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C.F. GROSSO, M. PELISSERO, D.PETRINI, P.

PISA

RIASSUNTO
MANUALE DI DIRITTO PENALE (parte generale)

PARTE PRIMA - INTRODUZIONE AL DIRITTO PENALE E ALLA POLITICA


CRIMINALE

CAPITOLO I - DIRITTO PENALE, REATO, PENA

Il diritto penale disciplina i fatti che costituiscono reato e le relative sanzioni.


Il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l’applicazione di una
sanzione penale.
Tale definizione è di tipo formale, poiché fa riferimento al modo con il quale l’ordinamento
reagisce alla sua realizzazione.
È possibile individuare i reati anche attraverso dei criteri sostanziali; da questo punto di vista è
reato ciò che turba gravemente l’ordine etico, che rende impossibile o pone in grave pericolo
l’esistenza o la conservazione della società.
Spinte verso valutazioni di natura sostanziale della realtà che possono, o devono, essere considerate
materiale penale sono rinvenibili sia nella Costituzione che nella Corte europea dei diritti dell’uomo
(CEDU).
Il codice vigente si avvale del sistema del doppio binario sanzionatorio, che è caratterizzato dalla
compresenza di due categorie di sanzioni penali distinte per funzioni e disciplina: le pene e le
misure di sicurezza.
Le pene vengono determinate in concreto dal giudice in sede di giudizio e sono destinate ad
assicurare la prevenzione generale; con la minaccia di una sanzione giustamente proporzionale alla
gravità del reato si tende a disincentivare i consociati del delinquere. La Costituzione ha stabilito
che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato (art. 27, comma 3 Cost.).
Le misure di sicurezza vengono inflitte dal giudice di cognizione, ma la loro esecuzione viene
seguita da un giudice diverso al quale compete ogni valutazione in ordine alla cessazione dei
presupposti della loro applicazione, e sono destinate a recuperare alla società gli autori di reato
socialmente pericolosi attraverso la rimozione delle cause della loro pericolosità sociale.
L’illecito civile è sanzionato con le sanzioni del risarcimento del danno e delle restituzioni,
normalmente affidate alla valutazione del giudice civile.
L’illecito amministrativo viene a sua volta punito con sanzioni amministrative.

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CAPITOLO III - PRINCIPI GENERALI DI POLITICA CRIMINALE

Per politica criminale si intende l’insieme degli strumenti che un sistema predispone per
contrastare la criminalità.
La politica penale affronta il problema della criminalità attraverso il ricorso a strumenti
strettamente penali.
Politica criminale e politica penale vengono incluse nella politica sociale, che ha come oggetto ogni
fenomeno sociale.
I principi costituzionali espressamente dedicati alla materia penale sostanziale sono:
- art. 25, con riferimento al principio di legalità;
- art. 27, che riguarda il principio di responsabilità penale personale e indica i limiti al contenuto
delle pene e ne fissa il fine;
- art.13, che riconosce l’inviolabilità della libertà personale e prescrive le condizioni per la sua
limitazione;
- artt. 10 e 26, in tema di limiti all’estrazione;
- art. 90, che riguarda le immunità del PdR;
- art. 117, che esclude la potestà legislativa in materia penale.

I limiti di ordine costituzionale alle scelte di politica criminale possono essere distinti in:
1. Divieti d’incriminazione;
2. Limiti d’incriminazione;
3. Obblighi d’incriminazione.

1) Al legislatore è fatto divieto d’incriminazione condotte che costituiscono l’esercizio di diritto


e libertà costituzionali. Questi divieti si rivolgono sia al legislatore, che non può prevedere
come reato gli atti che integrano l’esercizio di diritti e libertà, sia all’interprete, al quale spetta il
compito di interpretare le norme penali in modo da salvaguardare l’esercizio dei diritti e delle
libertà, qualora ciò non sia possibile, sollevare la questione di legittimità costituzionale.
2) Costituiscono limiti d’incriminazione i principi di determinatezza, materialità, offensività,
proporzionalità, efficacia della tutela penale ed infine il principio di colpevolezza.
- Il principio di determinatezza costituisce un limite che si rivolge al legislatore,
imponendogli un limite nella formulazione delle norme penali, questo limite è però solo
strutturale.
- Il principio di materialità, trova fondamento nell’art 25. comma 2 Cost., secondo il quale
nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto
commesso.

