote di condizionare lo
zio a farlo, ma l’evento lesivo, caduta dell’aereo con morte dello zio, non è inquadrabile in una successione normale di accadimenti.
Ma si consideri il CASO 17, nel quale è da ritenere che il rapporto causale non sia interrotto ma permanga: qui è vero che l’evento-
morte è direttamente dovuto ad una causa sopravvenuta (il sopraggiungere dell’automobile investitrice), ma non si può nel contempo
affermare che ci si trovi di fronte ad una vera e propria ipotesi di interruzione del nesso causale penalmente rilevante.
La conclusione non muta a seconda dell’approccio causale prescelto.
Se si muove dalla teoria condizionalistica, anche orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi, è rinvenibile un rapporto
di probabilità statistica tra: l’azione del percuotere un soggetto provocandone la caduta sulla sede stradale e il verificarsi di un investimento
dovuto al sopraggiungere d’autoveicoli].
Ove altresì si aderisca alla teoria della causalità adeguata, l’evento lesivo risulta nella specie tutt’altro che atipico
rispetto all’antecedente.
[Né infine si potrebbe escludere che l’azione del percuotere, cosi come svoltasi, abbia aumentato il rischio di verificazione di investimenti].
b) L’art.59 co.4 stabilisce che: “Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre
valutate a favore di lui […].”
Il codice attribuisce rilevanza alla scriminate putativa, cosi equiparando la situazione di chi agisce effettivamente in
presenza di una causa di giustificazione a quella di chi confida erroneamente nella sua esistenza.
L’errore, per avere “efficacia scusante”, deve investire:
- i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione stessa. (Esempio: Tizio a causa di un errore di percezione, crede di
essere aggredito da Caio e reagisce difendendosi);
- una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificante.
È da escludere la rilevanza esimente di un errore di diritto che sfocia nell’erronea convinzione che la situazione in cui
l’agente si trova ad operare rientri tra quelle a cui l’ordinamento attribuisce efficacia scriminante, sennò si
considererebbe inoperante, sul terreno delle cause di giustificazione, il principio generale “ignorantia legis non excusat”.
[N.B. La regola secondo cui l’erronea supposizione di una causa di giustificazione fa venir meno la punibilità, costituisce il frutto di
una estensione alle scriminanti della disciplina generale dell’errore di fatto ex art.47: chi commette un reato credendo
erroneamente che sussistano circostanze che lo facoltizzano o impongono il comportamento che realizza quel reato, agisce senza
dolo come chi erra sull’esistenza di un requisito positivo della figura criminosa in questione. In entrambi i casi il soggetto non sa
bene quel che fa, non si rappresenta un fatto punibile, ma si rappresenta un fatto diverso del tutto lecito; mentre, il dolo richiede la
consapevolezza dell’agente di realizzare un fatto che costituisce reato.
La giurisprudenza interpreta restrittivamente questo comma (59 co.4): per escludere la responsabilità dolosa, non ritiene solo che
l’agente supponga erroneamente l’esistenza di una causa di giustificazione, ma richiede un requisito aggiuntivo: che l’errore in cui il
soggetto versa sia ragionevole, abbia logica giustificazione, possa apparire scusabile sulla base dei dati di fatto].
c) Errore colposo sempre l’art.59 co.4 stabilisce che: “[…] Tuttavia, se si tratta di errore (sulla presenza di una scriminante)
determinato da colpa (dell’agente), la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
[Esempio: Tizio camminando di notte lungo una strada solitaria viene avvicinato da uno estraneo che si limita a chiedergli un’informazione, Tizio
per effetto di un’autosuggestione lo scambia per un pericoloso bandito e credendosi aggredito e l’uccide. In casi del genere, sussistono entrambi i
requisiti richiesti per dar luogo ad una responsabilità a titolo di colpa: l’errore di valutazione di Tizio appare rimproverabile perché dovuto a
eccessiva precipitazione di giudizio, e l’omicidio è punito dalla legge anche se realizzato in forma colposa (art.589)].
La disciplina è analoga a quella prevista dall’art.47.1: credere erroneamente che manchino uno o più elementi costitutivi
di un reato, quando è dovuto a colpa, dà vita ad una responsabilità per delitto colposo e lo stesso succede quando si
crede erroneamente che sussistano situazioni scriminanti.
Tale disciplina relativa all’errore colposo sulle scriminanti è applicabile anche alle contravvenzioni nonostante l’art.59
parli solo di delitti colposi.
d) Eccesso colposo a norma dell’art.55 co.1 “quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt.51-52-53-54, si
eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità oppure imposti dalla necessità, si applicano le
disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Tale disposizione si riferisce alla figura dell’eccesso colposo, la quale ricorre quando sussistono i presupposti di fatto di
una causa di giustificazione, ma l’agente per colpa ne travalica i limiti. (Esempio: l’aggredito a causa di un errore inescusabile di
valutazione, appresta mezzi eccessivi di difesa in rapporto all’entità del pericolo poiché uccide invece di limitarsi a picchiarlo).
La situazione di eccesso colposo si distingue (≠) da quella dell’erronea supposizione di una scriminante, perché in
questo caso la causa di giustificazione non esiste in realtà, ma solo nella mente di chi agisce, mentre nell’eccesso
colposo la scriminante esiste ma l’agente supera colposamente i limiti del comportamento consentito.
Il travalicamento dei confini della scriminante deve dipendere:
- da difetto inescusabile di conoscenza della situazione concreta da parte dell’agente
- o da altre forme di inosservanza delle regole di condotta a contenuto precauzionale relative all’uso dei mezzi o alle
modalità di realizzazione del comportamento.
[N.B. Parte della dottrina distingue 2 forme di eccesso colposo:
a) valutazione erronea del fatto il primo si ha quando si causa un determinato risultato volutamente, perché si valuta
erroneamente la situazione di fatto;
b) esecuzione erronea dell’azione il secondo si verifica quando la situazione di fatto è valutata esattamente, ma per errore
esecutivo si produce un evento più grave di quello che sarebbe stato necessario causare].
In ogni caso, ciò che conta è che la volontà dell’agente sia tesa a realizzare quel fine che nella situazione concreta
giustifica quel comportamento e che per un errore si realizzi un comportamento sproporzionato rispetto a quello che
sarebbe stato sufficiente produrre. (Esempio: Tizio volendosi difendere contro Caio che l’aggredisce con un frustino per picchiarlo,
scambiando erroneamente il frustino per una lunga arma da punta, reagisce con una pugnalata e uccide l’aggressore).
Si è fuori dai limiti dell’eccesso colposo se l’agente, essendo a conoscenza della situazione concreta e dei mezzi necessari
per il raggiungimento dell’obiettivo consentito, superi volontariamente i limiti dell’agire scriminato (Esempio: Tizio sa che
basterebbero delle semplici percosse a fare desistere un assalitore disarmato, ma lo ferisce con un coltello per provocargli uno sfregio duraturo ).
In questo caso l’eccesso si riferisce non già ai mezzi, ma agli stessi fini dell’agire: la volontà è diretta alla realizzazione di
un fine criminoso e l’eccesso è doloso per cui il soggetto risponde del reato commesso a titolo di dolo.
[N.B. Nonostante l’art.55 non richiami l’art.50, la sfera di operatività della figura dell’eccesso colposo deve ritenersi estendibile
anche alla scriminante del “consenso dell’avente diritto”].
Il delitto commesso nella situazione di eccesso è un vero e proprio delitto colposo: l’evento più grave può essere
previsto dall’agente e voluto, ma la volontarietà è viziata da errore inescusabile, che si converte in una falsa
rappresentazione dei confini entro i quali è consentito agire: mancando l’esatta conoscenza della situazione concreta
manca il dolo mentre sussistono i presupposti strutturali tipici del comportamento colposo.
•Criteri di soluzione del conflitto tra norma autorizzativa e norma incriminatrice L’art.51 non indica quando
la norma attributiva del diritto debba ritenersi prevalente rispetto alla norma incriminatrice, poiché l’applicabilità
dell’art.51 presuppone già risolto l’apparente conflitto tra le due norme a favore della norma autorizzativa.
Il problema nasce perché vi sono dei casi, nei quali è la norma penale ad avere la prevalenza rispetto alla norma che
prevede il diritto. (Esempio: risponde penalmente chi incendia la cosa propria con pericolo per la pubblica incolumità (art.423), sebbene le
norme civilistiche sulla proprietà attribuiscano la facoltà di disporre delle proprie cose).
[N.B. Bisogna rifarsi ai criteri generali sulla gerarchia delle fonti:
I criteri invocabili per stabilire se la norma attributiva del diritto limiti o sia, per contro, limitata dalla norma penale sono:
a) il criterio gerarchico lex superior derogat legi inferior;
b) il cronologico lex posterior derogat legi anteriori;
c) di specialità lex specialis derogat legi generali].
• Modalità di esercizio del diritto ai fini della sussistenza della scriminante non basta vantare in astratto un diritto
ma è necessario che l’esercizio costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione,
poiché se il modo mediante il quale il diritto viene esercitato non corrisponda ad una delle facoltà inerenti al diritto
stesso, si superano i confini dell’esercizio scriminante e subentra un’ipotesi di «abuso del diritto» ed è sanzionato a
seconda della natura dolosa o colposa poiché ricadente all’esterno della sfera di operatività dell’art.51.
• Limiti all’esercizio del diritto connessa alla problematica dell’abuso è la questione inerente ai limiti cui il diritto e
il relativo esercizio vanno incontro, in conseguenza della necessità di salvaguardare altri diritti ugualmente meritevoli di
protezione. Si è soliti distinguere i limiti in:
- interni sono desumibili dalla natura e dal fondamento del diritto esercitato, e parlare di limite interno al diritto
equivale a individuare l’esatto ambito di operatività della norma che lo configura;
- esterni sono invece ricavati dal complesso di norme di cui fa parte la norma attributiva del diritto.
► Riguardo ai diritti previsti da una legge ordinaria i relativi limiti si desumono sia dalla fonte dalla quale il diritto
promana, sia dal complesso delle altre leggi contenute nell’intero ordinamento, inoltre, non è di rado che è la stessa
norma penale a limitare la norma attributiva del diritto (es: ciò che avviene nel caso dell’incendio di cosa propria).
► Se invece si tratta di diritti riconosciuti a livello costituzionale il principio della gerarchia delle fonti impedisce di
ricavare limiti al loro esercizio da norme di rango inferiore: nell’eventuale contrasto tra diritti costituzionalmente
garantiti e norme incriminatrici, debbono prevalere i primi.
Un diritto costituzionalmente riconosciuto può essere limitato nel suo esercizio, soltanto se il limite in questione tenda
al soddisfacimento di altri interessi costituzionali di rango equivalente.
5.1) Esempi di questo tipo di scriminante sono:
A. Diritto di cronaca giornalistica L’attività informativa svolta dagli organi di stampa, non di rado, si traduce nell’esposizione di fatti
lesivi dell’onore e della reputazione di terze persone, onde sembrerebbero sussistere i presupposti del reato di diffamazione.
La giurisprudenza riconosce che il diritto di cronaca costituisce estrinsecazione del diritto costituzionale alla libera manifestazione
del pensiero (art.21) per cui si ritiene che in questa materia sia ammissibile il ricorso dalla scriminante ex art.51.
Il diritto di cronaca, per quanto di rilevanza costituzionale, non può essere esercitato illimitatamente perché il bene contrapposto
(l’onore) è anch’esso dotato di rango costituzionale. Da qui l’esigenza di un “bilanciamento tra interessi” costituzionali confliggenti e
la conseguente apposizione di limiti al diritto di cronaca, che la giurisprudenza dominante fa consistere:
- Nella verità o verosimiglianza della notizia pubblicata;
- Nell’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti stessi;
- Nell’obiettiva e serena esposizione della notizia.
(È alla base di detti parametri che va risolto il CASO 20: scontata l’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza ed alla denuncia di vantaggi
illeciti che un Capo dello Stato carpisce (prende) attraverso la strumentalizzazione della sua carica, gli addebiti obiettivamente diffamatori tanto
più risultano coperti dalla scriminante ex art.51, quanto più poggiano su fatti corrispondenti al vero o seriamente accertati dalla giornalista autrice
del libro-inchiesta).
B. Diritto di sciopero l’esercizio del diritto di sciopero incontra limiti di duplice natura: limiti interni o coessenziali, desumibili dalla
natura e dalla ratio del diritto in questione; e limiti esterni, derivanti dall’esigenza di tutelare altri diritti costituzionalmente rilevanti
che con quello di sciopero entrano eventualmente in conflitto. (Il CASO 21, esemplifica un conflitto tra l’esercizio del diritto di sciopero in
forma di “picchettaggio” e la tutela della libertà dei non scioperanti di recarsi al lavoro). Ciò è significativo perché induce a chiedersi:
- se le azioni sussidiarie destinate a garantire la riuscita dell’agitazione travalichino i limiti interni del diritto di sciopero;
- tra gli interessi costituzionalmente protetti, che costituiscono un limite esterno al diritto di sciopero, rientri il diritto di lavorare di chi
non intende astenersi dal lavoro.
In considerazione dei delicati e complessi bilanciamenti tra interessi contrapposti si comprende come sul problema della
riconducibilità del picchettaggio al delitto di violenza privata si registrino orientamenti contrastanti.
C. Jus corrigendi si fa rientrare nel paradigma di tale scriminante il diritto dei genitori esercenti la parentale potestà di educare i
figli, il cui esercizio può sfociare in fatti corrispondenti a fattispecie di reato (percosse, offese, limitazione della libertà personale,
ecc). Inoltre tale “ius corrigendi” può essere delegato dai genitori ad altri soggetti (maestri, educatori, ecc). Anche lo jus corrigendi è
soggetto a limiti, come è desumibile dall’art.571 che incrimina l’abuso dei mezzi di correzione. Quest’ultima disposizione finisce con
il rinviare per la loro determinazione ai criteri di valutazione diffusi nel contesto sociale considerato. Da qui la difficoltà di
individuare con certezza l’area scriminante del diritto di correzione in virtù della mutevolezza storica dei canoni di giudizio:
nell’attuale momento storico la sfera degli interventi correttivi ritenuti leciti va restringendosi in conseguenza dell’accresciuta
sensibilità per la tutela della personalità e dell’autonomia degli stessi minori.
D. Offendicula la causa di giustificazione ex art.51 viene invocata per giustificare l’efficacia esimente del ricorso ai c.d. offendicula,
cioè a quei mezzi di tutela della proprietà (cocci di vetro sui muri di cinta, filo spinato, ecc), il cui impiego provoca offese a terzi:
l’efficacia scriminante dell’impiego dell’offendiculum viene subordinata all’esistenza di un “rapporto di proporzione” tra mezzo usato
e bene da difendere.
6) Adempimento di un dovere
[CASO 22: IL TRASPORTATORE ED IL TITOLARE DI UN DEPOSITO DI CARBURANTE COMMETTONO UNA CONTRAVVENZIONE RELATIVA ALLO SVOLGIMENTO
DELLA LORO ATTIVITA’ A SEGUITO DI ORDINI IMPARTITI DA PARTE DEL LAGALE DEL RAPPRESENTANTE DELLA COMPAGNIA PETROLIFERA.
CASO 23: L’UFFICIALE CASSIERE DI UNA CAPITANERIA DI PORTO COMPIE OPERAZIONI CONTABILI MANIFESTAMENTE ILLECITE, INTEGRANTI I REATI DI
PECULATO E FALSO IDEOLOGICO, PER ORDINE DEL COMANDANTE DELLA CAPITANERIA].
L’art.51 stabilisce che: “l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica
Autorità, esclude la punibilità”.
La “ratio” della scriminante va individuata nell’esigenza di rispettare il principio di non contraddizione all’interno di uno
stesso ordinamento giuridico in quanto sarebbe, infatti, logicamente contraddittorio che da un lato l’ordinamento
imponga ad un soggetto un obbligo di agire o di non agire e, dall'altro, gli minacci una sanzione per in caso in cui agisca o
non agisca.
Quanto alla fonte, il dovere può scaturire:
a) da una norma giuridica [tipici casi sono quelli del poliziotto che esegue un arresto, dell’ufficiale giudiziario che procede ad un
pignoramento, del testimone che nell’adempiere l’obbligo di testimonianza riferisce fatti offensivi dell’altrui reputazione, ecc].
Nessuna questione nell’ipotesi in cui l’obbligo di agire derivi da una legge o da un atto normativo equiparato (es: è di
fonte legislativa l’obbligo di procedere all’arresto in fragranza).
Il problema può sorgere per i doveri di agire che trovano la loro fonte nei regolamenti, dove si ritenga che la riserva di
assoluta di legge debba estendersi anche alle cause di giustificazione, tesi però ad avviso degli autori Fiandaca e Musco
da respingere, posto che le norme sulle scriminanti, in quanto desumibili dall’intero ordinamento, non hanno natura
specificamente penalistica.
La locuzione “dovere imposto da una norma giuridica” va intesa nel senso più lato: come comprensiva di qualsiasi
precetto giuridico, non importa se emanato dal potere legislativo o da quello esecutivo.
[N.B. In virtù dell’art.10 cost. il dovere scriminante potrà trovare la sua fonte anche in un ordinamento straniero, purché il diritto
internazionale esiga che tale dovere sia riconosciuto come valido anche dallo Stato italiano].
b) da un ordine legittimo della pubblica Autorità l’ordine consiste in una manifestazione di volontà che un superiore
rivolge ad un subordinato, in vista del compimento di una data condotta.
Perché l’esecuzione dell’ordine possa assumere efficacia esimente ex art.51, è necessario che tra il superiore e
l’inferiore intercorra un rapporto di subordinazione di diritto pubblico mentre non scrimina l’adempimento di ordini che
si inquadrano all’interno di rapporti di subordinazione regolati dal diritto privato.
[Cosi è da escludere l’applicabilità della causa di giustificazione in esame al CASO 22, in quanto l’ordine che provoca la commissione
dell’illecito è emanato dal legale rappresentante di una compagnia petrolifera privata ].
Esclusa l’applicabilità dell’art.51, la punibilità in casi di questo genere potrebbe venir meno sotto un altro profilo e cioè
sul piano ulteriore e distinto della colpevolezza: la volontà del subordinato può subire un condizionamento tale, da
rendere inesigibile un comportamento di rifiuto nei confronti del superiore gerarchico.
Per quanto riguarda il concetto di “pubblica Autorità”, quale fonte dell’ordine, si oscilla tra un’interpretazione restrittiva
che vi ricompre i soli pubblici ufficiali e un’interpretazione più estensiva, che vi include gli incaricati di pubblici servizi
legati da un rapporto di subordinazione o i soggetti esercenti servizi di pubblica necessità.
Ai fini della non punibilità, non basta l’esistenza di un ordine, ma occorre che questo sia legittimo.
[N.B. Al riguardo, bisogna distinguere tra:
- presupposti formali che si riferiscono:
a) alla competenza del superiore ad emanare l’ordine
b) alla competenza dell’inferiore ad eseguirlo
c) alla forma prescritta
- presupposti sostanziali attengono all’esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l’emanazione dell’ordine (es: l’emanazione
di un’ordinanza di custodia cautelare presuppone che sussistano sufficienti indizi di colpevolezza a carico del destinatario del
provvedimento)].
Il subordinato ha il potere di sindacare la legittimità dell’ordine? La risposta in senso affermativo la si ricava indirettamente
dal co. 3 dell’art.51 che stabilisce: “Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun
sindacato sulla legittimità dell'ordine”.
Da ciò si desume che, fuori da questa ipotesi espressamente eccettuata, la sindacabilità del carattere legittimo
dell’ordine è la regola. Tale principio vale in modo particolare nell’ambito degli ordinamenti democratici, dove è
avvertita la duplice esigenza di sottoporre ad un controllo di legalità l’azione dei pubblici poteri e di esaltare in ciascun
individuo l’autoresponsabilità.
La dottrina oggi ritiene che al subordinato competa il diritto-dovere di controllare la conformità dell’ordine ricevuto ai
presupposti non solo formali, ma anche sostanziali della sua legittimità. Questa ampiezza del potere di sindacato
presuppone, che l’ordinamento attribuisca al subordinato non un ruolo meramente esecutivo, ma caratterizzato
dall’esercizio di un potere di valutazione autonoma (Es: se un rettore dell’università ingiungesse al responsabile dell’ufficio di
segreteria di una facoltà di iscrivere un giovane privo del diploma di scuola secondaria, il segretario, quale funzionario dotato del potere di
interpretare la legge, dovrebbe rifiutare l’esecuzione dell’ordine).
Precisando i limiti del potere di sindacato del subordinato sotto il profilo della legittimità sostanziale significa che tale
potere sussiste finché la verifica dei presupposti di legittimità non coinvolga apprezzamenti di merito riservati per legge
al superiore (Esempio: un poliziotto incaricato di eseguire un provvedimento di arresto emanato da un magistrato, non potrà valutare se
gli indizi di colpevolezza menzionati nel provvedimento sussistano davvero nella realtà; ma il poliziotto stesso potrà, invece, rifiutarsi di
eseguire un ordine di arresto mancante di formale motivazione, analoga cosa per l’esempio sopra riportato del segretario ).
Più in generale, per verificare i limiti del potere di sindacato dell’inferiore occorrerà considerare sia la natura dell’ordine
che viene in questione, sia il tipo di rapporto che intercorre tra subordinato e il superiore: quanto più aumenta la
subordinazione gerarchica, altrettanto diminuisce il potere del subordinato di sindacare la legittimità sostanziale
dell’ordine.
Se il controllo di legittimità non è effettuato dai subordinati che ne erano legittimati, la regola è che anche loro
rispondono penalmente dell’eventuale reato commesso in esecuzione dell’ordine illegittimo:
dispone l’art.51 comma 2 che del fatto commesso risponde sempre chi ha dato l’ordine;
dispone l’art.51 comma 3 risponde chi ha eseguito l’ordine.
La regola, secondo la quale risponde anche l’esecutore dell’ordine illegittimo, prevede 2 eccezioni:
- l’esecutore è esentato da responsabilità se, per errore di fatto, ha ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo (art.51.3)
tale ipotesi costituisce un’applicazione dei principi generali in tema di errore e in tale concetto di errore di fatto deve
farsi rientrare anche l’errore su legge extrapenale.
(Esempio: caso del rettore e segretario il segretario esegue l’ordine del rettore, perché convinto della sua legittimità in seguito ad
un’errata interpretazione delle norme amministrative che disciplinano l’iscrizione all’università).
- l’esecutore è esentato da responsabilità se la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine
(art.51.4) tale ipotesi si riferisce ai rapporti di subordinazione di natura militare o assimilabili (agenti di polizia,
pompieri, ecc), cioè a quei rapporti caratterizzati dal fatto che la legge impone all’inferiore la più stretta e pronta
obbedienza. In questo campo all’esigenza di sottoporre a controllo la legalità dell’azione dei pubblici poteri si
contrappone quella di non paralizzare l’esercizio di funzioni che richiedono un sollecito adempimento, per questo si
parla di c.d. ordini illegittimi vincolanti.
[N.B. Si può confutare l’esistenza nell’ordinamento giuridico italiano di una simile categoria utilizzando vari argomenti: la reale
vincolatività di un ordine illegittimo presupporrebbe l’applicabilità di una sanzione specifica nel caso di sua inosservanza, ma nel
nostro ordinamento di tale sanzione non vi è traccia. Sul piano dello stesso diritto positivo esistono alcune norme da cui si desume
che l’ordine illegittimo deve essere sempre disobbedito art.25.2 del regolamento di disciplina militare e così via].
L’insindacabilità di tali ordini vincolanti è relativa, nel senso che riguarda la loro legittimità sostanziale.
(Esempio: l’agente di polizia giudiziaria non è legittimato a verificare se il provvedimento di custodia cautelare da eseguire si fondi su
sufficienti indizi di colpevolezza), mentre è sindacabile la legalità esteriore dell’ordine. (Esempio: l’agente di polizia potrà rifiutarsi
di eseguire un provvedimento privo della sottoscrizione del magistrato).
Il subordinato che esegue un ordine illegittimo da lui insindacabile resta impunito per ragioni che attengono al piano
della colpevolezza: l’esecutore vincolato a un’obbedienza pronta non ha quella normale libertà di autodeterminazione
necessaria per esigere un comportamento diverso conforme al diritto.
[N.B. Dottrina e giurisprudenza ammettono un limite all’impossibilità di sindacare la legittimità sostanziale dell’ordine da parte
dell’inferiore vincolato alla più pronta obbedienza: tale limite viene individuato nella manifesta criminosità dell’ordine medesimo.
Si tratta di un’estensione analogica al diritto penale dell’art.40 c.p. militare (abrogato) e ripreso nell’art.4 l.328/79 sulle norme di
principio sulla disciplina militare “il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui
esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine ed informare al più presto il suo superiore”].
[È in applicazione di tali criteri che va risolto il CASO 23, di fronte all’ingiunzione del comandante della capitaneria di porto di compiere irregolarità
amministrative manifestamente integranti fatti di reato, l’ufficiale-cassiere (gerarchicamente vincolato, in quanto militare, ad una pronta
obbedienza) ha il diritto-dovere di opporre un rifiuto, diversamente anch’esso si rende corresponsabile dei reati commessi in esecuzione
dell’ordine].
7) Legittima difesa
[CASO 24: IL PROPRIETARIO DI UN FONDO, AVENDO SORPRESO UN LADRO A RUBARE ALCUNE PIANTE DI CAVOLFIORE, ESPLODE IN ARIA UN COLPO DI
FUCILE A SCOPO INTIMIDATORIO. IL LADRO QUINDI SI DA’ ALLA FUGA E, DOPO UN TRATTO DI 50M, ABBANDONA LA REFURTIVA COSTITUITA DA 3 PIANTE
DI CAVOLFIORI. CIONONOSTANTE IL DERUBATO, SEMPRE ARMATO DI FUCILE, MUOVE ALL’INSEGUIMENTO DEL LADRO PER RAGGIUNGERLO ED
EVENTUALEMENTE ARRESTARLO: VENUTOSI A TROVARE A CIRCA 1OM DI DISTANZA DAL FUGGIASCO, TENTA DI ESPLODERGLI CONTRO UN COLPO DI
FUCILE; IL LADRO VISTOSI A SUA VOLTA AGGREDITO, ESTRAE LA PISTOLA CHE PORTA ADDOSSO E FERISCE IL PROPRIETARIO INSEGUITORE.
CASO 25: UNA SERA D’INVERNO, POCO PRIMA DELLA CHIUSURA DEI NEGOZI, UN POPOLARE CALCIATORE DELLA SQUADRA DELLA LAZIO (LUCIANO RE
CECCONI) INSCENA UNO SCHERZO, POI RIVELATOSI TRAGICO: ENTRATO IN UNA GIOIELLERIA COL BAVERO ALZATO E LE MANI IN TASCA COME AD
IMPUGNARE UNA PISTOLA, CON ESPRESSIONE TESA E DURA INTIMA AI PRESENTI “FERMI TUTTI, QUESTA È UNA RAPINA”. IL GIOIELLIERE IMPUGNA
PRONTAMENTE LA PISTOLA E UCCIDE IL PRESUNTO RAPINATORE ].
L’art.52.1 stabilisce che: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto
proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa”.
La legittima difesa rappresenta un residuo di autotutela che lo Stato concede al cittadino, nei casi in cui l'intervento
delle Autorità non può risultare tempestivo.
La struttura della legittima difesa ruota attorno a due comportamenti:
- condotta aggressiva
- condotta difensiva.
7.1)
■ Caratteristiche dell’aggressione la minaccia deve provenire da una condotta umana. Può scaturire anche da
animali o cose, soltanto se è individuabile un soggetto tenuto ad esercitare su di essi una vigilanza: in tal caso,
l’esimente si applicherà sia a favore di chi reagisce direttamente contro l’animale o la cosa, sia a favore di chi reagisce
contro la persona gravata dell’obbligo di custodia.
Il pericolo di offesa può anche provenire da condotta omissiva. Ad esempio il rifiuto del proprietario di richiamare il cane
mastino che sta aggredendo un bambino, integra un’omissione e ciò giustifica il padre che impugni un’arma per costringere il proprietario
stesso a far allontanare l’animale feroce.
L’aggressione giustifica la reazione difensiva anche se l’aggressore sia un soggetto immune o non imputabile: il che si
spiega considerando che l’antigiuridicità della condotta, ai fini dell’applicabilità dell’art.52, rileva in termini puramente
oggettivi (cioè è sufficiente che l’aggressore si comporti in modo contrastante all’ordinamento giuridico considerato nel suo
complesso, anche se la specifica illiceità penale viene meno per difetto dei requisiti di natura soggettiva).
• Oggetto dell’aggressione l’attacco deve avere ad oggetto un diritto altrui: per diritto si deve intendere non solo il
diritto soggettivo in senso stretto, ma qualsiasi interesse giuridicamente tutelato. [Posto che l’art.52 usa il termine generico
“diritto” si deduce che la facoltà di difesa è esercitabile per la salvaguardia di tutti i beni indistintamente, inclusi i diritti patrimoniali]
• Attualità del pericolo presupposto fondamentale della difesa legittima è che l’aggressione provochi un pericolo
attuale di offesa: non si deve trattare cioè di un pericolo corso (in tal caso non si avrebbe necessità di prevenire
un’offesa), né di un pericolo futuro (perché se cosi fosse sarebbe possibile ricorrere all’intervento dell’autorità).
Occorre, dunque, una minaccia di “lesione incombente al momento del fatto”, tale cioè che la reazione nei confronti
dell’aggressore rappresenti l’unico mezzo per mettere al riparo il bene posto in pericolo.
Nella nozione di pericolo attuale deve farsi rientrare anche il pericolo perdurante: lo si riscontra sia nei reati
permanenti, sia nei casi in cui non si è esaurita l’offesa e che di conseguenza non si è ancora completato il trapasso dalla
situazione di pericolo a quella di danno effettivo.
[Ai fini dell’accertamento di un “pericolo attuale” di offesa, si consideri il CASO 24: qui non vi è il dubbio che il pericolo incombente di offesa sussiste
durante la sottrazione dei cavolfiori e al più tardi, finché il ladro fuggendo mantiene il possesso delle piante rubate; la reazione del derubato può
essere coperta dalla difesa legittima fin quando tenda all’interruzione del furto oppure al recupero della refurtiva. I limiti della legittima difesa sono
travalicati a partire dal momento nel quale il ladro si spoglia delle cose sottratte e il derubato continua l’inseguimento al fine di raggiungere e
arrestare il fuggiasco. Da questo momento in poi, il pericolo di offesa deve considerarsi cessato e la persistente reazione del soggetto passivo può
essere inquadrata nell’esercizio di una facoltà legittima ex art.51: l’art.383 c.p.p. consente al privato, purché sussistano alcune condizioni
prevedute dalla disposizione stessa, di procedere all’arresto in flagranza.]
• Ingiustizia dell’offesa secondo l’orientamento ermeneutico tradizionale è ingiusta l’offesa provocata «contra
jus»; l’offesa antigiuridica: cioè arrecata in violazione delle norme che tutelano l’interesse minacciato.
[N.B. Questo modo di interpretare il requisito dell’ingiustizia rischia di renderlo ripetitivo; difatti l’estremo dell’antigiuridicità è già
implicito nel concetto di offesa ad un diritto o interesse protetto.
Se si vuole attribuire un significato autonomo e più pregnante all’estremo in parola, è preferibile un’interpretazione diversa: cioè il
riferimento all’ingiustizia dell’offesa sta a significare che l’aggressione, oltre a minacciare un diritto altrui, non deve essere
espressamente facoltizzata dall’ordinamento. Se ne ricava che non può invocare la legittima difesa chi pretende di reagire contro
una persona la quale agisca, a sua volta, nell’esercizio di una facoltà legittima espressamente stabilita dall’ordinamento o
nell’adempimento di un dovere].
7.2)
■ Caratteristiche della reazione la reazione è giustificata solo in presenza di 2 requisiti:
- necessità la difesa deve apparire innanzitutto “necessaria” per salvaguardare il bene posto in pericolo, il che
significa che l’aggredito, di fronte all’alternativa tra reagire e subire, non può evitare il pericolo se non reagendo contro
l’aggressore. Necessità della reazione equivale ad inevitabilità della stessa, ed una reazione è davvero inevitabile
quando non è sostituibile da un’altra meno dannosa ugualmente idonea ad assicurare la tutela dell’aggredito.
Beninteso il giudizio di necessità – inevitabilità non è assoluto, ma relativo perché si deve tenere conto di tutte le
circostanze del caso concreto (es. forza fisica delle persone coinvolte, condizioni del tempo e di luogo, ecc).
[N.B. Tradizionalmente si discute se la legittima difesa esuli dove l’aggredito possa mettersi in salvo con la fuga.
Un’opinione assai diffusa, specie nel passato, distingue tra “fuga” e “commodus discessus” (ritirata comoda) ritenendo che si sarebbe
tenuti a fuggire soltanto quando le modalità della ritirata siano tali (es: tornando indietro, cambiando strada, ecc) da non far apparire “vile”
il soggetto aggredito; mentre in caso contrario l’aggressore dovrebbe tollerare tutte le conseguenze della sua condotta illecita].
Oggi, il nodo dei rapporti tra reazione e fuga va sciolto tenendo conto del principio cardine del bilanciamento degli interessi,
cosicché le soluzioni variano da caso a caso. Il soggetto non è tenuto a fuggire in tutti quei casi, nei quali la fuga esporrebbe
beni suoi personali (es: pericolo di infarto o aborto) o di terzi (pericolo di investire un passante in una fuga in macchina) a
rischi maggiori di quelli incombenti sui beni propri del soggetto contro il quale si reagisce. In applicazione di tale criterio, la
salvaguardia della dignità personale dell’aggredito potrà ad es. giustificare una reazione limitata all’immobilizzazione o alle
percosse,ma non giustificare l’uccisione o il ferimento dell’aggressore da parte di chi poteva benissimo fuggire.
- proporzione tra difesa e offesa I problemi più delicati sorgono al momento di determinare significati e limiti del
secondo requisito necessario perché la reazione possa apparire giustificata: cioè quello della proporzione.
Secondo un primo punto di vista la proporzione dovrebbe intercorrere tra i mezzi difensivi a disposizione dell’aggredito
e quelli effettivamente impiegati. Se ne ricava che la legittima difesa può essere invocata anche da chi reagendo provoca
un’offesa maggiore a quella a lui minacciata, purché il mezzo impiegato fosse il solo a disposizione dell’aggredito (es: ben
potrebbe (quando altro mezzo non sia disponibile) il comportamento di un proprietario vecchio e paralitico il quale spara ad un giovane ladruncolo
per farlo desistere dal rubare frutti dagli alberi, ecc).
La tesi esposta, va incontro ad obiezioni difficilmente superabili.
È da osservare che la stessa lettera dell’art.52 richiede che il requisito in esame, cioè quello della proporzione, intercorra
tra la “difesa” dell’aggredito e ”offesa” dell’aggressore. L’espressione “offesa” o “offendere” nel dettato legislativo
indica sempre la messa in pericolo dell’interesse protetto.
Allora, anche a volere accedere alla tesi criticata, si dovrebbe giungere alla conclusione che la difesa di un bene
meramente patrimoniale possa giustificare anche la lesione di un bene personale come la vita o l’integrità fisica, ma ciò
equivarrebbe a sovvertire la gerarchia dei valori recepita dal nostro ordinamento.
[N.B. Il nostro sistema costituzionale colloca al primo posto i “diritti inviolabili” della persona, ma l’art.2 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo stabilisce che “la morte non è considerata illecita” soltanto “quando è assolutamente imposta dalla necessità di
difendersi da una violenza illegittima”. Dove si ritenga che quest’ultima disposizione operi anche nell’ambito del diritto interno, se
ne ricava come indicazione che la necessità di respingere una violenza alla propria persona costituisce requisito indispensabile per
riconoscere come legittima la morte inflitta ad altri].
Da ciò si può ricavare che non è consentito aggredire la vita altrui per difendere diritti di natura meramente
patrimoniale o, comunque, gerarchicamente inferiori alla vita e all’integrità fisica della persona.
È dunque da accogliere l’orientamento che assume a termine del giudizio di proporzione il rapporto di valore tra i beni o
interessi in conflitto: occorre operare un bilanciamento tra il bene minacciato ed il bene leso, con la conseguenza che
all’aggredito che si difende non è consentito di ledere un bene dell’aggressore superiore a quello posto in pericolo
dall’iniziale aggressione illecita.
Tale raffronto tra i beni in conflitto va operato tenendo conto del rispettivo grado di messa in pericolo o lesione cui sono
esposti gli interessi dinamicamente confliggenti nella situazione concreta: da questo punto di vista, se è comunque
ingiustificato uccidere per salvaguardare un interesse patrimoniale, può invece apparire lecito infliggere una ferita
curabile per mettere al sicuro un patrimonio di rilevantissima entità.
Quanto ai criteri di valutazione invocabili per stabilire la proporzione, occorre distinguere:
• se il conflitto intercorre tra beni omogenei (esempio: integrità fisica contro integrità fisica) si confronterà il rispettivo
grado di lesività dell’azione aggressiva e di quella difensiva;
• se il conflitto intercorre tra beni eterogenei (vita, integrità fisica, patrimonio, ecc.), il discorso si complica.
Quando il rapporto gerarchico non è particolarmente evidente (bene vita è superiore al bene patrimonio), dovrà farsi
ricorso all’ausilio di “indicatori” diversi, quali l’eventuale rilevanza costituzionale del bene, la valutazione offerta dal
legislatore penale attraverso l’entità della sanzione prevista nel caso di una sua violazione, ecc.
Al giudizio sull’importanza dei beni contrapposti in sé considerati deve seguire un secondo giudizio che ponga a
confronto, anche nel caso tra beni eterogenei, il rispettivo grado di intensità dell’offesa minacciata dall’aggressore e di
quella prodotta dall’aggredito.
[In base a quanto appena detto possiamo considerare i CASI 24 e 25:
CASO 24 l’esplosione in aria di un colpo di fucile a scopo intimidatorio appare reazione proporzionata nei confronti del ladro che si impossessa
dei cavolfiori: ma la reazione sarebbe sproporzionata se il colpo di fucile fosse dal proprietario del fondo sparato per ferire o uccidere il ladruncolo.
CASO 25 esemplifica un’ipotesi di legittima difesa putativa, perché il gioielliere si rappresenta una situazione di pericolo esistente solo in
apparenza: la responsabilità penale può venir meno in quanto l’art.59.4, stabilisce che, se l’agente ritiene per errore che esista una causa di
giustificazione questa è valutata a suo favore. Nella specie, sussiste anche la proporzione tra i beni in conflitto, dal momento che la minaccia
proveniente dal calciatore incombeva non solo sul patrimonio, ma sulla stessa vita del gioielliere aggredito].
7.3)
♦ La legittima difesa “domiciliare” la disciplina codicistica della legittima difesa è stata innovata con la legge 59/2006
che ha aggiunto all’art.52 due nuovi commi destinati a regolamentare l’esercizio del “diritto all’autotutela in un privato
domicilio”: lo scopo perseguito dal legislatore tende ad ampliare i presupposti di una difesa legittima nei casi in cui
l’aggressore sorprende l’aggredito in casa o in un altro luogo chiuso assimilabile.
La maggiore novità consiste nella modifica della disciplina del requisito della proporzione, nel senso che, quando la
reazione difensiva è diretta contro un intruso in una privata dimora, il giudice è dispensato dal verificare in concreto la
proporzione tra offesa e difesa, essendo il requisito della proporzione, in questi casi, legislativamente presunto “juris et
de jure”.
[Questa riforma ha suscitato reazioni contrastanti anche all’interno della dottrina penalistica. Alcuni autori, per un verso ritengono che vi è
il rischio che la riforma faccia passare il messaggio che l’ordinamento concede ai cittadini onesti la “licenza di uccidere” ladri e rapinatori
che si introducono nelle abitazioni e nei negozi; e dall’altro lato, tale modifica normativa, per consentire in futuro una più efficace difesa da
pericolose incursioni, produca al contrario essa stessa un effetto “criminogeno”, incentivando l’aggressività dei delinquenti quale risultato
dei maggiori spazi di aggressività difensiva permessi alle potenziali vittime.
Infatti, la modifica legislativa risulta essere fallimentare sotto il profilo della tecnica normativa, e di conseguenza, il testo approvato dal
legislatore del 2006 (13 febbraio 2006) è mal congegnato, così ogni sua possibile interpretazione si espone a riserve critiche].
◘ Struttura normativa il nuovo comma 2 dell’art.52 stabilisce: “Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma,
sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei
luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o la altrui incolumità:
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione ”.
► Il nuovo comma 3 aggiunge: “La disposizione di cui al secondo comma si applicano anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto
all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale ”.
Dall’esame della nuova disciplina emerge che essa lascia sussistere, astenendosi dal modificarli, i presupposti
tradizionali della legittima difesa, cristallizzati nel 1° comma dell’art. 52 e cioè:
- la necessità di difendersi;
- il pericolo attuale di una offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui.
Non si richiede più la proporzione tra difesa ed offesa da verificare in concreto, essendo in ogni caso legislativamente
presunta. Oltre alla “presunzione di proporzione”, altri elementi di novità sono costituiti dallo specifico contesto
situazionale in cui l’aggredito viene sorpreso, nonché dalle connesse situazioni concomitanti che devono essere
presenti perché la reazione armata (o comunque violenta) risulti legittima e, dunque, scriminata.
Quanto al “contesto”, occorre che la necessità di difesa sia provocata da un aggressore che commetta una violazione di
domicilio ex art.614: si deve cioè trattare di un estraneo che si introduce arbitrariamente nell’abitazione altrui oppure di
una persona che vi si intrattiene contro la volontà dell’avente diritto.
La legittima difesa “allargata” riguarda tutti i casi di reazioni difensive che avvengono all’interno di luoghi chiusi, inclusi
quelli che sfuggono all’ambito di espressa previsione dell’art.614: infatti l’art.52.3 esplicita che la reazione armata è
ammissibile, in presenza di tutti gli altri presupposti, quando si manifesti in ogni altro luogo ove venga esercitata
un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale (es: negozi, aziende, ecc.).
Contro l’intruso è possibile usare l’arma o ogni altro mezzo idoneo alla difesa, purché siano presenti le condizioni
indicate dall’art.52 comma 2 lettere a) e b).
Si può in base alle opzioni ermeneutiche pervenire alla seguente conclusione: anche nell'ipotesi sub b), perché una
reazione difensiva violenta risulti scriminata, occorre la presenza di un pericolo incombente di aggressione ai beni
personali del soggetto che si difende. E, anche questa volta, la presunzione legislativa di proporzione finisce col riferirsi
(soltanto) al rapporto tra la rispettiva entità dei pregiudizi arrecati ai beni (pur sempre personali) oggetto di offesa e di
difesa (es: nel senso che può essere considerato legittimo, per salvaguardare la propria incolumità, ferire laddove per respingere
l'aggressore poteva bastare assestargli un pugno e simili).
In entrambe le ipotesi sub a) e sub b), la liceità del ricorso in funzione difensiva all'uso di un'arma o di altro mezzo
idoneo è subordinata alla presenza di un’ulteriore doppia condizione di legittimità:
- il soggetto che si difende deve essere presente legittimamente all'interno del luogo chiuso in cui subisce l'intrusione
del malvivente;
- l'arma usata deve essere legittimamente detenuta.
[N.B. Ove la difesa armata sia azionata da un soggetto che possiede l'arma senza un valido titolo di legittimazione, se verrà meno la
presunzione di proporzione, sarà pur sempre applicabile - se ne ricorrono tutti i presupposti (inclusa la proporzione in concreto) - la
scriminante tradizionale della legittima difesa di cui al co.1 dell'art. 52, fatta salva la configurabilità di illeciti penali relativi alla
illegittima detenzione dell'arma medesima].
La «resistenza» deve essere attiva: non basterebbe una resistenza passiva quale è esemplificata.
Ad es. dalla classica resistenza pacifica opposta dalle donne scioperanti distese sui binari per impedire il passaggio dei treni oppure dalla fuga per
sottrarsi ad una cattura.
Anche se, la resistenza passiva non esclude sempre l'applicabilità dell'art.53.
Si tratta di considerare un “rapporto di proporzione” da un lato tra i mezzi di coazione impiegati e il tipo di resistenza da
vincere e dall’altro tra i beni in conflitto. (Esempio: mentre non sarà consentito sparare sulle donne che protestano stando
distese sui binari, si potrà tuttavia ricorrere a mezzi assai più blandi per indurle ad allontanarsi).
[N.B. Alla stregua di questi criteri va anche risolto il CASO 26: qui i terroristi si danno ad una fuga precipitosa dopo aver compiuto
l'attentato. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, la «fuga» rappresenta un'ipotesi tipica di resistenza passiva che,
come tale, di regola esclude il ricorso alle armi: ciò perché manca, appunto, il rapporto di proporzione tra l'uso dell'arma e il
carattere non violento della resistenza opposta. Questo rapporto di proporzione difetta anche nel caso dei terroristi: dato che la loro
è una semplice fuga non accompagnata da un contestuale uso delle armi, l'esplosione da parte dell'agente inseguitore di colpi di
rivoltella contro organi vitali di uno dei fuggitivi non può apparire veramente giustificata. Né varrebbe obiettare che l'uso delle armi
sia ammissibile «per contrastare tentativi di fuga che, per le loro peculiari caratteristiche, assumano veste di illeciti particolarmente
gravi, suscettibili di ledere, in modo rilevante beni giuridici pubblici e sociali cui l'ordinamento attribuisce valore primario».
Ma la fuga di per sé considerata, dunque, anche quella di un terrorista - non pone in pericolo beni primari: non bisogna, infatti,
confondere la fuga, che è un comportamento successivo, con il comportamento antecedente].
Quale che sia dunque la gravità del reato commesso, il rapporto di proporzione deve sussistere non rispetto a questo
reato, ma rispetto alla forma di resistenza successivamente attuata dal delinquente che tenta di sfuggire alla cattura
A seguito dell'emanazione dell'art. 14 della legge 22 maggio 1975, n. 152, al co.1 dell’art.53 sono state aggiunte le
parole «e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro
ferroviario, omicidio volontario a mano armata e sequestro di persona ».
Dell'effettiva utilità di tale integrazione è lecito dubitare. Infatti, nel concetto di «violenza» da respingere rientra già il
comportamento esecutivo di qualsiasi delitto, anche dei gravi delitti che il legislatore del '75 ha voluto specificare.
Da questo punto di vista, il pubblico ufficiale autorizzato all'uso delle armi, che si fosse trovato a dovere impedire la
consumazione dei delitti di strage, naufragio, ecc. avrebbe potuto anche in precedenza invocare la scriminante in
esame. Se invece si volesse attribuire un’innovazione legislativa alla norma, si dovrebbe ritenere che essa autorizzi l’uso
delle armi per impedire la consumazione dei reati predetti anche in una fase antecedente a quella in cui sono ravvisabili
gli estremi dell’idoneità e univocità degli atti come elementi del tentativo punibile.
9. Stato di necessità.
[CASO 27: I COMPONENTI DI UNA FAMIGLIA NAPOLETANA, IN CONDIZIONI ECONOMICHE DISPERATE E IN PRECARIO STATO DI SALUTE, OCCUPANO
UN APPARTAMENTO VUOTO DI PROPRIETA’ DELL’ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI SUBITO DOPO ESSERE STATI IMPROVISAMENTE
SLOGGIATI DALLA LORO ABITAZIONE PERICOLANTE (CASO TRATTO DA PRET. NAPOLI, 15 FEBBRAIO 1973, INEDITA)].
[CASO 28: ALCUNI AGENTI DEL NOCS (NUCLEO OPERATIVO CENTRALE SICUREZZA), DOPO AVERE CATTURATO E POSTO IN ARRESTO CINQUE
‘BRIGATISTI ROSSI’ RESPONSABILI DEL SEQUESTRO DI U GENERALE AMERICANO, SOTTOPONGONO A GRAVI VIOLENZE MORALI E FISICHE UNO DEI
TERRORISTI ARRESTATI PER OTTENERE INFORMAZIONI RITENUTE NECESSARIE A SALVARE IL PAESE DAL PERICOLO DELL’EVERSIONE (CASO TRATTO
DA TRIB. PADOVA, 15 LUGLIO 1984, IN FORO IT., 1984, II, 230 CON NOTA DI PULITANO’)].
• L’art.54 del c.p. stabilisce che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé
od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile,
sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo».
Mentre nella legittima difesa si reagisce contro un aggressore che minaccia di offendere un nostro diritto, nello stato di
necessità si agisce per sottrarsi al pericolo di un danno grave alla persona e l’azione difensiva ricade su un terzo
estraneo, cioè su di una persona che non ha provocato la situazione di pericolo. La situazione di pericolo scaturisce da
eventi naturali, ma anche da un’azione illecita umana (si pensi al caso di Tizio, che per sfuggire alle violenze di Caio, ruba
l’automobile di Sempronio per scappare, nonostante Sempronio sia del tutto estraneo ai fatti ).
[N.B. Per molto tempo la dottrina ha considerato lo stato di necessità come causa di esclusione della colpevolezza, muovendo dal
presupposto che la “ratio” dell’istituto fosse da rinvenire nell’impossibilità di esigere umanamente un comportamento diverso da
quello tenuto. L’idea dell’”inesigibilità psicologica” di una condotta diversa può giustificare la non punibilità di chi agisca per
mettere in salvo sé stesso o un congiunto, ma non è in grado di spiegare perché debba andare esente da pena colui il quale agisce in
modo necessitato per salvaguardare un estraneo o uno sconosciuto].
La dottrina dominante ha allora abbandonato il terreno della non colpevolezza. La “ragione giustificatrice” della
scriminante è la mancanza di interesse dello Stato a salvaguardare l’uno o l’altro dei beni in conflitto, posto che nella
situazione data un bene è in ogni caso destinato a soccombere.
In base al principio del bilanciamento degli interessi è necessario che il bene sacrificato sia di rango inferiore, o
equivalente o di poco superiore rispetto a quello salvato.
9.1) Dal punto di vista strutturale lo stato di necessità presenta forti analogie con la legittima difesa, ma se ne
differenzia per due elementi fondamentali:
- L’azione si dirige non contro l’autore di una aggressione, ma contro un individuo innocente in quanto non
responsabile della situazione di pericolo;
- L’azione giustificata non deve tendere a salvaguardare un qualsiasi diritto come nella legittima difesa, ma mirare a
scongiurare «il pericolo attuale di un danno grave alla persona».
L’estremo del pericolo attuale è comune alla legittima difesa. Il criterio temporale, basato sull’imminenza cronologica
del danno, non sempre consente una corretta determinazione dell’attualità del pericolo. Non di rado, è opportuno agire
anticipatamente per impedire l’aggravamento delle potenzialità lesive insite nella situazione pericolosa.
L’art.54 richiede che il pericolo sia non volontariamente causato, né altrimenti evitabile.
►L’accertamento della “volontarietà” deve essere riferito alla situazione pericolosa cui si ricollega immediatamente il
danno e non a suoi lontani antecedenti. (Esempio: il dissipatore rimasto sul lastrico potrà invocare lo stato di necessità se ruba
una medicina per salvare il figlio in imminente pericolo di vita).
Fatta questa precisazione è preferibile un’interpretazione che considera “volontariamente causate” le situazioni di
pericolo dovute anche alla semplice colpa. (Ad es: l’automobilista indisciplinato che crea, a causa della propria condotta imprudente, una
situazione di pericolo non può giustificarsi adducendo che l’investimento era necessitato dall’evitare il pericolo di un urto contro il muro).
L’esclusione della scriminante in tutte le ipotesi di colpa, sia volontaria che involontaria, trova fondamento nella “ratio”
della scriminante che ha indotto il legislatore a richiedere l’involontarietà del pericolo: se l’ambito di operatività dell’
art.54 va circoscritto in considerazione della posizione del terzo innocente di chi subisce il danno derivante dalla
condotta necessitata, è giusto non riconoscere la causa di giustificazione quando l’agente che si trova in pericolo abbia
contribuito colpevolmente, quindi responsabilmente, alla sua verificazione.
► L’esplicita menzione del «pericolo non altrimenti evitabile» (c.d. inevitabilità-altrimenti), come requisito della
necessità, sta ad indicare sia che la sola condotta scriminata è quella che arreca il minore danno al terzo innocente, ma
anche che la valutazione dell’inevitabilità deve essere fatta con criteri più rigorosi che non nella legittima difesa.
[N.B. Il requisito dell’inevitabilità-altrimenti ha un’interpretazione molto rigorosa da parte della Cassazione, secondo la quale il
pericolo non altrimenti evitabile postula una necessità inderogabile e cogente di salvaguardare il bene mediante una condotta
criminosa e solo con quella, senza, altra alternativa. Partendo da queste premesse la Cassazione giunge alla conclusione di ritenere
per lo più inapplicabile l’applicazione della scriminante ex art.54 nei casi di bisogno economico, in quanto ai bisognosi può
provvedere lo Stato sociale con i suoi vari istituti].
[Riprendendo il CASO 27, è vero che in astratto sarebbe stato possibile ricorrere agli enti pubblici per un aiuto, ma i tempi burocratici necessari
avrebbero inciso ulteriormente sulle instabili e precarie condizioni. Dunque l’occupazione dell’appartamento di proprietà dell’IACP, per quanti
riconducibile al reato di invasione di edifici, risulta in concreto giustificata dalla situazione di necessità].
► Il pericolo deve avere ad oggetto un danno grave alla persona. Alcuni autori tendono a circoscriverlo alla morte e alla
lesione fisica grave, per cui fanno rientrare nella tutela solo i beni della vita e dell’integrità fisica. Altri, la maggioranza,
propendono per dilatare il novero dei beni di natura personale, fino ad includervi quelli relativi alla personalità morale
della persona. L’autore è per una interpretazione estensiva, ricomprendendo nel concetto qualsiasi lesione minacciata
ad un bene giuridicamente rilevante, sia la sua tutela penale o extra-penale.
La “gravità” può essere determinata mediante un duplice indice:
- considerando l’eventuale rango del bene (indice qualitativo);
- tenendo conto del grado di pericolo che incombe sui beni (indice quantitativo).
(Ad esempio, non ogni lesione all’integrità fisica può dirsi grave, ma solo quella che comporta una lesione di particolare rilevanza).
9.2) • L’art.54 co.1, contempla anche l’ipotesi del c.d. soccorso di necessità, che ricorre se l’azione necessitata è
compiuta non dallo stesso soggetto minacciato, ma da un terzo soccorritore. Vi sono, però, casi di soccorso che
rientrano nella più incisiva scriminante dell’adempimento di un dovere: si pensi, ad esempio, all’obbligo di soccorso da
adempiere nelle situazioni previste dall’art.593 (omissione di soccorso).
• L’art.54 co.2 stabilisce che la scriminante dello stato di necessità non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico
di esporsi al pericolo: (es. vigili del fuoco, guardie alpine, ecc). La scriminante è applicabile se chi ha questo dovere realizza
un’azione necessitata per salvare non sé stesso, ma terzi in pericolo.
• L’art.54 ultimo comma, stabilisce “se lo stato di necessità è determinato da altrui minaccia, del fatto risponderà la persona
che ha costretto il soggetto a commettere il fatto”. Si tratta di coazione morale.
(Ad esempio, l’automobilista che provoca un incidente perché spinto a correre sotto la minaccia di una pistola, non risponderà del fatto,
del quale sarà responsabile unico il minacciante.)
[N.B. Sul piano delle conseguenze sanzionatorie, lo stato di necessità, a differenza della legittima difesa (art.2044 c.c.), ai sensi
dell’art.2045 cc, al danneggiato è dovuta un’indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice.
La ragione sta nel fatto che l’azione necessitata arreca pregiudizio ad un soggetto non responsabile della situazione di pericolo].
CAP 3 – La colpevolezza
SEZIONE I – Nozioni generali
1) Premessa
Perché sia punibile il fatto commissivo deve essere:
- tipico
- antigiuridico
- colpevole
Quindi la colpevolezza è il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato, ed esso si innalza nell’attuale momento
storico a principio-cardine del sistema penale.
[N.B. Da un punto di vista antropologico, il principio nulla poena sine culpa presuppone l’accettazione, anche implicita, di un
modello di personalità umana come entità costituita da più “strati” posti in rapporto di successione evolutiva.
Si muove dal presupposto che, a differenza degli animali, l’uomo sia in grado, grazie ai suoi poteri di signoria (i c.d. strati superiori della
personalità) di controllare gli istinti e reagire agli stimoli del mondo esterno in base a scelte fra diverse possibilità di condotta, nonché
orientarsi secondo sistemi di valori.
È proprio dando per presupposta questa capacità di scelta che è possibile considerare il reato come “opera dell’agente” e rivolgergli
un rimprovero per averlo commesso].
Il ruolo centrale del principio di colpevolezza è confermato dalla sua rilevanza costituzionale desumibile dall’art.27.1
cost, secondo un’interpretazione che riscuote molte adesioni, il principio della personalità della responsabilità penale in
esso fissato va inteso non solo nel significato minimo del «divieto di responsabilità per fatto altrui», ma nel senso di
«responsabilità per fatto proprio colpevole», cioè il legislatore costituzionale nell’affermare che la responsabilità
penale è personale, ha espresso il principio, secondo cui l’applicazione della pena presuppone l’attribuibilità psicologica
del singolo fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto.
[N.B. Come anche la Corte cost. ha chiarito nelle sentenze del 1988, che l’imputazione soggettiva del fatto criminoso può
considerarsi conforme al principio di personalità, a condizione che il fatto stesso sia attribuibile all’autore almeno a titolo di “colpa”,
perché se solo un elemento di fattispecie, che concorre a contrassegnare la lesività del fatto, sia sganciato dal “dolo” o dalla “colpa”
viene meno il carattere personale dell’addebito e un’eventuale attribuzione di responsabilità penale si pone in un insanabile
conflitto con l’art.27.1 cost.].
Il ruolo indefettibile della colpevolezza è altresì confermato dal collegamento sistematico tra il co.1 e co.3 dell’art.27
Cost. che sancisce il finalismo rieducativo della pena.
[N.B. Quale sia il nesso è facilmente intuibile, se fosse sufficiente, ai fini dell’assoggettamento a pena, il semplice fatto di cagionare
materialmente un evento lesivo, e nessun «rimprovero» neppure di mera disattenzione o imprudenza potesse essere rivolto
all’agente, la pretesa «rieducativa» dello Stato non avrebbe più molto senso, infatti chi agisce in assenza del dolo o colpa e cagiona
eventi lesivi imprevedibili che si sottraggono al suo personale potere di controllo, non manifesta nessuna ribellione o indifferenza
rispetto ai beni protetti, per cui manca quell’atteggiamento psicologico di contrasto con l’ordinamento che giustificherebbe la
necessità di educare al rispetto delle regole della convivenza. In questo caso anche la pena, potrebbe apparire ingiusta ed arbitraria,
rafforzando sentimenti di ostilità verso lo Stato da parte dell’agente].
La stessa Corte nella sentenza 364/88 ha riconosciuto il rapporto tra colpevolezza e rieducazione scrivendo “comunque si
intenda la funzione rieducativa (..) essa postula almeno la colpa dell’agente (…) poiché non avrebbe senso la rieducazione di chi, non
essendo almeno in colpa, non ha certo bisogno di essere rieducato”.
L’idea di colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità per l’evento (responsabilità c.d. oggettiva): subordinare
la punibilità alla colpevolezza equivale cioè a bandire ogni forma di responsabilità per accadimenti dovuti al mero caso
fortuito. In questo senso, l’imputazione penale si arresta laddove il soggetto non sia in grado di signoreggiare il
verificarsi degli eventi: il che vuol dire, dunque, che il rimprovero di colpevolezza implica che si presupponga come
esistente una “possibilità di agire diversamente” da parte del soggetto cui il fatto viene attribuito.
La colpevolezza, quale parametro valutativo della relazione psicologica fatto-autore, riflette le differenze riscontrabili
nelle diverse forme di partecipazione interiore al fatto: si allude alla distinzione tra dolo (volontarietà del fatto) e colpa
(involontarietà del fatto). In diritto penale, così come accade nella esperienza comune, il dolo e la colpa rappresentano,
rispettivamente, la forma più grave e quella più lieve di colpevolezza di conseguenza deve sussistere un rapporto di
proporzione tra forme di colpevolezza e intensità della risposta sanzionatoria: la reazione penale deve essere
proporzionata o commisurata al grado della partecipazione interiore del soggetto.
In un diritto penale, ispirato ai principi oggettivi di materialità e lesività, la colpevolezza deve riguardare un fatto lesivo
di un bene penalmente protetto.
Se la colpevolezza ha come necessario punto di riferimento il singolo fatto di reato, ne deriva che è inammissibile la figura
della cd. colpa d’autore (tipica dell’ideologia nazionalsocialista) nella duplice versione della:
• colpevolezza per il carattere pretende che all’agente si rimproveri il non aver frenato in tempo le pulsioni antisociali, in
modo da formarsi un carattere meno malvagio e meno propenso a delinquere;
• colpevolezza per la condotta di vita pretende di incentrare il giudizio di disapprovazione sullo stile di vita e scelte
esistenziali del reo, che sarebbero all’origine della sua inclinazione al delitto.
[N.B. Una colpevolezza ancorata alla personalità dell’agente, contribuirebbe a spiegare la struttura di alcuni reati e l’aggravamento del trattamento
penale nei casi per es. di recidiva. In tempo più recenti, la tendenza ad affinare il contenuto del giudizio di colpevolezza ha indotto una parte della
dottrina a includervi l’atteggiamento interiore di maggiore o minore disprezzo del soggetto nei confronti dei valori penalmente tutelati (es:
atteggiamenti come lo spirito di violenza, la durezza d’animo, ecc. manifestati nella realizzazione del fatto criminoso, varrebbero come ragioni che
rendono più grave la colpevolezza e perciò il trattamento penale; mentre le motivazioni ideali e più rispettabili, che sorreggono ad es. l’agire dei
delinquenti per convincimento politico, potrebbero attenuare la colpevolezza e giustificare una riduzione di pena. Questa inclusione, nel giudizio
di rimprovero mosso all’agente, della valutazione del suo atteggiamento nei confronti dei valori tutelati, evidenzierebbe il momento
“personalistico” della responsabilità penale.
Ma tutti i tentativi di spostare il fulcro del giudizio di colpevolezza dal fatto all’autore, vanno incontro ad obiezioni difficilmente superabili.
■ L’orientamento oggettivistico, tipico del nostro diritto penale costituzionalmente orientato, impone che anche la colpevolezza deve
assumere a suo principale punto di riferimento il singolo fatto di reato cui di volta involta inerisce. Tale direttrice di fondo è inderogabile
almeno finché ci si preoccupi di mantenere fermi gli argini garantistici di un diritto penale conforme ai principi dello Stato di diritto].
Quindi, la concezione normativa della colpevolezza fornisce la risposta dogmatica all’esigenza di introdurre la
“valutazione delle circostanze” dell’agire, del processo di motivazione, alla base di un canone normativo, trasformando
la colpevolezza in un giudizio di rimproverablità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà.
La colpevolezza, secondo questa nuova accezione, consiste nella valutazione «normativa» di un elemento psicologico,
precisamente nella rimproverablità dell’atteggiamento psicologico tenuto dall’autore.
Nel sostenere che «il fatto doloso è un fatto volontario che non si doveva volere» e che «il fatto colposo è un fatto involontario
che non si doveva produrre», l’elemento comune al dolo e alla colpa è costituito dall’atteggiamento antidoveroso della
volontà presente in entrambi i casi.
Nello stesso tempo il “concetto di rimproverabilità o riprovevolezza” consente di esprimere giudizi graduati di disvalore
penale in rapporto alla qualità dell’elemento psicologico che lega il fatto all’autore.
Ciò però non comporta una valutazione morale, colpevolezza giuridica e morale si collocano su piani diversi: dato il
carattere laico e pluralista dello Stato il diritto penale non può pretendere di imporre coattivamente l’osservanza di
semplici concezioni morali o religiose, per cui la colpevolezza è un rimprovero per il fatto di aver commesso un’azione
socialmente dannosa e non può mai tradursi in un rimprovero per non aver osservato semplici concezioni morali o
religiose. L’idea di colpevolezza in senso penalistico non rappresenta più un fondamento teorico della concezione
“retributiva” della pena, ma privilegiando l’odierna concezione della pena cioè la funzione di prevenzione generale e di
prevenzione speciale, la colpevolezza finisce con l’assolvere una funzione limitativa delle istanze preventive come
“argine garantistico” delle libertà del singolo.
[N.B: La concezione normativa della colpevolezza è oggi accolta dalla dottrina dominante, specie di lingua tedesca. Ma non vi è unanimità
di vedute sia sugli elementi costitutivi del concetto, sia sui limiti del legame “personalistico” tra fatto e autore sotteso all’essenza stessa
della colpevolezza
In sintesi, la concezione normativa consiste:
- nella valutazione normativa di un elemento psicologico e precisamente nella rimproverabilità o riprovevolezza dell’atteggiamento psicologico
tenuto dall’autore;
- si presta a fungere anche da criterio di commisurazione giudiziale della pena, facendo da ponte tra l’elemento costitutivo del reato, accanto alla
tipicità e antigiuridicità, e alla valutazione della gravità del fatto criminoso, ai fini della determinazione della pena.
L’elemento comune di dolo e colpa nella concezione «normativa» della colpevolezza è costituito dall’atteggiamento antidoveroso della volontà].
4) Orientamenti attuali
Oggi si assiste ad una insuperabile frattura tra l’idea di colpevolezza e la “teoria retributiva della pena”.
Nel passato, la colpevolezza era legata alla teoria retributiva perché la retribuzione, concepita come reazione afflittiva al
male commesso, presuppone una colpevolezza da annullare. La crisi della tradizionale concezione retributiva della pena
pone il problema di trovare una nuova giustificazione alla colpevolezza. Ma, posta la stretta connessione colpevolezza-
funzione del diritto penale, la legittimazione della colpevolezza deve prendere in considerazione lo scopo che oggi si
assegna alla sanzione punitiva: scopo ravvisato nella protezione dei beni giuridici garantita attraverso le tecniche della
prevenzione generale e della prevenzione speciale.
L’odierno nesso tra colpevolezza e teoria preventiva della pena.
Ora l’obiettivo è capire quale sia la funzione della colpevolezza all’interno di un diritto penale orientato verso la
prevenzione.
Per un diritto penale così orientato la pena non è la conseguenza indefettibile di una colpevolezza accertata:
quest’ultima è condizione necessaria ma non già sufficiente della punibilità: infatti, accertata la colpevolezza, punire ha
senso solo al fine di distogliere altri dal commettere reati (prevenzione generale) oppure ad impedire che lo stesso
autore del fatto torni a delinquere (prevenzione speciale).
[Ma, allora, se la concreta inflizione della pena è condizionata da esigenze preventive che si aggiungono necessariamente all’accertamento
della colpevolezza, sorge una domanda: la tradizionale categoria della colpevolezza ha una ragion d’essere all’interno di un diritto penale
della prevenzione o la sua sopravvivenza è il risultato di un provvisorio compromesso con il vecchio diritto penale retributivo?]
4.1) Per rispondere si deve distinguere a seconda che la colpevolezza sia considerata come:
• elemento costitutivo del reato quale presupposto della punibilità secondo parte della dottrina, la colpevolezza
riceve oggi una legittimazione grazie al suo rapporto di “strumentalità” rispetto alla funzione preventiva della pena.
[È il nesso di funzionalità che esiste tra questa e la prevenzione speciale rieducativa: la pretesa statuale di promuovere il rispetto dei
valori penalmente tutelati è plausibile in quanto l’azione criminosa costituisca il risultato di una scelta volontaria (dolo) o comunque
di una condotta volontariamente evitabile (colpa).
Il collegamento esiste anche rispetto alla prevenzione generale in virtù del fatto che il legislatore penale subordini la punibilità alla
presenza di coefficienti di colpevolezza. Secondo Bentham, le due prospettive della colpevolezza e della prevenzione generale
intimidatrice tenderebbero a convergere sulla base del seguente ragionamento: la minaccia della pena deve fungere da appello
rivolto alla coscienza del potenziale delinquente per indurlo a desistere dal commettere reati.
Ma perché ciò possa avvenire, è necessaria una condizione, cioè la commissione del fatto criminoso deve rientrare nei poteri di
controllo personale del soggetto, il che significa che l’effettiva realizzazione del reato deve dipendere da una scelta volontaria (dolo)
o dalla violazione di una regola di condotta a contenuto precauzionale (colpa).
Se il legislatore punisse anche la produzione di eventi lesivi dovuti al concorso di fattori imprevedibili o inevitabili, la realizzazione del reato si
sottrarrebbe al controllo del soggetto e la minaccia della sanzione perderebbe la sua efficacia deterrente, perché una legge penale che punisse
anche fatti incontrollabili, difficilmente potrebbe fungere da appello rivolto alla volontà dell’agente per distoglierlo dal commettere illeciti penali.