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- Il principio d’offensività è ampiamente accolto dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale che ne ha evidenziato la duplice dimensione sia sul terreno della previsione
normativa, sia su quello dell’applicazione giudiziale: alla lesività in astratto, intesa quale
limite alla discrezionalità del legislatore nell’individuazione di interessi meritevoli di
essere tutelati mediante lo strumento penale, fa riscontro il compito del giudice di accertare
in concreto, nel momento applicativo, se il comportamento posto in essere lede
effettivamente l’interesse tutelato dalla norma. Si distingue in offensività in astratto, che in
primis si rivolge al legislatore, e in offensività in concreto che si rivolge al giudice. Tale
principio consente di escludere la rilevanza penale di condotte che possono essere oggetto
di disapprovazione morale, ma che non offendono interessi di terzi o della collettività, in
quanto si rivolgono in condotte che appartengono alla sfera privata delle scelte individuali.
- Il principio di proporzionalità (e meritevolezza della pena) afferma che è necessario che
per la tutela del bene appaia proporzionato il ricorso alla sanzione penale, che incide,
direttamente o indirettamente, sulla libertà personale. Nel giudizio di meritevolezza della
reazione penale va considerata la proporzionalità rispetto al tipo di bene offeso e alle
modalità di aggressione allo stesso.
- A giustificare il ricorso alla sanzione penale non basta la meritevolezza di pena, perché il
sacrificio imposto alla libertà personale della sanzione penale richiede che sussiste anche
un effettivo bisogno di pene. Questa esigenza di extrema ratio del diritto penale va sotto il
nome di principio di sussidiarietà.
- Il principio di colpevolezza impone che la responsabilità penale di un soggetto sia
fondata, oltre che dal nesso di causalità materiale che lega la condotta all’evento, anche da
un coefficiente soggettivo. Questo principio trova fondamento costituzionale nell’art.27
Cost. che afferma che la responsabilità penale è personale. Evidenzia che l’esigenza che la
responsabilità penale non sia fondata solo sulla commissione di un fatto antigiuridico ma
anche che questo possa essere personalmente rimproverato al suo autore. Affinché sia
rispettato il principio costituzionale di colpevolezza, occorre che la possibilità di muovere
un rimprovero all’agente per aver commesso il fatto antigiuridico sia subordinata alla
presenza di un insieme di requisiti: dolo o colpa, assenza di scusanti (normalità delle
circostanze concomitanti alla commissione del fatto), conoscenza della norma penale
violata, capacità di intendere e di volere (imputabilità).

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PARTE SECONDA - LA LEGGE PENALE
CAPITOLO IV - RISERVA DI LEGGE

In virtù del principio di legalità penale sia il fatto che costituisce reato sia la sanzione che si
ricollega alla sua commissione devono essere espressamente previsti dalla legge. Il principio di
legalità è il principio che vieta di punire qualunque fatto che, al momento della commissione, non
sia espressamente previsto come reato e di sanzionarlo con pene che non siano espressamente
previsto dalla legge.
- Primo corollario del principio di legalità: riserva di legge.
- Secondo corollario del principio di legalità: irretroattività della legge penale.
- Terzo corollario del principio di legalità: principio di determinatezza.
- Quarto corollario del principio di legalità: principio di tassatività.

Esistono due distinte forme di legalità: la legalità sostanziale, secondo la quale è reato non solo il
fatto previsto come tale dalla legge, ma anche ciò che va contro il sano sentimento del popolo e la
legalità formale che impone al giudice di considerare reato solo ciò che è previsto come tale dalla
legge.

Esistono, in materia penale, quattro forme di consuetudine:


- La consuetudine incriminatrice, per la quale non vi è alcun spazio, ai sensi dell’art 25 commi 2
e 3 Cost. dal momento che l’introduzione di un nuovo precetto penale è riservata alla legge.
- La consuetudine abrogatrice, per la quale la conclusione è la stessa di quella incriminatrice
poiché quando una norma penale resta, anche per molto tempo, dal tutto disapplicata, ciò non
significa che essa sia stata implicitamente abrogata.
- La consuetudine integratrice, ad essa va riconosciuta efficacia poiché potrebbe, in materia
penale, integrare disposizioni penali che rinviano a norme di rami del diritto di cui la
consuetudine può essere fonte di diritto.
- La consuetudine scriminante, parte della dottrina ammette questo tipo di consuetudine, cioè
quella per mezzo della quale si dà ingresso nell’ordinamento a nuove cause di giustificazione non
codificate e a nuove cause di esclusione della colpevolezza. Le norme che configurano le
scriminanti, infatti, non hanno carattere penale, e quindi non sono soggette al principio della
riserva di legge. Altri invece insistono sulla necessità di preservare al massimo grado il rispetto
del principio di legalità.

Nella legislazione ordinaria, la riserva di legge è imposta dagli artt.1, comma 1 e 119 c.p.
La riserva assoluta di legge afferma che tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico, devono essere
indicati dalla legge, esclude dunque l’intervento delle norme secondarie in materia penale.

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La riserva di legge è rispettata nel caso del rinvio recettizio, quando cioè l’amministrazione non
può più modificare l’atto regolamentare dopo l’entrata in vigore della legge penale che lo richiama.
La riserva di legge è violata invece nel caso del rinvio mobile, quando cioè l’amministrazione può
modificare il proprio regolamento anche dopo l’entrata in vigore della legge penale che lo richiama.
L’ultima questione attiene alle cosiddette norme penali in bianco, caratterizzate dal fatto che il
precetto è formulato in modo generico, dovendo essere integrato, specificato, completato da una
fonte normativa diversa dalla legge, quale ad esempio un regolamento od un provvedimento
amministrativo.
Alle regioni è impedito creare nuove fattispecie di reato, abrogare una fattispecie incriminatrice,
prevedere nuove sanzioni penali, sostituire una sanzione penale con una sanzione amministrative,
introdurre nuove cause di non punibilità o di estinzione del reato.

Per quanto riguarda la potestà normativa diretta, in un sistema improntato rigidamente sul
principio di legalità, appare evidente che gli organi sovranazionali non possono avere potestà
normativa in materia penale, dal momento che solo il Parlamento può legittimamente individuare i
fatti vietati e le relative pene.
Per quanto riguarda la potestà normativa indiretta, le fonti comunitarie possono imporre agli Stati
membri, l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, a tutela di interessi comunitari, o di
interessi di particolari rilievi, sopratutto sovranazionale. A seguito delle modifiche introdotte nel
2007, infatti, l’art. 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) prevede che il
Parlamento ed il Consiglio, attraverso direttive possono stabilire ‘norme minime relative alla
definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave’.
La Corte di Giustizia della Comunità ha affermato e radicato il principio della preminenza del
diritto comunitario, in virtù del quale, ogni qual volta vi sia un contrasto tra norme interne e norme
europee, queste ultime devono prevalere.
Quanto agli strumenti attraverso i quali i paesi europei recepiscono le direttive dell’Unione, si sono
individuati tre diversi modelli:
- Il primo, quello dell’unificazione appare ancora ben difficile da attuare, in virtù di un evidente
ritrosia da parte dei paesi europei a rinunciare, sia pure solo in alcune materie, alla propria
tradizione giuridica privatistica.
- Con l’assimilazione, l’Unione invita ai paesi membri di estendere la tutela penale già presente
nei loro ordinamenti interni a specifici interessi dell’Unione stessa, secondo gli schemi di modelli
penalistici tipici di ciascun sistema giuridico.
- Tramite l’armonizzazione, invece gli Stati membri sono chiamati ad introdurre nuove fattispecie
incriminatrici.

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Se si tratta di un contrasto dell’ordinamento interno con una norma di un trattato, in un
regolamento, o di una direttiva specifica e dettagliata, il giudice penale è tenuto a disapplicare la
normativa interna. Se il contrasto è solo parziale, allora il giudice dovrà disapplicare solamente
quella parte della norma interna in contrasto con la disciplina sovranazionale.

La convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo delle libertà fondamentali riveste un
ruolo assolutamente centrale. Anche rispetto a questa convenzione occorre preliminarmente ridire
che non vi possono essere fattispecie penali introdotte direttamente nel nostro ordinamento da atti
sovranazionali.
Peraltro, ai sensi di un’altra norma costituzionale, l’art. 117, la potestà legislativa dello Stato
esercitata nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli derivanti dell’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. Pertanto, nell’esercizio del potere legislativo, il
Parlamento non potrà emanare norme penali che si pongono in contrasto con una revisione della
convenzione europea dei diritti dell’uomo.

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CAPITOLO V - SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI NEL TEMPO

L’irretroattività della legge penale svolge anche una fondamentale funzione di certezza, dal
momento che i cittadini devono essere messi in grado di sapere in anticipo, con chiarezza, quali
sono le possibili conseguenze penali dei loro comportamenti, per poter orientare con
consapevolezza il proprio agire.
L’art 25, comma 2 Cost. impone il divieto di irretroattività di una nuova fattispecie incriminatrice,
mentre l’art 2 c.p. nei commi successivi al primo, introduce una disciplina della successione delle
leggi penali nel tempo improntata al canone della retroattività delle disposizioni penali più
favorevoli al reo.
La nostra giurisprudenza costituzionale ha individuato nel principio d’uguaglianza (art.3 Cost.),
sotto lo specifico profilo della ragionevolezza, un possibile recepimento del canone in questione.
Se, infatti, il legislatore interviene ad abrogare una fattispecie incriminatrice, oppure modifica, in
senso favorevole al reo una norma penale, non sarebbe ragionevole continuare ad applicare, sotto la
vigenza della nuova legge, le precedenti e più severe norme a chi viene giudicato oggi, anche se ha
commesso il fatto sotto il vigore della legge precedente.
Pertanto, anche la retroattività della legge penale più favorevole è imposta dalla Costituzione, ma
non senza un limite: il legislatore, infatti, potrebbe introdurre una deroga al principio (prevedendo
cioè, che una legge più favorevole successiva non si applichi retroattivamente) ma solo se
l’eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza.

L’abolitio criminis (prima ipotesi della successione delle leggi penali nel tempo) si verifica quando
una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice.
Al riguardo, l’art 2, comma 2, c.p. prevede che non possano essere puniti coloro che hanno
commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice (abrogata), ed anzi, se vi è
già stata sentenza di condanna, anche definitiva, ne debbano cessare immediatamente l’esecuzione e
gli effetti penali.
Il comma 4, invece, disciplina la diversa ipotesi della successione delle leggi penali nel tempo: il
fatto è considerato reato sia nella vigenza della legge precedente che in quella successiva, ma la
disciplina è diversa. La regola dettata dal codice è che, in questi casi, il giudice debba applicare la
legge più favorevole del reo.
Un problema che si pone è quello di distinguere tra abolitio criminis e successione di leggi penali
nel tempo. Pertanto, può parlarsi di abolitio criminis solo quando, in concreto, il fatto, incriminato
dalla norma previgente, non rientri più, a nessun titolo, nella nuova fattispecie. Se, invece, vi è
quella che la nostra dottrina e giurisprudenza chiamano ‘criterio strutturale’ - se cioè dal raffronto
strutturale tra le due norme, si evince che il fatto concreto rientra, pur con una disciplina diversa, sia
nella prima che nella seconda fattispecie, allora si dovrà ritenere che vi sia successione di leggi

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penali nel tempo. Quando invece il raffronto strutturale tra le due fattispecie porti ad escludere la
continuità del tempo illecito, allora vi è abolitio criminis.