Sebbene questa funzione della colpevolezza sembra plausibile, è possibile che a volte le cose vadano diversamente, cioè la
consapevolezza del rischio di poter essere incriminati anche per conseguenze incontrollabili del proprio comportamento potrebbe
indurre a desistere dal compiere certe azioni o elevare determinati standard di diligenza. Per cui, nonostante si ipotizzino forme di
responsabilità oggettiva tese a rafforzare la funzione general-preventiva della pena, quest’ultima non implica, come condizione
indefettibile, la colpevolezza quale presupposto del reato: la prospettiva allora è ancora quella del “bilanciamento” tra le esigenze
di tutela preventiva dei beni giuridici e la salvaguarda delle fondamentali libertà del singolo, cioè, il principio di colpevolezza è
inderogabile nel nostro diritto penale perché funge da “argine garantistico” a presidio della certezza di libere scelte d’azione del
privato (cioè assumere dolo o colpa come presupposto della responsabilità penale significa circoscrivere la responsabilità stessa nei
limiti di ciò che rientra nel potere di controllo finalistico del soggetto e tale possibilità di controllo consente ad ogni soggetto di
pianificare la propria esistenza al riparo da ingiustificati rischi penali)].
4.2)
• il grado di colpevolezza come limite alla prevenzione in sede di commisurazione della pena la funzione
“individualgarantistica” della colpevolezza risalta con evidenza sul terreno della commisurazione giudiziale della pena, e
cioè nella fase in cui il giudice stabilisce il concreto trattamento punitivo da infliggere al condannato.
[Anche la scelta della sanzione più adeguata è influenzata da scopi di prevenzione generale o speciale a cui la pena è finalizzata.
Il problema è se la prospettiva della prevenzione possa rappresentare l’unico criterio guida del giudice e se questo debba
considerare secondario il rapporto di adeguatezza tra l’entità della pena ed il grado di colpevolezza insita nel singolo fatto di reato.
Nel tendere a obiettivi di prevenzione generale, una minaccia di pena strettamente agganciata al grado di colpevolezza del reo
potrebbe in alcuni casi apparire troppo blanda per scoraggiare altri soggetti dal commettere potenziali reati dello stesso tipo, e per
questo il giudice, proprio per rafforzare l’efficacia deterrente della sanzione, potrebbe essere indotto a infliggere una pena che
ecceda la giusta misura che il reo meriterebbe in rapporto al singolo fatto già commesso.
A questo punto ci si chiede se sia legittimo, per perseguire scopi di prevenzione generale o speciale, che la pena superi il limite
corrispondente all’entità della colpevolezza individuale. Rispondendo positivamente si riconoscerebbe prevalenza alle esigenze di
prevenzione e si tralascerebbe un’esigenza tipica di ogni Stato moderno: salvaguardare il singolo da interventi punitivi dello Stato
che superano il grado di colpevolezza del reo. Se si tenesse conto solo delle esigenze di prevenzione e non della gravità della colpa si
rischierebbe di applicare sanzioni dure anche per colpe lievi, a fini deterrenti. Si finirebbe col ledere la dignità e l’autonomia del
singolo, che verrebbe strumentalizzata per fini di politica criminale, mettendo da parte i criteri dell’adeguatezza e della proporzione]
Il principio di colpevolezza assolve una funzione limitativa della punibilità, perché il rispetto ad essa dovuto vieta, pur
nel perseguire scopi di prevenzione generale e/o speciale, di infliggere pene di ammontare superiore al limite massimo
corrispondente all’entità della colpevolezza individuale.
[La colpevolezza, per assolvere un “ruolo antagonistico” rispetto alle istanze preventive, va intesa come categoria circoscritta al
singolo fatto di reato e funge, in sede di commisurazione della pena, come limite ad eccessi di reazione penale].
4.3)
Un altro punto su cui verte l’attuale disputa concerne la portata ed i limiti della possibilità di agire diversamente come presupposto del
rimprovero di colpevolezza. È discusso se il giudice debba accertare il potere individuale di agire altrimenti del soggetto concretamente
sottoposto a giudizio, e cioè di una persona in carne ed ossa dotata di specifiche caratteristiche e attitudini: oppure se la possibilità di agire
altrimenti vada commisurata al potere di un uomo medio, prefigurato in base ad aspettative normativo-sociali ispirate, a loro volta,
all’esigenza di prevenire lesioni a beni giuridici. Per la seconda alternativa propendono coloro che dubitano che il processo penale fornisca
mezzi adeguati a valutare la capacità di autodeterminazione dell’agente concreto, mentre ritengono sia necessario valutare la capacità
individuale (prima ipotesi) coloro che temono che il riferimento all’uomo medio sottragga alla colpevolezza ogni fondamento reale,
trasformandola in una formula vuota e completamente asservita ad esigenze preventive. Nella rinnovata disputa sulla colpevolezza
finiscono col riflettersi tutte le tensioni irrisolte che oggi percorrono l’intero sistema penale come strumento di controllo sociale.
Il futuro della categoria della colpevolezza dipenderà da una circostanza cioè dal nuovo accordo che teoria e prassi riusciranno a
raggiungere sui presupposti dell’imputazione soggettiva.
Una questione controversa, nell’ambito della dottrina italiana e che assume un ruolo centrale proprio sul terreno della
struttura della colpevolezza, è il problema della collocazione sistematica dell’imputabilità (intesa come capacità di
intendere e volere) all’interno del reato.
Rapporto tra colpevolezza e imputabilità Ha tradizionalmente dominato nell’area penalistica italiana la tesi secondo la
quale l’imputabilità costituirebbe una qualificazione soggettiva, estranea alla teoria del reato e rientrante nella teoria del reo.
- Antolisei, uno dei sostenitori di tale tesi, sostiene che l’imputabilità rappresenterebbe un modo di essere, uno status
della persona necessario perché l’autore del reato sia assoggettabile a pena. La mancanza di imputabilità, di
conseguenza, opererebbe come causa personale di esenzione dalla pena.
- Pagliaro considera l’imputabilità come un aspetto della capacità giuridica penale, precisamente, quell’aspetto di essa
che fa da presupposto all’attribuzione di un illecito sanzionato con pena.
L’impostazione teorica in esame, diffusa anche nella nostra giurisprudenza, fa leva fondamentalmente sul seguente rilievo:
le norme del codice penale (specie gli artt.222 e 224), che ricollegano i minimi di durata delle misure di sicurezza dell’ospedale
psichiatrico giudiziario e del riformatorio giudiziale alla gravità dei reati commessi, contengono un implicito riferimento
(anche attraverso l’indiretto richiamo all’art.133) all’«intensità del dolo e al grado della colpa»; ne deriva allora che secondo il
legislatore il dolo e la colpa sono anche riferibili ai «non imputabili». Se così è, la dottrina accennata ne deduce che
l’imputabilità non può essere considerata presupposto della colpevolezza, bensì soltanto “stato soggettivo” che decide della
sola assoggettabilità a pena in senso stretto.
A ben vedere, una simile impostazione dogmatica risulta alquanto riduttiva peccando di formalismo, perché perde di
vista la relazione intima che intercorre tra l’imputabilità e l’illecito penale.
Una parte della stessa dottrina italiana più recente (Mantovani, Padovani, Fiore, ecc) riconduce l’imputabilità al
concetto di colpevolezza: ciò perché l’imputabilità, intesa come maturità psicologica del reo, che consente di
rimproverare il reo (cioè l’autore del reato) e un rimprovero in tanto ha senso in quanto il destinatario abbia la maturità
mentale per discendere il lecito dall’illecito e, dunque, per conformarsi alle aspettative dell’ordinamento giuridico.
All’interno dell’impostazione qui seguita, non si contesta che il nostro sistema penale riferisce il dolo e la colpa anche
alla condotta degli incapaci di intendere e di volere, ma il dolo e la colpa non esauriscono il concetto di colpevolezza in
senso normativo in quanto sono richiesti ulteriori elementi nella prospettiva del rimprovero.
Il dolo e la colpa del soggetto “inimputabile” non possono coincidere col dolo o la colpa del soggetto capace di intendere
e di volere. A ben vedere, essi sono meri stati psichici: il dolo, come volontarietà psichica del fatto nella sua materialità,
può non ricomprendere la consapevolezza del suo significato offensivo; inoltre, l’errore di fatto condizionato proprio
dalla malattia mentale può non escludere la pericolosità del non imputabile e può perciò pur sempre comportare
l’applicabilità, nei suoi confronti, di una misura di sicurezza.
[N.B. L’imputabilità va distinta dalla coscienza e volontà dell’azione ex art.42.1: queste costituiscono condizioni dell’attribuibilità
psichica di un’azione od omissione al suo autore, mentre l’imputabilità, come capacità di intendere e di volere, rispecchia una
qualità personale dell’autore che permette di qualificare “colpevole” un determinato comportamento ascrivibile a lui come
cosciente e volontario].
SEZIONE II - Imputabilità
1) Premessa
[CASO 29: UNA GIOVANE MADRE DI UN BAMBINO IN TENERA ETA’, AFFLITTA DA PROBLEMI ESISTENZIALI E FAMILIARI, DECIDE DI SUICIDARSI GETTANDOSI
IN UNA C.D. MARRANA ASSIEME AL FIGLIO. IL FIGLIO LE SFUGGE DI MANO ED ANNEGA MENTRE LA DONNA VIENE TRATTA IN SALVO, SOTTOPOSTA A
PERIZIA PSICHIATRICA, LA MADRE RISULTA AFFETTA DA UNA MALATTIA MENTALE, LA C.D. DEPRESSIONE REATTIVA, MOLTO GRAVE MA DALLA PROGNOSI
FAVOREVOLE.
CASO 30: UNA GIOVANE DONNA AFFETTIVAMENTE IMMATURA E CON RIGIDISSIMI MECCANISMI DI DIFESA DIRETTI A NEGARE LA REALTA’, DOPO AVER
PSICOLOGICAMENTE RIMOSSO IL SUO STATO DI GRAVIDANZA NEL PERIODO DELLA GESTAZIONE, SOPPRIME AL MOMENTO DEL PARTO IL NEONATO
MEDIANTE UNA CONDOTTA NON CONTROLLATA DALLE FUNZIONI SUPERIORI DELL’ “IO” (C.D. REAZIONE A CORTO CIRCUITO)].
●Imputabilità come primo presupposto del rimprovero di colpevolezza se la colpevolezza presuppone una consapevole
capacità di scelta tra diverse alternative di azione, l’imputabilità costituisce la prima condizione per esprimere la disapprovazione
soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente.
Il codice penale all’art.85 definisce l’imputabilità come capacità di intendere e di volere.
[N.B. Questa formula potrebbe indurre a ritenere che la categoria dell’imputabilità presupponga il riconoscimento della «libertà del volere» in senso
filosofico, ma così non è. La vecchia disputa tra «determinismo» e «indeterminismo» si è andata affievolendo anche tra i cultori del diritto penale].
L’odierno giurista è ben consapevole che la volontà umana è soggetta a molteplici condizionamenti: una volontà libera,
intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste.
La volontà umana può definirsi “libera” nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi
psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca a esercitare poteri di inibizione e controllo
idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi agonistici.
Una simile libertà relativa o condizionata, presenta graduazioni diverse in funzione del livello di intensità dei
condizionamenti anche di natura inconscia, che il soggetto subisce prima di agire: quanto più forte è la spinta dei motivi,
degli impulsi, degli istinti, delle pulsioni, tanto più difficile risulterà lo sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo, e
viceversa.
D'altronde la concezione della libertà del volere come libertà condizionata è quella che più corrisponde al senso
comune. La vita pratica di ogni giorno poggia sul presupposto, implicitamente ammesso, che ciascuno di noi sia
abbastanza capace di regolare la propria condotta in modo da non disattendere le aspettative degli altri.
Il moderno diritto penale accoglie tale concezione e non assume più la libertà del volere come un dato ontologico, ma
come necessario presupposto della vita pratica.
[N.B. L’idea del carattere «condizionato» della libertà umana si rivela, peraltro, la più funzionale proprio in prospettiva penalistica:
se le decisioni umane non fossero “co-determinate” da cause che operano secondo leggi psicologiche, ma avessero la loro origine
nel puro arbitrio della volontà, non avrebbe alcun senso pretendere di influenzare la condotta
dell’uomo mediante minaccia della pena. In altri termini, ai fini della stessa efficacia deterrente del diritto penale, è necessario che il
timore di poter incorrere in una sanzione punitiva eserciti sull’agente un “condizionamento” idoneo a indurlo a non delinquere].
● Fondamento dell’imputabilità L’imputabilità, come categoria penalistica, ha alla base giustificazioni diverse.
[N.B. Se ne è evidenziato lo stretto rapporto con la colpevolezza, laddove il nesso cresce quanto più si accentui la dimensione
normativa della colpevolezza, e cioè se ne sottolinei la componente di rimprovero o di disapprovazione del soggetto per aver
commesso un fatto di reato che egli si sarebbe dovuto astenere dal commettere].
Ma, il fondamento penalistico dell’imputabilità, al di là dei nessi con la colpevolezza, è a maggior ragione rinvenibile
sul terreno delle funzioni della pena.
Se la minaccia della sanzione punitiva deve esercitare:
- un’efficacia general-preventiva distogliendo i potenziali rei dal commettere reati, allora il presupposto necessario è che
i destinatari siano psicologicamente in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa;
- una prevenzione speciale (rieducazione del reo) è necessario che il condannato sia psicologicamente capace di cogliere
il significato del trattamento punitivo.
[N.B. Proprio tale “motivabilità normativa”, intesa come attitudine a recepire l’appello della norma penale, non è presente allo
stesso modo in tutti gli individui: i soggetti immaturi come i minori fino ad un certo limite di età, le persone inferme di mente e
quelle assimilabili sono da considerare incapaci di subire la coazione psicologica della pena o di subirla nella stessa misura in cui
l’avvertono gli adulti mentalmente sani].
Crisi del tradizionale concetto di imputabilità. Nell’ultimo trentennio sono emerse, in relazione al concetto di imputabilità, tendenze
opposte che hanno avuto come effetto di rendere più incerta la distinzione tra soggetti «imputabili» e soggetti «inimputabili».
Fino agli anni settanta si è assistito all’affermazione di approcci scientifici orientati ad interpretare certe forme di criminalità come
espressione di disturbi psichici del delinquente e/o di condizioni di emarginazione sociale.
Ne sono conseguiti tentativi di porre in crisi i fondamenti della responsabilità penale, all’insegna di teorie inclini a soppiantare le idee di
colpevolezza e di punizione con quelle di anomalia psicologica e trattamento curativo - riabilitativo.
Un mutamento di tendenze, in senso contrario al primo, è andato affiorando negli anni più recenti in alcuni settori della psichiatria di
orientamento «anticustodialistico»
Non solo viene combattuta la prospettiva dell’equiparazione del delinquente al malato di mente, ma ci si spinge oltre sostenendo che è
sbagliato considerare gli stessi infermi psichici come «irresponsabili»; al contrario, il riconoscimento di una certa loro capacità di
autodeterminazione avrebbe il positivo effetto di promuoverne il senso di responsabilità.
Con l’obiettivo di abolire l’ospedale psichiatrico giudiziario si è avanzata la proposta di eliminare la stessa categoria dell’imputabilità, con
conseguente equiparazione del trattamento penale dei soggetti sani e dei soggetti psichicamente malati. Proposte siffatte vanno incontro
ad obiezioni intuibili.
Se è forse frutto di un persistente pregiudizio scientifico continuare a sostenere che il malato di mente sia totalmente incapace di avvertire
il significato della pena strettamente intesa, rischia in realtà di scadere in un nuovo e opposto pregiudizio la tesi che vorrebbe accreditargli
sempre questa capacità: come è stato osservato sullo stesso versante psichiatrico, “non appare comunque possibile raggiungere finalità di
responsabilizzazione, di terapia, di conferimento di dignità al malato di mente autore di un reato attraverso un’artificiosa e rigida
affermazione di piena capacità di intendere e di volere”.
Ogni tentativo di aggiornamento del concetto si scontra con la difficoltà di dover fare i conti con la pluralità di paradigmi in atto rinvenibili
all’interno delle stesse scienze psichiatriche e psicologiche].
4) Infermità di mente
L’art.88 stabilisce: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da
escludere la capacità d'intendere o di volere”.
Da questa disposizione si desume che il nostro codice, nel disciplinare le cause patologiche che influenzano
l’imputabilità, ha accolto un indirizzo «biopsicologico», cioè, non basta accertare una malattia mentale per dedurne
automaticamente l’inimputabilità del soggetto, ma occorre appurare se e in quale misura la malattia ne comprometta la
capacità di intendere e volere.
Lo stretto rapporto, stabilito dal legislatore tra inimputabilità e infermità incidente sullo stato mentale, solleva
problemi interpretativi e di accertamento giudiziale.
La complessità e la delicatezza dell’accertamento oggi sono acutizzate dalla crisi di identità che attraversa la psichiatria, per
cui anche nel suo ambito il concetto di malattia mentale è tutt’altro che univoco: l’individuazione dei disturbi definibili
malattia può mutare a seconda che lo psichiatra adotti, quale parametro scientifico di riferimento:
- un paradigma strettamente «medico» definisce malattia mentale solo il disturbo con substrato organico o biologico;
- un paradigma semplicemente «psicologico» definisce la malattia mentale anche la semplice disfunzione psichica;
- un paradigma «sociologico» che considera malattia persino un disturbo psichico di origine sociale, dovuto cioè a relazioni
personali inadeguate nell’ambiente di lavoro o di vita.
[N.B.: È da aggiungere che la responsabilità gravante sul giudice e sul perito, impegnati nell’accertamento giudiziale dell’inimputabilità, è
oggi più accentuata che in passato. Una volta abolita la presunzione legale di pericolosità sociale del malato di mente (art.31 della legge
663/86), l’accertamento dell’incapacità di intendere e di volere del malato, ove accompagnato dal disconoscimento in concreto della sua
pericolosità sociale, può avere come effetto la completa rinuncia a qualsiasi trattamento penale, il che consiglia particolare cautela, stante
il rischio di rimettere in piena libertà, senza il sostegno di adeguate strutture alternative di cura e assistenza, persone incapaci di
comportarsi in maniera autoresponsabile].
■ Concetto di infermità dal punto di vista definitorio, si pone il problema di stabilire se il termine infermità
adottato dall’art.88 sia o no equivalente a quello di malattia.
Ora, considerata nel suo significato letterale, l’infermità è concetto più ampio del concetto di malattia perché
ricomprende anche disturbi psichici di carattere non strettamente patologico.
Ne consegue che, ove si tenga ferma la distinzione tra i 2 termini, l’istituto della inimputabilità subisce o può subire
un’estensione applicativa.
Ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia
esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il suo disturbo abbia in
concreto attitudine a compromettere gravemente sia la capacità di percepire il disvalore del fatto commesso, sia il
significato della correlata pena. L’infermità a cui fanno riferimento gli artt.88-89 possono anche avere origine da una
malattia fisica, sia pure a carattere transitorio (es: delirio determinato da uno stato febbrile), purché abbia un vizio di mente.
Orientamenti giurisprudenziali per un’ulteriore concretizzazione del concetto di infermità mentale vanno accennate
le linee di tendenza della prassi applicativa.
► Un indirizzo giurisprudenziale diffuso, che tende a ricostruire il concetto di malattia mentale secondo un modello
“medico”. In altri termini, è definita infermità mentale solo il disturbo che poggia su una base organica e/o che possiede
caratteri patologici cosi definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico – clinico.
[N.B. Tale visione esclude dall’area dell’inimpunibilità le “semplici anomali psichiche”, privilegiando parametri clinici di giudizio allo
scopo di soddisfare una doppia esigenza di fondo:
- l’ancoraggio alla nosografia psichiatrica ufficiale garantirebbe meglio il valore della certezza giuridica;
- questo stesso ancoraggio impedirebbe un’eccessiva dilatazione dei casi di ritenuta inimputabilità].
► Un indirizzo giurisprudenziale minoritario, tende a rivendicare una maggiore autonomia della valutazione giuridica
rispetto alle classificazioni medico-nosografiche: in questo modo il giudice può fare applicazione degli artt.88-89 anche
se il disturbo psichico è insuscettibile di un preciso inquadramento clinico, purché si possa fondatamente sostenere che
esso abbia in concreto compromesso la capacità di intendere e di volere dell’imputato.
Un tale orientamento consente, a differenza dell’indirizzo “medico”, di attribuire significato patologico anche alle
alterazioni mentali atipiche, paradigmaticamente esemplificate dalle “psicopatie”, cioè da disarmonie della personalità
che, in presenza di condizioni di particolare gravità, bloccano le controspinte inibitorie del soggetto e gli impediscono di
rispondere in maniera critica agli stimoli esterni.
[Tipiche degli psicopatici sono ad es. le c.d. reazioni a corto circuito esemplificate dal CASO 30: una giovane donna affettivamente
immatura, dopo aver rimosso il suo stato di gravidanza nel periodo della gestazione, sopprime al momento del parto il neonato mediante
una condotta non controllata dalle funzioni superiori dell’“Io”].
Per risolvere il problema se le “psicopatie” possano assumere rilevanza ai fini del giudizio sull’inimputabilità, decisiva
appare l’angolazione visuale che l’interprete privilegia.
- Se prevale la preoccupazione di rafforzare la difesa sociale: si obietterà che l’equiparazione tra semplice psicopatia e
malattia mentale contrasta con gli scopi del diritto penale, perché i numerosi soggetti affetti da disturbi della personalità,
confidando nell’esenzione da pena, sarebbero indotti ad allentare ulteriormente i loro già deboli freni inibitori.
- Se invece è preponderante (come sembra preferibile agli autori), la preoccupazione di rispettare la “ratio” delle
norme sull’imputabilità, in nome del pieno rispetto del principio di colpevolezza si dovrà coerentemente ammettere che
anche le “anomalie della personalità”, specie in presenza di condizioni di particolare gravità, possono incidere sulla
capacità di intendere e di volere sino ad escluderla del tutto.
[N.B. Merita di essere apprezzata positivamente l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità la quale ha sancito che anche
i “disturbi della personalità”, anche quando non inquadrabili nel novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di
infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere sulla capacità di intendere e volere, e a condizione che
sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente
determinato dal “disturbo mentale”].
La capacità di intendere e di volere può essere del tutto esclusa anche da un’infermità transitoria, purché sia sempre
tale da far venire meno i presupposti dell’imputabilità.
[È l’ipotesi riportata dal CASO 29: la giovane madre era risultata affetta da una malattia mentale, definita depressione reattiva, consistente in uno
squilibrio dell’umore che arreca sofferenze non controllabili e che regredisce totalmente con la rimozione della causa esterna che l’ha provocata].
Nella prassi applicativa (es: in tema di epilessia), al contrario, si propende per una possibile affermazione di responsabilità nei
c.d. intervalli di lucidità, ma ciò tutte le volte in cui sia accertabile uno stato di lucidità sufficientemente separato dalle
influenze che la malattia può esercitare sulla psiche complessiva dell’individuo.
[N.B. A seguito della abolizione della “pericolosità sociale presunta”, all’imputato prosciolto per vizio totale di mente la misura di sicurezza
del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziale può essere applicata solo previo accertamento concreto della sua pericolosità sociale].
4.2)
♦Vizio parziale di mente La capacità di intendere e di volere è diminuita in presenza di un vizio parziale di mente:
l’art.89 stabilisce: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare
grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”.
La distinzione tra le due forme di vizio di mente, totale o parziale, è affidata ad un criterio quantitativo (e non
qualitativo), prendendo la legge in considerazione il «grado», e non l’estensione della malattia mentale.
Il vizio parziale di mente non è l’anomalia che interessa un solo settore della mente, bensì quella che investe tutta la
mente ma in misura meno grave.
Ai fini dell’accertamento dell’imputabilità diminuita, sono da respingere schematismi rigidi e aprioristici: non esistono forme
morbose che, per loro natura, comportano sempre l’infermità totale o quella parziale; piuttosto l’apprezzamento quantitativo
dell’infermità dovrà essere effettuata in concreto, caso per caso tenendo conto delle caratteristiche del
disturbo e dell’esperienza soggettiva del singolo nei confronti del delitto che viene in questione.
[N.B.: Nonostante ogni sforzo di precisazione, il concetto di vizio parziale di mente rimane in realtà elastico e controvertibile, perché
non sempre è facile segnarne i rispettivi confini:
- con la totale incapacità di intendere e di volere,
- con condizioni di anomalia compatibili con uno stato di sostanziale normalità.
Da qui anche il rischio che il vizio parziale di mente venga invocato dagli imputati in maniera strumentale per beneficiare di un trattamento
penale più mite. Tale istituto è stato oggetto di valutazioni politico-criminali contrastanti.
Fino ad un recente passato, prevalevano le prese di posizione critiche, tendenti a mettere in evidenza il carattere artificioso della figura
dell’infermità parziale, posto che uno stesso soggetto sarebbe da considerare o sano o infermo e non allo stesso tempo per metà malato e
per metà sano. Di recente, si assiste ad un tentativo di rivalutazione della semi-infermità, sul presupposto che la “via di mezzo della non
imputabilità ridotta” costituirebbe “una modalità per non deresponsabilizzare penalmente il malato che ha compiuto un delitto”].
Secondo la giurisprudenza il vizio parziale di mente è compatibile con le aggravanti della premeditazione (a meno che
quest’ultima non sia essa stessa manifestazione della malattia) e dei motivi abietti e futili, come pure è compatibile con
l’attenuante della provocazione e con le circostanze attenuanti generiche.
Sul piano del trattamento sanzionatorio, il vizio parziale di mente comporta una diminuzione di pena; se il soggetto
seminfermo è giudicato in concreto socialmente pericoloso, gli si applicherà inoltre la misura di sicurezza
dell’assegnazione a una casa di cura e di custodia.
• Ubriachezza volontaria o colposa non fa scemare, invece, né esclude l’imputabilità l’ubriachezza volontaria o
colposa art.92 co.1: questa rigorosa disciplina, prevista anche per l’intossicazione da stupefacenti (art.93), è quella che
ha dato più luogo a discussioni, a cominciare dal profilo attinente al titolo di attribuzione della responsabilità.
La “ratio” della disposizione è evidente: chi si ubriaca volontariamente o per leggerezza, non può pretendere di
accampare scuse; se realizza un reato deve rispondere come se fosse pienamente capace di intendere e di volere.
Ma questo rigorismo si scontra con un dato di fatto: l’ubriaco che commette il reato è un soggetto incapace.
Il problema consiste, allora, nel giustificare la responsabilità a titolo di dolo o colpa di un soggetto che delinque in stato
di incapacità di intendere e volere.
[N.B. Una parte della dottrina, riproponendo lo stesso schema dell’actio libera in causa, sosteneva che, per accertare l’elemento
psicologico del reato commesso dall’ubriaco, occorresse risalire al momento nel quale egli si era posto in condizione di ebbrietà: per
cui il reato sarebbe doloso o colposo a seconda che l’ubriaco, prima di commetterlo, si sia ubriacato volontariamente o
involontariamente].
[Esempio: se Tizio, partecipando ad una allegra cena con alcuni amici, non riesce a controllarsi nel bere e finisce con il perdere l’autocontrollo e
provoca più tardi la morte di una persona, risponderà comunque di omicidio colposo: e ciò sia che l’evento letale consegua ad un involontario
incidente stradale, dovuto ad eccesso di velocità (Tizio, postosi alla guida ubriaco per tornare a casa, a tarda notte, guida sconsideratamente e
investe una macchina proveniente dal senso opposto); sia che esso derivi da una decisione volontaria influenzata proprio dallo stato di ubriachezza
(Tizio, in preda ai fiumi dell’alcool, non riesce a controllare lo scatto d’ira che lo spinge a uccidere il commensale che lo prende in giro per scherzo)].
È, però, facile obiettare a questa tesi che in questo modo si confonde lo stato psicologico che provoca la condizione
di ubriachezza, con quello che accompagna la successiva commissione dello specifico reato: cosi ritenendo, vi è il rischio
di punire come colposi delitti commessi volontariamente (es: Tizio uccide il commensale) e di punire come dolosi delitti
involontari che seguono ad uno stato di ubriachezza volontaria (es: Caio si ubriaca volontariamente e causa la morte di un terzo a
causa di un incidente automobilistico dovuto ad imprudenza).
Si comprende, così, come l’orientamento in atto dominante propenda per una soluzione diversa:
dolo e colpa dell’ubriaco vanno accertati al momento nel quale il reato viene commesso.
[N.B. Questa soluzione appare più corretta della precedente, perché consente di evitare le possibili sfasature tra gli atteggiamenti
psicologici relativi allo stato di ubriachezza e alla commissione del reato].
Ma ad essa è opponibile una obiezione difficilmente superabile che trae origine dall’inconfutabile circostanza che
l’art.92.1 introduce una «finzione di imputabilità», e cioè l’ubriaco si trova in una condizione psicologica che non gli
consente una sufficiente capacità di discernimento ed autocontrollo.
Vi è, allora da chiedersi, che senso ha distinguere tra dolo e colpa nella condotta di una persona che, al momento della
commissione del reato, non è in grado, a causa della sua ubriachezza di rendersi ben conto del significato dei suoi atti.
In altri termini il dolo dell’ubriaco equivarrà ad impulso psicologico, a volontà cieca, non a quella volontà veramente
«consapevole» che integra il dolo autentico; allo stesso modo la colpa dell’ubriaco si ridurrà a mera violazione di una
misura oggettiva del dovere di diligenza.
[N.B. Stando così le cose la «finzione di imputabilità» finisce col tradursi in «finzione di elemento soggettivo» del reato commesso:
nella sostanza un’ipotesi di responsabilità oggettiva mascherata o occulta].
Allo scopo di rendere più compatibile l’art.92 co.1 con i principi costituzionali della responsabilità penale personale,
una parte della dottrina ha prospettato una terza strada. Essa muove dalla considerazione che la disciplina in esame si
limita ad affermare che l’ubriachezza lascia sussistere la piena imputabilità, senza dire che tale imputabilità implichi
automaticamente la colpevolezza per il reato commesso.
Si sostiene, allora, che occorre fare riferimento al momento in cui il soggetto si ubriaca, ma con i seguenti aggiornamenti
della vecchia concezione: il soggetto risponderà a «titolo di dolo» (eventuale) se si è ubriacato nonostante la previsione
della commissione del reato ed accettandone il rischio; a «titolo di colpa» se il reato, al momento in cui si ubriaca, fu da
lui previsto ma non accettato, o comunque era prevedibile ed evitabile come conseguenza dell’ubriachezza, sempre che
si tratti di reati previsto dalla legge come reato colposo.
[N.B. Neppure l’ultima impostazione si sottrae ad obiezioni. È vero che essa si preoccupa di collegare l’atteggiamento psicologico
tenuto al momento dell’ubriachezza col reato successivamente commesso, ma v’è da chiedersi se sia di fatto possibile accertare in
giudizio un «dolo eventuale» o una «colpa» rispetto alla futura commissione di fatti criminosi che potrebbero essere lontani e
determinati da circostanze imponderabili che sfuggono del tutto al potere di previsione e controllo di chi sta per ubriacarsi.
L’Autore propone di prendere atto che tutte le tesi ricostruttive si espongono a obiezioni difficilmente superabili e di procedere a
una riforma della disciplina vigente che abbia come obiettivo di renderla più compatibile con il principio di colpevolezza].
• Ubriachezza preordinata l’ubriachezza è preordinata e comporta un aumento di pena quando è provocata al fine
di commettere il reato o di prepararsi una scusa, cosi come stabilisce l’art.92 co.2
Questa ipotesi, preveduta dall’art.92.2, costituisce una esemplificazione del principio contenuto nell’art.87 (stato
preordinato d’incapacità di intendere e volere, c.d. «actio libera in causa»): il principio cioè, secondo cui l’incapacità
«preordinata» deroga alla regola della coincidenza temporale tra imputabilità e commissione del fatto criminoso, senza,
peraltro, disattendere la sostanza del principio di colpevolezza.
La differenza che intercorre tra co.1 e co.2 dell’art 92 è:
- nella situazione prevista dal co.1, cioè nell’ubriachezza volontaria o colposa il soggetto in un primo momento si ubriaca per puro
piacere o per causa involontaria e successivamente commette un reato non programmato in anticipo al momento del porsi in stato
di ubriachezza;
- nel caso previsto dal co.2, nel caso dell’ubriachezza preordinata, il soggetto si ubriaca proprio “allo scopo” di commettere un reato
che, in condizioni di sobrietà, non sarebbe in grado di commettere.
• Ubriachezza abituale (lo stesso vale per l’abituale intossicazione da stupefacenti) non solo non esclude o
diminuisce l’imputabilità, ma addirittura comporta un aumento di pena (art.94 co.10 e 30), oltre che la possibilità di
applicare la misura di sicurezza della casa di cura e di custodia oppure della libertà vigilata (art.221).
L’abitualità è subordinata al ricorrere dei 2 presupposti: della dedizione all’uso eccessivo di bevande alcoliche, e del
frequente stato di ubriachezza (o di intossicazione).
[N.B. Questo rigorosissimo trattamento penale ha alla base discutibili motivazioni politico-criminali (soprattutto oggi), e cioè la
concezione contradditoria dell’ubriaco abituale come un soggetto vizioso che deve rispondere della sua condotta e come soggetto
malato bisognevole di trattamento riabilitativo. È auspicabile che la disciplina prevista dall’attuale art.94 venga abolita in futuro].
Cronica intossicazione da alcool o da psicofarmaci i compilatori del codice, mossi dalla preoccupazione repressiva e
general-preventiva di arginare il duplice “vizio” dell’alcolismo e della tossicomania, hanno stabilito che tanto l’uno che
l’altra possono arrivare ad escludere, o far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, soltanto nel caso
estremo di cronica intossicazione (art.95).
Con specifico riferimento all’uso di alcool, si definisce “intossicazione cronica” quella che provoca alterazioni patologiche
permanenti tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica (es: la psicosi alcolica
di Korsakoff, la paranoia alcolica, il delirium tremens, ecc).
[N.B. In realtà non è sempre facile distinguere tra intossicazione che esclude l’imputabilità, e l’ubriachezza abituale che comporta
invece un trattamento più rigoroso.
Criticabile risulta poi, alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, l’equiparazione legislativa tra cronica intossicazione da alcol e
da sostanze stupefacenti: il problema dell’imputabilità del “tossicodipendente” presenta caratteristiche peculiari.
Convince poco l’assunto che pretende di ravvisare nell’intossicazione da stupefacenti le stesse caratteristiche riscontabili
nell’intossicazione provocata dalle sostanze alcooliche: a differenza che in quest’ultima, nella prima manca in realtà una alterazione
patologica di tipo “permanente”.
Ricerche condotte in campo medico-psichiatrico dimostrano che la capacità di intendere e di volere del tossicodipendente è già gravemente
compromessa nella situazione di dipendenza psico-fisica da sostanza stupefacente, contrassegnata dall’insorgere della c.d. sindrome di astinenza].
6) Sordismo
Il codice prevede un’apposita disciplina del sordismo (oggi forse discutibile) sul presupposto che la mancanza di udito e
di parola pregiudichi la capacità di autodeterminazione responsabile dell’individuo.
L’art.96 stabilisce: “Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua
infermità, la capacità d'intendere o di volere.
Se la capacità d'intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita”.
L’art.96 stabilisce il principio per cui tanto l’incapacità, quanto la capacità devono formare oggetto di concreto
accertamento in giudizio. Se cioè si accerta che il sordo al momento della commissione del fatto era capace nonostante
la sua affezione congenita, l’imputabilità non è esclusa, mentre lo è in caso contrario (analogo discorso vale per
l’incapacità parziale).
[N.B. L’art.96 non può essere applicato nei casi di solo mutismo o di sola sordità, ma occorre che sussistano entrambe le affezioni].
[Nell’ambito della letteratura specialistica, si distinguono:
- un sordismo congenito o precocemente acquisito che ostacola gravemente lo sviluppo psichico
- il sordismo tardivamente acquisito insorge in una fase successiva all’apprendimento del linguaggio e che può lasciare integro il
patrimonio linguistico già conseguito.
7) Actio libera in causa
L’art.87, nel disciplinare lo stato preordinato d’incapacità di intendere e di volere, stabilisce: “La disposizione della prima
parte dell'art.85 non si applica a chi si è messo in stato d'incapacità d'intendere o di volere al fine di commettere il reato, o
dprepararsi una scusa.”
(Esempio: soggetto incapace di commettere un furto in condizioni di normalità, ricorre ad una sostanza per allentare i freni inibitori).
[N.B. Il principio generale contenuto nell’art.87, riceve una esemplificazione codicistica nella disciplina dell’ubriachezza preordinata:
stabilisce l’art.92.2 che “Se l'ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata ”;
analogamente dispone l’art.93 per il caso di uso preordinato di “stupefacenti”].
Per giustificare l’affermazione di responsabilità, in casi come quelli in esame, si è soliti ricorrere al paradigma delle
actiones liberae in causa, escogitato dalla teologia morale con riferimento alle condotte peccaminose poste in essere
senza libera volontà al momento della realizzazione, ma pur sempre riconducibili ad un precedente atto di volontà dello
stesso soggetto: l’azione è libera in causa perché l’agente aveva il potere di porsi o non porsi in condizione di incapacità.
Nel caso dell’«incapacità procurata» il legislatore deroga alla regola generale ex art.85 della necessaria «corrispondenza
temporale» tra imputabilità e commissione del fatto: il soggetto preordinatamente incapace infatti, al momento della
commissione del reato, ha già perduto il pieno controllo dei propri atti.
Come si spiega che il soggetto risponde ugualmente del reato commesso se al momento del fatto era inimputabile?
La dottrina ha tentato di rispondere prospettando diverse giustificazioni.
a) Parte della dottrina ritiene che l’attività esecutiva del reato posto in essere dall’incapace inizierebbe già nel momento
in cui il soggetto si pone volontariamente in condizione di incapacità.
È facile obiettare che questa tesi che fa leva sull’anticipazione dell’azione tipica, finisce con l’ampliare eccessivamente il
concetto di esecuzione del reato fino a farvi rientrare quella che in realtà è solo una condotta precedente.
b) Altra parte della dottrina rinviene il fondamento della responsabilità sulla base del solo nesso di causalità, per cui
causa causae est causa causati e cioè colui che determina una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, deve
rispondere dell’evento stesso, indipendentemente dalla circostanza che il fatto che sia previsto e voluto.
Ma tale tesi si accontenta di un criterio puramente oggettivo di responsabilità che contrasta con il principio di
colpevolezza.
c) La soluzione più appagante è quella che riconduce nell’alveo della colpevolezza anche le ipotesi di incapacità
procurata: al soggetto può essere mosso un rimprovero per essersi liberamente posto in condizioni di incapacità che
gli ha reso possibile o più agevole la realizzazione del reato programmato.
La decisione iniziale di mettersi di mettersi in stato d’incapacità per commettere un determinato reato deve trovare
sufficiente riscontro nel contenuto del volere che sorregge l’azione successivamente realizzata: in altri termini ai fini
della punibilità, occorre che il reato concretamente posto in essere sia del tipo di quello inizialmente programmato.
Va sottolineato che il fatto criminoso concretamente realizzato deve essere omogeneo a quello inizialmente
programmato perché, altrimenti, si creerebbe una frattura tale da recidere la necessaria corrispondenza tra fatto e
colpevolezza. Da questo punto di vista, la responsabilità esula se il fatto illecito non costituisce effettiva
attuazione del programma criminoso anteriore.
[Es: pensiamo al caso di chi ingerisce una sostanza stupefacente per uccidere la fidanzata infedele e, fattala salire sull’auto per condurla sul luogo
dell’esecuzione, cagiona per eccesso di velocità un incidente in cui la ragazza perde la vita, peraltro prima ancora che la sostanza stupefacente
abbia provocato il ricercato effetto di eccitazione psicologica: in un caso del genere l’agente risponderà non di omicidio intenzionale, ma di
omicidio colposo].
SEZIONE III – Struttura e oggetto del dolo
1) Il dolo: funzioni e definizione legislativa.
Il delitto doloso costituisce il modello fondamentale di illecito penale.
Il «dolo» infatti costituisce il “normale criterio di imputazione soggettiva”: lo si desume in via generale dalla prima
parte dell’art.42 co.2, ove è stabilito che «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non
l’ha commesso con dolo».
Questa disposizione di parte generale spiega perché il legislatore, nel configurare i reati di parte speciale, presupponga,
senza esplicitarlo ogni volta, il «dolo» quale criterio soggettivo normale di attribuzione della responsabilità.
[N.B. Gli altri criteri di imputazione soggettiva – cioè la «colpa» e la «preterintenzione» - operano invece solo nei casi
espressamente previsti dalla legge, art.42 co.2 seconda parte].
[Così, porta ad esempio l’autore, se un fumatore distrattamente brucia con la sigaretta una preziosa pergamena, non potrà essere
chiamato a rispondere per danneggiamento «colposo», in quanto la legge penale non prevede espressamente la punibilità a titolo di colpa
nel reato di danneggiamento].
Le diverse funzioni del dolo nel processo di imputazione penale:
Il dolo (così come la colpa) assolve nel processo di imputazione penale varie funzioni in rapporto ai diversi piani in cui si
articola l’illecito penale.
a) Dimensione oggettiva del dolo innanzitutto, è un elemento costitutivo del fatto tipico, dato che in un diritto
penale «oggettivamente» orientato la volontà criminosa assume rilevanza solo in quanto si traduca in una realizzazione
concreta (principio di materialità).
Nello stesso tempo il contenuto del dolo impronta la direzione lesiva dell’azione, contribuendo a delineare i fatti di
reato: (così, ad esempio, una dichiarazione falsa può costituire una innocua bugia, una truffa oppure una diffamazione, a seconda
dell’intenzione di chi agisce).
b) Dimensione oggettiva del dolo è la forma più grave della colpevolezza: chi agisce con dolo aggredisce il bene
protetto in maniera più intensa di chi agisce con colpa. La maggiore intensità aggressiva dell’azione dolosa viene
percepita non solo dalla singola vittima del fatto criminoso, ma anche dalla collettività, la quale si sente minacciata
maggiormente se l’attacco ai suoi beni dipende dalla decisione volontaria del delinquente e disapprova con maggiore
intensità le lesioni provocate intenzionalmente.
[N.B. La dimensione oggettiva e soggettiva del dolo sul piano fenomenico è una entità unitaria: il fatto delittuoso è composto da un
elemento oggettivo ed uno soggettivo che si saldano reciprocamente a comporre un tutt’uno.
La scissione oggettivo - soggettivo è imposta da necessità sistematiche ed analitiche].
Ciò posto, rappresentazione e volontà hanno, dal punto di vista analitico, punti di riferimento diversi che di seguito sono
trattati.
2.1) L’elemento intellettivo o della rappresentazione.
L’elemento intellettivo del dolo consta della rappresentazione o della conoscenza degli elementi che integrano la
fattispecie oggettiva: se il soggetto non conosce o si rappresenta erroneamente un requisito del fatto tipico, la punibilità
è esclusa per mancanza di dolo.
Da questo ultimo punto di vista, dolo e errore (o ignoranza scusabile) sono concetti specularmente antitetici.
Più in dettaglio, la componente conoscitiva del dolo si atteggia diversamente, a seconda che abbia come punto di
riferimento: elementi «descrittivi», oppure elementi «normativi» della fattispecie.
- Nel caso degli elementi «descrittivi» è sufficiente che il soggetto sia a conoscenza degli elementi del mondo esterno
cosi come appaiono nella loro dimensione «naturalistica» (ad es. Uomo, morte, cosa mobile, etc).
Qualora si tratti invece di elementi «normativi» (ad esempio alterità, documento, pubblico ufficiale, ecc.) per l’esistenza del dolo
non basta che l’agente sia a conoscenza dei meri dati di fatto: egli deve rappresentarsi anche gli aspetti che fondano la
rilevanza giuridica delle situazioni di fatto richiamate nella fattispecie (es: chi commette un falso documentale deve essere
cosciente che non manipola un semplice pezzo di carta ma un documento con funzione certificante ).
[N.B. Ma la conoscenza degli elementi «normativi» non vuol dire che l’autore del reato, per rispondere a titolo di dolo, debba
conoscere l’esatto significato giuridico dell’elemento normativo in questione (c.d. «conoscenza giuridica dell’elemento normativo»)
È sufficiente che egli ne abbia una «conoscenza parallela nella sfera laica» (in altri termini non è necessario che il falsificatore
conosca le norme relative al documento, ma che sappia che quello è un atto di nascita)].
La «previsione dell’evento»
La rappresentazione o conoscenza si atteggia più precisamente a «previsione dell’evento» con riferimento agli
accadimenti che si prospettano come conseguenza della condotta criminosa (ad esempio l’evento letale come conseguenza di
una condotta omicida).
È appena il caso di sottolineare che nella «previsione» deve rientrare anche il nesso causale che lega azione ed evento,
prefigurato nei sui tratti essenziali.
Lo «stato di dubbio»
La rappresentazione sufficiente ai fini dell’integrazione del dolo è compatibile con uno «stato di dubbio» circa uno o più
elementi della fattispecie: il dubbio, infatti non equivale né ad ignoranza né ad erronea conoscenza, in quanto il
soggetto si rappresenta contemporaneamente il duplice possibile modo di essere di una cosa.
La sufficienza ad integrare il dolo dello «stato di dubbio» è tuttavia esclusa quando la particolare struttura della
fattispecie esige la piena conoscenza di uno o più elementi del fatto di reato. (Ad esempio, il reato di calunnia (art.386) esige
che l’autore sappia senza incertezze che l’incolpato è in realtà una persona innocente).
Il «grado minimo» di attualità del contenuto rappresentativo
In sede di analisi della componente conoscitiva del dolo ci si deve chiedere se la rappresentazione debba essere «attuale» in
relazione a tutti i requisiti del fatto, o se basti una conoscenza solo «potenziale» o «implicita».
La soluzione a questo interrogativo dovrebbe tenere presente che: l’uomo può essere considerato cosciente di una circostanza, se
questa, anche se non è oggetto di un esplicito pensiero al momento dell’azione, fa parte di un complesso di circostanze che gli erano
precedentemente note e che egli potrebbe richiamare alla mente se vi riflettesse un attimo.
Per rilevare in sede di imputazione dolosa, la consapevolezza «implicita» si deve riferire ad elementi che rientrano in un insieme di
circostanze non solo note all’ agente, ma che potrebbe immediatamente richiamare alla mente.
Il dolo esulerebbe invece se il passaggio da una rappresentazione «potenziale» ad una «attuale» presupponesse non solo un
attimo di attenzione, ma un processo di deduzione logica del dato ignoto dalle circostanze note. (Esempio: l’autore della corruzione di
minorenne agirà con dolo se, anche non riflettendo attualmente sull’età della persona offesa, ne era a conoscenza; diverso è il caso se il
corruttore ignaro dell’età del soggetto passivo, per stabilirla dovesse desumerla da circostanze indizianti a lui note).
A ben vedere, oggetto del dolo non è né l’evento in senso naturalistico, né l’evento in senso giuridico, bensì il fatto
tipico, cioè l’insieme di tutti gli elementi obiettivi richiesti per l’integrazione del reato (condotta, circostanza antecedenti
e concomitanti all’azione tipizzate nella norma incriminatrice, evento naturalistico).
Un preciso riscontro normativo di tale affermazione si trova nell’art.47 che concorre a delineare la disciplina del dolo:
stabilendo che il dolo è escluso dall’errore sul «fatto» che costituisce il reato, l’art.47 conferma appunto l’assunto che la
rappresentazione e la volontà debbono avere ad oggetto il fatto tipico.
[N.B. Affinché l’azione sia imputabile a titolo di dolo dobbiamo distinguere se si tratti di:
- Reati a forma libera in cui il legislatore fa riferimento a qualsiasi modalità di aggressione al bene protetto, il dolo deve
accompagnare l’ultimo atto compiuto prima che il decorso causale sfugga al dominio dell’agente. E per quanto riguarda il “nesso
causale”, è sufficiente la prefigurazione dei tratti essenziali del nesso causale. (Esempio: Tizio risponde di omicidio doloso se butta Caio nel
fiume per farlo annegare, anche se quello muore prima per aver sbattuto la testa nella caduta).
- Reati a forma vincolata è necessario che coscienza e volontà abbiano ad oggetto la modalità di commissione del fatto
specificata dal legislatore (Es: per il reato di epidemia è necessario che essa sia causata dalla diffusione volontaria germi patogeni)].
Il dolo deve investire anche gli elementi normativi della fattispecie (elementi la cui determinazione presuppone il rinvio
ad altra norma, diversa da quella incriminatrice). (Esempio: è escluso il delitto di furto se l’agente non si rende conto che la cosa è
altrui a causa di un’erronea interpretazione delle norme sulla proprietà).
Dolo e qualifiche soggettive. Rimane aperta la questione se rientri nell’oggetto del dolo la “qualifica soggettiva” dell’autore
dei cd. reati propri: quando la qualifica contribuisce a caratterizzare lo “specifico disvalore penale”, l’ignoranza della stessa
impedisce al soggetto di cogliere il significato criminoso del fatto. La conoscenza richiesta comunque non riguarda la qualifica nella
sua astratta configurazione giuridica (ciò contrasterebbe con l’art.5): ai fini del dolo occorre conoscere i “substrati di fatto” della
stessa (Esempio: in tema di bancarotta, il soggetto agisce dolosamente se consapevole di esercitare un’attività economica di tipo imprenditoriale,
anche se ignora che la legge gli attribuisce quella qualifica formale). Concludendo, nel dolo rientrano i “substrati di fatto” su cui si basano le
qualifiche soggettive. Invece, esula dal dolo la conoscenza della fonte giuridico-penale delle qualifiche.
Resta da chiedersi, in quale misura, considerare la coscienza dell’offesa inerente al dolo sia compatibile con l’attuale
sistema delle incriminazioni.
Per questo dobbiamo distinguere tra le diverse figure delittuose:
- in alcuni casi la compenetrazione tra fatto materiale e lesione del bene o interesse tutelato è talmente immediata ed
evidente che il disvalore del fatto non può sfuggire alla coscienza di chi agisce;
- tuttavia, per alcuni c.d. reati di pura creazione legislativa, per i quali manca un contenuto di disvalore evidente, la
consapevolezza della lesione all’interesse protetto può anche mancare, se non si conosce la disposizione incriminatrice
violata (di cui all’art.5).
• Dolo diretto
Il dolo è «diretto» (o “di secondo grado”) tutte le volte che l’agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi
della fattispecie e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà.
Tuttavia, non è il reato l’obiettivo effettivamente perseguito: esso costituisce strumento necessario perché l’agente
realizzi lo scopo perseguito: (ad esempio un terrorista che per sequestrare un uomo politico è costretto a sparare sulla scorta con la
quasi certezza di provocarne la morte).
Rientra nel dolo di secondo grado anche quello definito da parte della dottrina come dolo «indiretto», in cui l’evento
lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente o, molto probabilmente, connessa alla realizzazione
volontaria del fatto principale: (è il caso storico dell’armatore che, per intascare il premio dell’assicurazione, fece esplodere il battello
di sua proprietà pur essendo certo che ne sarebbe conseguita la morte dell’intero equipaggio).
Questa forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione.
• Dolo eventuale.
Controversa è la struttura della terza forma di dolo che va sotto il nome di dolo «eventuale», problematicità che deriva
dal suo collocarsi in una zona limite con la colpa con previsione o cosciente, tipizzata dall’art.61 n.3 del c.p. e che
comporta un aggravamento di pena.
La configurabilità del dolo eventuale ha come primo presupposto che il soggetto agisca senza il fine di commettere il
reato, altrimenti egli agirebbe con dolo intenzionale.
Piuttosto, la commissione del reato è conseguenza «possibile» di una condotta diretta ad altri scopi:
[ad es. Tizio, disturbato da un gruppo di ragazzi, lancia contro di essi dal balcone della casa una bottiglia di vetro, pur prevedendo, come
possibile esito, il ferimento e, in effetti, colpisce uno dei ragazzi procurandogli lesioni].
Identità di vedute sussiste in dottrina solo rispetto al momento conoscitivo del dolo eventuale: occorre cioè che l’agente
preveda la concreta possibilità del verificarsi dell’evento lesivo.
[Così, nell’esempio di prima, Tizio deve rappresentarsi la possibilità di colpire concretamente qualcuno dei ragazzi].
- Ma ciò basta ai fini della configurabilità del dolo eventuale?
[N.B. Alcune teorie a confronto:
1. Secondo la «teoria della possibilità» agisce dolosamente chi preveda la concreta possibilità di provocare una lesione di un bene
giuridico e ciononostante agisce ugualmente.
[N.N.B.B. Una variante è offerta dalla «teoria della probabilità» secondo cui occorre che l’agente si rappresenti non soltanto possibile, ma come
“probabile” la verificazione dell’evento lesivo.]
Senonché se si muove dal presupposto che il dolo si caratterizza più per l’elemento volitivo che per la rappresentazione, la teoria
della possibilità appare insufficiente: per la sussistenza del dolo eventuale occorrerà qualcosa di più della semplice rappresentazione
in termini di possibilità o probabilità che vada ad integrarsi con l’evento lesivo.
2. Questo qualcosa in più è stato ravvisato dalla «teoria del consenso» in una approvazione interiore della realizzazione dell’evento
preveduto come possibile: ma è da obiettare che, nell’ambito di un diritto penale orientato alla protezione dei beni giuridici ed
ispirato al principio di colpevolezza per il fatto, non può assumere rilevanza decisiva il semplice atteggiamento interiore dell’agente.
3. È, dunque, necessario che l’atteggiamento interiore si avvicini il più possibile ad una presa di posizione della volontà capace di
influire sullo svolgimento dei fatti. A questa esigenza risponde la «teoria dell’accettazione del rischio», secondo cui affinché il
soggetto agisca con dolo eventuale è necessario che egli non solo si rappresenti la possibilità concreta di verificazione dell’evento,
ma che faccia seriamente i conti con questa possibilità e, ciononostante, decida di agire anche a costo di provocare l’evento.
L’accettazione del rischio non si limita ad una accettazione di un rischio probabile, ma si traduce in una accettazione dello stesso
evento lesivo che può verificarsi: in altri termini il soggetto, decidendo di agire a costo di provocare l’evento, finisce col consentire
all’evento stesso].
Per contro, ove il soggetto si rappresenti la possibilità di evento lesivo, ma confidi nella sua concreta non verificazione, si
avrà colpa cosciente o con previsione; (ad esempio un automobilista che nell’apprestarsi a effettuare un sorpasso in una curva pericolosa si
rappresentasse la possibilità di provocare un incidente, ma facendo affidamento sulla sua consumata abilità di guidatore, confidasse di riuscire ad evitarlo).
L’applicazione di questo criterio va incontro a difficoltà in tutti quei casi in cui l’agente, anche prospettandosi la
possibilità di provocare un evento criminoso, non la prende tutto sul serio e così sfugge ad una decisione ponderata di
accettazione del rischio. L’accertamento del dolo dà luogo a molti problemi: il giudice deve esplorare complessi processi
psicologici del mondo interiore dell’agente; per questo dovrà far corso a regole di esperienza: il dolo eventuale si
escluderà in caso di rischi lievi ed ordinari mentre sarà da affermare in presenza di rischi gravi e tipici.
Nella prassi applicativa si registra una tendenza a dilatare eccessivamente l’ambito di operatività del dolo eventuale, per
soddisfare esigenze repressive, questo ancorché la figura risulti poco compatibile con la definizione codicistica del dolo
incentrata sull’elemento intenzionale.
• Dolo alternativo.
Si ha dolo «alternativo» quando l’agente prevede come conseguenza certa (dolo diretto) o possibile (dolo eventuale)
della sua azione, il verificarsi di due eventi, ma non sa quale si realizzerà in concreto: ad es. Tizio aggredisce Caio con diversi
colpi di pugnale, volendone indifferentemente il ferimento grave o la morte.
[N.B. Dice l’Autore che il dolo alternativo non rappresenta una forma di dolo autonoma, ma esso riflette situazioni in cui il soggetto,
agendo con dolo diretto o eventuale, si rappresenta più eventi tra loro incompatibili ].
Definizione: l’errore può essere definito come una «falsa rappresentazione della realtà».
[N.B. in relazione alle conseguenze, l’errore si distingue in:
- errore proprio: fa ritenere al soggetto di agire nel rispetto della legge, mentre in realtà la viola;
- errore improprio: fa ritenere al soggetto di commettere un illecito, mentre non viola alcuna norma penale.
In relazione al momento in cui l’errore interviene, si distingue in:
- errore motivo: è quello che interviene nella fase ideativa del reato, incidendo sul processo formativo della volontà.
Si distingue a sua volta in:
- errore sul fatto: ha ad oggetto una situazione di fatto, una realtà fenomenica.
- errore di diritto: ha ad oggetto una norma giuridica.
- errore inabilità: è quello che interviene nella fase di esecuzione del reato, dando luogo alle ipotesi di «aberratio»].
Errore di fatto e errore di diritto.
Nel diritto penale, come negli altri rami dell’ordinamento, esiste la distinzione tra:
- errore di fatto (error facti): che consiste nella mancata o errata percezione della realtà esterna (ad es. un cacciatore
scambia per selvaggina un uomo).
- errore di diritto (error juris): che consiste nella ignoranza o erronea interpretazione di una norma giuridica, penale o
extrapenale (ad es. Tizio procura la morte di un feto mostruoso nella erronea supposizione che non si tratti di «uomo» come richiamato
dalla fattispecie del delitto di infanticidio).
Ignoranza
All’errore è equiparata l’«ignoranza», in quanto sia la mancanza di conoscenza, sia l’erronea conoscenza provocano lo
stesso effetto psicologico: impedire che l’agente si renda conto pienamente di commettere un fatto integralmente
corrispondente alla fattispecie penale.
Dubbio
Distinto (≠) dall’errore o ignoranza è lo «stato di dubbio», difatti finchè il soggetto versa nell’incertezza circa la presenza
o meno di determinati requisiti della fattispecie, mancano i presupposti sia dell’ignoranza, sia dell’errore.
Questo spiega come mai il dubbio di regola non possa mai essere invocato come causa di esclusione della punibilità.
Complessità del trattamento dell’errore di diritto
In diritto penale particolarmente complesso è il trattamento dell’«errore di diritto», a sua volta distinto in:
a) L’«errore sul precetto penale» che ricade sulla norma incriminatrice: l’agente per ignoranza o errata interpretazione
della norma incriminatrice non si rende conto di realizzare un fatto penalmente illecito.
[N.B. Nel disciplinare l’ignoranza o l’errore sul precetto, il legislatore si preoccupa di bilanciare da un lato la piena affermazione del
principio di colpevolezza, dall’altro l’esigenza general-preventiva di non indebolire l’effettiva tenuta dell’ordinamento penale.
Questa prospettiva di bilanciamento, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.364/88, si traduce nel nostro
ordinamento nel seguente principio: l’errore sul precetto penale è irrilevante (ignorantia legis non excusat) art.5 c.p.;
a meno che non si tratti di errore inevitabile e, quindi, scusabile].
b) L’«errore sul precetto extrapenale» che ha, invece, ad oggetto una norma diversa (≠) da quella penale incriminatrice.
Perché questo tipo di errore abbia efficacia scusante è necessario, ai sensi dell’art.47 co.3, che esso si risolva o converta
in un errore sul «fatto» di reato: occorre, cioè, che l’agente ne risulti fuorviato al punto da non essere consapevole di
compiere un fatto materialmente conforme a quello previsto dalla legge come reato.
[N.B. Ove l’errore su norma extrapenale, senza sfociare in un errore sul fatto tipico, si limiti a suscitare nell’agente l’erronea
convinzione che il fatto realizzato sia penalmente lecito, ci si trova di fronte a una situazione assimilabile negli effetti all’ipotesi di
errore sul precetto penale; viene, dunque, in rilievo la disciplina dell’art.5 e del principio ignorantia legis non excusat, per cui si
tratterà di errore irrilevante non scusabile].
Ove l’errore concerna persone o oggetti che occupano un rango diverso, esso può avere come effetto di far scattare
un’altra figura criminosa o il venire meno il reato, oppure incidere sul regime delle circostanze attenuanti o aggravanti.
- Error in persona di rango diverso: l’aggressione ad individuo di cui non si conosce la qualifica di pubblico ufficiale, integrerà il
diverso titolo del reato (ad es. da violenza a pubblico ufficiale a violenza privata) o di incidere sul regime delle circostanze aggravanti o
attenuanti.
- Error in objecto di rango diverso: ad esempio Tizio si impossessa della bicicletta di Caio senza accorgersi di rubarla in quanto identica per
forma e colore; questo errore rende scusabile il fatto.
Errore sul decorso causale È irrilevante l’errore sul nesso causale, almeno finché la divergenza non sia tale da
escludere che l’evento costituisca realizzazione del rischio insito dell’azione del soggetto.
Errore determinato da colpa L’errore di fatto, se esclude il dolo, non esclude necessariamente la responsabilità
penale: può residuare la responsabilità a titolo di colpa, purché ne sussistano i presupposti (art.47 co.1 seconda parte):
- che l’errore di percezione è rimproverabile, cioè dovuto ad un’inosservanza di norme precauzionali di condotta
imputabile all’agente.
- quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo: mentre la responsabilità colposa potrebbe residuare in un’ipotesi
di omicidio, sarebbe in ogni caso esclusa nei casi di furto o danneggiamento, poiché si tratta di delitti non punibili a titolo di colpa.
Error aetatis La disciplina normativa dell’errore presenta delle peculiarità in materia di reati sessuali, in particolare
riferimento all’ignoranza o all’errore del colpevole circa l’età della persona offesa (error aetatis).
[Così, nel CASO 32, l’uomo che erra sull’età della ragazza con la quale si congiunge carnalmente, l’error aetatis non sarà invocabile con
efficacia scusabile, in quanto a norma dell’art.609 sexies, il colpevole non può invocare la ignoranza dell’età dell’offeso quando il fatto sia
commesso in danno di un minore di anni quattordici].
Una disciplina cosi rigorosa costituiva un bilanciamento tra due interessi:
- il principio di colpevolezza (che avrebbe comportato il riconoscimento dell’efficacia scusante anche dell’errore sull’età);
- l’esigenza di proteggere in maniera rafforzata i minori di quattordici anni, laddove il legislatore aveva ritenuto di
privilegiare la seconda esigenza.
Ma un simile rigore era desinato ad attenuarsi proprio per riflesso dell’affermazione crescente del principio di
colpevolezza come principio di rango costituzionale.
[N.B. Cosi, la Corte Costituzionale con la sentenza n.322/07 ha finito con il riconoscere uno spazio alla rilevanza scusante dell’errore
sull’età della persona offesa, estendendo a questa specifica ipotesi i principi in materia di ignorantia legis, elaborati con la
fondamentale sentenza n.364/88: cioè l’errore sull’età scusa soltanto se incolpevole.
Più di recente, questo modello di soluzione è stato espressamente recepito a livello normativo con la l. 172/2012 che ha modificato
l’art.609 sexies c.p. nel senso di ammettere la rilevanza scusante dell’error aetatis nei casi di ignoranza o errore inevitabile].
Secondo dottrina e giurisprudenza, analogia al co.1 art.47, anche in caso di errore su legge extrapenale residua la
responsabilità a titolo di colpa, sempre in presenza della duplice condizione che: l’errore sia dovuto a colpa ed il fatto sia
previsto dalla legge come delitto colposo (ma questa tesi rappresenterebbe un’analogia “in malam partem”).
[Alla stregua di queste premesse valutiamo il CASO 33, relativo alla presunta truffa del presalario. È agevole accorgersi che l’errore del genitore è
un errore su legge extrapenale che provoca un errore sul fatto costitutivo del reato di truffa perché il soggetto, in conseguenza dell’errore
interpretativo, non si rappresenta il proprio comportamento come diretto a frodare l’Opera Universitaria.
Questa forma di errore è nettamente distinguibile con l’errore sulla legge penale, irrilevante ex art.5 c.p., che si avrebbe qualora il genitore
consapevole di aver reso una falsa dichiarazione dirette a carpire l’assegno di studio, fosse però convinto che tali dichiarazioni non costituiscono gli
estremi dell’artifizio e del raggiro, ma semplici espedienti furbeschi].
3.1)
L’ espressione legge extrapenale fa riferimento non soltanto alle norme di natura non penale ma anche ad altre norme
penali diverse (≠) dalla norma incriminatrice in questione nel caso di specie.
[Si pensi: nel caso di delitto di calunnia, ad un errore del presunto calunniatore sulla norma penale che prevede il reato oggetto di incolpazione, per
cui egli attribuisce ad un terzo un fatto che in realtà non costituisce reato].
Possibili tipologie di errore su legge extra-penale incidente sull’esatta conoscenza del fatto di reato:
• L’errore su legge extra-penale avrà sempre efficacia scusante ove si converta in un errore sugli elementi normativi,
elementi cioè per la cui definizione occorre fare riferimento ad una norma diversa da quella incriminatrice (es. l’altruità ai
fini del furto); [N.B. Può assumere rilevanza scusante anche un errore sulla cd. illiceità speciale, che ricorre quando la norma
incriminatrice contiene espressioni come “illegittimamente”, “abusivamente” ecc. che introducono una qualificazione di
antigiuridicità ulteriore rispetto alla normale antigiuridicità obiettiva].
• La soluzione adottata per gli elementi normativi di natura giuridica va estesa al trattamento degli elementi normativi
di natura etico-sociale: se qualcuno ritiene il suo comportamento conforme al comune sentimento del pudore, a causa di
un’erronea valutazione della morale sociale dominante, non potrà rispondere di atti osceni perché manca la coscienza di un
fondamentale requisito di fattispecie (es. turista straniera che errando sulla valutazione della morale sociale dominante non ritiene osceno
prendere il sole nuda). A tale conclusione si arriva in base al fatto che l’errore su di una norma etico-sociale incide sul piano psicologico
secondo un meccanismo perfettamente assimilabile a quello nell’ipotesi di errore su una norma giuridica extrapenale.
• L’errore può escludere la responsabilità anche quando ricade su una norma integratrice di norma penale in bianco:
(ciò perché l’ultimo comma dell’art.47 non distingue circa l’ampiezza della norma penale richiamata).
[N.B. Una parte della dottrina, pur ammettendo la possibile rilevanza dell’errore su una norma integratrice di una norma penale in
bianco, propende per un orientamento restrittivo distinguendo 2 ipotesi:
- la norma penale in bianco contenga un precetto generico ma sufficientemente determinato;
- essa sia così indeterminata da rinviare interamente, per l’individuazione del suo contenuto, alla norma extrapenale richiamata.
L’errore è rilevante nel primo caso perché verterebbe solo sulla riconducibilità di un singolo caso concreto alla norma penale
incriminatrice; irrilevante nel secondo perché l’errore ricadrebbe su di una norma che anche extrapenale, conferisce al precetto
penale tutto il suo contenuto, convertendosi in un errore sullo stesso precetto irrilevante ex art.5 (fuori dai casi di errore inevitabile).
• L’errore può cadere su una norma extrapenale rilevante ai fini della valutazione del significato di un elemento
costitutivo del fatto di reato, anche se non vi è un rapporto di richiamo espresso.
2) Aberratio delicti
(CASO 35: Uno scioperante lancia un sasso contro un autobus ma, a causa di un errore di mira, colpisce alla testa un passante).
(CASO 36: Un giovane nel congiungersi con una minore di anni 14 le procura lesioni personali (strappo della infibulazione).
Stabilisce l’art.83 co.1 «Fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato,
o per un'altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto,
quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo».
La disposizione si riferisce alla c.d. aberratio delicti che ricorre quando l’agente, per inabilità nell’esecuzione, finisce
con il realizzare un reato che tange beni o interessi diversi rispetto a quelli originariamente presi di mira.
(Così nel CASO 35 il reato che realizza lo scioperante è una lesione personale, art.582 c.p. (reato contro l’integrità della persona), piuttosto che il
programmato danneggiamento, 635 c.p. (reato contro il patrimonio).
- Ma a quale titolo risponderà l’agente del reato diverso cagionato?
Non a titolo di dolo, perché manca nel soggetto la volontà dell’evento diverso.
L’art.83 co.1 afferma che l’evento cagionato, quando diverso da quello voluto, sta a carico dell’agente a titolo di colpa
[N.B. beninteso sempreché il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo].
C’è da chiedersi, però, se la formula legislativa «a titolo di colpa» esprima davvero l’idea di subordinare la punibilità alla
accertata violazione di norme di condotta a contenuto preventivo (nel qual caso la colpa si atteggerebbe ad effettiva
componente strutturale del fatto), oppure ci si limiti a stabilire che l’evento non voluto è punito come se fosse colposo
(in questo caso il fondamento della responsabilità sarebbe costituito dalla responsabilità obiettiva).
Non richiedendo esplicitamente la norma che l’evento diverso sia determinato da colpa, più conforme alla originaria
volontà del legislatore è la tesi che basa l’imputazione dell’evento non voluto sul criterio della responsabilità oggettiva.
[N.B. Da questo punto di vista l’art.83 ricomprende sia ipotesi in concreto negligenti o imprudenti, sia l’ipotesi di evento
conseguente a mero «accidente» dell’erronea condotta dell’agente].
Non varrebbe obiettare che la colpa è «presunta», facendosi leva sull’assunto che l’art.43 c.p. configura la colpa per
inosservanza di leggi (…”è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica
a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline“) e che, nella
specie, l’evento non voluto si verifica come conseguenza di una azione diretta a violare una legge penale.
Se è vero, infatti, che le norme penali hanno tutte una finalità «genericamente preventiva», è altrettanto vero che
non tutte le norme penali sanzionano la violazione di regole «cautelari» del tipo di quelle necessarie ad integrare la
responsabilità colposa.