Le leggi eccezionali sono quelle dettate dalla necessità di affrontare un evento straordinario e grave,
e sono destinate a mantenere la loro vigenza fintanto che dura la situazione eccezionale.
Le leggi temporanee sono, invece, quelle che prevedono, al loro interno, un termine di durata oltre
il quale cesseranno di avere effetto.

Il decreto legge non convertito entro 60 giorni dal Parlamento, ai senso dell’art. 77 Cost., perde
efficacia ex tunc.
Il nuovo regime non pone particolari problemi nel caso del cosiddetto fatto antecedente, cioè
commesso prima dell’entrata in vigore del decreto legge poi non convertito.
Molto più complessa, invece, l’ipotesi di un decreto legge favorevole al reo, poi non convertito,
quando il fatto sia concomitante alla vigenza del decreto stesso. In questo caso, infatti, è ben vero
che, ai sensi dell’art. 77 Cost., il decreto è tamquam non esset, ma è anche evidente che il soggetto
ha agito nella legittima consapevolezza della liceità dei suoi atti.

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CAPITOLO VI - PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA

Non basta che le norme penali siano previste da una legge, ma occorre che sia concretamente
possibile, per i cittadini, individuare tutti gli elementi costitutivi. Solo le norme chiare e precise,
infatti, possono orientare realmente l’agire dei cittadini nella scelta dei comportamenti leciti.

Il principio di tassatività, impone al legislatore di utilizzare tecniche legislative che chiarisca al


massimo grado possibile i confini dell’illecito penale.
Al riguardo si distingue, in primo luogo, tra normazione casistica e normazione sintetica.
La normazione casistica tende ad elencare tutti i possibili aspetti della realtà empirica che rientrano
nella fattispecie incriminatrice.
La normazione sintetica è in grado di definire, con certezza, i limiti alla rilevanza penale dei
comportamenti dei cittadini, alla stregua di due criteri. Da un lato, infatti vi deve essere un oggetto
giuridico ben definito, dall’altro una verificabilità empirica che consenta di individuare il contenuto
il termini concreti.
Gli elementi descrittivi possono essere concetti numerici, quantitativi oppure concetti descrittivi
tratti dall’esperienza.
La normazione sintetica basata su elementi normativi di carattere giuridico garantisce elevati livelli
di determinatezza della fattispecie incriminatrice.
In ordine alla determinatezza delle fattispecie incriminatrici, si pongono con riferimento ai
cosiddetti elementi normativi extragiuridici.

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CAPITOLO VII - INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE E DIVIETO DI
ANALOGIA

Per quanto il legislatore si sforzi di scrivere norme penali precise, chiare, rispettose del principio di
determinatezza, sarà sempre necessario interpretare il testo normativo.
Quest’interpretazione è detta autentica, quando promana dallo stesso legislatore, che interviene
per chiarire il senso di una norma di legge, o ufficiale, se proviene dall’autorità amministrativa o
dagli organi dello Stato interessati.
Sempre dal punto di vista del soggetto da cui promana, si distingue un’interpretazione giudiziale,
operata dalla magistratura, o dottrinale cioè frutto della riflessione e del confronto scientifico tra i
giuristi che studiano le norme vigenti.
I due criteri interpretativi fondamentali paiono essere il significato letterale delle parole e
l’intenzione del legislatore. Il problema della rilevanza dei canoni interpretativi per quanto attiene
alla norma in oggetto nulla dice riguardo alla soluzione dei casi nei quali i due citati risultino essere
in contrasto tra loro.
Il primo, ovvio criterio interpretativo è quello semantico. In altre parole, il primo sforzo
dell’interprete deve essere quello di chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati del legislatore.
Un secondo canone interpretativo, che attiene al cosiddetto criterio storico, cioè alla necessità di
rifarsi alla volontà del legislatore, non tanto intesa soggettivamente quanto piuttosto come
l’oggettivazione, nel testo di legge, di una volontà storica, espressa dal Parlamento attraverso
l’esercizio del proprio potere legislativo.
Un terzo criterio interpretativo è quello logico-semantico, che consiste nel cercare, tra tutti i
possibili significati della norma penale quello più coerente con l’ordinamento nel suo insieme, cioè
quello che non crea disomogeneità o contraddizioni evidenti nel sistema complessivamente
considerato.
Infine, l’ultimo criterio interpretativo da prendere in considerazione è quello teologico, in virtù del
quale occorre individuare lo scopo della fattispecie incriminatrice.