[Così nel caso 35, la colpa non può ritenersi presunta, perché la norma che vieta il danneggiamento non ha come scopo di imporre
regole di prudenza dirette a prevenire lesioni alla integrità personale. Perché l’evento diverso sia attribuibile al soggetto è
necessario che sia espressamente prevista e sanzionata come colposa la realizzazione dell’evento:
posto che il delitto di lesioni personali è punibile anche a titolo di colpa; mentre se fosse stato l’inverso non potrebbe farsi luogo a punizione
(cioè ove il sasso fosse diretto intenzionalmente contro una persona, ma colpisse un autobus) perché il delitto di danneggiamento non prevede la
punibilità anche a titolo di colpa].
• L’art.83 co.2 prevede che «Se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto si applicano le regole sul concorso dei reati».
L’agente risponde di due reati, uno doloso e uno colposo.
[Nel caso 36, l’agente risponderà di violenza su minore (art.609 quater) e, quale ulteriore evento lesivo non voluto le lesioni personali (art.582).
Sia la dottrina che la giurisprudenza riconducono allo schema dogmatico dell’aberratio delicti con pluralità di eventi la fattispecie disciplinata
dall’art.586 il quale contempla l’ipotesi che da un fatto preveduto come delitto doloso derivi, come conseguenza non voluta, la morte o la lesione di
una persona. Si richiede che il giudice accerti in concreto la colpa in relazione all’evento non voluto].
Nella concezione normativa della colpevolezza, gioca un ruolo la coscienza dell’illiceità concepita come elemento
costitutivo autonomo. È un requisito distinto che si aggiunge all’imputabilità, al dolo o alla colpa e all’assenza di cause di
discolpa. Va subito chiarito che la mancanza del requisito in esame, trattandosi di un elemento autonomo della
colpevolezza, lascia impregiudicata l’esistenza del dolo quale coefficiente soggettivo che sorregge la realizzazione del
singolo fatto di reato.
Difatti, nell’ordinamento italiano il dolo non include nel suo oggetto la conoscenza dell’illiceità penale: il dolo al
massimo, può ricomprendere la coscienza della dannosità del fatto, percepita in una dimensione sostanziale - concreta.
La coscienza dell’illiceità invece, può aggiungere motivazioni alla “teoria della funzione di prevenzione generale e
speciale” del diritto penale: se la colpevolezza esprime un rimprovero per il fatto criminoso commesso, il rimprovero
sarà tanto più giustificato, quanto più il reo sarà consapevole di aver realizzato un fatto contrastante con l’ordinamento.
[N.B. È incontestabile, infatti, che il grado di appartenenza psicologica del fatto di reato all’autore cresce nella misura in cui il
soggetto si rende conto del disvalore del comportamento realizzato. D’altra parte, il senso della pena diventa veramente
comprensibile ad un reo solo se egli è cosciente dell’illegalità della condotta che ha posto in essere.
Questa ultima affermazione resta valida sia che si privilegi l’aspetto retributivo della pena, sia che si ponga l’accento sulle sue finalità
rieducative. Allo stesso modo, lo strumento penale come tecnica di controllo sociale, opera in maniera meno coercitiva se
l’ordinamento garantisce le condizioni di conoscibilità dei precetti penali. Peraltro, l’assunzione della coscienza dell’illecito tra i
requisiti della colpevolezza orienta il principio di colpevolezza secondo le esigenze di prevenzione generale.
La legge penale può, infatti, funzionare come strumento di orientamento culturale solo se i consociati la assumono a criterio guida
del loro comportamento.]
L’aspetto nodale riguarda la portata e i limiti della affermazione secondo cui non esiste colpevolezza senza
conoscenza dell’illiceità.
1.2)
Quand’è che l’ignoranza della legge risulta inevitabile? Quello della individuazione dei criteri di sussistenza della
«inevitabilità-scusabilità» è il punto nevralgico anche per i suoi riflessi pratici.
Sono prospettabili:
A. criteri soggettivi c.d. puri, essi fanno prevalentemente leva sulle caratteristiche personali del soggetto agente,
quali: il livello di intelligenza e di maturazione della personalità, il grado di scolarizzazione e cultura, l’ambiente
sociale di provenienza ecc. L’utilizzazione di criteri di questo tipo, se consente di personalizzare il giudizio di
colpevolezza, reca con il rischio di esiti giudiziari troppo indulgenti o rigorosi.
Per questi motivi, come suggerisce la Corte, il ricorso a questi criteri deve essere limitatissimo.
B. criteri oggettivi puri, essi tengono conto di cause che rendono impossibile la conoscenza della legge penale da
parte di ogni consociato, quali ne siano le caratteristiche personali.
[N.B. Vengono in rilievo circostanze oggettive quali:
- la assoluta oscurità del testo legislativo che impedisce al cittadino di cogliere il reale contenuto precettivo della norma penale;
- un repentino mutamento della giurisprudenza, per effetto del quale viene considerato illecito un comportamento prima
considerato lecito].
C. criteri misti, essi tengono conto delle circostanze oggettive che inducono ad ignorare la legge penale e soggettive
date dalle caratteristiche personali dell’agente.
L’adozione di tali criteri misti è coerente nell’ambito di una colpevolezza che vuole bilanciare, in modo equilibrato,
esigenze “individual-garantistiche” ed esigenze “general-preventive”: l’obiettivo perseguito è quello di scongiurare
l’abuso repressivo (derivante dalla mancata considerazione della personalità dell’agente) e l’eccesso di clemenza
giudiziale (potenzialmente derivante dala considerazione della sola personalità dell’agente)
[N.B. Tra le circostanze di ordine «oggettivo» vanno menzionate, ad esempio, le indicazioni fuorvianti della autorità competente, le
autorizzazioni amministrative o le prassi abituali delle amministrazioni pubbliche. Tra le circostanze di ordine «soggettivo» sono da
considerare il livello di socializzazione e di differenziazione culturale.
Contemperando i criteri oggettivi e soggettivi, secondo un modello «misto» di accertamento dell’inevitabilità-scusabilità della ignoranza,
l’incidenza delle circostanze oggettive va valutata alla stregua delle caratteristiche dell’agente, come determinabili in base al parametro
dell’«homo eiusdem professionis et condicionis», cioè un astratto agente-modello.
I rilievi che precedono possono trovare esemplificazione nel CASO 37: nella specie, il soggetto non si rende conto di commettere il reato preveduto
dalla vigente normativa sulle armi, non perché convinto della liceità del fatto, ma perché indotto in errore da una fonte «qualificata» qual è in
materia la pubblica sicurezza. D’altra parte, considerato che l’agente esercitava la professione di medico, può apparire giustificato che egli
confidasse nel giudizio degli organi istituzionali ben più qualificati nella materia specifica; diversa sarebbe la soluzione se l’agente fosse avvocato, in
considerazione della maggiore vicinanza tra il ruolo professionale e la natura della materia in questione].
1.3)
È opportuno tenere conto che il modello di accertamento della inevitabilità-scusabilità si presta ad essere influenzato,
nella sua concreta applicazione, dalla concezione della colpevolezza.
Gli esiti applicativi possono mutare a seconda che si privilegi:
- una colpevolezza concepita come categoria che riflette coefficienti psicologici reali;
- una colpevolezza intesa come categoria normativa, volta a funzionalizzare esigenze repressivo-preventive.
Sotto questa angolazione il principale interrogativo è se e come il giudizio relativo alla rimproverabilità della ignoranza
debba tenere conto dei processi psicologici reali dell’agente. Difatti, può accadere:
α) che l’autore del fatto, prima di agire, si rappresenti la possibilità che il suo comportamento sia antigiuridico e che,
ciononostante, lo realizzi senza adempiere all’obbligo di maggiore informazione;
β) che l’autore non si rappresenti la possibilità che il suo comportamento sia antigiuridico, perché nessun dubbio
affiorano alla sua mente circa la liceità del comportamento posto in essere.
Ebbene, nella ipotesi α) la rimproverabilità dell’ignoranza trova fondamento proprio nel processo psicologico che si è
realmente sviluppato nell’autore, il suo atteggiamento merita censura perché gli si è di fatto rappresentata la possibilità di
compiere un atto illecito e, ciononostante, ha agito. Più problematica la ipotesi β) e, non a caso, è in relazione ad essa che
gioca un ruolo la concezione della colpevolezza. Qui il rimprovero da rivolgere al soggetto per aver ignorato il carattere illecito
del fatto e privo di una base psicologica reale (nella sua mente non si è affacciata l’ipotesi dell’illiceità del fatto che commetteva).
Il giudizio di colpevolezza per essere emesso deve avere “fondamento normativo”, dando per supposta l’assenza di
cause di inconoscibilità del precetto penale da parte dell’agente, con ciò rimproverandogli di aver violato gli obblighi di
informazione giuridica. È evidente che un giudizio così “normativizzato” di colpevolezza risulta più aderente alla funzione
“repressivo-preventiva” del diritto penale, ma è altrettanto evidente che in questo modo arretrano le preoccupazioni
“indivual-garantistiche”.
1.1) Obiezioni al criterio dell’inesigibilità quale causa generale dell’esclusione della colpevolezza
È da escludere che l’inesigibilità possa assumere un ruolo ampiamente scusante ipotizzato da una parte della dottrina.
Infatti, l’inesigibilità rischia di risolversi in una “clausola vuota” perché non riesce ad indicare i criteri che dovrebbero
presiedere alla soluzione dei casi concreti. Difatti, se ci si limita ad asserire che un comportamento non è colpevole
perché non era esigibile un comportamento diverso, resta senza risposta l’interrogativo più importante che è il motivo
per cui non si sarebbe potuto agire diversamente.
[N.B. Inoltre, l’accertamento della inesigibilità o della esigibilità di un determinato comportamento, in presenza di date circostanze,
presuppone anche che si individui la persona obbligata al facere (o al non facere) alla quale va riferita la verifica della condotta.
Ora, ove questo soggetto sia lo stesso agente, il rischio che si corre è di subordinare l’obbligatorietà dell’osservanza della legge agli
interessi ed alle passioni dei singoli. È, dunque, da escludere che l’inesigibilità possa assumere quel ruolo ampiamente scusante
ipotizzato da una parte della dottrina.
Secondo l’opinione tedesca, alla non esigibilità non compete più il ruolo di causa generale di discolpa applicabile anche a
prescindere da precisi riscontri di diritto positivo, ma questo assunto restrittivo prevale solo in riferimenti ai reati commissivi dolosi,
mentre più ampio spazio viene riconosciuto all’inesigibilità nell’ambito dei reati colposi e dei reati omissivi].
Per quanto riguarda le circostanze anormali concomitanti nei reati dolosi, se non escludono la colpevolezza, almeno
attenuano la misura del rimprovero ed inciderà dunque sulla graduazione della pena.
1) Premessa
In diritto penale è stata sempre avvertita l’esigenza di attribuire rilevanza a situazioni o fattori, diversi dagli elementi
costitutivi del reato, idonei tuttavia a graduarne il disvalore, incidendo in senso di attenuarne o aggravarne la pena.
È però a partire dall’illuminismo e dalla esigenza di garantire le istanze di rigorosa legalità, che sorge il problema di una
espressa previsione legislative delle situazioni chiamate circostanze di reato: cioè di elementi che stanno intorno
(“circum stant”) o accedono ad un reato già perfetto nella sua struttura e la cui presenza determina solo una
modificazione della pena: o in termini quantitativi, aumento o diminuzione della pena edittale, oppure in termini
qualitativi, ad esempio la reclusione al posto della multa, o viceversa.
Si parla anche di “accidentalia delicti” per sottolineare, appunto, che le circostanze sono elementi contingenti
(accidentali) che possono mancare senza che il reato venga meno.
■ Il codice Rocco ha introdotto una disciplina assai ampia e dettagliata delle circostanze del reato.
Infatti, sono oggetto di tipizzazione legislativa non solo le circostanze attenuanti comuni (riferibili a tutti i reati) e
aggravanti speciali (relative a specifiche ipotesi di reato), ma, innovando rispetto alla precedente codificazione, anche
circostanze aggravanti comuni (cioè che aggravano la pena applicabili a tutti i reati).
6.1)
Il concorso eterogeneo, si ha quando ad un medesimo fatto di reato accedono, contemporaneamente, circostanze
aggravanti ed attenuanti.
Il principio del bilanciamento
Innovando rispetto al codice Zanardelli del 1889, che prevedeva l’applicazione congiunta dei singoli aumenti e
diminuzioni di pena, il legislatore del 1930 ha introdotto il diverso principio del bilanciamento.
A norma dell’art.69 il giudice deve procedere ad un giudizio di prevalenza o equivalenza tra le circostanze eterogenee.
Il giudice, cioè, deve far luogo all’applicazione delle sole circostanze ritenute prevalenti, o della pena che sarebbe stata
inflitta in assenza di circostanze.
[N.B. Tale innovazione fu motivata dalla necessità che il giudice avesse una visione organica e completa del colpevole e del reato
commesso, in modo che la pena da applicare in concreto fosse per quanto possibile il risultato di un giudizio complessivo e sintetico
sulla personalità del reo e sulla gravità del reato.
Il giudizio del bilanciamento era in passato limitato alle sole circostanze ad «efficacia comune»: l’esclusione di quelle ad «efficacia
speciale» era motivata dall’esigenza di sottrarre alla valutazione del giudice situazioni il cui indice di gravità era stato considerato
già a monte dal legislatore].
Il giudizio di comparazione, o principio del bilanciamento, odiernamente, a seguito della novella del 1974, non incontra
più alcun limite; difatti, in base al riformato art.69 co.4 “Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle
circostanze inerenti alla persona del colpevole, … ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una
pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato“.
2. «L’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad
altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato».
L’aggravante in parola, comprensiva di tre distinte ipotesi, viene giustificata in base alla maggiore pericolosità di colui il
quale, pur di attuare il suo intento criminoso, non arretra di fronte alla commissione di un reato-mezzo.
Si ritiene che per integrare il “nesso teleologico (finalistico)”, non sia necessario che l’agente abbia conseguito lo scopo che si
prefiggeva (le tre distinte ipotesi), ma è sufficiente che la sua volontà fosse diretta a commettere un altro reato; in questo
caso il reato-mezzo è aggravato, anche quando reato-fine non sia stato commesso o tentato.
In giurisprudenza si afferma la tesi secondo cui l’aggravante non è esclusa dal fatto che i reati teleologicamente connessi
derivano da una sola condotta criminosa, purché risulti la loro “connessione finalistica”.
[N.B. Ci si chiede se questa categoria d’aggravante possa continuare ad esistere anche dopo la riforma del reato continuato del 1974.
Cioè il reato continuato oggi si configura anche quando si sia in presenza di leggi che configurano reati diversi, purché ricorra un
«medesimo disegno criminoso».
Dato che sussiste una profonda analogia (se non proprio un’identità) tra la medesimezza del disegno criminoso ed il nesso teleologico,
sarebbe contraddittorio ritenere che il fenomeno della commissione di più reati uniti da un unico vincolo possa contemporaneamente dar
luogo, nello stesso ordinamento, ad un trattamento di favore (reato continuato) e ad un aumento di pena (aggravante teleologica).
La tesi della tacita abrogazione dell’art.61, n.2, quantunque fondata, è tuttavia respinta dalla giurisprudenza prevalente].
5. «L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
Circostanza tradizionalmente denominata «minorata difesa», presuppone che l’agente abbia consapevolezza della
situazione di vulnerabilità in cui versa il soggetto passivo, lo dimostra l’uso del verbo «profittare», che sottintende la
volontà di trarre un vantaggio dalle circostanze inerenti alla situazione data.
[N.B. La minorata difesa può dipendere da circostanze di tempo, luogo o di persona che attenuano la capacità di difesa del soggetto
passivo. È da considerare circostanza di natura oggettiva perché attiene alle modalità dell’azione.]
6. «L’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione
di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato».
L’aggravante in esame si riferisce alla situazione tecnicamente definibile come latitanza ex art.296 c.p.p., ma, come
comunemente si riconosce, gli effetti giuridici conseguono alla situazione di fatto sottesa alla qualifica giuridica.
La “ratio” va ricercata nella più accentuata volontà di ribellione del soggetto che, dopo essersi sottratto all’autorità per
un precedente reato, ne compie un altro.
[N.B. Ha natura soggettiva poiché si riferisce alle qualità personali del colpevole].
7. «L’avere nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati
da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità ».
Il danno viene valutato, per costante giurisprudenza, sul piano «oggettivo» e non in relazione alla capacità economica del
danneggiato (a questa si farà riferimento solo come elemento sussidiario di valutazione, cioè quando la valutazione intrinseca
del danno non consente da sola di stabilire con certezza se esso sia di rilevante gravità), tenendo conto del momento in cui il
reato venne commesso, nonché del lucro cessante.
Tra i delitti che offendono il patrimonio si fa riferimento non alla oggettività giuridica del reato in questione, ma alle
conseguenze pregiudizievoli che ne discendono in concreto a carico dell’altrui patrimonio: così si spiega come si ammetta
l’applicabilità della circostanza in esame anche nei reati di falso, concussione oppure malversazione.
[N.B. In caso di reato continuato bisogna prendere in esame i singoli episodi criminosi; questa circostanza ha natura oggettiva].
9. «L’avere commesso il fatto con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione
o ad un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto».
L’applicabilità di questa aggravante è esclusa nei casi in cui l’abuso costituisce elemento integrante del reato base.
Ai fini dell’applicazione non basta la particolare qualifica, ma è necessario che essa abbia agevolato l’esecuzione del
reato, perciò solo nel caso in cui l’abuso sia doloso.
[N.B. Ha natura soggettiva perché riguarda qualità personali del colpevole].
10. «L’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o
rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un altro culto ammesso nello Stato, ovvero contro un
agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o
del servizio».
Vi è una tutela privilegiata a determinati soggetti dato lo speciale ruolo rivestito. Il reato dev’essere commesso nell’atto
o a causa delle funzioni svolte dai soggetti passivi, ma non è necessario un “rapporto di omogeneità” tra il reato e le
funzioni in questione.
[N.B. Le nozioni relative a Pubblico ufficiale e incaricato si ricavano dal c.p. (art.357-358); mentre le altre dalle norme di diritto
internazionale. Ha natura oggettiva poiché riguarda la persona dell’offeso].
11. «L’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche ovvero con abuso di relazione
d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità».
La ratio dell’aggravante è costituita dall’abuso di fiducia commesso da chi compie un reato a danno di persone legate
da particolari relazioni col soggetto attivo.
[N.B. La relazione fiduciaria deve ritenersi presunta, nel senso che non occorre di volta in volta la prova della sua esistenza.
Si ha «abuso di autorità» quando si profitti di una condizione di supremazia nei confronti del soggetto passivo.
Si ha «abuso di relazioni domestiche» quando le persone coinvolte appartengono ad un medesimo nucleo familiare, anche se non legate
da un vincolo di reciproca parentela.
Le «relazioni di ufficio» possono consistere anche in relazioni di mero fatto.
In giurisprudenza il concetto di «prestazione d’opera» riguarda qualsiasi rapporto in virtù del quale l’agente presti a qualunque titolo la
propria opera a favore di altri.
Per «coabitazione» s’intende non solo la convivenza ma anche la permanenza non momentanea di 2 o più persone in un luogo idoneo alla
vita domestica a prescindere dal fatto che questa sia volontaria o imposta da ragioni esterne.
Per «ospitalità» si ritiene sia sufficiente che il soggetto attivo venga accolto con il consenso dell’ospitante.
La circostanza ha natura soggettiva perché riguarda i rapporti tra colpevole e offeso .
11 BIS. «L’aver il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale».
Circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima con la sent.249\2010.
11 TER. «L’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle
adiacenze di istituti di istruzione o di formazione».
Questa aggravante è giustificata per fronteggiare il fenomeno del bullismo. L’inasprimento del regime sanzionatorio, non è lo
strumento più congruo per contrastare questo fenomeno socio-psicologico. In questa materia, rispetto alla minaccia (astratta) di
sanzioni più gravi dovrebbe essere incentivata una politica sociale e culturale diversa. [La circostanza ha natura oggettiva].
11 QUATER. «L’aver il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad
una misura alternativa alla detenzione».
Si tratta di un aggravante che intende rafforzare l’efficacia e l’effettività delle misure alternative alla detenzione,
sanzionando più gravemente chi ha commesso un reato doloso durante il tempo in cui godeva di una misura alternativa.
11 QUINQUEIS. «L’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà
personale nonché nel delitto di cui all’art.572 , commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni
diciotto ovvero in danno a persona in stato di gravidanza».
Questa nuova circostanza aggravante intende proteggere in maniera rafforzata, più rigorosa, le vittime di reato
considerate vulnerabili.
3. «L’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti
vietati dalla legge o dall’Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o
professionale, o delinquente per tendenza».
[N.B. Risente di alcune concezioni positivistiche abbastanza datate essendo basata sull’assunto (criticabile) della minore resistenza
psichica derivante dalla fermentazione psicologica per contagio che si sprigiona dalla folla].
Strutturalmente l’attenuante richiede il dato oggettivo di una moltitudine di persone in stato di violenta tensione (ma
comunque non vietata dalla legge o dall’Autorità) e quello soggettivo del trasporto esercitato dalla folla sull’agente.
[N.B. L’attenuante non si applica se si tratta di assembramenti vietati dalla legge o dell’Autorità e se l’autore è un delinquente
abituale o professionale, o delinquente per tendenza. Ha natura soggettiva].
4. «L’aver agito nei reati contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona
offesa dal reato un danno patrimoniale di particolare tenuità, ovvero nei delitti determinati da motivi di
lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche
l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità».
La circostanza in esame, che prima faceva riferimento solo al danno e non al lucro, è stata integrata dalla l. n. 19/1990.
In questo modo l’attenuante in esame costituisce l’opposto simmetrico rispetto all’aggravante di cui all’art.61 n7.
Infatti, la circostanza aggravatrice del danno patrimoniale di rilevante gravità fu estesa, con il Codice Rocco, ai reati
determinati da motivi di lucro.
Mentre l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità era in origine prevista solo per i reati contro il
patrimonio o che offendono il patrimonio: dopo la riforma c’è un rapporto simmetrico tra l’attenuante e l’aggravante in
questione, concedendo al giudice la possibilità di valutare la tenuità del lucro quando il reato commesso sia stato
concretamente determinato da motivi di lucro.
La circostanza attenuante del danno di speciale tenuità è il rovescio dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante
gravità e sono adottabili analoghi criteri di valutazione: il danno patrimoniale di speciale tenuità va valutato in relazione
al valore della cosa, mentre è criterio sussidiario il riferimento alle condizioni economiche del soggetto passivo.
Per l’accertamento, occorre guardare al momento della consumazione senza il giudizio successivo al verificarsi del reato.
Il legislatore ha voluto circoscrivere l’applicabilità della nuova attenuante del lucro di speciale tenuità, richiedendo (oltre
la speciale tenuità del lucro) anche la tenuità dell’evento dannoso o pericoloso (cioè il danno criminale o offesa tipica del
reato come lesione o messa in pericolo del bene penalmente protetto).
[N.B. In pratica è necessario che l’offesa arrecata dal fatto determinato da motivi di lucro sia privo di un serio disvalore penale
(l’attenuante non sarà mai applicabile ai delitti più gravi, come l’omicidio, anche se in concreto determinati da motivi di lucro).
Nei casi di reato continuato la valutazione va compiuta in relazione ai singoli episodi delittuosi; la circostanza ha natura oggettiva].
5. «L’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso
della persona offesa».
- Il primo requisito necessario è quello materiale dell’inserimento dell’azione dell’offeso nella serie delle cause che
determinano l’evento;
- Il secondo, quello psichico, rappresentato dalla volontà di concorrere alla produzione dell’evento medesimo.
Il concorso del fatto doloso dell’offeso, pur costituendo una concausa dell’evento, non deve essere inteso come causa
sopravvenuta da sola sufficiente per produrlo. Se fosse così, in base all’art.41 ultimo co. si interromperebbe il nesso
causale tra l’evento e l’azione del colpevole.
[N.B. È stata esclusa nei casi di delitti sessuali contro minorenni o gli incapaci di intendere o di volere i quali sono incapaci di
apportare un contributo volontario alla verificazione dell’evento. Ha natura oggettiva].
6. «L’avere prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia
possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi prima del giudizio e fuori dal caso preveduto nell’ultimo capoverso
dell’art 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o
pericolose del reato».
La “ratio” dell’attenuante in esame consiste nel ravvedimento del colpevole successivamente alla commissione del reato
e comunque prima dell’inizio del giudizio. Si tratta di due ipotesi:
- risarcimento o riparazione del danno presuppone che il ristoro si effettivo ed integrale in modo da compensare il danno
patrimoniale e quello non patrimoniale; l’iniziativa risarcitoria deve provenire dal reo e se provenisse da un terzo sarebbe
irrilevante (dato che non rivelerebbe un ravvedimento del reo).
[Secondo la giurisprudenza, integra gli estremi dell’attenuante l’offerta “reale” di una somma a titolo di risarcimento. Questa
circostanza si considerava a carattere soggettivo, ma la Corte Cost. l’ha ricostruita in chiave essenzialmente oggettiva (sent.138/98)
“il risarcimento integrale è indice non solo di irrilevanza dell’atteggiamento interiore del reo, ma anche di preminente risvolto che si intende
dare all’esigenza che il pregiudizio subito dalla persona offesa sia interamente ristorato ”;]
- adoperarsi in modo spontaneo ed efficace al fine di elidere o attenuare le conseguenze del reato in cui per spontaneità non
si intende un autentico ravvedimento morale ma la mancanza di imposizioni esterne e per conseguenze si intendono quelle
non patrimoniali.
[N.B. Ha natura soggettiva].
11) La recidiva.
Tra le circostanze inerenti alla persona colpevole (confronta gli artt.69 co.4 e 70 co.2) il codice annovera la recidiva che
equivale alla ricaduta nel reato.
[N.B. Il testo originario del codice prevedeva che a «chi dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altri» poteva
infliggersi un aumento di pena].
La disciplina è stata oggetto di una radicale modifica intervenuta con legge n.251/2005.
[N.B. L’intenzione del legislatore, che si ricava dai lavori preparatori, è stata quella di reagire al rischio di un’eccessiva svalutazione
applicativa della recidiva, con conseguente attenuazione della risposta punitiva effetto di un (ritenuto) eccesso di clemenzialismo
dovuto alla discrezionalità del giudice].
Si spiega in questo modo il fatto che la recidiva sia stata ampiamente trasformata da facoltativa in obbligatoria e siano
stati previsti aumenti di pena più consistenti ed ulteriori effetti giuridici.
- La prima modifica è stata quella di individuare i reati-presupposto della recidiva.
La recidiva ha ad oggetto solo i delitti non colposi, escludendo, quindi, sia dell’illecito colposo e sia dell’illecito
contravvenzionale.
[N.B. Questa scelta innovativa - delimitativa non risulta abbia alla base un retroterra di nuove riflessioni sui rapporti tra recidiva e
tipologie di reati e, dunque, la sua ragionevolezza politico-criminale è tutt’altro che dimostrata.
Se ci si interroga sul fondamento dell’istituto non è facile fornire risposte univoche.
Il fenomeno del recidivismo cominciò a destare allarme a partire dalla seconda metà dell’800, tuttavia, come categoria giuridica
tardò ad affermarsi. È entrata a far parte dei codici per soddisfare esigenze di prevenzione speciale: essa giustificherebbe infatti un
aumento di pena proprio perché la misura della pena inflitta in occasione della precedente condanna si è rivelata insufficiente a
distogliere il reo dal commettere nuovi reati].
Con specifico riferimento alla recidiva, quale istituto del nostro codice, è di intuitiva evidenza il suo possibile nesso con
quello di capacità a delinquere di cui all’art 133 co.2, in quanto il recidivo dimostrerebbe una maggiore insensibilità ai
dettami dell’ordinamento ed una maggiore propensione a delinquere in futuro.
L’art.99 prevede tre forme di recidiva (con la riforma del 2005 quattro), che si distinguono sia nei presupposti, sia negli
effetti giudici.
Recidiva semplice; Recidiva aggravata; Reati della stessa indole; Recidiva reiterata.
1. Recidiva semplice.
Consiste nella commissione di un delitto non colposo a seguito di condanna irrevocabile per un altro delitto non
colposo, È indifferente il tempo trascorso dall’altra condanna.
La nuova disciplina prevede un aumento di 1/3 della pena prevista per il reato base (in misura fissa e non graduabile dal
giudice come prima fino ad 1/6).
Presupposto è la sentenza definitiva di condanna (non è necessario che la pena sia stata effettivamente scontata)
tenendosi conto anche delle condanne per le quali sia intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena
(es. prescrizione della pena, amnistia impropria) e non le cause estintive di tutti gli effetti penali (ad esempio la riabilitazione).
2. Recidiva aggravata.
La recidiva è aggravata se il nuovo delitto non colposo:
- è della stessa indole (art. 101) (recidiva specifica);
- è stato commesso entro cinque anni dalla condanna precedente (recidiva infraquinquennale);
- ovvero è stato realizzato durante o dopo l’esecuzione della pena;
- oppure ancora durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena stessa.
In tutte queste ipotesi la pena può essere aumentata fino alla metà (prima era 1/3) in maniera discrezionale dal giudice.
[N.B. Se ricorrono più circostanze per la recidiva aggravata l’aumento «è della metà», e non «può essere della metà» (art.99 co.3)].
2.1 Recidiva aggravata per reati della stessa indole.
Nell’ambito della recidiva aggravata, ed in particolare quella specifica, assume rilevanza il concetto relativo ai reati
della stessa indole, cioè non solo di quelli che violano la stessa norma, ma anche di quelli configurati da norme diverse
purché, per la natura dei fatti che li costituiscono o per i motivi che li determinano, presentano caratteri
fondamentalmente comuni, che sono desumibili sotto un duplice aspetto:
- dalla natura dei fatti che li costituiscono, esaminati questi non in astratto, ma in concreto, ad esempio considerando le
modalità di lesione o i risultati lesivi;
- punto di vista dei motivi che determinarono la commissione dei reati, in questo senso bisogna verificare se alla base
dei diversi fatti criminosi vi sia un’identica o analoga motivazione psicologica.
3. Recidiva reiterata.
La recidiva è reiterata se il nuovo delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo.
La riforma 2005 ha aumentato le pene:
- l’aumento è della metà nel caso di recidiva semplice;
- l’aumento è di due terzi (2/3) se la precedente recidiva è aggravata.
4. Recidiva reiterata obbligatoria.
Il nuovo art.99 co.5 prevede una nuova figura di recidiva reiterata obbligatoria che si riferisce al soggetto recidivo che
commette uno dei delitti indicati nell’art. 407.2, lett. a) c.p.p. [Termini di durata massima delle indagini preliminari]
Per la prima volta il catalogo dei reati viene assunto a fondamento di un istituto di diritto sostanziale quale è la recidiva senza
una ragionevole motivazione politico-criminale.
Fino ad oggi il catalogo di cui al 407 c.p.p. era servito ad alimentare un «doppio binario» con riferimento ad esigenze
tipicamente processuali (ad es. termini di custodia cautelare, ecc.).
Appare evidente l’assenza di qualsivoglia nesso tra queste tipologie di reati e il giudizio di maggiore pericolosità sotteso
all’istituto della recidiva, soprattutto quando i delitti precedentemente commessi sono di modesta entità o non c’è
omogeneità tra i delitti precedenti e quelli successivi.
L’idea che la recidiva obbligatoria si basi su di una presunzione legale di pericolosità non è sostenibile scientificamente; inoltre
non è limitata ai casi di reiterazione ma include quelli di recidiva aggravata ex 99 co.2, rispetto ai quali la pena “non può essere
inferiore ad 1/3 della pena da infliggere per il nuovo reato ” (art.99 co.5)
L’ultimo comma dell’art 99 prevede che “in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle
pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo ”.
La dottrina non è d’accordo sulla natura circostanziata della recidiva e sugli effetti minori, sottolineando come sia poco
ragionevole ammettere che il giudice possa escludere l’effetto principale della recidiva, e nello stesso tempo, tenerne
conto per gli effetti minori.
Il concetto di consumazione esprime la compiuta realizzazione di tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie
criminosa: in altri termini, si è in presenza di un reato consumato tutte le volte in cui il fatto concreto corrisponde
interamente al modello legale delineato dalla norma incriminatrice in questione.
Il giudizio sull’avvenuta consumazione va effettuato caso per caso, in funzione delle diversità degli elementi strutturali
che compongono le varie fattispecie incriminatrici.
● Nell’ambito dei reati di mera condotta, la consumazione coinciderà con la compiuta realizzazione della condotta
vietata (esempio: il furto consumato si configurerà quando l’agente s’impossessi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene).
● Nei reati di evento la consumazione presuppone oltre al compimento dell’azione anche la produzione dell’evento:
(Esempio: nel caso paradigmatico dell’omicidio, la completa integrazione della fattispecie legale si avrà solo nel momento in cui si verifica la
morte dell’uomo, cioè il reato è consumato solo nel momento in cui si verifica l’evento morte di un uomo).
[N.B. La determinazione del momento consumativo del reato assume rilevanza sotto vari profili:
- in ordine all’individuazione della norma applicabile in caso di successione di leggi penali nel tempo art.2;
- rispetto all’inizio della decorrenza del termine di prescrizione art.158;
- ai fini della concessione dell’amnistia e dell’indulto, di solito concessi limitatamente ai fatti commessi fino al giorno precedente la
data della legge art.151.3 e art.174;
- ai fini della competenza territoriale art.8 c.p.p;
- per l’applicazione della legge penale italiana rispetto alla legge penale straniera art.6].
Il concetto di consumazione funge inoltre da imprescindibile termine di riferimento rispetto alla distinta ed autonoma
figura del tentativo.
[Il CASO 39, esemplifica il problema della distinzione tra delitto consumato e delitto tentato: a prima vista sembrerebbe ricorrere l’ipotesi di
furto non ancora consumato, perché il ladro interrompe l’azione prima di impossessarsi di tutti gli oggetti presi di mira. Ma questo scarto
tra “realizzato” e “programmato” è irrilevante dal momento che, ai fini della consumazione del delitto di furto, è sufficiente che l’agente si
impossessi anche di un solo oggetto (quindi il CASO 39 è un’ipotesi di reato consumato)].
2) Delitto tentato: in generale
[CASO 40: UNA DOMESTICA, FIGLIA DI UN CONTADINO FRIULANO, IN OCCASIONE DELLA VISITA SETTIMANALE AL VECCHIO GENITORE VERSO CUI NUTRE
MOTIVI DI RANCORE, VERSA NELLA BOTTE DI VINO DOSI LETALI DI FOSFURO DI ZINCO AL FINE DI PROVOCARNE LA MORTE. IL CONTADINO SPILLA VINO
DALLA BOTTE E NE INGERISCE ALCUNI SORSI: ACCORGENDOSI PERO’ DEL COLORE PIU’ TORBIDO E DEL GUSTO LEGGERMENTE DIVERSO DEL LIQUIDO,
PROVVEDE A TRAVASARLO IN ALTRO RECIPIENTE PER FAR RIACQUISTARE A ESSO L’ORIGINARIA LIMPIDEZZA; IN CONSEGUENZA DELLA QUANTITA’ DI VINO
GIA’ BEVUTA, EGLI ACCUSSERA’ SOLTANTO DOLORI ALLO STOMACO.
- CASO 41: UN VENDITORE AMBULANTE DETIENE ALL’INTERNO DI UN’AUTO SCATOLE DESTINATE AD ESSERE SMERCIATE E CONTENENTI IN APPARENZA
SIGARETTE, MA IN REALTA’ RIEMPITE CON PATATE.
- CASO 42: UN GRUPPO DI MALVIVENTI SI APPOSTA NELLE IMMEDIATE VICINANZE DI UNA BANCA CON PISTOLE CARICHE, CALZE PER MASCHERARSI,
GUANTI PER NON LASCIARE IMPRONTE, SACCHI PER RIPORVI LA REFURTIVA, DOPO AVER PARCHEGGIATO LE AUTOMOBILI IN POSIZIONE TALE DA
FACILITARNE LA FUGA E TENENDOVI A BORDO TARGHE DI IMMATRICOLAZIONE DIVERSE DA QUELLE PROPRIE DELLE AUTOVETTURE].
Ricorre la figura del delitto tentato o tentativo nei casi in cui l’agente non riesce a portare a compimento il delitto
programmato, ma gli atti parzialmente realizzati sono tali da esteriorizzare l’intenzione criminosa.
Diversamente (≠) ci si troverebbe di fronte ad un mero proposito delittuoso, irrilevante nel nostro ordinamento in base
al principio cogitationis poenam nemo patitur [tradotto: nessuno può subire una pena per i suoi pensieri esprime il cd. principio di
materialità del Diritto Penale. Secondo tale principio non può mai esservi reato, né di conseguenza pena, se la volontà criminosa non si materializza
in un comportamento esterno].
Il fondamento politico-criminale della punibilità del tentativo è costituito dall’esigenza di prevenire l’esposizione a
pericolo dei beni giuridicamente protetti “teoria c.d. oggettiva”.
Nell’ambito di un diritto penale ispirato all’idea di protezione dei beni giuridici, risultano prive di legittimazione teorica e
politico-criminale le teorie c.d. «soggettive» e teorie c.d. «miste».
[N.B. • Le «teorie soggettive»: hanno matrice politico culturale diversa. Storicamente, hanno fatto riferimento, al positivismo
criminologico (Lombroso, Ferri, Garofalo) che soppiantarono la scuola classica obiettando ad essa che i fondamenti della punibilità
andavano spostati dal fatto materiale offensivo alla personalità dell’autore.
Tali studiosi positivisti ravvisavano il fondamento della punibilità del tentativo nel suo innalzarsi a sintomo di pericolosità criminale.
Le teorie soggettive si sono ricollegate al diritto penale della volontà.
Questa è una concezione tipica dei regimi totalitari in cui punto di riferimento della punibilità era la manifestazione di una volontà
individuale ribelle alla volontà generale dello Stato ed il fondamento della punibilità del tentativo andrebbe ravvisato nel fatto che
l’azione tentata sia l’indice di una volontà ribelle.
Partendo da questa posizione del momento soggettivo, il legislatore non dovrebbe differenziare il trattamento punitivo del delitto
tentato da quello del delitto consumato: in entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad una medesima volontà ribelle all’ordinamento.
Altra implicazione sarebbe quella di arrivare a punire anche il tentativo inidoneo: se ciò che ha rilevanza decisiva è la manifestazione
di una volontà ribelle, questa può essere espressa anche da un fatto che di per sé sia privo di un’oggettiva idoneità a ledere (così si
potrebbe punire anche il tentativo cervellotico).
• Le «teorie miste o eclettiche»: cercano di mettere insieme la motivazione oggettiva e la motivazione soggettiva: partono dal
presupposto che il tentativo sia espressione di una volontà ribelle, ma ritengono meritevoli di punizione solo le manifestazioni di
volontà ribelle che sono in grado di scuotere la fiducia dei cittadini nell’ordinamento penale. Arriverebbero a ritenere punibile il
tentativo inidoneo, privo di concreta pericolosità].
• La teoria oggettiva del fondamento della punibilità è quella preferibile (rispetto alle 2 precedenti) perché si collega in
maniera più coerente con gli irrinunciabili presupposti di un diritto penale del fatto: presupposti riassumibili nella
fondamentale esigenza che il proposito criminoso si traduca in un comportamento materiale che, a sua volta, produca
un’effettiva lesione o messa in pericolo accertabile del bene protetto.
Significative indicazioni in questo senso provengono dal nostro diritto positivo.
- Da un lato l’art.56 menziona il requisito dell’idoneità dell’azione, che trova spiegazione nell’ambito di una concezione
oggettivistica: la idoneità è rapportata all’attitudine della condotta materiale ad aggredire il bene tutelato;
- dall’altro lato, la disposizione dell’art.49, parlando di reato impossibile per inidoneità dell’azione, conferma che nel
nostro ordinamento il tentativo inidoneo non è riconosciuto.
Circa l’incidenza sugli interessi penalmente tutelati, consumazione e tentativo riflettono, rispettivamente, la lesione
effettiva e la lesione potenziale del bene oggetto di protezione: ed è il minore grado di aggressione al bene che
giustifica la minore severità del trattamento penale del tentativo.
In conseguenza del più basso livello di offensività insito nell’esposizione a pericolo del bene, il delitto tentato
rappresenta un “minus” rispetto al delitto consumato, una sorta di delitto di “minore grado”.
Ma ciò non deve far cadere nell’equivoco di ritenere che il tentativo sia un “delitto imperfetto”: perché considerato dal
punto di vista strutturale, il tentativo è al contrario un “delitto perfetto” in quanto presenta tutti gli elementi necessari
per l’esistenza di un reato (fatto tipico, antigiuridicità, colpevolezza).
Sul piano normativo, il delitto tentato costituisce un “titolo autonomo di reato”, caratterizzato da un profilo offensivo
proprio, pur conservando lo stesso nomen juris della figura delittuosa (consumata) a cui di volta in volta si riferisce.
Da ciò, la configurazione del tentativo come illecito autonomo nasce dall’incontro o combinazione di due norme:
- la norma incriminatrice di parte speciale, che eleva a reato un determinato fatto;
- l’art.56 che, disciplinando i requisiti del tentativo punibile, svolge una funzione estensiva della punibilità perché
consente di reprimere penalmente fatti che non arrivano alla soglia della consumazione (es: il reato di tentato omicidio
trova la sua fonte del combinato disposto dagli artt.56 e 575, il tentativo di furto dall’incontro dell’art.56 con l’art.624, ecc).
Il riconoscimento dell’«autonomia giuridica del delitto tentato» assume rilievo anche sul piano pratico.
[N.B. Difatti, gli effetti giuridici riconnessi da una norma penale alla consumazione di un reato non possono automaticamente essere
estesi alla figura autonoma del «delitto tentato»; in ogni caso per stabilire se il riferimento di una legge all’ipotesi tipica escluda o no
il riferimento a quella tentata, si dovrà avere riguardo alla materia cui la legge si riferisce e alla sua ratio relativa].
Le esigenze di superare le difficoltà connesse alla distinzione predetta, unita all’intento di assecondare la tendenza del
regime fascista a dilatare per ragioni di controllo politico i confini del tentativo punibile, indussero il legislatore del 1930
ad abbandonare il tradizionale criterio dell’inizio di esecuzione.
Nel disciplinare gli elementi costitutivi del delitto tentato, l’art.56 del c.p. vigente dispone: “Chi compie atti idonei, diretti in
modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
L’attuale definizione codicistica del tentativo fa leva sul duplice requisito dell’idoneità e dell’univocità degli atti.
[N.B. Tale definizione legislativa supera solo apparentemente la discussione relativa alla distinzione tra atti preparatori ed atti
esecutivi.
È sufficiente ripercorrere a grandi linee la storia della dottrina per accorgersi che il giurista dell’ottocento Carrara aveva già
prospettato i due criteri di «idoneità» e «univocità»; allo scopo di determinare il concetto di atti esecutivi punibili, cosi che, non
deve stupire se parte della dottrina disconosca il carattere innovativo dell’art.56, obiettando che la distinzione tra “preparazione”
ed “esecuzione”, che si era preteso di sopprimere, ritorni nella stessa formula definitoria adottata dal legislatore del 1930.
Ma il vero nodo della questione non è di stabilire se la formulazione recepita nell’art.56 superi o no il problema della
distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, perché, se così fosse, la disputa rischierebbe di diventare nominalistica.
Il vero punctum dolens (punto dolente) della incriminazione del tentativo sta nella preoccupazione di evitare che
l’istituto si presti, nella sua applicazione concreta, ad essere manipolato in senso illiberale.
♦ Concetto di idoneità il requisito dell’idoneità degli atti ha natura oggettiva, ma non si concorda sul suo
significato, come risulta dal confronto degli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza.
Una risalente teoria, che ancora si rinviene in giurisprudenza, risolve il concetto di idoneità in quello di «efficienza
causale»: in tal senso, gli atti realizzati dovrebbero essere capaci di cagionare l’evento del reato preso di mira.
Ma, è da obiettare che l’idoneità a produrre l’evento non può essere intesa in senso strettamente causale, per l’ovvia
ragione che, mancando nel delitto tentato l’evento del corrispondente delitto consumato, viene a mancare uno dei
termini necessari all’esistenza di un rapporto eziologico: (che è, ricordiamolo, azione – nesso causale - evento).
[N.B. Se fosse adottabile un’ottica di tipo causale, il giudizio relativo all’idoneità dovrebbe compiersi “ex post”: ma, secondo una
valutazione “ex post”, non vi sarebbe mai tentativo punibile proprio perché il mancato verificarsi dell’evento costituirebbe riprova
dell’inidoneità degli atti compiuti a causarlo].
Inoltre, l’utilizzazione di un concetto di idoneità in chiave causale presupporrebbe che tutti i reati presentino nella loro
struttura un evento naturalistico. Ma così non è nell’ambito dei reati di condotta, onde l’idoneità va riferita, se si vuole
tenere conto di tutte le tipologie delittuose, alla commissione del delitto che di volta in volta viene in questione.
♦ Il criterio di accertamento dell’idoneità: la c.d. prognosi postuma Un concetto di idoneità così inteso richiama
l’idea di capacità potenziale, attitudine, di congruità dell’atto compiuto rispetto alla realizzazione del delitto preso di
mira. L’effettiva portata del requisito dell’idoneità si chiarisce, puntualizzando sotto quale angolazione ci si deve porre
per stabilire se un determinato atto sia o no idoneo rispetto al risultato.
Si concorda, oggi, nel ritenere che il parametro di accertamento dell’idoneità consiste in un «giudizio ex ante» e «in
concreto» (criterio della c.d. «prognosi postuma»): il giudice, cioè, collocandosi idealmente nella stessa posizione
dell’agente all’inizio dell’attività criminosa, deve accertare, alla base di una valutazione operata in base alle conoscenze
dell’uomo medio, eventualmente arricchite da quelle maggiori dell’agente concreto, se gli atti erano in grado, tenuto
conto delle concrete circostanze del caso, di sfociare nella commissione del reato.
Tale criterio va sotto il nome di «prognosi postuma» perché il giudizio prognostico viene effettuato sì dopo la
commissione degli atti di tentativo, ma ponendosi con la mente nel momento iniziale dell’attività delittuosa:
solo questa prognosi a posteriori consente di accertare se l’agente concreto sia in possesso di conoscenze «ulteriori»
rispetto a quelle proprie dell’uomo medio.
[Si pensi ad esempio alla somministrazione di zucchero ad una persona, considerata ex ante in base alle valutazioni medie, non può certo essere
ritenuta idonea a cagionare la morte, ma il giudizio muta se si accerta che il reo era a conoscenza del grave stato diabetico della vittima designata].
A questo punto rimane ancora da precisare se il «criterio della prognosi postuma» debba essere applicato effettuando il
giudizio di idoneità su “base parziale” o su “base totale”
• Invero, è attestato nel primo senso l’orientamento dominante: il giudizio di idoneità è a “base parziale” in quanto
tiene conto solo delle circostanze conosciute o conoscibili, al momento dell’azione, da un uomo avveduto pensato al
posto dell’agente concreto; mentre esso non tiene conto di circostanze eccezionali, oggettivamente presenti sin
dall’inizio, ma conosciute solo dopo.
[Così ad esempio, applicando un simile criterio di giudizio, il borseggiatore sorpreso con la mano nella tasca di una potenziale vittima
risponderà di tentativo di furto, anche se egli non sapeva, come si scopre dopo, che la tasca era vuota].
L’utilizzo del criterio della prognosi postuma su “base parziale” tende a contemperare la concreta pericolosità del tentativo
con le esigenze di prevenzione generale, facendo prevalere la preoccupazione politico-criminale di evitare che il reo possa
beneficiare dell’impunità per effetto della presenza di circostanze, difficilmente conoscibili o prevedibili al momento del fatto,
che fanno eccezionalmente venir meno la reale pericolosità dell’azione tentata.
• Una ricostruzione del concetto di idoneità, davvero coerente con la tesi che ravvisa il fondamento della punibilità del
tentativo nell’esigenza di prevenire l’effettiva esposizione a pericolo dei beni protetti, induce invece a optare per una
“base totale di giudizio”: in questo senso, per accertare l’idoneità dell’azione, occorre prendere in esame tutte le
circostanze già presenti al momento del fatto, anche se conosciute in un momento successivo.
[Facendo applicazione della “base totale di giudizio” all’esempio del borseggiatore, perveniamo alla conclusione opposta cioè che il borseggiatore
non dovrà rispondere di furto tentato, anche se egli era all’oscuro del fatto che la tasca della vittima designata era vuota: la mancanza originaria di
danaro rende inidoneo, sin dall’inizio, il tentativo di sottrazione].
Una simile impostazione, oggi minoritaria, corrisponde invece all’orientamento dominante nella dottrina degli autori
classici e nella giurisprudenza coeva.
4.1) Il grado di sufficienza dell’idoneità Non c’è unità di vedute circa il grado o il livello di idoneità necessario ai
fini della configurazione del tentativo punibile.
Le posizioni emergenti al riguardo si differenziano (≠) in ragione della diversa misura di idoneità richiesta: ora ci si
accontenta che gli atti posti in essere rendano «meramente possibile» il verificarsi dell’evento; ora invece ci si appaga di
una «ragionevole possibilità» di raggiungere il risultato; altre volte si considera idonea «l’azione adeguata rispetto
all’evento voluto», altre volte ancora si esige che appaia «verosimile» la capacità dell’atto rispetto allo scopo criminoso;
infine, si richiede la «probabilità di verificazione del reato».
Purtroppo si tace sui criteri che dovrebbero presiedere alla graduazione del giudizio prognostico nei termini sopra
richiamati.
In mancanza di una approfondita elaborazione al riguardo, vi è il rischio che le diversità riscontrabili nelle posizioni ora
enunciate si riducano a differenze di natura terminologica.
Ora, considerato nella sua portata meramente lessicale, il termine «idoneità» può ben essere identificato sia con la
semplice possibilità, sia con la probabilità di verificazione del risultato delittuoso preso di mira.
Essendo, dunque, le diverse posizioni tutte legittime dal punto di vista letterale, per giungere alla soluzione più
corretta non rimane, in realtà, che spostare il discorso sul piano delle considerazioni teleologiche: il che equivale a
richiamare il ancora una volta il fondamento sostanziale della punibilità del tentativo.
Se tale fondamento va ravvisato nell’esigenza di evitare la messa in pericolo del bene giuridico, coerenza impone, allora,
di escludere che il «grado di sufficienza dell’idoneità» coincida con la semplice «non impossibilità» di consumazione del
fatto delittuoso: e in verità, posto che il «pericolo» presuppone la «probabilità» di verificazione dell’evento lesivo,
per potere sostenere che gli atti di tentativo realizzati pongono in pericolo il bene protetto è necessario accertarne la
rilevante attitudine a conseguire l’obiettivo: la loro idoneità, in altri termini, deve essere più vicina alla “probabilità” che
alla mera “non impossibilità”.
[N.B. Una volta chiarito in via generale come debba intendersi il parametro dell’“idoneità degli atti”, rimane il problema di
specificarne e concretizzarne la portata in rapporto sia alle diverse tipologie delittuose, sia alle ipotesi concrete che vengono al
vaglio dei giudici. Le esemplificazioni giurisprudenziali più significative concernono reati causalmente orientati come l’omicidio e le
lesioni personali, nel cui ambito di giudizio sull’idoneità della condotta esecutiva è non di rado effettuabile alla base di criteri di
esperienza relativi alla realtà fisica (l’accertamento dell’idoneità diventa, invece, tanto più aleatorio quanto più l’atto sia remoto
dalla fase esecutiva in senso stretto e quanto meno si disponga di regole di esperienza ricavate dal frequente verificarsi di casi simili
a quello di specie). Un’ipotesi di tentato omicidio è quella esemplificata nel CASO 40: ai fini dell’accertamento dell’idoneità del tentato
avvelenamento, è quasi superfluo osservare che il propinare dosi letali di zinco versate in una botte di vino è un mezzo idoneo a cagionare la morte
addirittura con una probabilità vicina alla certezza. Si potrebbe obiettare che, nel caso di specie, l’idoneità del mezzo è controbilanciata dalle
percepibili alterazioni provocate nel liquido, che inducono il vecchio contadino a desistere dal bere.
Diversa sarebbe la conclusione se la figlia avesse mischiato al vino dosi non letali di veleno oppure se le alterazioni di gusto e di colore fossero state
così macroscopicamente nocive da destare un sicuro allarme, ecc].
5) Univocità degli atti
«Finché l’atto esterno sarà tale da poter condurre tanto al delitto quanto ad una azione innocente, non avremo che un atto
preparatorio, il quale non può imputarsi come conato ».
Queste parole, pronunciate già un secolo fa dal Carrara, esprimono in maniera esemplare la funzione esercitata
dall’«univocità» degli atti, come ulteriore requisito strutturale del delitto tentato.
È di comune esperienza che determinati atti, pur dotati di per sé del requisito dell’idoneità, o vengono commessi per
scopi leciti o possono tendere alla commissione di più reati (es: un soggetto nell’atto in cui, imbracciando un fucile al riparo di una
siepe, si appresta a prendere la mira per sparare: questo atto, considerato isolatamente, può essere diritto ad uccidere, intimidire,
abbattere un animale o un uomo, ecc. Analogamente il semplice atto di introdursi in un’abitazione altrui può essere diretto a commettere
un furto, una violenza carnale, omicidio, ecc).
L’art.56, col richiedere, quale ulteriore requisito, la «univocità» o non equivocità degli atti, tende ad impedire una
eccessiva dilatazione dell’istituto del tentativo, nella quale si ricadrebbe qualora si punissero atti privi dell’attitudine ad
esprimere una chiara direzione criminosa.
- Ma quando può dirsi che un atto è «diretto in modo non equivoco» a commettere un reato?
Si registrano in proposito più orientamenti.
► Univocità come criterio di prova del proposito criminoso Secondo la concezione c.d. «soggettiva», il
requisito della univocità fa riferimento ad «un criterio di prova»: cioè l’univocità degli atti indicherebbe l’esigenza che,
in sede processuale, sia raggiunta la prova del proposito criminoso; prova desumibile oltre che dall’atto in sé
considerato anche “aliunde” (“da altro”, cioè dai precedenti e dalla personalità del reo, dalla eventuale confessione, etc.).
[N.B. Ma è agevole obiettare che questo modo di intendere la univocità si ridurrebbe ad una interpretatio abrogans (cioè una
interpretazione abrogativa dell’art.56), infatti, l’esigenza di provare la volontà criminosa discenderebbe dalle regole generali in tema
di elemento soggettivo del reato, mentre il requisito della non equivocità cui allude l’art.56 è riferito alla sole ipotesi di delitto
tentato].
► Univocità come caratteristica oggettiva della condotta Secondo la concezione c.d. «oggettiva», la direzione
non equivoca degli atti rappresenta un criterio di essenza, cioè l’univocità va considerata come una caratteristica
oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere debbono in sé stessi possedere, considerandoli nel
contesto in cui sono inseriti, l’attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito.
[Esempio: si consideri l’ipotesi di chi si introduce in casa altrui, arricchita da un insieme di circostanze obiettivamente rivelatrici
dell’intenzione di chi agisce: per dirla con il Carrara «se si immagina il mio nemico mortale che col pugnale brandito si introduce nella mia
camera mentre dormo […]: il giudice potrà ben ravvisare in quell’introduzione il carattere di tentato omicidio».]
Concependo l’univocità come caratteristica oggettiva della condotta, si rischia, però, di restringere troppo l’ambito di
operatività del tentativo, dato che soltanto in una minoranza di casi gli atti realizzati porterebbero, in sé stessi, i segni
del delitto programmato. Occorre pertanto una puntualizzazione per evitare facili fraintendimenti.
A ben vedere, l’esigenza di configurare l’univocità come caratteristica dell’azione non esclude che la prova del fine
delittuoso possa essere desunta in qualsiasi modo, facendo applicazione dei canoni probatori in tema di elemento
soggettivo del reato.
Solo che, una volta conseguita, anche aliunde, la prova del fine verso cui tende l’agente, è necessaria una seconda
verifica: si tratta di accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, riflettano in maniera sufficientemente congrua
la direzione verso il fine criminoso eventualmente già accertato per altra via.
[Così, nel CASO 41, l’eventuale ammissione del venditore ambulante di voler destinare alla vendita le false scatole di sigarette, non sarebbe
sufficiente a far configurare un tentativo di truffa finché le scatole stesse non siano tolte dall’automobile e concretamente offerte in
vendita; soltanto a quest’ultima condizione il proposito truffaldino si tradurrebbe in un atto obiettivamente diretto a trarre in inganno i
possibili compratori.
L’univocità degli atti è, invece, in re ipsa, nel CASO 42. Qui gli atti parlano da soli, peraltro senza che vi sia il bisogno di un previo
accertamento aliunde della volontà criminosa: dal complesso delle stesse modalità di esecuzione del fatto (calze per mascherarsi e pistole
cariche, targhe false, ecc.) si evince la inequivoca volontà di commettere una rapina in banca].
[N.B. Allo scopo di accertare l’univocità è possibile seguire un ulteriore prospettiva. Si allude alla c.d. “teoria materiale oggettiva
individuale” che, nel ricostruire l’univocità attorno al concetto di tipicità degli atti, fa riferimento al concreto piano criminoso
dell’agente. In altri termini, alla base della teoria in parola sono considerati atti univoci quelli che, secondo il programma criminoso
ideato dall’agente nella situazione concreta, si collocano come prossimi o contigui all’azione esecutiva del reato.
Questa impostazione rende necessaria una verifica processuale del piano delittuoso di volta in volta elaborato dal soggetto, ma nella
normalità dei casi, sono individuabili tendenziali criteri generali orientativi riferibili ai vari tipi di reato che vengono in questione.
(Così non costituisce ancora tentativo punibile il semplice procacciamento o il semplice apprestamento degli strumenti con cui si agirà, come ad
esempio, il procurare la pistola con cui si ucciderà, e cosi via).
Lo stesso vale rispetto alla ricerca del luogo adatto all’esecuzione del reato, oppure all’eliminazione degli ostacoli che si
frappongono alla sua realizzazione (ad es. non può essere ancora considerato furto punibile a titolo di tentativo il fatto di Tizio che, la sera
prima del giorno programmato per la perpetrazione del furto, si reca nella villa presa di mira per eliminare i cocci di vetro che potranno ostacolargli
l’indomani la scalata del muretto, ecc.)]
6) Elemento soggettivo
Nel nostro ordinamento penale, il tentativo è punibile solo se commesso con dolo: non è configurabile, invece, nel
silenzio della legge, un tentativo colposo. Secondo la dottrina dominante, l’esclusione della colpa è spiegabile anche per
una ragione ontologica: se si muove dal concetto comune di tentativo, come atto intenzionalmente diretto ad un
risultato, ipotizzare un tentativo “involontario” appare incongruente.
♦ Tentativo e dolo eventuale la questione che rimane da risolvere è se il dolo del tentativo sia identico o no al dolo
della consumazione. Tale problema ha importanti riflessi pratici: se si accoglie la “tesi dell’identità strutturale”, ne deriva
che il tentativo è realizzabile con tutte le forme di dolo configurabili nell’ambito della consumazione, compreso il dolo
eventuale.
Ma è proprio quest’ultimo il punto che costituisce un oggetto di controversia.
[Per esemplificare, si ipotizzi che Tizio dia fuoco ad una palazzina, prevedendo e accettando il rischio che in quel momento vi dorma
una persona anziana, la quale potrebbe conseguentemente perdere la vita a causa dell’incendio: Tizio potrà rispondere di tentato
omicidio realizzato con dolo eventuale?]
• Una parte minoritaria della dottrina, e una giurisprudenza dominante in passato, muovono dal presupposto che il
nostro ordinamento non contiene alcuna norma che esplicitamente distingua i 2 tipi di dolo:
essendo la differenza tra tentativo e consumazione circoscritta dalla stessa legge al piano della solo struttura oggettiva,
se ne ricava che il dolo del tentativo e quello della consumazione possono essere identici.
[N.B. Un ulteriore argomento a sostegno della tesi in esame è costituito dall’accoglimento della concezione oggettiva dell’univocità: si
osserva che, essendo la direzione non equivoca degli atti caratteristica relativa solo alla fattispecie oggettiva del tentativo, essa non
dovrebbe riflettersi anche nel dolo sotto forma di intenzione diretta a commettere il reato].
• La tesi contraria, che ritiene incompatibili tentativo e dolo eventuale, oltre a essere sostenuta dalla dottrina
maggioritaria, è andata affermandosi nell’orientamento giurisprudenziale attuale.
[N.B. Per sostenerla, si potrebbe continuare a prospettare una concezione soggettiva o probatoria dell’univocità come requisito del
tentativo punibile, riducendo l’univocità all’esigenza di provare in giudizio l’intenzione criminosa dell’agente, la non equivocità della
condotta finisce col coincidere con la prova di una volontà intenzionalmente diretta a commettere il reato: ma proprio perché si
richiede una volontà intenzionale che si esclude la compatibilità tra tentativo e dolo eventuale].
Fuori da una “concezione soggettiva” dell’univocità, largamente superata, la tesi dell’incompatibilità può essere oggi
poggiata su argomenti vincenti cosi riassumibili:
- l’autonomia strutturale della fattispecie tentata, rispetto alla corrispondente fattispecie del reato consumato, che
giustifica che anche il dolo del tentativo assuma una connotazione peculiare, non coincidente del tutto con quella della
consumazione.
- resta ferma l’incompatibilità strutturale tra il dolo eventuale e il requisito dell’univocità della condotta, anche
accogliendo una “concezione oggettiva”.
[N.B. Nello stesso concetto di tentativo è insita una condotta orientata ad uno scopo e non la mera accettazione del rischio di un
evento possibile o probabile. Ciò trova riscontro nell’estremo dell’inequivocità degli atti: il quale, pur concernendo il comportamento
materiale, va correlato ad un corrispondente atteggiamento psicologico, e cioè alla volontà diretta (intenzione) a conseguire il
risultato criminoso preso di mira.
In termini conclusivi, la direzione finalistica dell’atto dev’essere certa sia sul piano materiale che psicologico: tra i 2 aspetti deve
esservi piena corrispondenza. Mentre non sarà univoco un comportamento che l’agente realizzi senza tendere a realizzarlo, ma solo
accettando il rischio che questo si verifichi].
(Nel caso prima esemplificato, dove l’evento più grave di possibile verificazione non si verifichi, Tizio risponderà soltanto di incendio della palazzina).
7) Il problema della configurabilità del tentativo nell’ambito delle varie tipologie delittuose
La concreta configurabilità di un delitto tentato dipende dalla possibilità di rendere compatibili i requisiti previsti
dall’art.56 con le caratteristiche oggettive dei vari tipi delittuosi.
1) Il tentativo non è ammissibile nelle contravvenzioni: l’art.56 fa riferimento ai soli delitti. A fondamento di tale
esclusione ci sono motivazioni politico-criminali e non di incompatibilità di natura strutturale: la minore gravità dei
reati contravvenzionali rende inopportuna, a giudizio del legislatore, la loro perseguibilità anche a titolo di tentativo.
2) Dipende da ragioni strutturali l’inammissibilità del tentativo nell’ambito dei delitti colposi: se la colpa si connota per
l’assenza della volontà delittuosa, costituirebbe una contraddizione ammettere che il tentativo possa coesistere con
la mancanza dell’intenzione di commettere il reato.
3) Rispetto alla controversa configurabilità del tentativo nei reati omissivi (parte 4 cap.1 sez.2);
4) Non si ammette il tentativo per i delitti preterintenzionali (es: omicidio preterintenzionale) perché nell’eventualità che
il soggetto passivo sopravviva, la responsabilità resta limitata (in assenza di una volontà omicida) al delitto di
percosse o lesione.
5) Il tentativo è escluso per i reati c.d. unisussistenti: dal momento che non consentono la frazionabilità del processo
esecutivo in più atti: una volta compiuto l’unico atto che costituisce il delitto (es: l’ingiuria verbale), l’azione criminosa
è completata.
6) Il tentativo è escluso per i delitti di attentato e nei delitti c.d. a consumazione anticipata, e ciò in base a un duplice
rilievo: in questi modelli delittuosi, il tentativo equivale già a consumazione e non si può ipotizzare un atto idoneo
diretto in modo equivoco a commettere “atti diretti a”.
7) Discussa è la configurabilità del tentativo nei reati di pericolo: una parte della dottrina ritiene strutturalmente
prospettabile la realizzazione in forma tentata almeno di alcuni reati di pericolo (es: ipotesi di una minaccia tentata
consistente nella spedizione di una lettera minatoria intercettata dopo la spedizione), ma va condivisa la tesi negativa,
perché il presupposto che punire il tentativo di un reato di pericolo equivarrebbe a reprimere “il pericolo di un
pericolo”, finendo con l’anticipare troppo la soglia della punibilità.
8) Nei reati aggravati dall’evento, il tentativo è ipotizzabile, tutte le volte in cui l’evento ulteriore può realizzarsi
indipendentemente dall’esaurimento della condotta vietata (es: morte di una donna dopo il tentativo di aborto).
9) Nei reati condizionati la configurazione del tentativo dipende dalla possibilità del verificarsi della condizione
obiettiva di punibilità indipendentemente dal perfezionarsi della condotta tipica.
10) Escluso è il tentativo nei reati abituali: dal momento che le singole azioni non hanno rilevanza penale autonoma.
11) Nei reati permanenti la configurabilità del tentativo è possibile a condizione che la condotta positiva sia
frazionabile.
8) Tentativo e circostanze
Discussa sia in dottrina che in giurisprudenza è la questione dei rapporti tra tentativo e circostanze.
Da parte di alcuni si opera una distinzione tra le figure del:
- Tentativo circostanziato di delitto si avrebbe quando le circostanze si realizzano compiutamente o solo in parte,
nel contesto della stessa azione tentata.
- Tentativo di delitto circostanziato si configurerebbe quando il delitto, se fosse giunto a consumazione, sarebbe
stato qualificato dalla presenza di una o più circostanze.
Nessun dubbio può sussistere sulla compatibilità strutturale tra tentativo e circostanze compiutamente realizzatesi
anche prima che il reato giunga a consumazione (es: l’aggravante del rapporto di parentela senza dubbio si applica anche
all’omicidio tentato, per l’ovvia ragione che la parentela preesiste sia al tentativo che alla consumazione).
Riserve iniziano ad aversi nell’ipotesi di tentativo circostanziato di delitto caratterizzate da una realizzazione soltanto
parziale delle circostanze (es: caso di un omicidio tentato accompagnato da atti diretti a seviziare).
Maggiori riserve suscita la figura del tentativo di delitto circostanziato, riconosciuta dalla giurisprudenza soprattutto a
proposito delle circostanze del danno patrimoniale di speciale tenuità o di rilevante gravità, in base alla valutazione
prognostica che l’iter consumativo del reato avrebbe realizzato con certezza gli elementi costitutivi della circostanza.
[N.B. Tali riserve trovano fondamento in un duplice ordine di considerazioni:
- non si vede quale sia ragione per ritenere che in questo settore le esigenze connesse al principio di legalità possano essere
derogate è lo stesso rispetto del principio di legalità ad imporre che le circostanze vengano applicate solo in presenza di
presupposti esplicitamente previsti dalla legge.
- esistono invalicabili limiti ontologici e strutturali così, le circostanze relative all’evento consumativo del reato sono
compatibili solo con la compiuta realizzazione dell’illecito penale (es: l’entità del danno nei reati contro il patrimonio, per
richiamare il contrario e ingiustificabile orientamento della giurisprudenza).]
La conclusione di tali rilievi è obbligata: le uniche circostanze compatibili con il tentativo sono quelle che si realizzano
compiutamente nello stesso contesto dell’azione tentata.
9) Desistenza e recesso attivo
[CASO 43: Un ladro interrompe l'azione furtiva perché non riesce a vincere la chiusura posta a protezione delle cose che voleva sottrarre.
CASO 44: Tizio, dopo avere inferto due colpi di coltello alla zona toracica di Caio, si rende conto dell'imminente pericolo di vita della vittima e ne
scongiura la morte richiedendo l'intervento del medico.
CASO 45: Una donna, spinta dal proposito di uccidere il marito dormiente, apre il rubinetto del gas ed esce di casa; pentitasi poco dopo, avverte la
polizia. Gli agenti si limitano ad aprire le finestre e a dare aria alle stanze, dato l'uomo non aveva ancora subito alcun danno].
In alcuni casi ad impedire la consumazione del reato non è un ostacolo esterno, ma un’iniziativa dell’agente stesso, il
quale, mutando proposito, recede dall’azione criminosa già intrapresa.
L’art.56 co.3 stabilisce: “Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti,
qualora questi costituiscano per sé un reato diverso” tale situazione prende il nome di desistenza volontaria.
L’art.56 co.4 stabilisce: “Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da
un terzo alla metà” tale situazione prende il nome di recesso attivo (o pentimento operoso).
■ Fondamento politico-criminale nell’ambito della nostra dottrina è ancora radicata l’idea che tanto la desistenza
volontaria, quanto il pentimento operoso trovino una legittimazione politico-criminale nella “teoria del «ponte d’oro»”,
in altri termini il nostro ordinamento, al fine di prevenire l’offesa ai beni giuridici, farebbe assegnamento sulla promessa
di impunità (o di riduzione significativa della pena nel caso del decesso attivo) come controspinta psicologica all’impulso
criminoso.
[N.B. Alla teoria del ponte d’oro sono state mosse due obiezioni di fondo:
- la funzione di incentivo per l’interruzione dell’attività criminosa presupporrebbe che tutti i rei conoscano la norma sulla desistenza;
- inoltre, l’idea stessa del «ponte d’oro» poggerebbe su concezioni psicologiche estranee alla realtà, perché il soggetto che delinque
è spinto da motivi di natura diversa, spesso è incapace di valutare razionalmente il pro e il contro delle sue azioni.
Tali obiezioni, purché non siano da sottovalutare, non sembrano tali da destituire di ogni fondamento la stessa teoria].
Una ragione giustificatrice del fondamento sostanziale della desistenza può essere individuata nell’ottica degli scopi
della pena e cioè sul duplice piano della prevenzione generale e della prevenzione speciale:
chi, di sua iniziativa, ritorna sui suoi passi, da un lato non rappresenta un esempio pericoloso per gli altri, e dall’altro
mostra di non possedere una volontà criminosa tanto forte da giustificare il ricorso ad una pena rieducativa.
Il tradizionale criterio discretivo tra desistenza e recesso La distinzione (≠) tra desistenza e recesso corre lungo
il filo che separa il tentativo incompiuto dal tentativo compiuto.
Le due figure vengono così distinte in base ad un criterio ex post che fa leva sull’esaurimento o no dell’azione esecutiva.
Così si ha desistenza volontaria finché l’agente recede da un’azione che non ha ancora completato il suo iter esecutivo:
[Ad es. il ladro di cui al CASO 43: che interrompe l’azione furtiva prima di essersi materialmente impossessato degli oggetti presi di mira
(tentativo incompiuto)]
Si ha un recesso attivo tutte le volte in cui l’azione criminosa si è compiutamente realizzata, ma l’agente riesce ad
impedire il verificarsi dell’evento lesivo: [è quanto accade nel CASO 44: In cui di Tizio che, dopo aver ferito Caio, chiede l’intervento
di un medico impedendone così la morte (tentativo compiuto)].
• L’art.49 co.2 stabilisce che: “La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per la inesistenza
dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso”.
L’art.49 co.4 aggiunge che: “il giudice può ordinare che l'imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza” (la libertà
vigilata ex art.215 ult.co).
Secondo l’interpretazione tradizionale questa norma sarebbe inutile, in quanto si limita ad esprimere «in negativo», i
requisiti positivamente richiesti per la punibilità del tentativo.
In questo senso il «reato impossibile» altro non sarebbe che un «tentativo impossibile»: invero, anche in mancanza di
una norma come quella in esame, l’«inidoneità dell’azione» o l’«inesistenza dell’oggetto materiale» avrebbero
giustificato l’impunità alla base dei principi generali che regolano il delitto tentato.
In particolare, la menzione esplicita dell’inesistenza dell’oggetto sarebbe superflua, in quanto anche la mancanza di
quest’ultimo elemento inciderebbe comunque sull’idoneità dell’azione come requisito che va accertato in concreto
tenendo conto delle circostanze in cui il fatto si svolge.
Concezione «realistica» dell’illecito penale Non pochi autori ritengono di poter trarre dall’art. 49.2 cpv, un
principio non limitato al campo del tentativo ma estendibile all’intero sistema penale: si tratterebbe del principio
generale che funge da criterio ispiratore della concezione per la quale non può esservi reato, senza una lesione o una
messa in pericolo “effettiva” del bene protetto («concezione realistica»).
La rilevanza pratica del principio di «necessaria lesività» emergerebbe, secondo la dottrina in esame, nei casi di
(pretesa) mancata corrispondenza tra «tipicità» e «offesa» al bene protetto.
Di fronte a condotte formalmente conformi alla fattispecie incriminatrice, ma di fatto «innocue» perché incapaci di
ledere l’interesse protetto, il ricorso al comma 2 dell’art.49, legittimerebbe quella valutazione «realistica» che porta ad
escludere l’esistenza del reato e, dunque, la punibilità del fatto.
[N.B. Due sono le obiezioni a questa concezione:
I) l’art.49 cpv, non informando in alcun modo sulla natura degli interessi tutelati, di per sé non può riuscire di ausilio nello
stabilire quando sussista la lesione o messa in pericolo del bene protetto: per cui è necessario desumere l’interesse tutelato dalle
singole fattispecie incriminatrici.
II) Ma proprio a questo punto che la teoria cade in contraddizione logica in quanto se il bene giuridico deve essere desunto dalla
«struttura della fattispecie», ne deriva che è impossibile ipotizzare un fatto conforme alla fattispecie astratta stessa ma non lesivo
del bene giuridico.]
Contro la tesi in discorso milita, infine, una giustificata preoccupazione che il suo accoglimento potrebbe rappresentare
una fonte di grave pericolo per lo Stato di diritto: se, difatti, il giudice dovesse far seguire, al giudizio di corrispondenza
tra fatto e modello legale, un ulteriore giudizio, che questa volta sarebbe relativo alla «effettiva» lesività,
allora risulterebbe minacciata la certezza del diritto e sorgerebbe il rischio di confondere le distinte funzioni giudiziaria e
legislativa.
11.1
Il rifiuto del recupero dell’art.49.2 cpv in chiave di «concezione realistica dell’illecito», non deve indurre a concludere
che la disposizione si limiti a riflettere, superfluamente, il mero “aspetto negativo” del delitto tentato.
Per comprendere la vera funzione assolta dall’art.49 all’interno del nostro sistema, si deve risalire alle ragioni storiche
che ne hanno determinato l’introduzione.
Il legislatore del 1930 ha dedicato una disposizione al reato impossibile per fugare ogni dubbio relativo all’irrilevanza
penale del tentativo assolutamente inidoneo in concreto a mettere in pericolo il bene protetto.
[N.B. Questo, in omaggio a quella concezione – del Carrara – secondo cui il pericolo insito nel tentativo deve essere «veramente
esistito come fatto», vale a dire come possibilità non soltanto supposta, ma di concreta e reale offesa o messa in pericolo del bene
giuridico].
Da questo punto di vista il tentativo esula, quando un fatto, pur astrattamente idoneo a raggiungere l’obiettivo
perseguito, al momento dell’azione, per la presenza di circostanze che ne rendono in concreto impossibile la
realizzazione, non potrebbe in ogni caso sfociare in un delitto consumato.
Per accertare se il bene in questione abbia corso un reale pericolo bisogna compiere in primis la verifica del giudizio
prognostico su “base parziale” ex art.56 nella sola ottica del soggetto agente.
A questa prima verifica, se ne deve aggiungere una seconda, compiuta questa volta su “base totale” nell’ottica della
vittima come titolare del bene posto in pericolo: il che vuol dire che lo stesso criterio della «prognosi postuma», già
Verrà ora applicato non solo tenendo conto delle circostanze conosciute o conoscibili da parte dell’agente al momento
dell’azione, ma di tutte le circostanze presenti nella situazione data, quale che sia il momento in cui vengono conosciute.
[Alla base di queste considerazioni va risolto il CASO 46, ad una valutazione ex ante condotta sul metro delle conoscenze medie, il
comportamento del borsaiolo integra atti idonei a commettere il delitto di furto; ma, riconsiderando il fatto sul versante della potenziale
vittima, con al consapevolezza della inesistenza del denaro sottraibile, lo stesso gesto del borsaiolo ci apparirà ex ante inidoneo a
commettere il furto, in quanto non si può derubare chi non ha denaro: manca come riconosce l’art.49 cpv l’oggetto dell’azione.]
Le stesse considerazioni valgono rispetto al tentativo impossibile per «inidoneità della condotta».
[Si ipotizzi che un furto progettato non venga portato a compimento per la predisposizione della forza pubblica, che rende l’azione dei ladri
inidonea a conseguire l’obiettivo. Ad escludere il tentativo non basta la mera esistenza di cause esterne di ostacolo: cosi nel caso ora
accennato non basterebbe la semplice predisposizione della polizia, ma occorrerebbe accertare che la polizia è presente con forze e mezzi
tali da far ritenere, con la certezza, impossibile la realizzazione del reato.]
I casi di tentativo inidoneo, se non mettono in pericolo il bene protetto, possono tuttavia assurgere ad indici di uno
stato di pericolosità sociale dell’agente, ed è per questa ragione che il giudice può, ai sensi dell’art.49 co.4, ordinare che
il prosciolto sia sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata ex art.215 c.p.
2.1) Le ragioni dell’opzione del Codice Rocco per il «modello causale» o «unitario».
Il legislatore codicistico del 1930, realizzando un’inversione rispetto al codice Zanardelli del 1889, ha optato per il
modello di «tipizzazione unitaria» basato sul criterio di «efficienza causale della condotta» di ciascun concorrente.
L’art.110 infatti, piuttosto che operare distinzioni tra i diversi «ruoli» dei concorrenti (autore, partecipe, complice, istigatore)
si è limitato a statuire che «quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo
stabilita»: ciò vuol dire che concorre a pari titolo chi apporta un contributo qualsiasi, purché dotato di rilevanza causale
nell’ambito della realizzazione collettiva del fatto.
[N.B. Le ragioni che hanno sollecitato l’inversione sono molteplici:
Il retroterra culturale che era in buona parte influenzato dal pensiero «positivistico-naturalistico» incline a valorizzare il «dogma
della causalità» anche sul terreno dei presupposti della responsabilità penale.
D’altra parte, una volta accolto il principio dell’«equivalenza causale»* negli artt.40 e ss., ragioni di coerenza sistematica
imponevano di orientare la disciplina del concorso secondo il criterio dell’equivalenza causale dei contributi dei singoli concorrenti.
Nello stesso tempo, era forte l’influenza del «positivismo criminologico» di matrice lombrosiana, che portava a sminuire
l’importanza di una diversificazione delle responsabilità individuali operata sulla tipizzazione del fatto, e a privilegiare il valore
sintomatico dei singoli contributi per dedurne elementi di valutazione della «pericolosità sociale».
Vi erano però anche sollecitazioni provenienti dalla prassi, sul cui versante si lamentava la mancanza di sicuri criteri di demarcazione
che consentissero di distinguere senza incertezze tra le diverse forme di partecipazione.
Infine non va trascurato che le scelte politico-criminali sottese alla riforma del concorso costituivano, una proiezione delle “tendenze
autoritario-repressive” tipiche della politica penale del 1930: in questo senso, la rinuncia alla distinzione tra compartecipanti primari
e secondari corrispondeva ad una sorta di rottura con i principi liberal-garantisti, che avrebbero ostacolato una più massiccia
repressione degli episodi di reità plurisoggettiva].
[*equivalenza causale: per aversi un rapporto di causalità basta che l’agente (anche concorrente) abbia realizzato una condizione qualsiasi
dell’evento, atteso che tutte le condizioni sono equivalenti. (Porta ai limiti analizzati in sede di “teoria condizionalistica della condicio”)].
Tuttavia, similmente a quanto avvenuto nella vicenda della disciplina del tentativo, neppure stavolta il legislatore
fascista è riuscito a rompere completamente i ponti col passato.
Invero, la distinzione tra compartecipazione «primaria» e «secondaria», uscita dalla porta (art.110) è rientrata
attraverso la finestra, cioè dal varco aperto dall’art.114 dove si legge: «il giudice, qualora ritenga che l’opera prestata da
talune delle persone che sono concorse nel reato a norma dell’art 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o
nell’esecuzione del reato, può diminuire la pena».
Orbene, parlare di “contributo di minima importanza” non equivale, in contrasto con la premessa della «pari
responsabilità» fondata sull’equivalenza causale, a respingere l’appiattimento delle responsabilità individuali, e
a recuperare, in maniera mascherata, la distinzione tra partecipi «primari» e «secondari»
Ma, quale che siano le obiezioni opponibili alla teoria dell’accessorietà, bisogna ammettere che la teoria della
«fattispecie plurisoggettiva eventuale» spiega meglio, sul piano logico-formale, il fenomeno della punibilità delle
condotte atipiche. Tuttavia, non si va al di là di un approccio dogmatico logico-astratto.
Resta, infatti, insoluto il problema dei «criteri idonei» a determinare la rilevanza penale delle semplici condotte di
partecipazione nei confronti della fattispecie concorsuale, quale fattispecie autonoma e diversa rispetto alla fattispecie
monosoggettiva.
[N.B. La soluzione a tale problema non è fornita dalla teoria meramente «nomologica» della fattispecie plurisoggettiva eventuale.
È a questo punto che emergono i più gravi inconvenienti della vigente disciplina legislativa del concorso criminoso, laddove, in
carenza di una tipizzazione legale delle varie forme di concorso, resta alla dottrina ed alla giurisprudenza il compito di fissare i
requisiti minimi della partecipazione penalmente rilevante].
7) Concorso morale
Le forme del concorso morale Il contributo del compartecipe può manifestarsi anche sotto forma di impulso
psicologico ad un reato materialmente commesso da altri.
Nell’ambito del concorso morale si è soliti distinguere:
il determinatore: è il compartecipe che fa sorgere nell’autore un proposito criminoso prima inesistente.
l’istigatore: è colui che si limita a rafforzare o eccitare in altri il proposito criminoso già esistente.
A queste due figure corrisponde un diverso disvalore.
Chi suscita un intento criminoso (determinatore) assume, nei confronti della lesione del bene, un ruolo più decisivo rispetto a
chi si limita ad eccitare un proposito delittuoso già formatosi (istigatore).
[N.B. In altri ordinamenti i due ruoli ricevono una configurazione giuridica autonoma e un differenziato trattamento punitivo].
Nel codice italiano questa differenziazione non ha luogo, il termine «istigazione» viene impiegato come comprensivo di
ogni forma di partecipazione psichica.
La rilevanza penale dell’istigazione è desumibile “a contraris” dall’art.115 co.3, che stabilendo la non punibilità
dell’istigazione rimasta sterile, riconosce implicitamente che, quando l’istigazione viene accolta ed il reato è commesso,
l’istigatore ne risponde a titolo di concorso.
Valorizzando l’aggancio della figura dell’«istigazione» al diritto positivo dato dall’art.115 co.3 si è affermato che «chi
istiga non risponde per aver posto in essere un antecedente causale… ma per aver tenuto una condotta rispondente al modello
legale, perciò tipica».
Con questo volendo dire che nel nostro ordinamento assumono rilevanza non solo le condotte istigatorie che pongono
un antecedente causale, ma anche quelle che si limitano a rinsaldare l’altrui proposito criminoso.
La causalità «psicologica»
È vero che, nell’ambito delle “relazioni interpersonali” la prova dei legami causali è più difficile di quella operabile sul
terreno degli eventi fisici, tanto che si dubita che la causalità psicologica sia una vera forma di causalità.
Ma, quale che sia la posizione più corretta dal punto di vista “epistemologico” (cioè della conoscenza scientifica), nulla
autorizza a limitarsi ai soli «giudizi di tipo prognostico»: come se la condotta di partecipazione psichica potesse essere
individuata solamente in base alla sua generica attitudine a funzionare quale rafforzamento dell’altrui convincimento.
Così come nel caso del concorso materiale, anche per il concorso morale bisogna accertare caso per caso l’effettiva
influenza sulla psiche dell’esecutore materiale del reato.
[N.B. Difatti, alla stessa stregua del concorso materiale, là dove è da escludere la complicità quando manchi una condotta fisica che,
considerata ex post, risulti avere almeno agevolato la commissione del reato, allo stesso modo, nel concorso morale, è da escludere
la complicità morale, quando si prescinda da una «effettiva influenza» sulla psiche dell’esecutore materiale del reato.]
Le condotte istigatorie possono avvalersi di vari mezzi: mandato, consiglio, suggerimento.
A seconda delle circostanze, può sortire un impulso efficace anche un’apparente dissuasione.
È, comunque, da escludere che sia sufficiente ad integrare la complicità morale, la connivenza o l’adesione psichica, sia
pure espressamente manifestata a chi esegue il reato: (è questa la situazione CASO 48: A uccide B in presenza di un proprio
congiunto che si compiace dell’accaduto. E, nonostante il contrario avviso della giurisprudenza, va, allo stesso modo, esclusa la
responsabilità penale anche nel CASO 49: chi permanga sul posto dopo il primo lancio di materie esplodenti effettuato da altri, e rimanga
sul posto con atteggiamento aggressivo, non va al di là di una manifestazione di compiacimento).
8.1) Il concorso doloso nel delitto colposo; concorso colposo nel delitto doloso
È controversa l’ammissibilità di una partecipazione dolosa in un delitto colposo, e, allo stesso modo, è discussa la
partecipazione colposa a delitto doloso.
► Concorso doloso a delitto colposo l’autore si pone in veste critica e afferma che se si negasse la configurabilità
della figura della “partecipazione dolosa a reato colposo”, resterebbero impunite condotte dolose che concorrano
nell’altrui fatto colposo.
[Si pensi che Tizio spinga Caio, già versante in errore inescusabile sulla natura tossica dei veleni che maneggia, a versarla nelle acque
destinate all’alimentazione allo scopo, di cui Caio è ignaro ma voluto da Tizio, di provocare un avvelenamento che poi si verifica.
Ebbene, in un caso siffatto:
a) Tizio non ha realizzato l’azione esecutiva.
b) Non risulta applicabile l’art.48 a Tizio (errore determinato dall’altrui inganno) perché Caio versa in una situazione di errore inescusabile.
c) Non sussistendo a carico di Tizio i presupposti di una azione colposa, in quanto egli «si rappresenta e vuole» l’avvelenamento, l’unico
modo per colpirne il comportamento sembrerebbe consistere nel configurarlo come partecipazione dolosa atipica, incriminabile solo in
quanto «concorrente» di un delitto colposo altrui.
Senonché, contro la possibilità che più partecipi rispondano del medesimo fatto a titoli diversi, militano diversi argomenti:
l’art.110 stabilendo il fenomeno del concorso di persone nel reato si riferisce al medesimo reato, parrebbe legittimare una
«concezione unitaria» della partecipazione criminosa. Se così fosse, imputare il medesimo fatto a titoli soggettivi diversi sarebbe da
escludere e anzi si accoglierebbe una concezione del concorso come istituto costituito da una pluralità di reati dando luogo ad una
«concezione c.d. pluralistica»
sul piano giuridico-positivo, quando il legislatore ha voluto sanzionare la partecipazione allo stesso reato a titoli diversi lo ha fatto
espressamente; si pensi all’art.116, che considera concorrenti soggetti che rispondono, rispettivamente, a titolo di dolo e
responsabilità oggettiva. Da ciò sembra lecito dedurre “a contrario” che il fenomeno della diversità del titolo è l’eccezione, mentre
la regola è che allo stesso reato più concorrenti rispondano al medesimo titolo.
Poi, rimane un dato di fondo: è dubitabile che le ipotesi inquadrabili nella figura della partecipazione dolosa a delitto colposo, siano
poi tali da acquisire rilevanza penale tale da far apparire come un intollerabile vuoto di tutela la rinuncia alla loro incriminazione].
In sintesi estrema, la sua configurabilità è ammessa da chi ritiene autonoma la posizione di ciascun concorrente, mentre è
negata da chi, come il nostro, ritiene necessariamente interdipendenti le posizioni dei concorrenti ed esclude la possibilità
di imputare il medesimo fatto a titoli soggettivi diversi.
► Concorso colposo a delitto doloso Ancora più problematico l’accoglimento della figura del «concorso colposo in
delitto doloso» (Esempio: Tizio consegna ad una donna un veleno topicida supponendo che lo voglia utilizzare per uccidere i ratti, pur
essendo a conoscenza dell’astratto proposito di lei di uccidere il marito, cosa che puntualmente avviene).
Accanto a ciò già accennato, si aggiungono ulteriori valutazioni specifiche per questa presunta forma di concorso.
Secondo un principio generale del nostro ordinamento, applicabile anche al concorso, la responsabilità colposa
presuppone una espressa previsione legislativa (art.42 co.2).
[N.B. Ne costituisce conferma propria la disposizione di cui all’art.113 che, ammettendo espressamente la sola «cooperazione nel
delitto colposo» esclude implicitamente la «cooperazione nel delitto doloso».
A tutte queste considerazioni si aggiunga che la recente evoluzione della teoria della colpa penale circoscrive l’ambito del «dovere
obiettivo di diligenza» entro i limiti il più possibile compatibile con il carattere «personale» della responsabilità penale].
In sintesi estrema, deve senz’altro escludersi il concorso doloso in delitto colposo per la mancanza di una norma che, in
ossequio al disposto ex art.42 co.2, lo preveda.
Interpretazione correttiva della Corte Costituzionale. Per mitigare l’esasperato rigore di una responsabilità
fondata sul solo “nesso causale”, una giurisprudenza minoritaria, sin dall’immediato dopoguerra, subordinava la
punibilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto all’ulteriore requisito della «previsione» dell’evento.
Nonostante questi tentativi il prevalere, da un lato dell’orientamento ermeneutico più rigoristico, dall’altro la
progressiva valorizzazione della personalità della responsabilità penale, indussero ad eccepire il contrasto dell’art.116,
con l’art.27 co.1 Cost.
La Corte Costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha respinto l’eccezione, asserendo che la
responsabilità configurata dall’art.116 poggia sulla «sussistenza non soltanto di un rapporto di causalità materiale, ma
anche di un rapporto di causalità psichica».
La causalità psichica concepita nel senso che «il reato diverso più grave commesso dal concorrente debba potere
rappresentarsi alla psiche dell’agente, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi, in tal modo, anche
la necessaria presenza di un coefficiente di colpevolezza».
Nel solco di questa sentenza, la giurisprudenza ordinaria propende per la tesi che i presupposti della responsabilità ex
art.116 siano due:
- in primo luogo, il “rapporto di causalità” tra l’azione di ogni partecipe e il reato diverso da quello programmato;
- in secondo luogo, la prevedibilità di tale reato diverso non voluto.
[N.B. In ordine alla prevedibilità del reato si registrano due varianti interpretative:
a) per un primo indirizzo è sufficiente la prevedibilità in astratto, nel senso che l’illecito non voluto deve appartenere al tipo astratto
di quelli che si prospettano come sviluppo del reato originariamente voluto. Tale prevedibilità in astratto fa rifermento ad un
rapporto tra fattispecie incriminatrici poste a priori a confronto (furto e rapina, lesioni personali ed omicidio, etc.);
b) un secondo indirizzo, che tende ad affermarsi nella giurisprudenza di merito, meglio corrispondente alla rilettura in chiave
costituzionale, deve invece sussistere la prevedibilità in concreto.
Occorre, cioè, tenere conto di tutte le circostanze relative alla singola vicenda concreta, non basta che tra i tipi di reato raffrontati
(quello voluto e quello realizzato) ci sia un rapporto di sostanziale omogeneità, ma è necessario individuare:
Innanzitutto, il concreto piano di azione dei concorrenti.
Sulla base del piano di azione, verificare se le modalità concrete di svolgimento del fatto lasciassero prevedere un esito
deviante del tipo di quello avveratosi].
In virtù di questa seconda reinterpretazione correttiva la responsabilità ex art.116 perde i suoi connotati rigidamente
oggettivo - causali tendendo ad orientarsi verso un modello di imputazione colposa.
L’art.116 si applica anche nei casi in cui insieme col reato concordato se ne commetta un altro che costituisce un
prevedibile sviluppo del primo.
Tale disciplina si applica a prescindere dalla maggior o minore gravità del reato non voluto.
Tuttavia, nel caso in cui il reato non voluto sia meno grave il giudice deve applicare una diminuzione di pena per chi
volle il reato meno grave. È una circostanza attenuante che segue la relativa disciplina.
13) Il concorso nel reato proprio
Il concorso nel reato proprio esclusivo Si riconosce ormai pacificamente che un soggetto privo della qualità
personale (c.d. extraneus) possa concorrere alla commissione di un reato proprio, realizzabile (monosoggettivamente)
solo da un soggetto qualificato (c.d. intraneus): è questa l’ipotesi del concorso nel reato proprio.
Anche il concorso nel reato proprio rientra nella disciplina dell’art.110, sicché l’estraneo, nonostante non possegga la
qualifica richiesta, risponde del suo comportamento di compartecipe nel reato proprio allo stesso titolo dell’intraneus.
Nel caso di «reato proprio esclusivo» l’extraneus è punibile a titolo di concorso nel reato proprio, a due condizioni:
A. che l’azione tipica venga posta in essere dall’intraneus, cioè dalla persona che riveste la qualifica richiesta per la
commissione del fatto (esempio: pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per il peculato)
B. l’extraneus conosca la qualità dell’intraneus.
[N.B. La qualifica dell’intraneus è a volte determinante ai fini dell’esistenza stessa del reato altre volte comporta il mutamento del
titolo di reato (esempio: appropriazione indebita diventa peculato se commessa da pubblico ufficiale)].
Il concorso nel reato proprio non esclusivo V’è però da chiedersi come sia possibile risolvere il problema nel
caso che l’estraneo ignori la qualità posseduta dal concorrente intraneo.
Funzione dell’art.117 Secondo la comune interpretazione, proprio a tale situazione fa riferimento l’art.117, a
mente del quale «Se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l'offeso, muta il titolo
del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi anche gli altri rispondono dello stesso reato . . . ».
Si tratta di una disciplina che ha l’obiettivo di estendere l’incriminazione a «titolo di reato proprio» (con pene molto più
severe) anche ai soggetti che, in base ai principi generali, non dovrebbero risponderne.
Ciò sul presupposto di evitare che alcuni concorrenti rispondano di un certo reato ed altri a titolo diverso, solo perché
intervengano particolari qualità o particolari rapporti di un concorrente con la persona offesa.
È una scelta legislativa analoga a quella recepita nell’art.116 (aberratio delicti concorsuale).
In altri termini, l’art.117 regola espressamente una ipotesi di reato diverso dovuta non già (come nell’art. 116) ad una
divergenza tra reato programmato e reato eseguito, bensì alla posizione soggettiva di taluno dei concorrenti.
E, analogamente alla disciplina dell’art.116, anche l’art 117 introduce una forma di «responsabilità oggettiva» perché il
soggetto risponde di un fatto diverso da quello voluto: ed invero, contrasta con i principi dell’imputazione dolosa che un
partecipe debba rispondere di concorso in un reato «proprio», pur ignorando la qualifica posseduta dall’intraneo.
L’interpretazione correttiva dell’art.117
Senonché, parte della dottrina per superare il rigore oggettivistico della norma, esclude che la norma in esame deroghi ai normali
principi del concorso nel reato proprio come disciplinato dall’art.110, sicché si esige che, in entrambi i casi (artt.110 e 117),
l’estraneo sia a conoscenza della qualifica dell’intraneo.
[N.B. In questa prospettiva il progetto di riforma del 1973 e lo schema di delega legislativa elaborato nel 1992].
13.1) Il rispettivo ruolo dell’intraneo e dell’estraneo nell’esecuzione del fatto
Si discute se l’art.117 presupponga una determinata distribuzione di ruoli tra intraneo ed estraneo.
In altri termini, ci si chiede perché si verifichi il mutamento del titolo di reato è necessario che sia l’intraneus a porre in essere
l’attività esecutiva, o il ruolo dell’esecutore può essere assunto anche dall’estraneus?
L’art.117 omette di specificare le circostanze nelle quali ha luogo il mutamento del titolo del reato.
In presenza di tale omissione, non resta che farsi guidare dall’interpretazione della fattispecie di parte speciale di volta in
volta considerata.
[Esempio: così, nel caso del peculato, “legittimato” ad eseguire l’azione è solo l’intraneus, soggetto con qualità di pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio.Ne consegue che, ove il pubblico ufficiale, si limitò ad agevolare il furto di un terzo sprovvisto di qualifica, il
mutamento del titolo sarà escluso e si configurerà, ex art.110, il semplice concorso in furto.
In questi casi sarebbe errato limitare il concetto di attività esecutiva all’aspetto meramente naturalistico del fatto (nell’esempio: gesto
materiale della appropriazione di cose mobili), infatti ove il pubblico ufficiale mantenesse un controllo effettivo del fatto e l’inserviente si
limitasse ad aprire la cassaforte e prelevarne il denaro, si configurerebbe il concorso in peculato ex art.117 per entrambi i compartecipanti].
La lettura secondo i canoni della teoria plurisoggettiva secondo i fautori della «teoria plurisoggettiva
eventuale», ai fini della configurabilità del «concorso in reato proprio» sarebbe indifferente, invece, il ruolo dell’intraneo
nella esecuzione del fatto: (di conseguenza si configurerebbe pur sempre il concorso in peculato, anche quando l’intraneo
fornisse un contributo atipico alla condotta appropriativa dell’inserviente).
La circostanza attenuante facoltativa stabilisce l’art.117 ultima parte: «Nondimeno, se questo è più grave il giudice
può, rispetto a coloro per i quali non sussistano le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena ».
Secondo l’orientamento giurisprudenziale, tale attenuante è applicabile al solo soggetto terzo (extraneus) ignaro della
qualifica dell’intraneo.
14) Comunicabilità delle circostanze. Art.118.
[N.B. La precedente disciplina distingueva tra circostanze soggettive ed oggettive:
le soggettive si applicavano solo ai concorrenti a cui si riferivano, salvo non fossero servite ad agevolare l’esecuzione del
reato (esempio, l'aggravante della qualità di coniuge).
Non si estendevano mai le circostanze soggettive inerenti alla persona del colpevole (e cioè recidiva ed imputabilità).
le oggettive tanto attenuanti che aggravanti, erano sempre valutate rispettivamente a favore o a carico di tutti i
concorrenti, anche se non conosciute da uno dei compartecipi].
In seguito alla riforma ad opera della legge 19/1990, l’art.118 stabilisce che “le circostanze che aggravano o diminuiscono
le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole
(imputabilità e recidiva) sono valutate solo riguardo alla persona a cui si riferiscono ”.
Posta quindi la regola della “inestensibilità” agli altri compartecipi delle circostanze, sia aggravanti che attenuanti, ci si chiede
a quale tipo di disciplina soggiacciano le circostanza diverse da quelle menzionate.
Nel silenzio della legge si ritiene che le circostanze diverse da quelle menzionate soggiacciono all’art.59:
Le aggravanti (per le quali vige il principio di colpevolezza) si applicano solo ai concorrenti che ne abbiano avuto
conoscenza effettiva o soltanto potenziale.
Le attenuanti, per la loro rilevanza oggettiva, sono estendibili a tutti i partecipanti (salvo quelle a carattere
soggettivo menzionate nell'art.118).
Se le cause di giustificazione fanno venir meno il contrasto tra il fatto tipico e l'ordinamento giuridico, rendendo lecito il
fatto medesimo, la liceità di esso non può non proiettarsi su tutte le condotte che concorrono alla sua realizzazione.
Sezione I – TIPICITA’
1) Premessa
Negli ultimi decenni si è assisto ad un impressionante aumento della criminalità colposa (es: i numerosi incidenti stradali e
le accresciute potenzialità di danno c.d. anonimo scaturenti dal moderno processo produttivo).
Da qui l’esigenza di un maggiore approfondimento dogmatico della struttura del delitto colposo, che ha infine indotto la
dottrina più recente a costruire la fattispecie colposa in modo separato ed autonomo (≠) rispetto al modello doloso.
Diversamente da quanto si è sostenuto, il «reato colposo» non costituisce soltanto una seconda e meno grave forma di
colpevolezza da affiancare al «dolo». Esso rappresenta un «modello specifico di illecito penale», dotato di “struttura” e
“caratteristiche” proprie, che emergono già sul piano della «tipicità» e che si riflettono sul terreno della «colpevolezza».
[N.B. L’evoluzione della responsabilità colposa nel corso degli ultimi decenni ha messo in evidenza un progressivo processo di
concretizzazione e specificazione del giudizio di colpa, nel senso che si è assistito al passaggio da una generale e unitaria figura di colpa a
tipologie di colpa, connotate (almeno in parte) diversamente in funzione delle peculiarità strutturali e delle aspettative politico-criminali di
tutela connesse ai diversi settori o campi di materia che vengono in rilievo: colpa medica, colpa del datore di lavoro, colpa stradale, ecc.
In presenza di questa frammentazione per settori delle figure di colpa, il problema di fondo è divenuto quello di fissare presupposti comuni
da porre a fondamento irrinunciabile di ogni fatto colposo penalmente rilevante].
In coerenza con la scelta metodologica adottata nel Fiandaca-Musco tratteremo prima la «tipicità», poi l’«antigiuridicità» e quindi la
«colpevolezza» nell’illecito colposo «commissivo», costituendo l’illecito colposo «omissivo» un ulteriore modello di reato dotato di specifiche
caratteristiche.
■ Fonte giuridica. La fonte delle regole cautelari può essere anche «giuridica» o scritta: a ciò allude l’art.43 quando
parla di inosservanza di «leggi, regolamenti, ordini o discipline» (colpa specifica).
Anzi, nel mondo attuale, si assiste al fenomeno di una “crescente” positivizzazione delle regole di prudenza intese a
disciplinare le situazioni di pericolo più tipiche e più rilevanti (si pensi alla circolazione stradale, o alla normativa sulla prevenzione
degli infortuni sul lavoro).
Leggi a «specifica» finalità precauzionale In relazione al concetto di «leggi» il problema interpretativo più
importante verte sulla possibilità di ricomprendere anche le leggi penali genericamente intese fra le regole di prudenza.
Qualche autore ha sostenuto che data la duplice funzione repressiva e preventiva della norma penale, questa, nello
stesso momento in cui punisce una condotta per la violazione di una regola in essa contenuta, ammonisce, in sede
preventiva, sulla pericolosità della condotta stessa: se ne dovrebbe ad es. dedurre che l’art.575, nel vietare la realizzazione
dolosa di un omicidio, lanci contemporaneamente l’ammonimento di non compiere azioni omicide dovute ad errori di esecuzione.
Ma, a parte l’evidente assurdo psicologico di pretendere da uno stesso soggetto (ad es. di non uccidere volontariamente
o, in caso contrario, di uccidere con cautela), l’obiezione da muovere a tale impostazione è la seguente: nel nostro
ordinamento la colpa consiste non già nella causazione di un evento unita alla violazione di una qualsiasi norma, ma
nella trasgressione di una norma avente una «specifica finalità cautelare», più precisamente di una norma avente a
contenuto l’impedimento di eventi lesivi involontari connessi allo svolgimento di attività lecite.
Se è così, nel concetto di legge di cui all’art.43 co.3 potrà rientrare non una qualsiasi legge penale, ma solo quella legge
penale che abbia specifica finalità precauzionale.
■ Le altre fonti normative Il codice, dopo le leggi, enumera i “regolamenti, gli ordini o le discipline”.
[Si tratta di fonti normative che costituiscono oggetto di studio nel diritto costituzionale e nel diritto amministrativo].
Per la ricostruzione della colpa specifica, va ricordato che i regolamenti contengono norme a carattere generale
predisposte dall’Autorità pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività (esempio: il regolamento di esecuzione
del codice della strada).
Gli ordini e le discipline contengono norme indirizzate ad una cerchia specifica di destinatari e possono essere emanati
sia da Autorità pubbliche che Autorità private (esempio: disciplina interna di una fabbrica).
Va precisato che la responsabilità colposa non viene meno, dove la regola precauzionale violata sia contenuta in un
regolamento o in altra fonte scritta eventualmente viziata da invalidità formale, poiché ciò che conta è che la regola di
condotta violata corrisponda davvero ad una norma precauzionale adatta al caso di specie.
[N.B. Vantaggi e inconvenienti della positivizzazione delle regole precauzionali la predeterminazione legale delle regole di
prudenza garantisce la certezza del diritto maggiormente rispetto alle norme sociali di condotta applicate sul terreno della “colpa
generica”. Ma, a fronte di questo vantaggio, la “colpa specifica” presenta un grave inconveniente: se la semplice difformità della condotta
concreta dalle norme scritte basta a far presumere, “iuris et de iure” (indica la presunzione giuridica che non ammette una prova
contraria), l’esistenza della colpa, e se poi l’evento tipico causato da quella condotta viene addossato all’agente solo sul presupposto del
rapporto di causalità, allora per tutti i reati colposi con evento l’avvento della positivizzazione delle regole di prudenza segna il ritorno alla
responsabilità per il mero versati “in re illicita” («chi versa nell'illecito, risponde anche per il caso fortuito»).
Si ipotizzi che un motociclista, che percorre in un centro abitato ad una velocità di 60 km/h quindi superiore alla prescritta velocità di 50 km/h,
investa un bambino che attraversa improvvisamente la strada: basterebbe, per pervenire ad una affermazione di responsabilità, accertare il nesso
causale azione-evento e la violazione della regola scritta di velocità, qualora si potesse stabilire che il mantenimento della velocità prescritta non
sarebbe valso a evitare l’evento?]
Occorre di volta in volta verificare se le norme scritte esauriscano la misura di diligenza richiesta all’agente nelle
situazioni considerate: solo in questo caso l’osservanza di tali norme esclude la responsabilità penale. In caso contrario,
ove invece residui uno spazio di esigenze preventive non coperte dalla disposizione scritta, il giudizio di colpa può
tornare a basarsi sull’inosservanza di una generica misura precauzionale (es: un motociclista pur rispettando il limite massimo della
velocità prescritta pur accorgendosi che, nelle immediate vicinanze, alcuni bambini salgono e scendono pericolosamente dai marciapiedi: qui la
vicinanza dei bambini che giocano rende riconoscibile una situazione di pericolo scongiurabile con ulteriori misure cautelari rispetto alla mera
osservanza del limite massimo della velocità prescritta dal codice della strada. In caso di incidente il motociclista risponderà penalmente.).
La responsabilità per il «tipo di produzione» La soluzione dei conflitti tra valori contrapposti, che insorgono sul terreno
del c.d. rischio consentito, diventa particolarmente impegnativa in materia di responsabilità per il «tipo di produzione» (cioè per la
specie di attività produttiva svolta da una determinata impresa), laddove si tratti di attività pericolosa e dove, da un lato, sia assente
una previsione legale di misure precauzionali e, dall’altro, sia carente il sistema di controllo preventivo dell’autorità amministrativa.
In casi di questo tipo, drammaticamente esemplificati dalla nota vicenda di Seveso, non è la formula del «rischio consentito», in sé
vuota, a fornire la soluzione del conflitto tra interessi dell’imprenditore a produrre ciò che vuole e la salvaguardia della salute e della
vita di tutti i soggetti minacciati dalla produzione di sostanze pericolose: se l’osservanza dell’obbligo della necessaria prudenza
imponga addirittura la rinuncia a realizzare l’attività produttiva pericolosa, è giudizio ex post che resta affidato al giudice e che può
essere emesso solo in base a delicati bilanciamenti di interessi, che tengono contemporaneamente conto della tutela della salute,
delle esigenze occupazionali e delle stesse esigenze dell’economia. Come si vede, valutazioni e bilanciamenti che sarebbe opportuno
non affidare al solo giudice penale.
In realtà, formule come quelle del «rischio consentito» e «adeguatezza sociale» costituiscono il risultato di una
valutazione operata secondo «criteri meramente fattuali»: cioè si ritiene consentito ciò che di fatto viene tollerato dalla
comunità sociale; con la conseguenza di legittimare una prassi in cui il grado di pericolosità dei comportamenti tollerati
sopravanza il grado di utilità che essi producono a beneficio delle collettività.
Un criterio giuridicamente più vincolante di individuazione preventiva dell’area del rischio consentito può essere offerto
dal riferimento alle autorizzazioni amministrative che rendono esplicitamente lecito lo svolgimento di determinate
attività, subordinandone l’esercizio al rispetto di precise norme cautelari.
b) Mancato impedimento del fatto doloso del terzo rimane da accennare alle ipotesi nelle quali la misura cautelare ha
per oggetto l’impedimento di un comportamento doloso del terzo.
Va rilevato che quando l’azione dolosa è frutto di una libera scelta del soggetto che ne è autore, vale a maggior ragione il
principio dell’autoresponsabilità: ciascuno risponde delle proprie azioni deliberate in modo libero e responsabile.
(Alla base di questo principio appare aberrante la condanna inflitta dai giudici spagnoli al giornalista, di cui al CASO 54: la denuncia su un
settimanale del nome di due attivisti politici subito dopo uccisi da un’organizzazione terroristica di opposta tendenza politica non può
qualificarsi come «imprudente» nel senso del diritto penale, in base alla semplice ragione che un giornalista non è tenuto ad impedire che
terzi soggetti “autoresponsabili” commettano, per libera scelta, un’azione omicida. D’altra parte, a volere ritenere diversamente, si
graverebbe l’attività giornalistica di tali cautele, da incidere su aspetti essenziali del suo svolgimento: ma cosi rimarrebbe inammissibilmente
sacrificato il diritto all’informazione).
◊ Eccezioni al principio di autoresponsabilità il principio dell’autoresponsabilità vigente rispetto alle azioni dolose dei terzi,
non è illimitato, ma patisce qualche eccezione.
- Un primo limite si ha in quei casi, nei quali un soggetto rivesta una posizione di garanzia avente a contenuto la difesa di un bene
rispetto anche alle aggressioni dolose di terzi che intendono minacciarlo: (si pensi ad es. ad una guardia del corpo assunta per
proteggere contro possibili aggressioni di terzi malintenzionati).
- Un secondo limite può venire in questione in rapporto al controllo di fonti di pericolo (armi, veleni, esplosivi, ecc.) di cui un terzo
possa fare uso al fine di commettere un illecito doloso, quando però particolari conoscenze dell’agente o le circostanze concrete
siano tali da rendere particolarmente elevata la probabilità che il terzo stesso ne profitti: (ad es. se Tizio, in stato di violenta agitazione,
chiede a Caio una pistola in prestito e questi gliela fornisce nonostante sappia che Tizio ha poco tempo prima provocato lesioni alla moglie, non
appare irragionevole prospettare la possibilità di una responsabilità di Caio a titolo di colpa per l’omicidio poi di fatto commesso da Tizio).
Efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito: orientamenti Una parte della dottrina colloca la problematica del
comportamento alternativo lecito nella categoria della “causalità” quale criterio di imputazione oggettiva dell’evento: causalità a
sua volta concepita non già in senso “meramente naturalistico” ma in senso giuridico; ragioni per cui si sottolinea che la causalità
penalmente significativa è quella che intercorre tra l’evento e una condotta necessariamente qualificata in termini di illiceità.
Trattandosi di una questione di causalità penalmente rilevante, se ne ricava quale ulteriore implicazione, ai fini di un’affermazione di
responsabilità penale nell’ambito dei reati sia commissivi che omissivi, occorre dimostrare, con rigore, l’efficacia impeditiva del
comportamento alternativo lecito: supponendo mentalmente come realizzata l’azione conforme al dovere cautelare (di fatto
violato), è necessario ipotizzare che questa sarebbe valsa ad evitare il verificarsi dell’evento con una probabilità vicina alla certezza.
Nei casi in cui rimane dubbia l’evitabilità dell’evento, perché non è esclusa la possibilità che questo si verifichi ugualmente
nonostante l’osservanza della misura cautelare, il principio “in dubio pro reo” induce a negare un “nesso di causalità” penalmente
rilevante e, di conseguenza, la responsabilità penale.
Tale impostazione subisce delle obiezioni sotto un profilo valutativo e politico-criminale. Vien da chiedersi, infatti, se sia giusto o
se sia opportuno privilegiare a tal punto le ragioni dell’imputato, in base al principio in dubio pro reo, da escludere la responsabilità
colposa quando sia ipotizzabile che l’osservanza della misura cautelare avrebbe avuto, se non la certezza o la quasi certezza, almeno
serie probabilità di evitare l’evento.
Anche per evitare di restringere eccessivamente l’ambito della responsabilità penale, con conseguente sacrificio di esigenze di
prevenzione generale, ecco che una parte maggioritaria della dottrina contemporanea esclude che la problematica del
comportamento alternativo lecito abbia a che fare con la causalità: si opta per un inquadramento della questione nell’ambito della
colpa in combinazione con l’impiego del criterio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio.
L’idea di fondo sottostante a un tale orientamento è riassumibile nel modo seguente:
a) Con specifico riferimento ai reati commissivi colposi, una volta verificato il “nesso di causalità materiale” tra l’azione illecita e
l’evento lesivo ai fini del successivo giudizio di colpa si ritiene sufficiente supporre che la condotta alternativa conforme al dovere
cautelare (es: osservanza della doverosa prudenza nella guida), se realizzata, avrebbe significativamente diminuito il rischio di
verificazione dell’evento offensivo, con conseguente aumento delle chances di messa in salvo del bene protetto.
[N.B. La possibilità di appagarsi, in sede di accertamento della colpa di criteri di semplice possibilità o probabilità di evitare l’evento viene
giustificata, nei casi di reato colposo di azione, con tale considerazione: in queste ipotesi l’impiego della teoria del rischio non sostituisce ma
integra una “causalità materiale” già accertata, con conseguente “funzione delimitativa” in senso restrittivo della responsabilità penale].
b) Secondo i sostenitori di tale orientamento, la prospettiva muta nell’ambito dei reati omissivi colposi, dal momento che in questi
casi alla “causazione materiale” dell’evento da parte dell’agente si sostituisce una forma di “causalità normativo-ipotetica”,
in termini di mancato impedimento dell’evento da parte del soggetto garante, con la conseguenza che accertamento della causalità
e accertamento della colpa finiscono con il sovrapporsi e coincidere. Stando così le cose, l’impiego della teoria del rischio finirebbe
con il rimpiazzare del tutto una causalità materiale mancante, con l’effetto di estendere indebitamente l’area della punibilità.
Allo scopo di scongiurare questa indebita dilatazione si ritiene che nell’ambito dei reati omissivi colposi l’affermazione di
responsabilità presupponga la quasi certa idoneità della condotta doverosa a evitare l’evento.
- Ma non mancano, nella dottrina più recente, autori favorevoli a fare impiego della teoria del rischio nell’ambito specifico della
responsabilità omissiva. In questa riveduta ottica, attenta ai problemi di accertamento processuale che sorgono in settori cruciali
come quello della responsabilità medica, si è dell’avviso che l’imputazione colposa dell’evento possa basarsi in ogni caso su “criteri
probabilistici” legati al paradigma del rischio: (così il medico che ha omesso il trattamento corretto potrebbe essere chiamato a rispondere
della conseguente morte del paziente se, supponendo mentalmente come realizzato l’intervento concreto, si può concludere al di là di ogni
ragionevole dubbio che ne sarebbe derivato un significativo aumento di “chances” di sopravvivenza per il è paziente stesso).
[X] A ben vedere, non esistono ragioni di teoria generale del reato per stabilire quale sia l’orientamento più corretto fra quelli qui
riassunti. Ma la questione davvero decisiva non è se la problematica dell’evitabilità concreta dell’evento appartenga più alla logica
intrinseca della causalità o a quella della colpa: essa consiste nel rispondere all’interrogativo se, nell’attuale momento storico,
caratterizzato da una crescente entrata in crisi di non poche certezze sia giusto o opportuno procedere all’imputazione penalistica
dell’evento sulla base di criteri quali l’aumento o la mancata diminuzione del rischio].
SEZIONE II – Antigiuridicità
1) Premessa
Anche nell’ambito del reato colposo, la tipicità ha una funzione “indiziante” rispetto all’antigiuridicità concepita come
assenza di cause di giustificazione: onde, se si accerta l’esistenza di un’esimente, il fatto commesso non costituisce
reato. È fondato ritenere che la diversità strutturale registrabile fra reato colposo e reato doloso, condizioni in qualche
modo l’operatività delle cause di giustificazione, almeno nel senso che nel reato colposo, non sono forse prospettabili
tutte le scriminanti esistenti: lo comprova l’esperienza giurisprudenziale, sul cui terreno la questione dell’applicabilità
delle esimenti al reato colposo si è in concreto prospettata soprattutto con riferimento al consenso dell’avente diritto,
alla legittima difesa e allo stato di necessità.
3) Legittima difesa
L’applicabilità della scriminante della legittima difesa (come scriminate) al reato colposo è contestata da una parte della
giurisprudenza, la quale fa leva sul rilievo che la legittima difesa presuppone la volontà di ledere l’aggressore, mentre
nel reato colposo fa difetto proprio la volontà dell’offesa.
L’assunto non convince perché presuppone una considerazione troppo meccanica dei dati in gioco. A ben vedere, entro
lo spazio occupato dall’azione difensiva appare legittimo provocare anche un evento lesivo che l’agente in realtà non ha
voluto e che avrebbe evitato con l’uso della diligenza dovuta: sarebbe davvero strano se l’ordinamento consentisse di
ledere volontariamente l’aggressore (legittima difesa come causa di giustificazione nel delitto doloso) e punisse invece le
conseguenze involontarie di un’azione difensiva (legittima difesa come causa di giustificazione nel delitto colposo).
(Si faccia l’esempio di Tizio il quale, attorniato da alcuni ragazzi giovani che stanno per percuoterlo, estrae un’arma e li minaccia: mai giovani,
anziché fuggire, tentano di disamarlo per cui, nella colluttazione che ne segue, parte involontariamente un colpo che uccide uno degli aggressori).
[X] A scanso di equivoci, va escluso che nella specie si configuri un’ipotesi di eccesso colposo punibile ex art.55: mentre
infatti l’eccesso colposo presuppone un’azione difesa volontariamente diretta contro l’aggressore, qui ciò che manca è
proprio la volontà di aggredire.
[X] Ma va escluso, anche, che il fatto sia punibile a titolo di omicidio colposo: se il colluttare per difendere il possesso
dell’arma è un agire che non va al di là dei limiti di quanto è necessario fare in vista della propria difesa, apparirebbe
contradditorio definire imprudente un’azione necessitata nell’accezione dell’art.52.
4) Stato di necessità
La configurabilità dello stato di necessità nel delitto colposo è, generalmente, ammessa in dottrina e giurisprudenza.
[Esempio: un genitore, uscendo con la propria automobile da un cortile privato e vedendo il figliolo di pochi anni di età camminare
pericolosamente su di un argine, arresta bruscamente la vettura nel mezzo della strada e così facendo, procura delle lesioni personali ad un
motociclista che si scontra con il veicolo imprudentemente abbandonato].
In casi simili a questo la giurisprudenza stranamente, tratta lo stato di necessità come esclusione della colpa e non come
causa di giustificazione: probabilmente essa in questo modo intende sottrarsi al “bilanciamento” tra i beni in conflitto, al
fine di riconoscere la circostanza esimente anche quando il bene salvato risulti di rango inferiore a quello offeso.
Va precisato che lo stato di necessità ricorre veramente soltanto quando l’azione necessitata viola il dovere obiettivo di
diligenza (caso del genitore su riportato).
In altre ipotesi invece, l'azione necessitata viola solo apparentemente il dovere di diligenza.
(Ciò avviene, ad esempio, nel caso del conducente di un autobus, che effettua una brusca frenata per evitare lo scontro con un autocarro e
così provoca delle lesioni ai passeggeri). In casi come questi il comportamento del soggetto, essendo diretto a tutelare anche
il bene della persona che ne risulta offesa, realizza in concreto il migliore adempimento possibile del dovere generale di
prudenza posto a garanzia della sicurezza della circolazione e che può essere addirittura imposto da un limite logico al
rispetto della singola regola soltanto formalmente violata.
La distinzione operata secondo che l’azione necessitata violi o no il dovere di diligenza si ripercuote, a sua volta,
sull’esistenza del fatto tipico: onde, non potrà riconoscersi il diritto all'indennità fissato dall'art.2045 del c.c. (indennità
prevista per la vittima di un fatto dannoso compiuto in stato di necessità) quando il fatto tipico viene a mancare per la
conformità del comportamento necessitato alla regola precauzionale. (Nell’esempio di prima, l'indennità si riconoscerebbe
quindi solo al motociclista e non ai passeggeri dell'autobus).
■ Colpa cosciente quanto all’elemento conoscitivo, va precisato che non vi è incompatibilità tra colpa e previsione
dell’evento (art.43 co.3): si parla infatti di colpa cosciente o colpa con previsione rispetto alle ipotesi nelle quali l’agente
non vuole commettere il reato, ma si rappresenta l’evento come possibile conseguenza della sua condotta.
■ Colpa incosciente i casi più frequenti sono quelli di colpa incosciente: ricorre questa forma di colpa quando il
soggetto non si rende conto di potere con il proprio comportamento ledere o porre in pericolo beni giuridici altrui. In
questi casi il rimprovero che si muove al soggetto è di non aver prestato sufficiente attenzione alla situazione pericolosa.
Nonostante si sia soliti considerare la «colpa incosciente» come una delle due forme tipiche dell’elemento psicologico del
reato colposo, la gran parte dei casi di colpa inconsapevole difetta di coscienza e volontà come coefficienti psicologici reali:
(si pensi alle azioni impulsive o automatiche o a certe ipotesi di omissione dovute a pura dimenticanza).
Onde, la struttura della colpa incosciente finisce col non essere costituita da componenti psicologiche in senso stretto: il
giudizio di imputazione, in questi casi, diventa di natura strettamente normativa e l’accertamento della colpa qui inclina a
coincidere con la possibilità di muovere al soggetto un rimprovero per non aver osservato le norme di comportamento
necessarie a prevenire la lesione dei beni giuridici.
[N.B: Se così è, la funzione della categoria della colpevolezza, consistente nell’esprimere il legame “personalistico” tra fatto e autore, sul
terreno del reato colposo, rischia di venire meno e, di conseguenza, la responsabilità tende ad assumere una dimensione eccessivamente
“oggettivistica”. Ciò spiega perché, in seno alla dottrina più sensibile, aumentino le proposte intese a limitare l’ambito di rilevanza penale
della colpa incosciente, se non addirittura a suggerire la depenalizzazione di tutti i fatti riconducibili a tale tipo di coefficiente soggettivo].
In realtà, si tratta di stabilire fino a che punto possa giungere l’esigenza di personalizzazione del rimprovero di colpa.
Una cosa è pacifica: se si pretendesse di tenere conto di tutte le caratteristiche personali dell’agente concreto, si finirebbe col
giustificare ogni azione colposa perché saremmo indotti a concludere che, proprio in considerazione delle attitudini individuali
dell’autore del fatto quali risultano anche dalla situazione data, non era umanamente esigibile un comportamento diverso.
Ma ciò comporterebbe un’inammissibile rinuncia alle esigenze di prevenzione sul terreno della responsabilità colposa.
Il vero oggetto della disputa tra oggettivisti e soggettivisti Ben si comprende come anche in sede di
“personalizzazione” del giudizio di colpa debba comunque farsi astrazione da alcune caratteristiche dell’agente concreto, con
la conseguenza di assumere a punto di riferimento pur sempre un soggetto “ideale”: un soggetto immaginato al posto
dell’agente concreto e simile a lui non in tutto, ma soltanto in alcune qualità personali.
Il vero problema consiste nella scelta delle qualità personali che devono rientrare nella base del giudizio per la
determinazione della “possibilità di agire altrimenti” dell’agente concreto.
È da escludere che, ai fini della soggettivizzazione della misura della colpa, possano assumere rilevanza tratti caratteriali o
disposizioni emotive.
Si comprende, perciò, come il vero oggetto della disputa che continua a dividere “oggettivisti” e “soggettivisti” oggi riguardi
un altro punto: si tratta cioè di stabilire se, ai fini del giudizio di colpa, assumano rilevanza le caratteristiche fisiche e/o
intellettuali come difetti, menomazioni, cattive condizioni di salute, conoscenze ed esperienze.
Mentre sarebbe contrastante con i fini del diritto penale tener conto delle debolezze caratteriali, può invece apparire ingiusto
accollare al soggetto le conseguenze di limiti fisici o intellettuali a lui non imputabili.
Orbene, la scelta a favore o contro l’inclusione nel giudizio di colpa dei limiti fisici ed intellettuali è influenzata da opzioni di
fondo circa il peso da assegnare al principio di colpevolezza oppure alle esigenze di prevenzione generale:
- Se si privilegiano le esigenze di prevenzione generale con la connessa necessità di potenziare al massimo la
responsabilizzazione dei consociati, è più coerente oggettivizzare il giudizio di colpa, fino al punto di non tenere conto dei
limiti fisico-intellettuali dell’agente concreto.
- Non cosi, invece, ove prevalga la preoccupazione di evitare il “rischio di una strumentalizzazione” dell’agente concreto per
fini di difesa sociale e tutela dei beni giuridici.
[N.B. In una prospettiva di equilibrato bilanciamento tra difesa sociale e principio di colpevolezza, anche ad avviso di Fiandaca e
Musco, è giusto evitare che si risponda penalmente al di là dei limiti fisico-intellettuali di ciascuno.
(Perciò, ad esempio, è da ritenere che la colpa venga meno, per mancanza di rimproverabilità soggettiva, in casi come quelli dell’automobilista
principiante incapace di affrontare una situazione di emergenza).
Inoltre, è da segnalare che, a causa della diffusa tendenza a privilegiare una “concezione normativo-oggettivizzante” della colpa penale, la nostra
giurisprudenza quasi mai affronta esplicitamente il profilo della misura soggettiva della colpa: non avvertendo la necessità di procedere ad una
individualizzazione del giudizio di responsabilità rapportato all’agente concreto, e accontentandosi dell’accertata violazione della dimensione
oggettiva della regola cautelare, i giudici finiscono così col circoscrivere la loro attenzione ai soli profili di tipicità e antigiuridicità della colpa,
trascurando il versante della colpevolezza colposa].
La rilevanza pratica delle circostanze anormali «non tipizzate» Ma la vera importanza pratica della «efficacia
scusante» delle «circostanze anormali» non si manifesta riguardo alle ipotesi prevedute dagli artt.45 e 46:
trattandosi in questi casi di circostanze scusanti legalmente tipizzate, il giudice è comunque costretto a tenerne conto, quale
che sia la collocazione sistematica che ad esse si intende dare. La rilevanza pratica del ricorso alla categoria in esame si coglie
con riferimento a tutte quelle circostanze anomale che possono inibire le capacità psico-fisiche dell’agente, senza integrare
tutti gli estremi delle circostanze tipizzate: (esempio: la stanchezza eccessiva, lo stordimento, il terrore, la costernazione, la paura, ecc.)
cioè quell’insieme di situazioni che producono un grave perturbamento psichico ma che non possono essere ricondotte
tecnicamente al costringimento fisico, alla forza maggiore oppure al caso fortuito.
A ben vedere, la rilevanza scusante delle «situazioni di perturbamento psichico - fisico» può, nel nostro ordinamento,
desumersi da un’attenta interpretazione dell’art.42 co.1.
La formula «nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con
coscienza e volontà» è idonea a fungere da «clausola generale» ricomprendente tutte le circostanze anormali non tipizzate o
innominate, cioè quelle circostanze che escludono la colpevolezza perché inibiscono i poteri di orientamento cosciente e
volontario dell’agente.
Reati a forma vincolata e funzione incriminatrice dell’art.113 c.p. Se una funzione «incriminatrice» spetta all’art.113,
questa concerne, in realtà, solo le fattispecie colpose c.d. a forma vincolata, vale a dire fattispecie che reprimono non già
un’offesa comunque prodotta, bensì un’offesa realizzata solo mediante specifiche modalità comportamentali.
(es: si consideri il fatto di chi per colpa detiene il commercio, pone in commercio oppure distribuisce per il consumo acque,
sostanze o cose che sono state da altri avvelenate, corrotte o contraffate, in modo pericoloso alla salute pubblica (artt.442 e
452). Ora, in tutte le ipotesi nelle quali la condotta colposa è puntualmente tipizzata dal legislatore, un semplice
comportamento di collaborazione, che non giunga ad integrare gli estremi del fatto così come dettagliatamente previsto dal
legislatore, risulterebbe penalmente irrilevante: diventa invece rilevante, sempreché sussistano tutti i requisiti richiesti,
proprio in virtù dell’art.113, il quale in questi casi svolge, dunque, oltre che una funzione di disciplina, anche una funzione
incriminatrice perché estende la punibilità di condotte altrimenti non punibili.
Ma, questo meccanismo di estensione della tipicità si rivela, da un punto di vista politico-criminale, di dubbia opportunità.
Se il legislatore, per la tutela di certi beni ha preferito ricorre alla creazione di fattispecie monosoggettive a forma vincolata è
segno che ha inteso tutelarli non ad oltranza contro ogni possibile offesa, bensì in maniera frammentaria, cioè soltanto contro
quelle specifiche modalità di offesa contemplate dalla norma incriminatrice.
Ma se è così, il ricorso a norme, come quella di cui all’art.113, che finiscono in sede di concorso col conferire tipicità indiretta
a forme di collaborazione comunque prestate, rappresenta una sorta di «deviazione teleologica» rispetto al piano di tutela dei
beni giuridici tracciato dallo stesso legislatore nelle fattispecie di parte speciale (nel senso che punisce comportamenti che il
legislatore non ha invece ritenuto penalmente rilevanti).
Nell’ambito della dottrina più recente tornano a emergere varie critiche nei confronti della plausibilità politico-criminale di
una disposizione come quella di cui all’art.113, considerata sia nella sua funzione di disciplina che in quella sua limitata
funzione di incriminatrice.
PARTE IV – IL REATO OMISSIVO
SEZIONE I – Nozioni generali
[CASO 58: I genitori di una bambina affetta da «talassemia omozigote», per non violare un divieto religioso del culto dei testimoni di Geova di cui
sono da poco seguaci, interrompono la terapia emotrasfusionale alla quale la figlia veniva periodicamente sottoposta, così non impedendone la
morte sopraggiunta per grave. Si ipotizzi che della necessità di apprestare urgenti trasfusioni alla bambina siano anche consapevoli alcuni vicini di
casa, i quali però decidono di astenersi da qualsiasi forma di intervento soccorritore
CASO 59: Durante i preparativi di una gara di nuoto sopraggiunge per caso un Tizio esperto il quale, prevedendo il pericolo, impegna in segreto,
dietro promessa di una somma di danaro, un barcaiolo ad intervenire in caso di necessità: il barcaiolo, venendo meno all'impegno contrattuale
stipulato col «filantropo», non interviene lasciando così annegare uno dei nuotatori.
CASO 60: Un ufficiale di polizia giudiziaria, essendo a conoscenza del proposito di alcuni suoi amici di congiungersi con una prostituta su di una
pubblica spiaggia, non impedisce il fatto cui assiste senza parteciparvi direttamente].
1) Premessa
l modello tipico di illecito penale è tradizionalmente costituito dal reato di azione.
[N.B. Fino a buona parte dell’Ottocento la responsabilità per omissione costituisce l’eccezione, in quanto l’incremento di tale
responsabilità penale presuppone l’affermarsi di un principio solidaristico, che obbliga ad intervenire attivandosi nella salvaguardia
di beni altrui posti in pericolo].
Il ruolo secondario svolto dalla responsabilità omissiva spiega i ritardi della dottrina nel procedere ad una elaborazione
di una autonoma dogmatica degli illeciti omissivi.
[N.B. Occorre attendere i primi decenni del ‘900, quando sotto l’influsso della letteratura tedesca, che si cimentò nello studio del
reato omissivo improprio, la dottrina mostrò interesse nei confronti degli illeciti omissivi].
L’esigenza di una elaborazione dogmatica degli illeciti omissivi cresce parallelamente all’emergere di una nuova
concezione dello Stato che affida ad esso “funzioni interventistiche” nei più diversi settori: proprio nell’assolvimento di
questi compiti positivi diventa sempre più frequente l’imposizione di obblighi di attivarsi penalmente sanzionati, nei
confronti di soggetti che rivestono un ruolo preminente nelle attività socioeconomiche.
[N.B. Il processo di dilatazione degli obblighi positivi di condotta penalmente sanzionati subisce un ulteriore incremento con la
legislazione sociale emanata dal secondo dopoguerra in poi.
- Da un lato sorge la consapevolezza della necessità di sviluppare una autonoma dogmatica dei reati omissivi
- Dall’altro lato, vi è particolare attenzione al problema della “responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento” sotto il
profilo dell’equiparazione tra “cagionare” (reato commissivo) e “non impedire” (reato omissivo) un evento lesivo].
Ciò premesso, si comprende come una parte della dottrina tenda a degradare il reato omissivo in illecito di pura
disobbedienza, e a proporre la trasformazione di tali illeciti da penali in amministrativi.
[N.B. Tuttavia, ciò è una generalizzazione errata: difatti, un esame più dettagliato consente di distinguere tra ipotesi di pura
disobbedienza e ipotesi nelle quali la fattispecie omissiva è posta a tutela di un qualcosa (quid) assimilabile al concetto di bene
giuridico. E, in linea di principio, nulla impedisce che in certi casi possa assurgere a bene giuridico, proprio l’interesse attuale al
conseguimento di utilità future].
Dunque, il problema non è più quello della compatibilità tra diritto penale dell’omissione e idea di protezione dei beni
giuridici, ma quello di verificare, di volta in volta, se l’interesse tutelabile mediante fattispecie omissiva abbia raggiunto
nella coscienza sociale un tale livello da far apparire necessario il ricorso alla tutela penale.
• Delitti omissivi «propri» quelli che consistono nel mancato compimento di una azione che la legge comanda di
realizzare. Benché dall’omissione possano conseguire eventi ulteriori, all’omittente si fa carico di non aver realizzato
l’azione doverosa come tale, e non di non aver impedito l’evento ulteriore. (La fattispecie di omissione di soccorso (art. 593),
incrimina la semplice omissione dell’assistenza occorrente ad una persona che si trova in pericolo: se da ciò consegue la morte del soggetto
bisognoso d’aiuto, l’omittente non risponde di omicidio, ma a lui si applica solo una circostanza aggravante (art.593, co.3));
• Delitti omissivi «impropri» sono tali i reati che consistono in una violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di
un evento tipico ai sensi di una fattispecie commissiva-base di parte speciale.
[N.B. L’omittente assume in questi casi il ruolo di “garante della salvaguardia del bene protetto” e risponde anche dei risultati
connessi al suo mancato attivarsi. (Così ad es. la madre che non presta soccorso al figlio in pericolo).
[N.B. Secondo l’autore è preferibile operare la distinzione fatta prima in funzione della diversa tecnica di “tipizzazione” dei reati
omissivi direttamente configurati come tali dal legislatore. «Impropri» sono gli illeciti omissivi carenti di previsione legislativa
espressa e ricavati da fattispecie create originariamente per incriminare comportamenti positivi].
1) Situazione tipica
Nella fattispecie omissiva propria il legislatore provvede a fissare elementi costitutivi della fattispecie.
La figura dell’illecito è costituita dalla situazione tipica: cioè dall’insieme dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di
attivarsi. (Così, nell’omissione di soccorso (art. 593) la situazione tipica è costituita dalla condizione di pericolo in versa il soggetto
bisognevole di aiuto). Nel descrivere la situazione tipica, la norma può indicare il fine cui deve tendere il compimento
dell’azione comandata. Il contenuto dell’obbligo di agire talvolta è specificato, e altre volte è stabilito in modo generico
(ad es. l’art. 593 co.2, impone l’obbligo di prestare l’assistenza necessaria).
La descrizione legislativa della situazione tipica può, come nei reati di azione, far uso sia di “elementi descrittivi”, sia di
“elementi normativi giuridici”.
[N.B. Proprio in relazione alla crescita delle fattispecie omissive nella nostra legislazione è andata aumentando la tendenza ad usare
la tecnica di descrivere la situazione tipica a mezzo di elemento normativo - giuridici. Per effetto di ciò, si registra una certa
“artificiosità” dell’illecito omissivo proprio, lontano dalla comune esperienza di vita.
Questo fatto, come è intuibile, può avere ripercussioni sul terreno della colpevolezza, ponendosi in termini acuti il problema se il
dolo sia configurabile a prescindere dalla “previa conoscenza” della norma che fa obbligo di agire in un determinato modo]. Proprio
con riferimento alla problematica inerente all’«oggetto» della volontà colpevole, le fattispecie omissive proprie possono
essere ulteriormente distinte in due sottocategorie:
▪ fattispecie omissive con situazione tipica «pregnante» qui l’obbligo di attivarsi ha per presupposto una realtà
sociale o naturalistica immediatamente percepibile dal soggetto a prescindere dalla conoscenza che egli abbia
dell’obbligo giuridico di agire;
▪ fattispecie omissive con situazione tipica «neutra» qui è difficile che il soggetto possa riconoscere, senza la “previa
conoscenza della norma”, di trovarsi nella situazione che lo obbliga ad attivarsi in un determinato modo.
Sul piano della «tipicità della condotta omissiva», tale possibilità va intesa nel senso minimo di «possibilità materiale» di
adempiere al comando. Tale possibilità può, in sede di tipicità, essere esclusa: sia dalle necessarie attitudini psico-fisiche (ad
es. non omette di soccorrere un bagnante in pericolo chi non sa nuotare) e sia dalla mancanza delle condizioni esterne indispensabili
(ad es. non omette di soccorrere chi, sprovvisto di idonei mezzi, non raggiunga una persona all’ultimo piano di una casa in fiamme). Gli
ulteriori elementi che entrano a far parte della possibilità di agire intesa in senso più ampio, fra questi anche le facoltà
intellettive, saranno considerati in sede di giudizio di colpevolezza.
Ove si tratti di dovere di agire incombente su più soggetti e che non presuppone un adempimento necessariamente di tipo
personale, l’attivarsi di uno dei co-obbligati può far venire meno i presupposti della situazione tipica e quindi, può rendere
penalmente irrilevante l’omissione di coloro i quali rimangono inattivi.
Si tratta di una figura di illecito alquanto problematica. L’evento del cui impedimento si è chiamati a rispondere è quello
tipico di una fattispecie «commissiva» di parte speciale, dettata per incriminare un fatto incentrato su di un
comportamento positivo. (Ad esempio: nel caso paradigmatico dell’omicidio, ex art.575, il legislatore incrimina «chiunque cagiona la morte di
un uomo», ma il verbo «cagionare» non può che alludere ad un processo causalmente innescato da una azione in senso stretto)
Tuttavia, si è ritenuto che in alcuni casi, e quello dell’omicidio è emblematico, il «non impedire» sostanzialmente
eguagli, quanto a disvalore, la «commissione» del reato mediante azione.