Per analogia si intende l’integrazione dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione, ad un


caso non regolato dalla legge, della disciplina prevista per i casi simili. Pacificamente legittima
negli ambiti dell’ordinamento giuridico, l’analogia è certamente vietata nel diritto penale.

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CAPITOLO VIII - LIMITI SPAZIALI ALLA EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE

In termini generali, i criteri alla stregua dei quali valutare l’obbligatorietà della legge penale italiana
nello spazio sono quattro.
- Secondo il principio di universalità, è punito alla stregua del diritto penale italiano qualsiasi
delitto, commesso da chiunque, a danno di chiunque, anche all’estero.
- Il principio di territorialità, al contrario limita l’applicazione della nostra legge penale ai soli
fatti commessi nel territorio dello Stato.
- Il principio di personalità passiva prevede l’applicazione della nostra legge penale dello Stato
cui appartiene il titolare del bene offeso dal reato.
- Infine, alla stregua del principio di personalità attiva, si applica la legge penale dello Stato di
appartenenza del reo.
Occorre subito precisare che nessun sistema applica uno di questi criteri nella sua versione pura,
pertanto, ogni ordinamento giuridico disciplina l’efficacia della legge penale nello spazio attraverso
la combinazione di tutti e quattro i criteri indicati.

Principio di territorialità : Ai sensi dell’art 3, comma 1, c.p. “la legge penale obbliga tutti coloro
che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato”, con le uniche, tassative eccezioni
previste dal diritto pubblico o internazionale (per esempio, le immunità consolari). Conseguenza di
quest'obbligatorietà della legge penale è che tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato sono
tenuti ad osservarla, e che, pertanto, com’è ovvio “chiunque commette un reato nel territorio dello
Stato è punito secondo la legge italiana”, come recita l’art. 6 comma 1, c.p.

Il territorio dello Stato (principale criterio di collegamento tra fatto di reato ed ordinamento italiano)
non va inteso solo come il suolo entro i confini d’Italia (comprensivo del sottosuolo, delle acque
interne e delle coste), ma identifica, ai sensi dell’art. 4, comma 2, c.p. ogni luogo soggetto alla
sovranità dello Stato, come il mare costiero e lo spazio aereo nazionale.

Fatti puniti incodizionatamente : Il principio di territorialità deve essere integrato con altre
disposizioni del codice. In particolare, l’art. 7 c.p. prevede che una cospicua serie di delitti siano
puniti anche se commessi interamente all’estero, sia da parte del cittadino italiano che dello
straniero. Occorre precisare che questi reati sono puniti ai sensi della legge penale italiana
incondizionatamente, cioè indipendentemente da qualsiasi condizione di procedibilità (quale, per
esempio, la presenza del reo nel territorio dello Stato). Si tratta di delitti che offendono direttamente
un interesse dello stato.

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Delitti politici : L’art. 8, comma 1, c.p. prevede che “il cittadino o lo straniero, che commette in
territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell’articolo
precedente, è punito secondo la legge italiana”. In questo caso, però, la punibilità alla stregua
dell’ordinamento italiano non è incondizionata, bensì subordinata ad una condizione di
procedibilità: la richiesta del Ministro della giustizia. Se, poi, il delitto è perseguibile a querela, oltre
alla richiesta del Ministro occorre anche la querela del soggetto passivo del delitto.
Si considera politico qualsiasi fatto di reato che sia oggettivamente tale, cioè offende un interesse
politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. Il delitto soggettivamente politico è il
delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici.

Delitti comuni commessi all’estero : In particolare, l’art. 9 c.p. prende in esame i delitti commessi
dal cittadino italiano all’estero, prevedendo l’applicabilità della legge penale italiana per i delitti
puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minino a tre anni. L’art. 10 c.p. disciplina
l’applicabilità della legge penale italiana ai delitti commessi interamente all’estero da uno straniero.
In particolare, se il fatto è commesso contro un cittadino italiano o ai danni del nostro Stato, in virtù
del principio della soggettività passiva, si applica la legge penale italiana anche per i delitti puniti
con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, ma sono previste le
condizioni di procedibilità e la richiesta del ministro della giustizia.
Una particolare disciplina è dettata, dall’art. 604 c.p. per i delitti contro la personalità individuale
nonché per i delitti contro la libertà sessuale incondizionatamente puniti, anche se commessi
all’estero, da cittadino italiano (principio della soggettività attiva) o in danno di cittadino italiano
(principio della soggettività passiva).

Rinnovamento del giudizio : L’art 11, comma 1, c.p. prevede che il cittadino e lo straniero, che
abbiano commesso un reato nel territorio dello Stato, vengano sempre giudicati in Italia, anche se vi
è già stato un giudizio penale all’estero. Nel caso invece, di delitto commesso all’estero, ma
punibile in Italia ai sensi degli artt. 7-10 c.p. si procede alla rinnovazione del giudizio solo se vi è
richiesta in tal senso da parte del Ministro della giustizia. Vi è inoltre il principio del ‘ne bis in
idem’, in virtù del quale è vietato procedere una seconda volta, quando già vi sia stato un giudizio di
condanna per il medesimo fatto, e la relativa pena sia stata scontata o sia in corso d’esecuzione.