È in questo senso che si spiega la stessa etichetta “reato commissivo mediante omissione”: secondo l’impostazione più
tradizionale, i casi di mancato impedimento di un evento tipico, lungi dall’integrare un vero e proprio illecito di
omissione, costituirebbero una mera forma di manifestazione dei reati commissivi espressamente tipizzati.
(≠) A differenza dei reati di mera omissione, che contravvengono ad un comando di agire, i reati omissivi impropri
violerebbero pur sempre un divieto di cagionare l’evento, che dà vita alla fattispecie commissiva: l’unica particolarità sta
nel fatto che il divieto si specifica nel “divieto di cagionare con la propria omissione” l’evento tipico.
[N.B. La tesi tradizionale ora esposta, che vede i reati commissivi impropri come mera manifestazione dei reati commissivi, è
erronea, in quanto suppone che il legislatore tipicizzi espressamente nella parte speciale la materia delle omissioni improprie. Ma
non è possibile per il legislatore prevedere i molteplici casi di equivalenza tra azione causale ed omissione non impeditiva].
Si comprende perché allora si sia regolamentato l’illecito commissivo improprio nella sola «parte generale», mediante la
previsione di una «clausola di equivalenza» ex art.40 co.2 cp, a mente del quale «non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». In questo modo, il reato omissivo improprio è ricostruito
dall’interprete in base all’innesto della disposizione di cui all’art.40 co.2 sulle norme speciali che prevedono ipotesi di
reato commissivo suscettive di essere “convertite” in corrispondenti reati omissive.
Proprio per effetto di questo innesto tra clausola di equivalenza e norma di parte generale sorge una “nuova fattispecie”
incentrata sul «mancato impedimento dell’evento»: essa però non rappresenta, come teorizzato dalla risalente dottrina,
una mera forma di manifestazione della fattispecie commissiva espressamente prevista, ma ha carattere autonomo.
Tale autonomia si spiega considerando che la fattispecie omissiva impropria, poiché incrimina l’inosservanza dell’obbligo
di impedire un evento, dev’essere anch’essa imperniata su una norma di comando.
Cioè, se il mancato impedimento dell’evento integra una condotta omissiva, allora la norma violata da tale condotta non
può essere un divieto (come posto dalla norma di parte speciale), ma solo un comando d’azione.
[N.B. Il riconoscimento operato dell “autonomia strutturale” del «reato omissivo improprio» propone non poche perplessità in ordine alla
compatibilità di tale forma di illecito con il principio di legalità e di sufficiente determinatezza della legge penale.
Gli elementi di cui si compone la nuova ed autonoma fattispecie omissiva impropria che, per effetto dell’operatività dell’art.40 co.2, viene
ad “affiancarsi” alla originaria fattispecie commissiva di parte speciale, sono, per la gran parte ricostruiti dal giudice.
La tensione conflittuale tra punibilità delle omissioni improprie e il rispetto del principio di legalità, inevitabile stante il carattere di
«clausola generale» dell’art.40 co.2, è ancor più aggravato dalla inidoneità di tale formula a fornire una direttiva-guida efficace e sicura allo
stesso interprete].
[N.B. Una prima delimitazione deriva dal considerare la “funzione” alla quale intende assolvere l’art.40 co.2, se essa serve a
giustificare l’incriminazione di comportamenti non tipizzati nelle fattispecie di parte speciale, ne deriva che il suo impiego è escluso
quando sia la stessa norma incriminatrice a menzionare la condotta omissiva, o in via esclusiva come nei reati omissivi propri, ovvero
descrivendoli accanto all’azione vietata in senso stretto. Ciò posto, occorre selezionare quei tipi legali, la struttura dei quali, ostacola
una loro integrazione mediante inattività. Si allude ai delitti di mano propria, cioè a quei delitti la cui fattispecie presuppone un atto
positivo di carattere necessariamente personale (ad esempio l’incesto), o ai delitti abituali, cioè a tipi delittuosi che presuppongono
una condotta personale reiterata.
Più in generale, la configurabilità di reati mediante omissione è da escludere tutte le volte in cui la fattispecie penale pone l’accento
su una condotta caratterizzata da descrizioni inerenti necessariamente a un comportamento positivo (fattispecie descrittiva, ad
esempio furto). In determinati casi però la norma appartiene al novero delle fattispecie in cui elementi costitutivi sono di tipo
“normativo”. In questi casi, per stabilire se assuma rilevanza penale la condotta omissiva, non si potrà dar vita alla coniugazione
dell’art.40 co.2. con la norma speciale, ma si dovrà tenere conto del contenuto degli obblighi comportamentali desumibili dalle
norme richiamate dagli elementi normativi contenuti nella norma incriminatrice.
Per fare un esempio, si consideri l’art.380 che incrimina l’infedele patrocinio, ebbene, l’infedeltà ai doveri professionali, con nocumento della parte
difesa, può manifestarsi anche mediante la dolosa astensione del patrocinatore da una doverosa attività processuale].
4.1) Le tipologie delittuose suscettive di conversione
Operata la selezione in termini negativi dei modelli in suscettivi di rientrare nell’ambito di operatività della regola
dell’equivalenza, occorre adesso delimitare positivamente l’area di operatività della fattispecie omissiva impropria.
Un’indicazione è desumibile dalla «rubrica» nella quale è collocato l’art.40 co.2
La connessione fatta dal legislatore tra «regola dell’equivalenza» e “rapporto di causalità” è indice di una delimitazione della
fattispecie omissiva impropria, operata dallo stesso legislatore, quindi se ne deduce che il campo di applicazione della
fattispecie considerato va limitato ai soli casi in cui emerge il problema del “nesso causale” tra condotta ed evento lesivo. Si
tratta, cioè, del riconoscimento, operato in sede di normazione che la regola di cui all’art.40 cp è applicabile solo ai reati di
evento. Ma non basta, per delimitare meglio l’area di intervento della regola dell’equivalenza, occorre scartare quei reati
caratterizzati da eventi che possono avere luogo solo con una condotta positiva (come nel delitto di truffa, dove l’evento
costitutivo del reato deve essere cagionato mediante artifizi e raggiri, cioè secondo modalità che presuppongono un effettivo attivarsi per
ingannare la vittima presa di mira).
Una volta delimitate tutte le tipologie delittuose rispetto alle quali una configurazione mediante omissione è da escludere,
residua, quale specifico campo di azione della regola di equivalenza ex art.40 cp, quello dei «reati causali puri» (detti pure a
«forma libera» o «causalmente orientati»): cioè a quei reati di evento, il cui disvalore si concentra tutto nella produzione del
risultato. Ebbene, ad un attento esame, l’ambito dei reati di evento caratterizzati dall’attitudine causale della condotta
(causalmente orientati, appunto) tende a circoscriversi a due ipotesi:
da un lato i classici delitti contro la vita e l’incolumità individuale (all’interno dei quali si colloca il delitto di evento “per
antonomasia”, l’omicidio ex art.575);
e dall’altro determinati reati contro l’incolumità pubblica (tra cui ricordiamo gli art.422 (strage), 423 (incendio) etc.): cioè di
fattispecie penali finalizzate alla protezione della persona sia come singolo che quale membro della collettività, contro le
aggressioni alla vita ed alla integrità fisica.
Anche in questo caso bisognerà tenere conto della finalità di tali ipotesi delittuose. Ove si ci trovi di fronte all’esigenza di impedire
gravi lesioni a interessi patrimoniali, la cui salvaguardia possa giovare al buon funzionamento dell’intera economia, sarà ammissibile
l’attivazione della clausola di equivalenza stabilita dall’art.40 co.2 e la “attivazione” di una fattispecie omissiva impropria. infatti,
l’idea di una finalizzazione di una responsabilità per omesso impedimento dell’evento anche a tutela dei beni patrimoniali appare più
plausibile in termini politico-criminali, nel caso in cui ci si trovi nell’esigenza di impedire gravi lesioni a interessi patrimoniali, la cui
salvaguardia possa giovare al buon funzionamento dell’economia collettiva.
Nella partecipazione delittuosa, secondo un’opinione pacificamente accolta in dottrina ed in giurisprudenza, per «evento»
ex art.40 co.2 deve intendersi il «reato» oggetto di volontà comune materialmente posto in essere da taluno dei compartecipi e
«non impedito» da chi, fra questi compartecipi, aveva l’obbligo di impedirlo: (si fa il caso di scuola del custode di un magazzino, il quale,
volontariamente, non impedisce che dei ladri vi si introducano per sottrarre merce).
Nel porre in essere questa equivalenza evento-reato non impedito, però si ritiene che non operi il limite della applicabilità dell’art.40
co.2 ai soli reati di evento: cioè si ammette che il titolare dell’obbligo di impedire l’evento-reato possa partecipare mediante
omissione alla commissione di qualsiasi illecito penale. Tuttavia, non v’è chi non veda come si assegni alla regola dell’equivalenza
contenuta nell’art.40 co.2 un ambito di operatività diverso a seconda che si tratti di responsabilità omissiva monosoggettiva
(ristretta ai soli reati causali puri) ovvero al concorso (aperta a qualsiasi illecito penale).
In mancanza di esplicita presa di posizione legislativa, si propende per la tesi secondo cui la limitazione del giudizio di equivalenza
alle sole fattispecie causali pure dovrebbe trovare applicazione anche nei casi di concorso mediante omissione.
5) Situazione tipica
Considerato che la fattispecie del reato omissivo improprio non è cristallizzata dal legislatore, ma è costituita dal
coniugarsi di una norma di parte speciale (causali puri per «reati monosoggettivi» e pluralità di illeciti per il «concorso»
mediante omissione) con la norma statuente la “regola generale dell’equivalenza” ex art.40 co.2, bisogna stabilire
innanzitutto quale sia la situazione tipica, cioè quel complesso di presupposti di fatto che danno vita alla situazione di
pericolo per il bene da proteggere e che rendono attuale l’obbligo di attivarsi del garante.
Allo stesso modo, data la mancanza di espressa previsione legislativa del reato omissivo improprio, il contenuto e lo
scopo del dovere di agire del garante possono specificarsi solo in rapporto alle circostanze del caso concreto.
[N.B. È questa una delle ragioni principali che rendono complessa la trattazione della tipologia delittuosa in esame].
b) nei casi di concorso mediante omissione, dal «reato che si aveva l’obbligo di impedire».
Per attribuire all’omittente la responsabilità per l’evento come sopra delineato, occorre dimostrare che esista una
connessione tra «evento non impedito» e «condotta omissiva» (ad esempio è necessario accertare un nesso tra l’annegamento di
un bagnante e l’inattività del bagnino).
Ma quale è la natura del rapporto esistente tra omissione dell’azione impeditiva ed evento accaduto?
[N.B. Facendo leva sul contenuto dell’art.40 co.1 «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione», parte della
dottrina ha cercato di dimostrare che anche il «non impedire» rappresenti una «categoria realistica della causalità».
Un simile sforzo è sfociato nell’assunto che la vera causa dell’evento non è il «non fare», ma “l’aliud factum”, cioè “l’agire difforme”
dal comando legale. Questa teoria, al fine di dimostrare l’esistenza dello stesso “nesso causale” esistente nei reati commissivi tra
azione ed evento, ricostruisce il comportamento tenuto come doppiamente impeditivo:
- secondo comportamento impeditivo → l’azione impedita, se realizzata secondo comando legale, avrebbe impedito l’evento.
Ma il secondo comportamento si basa su pura supposizione (avrebbe impedito l’evento) non un evento naturalistico da collegare
con “nesso causale” con l’azione nell’accezione di cui all’art.40 co.1.
Sarebbe come dire, ad esempio, che la mancata manovra degli scambi è causa diretta del deragliamento, in quanto l’azione contraria
avrebbe impedito il deragliamento stesso. Però, che l’azione di manovra degli scambi avrebbe impedito un evento è solo una supposizione,
il ragionamento non utilizza più dati reali, fa leva, appunto, su dati ipotetici].
La verità è che il co.1 dell’art.40 va letto in rapporto con il co.2 il quale appunto dispone che «Non impedire un evento, che si ha
l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo ».
(≠) La dottrina dominante nega, giustamente, che nei reati omissivi sia dato riscontrare un “rapporto di causalità” eguale a quello
esistente nei reati di evento commessi mediante azione: nei reati commissivi si tratta di stabilire un nesso di derivazione
fattuale tra dati reali del mondo esterno, mentre nei reati omissivi il problema è di verificare se e in che modo l’eventuale
compimento dell’azione dovuta avrebbe inciso sul corso degli avvenimenti e, in particolare, se il compimento dell’azione
doverosa sarebbe valso ad evitare la verificazione dell’evento lesivo. Il nesso di derivazione è ipotetico.
Nei reati omissivi si emette un «giudizio ipotetico» o «giudizio prognostico»: l’organo giudicante suppone mentalmente
come realizzata l’azione omessa e si chiede se, in presenza di essa, l’evento lesivo sarebbe venuto meno.
Per effettuare una simile prognosi, il giudice non potrà basarsi solo sulle sue personali convinzioni, anche questa volta i criteri
di giudizio non possono che essere quelli della «sussunzione sotto leggi».
(Così, ad esempio, se si deve accertare un “nesso condizionalistico” tra l’omissione del medico che non ha praticato un’antitetanica ad un
ferito e la morte di questi, occorre prima verificare se esista una legge biologica che asserisce che l’inoculazione del siero rende
generalmente inattivo il focolaio infettivo).
Dopo aver individuato la «legge di copertura» in forza della quale sia consentito affermate che al verificarsi di certi
antecedenti vengono generalmente meno determinate conseguenze, si potrà anche in questo caso usare come «test di
controllo» la formula della «condicio sine qua non». Questa formula, riferita all’illecito omissivo improprio, va così articolata:
l’omissione è causa dell’evento quando non può essere mentalmente sostituita dall’azione doverosa, senza che l’evento venga
meno. (Quindi, nell’ipotesi del medico, l’omissione è causale se, supponendo mentalmente praticata l’iniezione antitetanica, la morte da
tetano sarebbe venuta meno).
[N.B. Purché resti chiaro il diverso e peculiare “nesso condizionalistico” tra condotta omissiva ed evento, non ha importanza come
terminologicamente qualificarlo; la «causalità omissiva» può indifferentemente essere definita «causalità ipotetica» o «causalità in senso
normativo», l’essenziale è essere consapevoli che non si tratta di “rapporto causale” vero e proprio, ma di un suo equivalente].
Il grado di certezza raggiungibile nella causalità omissiva non può essere lo stesso del “nesso causale” vero e proprio.
Il giudizio è infatti effettuato in termini ipotetici. Ciò dovrebbe indurre ad accontentarsi di richiedere, in sede di applicazione della
“condicio”, che l'azione doverosa, ove compiuta, valga ad impedire l'evento con una probabilità vicina alla certezza].
Una simile opinione (ancora oggi maggioritaria) ha il merito di porre in evidenza che dai giudizi prognostici esula per
definizione ogni “certezza assoluta”: essa però diventerebbe poco accettabile se la si intendesse nel senso che l'accertamento
della causalità omissiva dispenserebbe il giudice dal fare ricorso a criteri veramente attendibili.
D’altra parte, vi sono casi di responsabilità omissiva in cui non ci si può accontentare di una probabilità confinante con
la certezza.
Il campo in cui maggiormente si sono manifestate le problematiche della “causalità” nel reato omissivo improprio è il settore della
responsabilità medica. Si tratta di un campo nel quale non si possono pretendere criteri di giudizio assolutamente certi e le aspettative di
protezione rafforzata dei beni primari della vita e della salute possono far apparire giustificata l'affermazione di responsabilità penale
anche nei casi in cui un intervento sanitario corretto avrebbe poche “chances” di successo.
Tutto ciò rende particolarmente complicato l’accertamento processuale del “nesso di condizionamento” tra omissione e decesso o
aggravamento del paziente. Da qui si crea una duplice scelta: continuare a pretendere che la condotta doverosa avrebbe evitato l’evento
con una “probabilità vicina alla certezza”, oppure “flessibilizzare” la causalità omissiva ricostruendola ad una prospettiva probabilistica
ancorata alla “teoria del rischio”.
Da qui, un’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, sollecitando una mediazione volta a superare i contrapposti orientamenti:
a) Secondo un orientamento favorevole all’indebolimento della causalità omissiva, ci si accontenta, per l’imputazione dell’evento,
dell’accertamento che l’intervento appropriato del medico avrebbe avuto serie possibilità di salvezza del paziente.
Questa sostituzione del “nesso causale” col “criterio dell’aumento o mancata diminuzione del rischio” trova giustificazione nella tesi che,
per la punibilità per mancato impedimento dell’evento, basterebbero anche poche possibilità di salvataggio del paziente quando è in gioco
la vita umana. Tuttavia, questa posizione viene contrastata dalla concezione della causalità penalmente rilevante basata solo su criteri
generali, non considerando la qualità e il peso dei beni giuridici in gioco.
b) L’orientamento di prima, viene contrastato un orientamento restrittivo che punta ad un recupero della “causalità” in senso rigorosamente
condizionalistico. Vi sono alcune sentenze del 2000 in cui è stato richiesto, per la sussistenza del “nesso”, coefficienti probabilistici vicini
all’assoluta certezza che l’intervento appropriato avrebbe avuto esito positivo.
c) La terza fase dell’evoluzione giurisprudenziale è segnata dal tentativo di superare i due opposti estremismi, mediante l’elaborazione di un
modello causale rigoroso ma anche non eccessivamente punitivo.
Infatti, la “sentenza Franzese” della Cassazione a sezioni unite 2002, ha prospettato la necessità di un equilibrato bilanciamento tra la
probabilità statistica e la probabilità logica, affermando che per la verifica del “nesso causale” tra la condotta e l’evento concreto, è decisivo
poter confidare, con un buon grado di “credibilità razionale”, nel fatto che la legge statistica venga applicata anche nel singolo caso oggetto
di giudizio, tenendo conto che sono da escludere “fattori causali alternativi”.
Tuttavia, ne scaturisce l’impressione che tali principi generali fissati con questa sentenza abbiamo una valenza più formale che sostanziale,
dato che nel concreto i giudici si ricollegano al “criterio dell’aumento o mancata diminuzione del rischio”, dato che tale modello di
“causalità condizionalistica” proposto risulta troppo pretenzioso per essere fedelmente applicato nella prassi concreta.
6.2) Caso 58
In questo caso assunse rilevanza decisiva la prognosi circa l’attitudine della prosecuzione delle trasfusioni ad impedire la morte per anemia
della bimba. La Corte di Assise di Cagliari, affermato, preliminarmente, la impossibilità di stabilire la qualità della vita della bambina ed il
decorso della malattia talassemica stessa, incentrò il suo giudizio, sulla efficacia eziologica della interruzione delle trasfusioni con la morte
della piccola paziente. Ebbene, nelle motivazioni della sentenza di condanna, l’organo giudicante esplicitamente affermò che «la terapia
avrebbe certamente impedito una evoluzione così rapida e virulenta del male»: il “nesso di condizionamento” venne così stabilito non già
tra l’interruzione delle trasfusioni e un evento letale astrattamente considerato, ma tra l’interruzione e la morte così come si verificò.
7) La posizione di garanzia
Affinché la diretta causazione di un evento e il suo mancato impedimento risultino penalmente equivalenti, non basta
accertare il “nesso di causalità” ipotetica tra l’evento stesso e la condotta omissiva. Ciò che manca alla causalità
ipotetica rispetto alla causalità reale, deve essere compensato da un altro elemento, ex art.40 co.2, che consiste nella
violazione di un obbligo giuridico di impedire l’evento.
Ma non un qualunque cittadino può essere chiamato a tale incombenza: il dovere di impedire eventi lesivi a carico di
beni giuridici altrui sorge solo in presenza di un obbligo giuridico. Il problema diventa, allora, quello di individuare gli
obblighi giuridici di attivarsi, la cui violazione consenta l’affermazione di responsabilità penale.
A tal fine, l’art.40 co.2 non fornisce “criteri selettivi”, tranne che deve trattarsi di «obblighi giuridicamente rilevanti».
Questo fatto, se da un lato dovrebbe consentire alla giurisprudenza di fare fronte a nuove esigenze emergenti, dall’altro
fa in modo che il settore dei reati omissivi impropri abbia limiti incerti.
[N.B. I giudici si sono in genere preoccupati di rispettare il «principio della giuridicità formale» dell’obbligo di impedire, così evitando la
confusione tra sfera giuridica e sfera etica, nella quale è incorsa la giurisprudenza tedesca].
La nostra dottrina tradizionale, anche in conseguenza della infrequente applicazione dell’art.40 co.2, ha riecheggiato la
c.d. «teoria formale dell’obbligo di impedire l’evento», concezione che inclina ad individuare le «situazioni tipiche di
obbligo penalmente rilevante» (c.d. «posizione di garanzia») in base alla “fonte formale”.
[N.B. Nella formulazione originaria si enumerava una triplice fonte giuridica dell’obbligo di attivarsi (c.d. “trifoglio”):
3. la «precedente azione pericolosa» (nel senso che chi compie un’azione pericolosa, dopo assume per ciò stesso l’obbligo di
impedire conseguenza dannose a carico di terzi)].
La concezione che individua le posizioni di garanzia in base alle fonti formali, non appare condivisibile, poiché non spiega
perché il diritto penale assimili l’omissione non impeditiva all’azione causale. Infatti, non ogni obbligo extrapenale di
attivarsi è automaticamente suscettivo di convertirsi in obbligo di garantire l’evento (c.d. obbligo di garanzia) e anche quando
l’obbligo di garanzia trova la sua fonte in una norma penale che configura una fattispecie omissiva propria,
la sua rilevanza ai sensi di una fattispecie omissiva impropria deve essere esclusa in virtù della funzione espletata
nell’ordinamento dall’art.40 co.2, che è quella, come sappiamo, di incriminazione di comportamenti non tipizzati nelle
fattispecie di parte speciale.
Ancora una volta il problema è quello di rendere compatibile il canone della responsabilità omissiva impropria con i principi di
legalità e determinabilità sanciti dalla Costituzione.
Dunque, se è così, il “principio di equivalenza” tra l’azione non impeditiva e l’azione causale presuppone non un semplice
obbligo giuridico qualsiasi, ma una posizione di garanzia nei confronti del bene protetto: definibile come uno “speciale vincolo
di tutela” tra un soggetto garante ed un bene giuridico, determinato dall’incapacità del titolare di proteggerlo
autonomamente. Ciò vuol dire che la funzione specifica della posizione di garante è mirata a riequilibrare la situazione di
inferiorità di determinati soggetti, mediante l’instaurazione di un “rapporto di dipendenza” a scopo protettivo.
Gli obblighi di garanzia hanno “carattere speciale” perché incombono soltanto su alcuni soggetti (garanti) e non sulla
generalità dei cittadini.
• La posizione di protezione ha per scopo di preservare determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono
minacciarne l’integrità (es. i genitori hanno l'obbligo di porre al riparo i figli minori da tutti i pericoli che li minacciano);
• La posizione di controllo ha lo scopo di neutralizzare determinate fonti di pericolo, in modo da garantire l’integrità di
tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati (es. il proprietario dell’edificio pericolante ha l’obbligo di impedire il
verificarsi di eventi dannosi a carico di altri soggetti che si possono trovare nelle vicinanze dell’edificio).
• originarie: nascenti in capo a determinati soggetti, in considerazione dello specifico ruolo o speciale posizione rivestita;
• derivate: trapassano dal titolare originario ad un soggetto diverso, per lo più attraverso un contratto.
Di solito tale passaggio o delega avviene attraverso un contratto, e affinché gli obblighi di attivarsi di fonte contrattuale
possano assumere rilevanza ai sensi dell'art.40, sono necessarie però alcune condizioni:
- La scelta di ricorrere all’intervento di terze persone nel ruolo di istanze di protezione spetta ai titolari degli stessi beni posti a
pericolo. Da questa premessa deriva l’attitudine del contratto ad assurgere a fonti di obblighi di garanzia è subordinata
all’intervento, in qualità di parte contraente, dello stesso titolare del bene protetto ovvero di un garante a titolo originario;
- Occorre che il nuovo garante assuma in concreto la funzione di tutela al cui assolvimento si è impegnato. Il presupposto della
responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento è che la violazione del contratto coincida con la mancata sostituzione del
garante originario, non più in grado di intervenire nel momento del possibile verificarsi dell’evento. (Ad esempio: i genitori incaricano la
bambinaia di custodire il loro bambino e poi questa non si presenta per prendersene concretamente cura, la posizione di garanzia non si
trasferisce, ma resta in capo ai genitori; se infatti questi si allontanassero da casa nonostante la bambinaia abbia disertato l'appuntamento, la
condotta di quest'ultima integrerebbe solo una violazione contrattuale);
- Dato che l’esistenza di un contratto non è sufficiente a dar vita ad una posizione di garanzia, ne deriva che sulla responsabilità
penale per omesso impedimento dell’evento poco o nulla incidono le successive vicende relative all’eventuale invalidità del
contratto medesimo alla stregua della normativa civilistica. Ciò che conta è che si sia creata tra le parti una situazione di effettivo
affidamento del bene. Se tale situazione permane, nonostante l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, il garante sarà da
ritenere comunque gravato di un obbligo penalmente rivelante di impedire di evento.
Obblighi di garanzia penalmente rilevanti possono anche derivare da un’assunzione volontaria della posizione di
garante, cioè l’ipotesi in cui un soggetto svolge spontaneamente compiti di protezione di certi beni, stante l’incapacità
dei relativi titolari di provvedere da sé medesimi. Ai fini della rilevanza penalistica delle posizioni di garanzia
spontaneamente assunte, ciò che conta è che l'intervento del garante determini o accentui un’esposizione a pericolo del
bene da proteggere (es. l’alpinista che grazie alla spontanea presenza di una guida alpina decide di avventurarsi in una scalata difficile che da
solo non avrebbe mai affrontato) oppure impedisca l’attivarsi di istanze di protezione alternative (es. la madre che non alimenta il
proprio bambino confidando nell’intervento della vicina che si è spontaneamente offerta di farlo).
• quelle che trovano la loro fonte direttamente nella legge, e in particolare nel diritto di famiglia. Si parla del “vincolo di
protezione” tra genitori e figli minori di cui all’art.30 della Costituzione. La “ratio” di quest’obbligo di protezione sta
nell’incapacità naturale dei minori a difendersi dai pericoli. Di conseguenza l’obbligo non è reciproco se non in casi eccezionali.
La protezione è dovuta sia rispetto alle aggressioni di terzi che rispetto a fatti naturali. L’obbligo impone di impedire che i figli
subiscano lesioni alla vita e all’integrità fisica (è escluso che l’obbligo si estenda ai beni patrimoniali). Poi abbiamo il rapporto
tra coniugi: l'obbligo di reciproca assistenza previsto dal Codice civile può tramutarsi in un obbligo di garanzia penalmente
rilevante a condizione che tra i coniugi sussista un rapporto di concreto affidamento circa la reciproca protezione;
• quelle che scaturiscono da un atto di autonomia privata quale il contratto: es. genitori che affidano il figlio ad una babysitter,
bagnante inesperto e bagnino obbligato ad accorrere in caso di necessità, ecc.
• al di fuori di un rapporto contrattuale, la posizione di protezione può altresì scaturire da un'assunzione volontaria dei
compiti di garante che, comunque, determini o accentui una situazione di rischio per il bene protetto.
• obblighi di controllo su fonti di pericolo si configurano in presenza di due condizioni: che il titolare del bene si trovi
nell'impossibilità di proteggere il bene medesimo, e che il garante tenga sotto la sua sfera di signoria la sorgente (e cioè
l'oggetto materiale o l'attività) da cui si origina la situazione di pericolo a carico di terzi.
Il proprietario della cosa pericolosa (animale, edificio, ecc.) deve impedire che dalla stessa possano derivare danni a terzi, che
in quanto non proprietari della sorgente non possono proteggersi da sé poiché vi sarebbe ingerenza nella sfera altrui. Alla
stessa categoria appartengono anche gli obblighi del datore di lavoro a tutela dei lavoratori (la fonte di pericolo in questo caso
consiste nello svolgimento dell'attività). Alcune posizioni di controllo su fonte di pericolo sono di fonte legale, altre possono
derivare da contratto, altre ancora dalla assunzione volontaria delle funzioni relative;
• obblighi del garante a impedire l’agire illecito di un terzo, il configurarsi di questa specifica posizione di garante dipende in
alcuni casi dalla presenza di due condizioni: che il terzo (per minorità, malattia mentale o altra causa) sia carente dei requisiti
necessari a governare in modo responsabile il proprio comportamento, e che a causa di tale stato di incapacità naturale, egli
debba sottostare al potere di controllo e vigilanza di un garante (es. minori o malati mentali sottoposti rispettivamente alla vigilanza
di genitori e tutori, o di infermieri, ecc.).
Alcune volte la posizione della garanzia in esame si fonda sull'esistenza di un potere giuridico che pone determinati soggetti
in condizione di impedire la commissione di reati da parte di altri soggetti (es. gli amministratori hanno l’obbligo di controllare ed
impedire la commissione di reati societari).
[N.B. È discusso se si possa configurare una posizione di controllo sull’agire illecito dei terzi anche a carico degli appartenenti alle
forze dell’ordine. La giurisprudenza è per la risposta affermativa. Di diverso avviso la dottrina, che sostiene invece che è vero che a
loro è affidato il compito di impedire la realizzazione di reati, ma è anche vero che tale dovere è troppo generico per soddisfare le
esigenze di determinatezza proprie del rapporto di garanzia: non si può configurare infatti una posizione di garanzia rispetto a tutti i
beni di tutti i consociati. Inoltre, la funzione di prevenzione che lo Stato esercita a mezzo delle forze dell'ordine non muove affatto
dalla premessa che tutti i cittadini siano individui irresponsabili, da tenere sotto continuo controllo ricorrendo alla predisposizione di
appositi garanti.
Esclusa quindi, in linea generale, una posizione di garanzia degli appartenenti alle forze dell'ordine, potrà invece configurarsi in
presenza di particolari condizioni che conferiscano maggiore determinatezza e specificità agli obblighi di contenuto impeditivo
(esempio: risponderebbe di concorso mediante omissione l'agente di scorta ad un uomo politico che rimanesse volutamente inattivo di
fronte agli assassini del soggetto da proteggere)].
Il punto è che nella colpa è sempre insito un momento omissivo (l’inosservanza di una regola cautelare). Il criterio
discretivo tra azione colposa ed omissione può essere la verifica in capo al soggetto della posizione di garante.
(- Nell’esempio della guida a fari spenti tale posizione non sussiste. Il dovere di prudenza cui è tenuto l’automobilista ha infatti come
presupposto il fatto stesso di compiere un’azione positiva pericolosa (quale è quella di guidare un’automobile nel traffico) e non una
posizione di garanzia in senso tecnico.
- Nel caso del medico, egli è penalisticamente percepito come garante di un trattamento corretto del malato, per cui, si tratti di un errore
in un intervento diagnostico materialmente commesso, oppure della totale omissione di ogni intervento, ciò che si ritiene valga ai fini del
disvalore penale è in ogni caso il mancato adempimento dell’obbligo di garante di prestazioni appropriate).
Altri casi problematici riguardano i reati dolosi. (ad esempio i casi di impedimento di azioni soccorritrici altrui o di interruzione di un
personale intervento soccorritore. Es. della prima tipologia → Caio minaccia Tizio con una pistola, impedendogli di portare Sempronio
all’ospedale. Caio risponderà di omicidio mediante azione e non di omissione di soccorso, poiché egli non si limita a non prestare aiuto ma
annulla anche strumenti di salvataggio altrui).
- Esempio 2 → quando definire il fatto come azione o come omissione non ha rilevanza. È il caso del medico che applica ad un paziente
la macchina cuore-polmoni ma poco dopo la disattiva senza ragione. Il medico risponderà in ogni caso di omicidio trovandosi nella
posizione di garante dell’ammalato).
II. Antigiuridicità
Non diversamente da quanto avviene nel reato commissivo, l’«antigiuridicità» esplica nel reato omissivo la funzione di
“convalidare” l’illiceità «indiziata» dalla conformità al tipo: quindi, se sussiste una causa di giustificazione, l’omissione
tipica non risulta antigiuridica e la punibilità viene meno.
È tuttavia vero che le cause di giustificazione più frequentemente applicate sul terreno dei reati di azione (come ad
esempio la legittima difesa, etc.) non accedono alla realizzazione di un reato omissivo (esempio di legittima difesa mediante
condotta omissiva: un soggetto tenuto a prestare soccorso si trova di fronte ad un ferito che per un qualsiasi motivo lo minaccia; quindi, il
fatto di non prestare il soccorso dovuto, acquista il carattere di una reazione difensiva giustificabile ex art.52).
Più facile è configurare omissioni giustificate dallo stato di necessità (esemplificando: si pensi ad un soggetto che omette di
prestare soccorso perché l’azione di salvataggio porrebbe in pericolo la sua persona).
III. Colpevolezza
1) Premessa
La colpevolezza nei reati omissivi presenta le stesse caratteristiche dei reati commissivi.
Parte della dottrina minoritaria ritiene che la colpevolezza nei reati omissivi sia meno grave, si argomenta che «la minore
quantità di energia fisica esplicantesi nel reato omissivo » deve implicare «una carica di minore pericolosità» onde se ne è
dedotto che i delinquenti per omissione meriterebbero un trattamento punitivo meno severo.
[N.B. Per il vero, la tesi che presuppone una minore volontà criminosa nel reato omissivo, è stata accolta dal legislatore tedesco
occidentale che ha previ sto una diminuzione «facoltativa» di pena per coloro i quali siano chiamati a rispondere in posizione di
«garanti» di omesso impedimento di evento lesivo].
2) Dolo omissivo
Nel settore dei reati omissivi, la ricostruzione degli aspetti strutturali e contenutistici del dolo risulta delicata.
Ciò vale in modo particolare per le ipotesi omissive proprie, in quanto caratterizzate dalla assenza di una condotta
positiva ed anche di un evento naturalistico percepibile: sicché è “l’essenza normativa” del reato a creare problemi tra
dolo e conoscenza della legge penale.
- fattispecie omissive proprie con situazione tipica pregnante l’obbligo di attivarsi ha per presupposto una realtà
naturalistica o sociale immediatamente percepibile, a prescindere dalla conoscenza dell’obbligo di agire.
(Esempio significativo è quello dell’omissione di soccorso, la cui situazione tipica esprime una sufficiente capacità di impulso
psicologico per il soggetto tenuto a soccorrere, il vedere un ferito grondante sangue ai bordi di una strada provoca una sufficiente
spinta psicologica ad agire, ancorché il soggetto ignoro l’esistenza della norma che punisce l’omesso soccorso).
- fattispecie omissive proprie con situazione tipica neutra esse riflettono fattispecie di pura creazione legislativa,
cioè tipi di illecito tali per volontà del legislatore, senza che ad essi preesista un disvalore socialmente percepibile.
In questi casi, il presupposto dell’obbligo di agire di per sé non dice nulla al soggetto se non conosce l’esistenza di una norma
giuridica che ad esso riconnetta importanza. Non a caso, parte della dottrina ritiene che possa sussistere dolo solo se esiste la
conoscenza attuale del comando penale, tanto in deroga al principio posto dall’art.5 c.p.
Perché l’omittente risponda a titolo di dolo occorre la conoscenza dei presupposti del dovere di attivarsi (c.d. situazione
tipica), congiunta alla consapevolezza della «possibilità di agire» nella direzione voluta dal legislatore.
[N.B. Relativamente alla consapevolezza della «possibilità di agire» essa non va identificata nella consapevolezza delle specifiche
modalità di realizzazione dell’azione doverosa. Piuttosto, basta una consapevolezza implicita o generica della possibilità di
adempiere al dovere di condotta, presente nella coscienza «latente» del soggetto che omette.
(Esempio, nel caso della madre di un drogato che non intervenga a soccorrere il figlio, perché dominata dal sentimento che la morte l’unica
via di uscita da una situazione intollerabile, il non riflettere su come sarebbe possibile salvare il ragazzo non basta a far escludere che nella
psiche della donna sia presente, anche a livello preconscio, la consapevolezza di poter/dover comunque fare qualcosa)].
2.1) Reati omissivi impropri
Con specifico riguardo all’illecito omissivo improprio, v’è da precisare che il dolo abbraccia i presupposti di fatto della
posizione di garanzia, rappresentando essa posizione di garanzia un fondamentale elemento costitutivo del fatto tipico: (ad
esempio, una babysitter che omette di sorvegliare il bambino affidatole, non risponde di omicidio doloso se non riconosce che il bambino
che sta per annegare è proprio quello affidato alle sue cure). Dunque, entra a far parte del dolo la conoscenza extrapenale di agire,
derivante da un contratto o un atto negoziale, tale conoscenza può a sua volta costituire un presupposto indispensabile
perché il soggetto si renda conto di rivestire una posizione di garanzia, sicché un errore in proposito, convertendosi in errore
sulla situazione tipica, è in grado di dispiegare efficacia scusante ex art.47 ultimo co.
3) Colpa
Anche la ricostruzione della colpa solleva problemi particolari nelle fattispecie omissive, in funzione della loro
particolare struttura. Il difetto di diligenza può riferirsi al mancato riconoscimento di una situazione tipica da parte
dell’omittente (come, per esempio, può avvenire nel caso di un datore di lavoro che per insensibilità ometta di adottare presidi
antinfortunistici, rispondendo del delitto di omissione colposa di cautele contro infortuni ex art.451 c.p.)
Ma il rimprovero colposo può anche riferirsi all’errata scelta dell’azione doverosa da compiersi.
L’adempimento del dovere di diligenza presuppone che il soggetto obbligato abbia la possibilità di agire nel senso
richiesto. Si tratta, innanzitutto, di una possibilità di agire in senso fisico, ma non solo.
I requisiti della possibilità di agire sono così compendiabili: a) conoscenza o riconoscibilità della situazione tipica;
b) possibilità obiettiva di agire; c) conoscenza o riconoscibilità del fine dell’azione doverosa; d) conoscenza o
riconoscibilità dei mezzi necessari al raggiungimento del fine medesimo.
Per stabilire se la condotta omissiva si ponga in contrasto col dovere oggettivo di diligenza, basta valutare la possibilità
di agire alla stregua di un «modello» di agente avveduto che, posto nella situazione data, sia in grado di riconoscere
l’azione tipica ed agire nel senso voluto dall’ordinamento.
L’ulteriore indagine sulle capacità psico-fisiche va compiuta in un momento successivo, cioè in sede di colpevolezza.
Ma anche in questo caso sarà di norma sufficiente accertare l’assenza di «circostanze anormali» capaci di rendere impossibile
anche all’agente modello di comportarsi nel modo richiesto. Una verifica delle circostanze anormali non può che essere fatta
accertando le concrete modalità della condotta tenuta dall’omittente. Il criterio accennato risulta utile soprattutto nei casi di
colpa c.d. incosciente, bene esemplificati dalle omissioni dovute a pura dimenticanza.
Difatti, la gran parte dei casi di colpa inconsapevole, difetta di coscienza e volontà come coefficienti psicologici reali.
Il giudizio di imputazione diviene allora principalmente “normativo” e l’accertamento della colpa inclina, in questi casi, a
coincidere con la possibilità di muovere all’omittente un rimprovero per non aver agito nel senso richiesti, benché non
sussistessero nella situazione data circostanze che lo impedivano.
Ai fini della sussistenza della colpevolezza è sufficiente la possibilità di conoscere il precetto penale.
Per i reati omissivi occorre verificare con maggiore rigore la possibilità di conoscere il precetto perché di regola l’obbligo
di agire è percepito con minore immediatezza rispetto a quello di non agire: dunque nei reati omissivi la possibilità di
non conoscere il precetto penale va sempre presa in considerazione, mentre in quello dei reati commissivi tale
possibilità è da tenere in conto solo in presenza di circostanze oggettive
IV. Tentativo
1) Il tentativo
La dogmatica dei delitti omissivi incontra problemi più ardui a proposito della configurabilità del tentativo.
La dottrina in proposito si è divisa: mentre è ammessa la possibilità di ipotizzare il tentativo nei reati «commissivi
mediante omissione», lo stesso non è avvenuto con riguardo ai delitti omissivi «puri»
La configurabilità del tentativo nei delitti omissivi impropri si piega col fatto che tali delitti strutturalmente si atteggiano
a reati di eventi. Sicché è possibile ipotizzare il tentativo in tutti i casi in cui alla condotta omissiva volontaria non sia
conseguito l’evento. (esempio: si pensi alla ragazza madre che ometta di nutrire il neonato per sopprimerlo, evento scongiurato
dall’intervento della vicina).
Qualche dubbio sussiste circa la determinazione del momento iniziale del tentativo di omissione punibile: la soluzione
dell’autore è di rinvenirlo nel momento in cui il ritardo nell’azione doverosa provoca un pericolo “diretto” per il bene
tutelato.
[N.B. Più controversa è la questione circa la configurabilità del tentativo per i reati omissivi propri.
L'opinione negativa in merito fa leva sul rilievo decisivo attribuito al termine di adempimento: se il termine utile per compiere
l’azione prescritta non è ancora scaduto, l’azione dovuta è ancora possibile, se invece il termine è scaduto il reato è già perfetto].
Parte della dottrina ritiene che comunque il tentativo sia configurabile tutte le volte in cui il soggetto compie atti positivi
diretti in modo non equivoco a non adempiere al comando d’azione.
(Esempio: il pubblico ufficiale si reca all’estero al fine di non essere presente nel tempo e nel luogo in cui dovrebbe compiere un atto
d’ufficio, ponendo in essere così un tentativo di omissione di atti d’ufficio).
La tesi più condivisibile, secondo l’autore, è quella che: ove il termine per adempiere non sia decorso, ci si troverà di
fronte ad una ipotesi di tentativo tutte le volte che un soggetto obbligato precostituisca una situazione tale da rendere
impossibile l’ottemperanza alla pretesa normativa.
È tuttavia vero che la figura del concorso mediante omissione in un reato omissivo non ha molta rilevanza pratica.
Infatti, per pervenire ad un’affermazione di responsabilità basterà, di regola, tener conto della singola condotta
omissiva, di per sé idonea ad integrare da sola la fattispecie di reato.
Si può anche configurare un concorso mediante azione in un reato omissivo. (Si ipotizzi che Tizio istighi Ciao a non soccorrere
una persona in pericolo).
Un problema di limiti alla responsabilità si pone riguardo al primo tipo di posizione di garanzia, cioè la «posizione di
protezione»: si ritiene che il soggetto che ne è titolare sia vincolato all’impedimento di eventi lesivi (del bene oggetto di
protezione) cagionati da fatti naturali, ma anche dall’aggressione di un terzo.
- In un altro caso (1963) di fronte al non impedimento da parte della madre della prostituzione della figlia, la giurisprudenza ha
escluso che il dovere di vigilanza sui minori in capo ai genitori potesse essere tale da configurare una responsabilità penale ex
art.40 co.2., perché un’applicazione di tale principio “potrebbe portare a conclusioni aberranti”.
[N.B. Non sono mancati correttivi dottrinali nel tentativo di riconoscere in casi simili delle graduazioni di responsabilità.
È il caso del padre condannato a titolo di concorso in omicidio doloso per aver assistito, senza spiegare alcuna attività benché contrario al
proposito criminoso, ad una specie di consiglio di famiglia in cui si decise di uccidere il più piccolo della famiglia, nel convincimento che dal
sangue dell’innocente se ne sarebbe ricavato un tesoro.
Per evitare simili condanne ritenute “aberranti”, la dottrina ha proposto dei correttivi su piano dell’elemento psicologico: il
“limite” all’equiparazione tra il non impedire l’evento e il cagionarlo potrebbe riguardare i reati commessi con dolo indiretto
od eventuale. Tuttavia, la dottrina poi opportunamente segnalato l’inefficacia dei rimedi relativi all’elemento soggettivo,
ritenendo parecchio difficoltoso accertare se l’omittente sia animato da volontà intenzionale o sia rimasto inerte per mero
compiacimento].
Un altro settore nel quale la problematica del concorso mediante omissione ha provocato contrasti, cioè quello del
diritto penale societario, e più in generale del diritto penale dell’impresa. Rientra in realtà il problema della
individuazione della portata e dei limiti della posizione di garanzia sia degli amministratori sia dei sindaci, quale
presupposto di obblighi di impedimento dei reati commessi da altri nell’ambito della compagine sociale.
PARTE V
CAP UNICO - La responsabilità oggettiva
1) Premessa
Dolo e colpa costituiscono i normali criteri di imputazione soggettiva di un fatto al suo autore. Essi, però, non
esauriscono i criteri di imputazione accolti nel nostro ordinamento.
L’art.42, dopo aver stabilito, nel co.2 che di un fatto delittuoso si risponde a titolo di dolo o colpa (nel prosieguo si
parla di preterintenzione), aggiunge al co.3 che «la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico
dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione».
Con l’avverbio «altrimenti» il legislatore del ’30 allude al parametro ulteriore di valutazione chiamato
«responsabilità oggettiva». È tale quella forma di responsabilità, in virtù della quale un determinato evento viene
posto a carico dell’autore in base al solo «rapporto di causalità materiale»: non si richiede né che l’evento sia
conseguenza di volontà colpevole (dolo); né che sia manifestazione di condotta contraria a regole di diligenza sociali o
scritte (colpa).
[A titolo esemplificativo è sufficiente richiamare alcune ipotesi già trattate: ad es. aberratio delicti, la responsabilità del partecipe
per reato diverso da quello voluto (aberratio delicti concorsuale), etc.]
La responsabilità oggettiva introduce vistose “eccezioni” al principio di colpevolezza: si tratta di eccezioni giustificabili?
Per rispondere l’autore si sofferma sulle funzioni politico criminali che la responsabilità oggettiva è in grado di
assolvere nel sistema penale.
[N.B. Le ragioni politico-criminali sottese all’istituto in esame sono fatte risalire al vecchio principio di matrice canonistica-
medievale “qui in re illicita versatur tenetur etiam de casu” (tradotto: chi versa nell'illecito, risponde anche per il caso fortuito).
Nella prospettiva di una tendenziale identificazione tra delitto e peccato, si riteneva che il delinquente-peccatore dovesse
rispondere di tutte le conseguenze oggettivamente cagionate dalla sua precedente azione criminosa, non importa se volute o non
volute, prevedibili o imprevedibili].
A dire il vero, l’influenza del principio richiamato è a tutt’oggi ravvisabile nelle ipotesi di delitto preterintenzionale e
dei reati aggravati dall’evento: ipotesi nelle quali viene accollato all’agente, sulla base del mero “nesso di causalità
materiale”, l’evento più grave oggettivamente derivante da una precedente azione diretta alla realizzazione di un
evento meno grave.
Il principio del «versari in re illicita» è stato reinterpretato in chiave di prevenzione generale, nel senso che la
consapevolezza da parte del potenziale autore che l’ordinamento gli addossa tutte le conseguenze materialmente
connesse alla sua azione illecita, dovrebbe costituire fattore capace di inibire la spinta criminosa.
Proprio questa maggiore efficacia intimidatrice è stata chiamata da parte della dottrina contemporanea a giustificare
l’attualità dell’esigenza di mantenere l’istituto in esame.
Ma, il convincimento della spiccata efficacia general-preventiva della responsabilità oggettiva è tutto da dimostrare.
◊ Secondo parte della dottrina, il ricorso alla responsabilità oggettiva può servire, sul terreno processuale, ad
eliminare difficoltà probatorie, con riguardo specifico ai casi in cui risulta particolarmente complesso l’accertamento
giudiziale
del dolo o della colpa.
[N.B. La tendenza a “derogare” all’accertamento della colpevolezza, in omaggio ad esigenze di economia probatoria, è emersa
storicamente soprattutto con riferimento al settore degli illeciti contravvenzionali. Non a caso, subito dopo l’entrata in vigore del
codice Rocco, prevalse un orientamento ermeneutico che riteneva sufficiente, ai fini della responsabilità nell’ambito delle
contravvenzioni, la coscienza e volontà della condotta, indipendentemente dalla sussistenza di ulteriori elementi configuranti dolo
o colpa. Però, le ragioni che spinsero il legislatore del ’30 a rinunciare a esplicite “deroghe” alla colpevolezza motivate da esigenze
meramente probatorie, sono, ad oggi, valide, e appaiono rafforzate dal principio costituzionale “inderogabile” di colpevolezza].
Ciò premesso, né ragioni di prevenzione generale, né ragioni di semplificazione probatoria possono rappresentare
validi argomenti per la sopravvivenza della responsabilità oggettiva, né costituire motivi atti a giustificare, sul piano
politico criminale, “deroghe” al principio di colpevolezza.
4) Reati di stampa
L’art.57 chiamava a rispondere di omesso impedimento dei reati commessi a mezzo stampa il direttore o il
vicedirettore di giornale e ciò sulla base del ruolo di supremazia rivestito da tali soggetti. La Corte costituzionale,
chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art.57, respingeva l’eccezione ma sollecitava il legislatore a riformare
l’articolo.
La riforma avvenne con legge 127/58 alla stregua della quale l’art.57 risulta così recitare: «Salva la responsabilità
dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare
sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi
reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente
1/3 ».
Parte della dottrina sostiene che l’art.57 continui a rappresentare un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
[N.B. A sostegno di tale tesi, si osserva che l’inciso «a titolo di colpa» si riferisce non al fondamento della responsabilità (quindi alla
colpa quale effettivo elemento strutturale della fattispecie), bensì alla disciplina del fatto, da intendersi come se fosse colposo.]
La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie considerano invece la figura di reato prevista nell’art.57 riformata
come colposa a tutti gli effetti, secondo questa interpretazione non basta accertare che il direttore abbia «violato
oggettivamente» l’obbligo di controllo, ma occorre verificare se tale omissione sia dovuta ad un atteggiamento
negligente. Più precisamente al direttore deve potersi rivolgere l’addebito di non aver valutato, o di aver
superficialmente valutato la liceità penale dell’articolo, a causa di un comportamento negligente.
Per evitare, però, che la responsabilità del direttore si trasformi di fatto in una responsabilità di «posizione», cioè
connessa alla titolarità del ruolo, occorre precisare la portata ed i limiti dell’obbligo di controllo respingendo la tesi che
attribuisce al Giudice una sorta di “delega in bianco”.
Ai fini della diligenza richiesta dovrà tenersi conto, di comportamento tenuto dal direttore, in una prospettiva di
bilanciamento tra prevenire (punire) i reati a mezzo stampa e il diritto alla libertà di informazione.
[N.B. È controverso se la responsabilità omissiva dia luogo a una forma autonoma di responsabilità, oppure a un concorso colposo
in fatto doloso. È preferibile la prima tesi, per vari motivi: l’art.57 reca la dizione testuale «fuori dei casi di concorso», mentre
l’art.58 bis stabilisce che la querela presentata contro il direttore o vicedirettore ha effetto anche nei confronti dell’autore dello
scritto.
Qualora l’omesso controllo del direttore dipenda dalla precisa volontà di assecondare la pubblicazione di un articolo di contenuto
penalmente illecito, si configura una normale ipotesi di concorso (doloso) del direttore nel fatto doloso dell’autore dello scritto].
Infatti, a seguito della riforma del ’90 il regime di imputazione delle circostanze aggravatici non risponde più alla logica
della responsabilità obiettiva, ma presuppone qualcosa di simile alla colpa come “coefficiente minimo di
responsabilità” sotto forma di «conoscenza» o «conoscibilità» del fatto integrante la circostanza.
A questo nuovo regime di imputazione soggettiva non si sottraggono neppure le circostanze che consistono in eventi
futuri successivi alla realizzazione della condotta illecita, come tipicamente accade nel caso di delitti aggravati
dall’evento. Ciò non esclude che sussistono ancora molte perplessità sulla natura dei reati aggravati dall’evento e se
ne ravvisa la forte esigenza di riforma.
1) Premessa
Normalmente ad una condotta umana corrisponde un reato; a più condotte corrispondono più reati.
Può anche accadere, tuttavia, che in una stessa condotta confluiscano più norme incriminatrici: tale confluenza può dar
luogo o ad un vero e proprio concorso di reati, ovvero ad un concorso apparente di norme.
Concorso di reati: formale e materiale il concorso di reati si distingue in materiale e formale. Si ha:
concorso materiale di reati: quando un soggetto con più azioni o omissioni realizza più reati;
concorso formale: quando un soggetto con una unica azione o omissione commette più reati.
[N.B. La disciplina delle sanzioni dei due istituti non è identica:
- nel concorso materiale di reati: si applicano tante pene quanti sono i reati (si adotta il cumulo materiale delle pene);
- nel concorso formale: si applica la pena prevista per il delitto più grave aumentata sino al triplo (si applica il cumulo giuridico
delle pene).
Questa differenza sanzionatoria fa comprendere l’importanza della distinzione tra concorso materiale e formale: essa
poggia sulla correlata distinzione tra unità e pluralità di azione.
Concorso apparente di norme
La figura del «concorso apparente di norme» ricorre quando una stessa condotta solo in apparenza risulta riconducibile
a più fattispecie incriminatrici, ma in realtà integra un solo reato.
[Concorso di reati e concorso apparente di norme rappresentano fenomeni simmetrici e contrari che saranno trattati nella stessa sede]
Reati omissivi Nei reati omissivi valgono criteri analoghi. Così, nel caso di:
reato omissivo improprio quando si sono verificati più eventi tipici:
- se il garante poteva impedire i diversi eventi solo attivandosi contemporaneamente, si ha una «omissione unica»
- se il garante, dopo la prima omissione, poteva impedire con diversi atti doverosi l’impedire del susseguirsi degli
eventi si ha «omissione plurima».
reato omissivo proprio quando si sono verificati più eventi tipici:
- se l’omittente viola contemporaneamente più obblighi di condotta sussisterà «omissione unica», se poteva evitare
i diversi eventi solo adempiendo contemporaneamente ai propri obblighi;
- se l’omittente viola contemporaneamente più obblighi di condotta sussisterà «omissione plurima», quando i
diversi obblighi potevano essere adempiuti uno dopo l’altro.
4) Concorso materiale.
Concorso materiale omogeneo e eterogeneo abbiamo concorso materiale quando un soggetto realizza con più
azioni od omissioni, più violazioni:
della stessa norma incriminatrice concorso materiale omogeneo; (esempio: Tizio, in un primo tempo uccide Caio e
dopo qualche tempo uccide Sempronio);
di diverse norme incriminatrici concorso materiale eterogeneo; (esempio: Tizio ruba prima un’arma, poi commette
una rapina, successivamente cagiona un omicidio).
Al concorso materiale si riferiscono due norme:
• l’art.71 il quale prevede l’ipotesi in cui «…con una sola sentenza o con un solo decreto, si deve pronunciare condanna per più
reati contro la stessa persona…»;
• l’art.80 il quale prevede l’ipotesi in cui «…dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa persona
per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima, ovvero quando contro la stessa persona si
debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna…».
Unicità di azione e plurime di una stessa norma: b) nel concorso formale omogeneo
Per stabilire se si configuri un concorso formale omogeneo occorre, invece, verificare quante volte una medesima
azione viola una stessa disposizione incriminatrice.
Allo scopo, appare decisiva la distinzione tra fattispecie incriminatrici che tutelano beni altamente personali (come vita o
integrità fisica) e fattispecie che proteggono beni di diversa natura.
fattispecie incriminatrici che tutelano beni altamente personali: si configura senza dubbio una pluralità di reati
quando con una medesima azione si ledono soggetti passivi diversi: (si pensi al CASO 61, ove dalla stessa condotta colposa
deriva la morte di più passanti);
fattispecie che proteggono beni di diversa natura: in presenza di una sola azione, pur lesiva di soggetti passivi
diversi, non sempre è configurabile una pluralità di reati: (si pensi ad un unico furto commesso mediante un’unica azione di
impossessamento di una cosa appartenente a più soggetti passivi)
6)Concorso formale. Disciplina.
A norma dell’art.81 co.1 «È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi
con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione».
La riforma del 1974 ha profondamente modificato l’originale regime giuridico previsto dal legislatore fascista per il
concorso formale di reati: al regime del «cumulo materiale» codificato nella vecchia formulazione dell’art.81 è stato
sostituito il regime del «cumulo giuridico», consistente nella applicazione della pena prevista per il reato più grave con
un aumento consistente, non già nella mera somma delle pene come con il cumulo materiale, ma in una quota
proporzionale prefissata dalla legge: sino al triplo.
È venuto meno, con la novella del ’74, uno degli aspetti più accentuatamente repressivi del Codice Rocco, ed ha ricondotto la
disciplina del concorso formale ai principi che già informavano il Codice Zanardelli del 1889.
Le ragioni contro il cumulo materiale delle pene, nel concorso formale di reato, sono sostanzialmente riconducibili:
gravosità della pena detentiva progressivamente accentuata, sicché adottando il cumulo materiale è violato il principio
di proporzione tra reati ed entità della pena;
il fatto che chi pone in essere più reati con una sola condotta mostra una pericolosità sociale minore di chi lo fa con
diverse condotte.
[N.B. In realtà questa seconda motivazione non è stata oggetto di verifica critica; inoltre nel reintrodurre il cumulo giuridico il legislatore
non ha esplicitato se tale regime sia applicabile anche nei casi in cui le pene previste per i reati in concorso siano di specie diversa (pena
detentiva e pena pecuniaria), da qui anche l'incertezza sull'applicabilità del cumulo giuridico nel caso di concorso formale tra delitti e
contravvenzioni].
Il ritorno ad un irragionevole e ingiustificato furore repressivo va registrato con riferimento al soggetto recidivo
obbligatorio per effetto della riforma del 2005 che ha aggiunto all’art.81 il seguente nuovo comma «Fermi restando i
limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai
quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento della quantità di pena non può essere
comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave».
1) Premessa
In taluni casi, il confluire di più norme incriminatrici nei confronti di un medesimo fatto non è reale, ma solo apparente:
sicché, in luogo di configurarsi un concorso di reati, si ha unicità di reato, essendo una sola la norma incriminatrice
veramente applicabile alle ipotesi di specie.
Per indicare tale fenomeno si parla di concorso o conflitto apparente di norme.
I presupposti strutturali di tale fenomeno sono due:
l’esistenza di una medesima situazione di fatto;
la convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla.
Trattandosi però di convergenza che si rivela ad un esame più attento fallace, occorre individuare i criteri che
consentono, rispettivamente, di accertare la «realtà» o l’«apparenza» del concorso.
Per identificare i casi di concorso apparente sono stati da tempo escogitati tre criteri:
a) specialità, b) sussidiarietà, c) consunzione (o assorbimento).
Di questi criteri, solo il primo trova esplicito riferimento nel nostro codice penale (art.15), mentre gli altri sono di
elaborazione dottrinale.
2) Specialità
Dispone l’art.15 «Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la
disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».
Schema logico del rapporto di specialità.
La disposizione stabilisce il principio della prevalenza della norma speciale rispetto alla legge generale.
[N.B. Il rapporto” genere a specie” riflette uno schema logico-formale di ascendenza aristotelica].
In applicazione di tale schema, il rapporto di specialità tra fattispecie implica che tutti gli elementi costituitivi di una
fattispecie (generale) siano contenuti in un’altra fattispecie (speciale), la quale ne contiene a sua volta ulteriori elementi
c.d. «specializzanti».
Adottando un altro linguaggio si può dire che disposizione speciale contempla un sottoinsieme (casi specializzanti) dei casi
contemplati dalla disposizione generale.
[Ad esempio, si pensi al caso 63, dove è prospettato un fatto a prima vista riconducibile a entrambe le fattispecie di cui agli art. 624 (furto) e
art.626 co.1 n.2 (furto di cose di tenue valore) ad un esame più attento, ci si accorge che la norma di cui all’art.626 è speciale rispetto
all’altra contenuta nell’art.624: infatti, essa contiene tutti gli elementi della norma generale che configura il furto comune, ma in più
ricomprende quali elementi specializzanti (lo stato di bisogno e il tenue valore della cosa sottratta); ne deriva che la norma
incriminatrice applicabile, ex art.15 c.p., è quella di cui all’art 626.
Va, inoltre, precisato che il rapporto di specialità può sussistere anche tra norme incriminatrici da un lato e norme c.d. di
liceità, dall’altro: ad es., le disposizioni che dichiarano lecito l’arresto facoltativo (art.381 c.p.p.) sono speciali rispetto a quella che incrimina il
sequestro di persona (art.605).
2.1) Il concetto di «stessa materia». Medesimezza del fatto e omogeneità del bene protetto.
Chiarita la natura del rapporto di specialità fra fattispecie, rimane da puntualizzare il significato dell’espressione «stessa
materia» contenuta nell’art.15
Secondo un orientamento diffuso più in giurisprudenza, il concetto di «stessa materia» non alluderebbe solo
all’esistenza di un «medesimo fatto» apparentemente riconducibile a più norme, ma anche alla «identità» (o
«omogeneità») del bene protetto.
Senonché, tale interpretazione pretende di inserire, tra i presupposti dell’operatività dell’art. 15, un elemento che ne
stravolge la funzione: difatti, il rapporto di specialità ha natura logico-formale, pertanto sono ad esso estranei
apprezzamenti di valore quali quelli che invece è necessario emettere quando si deve individuare l’oggettività giuridica
(«identità» del bene protetto).
Specialità in concreto.
Secondo un altro indirizzo interpretativo, il concetto di «stessa materia» farebbe riferimento non solo alle ipotesi nelle
quali il medesimo fatto rientra in più norme incriminatrici, ma anche a quelle in cui uno stesso fatto concreto è
riconducibile a due o più figure criminose, pur se fra le medesime non sussiste in astratto un rapporto di genere a
specie: per qualificare questo fenomeno si parla di «specialità in concreto».
[Per esemplificare, si consideri il rapporto tra il millantato credito (art.346) e la truffa (art.640): ponendo a raffronto le rispettive fattispecie
incriminatrici astratte, ci si accorge che nessuna delle due contiene in sé l’altra con l’aggiunta di elementi specializzanti
Nondimeno, un rapporto di «interferenza» (si badi non di specialità) tra le due fattispecie può di fatto instaurarsi nell’eventualità
data da un caso concreto in cui la truffa venga commessa mediante millantato credito].
Il rapporto di specialità in concreto andrebbe risolto applicando la norma che meglio si adatta al caso di specie,
normalmente ravvisata in quella che prevede il trattamento più severo: (nel nostro esempio, quindi, si applicherebbe solo la
norma che punisce il millantato credito, la quale, in quanto caratterizzata da maggior disvalore, assorbirebbe in sé quella sulla truffa).
[N.B. A ben vedere, il concetto di «specialità in concreto» si risolve in un non-senso: non si comprende come mai un rapporto di
specialità fra due norme astratte debba dipendere dalla particolarità di un «fatto concreto»; come rapporto tipicamente sussistente
tra norme astratte, la specialità o esiste o non esiste].
La verità è che la escogitazione dell’idea di sondata in concreto deriva dalla constatazione che il rapporto di specialità da
solo non è in grado di risolvere tutte le ipotesi di «concorso apparente di norme».
3) Sussidiarietà.
Stadi diversi di offesa di uno stesso bene annoverato tradizionalmente tra i criteri consolidati di risoluzione del
conflitto apparente di norme, il «principio di sussidiarietà» intercorre tra norme che prevedono «stadi o gradi diversi
di offesa ad uno stesso bene»: di modo che l’offesa maggiore assorbe l’offesa minore e, di conseguenza, l’applicabilità
di una norma è subordinata alla non applicazione dell’altra.
- In taluni casi è lo stesso legislatore ad indicare espressamente un «rapporto di sussidiarietà» tramite utilizzo di una
clausola di riserva: (si pensi al reato di abuso di ufficio (art.323), il quale è applicabile – per esplicita disposizione legislativa – solo ove
non risultino applicabili altre fattispecie più gravi poste sempre a tutela della pubblica amministrazione).
- Ma esistono anche casi di sussidiarietà «tacita»: (si pensi ad esempio al rapporto intercorrente tra la contravvenzione di atti
contrari alla pubblica decenza (art.726) ed il delitto di atti osceni (art.527), figure di reato entrambe poste a protezione di un bene
omogeneo, che si diversificano solo in ragione della diversa intensità (grado) dell’aggressione ad esso bene arrecata).
La maggiore riserva nei confronti del criterio di sussidiarietà è che esso non sempre è distinguibile dal criterio dell’assorbimento
Distinzione tra principio di specialità e sussidiarietà. Negazione della affermata tautologia del secondo.
L’obiezione secondo cui il criterio di sussidiarietà, dal punto di vista del contenuto, finisce con il risolversi in una tautologia,
ridondante rispetto al principio di specialità, è infondata.
Tale obiezione non tiene conto che:
il rapporto di specialità presuppone sussistente un rapporto logico-formale di genere a specie tra i rispettivi elementi delle
fattispecie astratte, laddove la norma speciale contiene, oltre a tutti gli elementi della norma generale, anche ulteriori
specializzanti;
il criterio di sussidiarietà implica, invece, l’assorbimento di un fatto (non di elementi della fattispecie) meno grave all’interno
di uno più grave lesivo dello stesso bene, anche se le fattispecie incriminatrici astratte contengano elementi strutturalmente
diversi.
4) Assorbimento: «ne bis in idem sostanziale».
Principio dell’assorbimento come criterio di valore Il principale criterio non logico, ma di «valore» utilizzato
per risolvere i casi di conflitto apparente tra norme, non risolubili alla stregua del rapporto di specialità, è quello
dell’«assorbimento» o della «consunzione».
Esso è invocabile per escludere il concorso di reati in tutte quelle ipotesi nelle quali la realizzazione del reato comporta,
secondo l’id quod plerumque accidit (ciò che accade più spesso, “normalmente”), la commissione di un secondo reato, il
quale finisce per essere «consunto, assorbito» dal primo reato.
Questo rapporto di compresenza tra più reati, suffragato dall’esperienza, non sfugge allo stesso legislatore, il quale, nel
prevedere il trattamento per il reato più grave, fissa una sanzione atta a coprire anche il disvalore del reato meno grave.
Caratteristiche principali dell’«assorbimento» sono:
a) non poggia su un rapporto logico tra norme, ma su un giudizio di valore sul fatto, in base al quale l’apprezzamento
negativo del fatto concreto appare assorbito nella norma che prevede il reato più grave, con la conseguenza che la
contemporanea applicazione sia della norma con la sanzione più grave, sia di quella che prevede il reato meno grave,
condurrebbe ad un ingiusto moltiplicarsi di sanzioni (si avrebbe il cumulo materiale delle pene);
b) richiede la unitarietà normativo – sociale del fatto, non la identità naturalistica (come il principio di specialità, che viene
prima nella valutazione del conflitto apparente e che, pertanto, deve essere escluso perché si attivi il principio di assorbimento).
Unitarietà normativo - sociale del fatto In altri termini, nella prospettiva del principio di assorbimento, il fatto
appare identico, pure in presenza di azioni diverse da un punto di vista naturalistico, purché espressive di un disvalore
penale omogeneo, come tale avvertito dalla coscienza sociale: si pensi, ad esempio, ad una violenza carnale successiva ad atti osceni.
La norma prevalente Ma, a questo punto si pone il problema, qual è la norma prevalente, cioè quella assorbente dell’altra
e da applicare ai casi simili?
Normalmente soccorre il «criterio del trattamento penale più severo», laddove più severo è il trattamento penale
previsto dalla norma che ha il “superiore minimo edittale”; (così, nell’esempio del CASO 65 la norma sulla falsa testimonianza,
dopo la riforma del 1992, ha sia il minimo che il massimo edittale più alto rispetto alla norma che configura il favoreggiamento).
Ove, non si ritenga deciso il riferimento al criterio del «superiore minimo edittale», non resta che basarsi su una
«comparazione del rango e della qualità dei beni tutelati»; così nel CASO 65, dovrebbe parimenti ritenersi prevalente la falsa
testimonianza, perché il bene tutelato (verità del giudizio) è da ritenersi di “grado superiore” rispetto a quello (corretto svolgimento
delle investigazioni di polizia giudiziaria) attinente alla fase meramente procedimentale, protetto dalla norma sul favoreggiamento.
6) Reato complesso.
Unificazione legislativa di più reati L’art.84 afferma che le disposizioni sul concorso di reati «non si applicano
quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi,
reati».
La norma richiamata disciplina il «reato complesso», che consiste in una “unificazione legislativa”, sotto forma di
«identico reato», di due o più figure criminose, i cui rispettivi elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura
risultante dalla unificazione.
Dal punto di vista strutturale, uno dei reati assorbiti può anche assumere, all’interno della fattispecie unificata, la
posizione di «circostanza aggravante».
[Per esemplificare si consideri il delitto di «rapina» (628) il quale ricomprende in sé il delitto di furto (624) e quello di violenza privata (610)].
La funzione pratica dell’art.84 è quella di evitare che l’interprete sia indotto ad applicare il regime del concorso di reati
laddove il legislatore ha previsto una unificazione della normativa di fatti che integrerebbero autonome fattispecie di reato.
[N.B. L’Autore critica quella parte della dottrina che ha dilatato la figura del reato complesso fino a ricomprendervi i «reati complessi
in senso lato», i quali si avrebbero nel caso di un reato che accoglie elementi di un reato meno grave + altri che, di per sé, non
costituiscono reato: (è l’esempio del reato di violenza carnale, che riunisce in sé il reato di violenza privata + l’elemento del congiungimento
carnale, in sé non costituente reato se avvenuto tra consenzienti maggiorenni).
Ma, giustamente, in casi simili non c’è bisogno di dar luogo ad una nuova figura dogmatica, stante che per il principio di specialità
viene esclusa la violenza privata (norma generale) e viene applicata la violenza carnale (norma speciale che in sé contiene sia gli
elementi della norma generale, sia quelli ulteriori specificanti della norma speciale)].
Alla figura del «reato complesso» fanno riferimento alcune norme di disciplina:
art.84 co.2: «qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i
singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli artt.78 [limiti alle pene
principali] e 79 [limiti alle pene accessorie]»;
art.131: «nei casi previsti dall’art. 84, per il reato complesso si procede sempre d’ufficio, se per taluno dei reati che ne
sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti, si deve procedere per ufficio»;
art.170 co.2: «la causa estintiva di un reato, che è elemento costituivo o circostanza aggravante di un reato complesso,
non si estende al reato complesso». (Sicché se un’amnistia è applicabile ai reati di furto essa è inapplicabile alla rapina).
PARTE VII – LE SANZIONI
CAP 1 – Presupposti teorici e politico criminali del sistema sanzionatorio vigente
1) Premessa
[N.B. Che la pena consista in uno strumento di afflizione è cosa ovvia. Se le cose fossero così semplici, non si spiegherebbe perché
sul problema della giustificazione della pena esista una letteratura sterminata.
Il fatto è che il momento afflittivo implicito nella pena, può essere strumentalizzato per il raggiungimento di fini diversi. Sono questi
fini che, a loro volta, mutano in funzione della più generale “concezione della società e dello Stato”, man mano che si affermano nel
corso dell’evoluzione storica].
Inoltre, l’evoluzione storico-sociale influisce non solo sugli scopi della pena, ma anche sulle tecniche adoperate per punire il
reo: è oltremodo significativo il passaggio dalle pene corporali alla pena detentiva e, più recentemente, alle pene alternative.
I sistemi penali moderni non si basano più sulla sola pena. Oggi il concetto di sanzione penale si estende sino a ricomprendere
le c.d. misure di sicurezza, cioè una misura ulteriore che consegue pur sempre alla commissione di un reato (o di un quasi
reato, art.49) ma la cui funzione si differenzia da quello delle pene in senso stretto: scopo delle pene è quello di riabilitazione
del condannato, scopo delle misure di sicurezza è quello di risocializzare l’autore in quanto soggetto socialmente pericoloso.
- retribuzione della pena (malum passionis propter malum actionis) rappresenta l’idea che la sanzione debba servire a
compensare la colpa per il male commesso.
L’idea di retribuzione implica anche il concetto di proporzione, se la pena deve servire a compensare il male procurato
dall’azione illecita, non può essere sproporzionata rispetto alla gravità del reato commesso;
- prevenzione generale si fonda sull’assunto che la minaccia della pena serva a distogliere la generalità dei consociati
dal commettere fatti socialmente dannosi;
- prevenzione speciale fa leva sull’idea che l’inflizione della pena ad un determinato soggetto serva ad evitare
(rieducandolo ex art.27.3) che lo stesso commetta altri reati.
Il tentativo di conciliazione tra le due Scuole sfociò in un risultato che fece apparire la legislazione italiana come
avanguardistica, si allude all’introduzione del «sistema del doppio binario», cioè di un sistema per il quale si prevede,
accanto ed in aggiunta alla pena tradizionale inflitta sul presupposto della colpevolezza, una misura di sicurezza, vale a
dire una misura fondata sulla pericolosità sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione.
Le ragioni politico-criminali che giustificano l’introduzione del doppio binario, si basano su di una peculiare concezione
del rapporto tra prevenzione generale e prevenzione speciale. La funzione di prevenzione generale viene tutta affidata
alla pena. La relazione ministeriale al codice in proposito dichiara: «Delle varie funzioni che la pena adempie le principali sono
certamente la funzione di prevenzione generale, che si esercita mediante l’intimidazione derivante dalla minaccia e dall’esempio, e la
funzione satisfattoria, che è anch’essa, in un certo senso, di prevenzione generale, perché la soddisfazione che il sentimento pubblico
riceve dall’applicazione della pena, evita le vendette e le rappresaglie».
Come si desume, alla retribuzione (definita «satisfattoria») viene attribuito un ruolo non autonomo, ma strumentale
rispetto all’obiettivo della «prevenzione generale», questo nesso strumentale retribuzione-prevenzione generale
caratterizza alcuni “orientamenti neoretribuzionistici” emersi negli ultimi anni.
La funzione di prevenzione speciale è affidata alle misure di sicurezza. Sono misure dirette a neutralizzare la
«pericolosità sociale» del reo, hanno come scopo quello di evitare che uno stesso soggetto incorra nella commissione di
futuri reati. All’interno del genus «misure di sicurezza», si distinguono diverse specie di misure (casa lavoro, casa di cura e
custodia, manicomio giudiziario, riformatorio giudiziario) rapportate alle caratteristiche tipologiche del delinquente (recidivo o
abituale, infermo di mente, minorenne, ecc.).
[N.B. È opportuno precisare che la dizione sistema del doppio binario non esprime solo la compresenza nello stesso ordinamento di
sanzioni penali di natura diversa, ma indica altresì la possibilità di applicare allo stesso soggetto che sia all’un tempo «imputabile» e
«socialmente pericoloso», tanto la pena che la misura di sicurezza].
L’applicabilità ad uno stesso soggetto di sanzioni penali di natura diversa, aventi come presupposto la pena, cioè la
libertà del volere e la colpevolezza e le misure di sicurezza, cioè la tendenza deterministica a delinquere e la
conseguente pericolosità sociale, sembra supporre una concezione dell’uomo come essere «diviso in due parti»:
- determinato e pericoloso per altro verso, e come tale assoggettabile a misura di sicurezza.
Sul piano, poi, della disciplina positiva sono registrabili delle interferenze che finiscono col rendere incerta la linea di
demarcazione tra o criteri che presiedono all’applicazione della pena e delle misure di sicurezza. L’art.133, nel regolare il
potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena, stabilisce che si deve tenere conto anche della «capacità a
delinquere del colpevole» desunta da una serie di indici relativi alla sua personalità ed all’ambiente di provenienza. A sua
volta, l’art.203, relativo all’accertamento della pericolosità sociale quale presupposto della misura di sicurezza, dispone che la
qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle stesse circostanze indicate dall’art.133.
[N.B. Ciò significa che, per il giudizio di pericolosità, rilevano gli stessi elementi che servono per la quantificazione della pena: ma se
è così, finiscono con lo sfumare le differenze dei presupposti applicativi tra pene e misure, e, di conseguenza, diventa artificiosa lo
stesso principio del doppio binario].
La pretesa distinzione tra le due forme di sanzioni penali, basata su modalità di esecuzione diverse corrispondenti ai distinti
obiettivi politico-criminali perseguiti, si rivela alla prova dei fatti una mistificazione: tra le due misure esiste una sostanziale
identità di contenuto afflittivo.
Il legislatore costituzionale prende esplicita posizione sul fondamento e funzione della pena, statuendo, all’art.27 co.3
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato ».
La dottrina coeva alla emanazione della Carta costituzionale espresse orientamenti ermeneutici tendenti a restringerne
la portata. Invero, facendo leva sul verbo «tendere», si sostenne che la rieducazione non era una finalità essenziale della
pena, ma solo uno scopo eventuale, e, considerando l’ordine di successione dei due enunciati, (pena e, poi,
rieducazione) contenuti nel 3° co. dell’art.27, se ne è dedotto che scopo necessario delle pene resta la «retribuzione»,
mentre la funzione rieducativa resterebbe confinata alla fase esecutiva.
Una simile interpretazione non aveva in realtà nessun argomento valido da portare a suo sostegno. Invero, se il
legislatore costituzionale avesse inteso esprimere una idea diversa, nulla gli avrebbe di usare espressioni più
appropriate. D’altra parte, proprio il concetto di «rieducazione» non sembra prestarsi in alcun modo ad essere
ricondotto alle teorie tradizionalmente accolte sulla funzione della pena. Infatti, quando in passato si era sostenuto che
la pena assolve a finalità, oltre che retributive, anche di prevenzione speciale, ci si era riferiti alla prospettiva di un
trattamento punitivo volto all’emenda individuale sotto il profilo etico.
Mentre il concetto di rieducazione in senso costituzionale esprime significati che rimandano soprattutto alla dimensione
intersoggettiva ed inclina verso il concetto di «risocializzazione».
[Si potrebbe obiettare, a questo punto, che la rieducazione intesa come risocializzazione finirebbe con l’annullare la differenza di
scopi tra pene e misure di sicurezza. Ma, una simile obiezione sarebbe viziata da inversione metodologica: essa cioè, in contrasto
con il principio di gerarchia delle fonti, implica un’interpretazione della norma costituzionale alla luce delle scelte politico-criminali
recepite nella legislazione ordinaria. Si può ulteriormente confutare come non probante l’argomento che fa leva sull’ordine di
successione dei due enunciati contenuti nell’art.27.3. Invero, in astratto il divieto di trattamenti inumani si può egualmente riferire
sia alla retribuzione che alla rieducazione, e, infatti, non è affatto vero che la rieducazione presupponga necessariamente un
trattamento ispirato a criteri di umanità].
Da ultimo, proprio perché la rieducazione deve conciliarsi col rispetto dell’autodeterminazione del reo, l’esito favorevole del
processo rieducativo non è scontato in partenza. Esclusa, infatti, ogni forma di imposizione coattiva, la possibilità di rieducare
si atteggia solo ad obiettivo tendenziale, perseguibile finché il reo sia disposto a collaborare. In questa ottica si comprende
perché il legislatore costituzionale abbia usato l’espressione «tendere» nel riferirsi alla funzione rieducativa della pena. Il
primo limite va ravvisato nel fatto che la «prevenzione speciale» coniugata in termini di rieducazione, non è da sola
sufficiente ad esaurire tutte le funzioni cui oggi la sanzione penale assolve. Se la rieducazione, infatti, assume un ruolo
primario nelle due fasi della commisurazione giudiziale e dell’esecuzione della pena, non può dirsi altrettanto nella fase della
minaccia che persegue, invece, l’obiettivo di prevenzione generale. Il secondo limite va ravvisato nella stessa «genericità» del
concetto di rieducazione, sia pure assunto a criterio ispiratore di non tutte, ma di alcune funzioni soltanto della sanzione
penale: ciò sollecita l’interprete ad un impegno rivolto a precisare portata e limiti della rieducazione alla stregua dell’insieme
dei principi che caratterizzano il nostro sistema costituzionale.
[ Una delle principali obiezioni fa leva sul rilievo che l’idea rieducativa non consente alcuna “predeterminazione” temporale della
durata delle sanzioni ma dovrebbe tendere ad un trattamento finalizzato alla correzione definitiva, anche se la relativa durata sia
imprevedibile. Persino l’assunzione di un «fatto di reato» a presupposto imprescindibile della sanzione penale, sarebbe poco
comprensibile dal punto di vista di un diritto penale del trattamento riabilitativo].
All’interno di una prospettiva teorica pur favorevole al principio di rieducazione, si è sostenuto che l’idea retributiva
rappresenti un momento logico ineliminabile della pena. Secondo tale prospettiva, la retribuzione, lungi dall’assurgere a
fine in sé, offrirebbe la garanzia che il diritto penale mantenga l’imprescindibile “nesso” con fatto reato e, in questo
modo, preservi la libertà del singolo da una illimitata possibilità di intervento dello Stato.
Invero, si sostiene, posto che il concetto stesso di retribuzione evochi un rapporto di corrispondenza tra gravità del male
commesso e intensità della risposta sanzionatoria, il suo mantenimento permetterebbe di dosare le sanzioni in maniera
corrispondente all’obiettivo disvalore dei reati commessi. Questa impostazione si rivela frutto di un approccio
«idealistico», ignaro della dimensione empirica del fenomeno retributivo. Difatti, considerata non come idea astratta,
ma come idea che vive nella realtà, la retribuzione esprime le istanze emotive di punizione. Col pretendere di rinvenire
nell’idea retributiva una garanzia contro i possibili eccessi di una illimitata rieducazione, si rischia di fare affidamento su
parametri irrazionali e incontrollabili.
[N.B. Inoltre, l’impostazione in esame sembra dare per scontato che tra «retribuzione» e «diritto penale del fatto» debba sussistere
un rapporto di necessaria implicazione, senza peraltro soffermarsi a meglio specificare questo assunto].
Invero, considerata astrattamente, l’idea retributiva si presta anche ad esprimere l’esigenza di compensare una
colpevolezza legata più all’atteggiamento interiore dell’agente che alla obiettiva gravità del fatto commesso.
In realtà, il fatto che la rieducazione vada concepita in collegamento col disvalore espresso dal fatto è un dato
desumibile dalla Costituzione. Difatti, è conseguenza di un’interpretazione che relaziona l’art.27 co.3 con l’art.25 co.2,
il quale nel sancire il principio di legalità, configura la pena come effetto giuridico di un «fatto» criminoso, e non già,
dunque, di un modo di essere soggettivo o di un atteggiamento interiore. Ne deriva che in base al combinato disposto di
cui agli artt.25 co.2 e 27 co.3, il presupposto della stessa pretesa rieducativa non può che essere costituito dalla
commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato. Beninteso, ciò non equivale a sottovalutare l’esigenza di una
“proporzione” tra fatto e sanzione, solo che il soddisfacimento di questa esigenza non necessita della vecchia
concezione restrizionistica. Il principio di proporzione, oltre a caratterizzare l’idea generale di giustizia, costituisce uno
dei criteri guida che presiedono allo stesso funzionamento dello Stato di diritto, parametro essenziale di qualsiasi teoria
razionale sulla funzione della pena.
- Da un lato, in una ottica di prevenzione generale, la minaccia di una pena sproporzionata, può suscitare sentimenti di
insofferenza nel potenziale trasgressore e alterare nei consociati la percezione di una corretta della scala di valori.
- Dall’altro lato, in una ottica di prevenzione speciale ispirata al modello della rieducazione, va sottolineato che un
trattamento rieducativo correttamente inteso presuppone che il destinatario si renda conto del torto commesso e
percepisca come giusta e proporzionata la sanzione che gli viene inflitta.
[N.B. Qualche autore ha proposto di leggere l’art.27 co.3 e la sancita funzione rieducativa della pena alla luce del disposto di cui
all’art.3 co.2 Cost. In questo senso la pena avrebbe una funzione rieducativa nella misura in cui suo compito sarebbe quello di
recuperare socialmente i soggetti indotti a delinquere perché in condizioni di marginalità sociale.
L’Autore esclude tale opzione, opinando che essa non avrebbe ragion d’essere nei confronti di chi è già socialmente bene inserito].
È, dunque, necessario distinguere tra obiettivo da perseguire e le tecniche che si rendono necessarie per ottenere il
risultato.
- La rieducazione come «obiettivo» allude al processo di riappropriazione da parte del delinquente dei valori fondamentali
della convivenza.
- La «tecnica» di rieducazione muterà a seconda che si abbia a che fare con un emarginato o con un colletto bianco.
[N.B. Il Fiandaca sostiene che nel caso si tratti di un emarginato, non potrà esservi rieducazione ai valori del vivere civile se non dopo
aver superato la condizione di marginalità sociale del reo. Nel caso dei colletti bianchi, invece, la pena deve essere affittiva.
Il consenso del destinatario Perché il processo rieducativo possa avere corso senza tradursi in una imposizione
coercitiva, occorre che il destinatario presti la sua disponibilità psicologica. In altri termini, dal momento che non può
essere coercitivamente imposta, la rieducazione trova un ostacolo nell’eventuale rifiuto opposto al soggetto
destinatario della sanzione.
● Ergastolo per attenuare il contrasto tra la pena dell’ergastolo e la finalità rieducativa la legge 1643/1962 ha
stabilito che «il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26
anni di pena». Successivamente, la miniriforma penitenziaria dell’1986 ha esteso anche agli ergastolani la possibilità di
beneficiare della semilibertà e della liberazione anticipata;
● Sospensione condizionale della pena il finalismo rieducativo ha ispirato la modifica della disciplina della
sospensione condizionale. Al fine di ridurre gli “effetti desocializzanti” della pena carceraria, il legislatore del 1974 ha
esteso l’ambito di operatività della sospensione condizionale sotto il duplice profilo:
Con modifica del 1981, il legislatore ha subordinato la concedibilità del secondo provvedimento all’adempimento da
parte del beneficiario di alcuni obblighi di condotta funzionalizzati all’idea rieducativa.
• Ordinamento penitenziario.
Riforma dell’ordinamento penitenziario, intervenuta con legge n.354/75: i punti più qualificanti di tale riforma
consistono, da un lato, nella ricezione dell’«ideologia del trattamento rieducativo», dall’altro, nella introduzione delle
«misure alternative alla detenzione».
[N.B. Quanto all’ideologia del trattamento rieducativo, se ne colgono i segni nelle norme del nuovo ordinamento penitenziario che
prevedono l’indagine scientifica sulla personalità e interventi psicologici ed esperti diretti a modificare gli atteggiamenti che sono di
ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale, si pensi alle norme che prevedono l’individualizzazione del trattamento. Quanto
alla finalità rieducativa, essa si esprime in una tendenza al recupero sociale attuato non attraverso il trattamento penitenziario,
bensì mediante il reinserimento del condannato nell’ambiente esterno].
È in questa prospettiva che vanno lette le misure alternative alla detenzione, quali, l’affidamento in prova, la
semilibertà, la liberazione anticipata. Una soddisfacente attuazione dei principi della riforma penitenziaria è, tuttavia,
impedita dalla drammatica riemersione di esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale già a partire dalla seconda
metà degli anni Settanta.
►Con il superamento della fase più acuta del terrorismo politico a metà degli anni ’80, la legge 663/1986 (legge
Gozzini) introduce una «miniriforma penitenziaria» che tende ad un timido rilancio dell’ideologia rieducativa.
►Un’ulteriore inversione di tendenza, nel senso dell’inasprimento del trattamento penitenziario, è sollecitata nei primi
anni Novanta dalla recrudescenza della criminalità organizzata di stampo mafioso.
- da un lato si inasprisce la disciplina penitenziaria per i condannati per delitti di mafia e criminalità organizzata;
- dall’altro, all’opposto, si introducono misure premiali finalizzate allo scopo di collaborazione giudiziale dei “pentiti”.
[N.B. Il pendolo politico criminale non ha smesso di oscillare, sull’onda di una rinnovata attenzione per le conseguenze desocializzanti
provocate dalla pena per fatti di non particolare gravità, alla fine degli anni ’90, si sono ampliate le condizioni di accesso alle misure
alternative. Un’ulteriore e significativa concretizzazione dell’ideologia rieducativa è costituita dall’introduzione, con legge 689/1981, delle
sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Le ragioni politico-criminali di un tale intervento sono riconducibili al convincimento che le
pene detentive brevi producano “effetti desocializzanti e criminogeni”, piuttosto che “rieducativi”. Segni del finalismo rieducativo si
intravedono anche nella nuova disciplina della pena pecuniaria, introdotta con la legge 689/1981. Il nuovo meccanismo di commisurazione
della pena in base alle condizioni economiche del reo (art.133 bis) tende, infatti, a far sì che quest’ultimo avverta la pena come più giusta e
proporzionata, con la conseguenza che può risultarne agevolato il processo di riacquisizione del rispetto dei valori offesi].
- da un lato il crescente aumento della criminalità, ha prospettato l’esigenza di riconsiderare le condizioni che
garantiscono una reale efficacia deterrente della sanzione penale;
- dall’altro, gli esiti poco confortanti della prassi attuativa della risocializzazione hanno indotto parte degli studiosi a dare
per caduta in crisi l’idea della funzione rieducativa della pena.
La funzione della prevenzione generale sotto forma di intimidazione o deterrenza (prevenzione generale c.d. negativa)
appare corroborata da una serie di ricerche teoriche ed empiriche effettuate negli USA. Tali indagini fanno emergere
che l’efficacia intimidatoria, più che dal livello di severità delle sanzioni minacciate, dipenderebbe dalla “certezza” e
”immediatezza” ed “effettività” della loro applicazione. [N.B. L’idea che scopo della pena sia quella di impedire che vengano
commessi in futuro reati risale a Protagora e Seneca, ed è stata fatta oggetto di elaborazione in chiave psicologica da Feuerbach. Secondo
questo modello, si presume che l’uomo sia un essere razionale che, prima di agire, valuti i pro e i contro della scelta criminale: questo
bilanciamento, dovrebbe essere risolto nel senso della rinuncia, tutte le volte che la prospettiva di sofferenza superi l’attrattiva dei possibili
guadagni connessi alla sua attività criminosa (minaccia della pena come controspinta psicologica alla spinta criminosa). Si è obiettato a
questa concezione che il delinquente non è un individuo che valuta razionalmente i motivi del proprio agire, egli è soggetto a stimoli
inconsci difficilmente controllabili. L’obiezione appare manichea e, certo, pecca per eccesso].
In altri termini la forte disapprovazione sociale, della quale sia la minaccia che la inflizione della pena sono simbolo, favorisce
l’identificazione della maggioranza dei cittadini con il sistema di valori protetto dall’ordinamento giuridico.
Il timore della sanzione punitiva agirebbe da fattore che facilita la formazione di un Super-io (coscienza morale) osservante i
comandi della legge. Dal punto di vista della psicologia collettiva, il diritto penale assolve, dunque, una funzione di
“socializzazione”, allo stesso modo di istituzioni quali la famiglia, la scuola, il gruppo, la comunità. Gli assunti di fondo della
teoria della prevenzione generale “allargata”, anche se plausibili, mancano, però, di fondamenti scientifici sicuri. Invero, la
funzione di orientamento culturale affidata alla pena non può essere acriticamente data per scontata, ma è subordinata alla
compresenza di ulteriori condizioni. Ad esempio, è necessario che esiste una tendenziale convergenza tra disapprovazione
sociale e disapprovazione legale; questo spiega perché la funzione di orientamento culturale si indebolisce laddove risulti
insufficiente o incerta la stigmatizzazione del comportamento nella morale collettiva. Ma, considerata anche a prescindere
dalle condizioni della sua efficacia, la prospettiva della prevenzione generale allargata offre il fianco a due riserve di fondo:
- da un lato, si presta a rilegittimare la concezione «retributiva» della pena, la quale troverebbe una nuova giustificazione
empirica, sul terreno della prevenzione, nell’essere funzionale alla canalizzazione delle spinte aggressive, individuali e
collettive, scatenate dal delitto;
- dall’altro, finisce col privilegiare la soddisfazione dei bisogni collettivi di stabilità e sicurezza, sicché la funzione di
rieducazione della pena passa in secondo piano.
[In ogni caso, nella fase di crisi della pena e delle sue giustificazioni, si imporrebbe una rivalutazione del diritto penale quale extrema ratio].
7.2) La diversa rilevanza della prevenzione generale nelle tre fasi della fenomenologia punitiva
La “prevenzione generale” assume, nel triplice momento della minaccia, dell’inflizione e dell’esecuzione, diverso
significato e valenza.
● Minaccia è soprattutto in questa fase che si esplicano le funzioni di deterrenza e di orientamento culturale della
generalità dei cittadini;
● Inflizione giudiziale della pena qui deve occupare uno spazio il più ristretto possibile la funzione di prevenzione
generale. Se così non fosse, infatti, si tenderebbe inevitabilmente ad infliggere condanne penali esemplari, sicché il
singolo cittadino, potenziale reo, resti terrorizzato dalla crudezza della pena. Ma, così si strumentalizza il singolo
delinquente per fini di politica criminale, infatti questi sarebbe punito non in base alla gravità del reato commesso, ma
nella misura necessaria a intimorire la collettività per distoglierla dal commettere lo stesso reato. Si tratterebbe di un
sacrificio ingiusto che, viola i canoni della dignità umana e della uguaglianza (art.2 e 3 Cost.).
● Esecuzione della pena qui la prevenzione generale ha un ruolo secondario, domina in questo stadio la
preoccupazione per il trattamento rieducativo, mentre l’efficacia deterrente resta affidata alla natura afflittiva del
trattamento punitivo delle carceri italiane.
8) b. La retribuzione
La tesi che la pena servisse a compensare o retribuire il male che si era arrecato alla società, affonda le sue radici nella
“concezione vetero-cattolica”. Oggi questa concezione è superata dalla consapevolezza che non è compito di uno Stato
moderno, laico e pluralistico realizzare la giustizia assoluta. Quando oggi si parla di retribuzione non ci si riferisce più alla
prospettiva degli scopi della pena, ma il concetto di retribuzione implica l’idea di proporzione tra entità della sanzione e
gravità dell’offesa arrecata, tra misura della pena e grado della colpevolezza. Nello stesso tempo, la proporzione tra
fatto commesso e sanzione irrogata consente, nella diversa ma complementare ottica di prevenzione speciale, che il reo
la percepisca come giusta e che perciò assuma un atteggiamento di maggiore collaborazione nel processo rieducativo.
- da un lato canalizza l’aggressività suscitata nei cittadini della commissione del delitto;
- dall’altra avrebbe un effetto di deterrenza congiunto al rinsaldamento della loro fedeltà ai valori tutelati.
9) c. La prevenzione speciale
La funzione di prevenzione speciale tende ad impedire che chi si è già reso responsabile di un reato torni a delinquere
anche in futuro. Un simile obiettivo può essere perseguito attraverso tecniche sanzionatorie diverse.
La tecnica più elementare consiste nella neutralizzazione del soggetto potenzialmente pericoloso ottenuta grazie
all’impiego della coercizione fisica: un uomo in carcere non può compiere almeno determinati tipi di delitti.
La neutralizzazione può però essere ottenuta anche attraverso forme di interdizione giuridica, che impediscano al reo di
continuare a svolgere attività che hanno occasionato la commissione di delitti.
Un altro modo tipico di operare in termini di prevenzione speciale, si manifesta nel condizionamento della personalità
del reo. La tecnica più antica è quella della emenda morale, idea, già presente in Seneca, che ha ispirato una concezione
della pena legata alla visione cattolica dell’esistenza. Nei tempi moderni, la prevenzione speciale assume a criterio guida
la rieducazione concepita come risocializzazione del soggetto. È in quest’ottica che è stata prevalentemente interpretata
la funzione rieducativa della pena, solennemente sancita dall’art. 27 co.3 Cost.
Ora, a prescindere dall’irrigidirsi dell’ordinamento imposto dall’emergenza terroristica prima e mafiosa poi, manchevolezze sì gravi
non dimostrano il fallimento dell’idea rieducativa, ma stanno solo ad indicare che sinora è prevalsa una mentalità burocratica nella
gestione della riforma penitenziaria. Se così è, prima di suggerire l’abbandono dell’ideologia rieducativa (peraltro difficile in
presenza del dettato costituzionale) occorrerebbe aver compiuto più seri sforzi in vista della risocializzazione del condannato.
Un ultimo rilievo: la riaffermazione della validità teorica e politico-criminale del finalismo rieducativo non deve indurre in equivoco:
la rieducazione non costituisce un fine in sé! Il sistema penale di uno Stato democratico e pluralistico non può pretendere di
trasformare un delinquente in un santo, né in un onesto ragioniere: la prevenzione speciale come risocializzazione costituisce solo
una tecnica finalizzata all’obiettivo primario della protezione dei beni giuridici.
- il primo, orientato ad una prospettiva di riforma, sollecitava l’unificazione della pena e della misura di sicurezza in una
unica sanzione, che fosse contemporaneamente in grado di assolvere le finalità dell’una e dell’altra misura;
- il secondo, di natura applicativa e frutto di elaborazione giurisprudenziale, sotto l’etichetta di «fungibilità delle pene e
misure» tendeva a detrarre il periodo di privazione personale sofferto senza causa (relativo alla carcerazione preventiva
non seguita da condanna) dall’ammontare della misura di sicurezza da applicarsi dopo la pena.
Questi orientamenti costituiscono indici significativi dell’esigenza di superare l’attuale sistema del doppio binario
mediante scelte sanzionatorie più in linea con la Costituzione. In questa prospettiva, bisogna prendere atto che la
Costituzione, lungi dall’aver legittimato il sistema del cumulo di pene e misure di sicurezza nei confronti di un medesimo
soggetto, ha implicitamente prefigurato un sistema monistico: per il quale ad un reato deve corrisponder una sola
sanzione orientata “in senso rieducativo”. Se tale sanzione unica debba essere una pena o una misura di sicurezza è
scelta da operare in funzione delle caratteristiche soggettive dei destinatari della sanzione penale.
I riti alternativi e gli effetti destabilizzanti sul sistema sanzionatorio. Ulteriori effetti destabilizzanti sul sistema
sanzionatorio sono derivati dall’introduzione dei cosiddetti «riti alternativi» (rito abbreviato e patteggiamento sulla
pena: artt.442 e 444 c.p.p.), cioè di procedimenti speciali affidati all’iniziativa e all’accordo delle parti, che comportano
una sensibile riduzione della pena applicabile all’esito del giudizio normale. Si tratta di meccanismi processuali concepiti
in una ottica di “deflazione” della macchina giudiziaria, ma questi stessi meccanismi hanno forti implicazioni sostanziali
la cui portata dirompente è sfuggita agli artefici del nuovo codice di rito. Difatti, non è chiaro fino a che punto i nuovi riti
alternativi siano compatibili con gli scopi di prevenzione generale e speciale che le pene dovrebbero perseguire.
Nonostante il successivo intervento correttivo della Corte costituzionale, che impone al giudice di valutare la «congruità
rieducativa» della pena patteggiata, rimane invero la oggettiva difficoltà di orientare in senso preventivo-rieducativo
una pena la cui scelta rimane in larga misura affidata alle parti.
Sotto il profilo della connessione tra dimensione sostanziale e dimensione processuale, va segnalato il ben noto
fenomeno dell’abnorme utilizzo, nella impropria funzione di «pena anticipata», della «custodia cautelare».
A causa della lentezza nello svolgimento dei processi, la decisione se disporre o meno la custodia cautelare, specie
quando avvenga in carcere, può in realtà essere influenzata da motivazioni extraprocessuali, quali, appunto, la
preoccupazione di dare un’immediata risposta «punitiva» a comportamenti criminosi che la collettività percepisce come
meritevoli di indifferibile stigmatizzazione.
Il regime del «41 bis» Rimane da accennare ad alcune importanti novità introdotte dalla normativa in tema di
criminalità organizzata emanata nel 1991 e nel 1992, con l’inasprimento del regime carcerario (art.41bis con legge 354/75).
Si tratta di novità significative che hanno introdotto una disciplina cosiddetta a forbice:
- da un lato il regime del 41 bis, con un irrigidimento del trattamento penale in prospettiva di rigorosa retribuzione e
neutralizzazione della pericolosità soggettiva (c.d. irriducibili);
- dall’altro sconti di pena, concessioni di attenuanti e accesso immediato a misure alternative, per i detenuti ammessi allo
specifico programma di protezione (c.d. pentiti).
- art.17 che le pene principali stabilite per i «delitti» sono la pena di morte, l’ergastolo, la reclusione e la multa, le pene
principali per le «contravvenzioni» sono l’arresto e l’ammenda;
- art.18 definisce pene detentive o restrittive della libertà personale l’ergastolo, la reclusione (delitti) e l’arresto
(contravvenzioni), pene pecuniarie sono la multa e ammenda;
- art.20 precisa che le pene principali sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna, quelle accessorie
conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa.
Il d.lgs.274/2000 ha introdotto 2 nuove pene principali che si applicano ai soli reati di competenza del giudice di pace,
e cioè la «detenzione domiciliare» e il «lavoro di pubblica utilità».
Sono numerosi i reati cui si applicano queste nuove sanzioni, tassativamente previsti dall’art.4 del d.lgs.274/2000.
è stato riformato nel senso di cancellare la pena di morte definitivamente dal nostro ordinamento, sicché il canone costituzionale, a
seguito della legge cost.2/2007, risulta così sancire: “Non è ammessa la pena di morte”].
Ergastolo → dispone l’art.22 c.p. «La pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con
l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto ».
Controverso è il problema della compatibilità dell’ergastolo con i principi della Costituzione, in particolare con il
principio di rieducazione del condannato espresso dall’art.27 co.3 Cost. La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo
l’ergastolo, in base alla motivazione che la funzione della pena «non è soltanto il riadattamento sociale dei delinquenti,
ma pure la prevenzione generale, la difesa sociale e la neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati
delinquenti» (sent.264/74).
[N.B. Senonché, dice l’Autore a prescindere dalla concezione «polifunzionale» della pena sostenuta dalla Corte, va riconosciuto che
la natura perpetua della pena è andata ridimensionandosi nella prassi applicativa, sicché meno drammatico appare il problema della
legittimità costituzionale dell’ergastolo]. Invero, il condannato all’ergastolo può, se abbia tenuto un comportamento tale da
far ritenere sicuro il suo ravvedimento, essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di
pena (art.176 co.3 c.p.) e l’ammissione a tale beneficio, in presenza di accertato ravvedimento, è da considerare
«dovuta» a seguito dell’avvenuta «giurisdizionalizzazione» dell’istituto.
Ancora, va menzionata la sentenza n.274/1983, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto di
ammettere gli ergastolani al godimento degli sconti di pena consentiti dall’istituto della liberazione anticipata.
Successivamente con gli artt.14 e 18 della legge 663/86 sono stati estesi agli ergastolani gli istituti della semilibertà (con
il limite di espiazione di almeno 20 anni) e della stessa liberazione anticipata.
[N.B. Più particolarmente la citata legge 663/86 consente che, ai fini del computo dei vent’anni di pena espiata, presupposto
all’ammissibilità del regime di semilibertà, possano venire detratti 45 giorni per ogni semestre di pena scontata se il condannato partecipa
all’opera di rieducazione. Vi è di più, dopo 10 anni, che possono essere ridotti di un quarto (1/4) per effetto del beneficio da ultimo
accennato, sono altresì concedibili permessi premio per non più di 45 giorni l’anno.
Ora, siccome il nuovo art.53 bis dell’Ordinamento penitenziario stabilisce che il tempo trascorso in licenza è computato ad ogni effetto
nella durata della pena espiata, può accadere che un ergastolano venga rimesso in libertà dopo 15 anni avendo beneficiato di 225 giorni di
permesso e venga liberato condizionalmente dopo 19 anni e 6 mesi, avendo già usufruito di 428 giorni di permesso].
Il problema della costituzionalità dell’ergastolo è stato dai giudici di legittimità risolto, invece, in termini contrari con
riguardo ai minorenni imputabili; con sent.168/94 la Corte Cost. ha infatti ravvisato un’incompatibilità insanabile tra la
pena perpetua e la minore età.
Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell’ergastolo si riferisce alla «natura» della pena che è «fissa», tanto
più dopo che la stessa Corte Cost. si è pronunciata in favore della tesi che assume come costituzionalmente imposta una
commisurazione «individualizzata» della sanzione penale.
Reclusione → Stabilisce l’art.23 c.p. «La pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni, ed è scontata
in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno ».
La reclusione è la pena temporanea per i delitti. I limiti, minimo 15 giorni e massimo 24 anni, sono invalicabili per il
giudice nella scelta della pena da irrogare al caso concreto. Essendo legge ordinaria, per il principio della gerarchia delle
fonti, i limiti minimo e massimo possono essere derogati dal legislatore ordinario: così è stato nella legislazione
emergenziale antiterrorismo laddove, ad esempio, per il sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione la pena
è stata fissata nel minimo a 25 anni e nel massimo a 30 anni. L’esecuzione della reclusione è disciplinata dalla legge
sull’ordinamento penitenziario (l.354/75), sulla base dei seguenti principi:
3) il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità del condannato;
4) il trattamento si fonda sull’istruzione, sul lavoro, sulla religione, sulle attività culturali ricreative e sportive;
6) il lavoro non deve avere carattere afflittivo e deve essere remunerato in misura non inferiore a 2/3 delle tariffe
sindacali.
- differimento obbligatorio se l’esecuzione deve aver luogo contro donna incinta o contro donna che ha partorito da
meno di 6 mesi, o contro persona affetta da HIV, nei casi di incompatibilità con il regime carcerario di cui all’art.286 bis.1
c.p.p. (art.146 c.p.);
- differimento facoltativo se è stata presentata domanda di grazia, se il soggetto si trova in condizioni di grave
infermità fisica e se la donna ha partorito da più di 1 anno e da meno di 3 anni.
Arresto → Stabilisce l’art.25 «La pena dell'arresto si estende da cinque giorni a tre anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a
ciò destinati o in sezioni speciali degli stabilimenti di reclusione, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. - Il condannato
all'arresto può essere addetto a lavori anche diversi da quelli organizzati nello stabilimento, avuto riguardo alle sue attitudini e alle
sue precedenti occupazioni». L’arresto è la pena detentiva temporanea per le contravvenzioni. Anche per l’arresto valgono
gli stessi principi stabiliti per la reclusione, l’unica differenza tra esecuzione dell’arresto e della reclusione riguarda il
regime di semilibertà.
Multa → L’art.24 stabilisce che «La pena della multa consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a euro 50, né
superiore a euro 50.000. - Per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice
può aggiungere la multa da euro 50 a euro 25.000». Questa formulazione è all’esito di diverse modifiche, quella richiamata
dal testo è intervenuta con legge 689/81, l’elevazione dell’ammontare del limite minino e massimo con legge
n.94/2009. La multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti. Il pagamento può avvenire, in relazione alle condizioni
economiche del reo, in rate mensili da un minimo di 3 ad un massimo di 30.
[N.B. Se non viene eseguita per insolvibilità del condannato, tale pena si converte in una sanzione di conversione che, nella versione
originaria, era a pena detentiva, ma che è stata dichiarata costituzionalmente illegittima perché operava una «traslazione della pena
dai beni alla persona». Con la legge di modifiche al sistema penale (legge 689/81) il legislatore ha introdotto quali nuove sanzioni:
► «libertà controllata» che consiste in una forte limitazione della libertà personale accompagnata da una serie di obblighi;
► «lavoro sostitutivo» consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività, da effettuarsi presso gli enti
pubblici o enti morali.
La conversione avviene secondo un ragguaglio fissato per legge. L’ammontare della multa è previsto in modo fisso (cioè senza minimo e massimo)
ovvero in modo proporzionale. In questo secondo caso deve essere ragguagliato alle condizioni economiche del condannato.]
Ammenda → Secondo quanto detta l’art.26 «La pena dell'ammenda consiste nel pagamento allo Stato di una somma non
inferiore a euro 20 né superiore a euro 10.000». L’ammenda è la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni.
Permanenza domiciliare → Stabilisce l’art.53 del d.lgs.274/2000 «la detenzione domiciliare consiste nell’obbligo di restare
presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora o in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e
domenica, salvo diversa disposizione del giudice o richiesta del condannato di eseguirla continuativamente. - La sua durata non può
essere inferiore a 6 giorni né superiore a 45. Il condannato non è considerato in stato di detenzione».
Lavoro di pubblica utilità → Ai sensi dell’art.54 del d.lgs.274/2000 «il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di
attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le provincie, i comuni o presso enti o
organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato ».
Comporta la prestazione di non più di 6 ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le
esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a
svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle 6 ore, ma la durata della prestazione giornaliera non può
superare le 8 ore.
Reclusione e arresto domiciliare → sono caratterizzate dal fatto che si espiano presso l’abitazione del condannato o
in altro luogo pubblico o privato di assistenza, cura e accoglienza denominata domicilio. La relativa applicazione può
essere obbligatoria o rimessa alla discrezionalità del giudice. È obbligatoria per i reati puniti con la reclusione o l’arresto
non superiore nel massimo a 3 anni (art.278 c.p.p.). La sola reclusione domiciliare può essere applicata dal giudice per i
reati puniti con la reclusione da 3 a 5 anni. La valutazione discrezionale sarà basata su criteri previsti dall’art.133 c.p.
[N.B. Il giudice può anche prescrivere misure di controllo elettronico (braccialetto). Queste nuove sanzioni non si applicano ai delinquenti abituali,
ai delinquenti professionali e ai delinquenti per tendenza].
3. l’interdizione legale;
[N.B. Una pena accessoria comune sia ai delitti che alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza di condanna penale].
Il catalogo delle pene accessorie previsto dall’art.19 non può considerarsi come un «numerus calusus», infatti sono
numerose le ipotesi di pene accessorie previste in altri settori dell’ordinamento. (Si pensi all’inabilitazione all’esercizio di
una impresa commerciale prevista dalla legge fallimentare).
Due nuove pene accessorie sono state introdotte, con legge n.172/2012, nei confronti dei condannati per i delitti contro
la personalità individuale: perdita del diritto agli alimenti e dell’esclusione dalla successione della persona offesa.
[N.B. Si ritiene che la caratteristica tipica delle pene accessorie sia l’automaticità di applicazione, nel senso che esse conseguono di diritto
alla sentenza di condanna. Questa opinione è però smentita dalla esistenza di casi in cui l’applicazione delle pene accessorie è rimessa alla
discrezionalità del giudice della cognizione.
Più corretto sembra riconoscere che l’unica caratteristica comune delle pene accessorie è data dalla loro complementarietà astratta,
dall’essere, cioè, accessorie rispetto alle altre sanzioni nella fase della loro comminazione. Tradizionalmente si ritiene che esse tendano ad
un obiettivo di prevenzione generale o di difesa sociale.
Recentemente si è cominciato ad evidenziarne una funzione di prevenzione generale, nel senso che esse fungono da misure volte ad
evitare che il reo ricada nello stesso reato: è questa spiccata funzione che induce a ravvisare nelle pene accessorie un importante
strumento di politica criminale futura. Le pene accessorie sono comunque fortemente afflittive e limitative anche di diritti
costituzionalmente garantiti. Esse in origine non erano sospendibili condizionalmente. Tale disciplina è stata innovata dal legislatore che
con legge 19/1990 ha introdotto il principio della sospendibilità delle stesse pene accessorie. Alla base di questo mutamento è stata
addotta l’esigenza di rendere sempre più omogenea la rispettiva disciplina delle pene principali e delle pene accessorie].
Le pene accessorie possono essere perpetue o temporanee. Quando la legge stabilisce che la condanna comporta
l’applicazione di una pena accessoria senza fissarne la durata, allora questa sarà uguale a quella della pena principale
inflitta, o che dovrebbe scontarsi in caso di conversione per insolvibilità del condannato; tuttavia, in nessun caso essa
può oltrepassare il limite minimo e massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria (art.37).
-Interdizione dai pubblici uffici (art.28), il suo contenuto afflittivo è stato fortemente ridotto da due successive
sentenze della Corte costituzionale, che hanno dichiarata illegittima la privazione di stipendi, assegni e pensioni a carico
dello stato o di enti pubblici. L’interdizione dai pubblici uffici priva il condannato: 1) del diritto di elettorato attivo e
passivo e di ogni altro diritto politico, di ogni pubblico ufficio e di ogni altro diritto politico, 2) di ogni pubblico ufficio e di ogni
incarico, non obbligatorio, di pubblico servizio, 3) di gradi e di dignità accademiche, titoli, decorazioni e di diritto onorifici.
L‘interdizione in parola può essere perpetua o temporanea. L’interdizione «perpetua» consegue «ipso iure» alla
condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore ai cinque anni, come pure alla dichiarazione di
abitualità o professionalità nel delitto e alla dichiarazione di tendenza a delinquere (art.29). L’interdizione
«temporanea» ha una durata non inferiore ad un anno né superiore a cinque;
- Interdizione da una professione o arte (art.30) consiste nella perdita della capacità di esercitare per tutto il tempo
dell’interdizione una professione, un’arte, un’industria, etc. per cui è necessaria uno speciale permesso, autorizzazione,
o abilitazione. La pena in esame non può avere durata inferiore ad un mese né superiore a cinque anni, salvo i casi
espressamente previsti dalla legge. Decorso il periodo della pena accessoria, i permessi, le autorizzazioni, le licenze ecc.
Possono essere riottenuti. Peculiari problemi ha sollevato l’interdizione per i giornalisti in senso stretto ed attività di
direttore responsabile, secondo una prima tesi solo il giornalista potrebbe essere interdetto qualora abbia commesso un
reato con violazione dei doveri inerenti alla funzione, per la seconda tesi, viceversa, la violazione di uno specifico dovere
può ravvisarsi solo nella violazione del dovere di controllo posto a carico del direttore responsabile;
- Interdizione legale (art.32) è la pena accessoria per i delitti di maggiore gravità, priva il soggetto della capacità di
agire. Si applicano le norme della legge civile sulla interdizione giudiziale in ordine alla disponibilità ed
all’amministrazione dei beni, nonché alla rappresentanza negli atti relativi. L’interdizione legale segue ope legis alla
condanna alla pena dell’ergastolo, nonché alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore ai cinque anni.
Produce, altresì, la sospensione della potestà genitoriale (salvo che non disponga diversamente il giudice);
- Interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art.32bis) ha la funzione di
irrobustire la risposta sanzionatoria ad alcune forme di criminalità tipica dei colletti bianchi. L'art.32bis dispone che
l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese priva il condannato della capacità di esercitare
l'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti
contabili societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'imprenditore (es.
procuratore). Essa consegue ad ogni condanna alla reclusione per almeno 6 mesi, per delitti commessi con abuso dei
poteri o violazione dei doveri inerenti all'ufficio. La pena interdice dunque lo svolgimento di attività non soggette ad
autorizzazione o licenza da parte della pubblica amministrazione. L'abuso dei poteri o la violazione di doveri d'ufficio
escludono che sia sufficiente un mero rapporto di occasionalità tra l'attività esercitata e il fatto delittuoso realizzato. La
durata della pena accessoria deve ritenersi, in mancanza di un'espressa determinazione normativa, equivalente a quella
della pena principale. L'interdizione dagli uffici direttivi non si applica nel caso di condanna alla reclusione, per delitto
colposo, inferiore a 3 anni.
- Incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art.32ter) dispone che tale incapacità importa il
divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico
servizio. Può avere durata compresa tra 1 e 3 anni. L'interdizione riguarda solo la persona fisica del condannato e non
anche l'impresa nell'esercizio della cui attività fu commesso il reato. Essa consegue ipso iure alla commissione dei delitti
espressamente e tassativamente previsti dalla legge (concussione, corruzione per un atto d'ufficio, corruzione di
persona incaricata di un pubblico servizio, inadempimento di contratti di pubbliche forniture, associazione per
delinquere, aggiotaggio, truffa ai danni dello Stato, ecc.). Per poter applicare tale pena è necessario che i suddetti reati
siano stati commessi a causa o nell'esercizio di un'attività imprenditoriale (art.32quater). La pena consegue anche alla
commissione del reato di omissione o falsità in registrazione o denunce obbligatorie, del reato di cui all’art.21 della
Legge Merli, nonché di taluni reati fiscali e valutari;
- Decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale (art.34) di rilievo il fatto che la legge di
Modifiche al sistema penale L. 689/81 (a cui debbono riferirsi tutte le modifiche operate successivamente agli originari
canoni degli art. del codice penale in tema di misure accessorie) ha sostituito il riferimento alla «patria potestà» con la
«potestà dei genitori» ed ha abrogato il riferimento all’autorità maritale eliminata dalla riforma del diritto di famiglia,
legge 151/75. Tale pena consiste nella privazione della capacità di esercitare diritti e doveri che la legge ricollega alla
posizione di genitore. La decadenza dalla potestà importa anche la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui
beni del figlio. Essa consegue ipso iure alla condanna all'ergastolo e alla condanna per determinati delitti, in particolare
contro la moralità pubblica e il buon costume. La sospensione dall'esercizio della potestà importa anche l'incapacità di
esercitare, durante la sospensione, qualsiasi diritto che al genitore spetti sui beni del figlio; essa consegue alla condanna
alla reclusione per almeno 5 anni. La condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori importa la
sospensione dall'esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta.
- Estinzione del rapporto di impiego o di lavoro è stata introdotta con la legge 97/2001.
- Sospensione dall’esercizio di una professione o arte (art.35) ha identico contenuto afflittivo alla pari norma
prevista per i delitti (art.30), ma se ne differenzia perché non comporta la decadenza del permesso, autorizzazione o
abilitazione, si limita a sospendere per il periodo dato l’esercizio dell’attività. Alla scadenza del predetto periodo,
l’esercizio può essere ripreso senza ulteriori formalità. Questa pena accessoria consegue ad ogni condanna per
contravvenzione. Non può avere durata inferiore a 15 giorni e durata superiore a 2 anni;
- Sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art.35bis) ha contenuto afflittivo
identico alla pari disposizione prevista per i delitti (art.32bis). Il legislatore ha ritenuto opportuno far conseguire alla
condanna all’arresto questa pena accessoria in considerazione del notevole disvalore penale di alcune contravvenzioni.
Essa consegue ad ogni condanna all’arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri
inerenti all’ufficio. Non può avere durata inferiore a 15 giorni e superiore a 2 anni.
La «semidetenzione» e la «libertà controllata» sono sanzioni autonome collocabili sullo stesso piano delle pene
principali ex art.17 c.p.; mentre la «multa» e l’«ammenda», non si discostano dalle corrispondenti pene principali.
Libertà controllata (art.56, l.689/81) è la misura sostitutiva delle pene detentive fino a 1 anno. Comporta il divieto
di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione concessa di volta in volta e solo per motivi di studio, lavoro,
famiglia e salute, l'obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza o presso
il comando dell'arma dei carabinieri territorialmente competente, il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni
ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia, la sospensione della patente di guida, il ritiro
del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell'espatrio di ogni altro documento equipollente, l'obbligo di
conservare e di presentare agli organi di polizia l'ordinanza contenente le prescrizioni imposte.
Pena pecuniaria è la sanzione sostitutiva delle pene detentive fino a 6 mesi. Si presenta come multa o ammenda,
secondo la specie della pena detentiva sostituita.
Il ragguaglio tra la pena detentiva e le misure in esame varia a seconda del tipo di sanzione sostitutiva: 1 giorno di
detenzione equivale ad 1 giorno di semidetenzione e a 2 giorni di libertà controllata ovvero a 250€ di multa o di
ammenda. Le sanzioni sostitutive si applicano in presenza di condizioni oggettive (pena in concreto irrogata dal giudice e
tipo di reato) e soggettive (precedente condanna superiore a due anni, ecc.) fissate dalla legge. L'applicazione delle
sanzioni sostitutive è affidata dalla legge al potere discrezionale del giudice. Possono essere applicate d'ufficio o su
richiesta dell'imputato (mediante l'istituto del patteggiamento). Esse possono essere revocate o convertite in caso di
inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato.
Affidamento in prova al servizio sociale → è la più importante delle misure alternative, si ispira all'istituto di origine
anglosassone del probation, ma a differenza di questo che lascia il soggetto in libertà con il rispetto di determinate
prescrizioni e sotto il controllo e l'aiuto di personale specializzato, l'affidamento in prova presuppone quasi sempre
iniziata l'esecuzione della pena detentiva. A causa della sua natura ibrida viene definito forma di probation
penitenziario. L'art.47 dell'ordinamento penitenziario fissa la disciplina: il condannato a pena detentiva di massimo 3
anni può essere affidato al servizio sociale fuori dall'istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. Le
prescrizioni imposte all'affidato costituiscono il contenuto della sanzione alternativa. Secondo il sistema della legge,
alcune di queste prescrizioni sono espressamente previste, mentre altre sono genericamente indicate nelle loro
direttive d'ordine generale. Esso è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle
prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova: la revoca dunque non consegue ipso iure alla
commissione di un nuovo reato o alla trasgressione delle prescrizioni imposte, ma è necessaria un'ulteriore valutazione
in termini di incompatibilità con la continuazione della prova. L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena e
ogni altro effetto penale, ma non le pene accessorie né le obbligazioni civili derivanti da reato.
Detenzione domiciliare → Dal punto di vista della natura giuridica, più che una misura alternativa alla detenzione in
senso proprio costituisce una mera modalità di esecuzione della pena per talune categorie di condannati nei confronti
dei quali la sanzione penale normalmente eseguita non svolgerebbe alcuna funzione risocializzante. Il tribunale di
sorveglianza stabilisce le prescrizioni e le modalità esecutive. Essa è revocata se il comportamento del soggetto,
contrario alla legge e alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura. Una forma
speciale di detenzione domiciliare riguarda i soggetti affetti da HIV in fase di cura (art.286bis c.p.p.).
Semilibertà → Consiste in una parziale limitazione della libertà personale, alternata con un periodo di libertà.
L'art.48 dell'ordinamento penale afferma che la semilibertà consiste nella concessione al condannato e all'internato di
trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al
reinserimento sociale. Anche questa misura rappresenta una modalità di esecuzione della detenzione, in quanto
attenua lo stato di privazione della libertà. Può essere concessa ab initio per le pene detentive brevi e anche per quelle
di lunga durata. Il tempo trascorso in semilibertà è sempre considerato come pena detentiva effettivamente scontata.
Essa può essere revocata se il soggetto si dimostra inidoneo al trattamento o rimane assente dall'istituto senza
giustificato motivo per un massimo di 12 ore (se l'assenza si protrae invece per un tempo maggiore, viene considerata
evasione e punita con la reclusione).
Liberazione anticipata → L'art.54 dell'ordinamento penitenziario dispone che al condannato a pena detentiva che ha
dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione e ai fini
del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata.
A tal fine è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare. Questa
progressiva riduzione di pena persegue l'obiettivo di agevolare il trattamento penitenziario, incentivando la
partecipazione del detenuto con il prospettargli la concreta possibilità di una liberazione anticipata: essa ha dunque un
carattere premiale, e va considerata come un momento del trattamento penitenziario, progressivo e individualizzato.
Permessi premio → Si concedono ai condannati che hanno tenuto regolare condotta (hanno manifestato cioè senso di
responsabilità e correttezza nella vita carceraria) e che non risultano socialmente pericolosi, per consentire loro di
coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. L'esperienza dei permessi premio è parte integrante del programma di
trattamento e deve essere seguita dagli educatori e assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori
sociali del territorio. La durata dei permessi non può essere superiore a 45 giorni in ciascun anno di espiazione.
Art.4 bis dell'ordinamento penitenziario → Articolo introdotto nel 1991, realizza un doppio binario tra i condannati
per reati comuni e i condannati appartenenti alla criminalità organizzata o eversiva, fatte salve le eccezioni per coloro
che collaborano con la giustizia e, a certe condizioni, per coloro nei confronti dei quali può escludersi in maniera sicura
l'attuale esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata medesima. L'assegnazione al lavoro esterno, i permessi
premio e le misure alternative alla detenzione (fatta eccezione per la liberazione anticipata), possono essere concessi ai
detenuti per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal 416bis ovvero, al fine di agevolare l'attività di
associazioni mafiose, nonché per i delitti di cui agli artt.416bis e 630 e dall’art.74 del d.p.r 309/1990, solo nei casi in cui
essi collaborino con la giustizia. Quando si tratta di detenuti per i medesimi delitti ai quali sia stata applicata una delle
circostanze attenuanti previste dall’art.62 n.6 c.p., o dall’art.114 oppure 116 comma 2, i benefici predetti possono
essere concessi anche se la collaborazione offerta risulti irrilevante, purché siano stati acquisiti elementi tali da
escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Riguardo a detenuti per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, tali
benefici possono essere concessi solo se non ci sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la
criminalità organizzata. Questa disciplina vuole costituire un forte deterrente contro la pericolosità sociale di questi
delinquenti, sollecitandoli all'uscita dall'associazione criminale mediante incentivi premiali.
Nello scegliere la pena adatta al caso concreto il giudice esercita un potere discrezionale: lo riconosce in maniera
esplicita l’art.132 co.1 che afferma: “Nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente; esso (l’organo
giudicante) deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere discrezionale”.
[N.B: La ragione per cui è affidata alla discrezionalità giudiziaria la concreta irrogazione della pena è questa: il legislatore, essendo impotente a
fissare in linea generale e astratta tutte le sfumature di valore o disvalore del singolo episodio criminoso, si trova costretto a delegare al giudice il
compito di valutare tutti gli aspetti del fatto rilevanti ai fini di un trattamento penale sufficientemente individualizzato].
Il problema è di stabilire se il potere discrezionale del giudica nella commisurazione della pena sia libero o vincolato.
È opinione dominante che si tratti di una discrezionalità vincolata: a differenza del giudice amministrativo che opera in
base a criteri di opportunità, il giudice nell’irrogare la pena va incontro a limiti legislativamente predeterminati.
a) nel quadro edittale, entro il quale il giudice deve scegliere la pena fra un minimo ed un massimo legislativamente
predeterminati;
b) nella previsione esplicita degli indici di commisurazione della pena di cui all’art.133;
c) nell’obbligo di motivazione ex art.132 adempimento del quale serve a garantire un controllo giurisdizionale
sull’esercizio dei poteri discrezionali medesimi.
[N.B: Proprio in quanto giuridicamente vincolata, la discrezionalità in sede di commisurazione si limiterebbe a proseguire l'opera del legislatore,
concretizzandone le scelte e realizzandone i fini in rapporto al fatto concreto oggetto di giudizio].
Orbene, che il legislatore abbia voluto introdurre un sistema a discrezionalità vincolata è indubbio, ma è altrettanto vero
che, vi sono alcuni “indicatori” che lasciano apparire sostanzialmente libero il potere di determinazione giudiziale della
sanzione.
Da un lato, sul piano della prassi applicativa, si registra una tendenza giurisprudenziale a svilire l'obbligo della
motivazione ex art.132: sia nella determinazione in concreto delle pene, sia nella concessione dei vari benefici i giudici
per lo più esercitano la loro discrezionalità in maniera quasi incontrollata; e la stessa Cassazione tende a convalidare le
scelte sanzionatorie operate dai giudici di merito, salvi i casi eccezionali di palese contrasto tra motivazione adottata ed
elementi obiettivi acquisiti agli atti dei procedimenti.
Dall'altro lato, l’art.133 solo apparentemente indica criteri di commisurazione della pena capaci di vincolare il potere
discrezionale del giudice: tale disposizione non riesce in realtà a fornire indicazioni univoche perché fa riferimento a
fattori (dalla gravità del reato alla capacità a delinquere) che assumono un significato e una rilevanza diversi, a seconda
della finalità prevalente che l'interprete assegni alla pena in sede commisurativa.
Si comprende, così, come la crescente consapevolezza delle insufficienze dell’art.133 abbia, di recente, rinnovato il
problema della commisurazione della pena sia in una prospettiva di riforma che a livello dogmatico-interpretativo.
L'attribuzione al giudice di un potere di scelta della misura concreta della sanzione risulta compatibile col rispetto del
principio di legalità riferito sia al precetto penale che alle conseguenze sanzionatorie: la Corte Costituzionale, nel
difendere la legittimità dell’art.132 ha escluso che il principio di legalità sia da ostacolo all’attribuzione all’organo
giudicante di un adeguato ambito di discrezionalità.
Più di recente, la Corte Cost. si è spinta oltre affermando la «tendenziale illegittimità» delle pene fisse: l’individuazione
della pena in rapporto alle specifiche esigenze del caso concreto, costituisce naturale conseguenza del principio di
uguaglianza, quanto dei principi della personale responsabilità e del finalismo rieducativo della pena.
Criteri finalistici Vengono innanzitutto in considerazione i «criteri finalistici»: il primo nodo, che il giudice si trova a
dover sciogliere, riguarda cioè l’individuazione dei «fini» da raggiungere mediante la irrogazione della pena.
Il problema non sempre è di facile soluzione, perché spesso potrà accadere che, a seconda si privilegi la finalità di
prevenzione generale o di prevenzione speciale (o retributiva), risultino adeguate al caso concreto misure di pena tra
loro diverse: da qui l’esigenza di istituire una “gerarchia” tra i diversi scopi della pena, anche in vista del superamento
delle eventuali antinomie nella fase commisurativa.
Criteri fattuali Chiarite le finalità dell’irrogazione della sanzione, il giudice deve preoccuparsi di selezionare le
«circostanze di fatto» che assumono rilevanza, alla base dei criteri finalistici preventivamente individuati: tali
circostanze sono definibili «criteri fattuali» di commisurazione della pena.
[N.B: Per esemplificare: se il giudice muove dall’idea che il principio retributivo debba dominare l’irrogazione in concreto della pena, egli sarà
portato ad attribuire rilevanza ad indici fattuali quali la gravità obiettiva del reato commesso e il grado di colpevolezza; se viceversa egli attribuisce
un ruolo prevalente alla prevenzione speciale, i dati fattuali di cui deve tener conto saranno prevalentemente rappresentati da quelle circostanze
di ordine soggettivo che assumono rilevanza ai fini di una prognosi di ricaduta nel reato (es: inclinazione a delinquere, condizioni sociali e familiari
del reo ecc.)].
Criteri logici L’ultima fase di questo iter sarà caratterizzata dalla valutazione del rispettivo peso degli indici fattuali ai
fini di un giudizio sulla complessiva gravità del reato e di un corrispondente dosaggio della sanzione fra massimo e
minimo edittali: i criteri che presiedono a questa valutazione finale sono definibili criteri logici di commisurazione.
Tali criteri, indicati nell’art.133, vengono dallo stesso legislatore differenziati a seconda che afferiscano alla «gravità del
reato» oppure alla «capacità a delinquere» del colpevole.
L’art.133 co.1 stabilisce: «Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener
conto della gravità del reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
Gravità del danno e del pericolo La «gravità» del danno o del pericolo si valuta assumendo a punto di riferimento
l’offesa tipica intesa nell’accezione penalistica e non già le conseguenze dannose in senso civilistico.
Quanto al «grado» del pericolo, va osservato che un pericolo concreto sarà sempre più grave di un pericolo astratto.
Mentre nell’ambito del pericolo concreto, il pericolo stesso presenterà un disvalore più accentuato quanto maggiore
risulti l’entità della probabile «lesione» oppure il grado di probabilità della sua verificazione.
Intensità del dolo e grado della colpa L’«intensità» del dolo si misura considerando la «forma» in cui esso si
manifesta: la volontà colpevole è di intensità maggiore nel dolo intenzionale e progressivamente meno grave nel dolo
diretto e nel dolo eventuale.
Quanto al «grado» della colpa, per accertarlo occorre fare riferimento ad una serie di criteri quali il quantum rispettivo
di esigibilità della condotta doverosa e di divergenza tra la condotta tenuta dall’agente e la regola precauzionale
applicabile nel caso concreto, ecc.
[N.B: il riferimento alla gravità del reato va integrato con la valutazione della “capacità a delinquere”, cioè di un indice ulteriore di
commisurazione che amplia lo spettro dei criteri “fattuali” e sulla cui portata si registrano in dottrina opinioni divergenti].
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
La previsione espressa di questi ulteriori indici «fattuali» serve, com’è evidente, a estendere la valutazione giudiziale dal
«fatto oggettivo» alla «personalità del reo».
In questo senso, il 1° comma dell’art.133 rappresenta un segno manifesto del compromesso raggiunto, all’epoca
dell’emanazione del codice, tra le opposte scuole di diritto penale; mentre il 2° comma, con l’esigere un secondo
giudizio sulla personalità del reo, sembra tenere conto delle istanze del positivismo criminologico, orientato a
considerare l’attitudine a delinquere ai fini di una prognosi di pericolosità sociale.
Si comprende come l’art.133, si è trovato a metà strada fra le opposte teorie, ed è divenuto un loro campo di battaglia:
da qui una notevole equivocità dello stesso concetto di capacità a delinquere, come è dimostrato dalle diverse
interpretazioni che ne sono state via via proposte.
Volendo schematizzare le contrapposizioni emerse all’interno del dibattito teorico, una prima linea divisoria va tracciata
con riferimento al tipo di soluzione data al problema del rapporto temporale tra la capacità a delinquere e reato.
Alcuni autori, la capacità a delinquere la proiettano nel passato, facendola consistere in una sorta di «attitudine al reato
commesso», nel quadro (ma non necessariamente) del giudizio di colpevolezza; mentre altri tendono a proiettarla nel
futuro, identificandola con l’«attitudine a commettere nuovi fatti delittuosi», e dunque, con una nozione vicina a quella
di pericolosità come presupposto dell’applicazione di una misura di sicurezza.
Proiezione nel passato della «capacità a delinquere» Sul piano della proiezione nel passato della «capacità a
delinquere» alcuni autori si sforzano di riportare la capacità criminale sul terreno della colpevolezza: in questa ottica
interessa valutare la «personalità morale del reo» (imputabile) quale si esprime nel fatto commesso, in vista di un
giudizio di riprovevolezza sufficientemente individualizzato.
Il nesso capacità criminale-colpevolezza è, tuttavia, contestato da qualche autore, pur propenso a riferire l’elemento in
esame al “passato”, cioè sempre al reato già commesso: cosi ad es. si afferma che taluni degli elementi contenuti
nell’art.133 non risultano compatibili con un giudizio di colpevolezza limitato al singolo fatto delittuoso, onde il
riferimento alla capacità criminale (sinonimo di personalità del delinquente), rappresenterebbe un parametro esclusivo
di graduazione della pena in una prospettiva ispirata ad un criterio di equità.
Proiezione nel futuro della «capacità a delinquere» Le opinioni divergono anche sul versante della proiezione nel
Alcuni autori sono favorevoli a identificare semplicemente capacità a delinquere e pericolosità sociale, altri, invece,
propendono per una distinzione “quantitativa” tra i 2 concetti: la differenza tra capacità criminale e pericolosità si ha a
seconda della diversità di grado intercorrente tra la «mera possibilità» (capacità a delinquere) e la «probabilità»
La tesi della «duplice funzione» della capacità a delinquere Un ulteriore orientamento favorevole a individuare una
«duplice funzione» della capacità a delinquere:
funzione di «graduazione della colpevolezza» sul presupposto che tanto più riprovevole è il fatto, quanto
«funzione prognostica» diretta ad accertare la potenzialità criminosa del soggetto in prospettiva di prevenzione
speciale.
[N.B: non è agevole stabilire quale delle interpretazioni riportate sia la più giusta: in mancanza di indicazioni univoche ricavabili dal testo
dell’art.133, si è costretti a ricostruire il significato della capacità a delinquere mediante il richiamo ad elementi esterni, che a loro volta rimandano
alle concezioni di fondo proprie di ciascun autore. Un più efficace ausilio alla soluzione dei dilemmi sollevati dall’interpretazione della “capacità a
delinquere” lo si può ricercare nell’aggancio ad una prospettiva costituzionale].
4.1) Accenniamo ai singoli indici “fattuali” di capacità a delinquere menzionati nel 2° comma dell'art.133.
a) Motivi a delinquere Il motivo o movente è definito come la causa psichica, lo stimolo che induce l’individuo a
delinquere: nel linguaggio della psicologia, si tratta di una inclinazione affettiva e cioè di un sentimento, un impulso, un
istinto (ad es. gelosia, vendetta, cupidigia, paura, brama sessuale, ecc.).
Il motivo dell’azione può anche essere inconscio perché ignoto allo stesso agente: tuttavia non è così scontato che in
sede di valutazione criminale possano assumere rilevanza anche i motivi inconsapevoli.
b) Carattere del reo Gli psicologi tendono a concepire il carattere come il «termine di transizione» tra fattori
«endogeni» (temperamento) ed «esogeni» (ambiente) che contribuiscono a determinare la personalità.
In altri termini, il carattere costituisce il risultato della «lotta» tra questi due fattori: da un lato, i fattori endogeni
spingerebbero l’uomo verso una condotta puramente animale, incentrata sul soddisfacimento dei suoi istinti e delle sue
tendenze affettive o repulsive, dall’altro, i fattori esterni lo condurrebbero verso una quasi completa sottomissione
all’ambiente. Il carattere quale risultato di questa tensione, di questa opposizione (dinamica) fra l’uomo e la realtà
esterna, rappresenta, dunque, una struttura di autocontrollo e uno strumento di orientamento dell’individuo nella
scelta tra diverse possibilità di azione. Ciò premesso, si comprende quale ruolo centrale assuma il carattere come
elemento diagnostico della capacità criminale: l’art.133, evidentemente, allude al carattere nella accezione comprensiva
di tutte le componenti della personalità (biologiche, psichiche, etiche).
c) Vita e condotta del reo antecedenti al reato È di intuitiva evidenza che la personalità di un individuo si ricostruisce
tenendo conto di tutti gli aspetti capaci di illuminarla: allo stesso modo di un medico che fa precedere alla diagnosi
l’anamnesi, il giudice prima di pronunciarsi sulla capacità a delinquere di un soggetto deve raccogliere tutti gli
antecedenti idonei a fungere da elementi indizianti rispetto alla sussistenza del dato da accertare. Tra questi elementi
rientrano non solo i precedenti penali (condanne anteriori) e i precedenti giudiziari (sottoposizione a misure di
prevenzione, provvedimenti di interdizione o inabilitazione) ma anche gli episodi, gli atteggiamenti e le inclinazioni che
possono costituire un significativo indice del modo di essere e di comportarsi della persona.
e) Le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo La valutazione di questi elementi serve a calcolare
l’incidenza dell’ambiente esterno all’interno del processo criminogenetico individuale (es: se ci si pone nell’ottica della
colpevolezza, una forte pressione esterna nella dinamica del fatto farà apparire meno riprovevole l’autore).