Riconoscimento di sentenze penali straniere : Il riconoscimento è subordinato, ai sensi


dell’ultimo comma dell’art. 12 c.p. all’esistenza di un trattato di estradizione con il Paese straniero
che l’ha emessa, o, se tale trattato non esiste, alla richiesta del Ministro della giustizia.
L’Unione Europea, ha emanato alcune Decisioni Quadro, finalizzate al reciproco riconoscimento,
tra i Paesi membri, delle sentenze penali. Ai sensi dell’art. 10, d.lgs. 161/2010, una sentenza penale
di condanna emessa da un Paese membro dell’Unione Europea viene eseguita in Italia con alcune

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condizioni (es. che la persona condannata abbia la cittadinanza italiana; la residenza, la dimora o il
domicilio nel territorio dello Stato). Inoltre, il fatto per quale vi è stata condanna deve essere
previsto come reato anche dalla legge italiana, indipendentemente dalla sua denominazione.

L’estradizione è la consegna da uno Stato ad un altro che ne fa richiesta, di un soggetto che deve
essere giudicato o punito per i suoi crimini. Dal punto di vista dello Stato richiedente si parla di
estradizione attiva, mentre chi consegna il soggetto esercita la cosiddetta estradizione passiva.
L’estradizione è istituto di diritto internazionale e viene regolato, nel nostro ordinamento, dall’art.
13 c.p. Molto rilevante è il ruolo della Corte Costituzionale, nell’individuare i limiti
all’estradizione, muovendo dal divieto di estradare sia il cittadino che lo straniero.
L’estradizione sia attiva che passiva, sia del cittadino che dello straniero, è sottoposta nel nostro
ordinamento giuridico, ad una serie di principi e vincoli.
- Il fatto per il quale viene chiesta o concessa l’estradizione deve essere preveduto come reato della
legge italiana e da quella straniera (doppia incriminazione).
- Secondo requisito attiene al cosiddetto principio di specialità: la concessione dell’estradizione è
subordinata alla condizione che, per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il
quale l’estradizione è stata concessa, l’estradato non venga sottoposto a restrizioni della libertà
personale in esecuzione di una pena o misura di sicurezza, né assoggettato ad un’ altra misura
restrittiva della libertà personale né consegnato ad un altro Stato, tranne che avendone avuta la
possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato al quale è stato consegnato trascorsi 45
giorni dalla sua definitiva liberazione o, avendolo lasciato vi abbia fatto volontariamente ritorno.
- In virtù invece, del principio di sussidiarietà, l’estradizione non può essere concessa se, per lo
stesso fatto, nei confronti del soggetto, è in corso procedimento penale, mentre il divieto di bis in
idem impedisce l’estradizione se è stata pronunciata sentenza irrevocabile nello Stato.
Infine vengono in rilievo i limiti relativi al tipo di reato commesso. Gli artt. 10 e 26 Cost.
impediscono l’estradizione per reati politici sia dello straniero che del cittadino. Diviene elemento
di garanzia che, impedendo l’estradizione in un paese straniero di chi è accusato di un reato di
natura politica, lo preserva da possibili persecuzioni da parte del potere costitutivo di quegli stessi
Stati contro i loro oppositori.
Un ulteriore vincolo posto, a livello di legislazione ordinaria dell’art 698 c.p.p. vieta la concessione
dell’estradizione quando l’imputato o il condannato corre il rischio, nel paese richiedente, di essere
sottoposto ad atti persecutori, discriminazioni per motivi di razza, di religione, di sesso, di
nazionalità, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; a pene o trattamenti
crudeli, disumani; ad atti che, comunque, configurano violazione di uno dei diritti fondamentali
della persona.
Particolarmente rilevante il divieto di concedere l’estradizione per un reato che, nel paese
richiedente, è punito con la pena di morte.

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Attualmente tra gli Stati membri dell’Unione Europea, l’estradizione è stata sostituita dal mandato
d’arresto europeo, un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria di un Paese membro, che
impegna tutti gli altri a darvi esecuzione, per l’arresto di un ricercato per l’esercizio dell’azione
penale o per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza restrittiva della libertà personale.
Il mandato d’arresto europeo non può essere emesso per reati politici, tranne che per i fatti di
genocidio e per i delitti di terrorismo.