Questo, lo si può notare anche rispetto al pur meno controverso criterio della «gravità del reato» che, infatti, può
assumere rilevanza non solo in un’ottica retributiva orientata all’entità del danno e/o grado della colpevolezza, ma
L’attitudine ad un’utilizzazione plurivalente diventa ancora più evidente però sul terreno della «capacità a delinquere».
Lo si nota, ad esempio, nella rilevanza da attribuire all’indice fattuale delle «condizioni di vita individuale, familiare e
sociale del reo», laddove l’adesione ad una subcultura criminale come la mafia o la camorra potrebbe giustificare una
sanzione non particolarmente elevata sul piano retributivo e, per contro, un trattamento penale severo dal punto di
vista della prevenzione speciale, considerato il pericolo di recidiva.
D’altra parte, non è neppure chiaro in quale rapporto gerarchico stiano il 1° e il 2° comma dell’art.133, onde sorge
spontaneo l’interrogativo: il principale criterio di commisurazione è costituito dalla gravità del reato o dalla capacità a
delinquere oppure si impone un contemperamento dei 2 diversi punti di vista?
La equivocità della norma dipende dal fatto che essa si limita a enumerare indici «fattuali» di commisurazione,
omettendo però di prendere esplicita posizione sui criteri finalistici che dovrebbero presiedere all’irrogazione concreta
della sanzione.
La conseguenza è che resta poco chiaro quale ruolo nella fase irrogativa sia rispettivamente da attribuire alla
retribuzione, alla prevenzione generale e/o alla prevenzione speciale: ecco perché gli elementi contenuti nell’art.133, in
quanto indici variamente interpretabili in funzione della finalità della pena aprioristicamente prescelta, non sono in
grado di assurgere a criteri capaci di vincolare davvero l’esercizio del potere discrezionale del giudice.
La migliore riprova delle insufficienze dell’art.133 è fornita dalla sua cattiva riuscita in sede di applicazione
giurisprudenziale.
Già si è accennato come l’obbligo di motivazione ex art.132 abbia finito col rimanere sostanzialmente eluso mediante il
ricorso a rituali “formulette pigre”, del tipo “tenuto conto degli elementi dell’art.133 si stima equa”. Ma è da segnalare
come i giudici di merito manifestano per lo più una tendenza generalizzata ad irrogare la pena nel minimo, o in
prossimità del minimo edittale.
Orbene, se tale fenomeno si spiega come espediente utilizzato dalla giurisprudenza per ovviare al furore rigoristico del
legislatore fascista, non è però infondato il rilievo che si tratti di un orientamento che va comunque incontro a limiti e
rischi: da un lato, l’intento, condividibile, di adeguare alla sensibilità dei nostri tempi l’impianto sanzionatorio del codice
può anche sfociare in una forma di poco controllata indulgenza; dall’altro la tentazione della supplenza rischia di far
sposare una logica che collide con le specifiche esigenze della commisurazione della pena.
Per rinvenire criteri di orientamento non solo meno arbitrari, ma anche capaci di avere una qualche efficacia vincolante
sul terreno giuridico, non resta che tentare un approccio in chiave costituzionale ai problemi della commisurazione della
pena.
La ragione di questa scelta è evidente: se ci si lamenta del fatto che il legislatore ha taciuto sugli scopi della pena nello
stadio dell’irrogazione, per saperne di più è legittimo tornare a prendere le mosse dalle enunciazioni costituzionali
relative alla materia penale, in quanto tali potenzialmente in grado di fornire indicazioni vincolanti rispetto all’intera
fenomenologia punitiva.
Commisurazione della pena e principio di colpevolezza L’art.27 co.1, avendo implicitamente riconosciuto il principio
della responsabilità non solo personale ma anche colpevole, riflette un orientamento del sistema penale diretto alla
valorizzazione dell’elemento soggettivo del reato: una volta che si muova dal presupposto dell’avvenuta
costituzionalizzazione del principio nulla poena sine culpa, coerenza impone di ritenere che il requisito della
colpevolezza debba svolgere una funzione preminente anche nello stadio della commisurazione della pena.
Derivano da questo assunto conseguenze ben precise sul piano dell’interpretazione del 1° comma dell’art.133: tra gli
indici della «gravità del reato» il giudice dovrà considerare prevalenti «l’intensità del dolo» o il «grado della colpa»:
onde, il peso attribuito alla «gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato» non potrà
spingere il giudice ad infliggere una pena superiore a quella proporzionata al «grado della colpevolezza».
Nell’ambito del 1° comma dell’art.133, è dunque alla colpevolezza che spetta il ruolo di criterio-guida per la
determinazione della misura massima della pena.
Commisurazione della pena e divieto di responsabilità per fatto altrui: le pene esemplari L’art.27 co.1, chiarisce il
problema della commisurazione della pena anche sotto la diversa angolazione del «divieto di responsabilità per fatto
altrui». Da questo ulteriore punto di vista, si tratta di scoraggiare l’eventuale valorizzazione giudiziale dell’indice della
«gravità del danno o del pericolo» per far prevalere, al momento della concreta irrogazione della pena, preoccupazioni
di «prevenzione generale.
Orbene, la scelta di irrogare «pene esemplari», che servano da ammonimento verso tutti i consociati, finisce col
contrastare con il «divieto di responsabilità per fatto altrui» ex art. 27.1 cost. perché esaspera il ruolo di capro espiatorio
del singolo delinquente: il reo, infatti, viene a scontare una pena di misura eccedente la sua colpevolezza in vista
dell’esigenza di impedire la reiterazione di fatti analoghi da parte di terzi soggetti.
[N.B: È confermato, dunque, che il soddisfacimento di istanze di prevenzione generale non possa mai giustificare l’inflizione di un ammontare di
pena sproporzionato rispetto alla colpevolezza del fatto singolo].
Commisurazione della pena e principio di rieducazione Sulla fase commisurativa della pena proietta luce anche il 3°
comma dell’art.27 cost., il quale afferma il fondamentale principio secondo cui le pene devono tendere alla
rieducazione del condannato.
[N.B: sarebbe illusorio confidare nella efficacia rieducativa della pena nella fase della stessa esecuzione, se già nella fase dell’irrogazione il giudice
non si preoccupasse di scegliere sia nel «tipo» che nella «misura» una sanzione idonea a favorire la risocializzazione del reo].
La necessaria operatività del principio di rieducazione anche nella fase dell’irrogazione produce conseguenze sul piano
dell’interpretazione del 2° comma dell’art.133.
Invero, l’esigenza di realizzare il finalismo rieducativo sollecita una ricostruzione della categoria della «capacità a
delinquere» in chiave di «prevenzione speciale»: il giudizio sull’attitudine del reo a commettere reati dovrà essere
«proiettato nel futuro», e fungerà da criterio di scelta e/o di dosaggio di una pena da determinare, sia nel «tipo» che
nella «misura», in vista del reinserimento sociale del reo.
Tuttavia, lo stesso soddisfacimento di istanze di risocializzazione del reo troverà pur sempre come limite il rispetto del
principio del carattere personale della responsabilità penale ex art.27.1, sicché neppure l’applicazione della pena volta
alla risocializzazione potrà spingersi oltre la misura della colpevolezza.
La colpevolezza opera come limite allo stesso finalismo rieducativo: una pena eccedente rispetto al grado della
colpevolezza non sarebbe compresa dal condannato che la vivrebbe come ingiusta, per cui risulterebbe pregiudicata la
prospettiva del recupero sociale.
Se tutto ciò è vero, si comprende come le esigenze di prevenzione speciale potranno rilevare solo in bonam partem: cioè
il giudice potrà applicare una pena meno elevata rispetto a quella che sarebbe giusto infliggere in base al grado della
colpevolezza del reo, ogniqualvolta egli ritenga che ciò serva a facilitare il processo di reinserimento sociale del reo.
Rapporto tra 1°e 2° comma dell’art.133 Alla luce della rilettura costituzionalmente orientata siamo ora in grado di
ricostruire i rapporti intercorrenti tra 1° e 2° comma dell’art.133.
Il principale parametro di commisurazione della pena è offerto dal 1° comma, che indica al giudice di stabilire il
«massimo edittale di pena entro i limiti della colpevolezza dell’agente relativa al fatto oggetto del giudizio».
Mentre il 2° comma svolge un ruolo subordinato (come dimostra la legge con l’avverbio altresì), il giudizio sulla
«capacità a delinquere» può indurre il giudice a «ridurre la pena» al di sotto del limite massimo segnato dalla gravità del
fatto colpevole.
Parte della dottrina si preoccupa di sottolineare che, se si include la prevenzione generale tra gli scopi principali della
pena, coerenza imporrebbe di riconoscerle lo stesso spazio nello stadio della sua concreta irrogazione.
Alcuni obiettano che a riconoscerle questo spazio si finirebbe col violare il divieto di responsabilità per fatto altrui, ci
si sforza di replicare che, se l'argomento fosse veramente valido, esso dovrebbe impedire anche al legislatore di tener
conto delle esigenze di prevenzione generale nella determinazione degli stessi livelli edittali di pena.
Inoltre, a quanti obiettano che il giudice non avrebbe la competenza per conoscere adeguatamente le esigenze di
prevenzione generale, si risponde che egli non avrebbe neanche la competenza per valutare le esigenze di
risocializzazione del reo. In ogni caso, ai giudici dovrebbe richiedersi solo una conoscenza intuitiva, basata
sull'esperienza della vita giudiziaria. Questi rilievi diretti a giustificare l'inclusione della prevenzione generale tra i criteri
finalistici della pena da irrogare in concreto, non sembrano in verità decisivi.
Tale impostazione trascura che, in uno Stato di diritto, il soddisfacimento delle istanze di prevenzione generale spetta al
legislatore: il problema dell'impedimento della commissione dei reati, da parte dei cittadini, costituisce infatti una
questione di politica criminale e di politica sociale, come tale di pertinenza degli organi legislativi e amministrativi.
Ai giudici spetta solo di scegliere la pena adeguata al caso concreto oggetto di giudizio. Ma già il fatto stesso di infliggere
una pena in giudizio equivale ad un'operazione dotata anche di valenze generalpreventive, nel senso che risulta così
avvalorata la credibilità della minaccia di pena contenuta nei precetti penali astratti.
Inoltre, pretende di provare troppo l’argomento, secondo cui il divieto di responsabilità penale per fatto altrui dovrebbe
valere anche per il legislatore preoccupato di orientare secondo la prevenzione generale i livelli edittali di pena. A
questo rilievo è agevole replicare che, a livello di previsione legislativa dell’entità della sanzione, non ci si trova di fronte
ad alcun soggetto da giudicare, mentre lo stadio della commisurazione della pena presuppone proprio un fatto già
commesso.
La punizione comporta sempre un sacrificio del singolo nell’interesse della società che si autodifende, ne consegue che
la legittimazione della pena è nello Stato democratico subordinata all’impegno a ridurre al minimo la
strumentalizzazione del reo in vista dell’utilità generale: questa presa d’atto porta ad escludere che il giudice sia
autorizzato ad aggiungere le proprie preoccupazioni generalpreventive a quelle avvertite dal legislatore nel fissare i
limiti massimo e minimo della sanzione.
Si può anche concedere che il giudice non sia in grado di stabilire in modo scientificamente attendibile quale
trattamento sia più idoneo a favorire la risocializzazione del reo. Ma ciò non basta per rivalutare l’attitudine dei giudici a
conoscere le esigenze di “prevenzione generale”: trattandosi in questo caso di compiere calcoli prognostici sull’ipotetico
comportamento di una massa indeterminata di potenziali delinquenti, è lecito concludere che in proposito una
conoscenza meramente intuitiva può essere di assai minore aiuto che non ove ci si debba limitare a scegliere una pena
potenzialmente rieducativa. Occorre che il messaggio giudiziale sia comunicato ai destinatari attraverso i mass media o
altri canali di informazione; che i destinatari comprendono il significato delle sentenze esemplari e se ne lascino
motivare nella loro condotta, ecc.
Tutto ciò premesso, resta tuttavia da precisare che quanti propendono per un'irrogazione in chiave generalpreventiva
della sanzione, non per questo escludono che il livello massimo della pena debba pur sempre orientarsi al grado della
colpevolezza. Le divergenze tra i due contrapposti orientamenti risultano dunque sul piano pratico meno marcate di
quanto a prima vista potrebbe sembrare: finché la pena concretamente irrogata non fuoriesca comunque dai limiti
massimi della colpevolezza, l'eventuale irrigidimento di pena determinato da preoccupazioni generalpreventive non
presenterà proporzioni così macroscopiche da far apparire la scelta irrogativa come una vera e propria sentenza
esemplare. Qualsiasi nuova proposta interpretativa diretta a razionalizzare la prassi della commisurazione della pena,
incontrerà ostacoli negli orientamenti poco controllabili della giurisprudenza. È da condividere comunque la posizione di
quegli autori che sollecitano una riforma dell'art.133 volta a recepire criteri finalistici di commisurazione della pena di
derivazione costituzionale.
Il nuovo art.133 bis, infatti, dispone al 1° comma che «Nella determinazione dell'ammontare della multa o
dell'ammenda il giudice deve tener conto, oltre che dei criteri indicati dall'articolo precedente, anche delle condizioni
economiche del reo»: per effetto di tale disposizione le condizioni economiche del reo vengono incluse tra i criteri di
commisurazione della pena pecuniaria già all'interno degli spazi edittali.
A differenza infatti della pena detentiva che incide su un bene (la libertà personale) tendenzialmente omogeneo, la pena
pecuniaria sacrifica un bene di fatto assai disomogeneo come il patrimonio: un identico ammontare di pena pecuniaria,
quale conseguenza sanzionatoria di un identico fatto di reato, colpisce evidentemente in maniera tanto più diseguale
quanto maggiore è la sproporzione rilevabile nella situazione economica dei condannati.
Il 1° comma dispone che il giudice dovrà tener conto delle condizioni economiche del reo in aggiunta ai criteri indicati
nell'art.133. Ciò vuol dire che il legislatore, tra i modelli di pena pecuniaria in astratto adottabili, ha continuato a
prescegliere quello più tradizionale c.d. della somma complessiva: nel quale gli indici di commisurazione sono quelli
generali della gravità del reato e della capacità a delinquere. Questa scelta disattende, in realtà, le indicazioni politico-
criminali provenienti dalla dottrina, che propende per il diverso modello dei tassi giornalieri: cioè per un sistema che
separi in 2 autonomi momenti la fase della commisurazione.
Nel primo momento viene fissato il numero dei tassi sulla base dei criteri generali, mentre nel secondo momento si
determina l'ammontare (o la quota) del tasso giornaliero sulla base delle condizioni economiche del reo.
L'accoglimento di un simile sistema avrebbe costretto i giudici a tenere veramente conto delle condizioni economiche
del colpevole: il rifiuto opposto dal legislatore del 1981 si spiega con l’intendo di eludere i problemi dell’accertamento
del reddito degli imputati.
Sul piano dell’interpretazione della formula normativa, una grave lacuna è rappresentata dalla circostanza che il
legislatore tace sugli indici di cui il giudice deve tener conto in sede di valutazione delle condizioni economiche del
condannato. In mancanza di indicazioni legislative sia pure minime, spetta agli interpreti di suggerire i criteri di
valutazione: è ovvio che il giudice debba in primo luogo riferirsi al «reddito» dell’autore del reato al momento della
condanna.
Più complesso è, invece, il discorso rispetto alla determinazione dell’incidenza del «patrimonio» all’interno nella
situazione economica del reo: anche perché si deve evitare il rischio di una deviazione dai fini della pena pecuniaria
sotto forma di mascherate confische. Parte della dottrina giustamente propone di tener conto soltanto di beni
patrimoniali il cui valore superi uno standard medio rispetto alla contingente situazione economico-sociale.
Dal computo delle disponibilità economiche dovranno essere sottratte le «obbligazioni pecuniarie» gravanti sul reo:
(come ad es. obblighi di alimenti nei confronti di familiari, ratei di mutuo per acquisto di beni essenziali come la casa di
abitazione del nucleo familiare etc.
L’accertamento del reddito, in assenza di indicazioni normative, non può che essere rimesso ai poteri di indagine del
giudice e, dunque, ai generici accertamenti della polizia giudiziaria; ma un ruolo rilevante deve essere attribuito alle
dichiarazioni fornite dallo stesso condannato.
Il capoverso dell’art.133 bis aggiunge che «Il giudice può aumentare la multa o l'ammenda stabilite dalla legge sino al
triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia
inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa».
L’«inefficacia» e la «eccessiva gravosità» vanno determinate in funzione degli scopi di afflizione e intimidazione-
ammonimento, che sono tipici delle sanzioni pecuniarie: una pena è «inefficace» se non provoca un sensibile sacrifico al
reo; è «eccessivamente gravosa» se, all’opposto, comporta un sacrificio economico intollerabile.
[N.B: Non hanno effettiva ragion d'essere i dubbi di costituzionalità, in relazione al principio di uguaglianza, che talora sono stati manifestati nei
confronti di una pena pecuniaria orientata anche secondo le condizioni economiche del reo].
9) Potere discrezionale del giudice nella sostituzione delle pene detentive brevi
La legge di Modifiche al sistema penale n.689/81 ha esteso i limiti del potere discrezionale del giudice, prevedendo
nuove possibilità di sostituzione delle pene detentive brevi.
Dispone l’art.58 co.1 della legge 689/1981 “il giudice, nei limitati fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati
nell’art.133 del c.p., può sostituire la pena detentiva e tra le pene sostitutive sceglie quella più idonea al reinserimento
sociale del condannato”. Come si desume dalla lettura della norma, dopo aver fissato la pena secondo i criteri
(tradizionali) dell’art.133, il giudice dovrà valutare se sussistano i presupposti per l’adozione delle misure sostitutive;
una volta risolto positivamente anche questo interrogativo, deve scegliere, sempreché non si tratti di pena detentiva
breve superiore ai 3 mesi (art.53.1), la misura più idonea al reinserimento sociale del condannato.
Nel pronunciarsi sull’an della sostituzione (cioè sul SE applicare una pena sostitutiva), gli indici dettati dall’art.133 dovranno
essere valutati al fine di stabilire se la personalità del reo possa risultare danneggiata dall’applicazione di una pena
detentiva breve.
Nel pronunciarsi sul quomodo (cioè sul COME applicare una pena sostitutiva), della sostituzione, il giudice dovrebbe seguire
come criterio l’idoneità a favorire il reinserimento sociale del condannato. Ma, si tratta di un obiettivo troppo ambizioso
rispetto alle reali caratteristiche delle pene sostitutive, il cui effetto specialpreventivo si manifesta in forma di
ammonimento-intimidazione: il giudice, pertanto, dovrà accertare quale sanzione sostitutiva sia più idonea ad
ammonire senza desocializzare il reo.
Il 2° comma dell'art.58 preclude all'organo giudicante la possibilità di sostituire la pena detentiva breve “quando
presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato”: ciò significa che Il giudice, prima di decidersi per
l'applicabilità della pena sostitutiva, dovrà valutare le chances di effettivo adempimento delle prescrizioni.
La preclusione conseguente ad una presunzione negativa ha per scopo di impedire complessi procedimenti di
sostituzione e revoca delle misure sostitutive per fare ritorno all'applicazione della pena detentiva breve.
Il 3° comma dell’art.58 obbliga “il giudice a indicare specificamente i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena
irrogata”: quest’obbligo di motivazione ha per scopo di rendere più trasparente e controllabile l'esercizio del potere
discrezionale nella scelta della sanzione sostitutiva.
Trattasi di un potere discrezionale che il «Tribunale di sorveglianza» istituito presso ogni Corte d’Appello (ex art.70 legge
n.354/75 ordinamento penitenziario) deve esercitare in base a criteri finalistici legislativamente predeterminati: criteri
caratterizzati da una certa elasticità.
●Rispetto all’affidamento in prova al servizio sociale, l’art.47 comma 2 ord.penit. stabilisce che il provvedimento può
essere disposto nei casi in cui possa presumersi che “il provvedimento stesso anche attraverso le prescrizioni …
contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”.
●Dispone l’art.50 comma 4 ord.penit. che l’ammissione al regime di semilibertà è disposta “in relazione ai progressi
compiuti nel corso del trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella
società”.
●Con riguardo all’istituto della liberazione anticipata, l’art.54 comma 1 ord.penit. subordina la concessione del
beneficio alla condizione che il condannato a pena detentiva “abbia dato prova di partecipazione all’opera di
rieducazione”.
●Per la concessione dei permessi premio, l’art.30 ter ord.penit. richiede che il magistrato di sorveglianza accerti che i
condannati abbiano tenuto “regolare condotta” e, inoltre, non risultino “di particolare pericolosità sociale”.
Infine, l’art.47 ter ord.penit. indica le ipotesi in cui può farsi luogo alla concessione del beneficio della detenzione
domiciliare.
Sotto la rubrica «condizioni obiettive di punibilità» stabilisce in proposito l’art.44 c.p.: «Quando, per la punibilità del
reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende
il verificarsi della condizione, non è da lui voluto» (es: contravvenzione preveduta dall’art.688.2: il legislatore fa dipendere la punibilità
dell'ubriaco dalla circostanza che egli venga sorpreso in stato di manifesta ubriachezza in un luogo pubblico).
L’istituto delle «condizioni obiettive di punibilità» è uno dei più controversi tra quelli previsti dal nostro codice.
L’unico dato certo è che esse (condizioni) devono consistere in eventi futuri ed incerti, concomitanti o successivi rispetto
alla condotta dell’agente.
[N.B: non anche antecedenti perché altrimenti si dovrebbe ammettere che la prescrizione del reato cominci a decorrere prima ancora della
consumazione del reato, posto che l’art.158.2, stabilisce per i reati condizionati la decorrenza del termine prescrizionale a partire dal momento in
cui si verifica la condizione stessa].
Le ragioni giustificative dell’istituto Secondo un punto di vista ancora molto diffuso in dottrina, l’origine storica
dell’istituto in esame, sarebbe rinvenibile nella necessità di conciliare esigenze contrapposte:
da un lato, esistono da sempre ragioni di convenienza pratica e opportunità politico-criminale che inducono a
subordinare l’effettiva punibilità di alcuni tipi di comportamento al verificarsi di determinate circostanze: procedere ad
una punizione incondizionata può infatti, in certi casi, confliggere con la tutela di altri interessi meritevoli di
considerazione.
dall’altro, da quando vige, in materia penale, il principio di stretta legalità, tali valutazioni di convenienza e opportunità
politico-criminale non possono essere più affidate alla valutazione discrezionale del giudice, come accadeva in epoca
pre-illuministica: il principio di legalità ed il connesso principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, impongono che sia
lo stesso legislatore a tipizzare in forma espressa le circostanze capaci di influenzare la scelta relativa alle concrete
applicazioni della pene.
Da questo punto di vista, l’introduzione legislativa delle condizioni obiettive di punibilità svolge una duplice funzione:
Difatti, sorprende non poco che tali istanze garantistiche siano state accolte dal legislatore fascista nel 1930, mentre non erano considerate dai più
liberali legislatori precedenti a tale periodo.
A ben vedere, il legislatore fascista, nell’introdurre le «condizioni obiettive di punibilità», può essere stato sollecitato da ragioni diverse se non
addirittura opposte da quelle suddescritte.
Con riferimento almeno ad alcuni tipi di condizioni obiettive di punibilità, non è escluso che abbiano finito col prevalere preoccupazioni di natura
generalpreventiva e repressiva, in una ottica interessata più ad estendere che a restringere la punibilità: ci si riferisce all’esigenza di “sottrarre
alcuni eventi-condizioni all’area della colpevolezza“ a causa della difficoltà diprovarne in giudizio la natura dolosa o colposa, con la semplificazione
dell’accertamento ai fini della condanna penale].
È questione prevalentemente dogmatica, priva di conseguenze pratiche, stabilire se le condizioni di punibilità rientrino
tra gli elementi costitutivi del reato, oppure presuppongano un reato già perfetto, rispetto al quale rappresentano un
quid di aggiuntivo o supplementare: quale che sia la soluzione accolta, ai fini della concreta punibilità del fatto occorre
pur sempre che la condizione di punibilità si verifichi.
Inoltre, il momento in cui si verifica la condizione acquista rilevanza decisiva, in base all’art.158.2, ai fini della
decorrenza del termine di prescrizione.
[N.B: l’orientamento che sostiene l’estraneità delle condizioni obiettive del reato fa leva sullo stesso tenore letterale dell’art.44: il
quale adottando la formula quando per la punibilità la legge richiede il verificarsi di una condizione, ecc., sembra ammettere la
possibilità che un reato sia configurabile e sia già perfetto a prescindere dalla sua concreta punibilità. La tesi in parola, evidenziando
che la condizione è qualcosa di aggiuntivo rispetto al fatto illecito, si presta a ben riflettere l’idea che la previsione di condizioni
obiettive di punibilità tende a soddisfare ragioni di convenienza che vanno al di là dell’offesa insita nel reato. In termini più
aggiornati, la stessa idea può essere espressa attraverso un richiamo della coppia concettuale “meritevolezza di pena” e “necessità
di pena”.
L’orientamento contrario, più in linea con la teoria generale del diritto, ritiene che rientri tra gli elementi del fatto giuridico (o
fattispecie) ogni requisito condizionante la conseguenza giuridica: spostando questa prospettiva concettuale nel diritto penale ciò
implica che “reato” e “punibilità” sono termini inscindibili].
La posizione delle condizioni obiettive di punibilità rispetto al fatto di reato Si tratta ora di precisare la posizione
delle condizioni obiettive di punibilità rispetto alla struttura del fatto di reato stricto sensu inteso.
Un’importante indicazione al riguardo proviene dall’art.44, laddove il legislatore afferma che il colpevole risponde anche
se l’evento che integra la condizione obiettiva di punibilità «non è da lui voluto»: ciò significa che l’evento-condizione
può «in concreto» essere anche lambito/sfiorato dalla volontà del reo, ma che l’esistenza di un tale nesso psichico non
costituisce requisito indispensabile ai fini della punibilità del fatto.
Escluso, quindi, che la condizione obiettiva di punibilità debba costituire oggetto di rappresentazione e volontà
dell’agente, resta da precisare il rapporto della condizione con l’azione penalmente rilevante: in altri termini, ci si deve
chiedere se la condizione obiettiva di punibilità debba essere legata all’azione tipica da un «rapporto di causalità
materiale». A questo interrogativo si può dare una risposta analoga a quella data con riferimento alla colpevolezza: cioè,
se in linea di puro fatto nulla impedisce che la condizione obiettiva di punibilità derivi causalmente dall’azione, non si
può invece pretendere che il nesso causale rappresenti sempre un requisito indefettibile.
Da queste premesse si ricava che le condizioni obiettive di punibilità costituiscono «avvenimenti futuri ed incerti» che
fanno si parte della fattispecie astratta ma che sono estranei sia al fatto materiale sia alla colpevolezza.
I criteri di individuazione della categoria Relativamente ai «criteri diagnostici» da utilizzare ai fini di una corretta
individuazione della categoria in esame, non si può fare affidamento certo su «indici di natura grammaticale» rinvenibili
nelle disposizioni di legge, come ad es. le particelle «se», «qualora», «sempreché», etc. che apparentemente
subordinano la punibilità di un fatto già descritto alla verificazione di una condizione ulteriore.
Esclusa l’univocità dei criteri grammaticali, non resta, che fare ricorso ad un contemperamento di:
«indici strutturali» relativi cioè alla collocazione dell’elemento all’interno della fattispecie astratta
Così, facendo applicazione di criteri di tipo strutturale, dal novero delle condizioni obiettive di punibilità dovrebbero di
regola essere esclusi gli eventi legati da un rapporto di causalità necessaria con l’azione tipica oppure da un rapporto
psicologico necessario con l’agente.
Ad esempio il caso del «pubblico scandalo» nel delitto di incesto: il pubblico scandalo incide direttamente sull’offesa,
perché il diritto penale di uno Stato laico e pluralistico non ha interesse a punire l’incesto come fatto immorale in sé, ma
solo in quanto tale fatto sia percepito come causa di turbamento da parte di terzi estranei.
Condizioni intrinseche ed estrinseche di punibilità Infine, quanto all’incidenza della condizione di punibilità sul piano
degli interessi tutelati, è da condividere l’orientamento che è favorevole a distinguere le condizioni obiettive in:
d) intrinseche esse incidono sull’interesse protetto, nel senso di approfondire una lesione già implicita nella
commissione del fatto. (es: si consideri l’art.264 che incrimina l’infedeltà in affari di Stato solo «se dal fatto possa derivare nocumento
all’interesse nazionale»: in questo caso, l’evento-condizione (pericolo di nocumento…) non fa altro che approfondire o rendere più attuale quella
carica lesiva insita nel fatto di rendersi infedeli al mandato ne trattare all’estero affari di Stato).
e) estrinseche esse nulla aggiungono alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, ma si limitano a
riflettere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse «esterno» al profilo offensivo del reato. (es: contravvenzione
ex art.688.2 dell’ubriaco «sorpreso in flagranza», oppure alla presenza del reo nel territorio dello Stato come condizione della punibilità di
determinati reati commessi all’estero).
Condizioni estrinseche e procedibilità dell’azione penale Parte della dottrina, dalla constatata mancanza di ogni
collegamento delle condizioni estrinseche con il piano della lesione all’interesse tutelato deriverebbe la loro
assimilabilità alle condizioni di procedibilità dell’azione penale.
Questa tesi non può essere accolta, per varie ragioni, delle quali la più convincente ad avviso di chi scrive è che: la
pretesa natura processuale delle condizioni obiettive di punibilità dovrebbe far sì che la loro mancanza inibisca non già
la punibilità del fatto bensì la conoscibilità del fatto stesso in capo al giudice. Inoltre, se questi elementi avessero
realmente una dimensione meramente processuale non si capirebbe il perché della presenza nel codice, in particolare
nella sede relativa alla disciplina della struttura del reato, di una norma come l’art.44.
È da sottolineare il diverso atteggiarsi della sentenza di proscioglimento, la quale ove manchi l’evento-condizione di
punibilità, incide nel merito, ostando ad un secondo giudizio. (649 c.p.p. – ne bis in idem).
Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza Quale che sia l’effettiva estensione delle condizioni obiettive di
punibilità, rimane indubbio che l’istituto si espone a riserve critiche.
Se è vero che non di rado l’introduzione di una condizione obiettiva (specie se «intrinseca») si spiega con l’intento di
superare le insormontabili difficoltà di accertamento del dolo rispetto all’evento-condizione, proprio questa circostanza
deve indurre a riflettere sui limiti di compatibilità di una simile scelta legislativa con il principio della responsabilità
penale personale, intesa nell’accezione di responsabilità per fatto proprio colpevole.
Vi è il rischio che il ricorso alla categoria delle condizioni obiettive di punibilità rappresenti una sorta di comodo alibi per
sottrarre alla disciplina del dolo e della colpa elementi del fatto delittuoso stricto sensu inteso.
Il problema della compatibilità tra le condizioni obiettive di punibilità e il principio di colpevolezza si aggrava quanto più
si tratta di eventi condizionati che hanno la capacità di incidere sull’offesa insita nel fatto tipico, approfondendola o
aggravandola. Si impone, dunque, un ripensamento, specie in seguito alla «storica» sentenza costituzionale n.364/88
che ha sancito il fondamentale principio secondo cui la colpevolezza, almeno nella forma minima della «colpa», deve
coprire tutti gli elementi significativi del fatto, e cioè quelli dai quali dipende il disvalore dell’offesa tipica.
Nel solco di questa inderogabile indicazione della Corte Costituzionale, si può sostenere che non possono sottrarsi al
principio di colpevolezza – già sul piano del diritto positivo – le condizioni di punibilità c.d. intrinseche quali accadimenti
capaci di incidere sull’offesa insita nel fatto tipico: e il principio di colpevolezza potrà considerarsi rispettato ove le
predette condizioni siano, sul piano soggettivo, coperte quantomeno da colpa.
Difatti, l’art.44, ammettendo che l’evento condizionale possa essere anche «non voluto», esclude soltanto che il «dolo»
costituisca necessario presupposto di imputazione dell’evento medesimo; ma nulla dice sulla «colpa», sicché sarà
possibile all’interprete richiederne la presenza in una prospettiva di ricostruzione dell’istituto in chiave costituzionale.
[N.B: Per rimuovere il contrasto tra le condizioni oggettive di punibilità e il principio di colpevolezza si potrebbe percorrere un'altra strada più
diretta, che consiste nel respingere come infondata la distinzione tra condizioni intrinseche ed estrinseche, nel presupposto che tutte le condizioni
di punibilità soddisfano interessi esterni ed antagonistici rispetto al bene giuridico sottostante al reato e, perciò, ininfluenti rispetto all'offesa tipica.
All'interno di tale impostazione, le condizioni obiettive di punibilità mantengono la sola funzione di ridurre la rilevanza penale di fatti altrimenti
punibili, e di conseguenza, avvantaggiando il reo, non porrebbero alcun problema di imputazione soggettiva: da qui la loro estraneità o indifferenza
rispetto al principio di colpevolezza. Ma ad avviso degli autori, essa convince di meno sul piano del diritto vigente, non essendo stata ancora fornita
la prova decisiva circa l’esistenza nell’attuale ordinamento penale di condizioni c.d. intrinseche].
È opportuno distinguere la speciale tenuità del fatto dall’ipotesi del fatto formalmente conforme ad una fattispecie
incriminatrice ma inidoneo a offendere il bene protetto: mentre quest’ultimo non costituisce reato perché del tutto
carente di capacità lesiva, il fatto cui si riferisce l’art.131 bis risulta pur sempre offensivo ma in misura esigua.
D’altra parte, poiché alcune pronunce giurisprudenziali avevano finito col proporre un’interpretazione estensiva dello
stesso art.49, includendovi anche casi di insufficiente offensività, ecco che il legislatore del 2015 ha a maggior ragione
ritenuto i tempi più maturi per predisporre una apposita disciplina normativa della portata e dei limiti della speciale
tenuità dell’offesa, quale causa espressa di non punibilità dei fatti bagatellari in concreto.
a) l’ambito operativo di tale causa di non punibilità, in base al comma 1, è costituito dai reati per i quali è prevista la
pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, oppure la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena
(131 bis co.4 stabilisce le regole per la determinazione della pena nel caso dell’eventuale presenza di circostanze).
b) quanto ai requisiti oggettivi, sempre il comma 1 stabilisce che “la punibilità è esclusa quando, per le modalità della
condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art.133 co.1, l’offesa è di particolare tenuità”.
Per verificare la particolare tenuità dell’offesa, il giudice deve, il primo luogo, valutare il grado di incidenza lesiva della
condotta sul bene giuridico protetto: il fatto risulterà particolarmente tenue quando, tenuto anche conto delle modalità
con cui la condotta è stata realizzata, l’offesa recata all’interesse tutelato potrà essere considerata esigua, di scarsa
rilevanza.
Ma il giudice nel valutare la tenuità dovrà tenere conto della modalità della condotta (es: un delitto commesso di notte
e in luogo solitario è comparativamente più grave di un analogo delitto commesso di giorno e in una strada affollata).
È dubbio se nelle modalità della condotta rilevino anche elementi di natura soggettiva, come l’intensità del dolo o il
grado della colpa, ma parte della dottrina e della giurisprudenza si pronunciano in senso affermativo.
Il comma 2 dell’art.131 bis prevede espressamente alcune ipotesi per cui, per presunzione legislativa, il fatto non può
comunque essere giudicato particolarmente tenue.
Si tratta delle situazioni nelle quali l’autore ha agito per motivi abietti e futili, o con crudeltà anche in danno di animali o
ha adoperato sevizie, o ha approfittato della condizione di minorata difesa della vittima anche in riferimento all’età della
stessa. Il rilievo di tali elementi sintomatici comporta un ridimensionamento della centralità dell’entità oggettiva
dell’offesa nell’economia complessiva della valutazione della tenuità del fatto.
c) un ultimo presupposto per l’applicabilità dell’art.131 bis è la non abitualità del comportamento esiguamente
offensivo o pericoloso (co.1 ult.parte): questa esclusione della causa di non punibilità in presenza di un fatto tenue
ripetuto nel tempo riflette una preoccupazione di prevenzione speciale riferita alla personalità dell’autore, cioè il
legislatore intende evitare che chi ha una inclinazione soggettiva a delinquere più volte, sia pure in maniera lieve, possa
continuare a farlo confidando nell’impunità.
Anche rispetto alla verifica della non abitualità del comportamento il legislatore, al comma 3 del’art.131 bis, ha indicato
alcune ipotesi in cui per presunzione legislativa il fatto è considerato abituale: si tratta dei casi in cui l’autore sia stato
dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza oppure abbia commesso reati dalla stessa indole oltre che
vengano in rilievo reati con condotte plurime, abituali o reiterate.
3) Le cause di estinzione del reato
Nel titolo VI del c.p., il legislatore disciplina il fenomeno «della estinzione del reato e della pena»: fenomeno dovuto ad
un insieme di cause eterogenee (es: morte del reo, amnistia, prescrizione, ecc.) che riflettono ragioni estranee o
confliggenti rispetto alle esigenze di tutela penale del bene protetto, e che hanno come effetto comune quello di
paralizzare la punibilità quale effetto tipico dell’illecito penale.
- le cause di estinzione del reato (capo I) operano antecedentemente all’intervento di una sentenza definitiva di
condanna e incidono sulla c.d. punibilità astratta, estinguendo la potestà statale di applicare la pena minacciata;
- le cause di estinzione della pena (capo II) presuppongono l’emanazione di una sentenza di condanna ed
estinguono la c.d. punibilità in concreto, paralizzando l’esecuzione della sanzione inflitta dal giudice.
[N.B: Tale criterio distintivo per l’Autore non è aderente alla sistematica del codice penale, che colloca tra le cause di estinzione del reato
“l’amnistia impropria” e la “sospensione condizionale” ma si tratta di 2 cause che operano successivamente alla sentenza di condanna. Parte della
dottrina rigetta il criterio suddetto e finisce con il riconoscere che sia le cause estintive del reato, sia le cause estintive della pena si limitano solo ad
escludere effetti o alcuni effetti del reato, sono cioè in tal senso (solo) cause si esclusione o estinzione di effetti penali del reato, e l’unica differenza
consisterebbe nella più intensa e profonda incidenza delle prime rispetto alle seconde.
La sistemazione dogmatica delle cause di estinzione del reato è a tutt’oggi estremamente controversa, sicché si può ben dire che ogni Autore, che
si è occupato dell’argomento ha proposto un modello di soluzione personalizzato basato sui propri convincimenti. Cosi si parla di estinzione della
responsabilità penale, ora di estinzione delle situazioni soggettive penali, ecc. Quale che sia la più corretta qualificazione dogmatica, si è creduto
opportuno nel manuale continuare a parlare di cause estintive del reato, con l’avvertenza però che è improprio parlare di estinzione del reato.
Invero, se si ha riguardo al fatto storico, vale il principio quod factum est infectum fieri nequit (Ciò che è stato fatto non può essere considerato non
fatto). Se, invece, si ha riguardo alla valutazione giuridica, il reato «estinto» continua a produrre
Le cause di estinzione del reato vengono variamente classificate dalla dottrina sulla base di criteri eterogenei.
generali se collocate nella parte generale del codice e sono riferibili a tutti o comunque ad un gran numeri di reati;
speciali se applicabili ad uno o più reati determinati e previste in leggi speciali o nella parte speciale del codice.
Si distinguono:
fatti naturali in cui è del tutto irrilevante la volontà umana (es: morte del reo),
atto di clemenza (es: grazia),
comportamento dello stesso autore (es: oblazione).
a) hanno efficacia personale, nel senso che operano solo nei confronti della persona cui si riferiscono, salvo che la
legge disponga diversamente;
b) devono essere dichiarate immediatamente dal giudice (art.129 c.p.p.) in ogni stato e grado del processo, salvo sia
evidente il proscioglimento nel merito;
c) sottostanno al principio del favor rei nell'ipotesi di concorso tra più cause estintive, nel senso che l'effetto estintivo
del reato o della pena dovrà essere prodotto dalla causa comparativamente più favorevole.
Per quanto riguarda la natura giuridica esse hanno natura sostanziale, e non più processuale.
[N.B: le cause generali di estinzione del reato sono: morte del reo prima della condanna; la remissione della querela;
l’amnistia propria; la prescrizione; l’oblazione nelle contravvenzioni; la sospensione condizionale; il perdono giudiziale; la
sospensione del procedimento con messa alla prova].
Anche nel diritto penale, fondato sul principio della personalità della responsabilità penale, la morte del reo produce i
suoi effetti sui rapporti giuridici di cui è titolare il soggetto deceduto (mors omnia solvit): la morte estingue sia le pene
principali, sia quelle accessorie ed ogni altro effetto penale, mentre non tocca le obbligazioni civili nascenti dal reato
(risarcimento del danno) o quelle relative al pagamento delle spese processuali e al mantenimento in carcere, le quali
fanno naturalmente capo agli eredi.
È controverso se la morte del soggetto prima della condanna definitiva renda applicabile la misura della confisca:
- la soluzione negativa si fonda sul mancato accertamento dell'esistenza del reato e quindi sulla mancanza di una
sentenza o di un decreto penale di condanna, che costituisce il normale presupposto per l'applicazione di una
misura di sicurezza;
- la dottrina prevalente è orientata per la tesi opposta, premesso che si tratta di misura di sicurezza reale e non
personale, si sottolinea come l’art.236.2 c.p. (il quale delinea la disciplina generale che presiede all’applicazione
delle misure di sicurezza patrimoniali) proprio con specifico riferimento alla confisca escluda il ricorso all’art.210 c.p.
che afferma la regola dell'inapplicabilità delle misure di sicurezza a seguito del fenomeno estintivo. Se ne dovrebbe
desumere che la morte del reo non impedisce l’adozione della confisca.
La morte del reo non esclude, tuttavia, il proscioglimento nel merito quando ex art.129 c.p.p. il giudice riconosce che il
fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge
come reato. Nell’ipotesi di fondato dubbio sull’esistenza in vita dell’imputato, il giudice deve sospendere il
procedimento: è, ad es. il caso della dichiarazione di assenza.
5) Amnistia propria
L’amnistia è un provvedimento «generale ed astratto», con il quale lo Stato rinuncia a punire un determinato numero di
reati. L’art.151 stabilisce «L’amnistia estingue il reato, e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna
e le pene accessorie».
Il codice prevede nella stessa norma (art.151) una disciplina unitaria per l'amnistia propria e per quella impropria. In
verità, sarebbe stata più opportuna una regolamentazione separata delle 2 ipotesi:
- L’amnistia propria si verifica quando il provvedimento di clemenza giunga prima della condanna definitiva,
quindi rappresenta una causa estintiva del reato;
- L’amnistia impropria presuppone la condanna definitiva, è quindi una causa di estinzione della pena.
L’amnistia viene tradizionalmente considerata una «causa di clemenza» e giustificata, sul piano dell’opportunità
pubblica, dalla presenza di situazioni oggettivamente eccezionali e per certi versi irripetibili.
[N.B: Unitamente all’indulto e alla grazia, l’amnistia sorge storicamente come manifestazione dell’indulgentia principis, con la quale il monarca
rinunciava a perseguire determinati delitti commessi dai propri sudditi, ovvero faceva cessare le condanne già inflitte. Con l’avvento dello Stato di
diritto, tale potere venne riservato alle autorità politiche che
Nel nostro paese, la Costituzione suddivise la competenza a concedere il beneficio tra il Parlamento ed il Capo dello Stato, dando luogo ad un
procedimento complesso. L’originaria formulazione dell’art.79 cost., disponeva che fosse il Presidente della Repubblica a concedere l’amnistia, su
legge di delegazione del Parlamento. Era controverso, ma solo in linea di principio, se il Capo dello Stato dovesse limitarsi, nel suo intervento finale,
ad una formale ratifica del provvedimento parlamentare, oppure se residuasse in capo allo stesso Presidente margini di ingerenza.
I dubbi, nella prassi applicativa, sono stati risolti nel primo senso, cioè le leggi di delegazione hanno disciplinato nei dettagli il contenuto dei
provvedimenti di clemenza, che il decreto del Capo dello Stato riproduceva testualmente].
L'uso frequente di questo strumento di clemenza fatto nel nostro Paese spiega l'atteggiamento di ostilità che nei suoi
confronti è andato sempre più diffondendosi sia nell'opinione pubblica che nell'ambito degli studiosi.
Cosi si denuncia spesso che le amnistie proliferano per ragioni più o meno demagogiche e giustamente si lamenta che
esse provocano uno svilimento dell’autorità dello Stato, una diminuzione della forza intimidatrice della legge penale. Da
altro punto di vista, l’uso di tale strumento crea forti tensioni con le finalità razionali della sanzione penale, quali che
esse siano. Infatti, se appare frustata la funzione di deterrenza della pena, altrettanto deve dirsi per l'esigenza di
rieducazione del reo, in quanto il beneficio è fruibile senza che esso sia preceduto da una positiva prognosi circa le
chances di reinserimento sociale del beneficiario.
In realtà dietro tale fenomeno si possono individuare delle ragioni che attengono al sistema penale nel suo complesso:
ad esempio il bisogno di amnistia funge sia da surroga di mancata riforma, necessaria alla giustizia per adempiere alla
sua funzione, sia da forma di decriminalizzazione surrettizia, nel senso che equivale a riconoscimento della sostanziale
inoffensività di quei reati che vengono periodicamente amnistiati.
L'amnistia può assolvere pure una funzione di pacificazione sociale, necessaria in alcuni momenti della vita del paese
perché, limitando l'efficacia della legge penale dopo un periodo di gravi conflitti sociali, opera come strumento di
ricomposizione: in questo senso si può forse affermare che essa finisce con lo svolgere di fatto e indirettamente anche
una funzione di recupero sociale. La ragionevolezza di un provvedimento di clemenza dipende dal rapporto strumentale
che si instaura fra esso e le finalità proprie della legislazione generale del settore cui si riferisce.
Il procedimento di concessione per reagire al disinvolto uso che dei provvedimenti di amnistia si è fatto, con legge
costituzionale 1/1992, è stato riscritto l’art.79 cost., oggi al comma 1 dispone «L'amnistia e l'indulto sono concessi con
2
legge deliberata a maggioranza dei dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale».
3
La titolarità del potere di concessione dell’amnistia (lo stesso vale anche per l’indulto) si concentra tutto nel Parlamento,
2
prevedendo, però, quale garanzia per un uso ponderato, che la legge sia approvata a maggioranza qualificata dei 3 nelle
varie votazioni. La ratio della modifica va colta nell’esigenza di affidare alla dialettica delle forze presenti in Parlamento
le delicate valutazioni di opportunità politica che nella società odierna possono legittimare provvedimenti clemenziali.
L’elevato quorum comporta l’impossibilità pratica, per una maggioranza interessata, di pervenire alla concessione
dell’amnistia o dell’indulto senza che siano coinvolti i partiti e/o i movimenti politici di opposizione.
Si sono, cosi poste le basi per un più attento controllo dei contenuti dei provvedimenti clemenziali, nonché per un freno
contro i possibili abusi. La nuova formulazione dell’art.79 Cost. si preoccupa di specificare, al 2° comma, che la legge di
concessione dell’amnistia e dell’indulto deve stabilire il termine di efficacia del provvedimento, cioè la data entro la
quale i reati devono essere stati commessi per poter usufruire dell’applicazione del beneficio.
La fissazione del limite temporale soddisfa la giusta esigenza di evitare che si possa delinquere nelle more della
presentazione del disegno di legge con la sicurezza dell’impunità futura.
Il tempus commissi delicti e amnistia Il canone del tempus commissi delicti, che serve a determinare l'applicabilità
dell'amnistia ad un determinato, singolo delitto, si atteggia diversamente a seconda del tipo di reato preso in
considerazione:
- reato consumato: sia esso di mera condotta o di evento, attivo o omissivo, si farà riferimento al momento della
realizzazione della condotta o della verificazione dell'evento o del mancato compimento dell'azione dovuta;
- delitto tentato: si dovrà considerare il momento in cui si sono realizzati gli atti idonei inequivocabilmente diretti a
commettere il delitto;
- reato permanente: è controverso se debba prendersi in considerazione il momento in cui cessa la permanenza o quello
antecedente in cui il reo dà vita all'azione illecita;
- reato continuato: le singole violazioni di legge riacquisteranno la loro autonomia e quindi avranno un proprio tempo,
da individuare secondo la regola generale;
- reato sottoposto a condizione di punibilità: si farà riferimento al tempo di verificazione della stessa. Nel caso in cui
dovessero rimanere margini di incertezza, bisogna privilegiare il favor rei;
- concorso di reati: l’art.151 co.2 dispone che l'amnistia si applica ai singoli reati per i quali è concessa. Anche per
l'amnistia vale il principio che essa non si estende al reato complesso di cui il reato amnistiato rappresenta elemento
costitutivo o circostanza aggravante (così ad es. l'amnistia concessa per la violenza privata non estinguerà il delitto di rapina).
Criteri di individuazione dei reati amnistiati La legge che contiene l’atto di clemenza deve indicare i «reati
amnistiati». A questo scopo vengono utilizzati diversi criteri di selezione, entro il quale è concedibile il beneficio, quali:
- il «numero dell’articolo»,
- il «nomen iuris»
- il «tetto di pena».
[N.B: Nel nostro sistema si è fatto uso in passato di tutti e tre i criteri congiuntamente.
Il criterio del «tetto di pena» può creare problemi ai fini della corretta selezione dei reati, per l’influenza che su di esso possono esercitare le
circostanze aggravanti e attenuanti. I decreti di amnistia del recente passato hanno di volta in volta risolto tale problema, ammettendo per lo più la
valutazione di alcune circostanze e in qualche caso il giudizio di comparazione].
Esclusione dei delinquenti qualificati L’art.151 co.4 stabilisce che l’amnistia non è applicabile, salva diversa volontà
legislativa, nel caso in cui il soggetto autore del reato astrattamente ricompreso nel provvedimento sia stato dichiarato
dal giudice «recidivo aggravato e reiterato» ex art.99.2 (la recidiva semplice non costituisce ostacolo alla concessione
del beneficio).
Deve notarsi che l’art.151 limita la sua sfera di efficacia ai «delinquenti» con conseguente esclusione dei
«contravventori» qualificati per i quali l’amnistia è applicabile.
L’amnistia sia propria sia impropria può essere subordinata, ai sensi dell’art.151.4 a «condizioni o ad obblighi» che, in
virtù del principio di legalità, devono essere espressamente previsti dalla legge.
Rinunciabilità L’amnistia è rinunciabile: la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art.151 co.1 «nella parte in
cui esclude la rinunzia all’applicazione dell’amnistia», per violazione del diritto di difesa.
In caso di rinuncia all’amnistia, il giudizio prosegue nelle forme regolari e può sfociare sia in una pronuncia di condanna
che di assoluzione. Nella prassi, permane un atteggiamento teso a sfavorire la rinunzia all’amnistia
L’amnistia propria impedisce l’inflizione della pena principale, delle pene accessorie e delle misure di sicurezza (art.210),
ma non estingue le obbligazioni civili derivanti da reato, salvo che si tratti delle obbligazioni di cui agli artt.196-197
(art.198).
6) Prescrizione
Al decorso del tempo l’ordinamento ricollega, di solito, effetti giuridici. Nel diritto penale il decorso del tempo può avere
effetti sia sul reato, sia sulla pena.
Ratio della prescrizione La «prescrizione del reato» è una causa estintiva costituita dal decorso del tempo, senza
che alla commissione del reato segua una sentenza di condanna irrevocabile.
L’opportunità di ammettere l’efficacia estintiva del decorso del tempo è pacificamente condivisa nell’ambito della
scienza penalistica. Con il decorso del tempo appare inutile e inopportuno l’esercizio della stessa funzione repressiva,
perché vengono a cadere le esigenze di prevenzione generale che presiedono alla repressione dei reati.
Rinunciabilità della prescrizione La necessità di garantire l’imprescindibile diritto alla difesa in giudizio ha fatto sì che
la Corte Costituzionale, con sentenza n.275/1990, dichiarasse l’illegittimità costituzionale dell’art.157 c.p., nella parte in
cui non consentiva la rinunciabilità della prescrizione.
Per alcuni reati è in ogni caso stabilita l’imprescrittibilità: sono quelli per i quali è prevista la pena (di morte e)
dell’ergastolo e ciò in considerazione della loro gravità, del fatto che non si attenua l’interesse statale alla loro
repressione.
I termini preveduti dall’art.157 La disciplina giuridica della prescrizione è stata innovata dal legislatore con la
controversa riforma del 2005, in un collegamento specifico, ma privo di giustificazione razionale, con il nuovo assetto
normativo della recidiva.
Si è voluto essenzialmente soddisfare l’esigenza di assicurare maggiore certezza nel calcolo del «tempo dell’oblio».
Ma, a parte questo profilo la nuova normativa appare criticabile sotto diversi profili.
a) il nuovo art.157 co.1 per determinare il tempo necessario a prescrivere, abbandona il precedente criterio delle classi di
gravità dei reati individuati per fasce di pena e lo sostituisce con il nuovo criterio della pena massima edittale di ciascun
reato, ma contemporaneamente introduce una soglia minima inderogabile di tempo:
b) il nuovo art.157 co.2 e 3 allo scopo di rendere più certo ex ante, e cioè sin dal momento della commissione del reato, il
tempo necessario a prescrivere, elimina la rilevanza della diminuzione di pena per le circostanze
c) il nuovo art.157 co.2 detta una disciplina differenziata per i recidivi, stabilendo che ai fini del computo del tempo
necessario a prescrivere rilevano le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella
ordinaria e quelle ad effetto speciale e che si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto. Ciò significa che nei
casi in cui la recidiva opera come circostanza aggravante ad effetto speciale ex art.63.3, con aumento della pena
superiore ad un 1⁄3 occorre, ai fini della prescrizione, calcolare anche questo ulteriore aumento.
La dottrina ha messo in evidenza la mancanza di razionalità politico-criminale di questa disciplina per la quale mentre un
soggetto che commette per la prima volta (c.d. autore primario) un delitto non colposo punibile con 6 anni di reclusione,
godrà di un termine prescrizionale, in presenza di un atto interruttivo di 7 anni e mezzo, il soggetto recidivo reiterato
avrà bisogno per lo stesso reato che decorrano ben 16 e 8 mesi per l’operatività della prescrizione.
Si è evidenziato come il legislatore abbia utilizzato la recidiva per allungare i tempi della prescrizione.
d) L’art.157 co.6 prevede un raddoppio degli ordinari tempi di prescrizione per alcune tipologie di illeciti penali
espressamente indicati: e cioè per i reati di cui agli artt.449 e 589 co.2-3-4.
Si tratta rispettivamente:
- di ipotesi di responsabilità colposa caratterizzate da una accentuata carica lesiva nei confronti di beni importanti quali la
pubblica incolumità e la vita, precisamente da un lato l’incendio o altri disastri colposi e, dall’altro l’omicidio colposo
commesso con violazione delle norme relative alla circolazione stradale, ecc.
- di ipotesi delittuose che rientrano nel paradigma della criminalità organizzata (associazioni di tipo mafioso, ecc).
Su entrambe queste scelte legislative si sono espresse riserve critiche, rilevando che per un verso anche reati non tipici
del crimine organizzato potrebbero giustificare deroghe ai normali tempi prescrizionali, e per altro verso non si capisce
perché un esito infausto da colpa grave medica meriti un tempo di prescrizione inferiore rispetto all'evento morte frutto
di violazione delle norme stradali.
[N.B: L’elenco dei reati per i quali è oggi previsto il raddoppio dei termini di prescrizione è stato allargato e comprende pure il delitto di
maltrattamenti in famiglia, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, ecc. il raddoppio del termine per i delitti di violenza sessuale e
violenza sessuale di gruppo non si applica, però, in presenza della circostanza attenuante della minore gravità.
Questo nuovo regime giuridico comporta termini prescrizionali di regola più ridotti rispetto al passato per delitti di rilevante gravità (peculato,
concussione, bancarotta fraudolenta) o di media gravità punibili con una pena non superiore a 5 anni (corruzione propria). Ma esso
contemporaneamente allunga i tempi prescrizionali per i delitti di minore gravità e per le contravvenzioni].
Decorrenza del termine Sulla decorrenza del termine per la prescrizione (il c.d. dies a quo) il codice stabilisce regole
precise all’art.158:
a) per il reato consumato il termine della prescrizione decorre dal giorno della consumazione;
b) per il reato tentato dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole;
d) per il reato continuato (testo riformato) è stato abrogato il riferimento al giorno in cui la continuazione è cessata, ne
deriva che al reato continuato si applica la regolamentazione «atomistica» (i reati singolarmente considerati intende) di
un comune concorso di reati;
e) se la punibilità del reato dipende dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in
cui la condizione si è verificata;
f) se il reato è punibile a querela, istanza o richiesta, il termine decorre dal giorno del commesso reato.
Sospensione La «sospensione» è un effetto giuridico, che si verifica in presenza di alcune condizioni, per il quale la
decorrenza del termine della prescrizione si arresta per il tempo necessario a rimuovere l’ostacolo, in modo che la
porzione di tempo già trascorsa rimanga valida e si possa sommare al periodo successivo decorrente da giorno della
cessazione della causa sospensiva (art.159).
c) nei casi di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori
oppure su richiesta dell’imputato o del suo difensore;
d) nei casi di separazione del procedimento penale ai sensi dell’art.20 quater c.p.p.
La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione.
Interruzione della prescrizione L’interruzione è un effetto giuridico per il quale, in presenza di alcuni atti giuridici, il
termine di prescrizione già decorso viene meno e comincia a decorrere ex novo et ex integro.
La prescrizione viene interrotta dall’intervenire delle seguenti cause previste dall’art.160 c.p.:
a) sentenza o decreto di condanna non irrevocabili (perché se il provvedimento è passato in giudicato, può prescriversi
soltanto la pena);
b) ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida di fermo o dell'arresto;
c) interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice;
d) invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l'interrogatorio;
e) provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di
archiviazione;
f) richiesta di rinvio a giudizio;
g) decreto di fissazione dell'udienza preliminare;
h) ordinanza che dispone il giudizio abbreviato;
i) decreto di fissazione dell'udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena;
j) presentazione o citazione per il giudizio direttissimo;
k) decreto che dispone il giudizio immediato;
l) decreto che dispone il giudizio e decreto di citazione a giudizio.
La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione.
La riforma del 2005 ha innovato in maniera rilevante in ordine alla rideterminazione della misura del prolungamento del
Invero, l’ultimo comma del riformulato art.160 c.p., nel determinare il «tetto invalicabile» in presenza di più atti
interruttivi, stabilisce che “in nessun caso i termini fissati nell’art.157 possono essere prolungati oltre i termini di cui
all’art.161 co.2, fatta eccezione per i reati di cui all’art.51 co.3 bis e 3 quater del c.p.p.”. il riferimento all’art.161 co.2 ha
l’effetto di ridurre, rispetto al passato, la durata della dilazione: l’interruzione della prescrizione, infatti, può
comportare l’aumento massimo non più della metà, bensì di un quarto del tempo necessario a prescrivere.
L’effetto dilatorio, tuttavia, cresce sensibilmente se si tratta di autori recidivi, secondo la seguente differenziazione:
- nel caso di recidiva aggravata (art.99 co.2) l’interruzione può determinare un aumento della metà del tempo
prescrizionale;
- nel caso di recidiva reiterata (art.99 co.4) un aumento di 2⁄3;
- nel caso di abitualità o professionalità nel reato (artt.102-103-105) un prolungamento del doppio.
Questa disciplina conferma i rilievi critici circa la mancanza di giustificazione politico-criminale del peso eccessivo
accordato alla recidiva nel fissare i tempi prescrizionali.
Alle predette regole di fissazione del limite massimo di aumento dei termini prescrizionali fanno però eccezione (per
espressa volontà del legislatore della riforma) i reati gravi indicati nell'art.51 commi 3° bis e 3° quater del c.p.p.
(terrorismo e casi particolari di associazione a delinquere), rispetto ai quali i normali termini di prescrizione sono
raddoppiati.
Nell'ipotesi di concorso di più persone nel reato, la sospensione e l'interruzione della prescrizione hanno effetto per
tutti coloro che hanno commesso il reato.
Nell'ipotesi di concorso di reati, ciascuno di essi segue la sua strada indipendentemente da ogni considerazione relativa
agli altri, salvo che si proceda congiuntamente per più reati connessi: in quest'ultimo caso la sospensione o
l'interruzione della prescrizione per taluno di essi ha effetto anche per gli altri.
La prima è quella prevista dall’art.162 e si ricollega alla oblazione già disciplinata dal Codice Zanardelli.
La seconda è stata introdotta, all’art.162 bis, con legge di Modifiche al sistema penale n.689/81.
Oblazione comune L’art.162 c.p. dispone che «Nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena
dell'ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di
condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la
contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento”. Il pagamento estingue il reato.
La ratio dell’istituto si individua nell’esigenza dello Stato di definire con economia e sollecitudine i procedimenti
concernenti i reati di minima importanza.
a) che si tratti di contravvenzione per la quale la legge stabilisce la sola pena dell'ammenda di qualsiasi ammontare;
b) che il contravventore presenti domanda di ammissione all'oblazione prima dell'apertura del dibattimento o del decreto
penale di condanna;
c) che il contravventore adempia tempestivamente all'obbligo di pagamento assunto, obbligo che ammonta a 1/3 del
massimo dell'ammenda previsto dalla legge.
In presenza di queste condizioni l'applicazione dell'oblazione è automatica. L'oblazione equivale ad una
depenalizzazione di fatto.
Oblazione speciale L’art.162 bis, ha introdotto una nuova forma di oblazione, cioè quella speciale.
Tale oblazione è da un lato prevista per le contravvenzioni punite con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda e,
dall’altro, deve essere applicata discrezionalmente dal giudice.
Il campo di applicazione dell’art.162 bis risulta molto ampio perché comprende reati tra loro eterogenei.
La somma di denaro, che il contravventore potrà essere ammesso a pagare, è pari alla metà del massimo dell'ammenda
prevista, oltre alle spese del procedimento. Presentata la domanda di oblazione (che a differenza di quella relativa
all'oblazione comune può essere riproposta sino all'inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado), il
giudice potrà ammettere il contravventore all'oblazione stessa se non ricorrono alcune ipotesi di esclusione. Queste
ipotesi ricorrono se è contestata la recidiva reiterata e se è ritenuta l’abitualità nelle contravvenzioni o la professionalità
nel reato, oppure se permangono le conseguenze pericolose o dannose del reato (art.162 bis co.3), nonché se il giudice
ritenga il «fatto grave» (art.162 bis co.4).
La previsione della «gravità del fatto», quale formula di chiusura ai fini dell’esclusione dell’oblazione, ha suscitato
giustificate perplessità in dottrina per la usa eccessiva genericità.
La disciplina dell’oblazione speciale è stata inoltre fatta oggetto di vivaci critiche nel contesto del processo di
depenalizzazione attuato con legge di Modifiche al sistema penale: essa, almeno nei casi di reati di una certa gravità, si
risolve in una «depenalizzazione giudiziale», cioè in una depenalizzazione affidata al personale gusto del giudice.
Per quanto riguarda l’ambito di operatività, la nuova causa di estinzione si applica soltanto ai casi di delitti perseguibili
a querela, a condizione che quest’ultima sia soggetta a remissione: vengono in rilievo fattispecie criminose che
comportano un’offesa a beni individuali rientranti nella disponibilità del relativo titolare.
L’art.162 ter co.1 c.p. dispone: “Nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il
reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l'imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della
dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il
risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. Il risarcimento del danno
può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli artt.1208 e seguenti del c.c., formulata
dall'imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale
titolo”.
La realizzazione di condotte riparatorie è un atto unilaterale, che consente all’autore di un delitto perseguibile a querela
di conseguire l’effetto estintivo del reato, senza che vi sia necessità che il querelante con atto proprio rimetta la querela
(art.152 c.p.).
L’oggetto della riparazione è costituito dal danno cagionato dal reato: è tale il danno civile da reato, sia patrimoniale
che non patrimoniale. Esso può essere riparato mediante restituzione o mediante risarcimento (il quale potrà avvenire
per equivalente, o in forma specifica ripristinando la situazione preesistente al reato). Può equivalere al risarcimento
l’offerta reale (art.1208 c.c.) formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, a condizione che il giudice
riconosca la congruità della somma di denaro offerta.
È richiesta l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato: occorre cioè che l’autore, ove possibile,
reintegri il bene o i beni giuridici lesi (o posti in pericolo) dal reato.
Il comma 2 dell’art.162 ter prevede l’ipotesi di mancato adempimento per fatto non addebitabile all’imputato: in tal
caso, quest’ultimo può chiedere la fissazione di un ulteriore termine (non superiore a 6 mesi) per provvedere al
pagamento, anche in forma rateale di quanto dovuto a titolo di risarcimento; in caso di accoglimento della richiesta, il
giudice ordina la sospensione del processo e impone specifiche prescrizioni.
Nell’ordinamento penale italiano la sospensione condizionale della pena ha subito un processo di snaturamento che l’ha trasformata in una misura
clemenziale applicata automaticamente dal giudice, con la conseguenza di provocare un fenomeno di inammissibile fuga dalla sanzione. Essa sorge
nel mondo anglosassone come forma di probation, cioè come sospensione della pronuncia di condanna, intesa a recuperare imputati giovani
ancora emendabili con l’aiuto e l’assistenza di tutori].
La sospensione condizionale venne introdotta in Italia, sotto il nome di «condanna condizionale», con legge «Ronchetti»
nel 1904 e motivata con l’esigenza di sottrarre all’ambiente deleterio e pericoloso del carcere «chi mai ne abbia varcato
le soglie e di curare in tale guisa l’emenda del colpevole».
Il codice Rocco riprese l’istituto anche come strumento di lotta alle pene detentive brevi, fissando il limite massimo di
pena per la concessione della sospensione condizionale in 6 mesi.
La disciplina originaria del codice ha subito 3 interventi riformatori che ne hanno modificato presupposti di applicazione,
contenuti e funzioni. Così, non si può più affermare che la sospensione condizionale costituisca un mezzo di lotta alle
pene detentive brevi; essa piuttosto svolge una generica funzione di prevenzione speciale fondata sulla presunzione di
sufficienza della sola pronuncia di condanna e sulla minaccia della sua futura esecuzione. Soprattutto la “nuova”
regolamentazione della seconda concessione della sospensione sembra preludere ad un possibile futuro recupero, da
parte del legislatore, di una dimensione sanzionatoria e di una più razionale funzionalizzazione della misura stessa.
L’ultimo intervento riformistico attuato con legge n.145/2004 ha ulteriormente contribuito a snaturare l’istituto per
raggiungere specifici obiettivi di politica-criminale.
- la prima rende virtuale il cumulo tra pena detentiva e pena pecuniaria ai fini del calcolo del requisito del limite
massimo di pena sospendibile, nell’ipotesi in cui a seguito della conversione di pena pecuniaria sia superata la soglia
massima di concedibilità del beneficio: con l’evidente finalità di incentivare il ricorso al patteggiamento allargato.
- la seconda accorcia rilevantemente il tempo necessario all’estinzione del reato, nell’ipotesi di pena sospesa inferiore
ad un 1 anno e di contestuale adempimento degli obblighi lato sensu risarcitori.
Presupposti applicativi e limiti di applicazione i presupposti di applicazione della sospensione condizionale ordinaria
della pena sono 2:
a) una sentenza di condanna a pena detentiva oppure a pena pecuniaria che, sola o congiunta a pena detentiva, non
superi un determinato limite;
b) una prognosi favorevole sulla personalità del condannato.
Il limite oggettivo di pena è stato elevato con la riforma del 1974: la pena detentiva oppure quella pecuniaria, da sola o
congiunta a pena detentiva e ragguagliata ex art.135, non può essere superiore a 2 anni.
Se si tratta di giovani adulti, cioè di maggiorenni di età compresa tra i 18 e i 21 anni, il limite di pena è di 2 anni e 6 mesi
(art.163 ult.co.).
Se la pena concretamente inflitta non supera tali limiti, il giudice concederà la sospensione condizionale della pena
qualora, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art.133, presuma che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati.
Questo presupposto della sospensione viene nella pratica deplorevolmente obliato ed il richiamo dell’art.133 funzione
come una mera “clausola di stile”. Eppure tale presupposto esprime l’essenza stessa dell’istituto: il giudizio di non
pericolosità del condannato consente di considerare, ai fini della prevenzione speciale, sufficiente la sola sentenza di
condanna e non anche la sua esecuzione.
La prima deroga prevista dal nuovo art.163 co.1, ultimo alinea, co.2, ultimo alinea e co.3, ultimo alinea, permette la
concessione della sospensione condizionale nell'ipotesi in cui i limiti massimi di pena suindicati siano superati per
effetto della conversione della pena pecuniaria: essa sterilizza ai fini della concessione del beneficio la conversione della
pena pecuniaria, se la pena detentiva rimane nei rispettivi limiti previsti dalla legge. In altri termini: la conversione resta
un dato virtuale che non paralizza la concessione della sospensione condizionale, se la pena detentiva non supera i 2
anni per i delinquenti normali, i 2 anni e 6 mesi per i giovani adulti e i 3 anni per i minori di 18 anni e gli ultrasettantenni.
La seconda deroga prevista dal nuovo art.163 all’ultimo co., concerne l'ipotesi in cui il giudice applichi una pena
detentiva non superiore ad un 1 anno ed il colpevole adempia gli obblighi risarcitori: essa riduce sensibilmente il tempo
necessario a produrre l'effetto estintivo del reato da 5 anni a 1 anno.