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PARTE TERZA - IL REATO
CAPITOLO IX - STRUTTURA GENERALE DEL DIRITTO

Fu merito della Scuola classica aver avviato in modo scientifico lo studio del diritto penale
attraverso l’analisi del reato quale ente giuridico astratto: si affermò, infatti, che il reato era
composto di due elementi, una forza fisica, corrispondente all’elemento oggettivo, ed una forza
psichica, corrispondente all’elemento soggettivo.
Il modello analitico nello studio del reato aveva portato ad un eccesso di concettualismo
dogmatico, spesso fine a se stesso, che faceva perdere di vista il significato unitario che la pluralità
degli elementi del reato deve mantenere per la dichiarazione della responsabilità penale.
Il modello precedente fu criticato da alcuni autori tedeschi che proposero di affrontare l’analisi del
reato secondo un modello sintetico: l’interprete non può parcellizzare il reato in una molteplicità di
elementi (e, magari, di sotto-elementi), perché perde di vista l’essenza unitaria del reato che il
giudice può cogliere solo attraverso un approccio intuizionistico che consente di comprendere
l’essenza del reato.
Le due principali correnti dottrinali optano per la bipartizione o tripartizione del reato. Secondo la
concezione bipartita, il reato si compone di due elementi: il fatto oggettivo e l’elemento
soggettivo. Nel fatto oggettivo sono compresi tutti gli elementi oggettivi richiesti dalla singola
fattispecie incriminatrice (cosiddetti elementi positivi del fatto): ad es. la sottrazione della cosa
mobile altrui. La presenza di tali elementi non è però ancora sufficiente ad integrare gli estremi del
reato, perché possono sussistere particolari situazioni in presenza delle quali il fatto è autorizzato o
imposto dall’ordinamento giuridico. Si tratta delle cosiddette cause di giustificazione.
Secondo la teoria bipartita le scriminanti costituiscono elementi oggettivi negativi del fatto che
devono mancare affinché il reato sussiste (cosiddetti elementi negativi del fatto).
Al fatto, composto di elementi positivi e dall’assenza di elementi negativi, si affianca l’elemento
soggettivo.
Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti alle tre categorie del
fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza: la prima include gli elementi oggettivi nel
reato; nella seconda trovano collocazione le cause di giustificazione; la terza identifica gli elementi
soggettivi che consentono di muovere al soggetto un rimprovero per il fatto commesso.
La distinzione tra i due modelli teorici si riduce alla differente collocazione delle scriminanti che
per la convenzione bipartita costituiscono elementi negativi del fatto e per la teoria tripartita
fondano una categoria autonoma dell’antigiuridicità.
A questi due principali modelli strutturali del reato si affianca la concezione quadripartita, che come
la teoria tripartita utilizza le categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza, ma si
affianca anche quella della punibilità, alla quale vanno ricondotte particolari situazioni: vi rientrano
le cause sopravvenute di non punibilità.

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Nel nostro sistema i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni in relazione alla specie di pena
per essi rispettivamente prevista: per i delitti, l’ergastolo, la reclusione e la multa; per le
contravvenzioni, l’arresto e l’ammenda. La distinzione tra le due tipologie è di tipo formale, non è
quindi possibile sostenere che i delitti sono più gravi delle contravvenzioni.

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CAPITOLO X - SOGGETTI

Il soggetto attivo del reato (autore) è chi realizza il fatto descritto dalla singola fattispecie
incriminatrice. Soggetto attivo del reato può essere solo la persona umana, in quanto nel nostro
ordinamento gli enti collettivi sono tradizionalmente esclusi dalla personalità.
La maggior parte dei reati può essere commessa da chiunque: in alcuni casi, invece, è la stessa
norma incriminatrice a richiedere la presenza di particolari qualifiche personali in capo al soggetto
attivo: si contrappongono così i reati comuni ai reati propri.

Ai sensi dell’art. 3 c.p. “la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si
trovano sul territorio dello Stato, salve eccezioni stabilite dal diritto pubblico intento o dal diritto
internazionale”. Il carattere obbligatorio della legge penale, vincola tutti i soggetti, eccezioni a cui
fa riferimento l’art. 3 c.p. sono costituite dalle cosiddette immunità.
Le immunità hanno, dunque, natura giuridica di cause personali di esenzioni della pena. Esse si
distinguono in base alla fonte che le prevede in immunità di diritto pubblico interno o di diritto
internazionale.
Si distinguono, poi, in immunità funzionali ed extrafunzionali, a seconda che la non punibilità sia
limitata ai reati commessi nell’esercizio delle funzioni o investa anche gli atti realizzati al di fuori
delle funzioni.
Un’altra importante distinzione è tra immunità sostanziali e processuali: le prime sono cause
personali di non punibilità, mentre le seconde interessano il processo e consistono in ostacoli al
proponimento dell’azione penale.
Le immunità, poiché spezzano il legame tra reato e punibilità, sollevano la questione della loro
compatibilità con il principio di uguaglianza: l’eccezione all’obbligatorietà della legge penale
richiede una copertura costituzionale che consenta di giustificare l’esenzione della pena o gli
ostacoli processuali. Il legislatore ordinario non può introdurre immunità che non rispondano ad
esigenze di tutela ricavabili dal dettato costituzionale.

Tra le immunità di diritto pubblico interno si segnalano quelle espressamente previste dalla
Costituzione o da leggi costituzionali.
Ai sensi dell’art. 90 Cost. il PdR non risponde per gli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni
tranne che alto tradimento.
I parlamentari godono di un’immunità sostanziale e di un’immunità processuale finalizzata a
consentire l’esercizio delle funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni.
L’immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni
parlamentari. Quest’immunità interessa in particolare i reati che consistono nella manifestazione di
un pensiero.