Condizioni ostative La sospensione condizionale non può tuttavia essere concessa in presenza di alcune condizioni
ostative. L'art.164 co.2, stabilisce che essa non può essere concessa:
- a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione;
- al delinquente o contravventore abituale;
- a delinquenti o contravventori professionali;
- a chi è stata inflitta, in aggiunta alla pena, una misura di sicurezza personale perché persona che la legge presume
socialmente pericolosa.
Obblighi del condannato Il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale all'adempimento,
nel termine fissato in sentenza, dell'obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di
risarcimento del danno e provvisoriamente assegnata sull'ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo
di riparazione del danno; nonché salvo che la legge disponga altrimenti, all'eliminazione delle conseguenze dannose o
pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna (art.165).
La legge 145/2004 ha allargato la gamma degli obblighi includendovi anche la prestazione di attività non retribuita a
favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le
modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna. A condizione che il condannato non faccia opposizione.
La seconda concessione del beneficio Le modifiche legislative, sollecitate da prese di posizione della Corte cost.,
hanno reso possibile la concessione della sospensione condizionale a chi ne abbia già usufruito una volta.
La seconda concessione del beneficio ricorre nell'ipotesi in cui il giudice, nell'infliggere una nuova condanna, irroghi una
pena che, cumulata con la precedente condanna per delitto, non superi i limiti oggettivi ex art.163 (art.164 ult.co.).
La seconda concessione deve essere subordinata, salvo che sia impossibile, all'adempimento di almeno uno degli
obblighi risarcitori sopra enumerati.
Revoca La sospensione condizionale è revocata di diritto se, nei termini durante i quali la condanna rimane sospesa,
il condannato:
- commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta una pena detentiva, o non adempia
agli obblighi impostogli;
- riporti un'altra condanna per un delitto anteriormente commesso a pene che, cumulate a quelle precedentemente
sospese, superino i limiti stabiliti dall'art.163 (art.168).
La sospensione condizionale può essere revocata dal giudice se il condannato riporta un'altra condanna per delitto
anteriormente commesso a pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, non superi i limiti stabiliti
dall'art.163, avuto riguardo all'indole e alla gravità del reato.
Quanto agli effetti, la concessione della sospensione condizionale sospende la pena principale per il periodo di 5 anni, se
la condanna è per delitto; e di 2 anni, se la condanna è per contravvenzione.
Se nei termini stabiliti il condannato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole e adempie agli
obblighi imposti, il reato è estinto. L'effetto estintivo concerne la pena, mentre cessa l'esecuzione delle pene accessorie.
Restano però in vita gli effetti penali della condanna. Sono sospendibili condizionalmente anche le pene accessorie.
La messa alla prova comporta la realizzazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose
derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì
l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l'altro, attività
di volontariato di rilievo sociale o l’adempimento di altre prescrizioni specificamente indicate (art.168 bis co.2 c.p.).
La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (art.168 bis co.3
c.p.). Oltre a non poter essere concessa più di una volta, la sospensione del procedimento non è applicabile ai
delinquenti abituali, professionali e per tendenza.
Qualora disposta, la sospensione con messa alla prova provoca un duplice effetto:
Infine, secondo qualche commentatore, l’introduzione della sospensione del processo condizionata alla prestazione di
lavoro di pubblica utilità rappresenterebbe una rivoluzione, che pone in linea il nostro ordinamento con l’Europa e con
l’esigenza di tutelare le vittime; mentre, da parte di altri si paventa che la sua efficacia sia davvero scarsa, se non nulla.
La tutela della personalità morale del minore è uno dei compiti più importanti dello Stato e si traduce, sul piano della
politica criminale, nella necessità di evitare al minore, delinquente primario, impatti deleteri per il suo sviluppo e la sua
formazione futura.
Presupposti applicativi del perdono giudiziale I presupposti sono in generale fissati dall’art.169, mentre per la
individuazione dei limiti di pena entro cui esso può concedersi occorre fare riferimento all’art.19 della legge sul
tribunale minorile (R.D.L. n. 1404/34).
a) che il colpevole, al tempo della commissione del reato, non abbia compiuto 18 anni, ma abbia compiuto 14 anni;
b) che non sia stato già stato condannato a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta riabilitazione, né che sia
stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale;
c) che il tribunale dei minorenni ritenga di poter applicare «in concreto» una pena detentiva non superiore ai 2 anni,
oppure una pena pecuniaria non superiore a 1.549,37 euro anche se congiunta a detta pena (art.19 R.D.L. n. 1404/34 e
art.112 legge n.689/1981);
d) che il giudice, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art.133 presuma che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati.
La concessione del perdono giudiziale presuppone l’accertamento del fatto e della responsabilità del minore: sebbene la
sentenza che applica il perdono giudiziale, sia una sentenza di proscioglimento, si tratta pur sempre di una sentenza che
ha accertato tutte le condizioni necessarie per un rinvio a giudizio o per una condanna.
La concessione del perdono giudiziale è possibile non solo quando il minore abbia commesso un reato, ma anche
qualora abbia commesso più reati, siano questi legati o no dal vincolo della continuazione. La Corte costituzionale ha
infatti dichiarato l'illegittimità dell'art.169, sia nella parte in cui non consentiva che potesse estendersi il perdono ad
altri reati che si legano con il vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso il beneficio, sia nella parte
in cui escludeva che potesse concedersi un nuovo perdono giudiziale in caso di reato commesso anteriormente alla
prima sentenza di perdono e di pena che, cumulata con quella precedente, non superava i limiti per l'applicabilità del
beneficio.
Per quanto riguarda gli effetti, con il passaggio in giudicato della sentenza che concede il perdono giudiziale, il reato è
estinto. La concessione del perdono è sempre incondizionata ed irrevocabile. La concessione del perdono impedisce
l'applicazione delle misure di sicurezza, ad eccezione della confisca obbligatoria.
11.1) Con la legge di riforma del processo penale minorile (448/1988) sono stati introdotti, a tutela del minore che
delinque, 2 nuovi istituti:
a) Non luogo a procedere per irrilevanza del fatto l’art.27 d.p.r. 448/1988, stabilisce che, se nell'ambito delle indagini
preliminari risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il p.m., quando ritenga che l'ulteriore corso
del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne, è tenuto a richiedere all'organo giudicante sentenza
di non luogo a procedere. Se la richiesta viene accolta, per il fatto commesso dal minore non si procede.
Il nuovo istituto opera in presenza di 3 condizioni, 2 oggettive e concorrenti, e 1 soggettiva:
- tenuità del fatto (oggettiva): si presta ad essere interpretato sia nel senso di fatto meramente materiale che in
quello di fatto di reato, come tale comprensivo anche dell'atteggiamento psicologico;
- occasionalità del comportamento (oggettiva): fa riferimento alla genesi del fatto medesimo, nel senso che
quest’ultimo deve apparire come il frutto di particolari e momentanee condizioni psicologiche del minore e non
come il risultato di un progetto (ciò significa che l'occasionalità può essere ritenuta anche nei confronti dei minori
recidivi);
- pregiudizio educativo derivante dall'ulteriore corso del processo (soggettiva): condizione di natura squisitamente
psicologico-pedagogica. La ricostruzione di tale requisito è affidata sostanzialmente alla discrezionalità del giudice.
b) Sospensione del processo con messa alla prova viene disposta dal giudice quando ritiene di dover valutare la
personalità del minorenne all'esito di una prova, nel corso della quale il minore stesso viene affidato ai servizi
minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle
opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. La messa in prova persegue lo specifico obiettivo di
consentire la formulazione di un serio giudizio prognostico sul reinserimento sociale del minore a seguito
dell'avvenuta interiorizzazione di modelli di comportamento socialmente apprezzabili. Il giudizio prognostico
rappresenta a sua volta l'esito di una complessa valutazione che si fonda sull'esame della personalità del minore,
sulla condotta di vita precedente, contemporanea e successiva al reato, sulle modalità del fatto criminoso, sui
motivi a delinquere e su ogni altra circostanza idonea a fornire indicazioni sullo sviluppo delle sue strutture
psichiche e comportamentali. Devono essere inoltre tenute in considerazione le indicazioni specifiche,
eventualmente impartite dal giudice col provvedimento di sospensione, che mirano a riparare le conseguenze del
reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la vittima del reato. All'accertamento dell'esito positivo
della prova segue la dichiarazione giudiziale di estinzione del reato.
In applicazione del principio «mors omnia solvit» vengono estinte le pene detentive, le pene pecuniarie, le pene
accessorie e tutti gli effetti penali della condanna, le misure di sicurezza detentive e le obbligazioni civili per il
pagamento dell'ammenda e della multa.
La morte, però, non fa venire meno le obbligazioni civili nascenti dal reato, né estingue la confisca (artt.236 e 210).
A differenza dell’amnistia propria, questa forma di amnistia presuppone una sentenza di condanna definitiva ed
irrevocabile, cioè passata in giudicato. Riguarda solo i reati commessi antecedentemente alla presentazione del disegno
di legge. L'amnistia impropria fa cessare l'esecuzione delle pene principali (detentive o pecuniarie), delle pene
accessorie e delle misure di sicurezza diverse dalla confisca. Permangono, invece, tutti gli altri effetti della condanna (ad
es. della condanna estinta si tiene conto ex art.106 agli effetti della recidiva, dell'abitualità, della professionalità, ecc).
15) Prescrizione della pena
Il decorso del tempo non influisce solo sul reato, ma anche sulla pena inflitta con la sentenza passata in giudicato.
La ratio dell'istituto della prescrizione della pena è identica a quella della prescrizione del reato: viene meno l'interesse
della collettività a far scontare a un condannato la pena inflittagli quando è trascorso un lungo periodo di tempo dal
momento del passaggio in giudicato della sentenza, perché “l'oblio copre ogni cosa”.
Secondo le disposizioni contenute negli artt.172-173, il decorso del tempo estingue solo la pena della reclusione,
dell’arresto, della multa, dell’ammenda nonché le misure di sicurezza ad eccezione della confisca e di quelle ordinate
come misure accessorie di una condanna alla reclusione per un tempo superiore a 10 anni.
Il decorso del tempo non estingue, invece, la pena dell’ergastolo, le pene accessorie e gli altri effetti penali della
condanna.
I termini di prescrizione L’estinzione della pena della «reclusione» avviene con il decorso di un termine pari al
doppio della pena inflitta con il provvedimento di condanna. Se però si tratta di reclusione il cui raddoppio equivale ad
un tempo inferiore a 10 anni, l’estinzione avviene in 10 anni; se, invece, si tratta di reclusione il cui raddoppio supera gli
anni 30, l’estinzione avviene alla scadenza dei 30 anni (art.172 prima parte).
La pena della multa si estingue in 10 anni. Se congiuntamente alla reclusione è inflitta la pena della multa, per
l'estinzione dell'una e dell'altra si ha riguardo esclusivamente al decorso del tempo necessario per la maturazione
dell'estinzione della reclusione (art.172 co.2 e3).
Le pene dell'arresto e dell'ammenda si estinguono nel termine di 5 anni. Se sono inflitte insieme, per l’estinzione di
entrambe, si ha riguardo al decorso del termine stabilito per l'arresto (art.173).
Nel caso di concorso di reati, per l’estinzione della pena si ha riguardo a ciascuno di essi, anche se le pene sono state
inflitte con la medesima sentenza di condanna.
Il dies a quo del termine di estinzione decorre “dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile o dal giorno in cui il
condannato si è sottratto volontariamente all'esecuzione già iniziata della pena” (art.172 co.4).
L'estinzione della pena della reclusione e della multa non ha luogo “se si tratta di recidivi nei casi preveduti dai capoversi
dell’art.99; o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o se il condannato, durante il tempo necessario per
l'estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole” (art.172 co.7).
La prescrizione è rinunciabile.
16) Indulto
È un provvedimento di carattere generale, espressione di un potere di clemenza, che condona in tutto o in parte la
pena, ovvero la commuta in una pena di specie diversa (art.174), ma dello stesso genere.
Anche l'indulto viene concesso con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, in ogni
suo articolo e nella votazione finale e si riferisce ai reati commessi antecedentemente alla presentazione del disegno di
legge. Si distingue:
- indulto proprio quando il condono interviene nella fase esecutiva rispetto ad una sentenza irrevocabile di condanna;
- indulto improprio se è applicato al momento della sentenza dal giudice della cognizione.
L’indulto limita i suoi effetti alle pene principali, e non estingue né le pene accessorie né gli effetti penali della
condanna, salvo che il decreto disponga altrimenti
Se invece condona completamente la pena inflitta con la sentenza di condanna, fa cessare di diritto l'esecuzione delle
misure di sicurezza conseguenti ad una condanna alla reclusione per un tempo superiore a 10 anni o della confisca
(artt.210 e 236). Nessun limite oggettivo è previsto dalla legge per l'applicabilità dell'indulto.
Di solito il condono è limitato ad una determinata quantità di pena, sia detentiva che pecuniaria: entro questi limiti il
condono si applica alla sentenza di condanna per qualsiasi tipo di reato.
La legge di concessione prevede però spesso per determinati reati l'esclusione dell'indulto o una misura di pena diversa
ed inferiore a quella generalmente prevista. La legge può altresì stabilire limiti soggettivi differenti, per coloro che per la
medesima condanna hanno goduto o possono godere di precedenti indulti.
L’indulto può essere sottoposto a condizioni o obblighi, e non può essere applicato ai recidivi nei casi di recidiva
aggravata o reiterata, né ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, salvo che sia disposto diversamente.
17) La grazia
La grazia, tipica espressione dell'indulgentia principis, condona in tutto o in parte la pena inflitta, o la commuta in
un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente,
e neppure gli altri effetti penali della condanna (art.174).
La grazia è un provvedimento di esclusiva prerogativa del Presidente della Repubblica e non necessita di leggi di
concessione. Le caratteristiche essenziali dell'istituto consistono:
- Nella circostanza che l'organo competente ad emettere il relativo provvedimento è solo il Presidente della Repubblica;
- nella natura stessa del provvedimento, che ha un contenuto non generale ma particolare in quanto si riferisce ad un
singolo rapporto esecutivo relativo ad una o più condanne a carico di uno stesso imputato.
La grazia presuppone l'esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna.
In ordine agli effetti, essa è caratterizzata dalla mancanza di una loro predeterminazione normativa.
La grazia può estinguere in tutto o in parte la pena principale: la maggiore o minore ampiezza di effetti dipende dalla
valutazione discrezionale dell'organo competente a concederla.
Può essere sottoposta a condizioni (es. risarcimento dei danni entro un certo periodo di tempo).
Ragioni che giustificano la sua concessione sono le esigenze di equità e di giustizia del caso concreto, ma anche
sull’attitudine di essa a fungere da strumento di attuazione delle finalità proprie della pena.
La grazia infatti permette di interrompere l'esecuzione della pena quando si è già compiuta la risocializzazione del
condannato, svolgendo così una funzione parallela a quella della liberazione condizionale, nonché di tener conto di
particolari situazioni processuali e familiari del condannato, o di porre rimedio ad eventuali errori giudiziari non
altrimenti riparabili.
Con legge 1634/1962, si è provveduto ad adeguare l’istituto alle finalità di prevenzione speciale sancite dall’art.27.3 Cost.
Il nuovo testo dell'art.176 dispone che “il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena,
abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione
condizionale, se ha scontato almeno 30 mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della
pena non superi i 5 anni.
Se si tratta di recidivo, nei casi preveduti dai capoversi dell’art.99, il condannato, per essere ammesso alla liberazione
condizionale, deve aver scontato almeno 4 anni di pena e non meno di 3⁄4della pena inflittagli”.
L’art.28 legge n.663/1986 ha modificato il comma 3 dell’art.176 stabilendo che “Il condannato all'ergastolo può essere
ammesso alla liberazione quando abbia scontato almeno 26 anni di pena”.
La concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato
(es. risarcimento danni), salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle.
- del decorso di un tempo minimo esprime il momento sanzionatorio della liberazione condizionale
- del ravvedimento realizza la finalità di prevenzione speciale dell’istituto, che non è più concepito come un “premio”
al buon detenuto per la buona condotta (c.d. concezione-penitenziaria della liberazione condizionale), bensì come
strumento di effettivo recupero sociale del condannato.
[N.B: Il significato del termine “ravvedimento” equivale a conseguimento, da parte del condannato, della capacità di reinserirsi in maniera ordinata
nella società, così da non commettere altri reati].
La concessione della liberazione condizionale, è affidata alla competenza del tribunale di sorveglianza (art.70 co.1
ord.penit), produce i seguenti effetti immediati:
La liberazione condizionale viene revocata, se durante il periodo di libertà condizionale il liberato commette un delitto o
una contravvenzione della stessa indole, oppure trasgredisce gli obblighi inerenti alla libertà vigilata.
Per effetto della revoca, il condannato riprende a scontare la pena detentiva ed il tempo trascorso in liberazione
condizionale viene computato nella durata della pena scontata. Alla luce delle ultime riforme, l'istituto della liberazione
condizionale si inserisce a pieno titolo tra le misure alternative alla detenzione.
19) La riabilitazione
La riabilitazione svolge la funzione di reintegrare il condannato, che abbia già scontato la pena principale, nella
posizione giuridica goduta fino alla pronuncia della sentenza di condanna.
L'art.178 dispone che “la riabilitazione estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, salvo che
la legge disponga altrimenti”. Con l’estinzione delle pene accessorie e degli effetti penali, il riabilitato riacquisisce la
capacità giuridica perduta a seguito della condanna e viene rimesso in condizioni di svolgere la sua normale attività nella
società.
La legge n.145/2004 ha modificato la disciplina della riabilitazione sia a favore che a sfavore del condannato.
Nel primo caso ha ridotto il tempo necessario per godere del beneficio e ha fissato un termine ancora più breve
nell'ipotesi di sospensione condizionale di cui all’ult.co. dell’art.163.
Nel secondo senso ha aumentato significativamente il limite massimo previsto per la revoca.
- che siano decorsi 3 anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta (il termine è di 8
anni per i recidivi qualificati ex art.99 cpv, nonché di 10 anni per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza);
- che il condannato, abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta durante il periodo di tempo indicato;
- che non sia stato sottoposto a misure di sicurezza, tranne che si tratti di espulsione dello straniero dallo Stato o di
confisca, o che il provvedimento sia stato revocato;
- che abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi nell'impossibilità di
adempierle.
In presenza di queste condizioni la riabilitazione costituisce un vero e proprio diritto del condannato.
Se il riabilitato commette entro 7 anni un delitto non colposo, per il quale sia inflitta la pena della reclusione per un
tempo non inferiore a 3 anni o un'altra pena più grave (art.180), la sentenza di riabilitazione è revocata di diritto: come
conseguenza della revoca, rivivono le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. La riabilitazione può aver
luogo anche nel caso di sentenza straniera di condanna (a norma dell’art.12).
Una riabilitazione speciale per i minori, che può essere concessa dopo il 18esimo e prima del 25esimo anno di età, è
prevista all’art.24 r.d.l.1404/1934: essa presuppone che il minore non sia sottoposto a pena o misura di sicurezza e che
risulti completamente emendato e degno di essere ammesso a tutte le attività della vita sociale.
20) La non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale
Questo istituto assolve la funzione di evitare che la condanna sia resa nota ai privati che richiedono i certificati del
casellario giudiziale, non per ragioni di diritto elettorale. La non menzione della condanna si propone un obiettivo
analogo a quello della riabilitazione cioè di eliminare alcuni ostacoli che potrebbero rendere più difficile il reinserimento
del condannato nella vita sociale e soprattutto nel mondo del lavoro. La non menzione solo in senso improprio può
essere considerata la causa di estinzione della pena: essa piuttosto comporta una limitazione degli effetti della
condanna. La sua concessione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, tenute presenti le circostanze indicate
dall’art.133.
Il giudice non deve pronunciarsi sulla concessione del beneficio nei casi di condanne ope legis non soggette ad iscrizione
o che non debbono essere menzionate nei certificati rilasciati ai privati.
Tale beneficio di non menzione della precedente condanna è revocato di diritto se il condannato commette
successivamente un altro delitto. La revoca può intervenire in ogni tempo, poiché la legge non fissa alcun termine per la
commissione del nuovo delitto: proprio la mancanza di termini prefissati legittima una qualificazione dell’istituto più in
termini di mera sospensione a tempo indeterminato dell'effetto penale, che non di una causa di estinzione vera e
propria.
In questa ottica binaria, mentre la pena incentrava in sé la funzione retributiva e di prevenzione generale, la misura di
sicurezza assolveva una funzione general-preventiva finalizzata alla rieducazione e cura del soggetto socialmente
pericoloso.
[N.B: L’introduzione del «doppio binario» sortì, come si è avuto modo già di riferire, anche l’effetto di riappacificare la scuola «classica» e la Scuola
«positiva», dopo che per anni avevano alimentato un contrapposto dibattito sulla funzione della pena: la contemporanea presenza nel sistema delle
«pene» e delle «misure» - rispettivamente legate ai contrapposti paradigmi della tradizionale “colpevolezza” difesa dai «classici» e della “pericolosità
sociale” propugnata dai «positivisti» - apparve come una sorta di onorevole compromesso.
Senonché, non occorse molto tempo per accorgersi che il nuovo meccanismo risultava inficiato da contraddizioni e incoerenze, la più eclatante e
deteriore delle quali fu che il meccanismo del doppio binario si risolse in un sistema di rigida difesa dell’esistente, usato dal fascismo per secondare il
proprio progetto di coartazione delle libertà individuali e collettive].
Natura «penale» della misura di sicurezza In coerenza con le vedute del momento dell’emanazione del codice, alle
misure di sicurezza venne originariamente attribuita «natura amministrativa»: ed infatti, la misura di sicurezza veniva
inquadrata nell’ambito dell’attività di polizia, cioè di un’attività amministrativa tipicamente finalizzata alla difesa
preveniva della società.
Attualmente, tutta la dottrina respinge tale collocazione ed inscrive le misure di sicurezza fra le sanzioni criminali di
competenza del diritto penale: invero, la misura di sicurezza è di fatto afflittiva forse più della stessa sanzione detentiva
e viene applicata mediante un processo giurisdizionale.
Come si è già visto, in seguito al riconoscimento costituzionale del finalismo rieducativo delle stesse pene in senso
stretto, art.27.3 cost, è venuta meno quella distinzione di scopi che originariamente giustificava il sistema del doppio
binario.
Appunto perché dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato, la stessa pena dovrebbe farsi carico di neutralizzare
la pericolosità sociale del reo ed impedirne la ricaduta nel delitto.
Stando così le cose, appaiono fondati i dubbi sulla ulteriore legittima sussistenza nel nostro ordinamento delle misure di
sicurezza.
I destinatari delle misure di sicurezza sono i soggetti «imputabili», cioè che hanno commesso un reato, ovvero i «semi-
imputabili» o «inimputabili» esecutori di un quasi reato o un reato impossibile (art.49 - 115).
Le misure cioè si applicano soltanto se si verificano due condizioni: l'esistenza di un reato commesso e della pericolosità
sociale del reo.
L’esistenza del reato subisce, poi, una deroga in presenza di un reato impossibile (art.49) o di un quasi - reato (art.115 -
accordo o istigazione di un delitto non commesso).
E, invero, in base all’art.199 c.p «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente
stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti».
Lo stesso principio è costituzionalizzato a mente dell’art.25.3 Cost che sancisce «nessuno può essere sottoposto a misure
di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».
Secondo la Corte costituzionale, sent.157/72, il principio di legalità in materia di misure di sicurezza implica l’esigenza di
una «completa, tassativa e non equivoca previsione legislativa» delle ipotesi di applicabilità delle stesse.
È tuttavia vero che la «tassatività» in tema di misure di sicurezza va intesa in una accezione necessariamente più elastica
e ciò per due ragioni di fondo:
le fattispecie soggettive di pericolosità, in quanto costituite da elementi sintomatici attinenti alla personalità
dell’individuo, sono ricostruibili con minore rigore rispetto alle fattispecie incriminatrici;
il giudizio prognostico di pericolosità sociale è, per sua natura, esposto a inevitabili margini di incertezza.
Questo non toglie che il legislatore sia tenuto ad indicare con sufficiente determinatezza gli elementi e i criteri alla stregua
dei quali effettuare l’accertamento giudiziale di pericolosità sociale.
b) Divieto di retroattività Dispone l’art.200 del c.p. «Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al
tempo della loro applicazione. - Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la
legge in vigore al tempo dell'esecuzione».
In realtà tutta la materia della successione delle leggi penali è regolata dall’art.2 del c.p.
Ed invero, è proprio la ratio di garanzia che ispira l’art.25 Cost a far escludere che possa applicarsi una misura di sicurezza
per un fatto che al momento della commissione non costituiva reato, oppure che possa applicarsi ad un fatto di reato una
misura di sicurezza originariamente non prevista o diversa da quella originariamente prevista.
Se tutto questo è vero, non resta che fornire all’art.200 c.p. la seguente interpretazione restrittiva: esso può solo riferirsi
alla eventualità che una legge successiva disciplini in maniera diversa mere modalità esecutive di una misura di sicurezza
già legislativamente prevista al momento della commissione del fatto.
Perché il legislatore del ’30, pur in considerazione della spiccata tendenza a svolgere una funzione speciale preventiva, ha
subordinato la irrogazione di misure di sicurezza alla commissione di un fatto di reato?
La risposta risiede nel fatto che lo stesso legislatore del ’30, ha ritenuto di dover contemperare la prospettiva della
prevenzione con minime esigenze garantistiche.
Cioè, la stessa consapevolezza che la misura di sicurezza incide pesantemente sulle libertà del singolo e la coscienza che il
manipolabile requisito della pericolosità sociale si espone agli eventuali arbitri dell’accertamento giudiziale, ha indotto il
legislatore dell’epoca ad aggiungere quale presupposto oggettivo la commissione di un fatto di reato.
Le ipotesi di «quasi reato» Questo fondamentale principio subisce però due eccezioni, sempre tassativamente
stabilite dalla legge:
a) il giudice può applicare una misura di sicurezza nell’ipotesi di “reato impossibile” come configurato dall’art.49 c.p.;
b) il giudice può applicare una misura di sicurezza altresì nell’ipotesi di “accordo criminoso non eseguito o istigazione a
commettere un delitto, se l’istigazione non viene accolta”, art.115.
Si tratta di ipotesi denominate in dottrina «quasi – reato» a significare che si è in presenza di una azione che, pur non
avendo il carattere del reato, si manifesta in modo talmente prossimo al reato che permette di riconoscere in essa un
indizio sicuro di pericolosità sociale.
L’interpretazione della locuzione «fatto preveduto come reato» di cui al citato art.202, va intesa nel senso che è
necessario che il fatto integrante il quasi - reato sia conforme ad una figura criminosa e che non esistano al contempo
cause di giustificazione.
I non imputabili Anche rispetto agli illeciti penali commessi dai «non imputabili» (art.88 e segg.), operano le
disposizioni generali relative all’elemento soggettivo del reato, comprese quelle sull’errore e l’ignoranza.
Con la differenza che questa volta «dolo» e «colpa» non fungono tanto da requisiti della colpevolezza, ma molto più quali
indici psicologici dell’appartenenza del fatto all’autore.
Quello di «pericolosità» è in sé un concetto generico che ben si presta a fungere da comoda etichetta che canalizza un
bisogno emotivo di rassicurazione nei confronti di gruppi di persone percepite di volta in volata come socialmente
minacciose (ad es. il vagabondaggio, la mendicità, interi nuclei di persone come “gli zingari” etc.).
Origine positivistico-criminologica della categoria Quale presupposto per l’applicazione delle «misure di sicurezza» la
categoria della pericolosità sociale è stata recepita secondo la specifica elaborazione maturata nell’ambito del positivismo
criminologico di fine Ottocento: essa veniva a coincidere con la probabilità che un soggetto, a causa delle sue
caratteristiche psichiche e dell’influenza esercitata dall’ambiente, commettesse in futuro fatti di reato.
In questo senso la categoria della pericolosità sociale si discosta da quella della colpevolezza: a differenza di questa
ultima, che presuppone una sufficiente signoria delle proprie azioni, la pericolosità sociale riflette l’insieme delle
inclinazioni che spingono il soggetto a delinquere in maniera “necessitata”.
Definizione legislativa In linea con i già indicati presupposti, stabilisce l’art.203.1 c.p. «Agli effetti della legge penale, è
socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati
nell'articolo precedente quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati».
La definizione legislativa, facendo espresso rifermento al canone della probabilità di ricadere nel delitto, esclude che
possa bastare la semplice «possibilità» di ricadere nel delitto, ma esige piuttosto quell’elevato grado di possibilità
corrispondente al concetto di probabilità stessa.
Come si è già anticipato, la diversità di grado intercorrente tra «mera possibilità» e «probabilità» funge anche da criterio
differenziatore tra i rispettivi concetti di «capacità a delinquere» (Canone di commisurazione pena ex art.133) e di
«pericolosità sociale».
Indici di cui all’art.133 c.p. Oggi, pressoché concordemente, si considera la «pericolosità sociale» come risultato di un
«giudizio prognostico» effettuato dal giudice circa la «probabilità di ricaduta nel delitto».
Come base per la prognosi anzidetta l’organo giudicante è tenuto ex art.203 ad utilizzare gli indici offerti dall’art.133 c.p.,
solo che:
mentre in sede di commisurazione della pena gli elementi ivi indicati valutati alla stregua della «capacità a delinquere»
sono funzionali al giudizio di penale responsabilità;
in sede di applicazione delle misure di sicurezza essi indici devono essere utilizzati ai fini della «prognosi criminale».
Abolizione delle presunzioni legali Nella originaria disciplina la regola generale del «previo accertamento in
concreto» della pericolosità sociale da parte del giudice (art.204.1 c.p.), subiva rilevanti deroghe in casi espressamente
previsti di presunzione di pericolosità art.204.4 c.p., era la stessa legge che, in presenza di determinati presupposti relativi
alla gravità del fatto commesso e a particolari condizioni psicologiche dell’agente, attribuiva la qualità di persona
pericolosa socialmente con una presunzione juris et de jure. (non ammette prova contraria).
Ne deriva che il giudice, prima di applicare la misura di sicurezza è sempre tenuto a procedere all’accertamento concreto
della pericolosità sociale dell’autore del reato o del quasi-reato.
Tuttavia, la innovazione legislativa è intervenuta in una fase storica in cui si assiste alla caduta in crisi della stessa
categoria della pericolosità sociale, per ragioni che attengono sia al suo fondamento teorico, sia alla sua funzionalità
pratica.
Così, con riferimento ai rei «imputabili», si registra da qualche tempo la tendenza ad astenersi dalle dichiarazioni giudiziali
di abitualità e professionalità nel reato (artt.103 e 104) e della tendenza a delinquere (art.108).
Se questa sfiducia si consoliderà in futuro si finirà per assistere ad una sorta di soppressione di fatto delle misure di
sicurezza.
4.1) A determinare l’attuale stato di crisi delle misure di sicurezze, contribuisce anche la consapevolezza delle difficoltà
connesse all’accertamento concreto in sede giudiziale.
La verifica giudiziale della pericolosità sociale ripropone il problema dei limiti di validità scientifica della c.d. prognosi
criminale.
Ora, qualche metodo di prognosi criminale si avvicina latamente ad una sorta di scientificità, ma, in tutti i casi, i
meccanismi processuali odierni non consentono una loro verifica sul campo (che peraltro avverrebbe sulla “pelle” degli
autori).
Ciò spiega come mai i più avveduti fra i giudici si mantengano saldi nell’utilizzo del metodo intuitivo.
La base di questa prognosi è costituita dagli elementi indicati nell’art.133, ma si riconosce, comunque, che si tratta di
elementi assai generici, laddove lo stesso art.133 omette di indicare i criteri alla cui stregua il giudice deve valutare gli
elementi ivi menzionati.
Senonché, a prescindere dalle attuali insufficienti normative, un fondato scetticismo circa la possibilità di eliminare i rischi
di arbitrio è alimentato dalla acquisita consapevolezza dei limiti insiti anche nei metodi predittivi suppostamente
accreditati di maggiore scientificità.
Dunque, il giudizio di pericolosità spesso risulta soggettivamente arbitrario e perciò assai poco affidabile.
A questi tre tipi criminologici legali corrispondono soggetti imputabili ai quali sia applica la misura di sicurezza in
aggiunta alla pena.
Nella originaria disciplina le già menzionate forme di pericolosità erano presunte in massima parte per legge.
A seguito della citata Riforma Gozzini intervenuta con legge 663/86, anche la pericolosità dei delinquenti in questione
deve essere sempre concretamente accertata dal giudice.
Delinquente abituale Il tipo legale del delinquente abituale è descritto dal legislatore sulla base dell’esperienza,
per la quale la ripetizione di un determinato comportamento attenua sempre più i freni inibitori e rende perciò possibile
la commissione di reati.
In base alla disciplina previgente alla riforma dell’86 si distinguevano: abitualità nel delitto presunta dalla legge
(art.102), abitualità nel delitto ritenuta dal giudice (art.103) e abitualità nelle contravvenzioni (art.104).
A seguito dell’emanazione della miniriforma l.633/86 si è posto il problema se la disciplina dell’art.102, con presunzione
juris et de jure, sopravvivesse oppure no.
La soluzione più lineare, condivisa dall’Autore, è la legge intervenuta abbia tacitamente abrogato l’art.102, sicché
permane solo l’art.103 che dispone, a mezzo di accertamento giudiziale, l’inflizione della misura di sicurezza a chi, dopo
aver riportate due condanne penali per delitto non colposo, riporta un’altra condanna per delitto non colposo.
L'essere dedito al delitto significa che il soggetto deve aver acquisito una struttura della personalità che inclina alla
commissione di reati: pertanto non potrebbe non essere considerato pericoloso.
Abitualità nella contravvenzione L’art.104, dispone l’accertamento giudiziale secondo i canoni dell’art.133 c.p.,
della pericolosità sociale per «chi, dopo essere stato condannato alla pena dell’arresto per tre contravvenzioni della
stessa indole, riporta condanna per un’altra contravvenzione anche della stessa indole».
Stabilisce in proposito l’art.105 «Chi trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta
condanna per un altro reato, è dichiarato delinquente o contravventore professionale qualora, avuto riguardo alla
natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze indicate nel capoverso dell'articolo
133 c.p, debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato».
La dichiarazione di professionalità non presuppone necessariamente quella di abitualità; è sufficiente invece l'esistenza
delle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità.
Delinquente per tendenza Per l'art.108 è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene non recidivo o
delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo contro la vita o l'incolumità individuale, e riveli
una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole. Tale
disposizione non si applica se l'inclinazione al delitto è originata dall'infermità. Il delinquente per tendenza non trova
riscontro nella realtà naturalistica: per questo da tempo la dottrina più avveduta ne denuncia l'inconsistenza
criminologica e ne propone l'estromissione dal codice. Secondo la tipizzazione normativa, può essere qualificato
delinquente per tendenza anche il delinquente primario purché abbia commesso un delitto di sangue (in cui la vita o
l'incolumità personale sia oggetto di tutela anche indiretta). Deve trattarsi di soggetti capaci di intendere e volere che
manifestano mancanza di senso morale e che delinquono per un'istintuale malvagità.
Il principio predetto viene attuato con la fissazione di un limite minimo stabilito in via preventiva e presuntiva dal
codice.
Alla scadenza del termine minimo di durata della misura, il giudice riprende in esame le condizioni della persona che vi è
sottoposta per stabilire se essa sia ancora socialmente pericolosa.
Con il riesame della pericolosità viene in considerazione il concreto stato di pericolosità del soggetto: il giudice deve
tenere conto del comportamento dell’internato durante l’esecuzione della misura, dei risultati del trattamento, nonché
il comportamento durante le licenze.
Se il giudizio sulla pericolosità è negativo, il giudice ordina la revoca della misura di sicurezza, se, viceversa, il giudizio è
positivo, il giudice stabilisce una nuova durata minima, alla fine della quale procede di nuovo al riesame della
personalità e così procederà di volta in volta fino a quando il giudizio risulterà negativo.
Occorre sottolineare che dopo la prima proroga, il riesame della pericolosità può essere compiuto anche prima della
scadenza, quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato (art.208.2 c.p.).
La revoca anticipata prima del decorso della durata minima originaria è di competenza della sezione di sorveglianza.
La disciplina fin qui riassunta è stata profondamente modificata dalla riforma del 2014 attuata con la legge 81/2014,
infatti in sostituzione del principio tradizionale che ricollegava la durata della misura di sicurezza al permanere della
pericolosità sociale, viene stabilito l’inedito principio per cui la durata di tutte le misure di sicurezza detentive non può
superare la misura massima della pena detentiva comminata per il reato commesso.
Per la determinazione della pena a tali effetti si applica l’art.278 del c.p.c, per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo si
applica la disposizione di cui al primo periodo.
L’obbiettivo politico-criminale perseguito con tale rivoluzionamento normativo è quello di contrastare il c.d ergastolo
bianco, ovvero quel fenomeno per cui autori di reati anche di scarsa gravità oggettiva ritenuti però portatori di una
pericolosità sociale persistente, rischiano di rimanere per sempre internati in OPG o in case di cura e custodia.
a) la libertà vigilata;
Tali misure si applicano ai soggetti imputabili e pericolosi, ai sensi dell'art.216 c.p. sono assegnati ad una colonia
agricola o ad una casa di lavoro:
• coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza;
• coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e non essendo più sottoposti a
misure di sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo, che sia nuova manifestazione dell'abitualità, della
professionalità o della tendenza a delinquere;
La durata minima dell'assegnazione è di un anno, ma la durata è di 2 anni per i delinquenti abituali, di 3 anni per i
delinquenti professionali e di 4 per quelli di tendenza.
La distinzione tra le due va colta in relazione al tipo di attività che vi si svolge: in una di tipo agricolo, nell'altra di
carattere artigianale o industriale.
L'intenzione del legislatore di conseguire il riadattamento sociale dei delinquenti più pericolosi mediante il lavoro non si
è però mai realizzata. Innanzitutto, la distinzione tra colonia agricola e casa di lavoro è rimasta sulla carta. Poi di fatto
nell'esecuzione di queste misure manca proprio il lavoro, e gli internati vengono impiegati solo nei servizi della casa (es.
cucinieri, lavandai): queste mansioni possono evidentemente tenere occupata solo una minima parte di soggetti.
• i condannati, per delitto non colposo, a una pena diminuita per infermità psichica, per cronica intossicazione da alcool
o da sostanze stupefacenti o per sordismo art.219.1 c.p.;
• i condannati alla reclusione per delitti commessi in stato di ubriachezza, qualora sia abituale, o sotto l'azione di
stupefacenti all'uso dei quali siano dediti, quando non debba essere ordinata altra misura di sicurezza detentiva o non
possa essere applicata la libertà vigilata art.221 c.p.;
• i sottoposti ad altra misura di sicurezza detentiva se colpiti da infermità psichica che non richieda il ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario art.212.2 c.p.;
• le persone in stato di infermità psichica alle quali non possa essere applicata la libertà vigilata per impossibilità o
inopportunità di affidarle ai genitori o a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla loro educazione o assistenza, e le
persone in stato di infermità psichica che durante la libertà vigilata si rivelino di nuovo pericolose art.232 c.p.
Un'infermità fisica autorizza l'applicazione della normativa dell'art.89 (pena diminuita causa ridotta capacità di
intendere e di volere) solo quando si risolva in un'alterazione delle funzioni intellettive, affettive e volitive suscettibile di
essere considerata a livello di infermità psichica.
La durata minima dell'assegnazione oscilla tra 6 mesi e 3 anni ed è proporzionata alla pena stabilita dalla legge in
astratto.
Essa non è compatibile con altra misura di sicurezza detentiva perché le altre misure attuano lo scopo della custodia ma
non tendono alla cura dell'internato (art.219.4 c.p.).
In via eccezionale, è prevista la possibilità di applicarla prima dell'esecuzione della pena se il giudice lo ritiene
opportuno, tenuto conto delle particolari condizioni di infermità psichica del condannato, per impedire che l'immediata
esecuzione della pena possa ulteriormente aggravarne le condizioni psichiche (art.220.1 c.p.).
Il provvedimento di ricovero del condannato seminfermo psichico è subordinato al previo accertamento, da parte del
giudice, della pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima.
A questo punto è necessario far riferimento alle importanti novità introdotte in materia dalla riforma del 2014 (l.
81/014).
Per quanto concerne la verifica giudiziale della pericolosità sociale dei soggetti semi-imputabili (lo stesso vale per i
soggetti inimputabili potenziali destinatari della misura del ricovero in OPG) la legge menzionata introduce due nuovi
criteri di accertamento:
1. Il giudizio di pericolosità è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona senza tener conto delle
condizioni di cui l’art.133.2 n.4 c.p.
2. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi
terapeutici individuali (tale precisazione normativa tende a evitare che l’internamento in una casa di cura e custodia o
OPG possa dipendere esclusivamente dalla contingente difficoltà di assegnare il soggetto interessato a strutture di tipo
sanitario o da analoghe disfunzioni organizzative).
L’ulteriore innovazione normativa di notevole rilevanza è costituita dall’introduzione del principio di sussidiarietà, per
effetto di tale principio il ricovero in una casa di custodia e cura o in OPG può essere disposto solo quando ogni altra
misura risulti inadeguata in rapporto alle esigenze di cura e di controllo della pericolosità sociale.
• ai prosciolti per infermità psichica o per intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti o per sordismo, salvo che si
tratti di proscioglimento per contravvenzione o per delitto colposo o per altro delitto punibile in astratto con la
reclusione non superiore a due anni o con pena pecuniaria;
• ai sottoposti ad altra misura di sicurezza detentiva colpiti da un'infermità psichica tale da richiedere il ricovero in un
ospedale psichiatrico-giudiziario.
La durata è determinata sulla base del criterio della gravità astratta del reato. È di 10 anni se per il fatto commesso la
legge stabilisce la pena dell'ergastolo; è di 5 anni se prevede la pena della reclusione non inferiore nel minimo a 10
anni; è di 2 anni in tutti gli altri casi.
Anche in questo caso la condizione di pericolosità deve essere sempre previamente accertata dal giudice.
L'eliminazione della presunzione di pericolosità dell'infermo di mente ha finito col rendere ancora più acuto il problema
del suo trattamento: da un lato ne è derivata una maggiore responsabilizzazione dei periti psichiatri, in quanto, essendo
il loro giudizio determinante ai fini della prognosi di pericolosità del malato, essi vengono potenzialmente gravati anche
dalle esigenze di difesa sociale; dall'altro non è prevista alcuna forma di trattamento per il soggetto prosciolto per
infermità psichica che sia ritenuto socialmente non pericoloso.
Sennonché, la maggiore responsabilizzazione citata è respinta da parte degli attuali psichiatri forensi, i quali rifiutano un
diretto coinvolgimento nel giudizio di pericolosità in base a tre ragioni:
Non a caso, l’esperienza maturata nel corso degli ultimi anni ha ulteriormente confermato che l’OPG, oltre ad essere
obsoleto e irrimediabilmente carente di qualsiasi efficacia terapeutica, quasi sempre nei fatti presenta le caratteristiche
di un’istituzione molto degradata e degradante, lesiva della dignità umana.
Ciò spiega come si sia arrivati ad un processo di superamento degli OPG ancora operanti sul territorio nazionale, al loro
posto sono state introdotte le REMS (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), che la riforma del 2014 (l
81\014) ha concepito come luoghi residenziali di piccole dimensioni destinate ad ospitare autori di reati affetti da gravi
patologie mentali e prevalentemente finalizzati ad obbiettivi terapeutici, da conseguire in collegamento con i servizi di
salute mentale esistenti nel territorio e rientranti nelle competenze delle autorità sanitarie regionali.
• ai minori di anni 14 e minori di anni 18 riconosciuti non imputabili, che abbiano commesso un delitto doloso,
preterintenzionale o colposo e siano considerati socialmente pericolosi art.224.1 e 3 c.p.;
• ai minori tra i 14 e i 18 anni riconosciuti imputabili e come tali condannati a pena diminuita art.225.1 c.p.;
• ai minori tra i 14 e i 18 anni condannati per delitto durante l'esecuzione di una misura di sicurezza precedentemente
applicata per difetto d’imputabilità art.225.2 c.p.;
• ai minori di 18 anni quando sia cessata l'infermità psichica: il giudice accerta che la persona è socialmente pericolosa e
ordina che sia assegnata a un riformatorio art.212.3 c.p.
Anche qui, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità dei minori non imputabili.
Tale misura può essere applicata solo in relazione ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione di
almeno 12 anni nel massimo. E la misura deve essere eseguita nella nuova forma del collocamento in comunità: il
giudice ordina che il minore sia affidato a una comunità pubblica o autorizzata, imponendo eventuali specifiche
prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro o ad altre attività utili per la sua educazione. Il minore non
imputabile può essere sottoposto a misura di sicurezza solo quando per le specifiche circostanze del fatto e per la sua
personalità, sussiste il concreto pericolo che commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o
diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale o gravi delitti di criminalità organizzata. L'applicabilità di
misure di sicurezza ai minori tende comunque a prospettarsi come eventualità del tutto eccezionale.
La durata è di almeno 3 anni se è inflitta la pena della reclusione per almeno 10 anni, e qualora per effetto di indulto o
di grazia non debba essere eseguita la pena dell'ergastolo. La sottoposizione alla libertà vigilata è obbligatoria nei casi
previsti dall'art.230 (sempre previo accertamento in concreto della pericolosità sociale del vigilando), mentre è
facoltativa per quelli previsti all'art.229. Riguardo ai soggetti di età minore, è applicabile mediante prescrizioni inerenti
alle attività di studio o di lavoro ed eventualmente sotto forma di permanenza in casa.
Si applica facoltativamente al colpevole di un delitto contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico, o di un
delitto commesso per motivi politici o occasionato da particolari condizioni sociali e morali esistenti in un determinato
luogo. La durata minima è di 1 anno.
In caso di trasgressione ricomincia a decorrere il termine minimo e può essere ordinata la misura della libertà vigilata
(art 233.3 c.p.). Questa misura però solleva dubbi di costituzionalità perché l'art.16 Cost., nel sancire la libertà di
circolazione e di soggiorno, ammette solo limitazioni legislative di carattere generale per motivi di sanità o sicurezza ed
espressamente stabilisce che nessuna restrizione può essere imposta per ragioni politiche.
14) Misure di sicurezza personali non detentive: divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande
alcooliche
Questa misura si applica:
• ai condannati per delitti o contravvenzioni commessi in stato di ubriachezza qualora questa sia abituale (art 234.2
c.p.).
Nel divieto di frequentazione non è compreso il divieto di recarsi di rado in osterie o spacci; la norma può considerarsi
violata solo dalla tendenza a praticare in modo regolare tali luoghi. La durata minima della misura è di 1 anno. In caso di
trasgressione può essere ordinata la libertà vigilata o la cauzione di buona condotta.
15) Misure di sicurezza personali non detentive: espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato
La nuova formulazione dell'art.235 (riformato nel 2008) dispone che il giudice ordina l'espulsione dello straniero o
l'allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente a uno Stato membro UE, oltre che nei casi
espressamente previsti dalla legge, quando lo straniero o il cittadino appartenente a uno stato membro UE sia
condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni. Le novità della nuova disciplina riguardano
l'applicazione estesa anche ai cittadini appartenenti a uno Stato UE, e l'abbassamento della soglia minima della pena
inflitta per il reato oggetto di intervenuta condanna (da 10 a 2 anni). In riferimento a quest'ultimo vi sono dubbi di
illegittimità costituzionale (poiché il principio costituzionale di uguaglianza non tollera discriminazioni tra la posizione
del cittadino e dello straniero quando venga riferito al godimento di diritti inviolabili come la libertà personale) nonché
di incompatibilità con i vincoli imposti dal diritto comunitario nel limitare la libertà di circolazione di un cittadino
europeo all’interno del territorio dell’Unione, secondo i principi della direttiva 2008/38/CE la sola esistenza di una o
più condanne penali non giustifica il provvedimento di allontanamento.
Si applica:
• ai liberati dalla casa di lavoro o dalla colonia agricola se il giudice non ordina la libertà vigilata;
La legge stabilisce per questa misura anche la durata massima: essa non può essere inferiore ad 1 anno, né superiore a
5.
Se l'obbligo di buona condotta viene adempiuto, la somma è restituita o l'ipoteca è cancellata e la fideiussione si
estingue. Se l'obbligo viene trasgredito la somma è devoluta alla Cassa delle ammende.
Più di recente è stata introdotta anche la confisca per equivalente o confisca di valore: è cioè prevista, in caso di
impossibilità di agire direttamente sui beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, la possibilità di confiscare utilità
patrimoniali di valore corrispondente di cui il reo abbia la disponibilità.
Per altro verso, a complicare ulteriormente il problema della fisionomia dell'istituto ha contribuito l'introduzione di una
nuova figura di confisca quale misura patrimoniale di prevenzione ante-delictum.
Si deve prendere dunque atto che nella realtà attuale dell'ordinamento la confisca presenta una fisionomia ibrida e
polivalente: essa può fungere a seconda dei casi da misura di sicurezza, da misura di prevenzione, e sempre più spesso
da pena accessoria.
Per principio generale la confisca è facoltativa. Essa può essere applicata solo nel caso di sentenza di condanna, sul
presupposto dell'accertata pericolosità della cosa con riferimento all'uso che il reo può farne avendone la
disponibilità: la pericolosità della cosa richiede l'uso diretto e necessario di essa per commettere il reato.
• cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata
condanna.
Il legislatore ha più di recente introdotto un meccanismo di confisca allargata: nei casi di condanna (o pena patteggiata)
per reati di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, ricettazione, riciclaggio, ecc. è sempre disposta la confisca
del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui risulta essere
titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività
economica. Questo a prescindere dunque che tali beni siano ricollegabili a uno dei reati-presupposto.
Le misure di sicurezza sono in via definitiva ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento.
Esse vengono eseguite dopo che la pena è stata scontata se sono applicate congiuntamente alla pena detentiva,
mentre dopo che la sentenza è passata in giudicato se sono applicate congiuntamente a pena non detentiva.
In caso di concorso di misure di sicurezza temporanee non detentive con misure di sicurezza detentive, si esegue per
prima la misura di sicurezza detentiva.
Se per più fatti di reato debbano applicarsi ad una persona più misure di sicurezza della stessa specie, si procede alla
loro unificazione. Se invece le misure sono di specie diversa, il giudice valuta complessivamente il pericolo che deriva
dalla persona e applica una o più misure di sicurezza.
L'esecuzione della misura di sicurezza viene sospesa se la persona ad essa sottoposta deve scontare una pena
detentiva, e riprende il suo corso dopo l'esecuzione della pena.
Se la persona sottoposta a misura di sicurezza è colpita da infermità psichica, si procede alla trasformazione della
misura poiché il giudice deve ordinare il ricovero in un ospedale psichiatrico o in una casa di cura o di custodia.
Nel corso dell'esecuzione, il giudice può modificare le modalità di esecuzione della misura senza mutarne la specie.
Se la persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva si sottrae volontariamente all'esecuzione, il periodo minimo di
durata ricomincia a decorrere dal giorno in cui è nuovamente eseguita, questa regola non si applica agli internati
nell'ospedale psichiatrico giudiziario o nella casa di cura e di custodia.
L'estinzione del reato impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l'esecuzione, fatta eccezione per
la confisca.
L'estinzione della pena impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza, ad eccezione di quelle per le quali la legge
stabilisce che possono essere ordinate in ogni tempo.
Le cause estintive della pena tuttavia non impediscono l'esecuzione delle misure di sicurezza già ordinate dal giudice
come misure accessorie di una condanna alla reclusione superiore a 10 anni, in tal caso si sostituisce alla colonia
agricola e alla casa di lavoro la libertà vigilata.
Se per effetto di indulto o grazia non debba essere eseguita, in tutto o in parte, la pena dell'ergastolo, il condannato è
sottoposto a libertà vigilata per almeno 3 anni.
1) Premessa
Un comportamento umano, oltre che costituire un fatto di reato, può anche realizzare un illecito civile: tutte le volte
che si verifica il fenomeno della doppia valutazione, accanto alla conseguenza penale saranno dunque applicate le
sanzioni civili (es. il cagionare la morte di un uomo da un lato configura il reato di omicidio, dall'altro costituisce illecito
civile e obbliga al risarcimento).
2) Le singole sanzioni
Le restituzioni La restituzione consiste nella reintegrazione dello stato di fatto preesistente alla commissione del
reato (c.d. restitutio in integrum).
L'art.185 co.1 stabilisce che “ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili”.
L'obbligo alla restituzione presuppone solo la possibilità, naturalistica o giuridica, della restitutio in integrum.
Può avere a suo oggetto sia cose mobili, sia anche cose immobili di cui si sia venuti in possesso.
Il risarcimento del danno Consiste nella corresponsione di una somma di denaro equivalente al pregiudizio arrecato
con il reato.
Si ricorre a tale sanzione quando la restituzione non è possibile, oppure non è sufficiente a riparare il danno cagionato.
L’art.185 co.2 stabilisce: “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale, o non patrimoniale, obbliga al
risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui”.
Il danno a cui fa riferimento la norma richiamata è un quid differente dall'offesa al bene tutelato necessaria perché si
configuri il reato.
Si tratta del danno patrimoniale risultante dalla lesione degli interessi civili che fanno sorgere il diritto al risarcimento in
sede civile: tale danno consiste nella sottrazione o nella diminuzione del patrimonio sotto le forme del danno
emergente e del mancato guadagno (c.d. lucro cessante); e si tratta, in secondo luogo, del danno non patrimoniale o
morale consistente nella sofferenza fisica o psichica patita in conseguenza del reato.
[N.B: L'evoluzione normativa ha spinto a modificare l'interpretazione e a ritenere che il termine reato vada inteso come fattispecie corrispondente
nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato].
Il risarcimento del danno morale avviene mediante la corresponsione di una somma di denaro la cui funzione non è
chiaramente di reintegra del patrimonio, ma di soddisfazione del male sofferto.
Il danno risarcibile deve essere conseguenza del reato, cioè che se non vi fosse stato il reato, non vi sarebbe stato
neppure il danno.
Il titolare del diritto al risarcimento del danno si chiama danneggiato dal reato e può essere anche una persona diversa
dal titolare del bene penalmente tutelato c.d. persona offesa dal reato (es. nel caso di omicidio).
Una forma particolare del risarcimento del danno non patrimoniale è la pubblicazione della sentenza di condanna.
L’art.186 c.p. stabilisce che “ogni reato obbliga il colpevole alla pubblicazione, a sue spese, della sentenza di condanna,
qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato”.
Si tratta di un istituto diverso dalla pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna, l’obbligo della
pubblicazione è indivisibile (ex art.187 c.p.).
Obbligati al risarcimento del danno sono sia l'autore del reato, sia coloro i quali devono rispondere per il fatto di lui.
Controversa è la questione relativa alla natura giuridica di tale risarcimento: da un lato esso presenta un carattere
privato in quanto tende al riequilibrio delle situazioni giuridiche tra i privati, e dall'altro possiede un indubbio carattere
afflittivo, il che lo rende dotato di riflessi pubblicistici.
Ma parte della dottrina, nella misura in cui ne sottolinea la spiccata valenza afflittiva, giunge a considerare il danno
morale come una vera a propria sanzione penale. (vedi pagine 906-907 se c’è da aggiungere qualcosa, secondo me no
perché sono bocchini mentali)
Rimborso delle spese per il mantenimento del condannato Il condannato è civilmente obbligato a rimborsare allo
Stato le spese per il mantenimento negli istituti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e
immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili (art.188.1 c.p.).
Questa obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile e non si trasmette agli eredi del condannato
(art.188.2 c.p.).
Sono inoltre poste a carico del condannato le spese per il suo mantenimento durante la custodia cautelare (art.535
c.p.p).
Tale obbligo costituisce un effetto risarcitorio civile del reato e non una sanzione accessoria della pena come ribadito
dalla Corte cost., eliminandone ogni possibilità di contrasto con l’art.27.3 cost.
La nuova legge sull'ordinamento penitenziario prevede la possibilità di remissione del debito per le spese del
procedimento e del mantenimento nei confronti dei condannati che versino in disagiate condizioni economiche e si
siano distinti per regolare condotta.
Obbligazione civile per la multa e per l'ammenda Nel nostro ordinamento sono previste alcune ipotesi di
responsabilità civile quale garanzia dell'adempimento delle sanzioni della multa e dell'ammenda.
Si tratta dell'obbligazione civile per la multa e per l'ammenda, cioè di una forma di responsabilità civile di carattere
sussidiario, che in passato ha suscitato perplessità quanto alla sua compatibilità con il principio della responsabilità
penale, e che serve a corresponsabilizzare in qualche misura il datore di lavoro e, in particolare, la persona giuridica
specie in un sistema in cui ancora non vige il principio societas delinquere potest.
L'obbligazione civile per la multa e per l'ammenda inflitta a persona dipendente è disciplinata dall'art.196 c.p., per il
quale “nei reati commessi da chi è soggetto all'altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita di tale autorità è
obbligata, in caso di insolvibilità del condannato, al pagamento dell'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta al
colpevole, se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e delle quali non debba rispondere
penalmente.
Qualora la persona preposta risulti insolvibile, si applicano al condannato le disposizioni dell'art.136 (conversione della
pena)”.
L'obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende è prevista nell'art.197 c.p.,
per il quale “gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le regioni, le province ed i comuni, qualora sia
pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza, o l'amministrazione, o sia con essi in rapporto di
dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero
sia commesso nell'interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del
condannato, di una somma pari all'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta.
Se tale obbligazione non può essere adempiuta, si applicano al condannato le disposizioni dell'art.136”.
3) Le garanzie per le obbligazioni civili
Per l'adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, il codice ha previsto una serie di garanzie.
• Il sequestro conservativo penale di beni mobili o immobili dell'imputato o delle somme o cose a lui dovute nei limiti in
cui la legge ne consente il pignoramento, può essere chiesto dal pubblico ministero in ogni stato e grado del processo,
se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria,
delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato (art.316 c.p.p.).
Esso produce l'effetto di rendere privilegiati i crediti di cui si è appena detto, rispetto ad ogni altro credito non
privilegiato di data anteriore e rispetto ai crediti sorti posteriormente, salvi in ogni caso i privilegi stabiliti a garanzia del
pagamento di tributi.
• L'azione revocatoria sono soggetti ad azione revocatoria gli atti fraudolenti compiuti anteriormente o
posteriormente al reato, sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso.
- degli atti a titolo gratuito compiuti dal colpevole dopo il reato (presunzione iuris et de iure di frode);
- degli atti a titolo oneroso compiuti dopo il reato, che eccedono la semplice amministrazione o la gestione dell'ordinario
commercio, presunti relativamente in frode, purché sia fornita la prova della malafede dell'altro contraente;
- degli atti a titolo gratuito compiuti nell'anno anteriore al reato, qualora si provi la frode da parte del colpevole;
- degli atti a titolo oneroso compiuti nell'anno anteriore al reato, che eccedono la semplice amministrazione o la gestione
dell'ordinario commercio, presunti relativamente in frode, purché sia fornita la prova della malafede dell'altro
contraente.
I diritti dei terzi, quando la revocatoria ha luogo in sede penale, sono regolati dalle leggi civili (art.195 c.p.).
• Il prelievo sulla remunerazione corrisposta per il lavoro prestato dai condannati viene effettuato in 2/5 della
medesima e salvo che l'adempimento delle obbligazioni civili sia altrimenti eseguito (art.24 l.ord.pen.).
PARTE VIII
CAP 1 - IL DIRITTO PENALE AMMINISTRATIVO
1) Premessa
Si è già accennato come sia andato emergendo, negli ultimi tempi, un orientamento di politica criminale incline a
trasformare le ipotesi meno gravi di reato contravvenzionale in corrispondenti illeciti amministrativi, sanzionati con una
pena pecuniaria (c.d. depenalizzazione).
Questo per tentare di far fronte agli inconvenienti di un'eccessiva proliferazione di reati, e in primo luogo per ridurre il
numero di procedimenti davanti al giudice penale favorendo così il buon funzionamento della macchina giudiziaria (che
può concentrarsi sulla repressione dei delitti più gravi).
Lo sviluppo della società industriale ha infatti portato ad un fenomeno di “ipertrofia del diritto penale” e alla necessità di
tutelare un numero crescente di interessi collettivi: ma più frequentemente si ricorre alla pena, tanto meno questa
riesce ad esercitare un'efficacia realmente dissuasiva nei confronti dei consociati.
Si è tentato dunque di delimitare l'area della rilevanza penale entro lo spazio segnato dall'esigenza:
- da un lato di prevenire e reprimere le “macrolesioni” dei beni essenziali alla collettività;
- dall'altro lato, di estromettere dal sistema penale dei reati contravvenzionali incentrati su “microlesioni” che non
sembrano più giustificare il ricorso alla pena.
[N.B. C'è da dire che fino alla seconda metà del XVIII secolo vi era l'opposta tendenza a trasferire nel campo penale molti degli
illeciti aventi natura di contravvenzioni amministrative durante l'ancien regime: questo passaggio era sollecitato dall'esigenza di
apprestare una più efficace garanzia dei diritti dei cittadini nei confronti degli eventuali abusi della pubblica amministrazione.
Bisogna dunque evitare che l'attuale fenomeno della depenalizzazione, laddove non fosse accompagnato da opportune garanzie,
potrebbe rappresentare una sorta di ritorno a tecniche ormai superate del passato, inaccettabili proprio perchè non
sufficientemente rispettose dei fondamentali diritti del singolo].
La legge 689/1981 contenente "Modifiche al sistema penale", oltre a depenalizzare quasi tutti i reati (delitti e
contravvenzioni) puniti con la pena pecuniaria della multa o dell'ammenda (esclusi però i reati previsti dal codice penale
e da alcune leggi speciali finalizzati alla tutela di beni di particolare rilievo sociale) ha introdotto anche una serie di
principi destinati a regolare la materia dell'illecito depenalizzato.
Ne è derivata la nascita di un nuovo sistema di illecito, che alcuni collocano in posizione intermedia tra sistema penale e
sistema degli illeciti amministrativi (seppure in stretto collegamento col primo), e che altri non esitano a definire come
“sottosistema penale”. La prima posizione sembra più corretta (quella intermedia).
[N.B. Nel 1999 sono stati poi depenalizzati con decreto legislativo una serie di reati del Codice penale (tra cui l'ubriachezza) e di reati
previsti in leggi speciali (nel settore della circolazione stradale, della navigazione, degli alimenti, degli assegni)].
2.1) Le misure di prevenzione speciali applicabili dall’autorità giudiziaria hanno come destinatari soggetti rientranti ben 9
categorie: dagli iniziati di appartenere ad associazioni mafiose sino ad indiziati di aver agevolato gruppi che hanno preso parte a
manifestazioni di violenza sportiva, ecc.
A tutti i soggetti in questione è applicabile la sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, qualora risulti in
concreto accertata la loro pericolosità (art.6 co.1 Cod. antimafia). In particolare, il Tribunale ha il potere di compiere gli
accertamenti necessari (comprese attività istruttorie) per verificare se il soggetto ha cambiato vita e se è pericoloso.
La pericolosità di desume dall’esame dell’intera personalità del soggetto e da situazioni che giustificano sospetti o
presunzioni, purché appaiano fondati su elementi obiettivi e fatti accertati.
Alla sorveglianza speciale si accompagnano una serie di prescrizioni previste dall’art.8 codice antimafia (leggi art.)
Alla sorveglianza speciale può essere aggiunto:
A. divieto di soggiorno: in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza:
B. obbligo di soggiorno: nel comune di residenza.
La violazione delle prescrizioni di sorveglianza speciale e dell'obbligo di soggiorno costituisce reato.
[N.B. Allo scopo di rafforzare la tutela della sicurezza pubblica, sono state introdotte alcune novità, come la previsione aggiuntiva
dell’applicabilità ai suddetti soggetti delle misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei beni (art.16 cod.antimafia).
Tuttavia, questa estensione delle misure patrimoniali anche a soggetti di una pericolosità comune è soggetta a numerose censure e
critiche, dato che rispetto a tali soggetti la presunzione legislativa che tali patrimoni posseduti siano frutto di una pregressa attività
criminosa, alcune volta si poggia su basi empiriche non sicure. Pertanto, tale consapevolezza del rischio di arbitrio connessi
all’applicazione indiscriminata delle misure di prevenzione, ha contribuito a promuovere un orientamento in senso più garantista].
3) La prevenzione antimafia
La legge 575/65 ha, in un primo tempo, esteso l’applicazione delle misure di prevenzione personale agli indiziati di
appartenere ad associazioni mafiose.
L’estensione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale, dell’obbligo o del divieto di soggiorno, è stata
attuata con una serie di adattamenti, ritenuti idonei per combattere la specificità del fenomeno mafioso (che peraltro la
legge del 1965 non si peritava di definire).
Così, il processo di prevenzione antimafia, non presuppone che vi sia stato un precedente avviso orale del questore,
può, altresì, essere iniziato su proposta del procuratore della Repubblica e verte esclusivamente sull’accertamento della
qualità di «indiziato di appartenere ad associazione mafiosa».
Più di recente, la disciplina ha subito ulteriori modifiche, sia sul piano sostanziale che procedura, con le leggi 125/2008 e 94/2009:
- da un alto è stata prevista la possibilità di applicare le misure anche ai «soggetti indiziati dei reati previsti dall’art.51.3-bis c.p.c.»;
- dall’altro la titolarità dell’azione di prevenzione è stata estesa: al Procuratore Nazionale antimafia, ai Procuratori distrettuali e alla
Direzione investigativa antimafia.
La prevenzione antimafia è stata potenziata dalla legge Rognoni-La Torre, n. 646/82.
La parte più innovativa di tale provvedimento è costituita, oltre che dalla creazione del nuovo reato di «associazione di
tipo mafioso», dall’introduzione delle «misure di natura patrimoniale», più idonee a combattere le organizzazioni
mafiose. Le nuove misure di carattere patrimoniale sono il «sequestro» e la «confisca».
Dal nuovo testo dell’art.2-bis legge 575/65 risulta che esse sono applicabili indipendentemente dalle misure di
prevenzione personali (“principio di reciproca autonomia”), indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto al
momento della richiesta, e possono essere disposte anche nel caso di morte del soggetto proposto per la loro
applicazione. (Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o degli aventi causa).
[N.B. Secondo tale normativa in materia di prevenzione antimafia, ciò che veramente colpisce l’organizzazione criminale, e ciò che
rileva ai fini di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso è la pericolosità intrinseca dei patrimoni riconducibili a contesti
associativi criminali].
• Il sequestro: è un provvedimento di natura provvisoria e cautelare disposto dal Tribunale, anche d’ufficio, sui beni dei
quali la persona nei confronti della quale è stato iniziato il procedimento, risulta poter disporre direttamente o
indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero,
quando sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che risulti frutto di attività illecite.
• La confisca dei beni sequestrati: consiste in un provvedimento di natura ablativa e comporta la devoluzione allo
Stato dei beni (mobili o immobili e di qualsivoglia altra natura) dei quali non sia stata dimostrata la legittima
provenienza.
L’inversione dell’onere della prova Il punto più controverso della disciplina della confisca riguarda l’articolazione
dell’«onere della prova». La circostanza che la legge faccia dipendere l’applicazione della misura dalla mancata
dimostrazione dell’indiziato della legittima provenienza dei beni solleva il dubbio che il legislatore abbia introdotto una
«inversione dell’onere della prova» con conseguente violazione dei principi costituzionali della difesa e della
presunzione di non colpevolezza.
La natura giuridica delle misure di sicurezza patrimoniali Controversa è la “natura giuridica” delle misure di
sicurezza patrimoniali. Giurisprudenza e dottrina più recenti tendono a sottolinearne la natura “proteiforme” o “ibridata”
della confisca c.d. preventiva prevista dall’art.24 codice antimafia: le cui funzioni vengono, da una innovativa giurisprudenza
della Cassazione a sezioni riunite, ricondotte ad un “tertium genus” sanzionatorio, ibrido tra sanzione amministrativa a
carattere ablativo e alla misura di sicurezza prevista dall’art.240 co.2 c.p.
Insuccesso pratico Dal punto di vista pratico, poi, le misure di sicurezza personali si sono rivelate un “boomerang”
che hanno finito con l’incrementare il fenomeno che volevano estirpare.
Proprio in relazione alle misure di prevenzione personali antimafia, la apposita commissione d’inchiesta parlamentare, ha
osservato che nelle nuove sedi di soggiorno obbligato, la maggiore facilità di mimetizzazione e l’assenza di strumenti di difesa
sociale hanno favorito la riproduzione di criminalità mafiosa che si riteneva tipica del solo ambiente siciliano.
[N.B. Non si deve in ogni caso, nonostante i dubbi di incostituzionalità e gli inconvenienti pratici, ritenere che la logica della
prevenzione sia estranea allo stato sociale di diritto: anzi la stessa Costituzione all'art.3 co.2 stabilisce come sia compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale dello
Stato stesso. In tale contesto la prevenzione non è più solo un'attività intesa a impedire la commissione di reati in maniera diretta,
ma impegno solidaristico e reale volto ad assicurare lo sviluppo della persona e a prevenire in “via indiretta” il reato, attraverso la
rimozione delle sue cause di natura sociale, ambientale e soggettiva].