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L’art. 68 comma 1, Cost. richiede un nesso funzionale delle opinioni espresse con l’esercizio di
funzioni parlamentari. L’immunità, pertanto, copre anche le opinioni espresse al di fuori del
Parlamento, purché permanga il nesso funzionale.
I commi 2 e 3 dell’art. 68 Cost. prevedono un’immunità di tipo processuale che non impedisce né le
indagini del pubblico ministero né il processo penale penale nei confronti dei parlamentari, ma non
consente l’adozione di specifici atti processuali senza autorizzazione della Camera d’appartenenza.
I consiglieri regionali godono di un’immunità sostanziale analoga a quella dei parlamentari: non
possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro
funzioni.

Le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali alle quali è stata data
attenzione con leggi ordinarie. La Corte Costituzionale ha, tuttavia, ravvisato la copertura
costituzionale di queste immunità nell’art. 10 Cost., perché le leggi ordinarie attuano norme
internazionali generalmente riconosciute.
Godono di un’immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale e extrafunzionale, i capi di
Stato estero quando si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato italiano. Tra questi va
anche incluso il Pontefice.
Godono, invece di immunità, anche per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni, gli
appartenenti al corpo diplomatico, mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un’immunità
funzionale.
I parlamentari europei non sono punibili per opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro
funzioni.

Tradizionalmente solo le persone fisiche sono destinatarie della legge penale, mentre nei confronti
delle persone giuridiche sono previste solo sanzioni civili o amministrative, ma non penali.
Dunque, di un reato commesso da un amministratore nell’interesse della società risponde
penalmente solo la persona fisica.
- Art.197 c.p. : prevede l’obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe
e delle ammende.
- Art. 27, comma 1 Cost. : la responsabilità penale è personale.
Più recentemente però, lo sguardo si sofferma su esempi offerti da altri ordinamenti nei quali era da
tempo prevista la responsabilità penale delle persone giuridiche. È stato rilevato che alcune
tipologie di reato non sono solo il risultato della decisione di una o più persone fisiche, ma hanno la
loro genesi nella complessità dell’ente collettivo.
Per imputare alla responsabilità dell’ente il reato commesso dalla persona fisica sono necessari
alcuni requisiti strutturali; innanzi tutto il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a
vantaggio dell’ente.

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Il reato deve essere stato commesso:
- da soggetti in posizione apicale, ovvero soggetti che anche di fatto esercitano la gestione e il
controllo dell’ente;
- da soggetti in posizione subordinata, ovvero persone sottoposte alla direzione o vigilanza di
soggetti apicali.
Qualora l’autore del reato abbia agito nell’interesse esclusivo, proprio o di terzi, è esclusa la
responsabilità dell’ente.
La responsabilità dell’ente non fa venir meno quella della persona fisica: entrambe rispondono,
l’una sul piano amministrativo, l’altra sul piano penale.
La sanzione amministrativa principale è costituita dalla sanzione pecuniaria, che viene commisurata
per quote, il cui numero è in relazione al grado di responsabilità dell’ente.
Il legislatore ha opportunamente affiancato altre sanzioni : le sanzioni interdettive (interdizione
dell’esercizio dell’attività), la confisca e la pubblicazione della sentenza.
Le misure cautelari consentono l’applicazione di una delle misure interdettive previste come
sanzione definitiva.

Il soggetto passivo del reato è il titolare del bene giuridico tutelato dalla fattispecie (persona
offesa). Esso può essere sia un persona fisica che una persona giuridica o un’ente collettivo anche
privo di personalità giuridica.
Il soggetto passivo va distinto dall’oggetto materiale del reato, costituito dalla persona o dalla cosa
su cui cade la condotta del reato (es. nel furto la cosa mobile altrui, nel sequestro di persona il
sequestrato). Il soggetto passivo non va neanche confuso con il danneggiato, ossia con chi ha subito
del reato un danno risarcibile, considerato che ogni reato obbliga alle restituzioni e al risarcimento
del danno.

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CAPITOLO XI - CONDOTTA DI REATO

Il primo elemento del fatto tipico è costituito da una condotta umana che può essere attiva o
omissiva. Nel primo caso il precetto è costituito da una norma di divieto, nel secondo caso da una
norma di comando.
Coscienza e volontà vanno riferite esclusivamente all’azione od omissione e non all’intero fatto di
reato.
L’elemento della coscienza e volontà dell’azione o omissione non sussiste in tre casi:
1. In presenza di una forza maggiore (l’art. 45 c.p. prevede che non è punibile chi ha commesso il
fatto per forza maggiore).
2. In caso di costringimento fisico (l’art. 46 c.p. afferma che non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o
sottrarsi).
3. Quando manca la suitas, e quindi lo stato di incoscienza indipendentemente dalla volontà.

Talvolta la fattispecie richiede che al momento della condotta sussistano determinati presupposti.
Possono trattarsi di presupposti naturalistici e di presupposti giuridici.
La nozione di evento naturalistico si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate
dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie.
La nozione di evento giuridico consiste nell’offesa dell’interesse tutelato dalla norma
incriminatrice.
A differenza dell’eccezione naturalistica, l’evento giuridico non è separabile dalla condotta.

Possono essere distinte tipologie di reato in relazione alle particolari modalità della condotta:
- Reati d’azione e reati d’omissione: nei primi è presente una condotta attiva che si estrinseca in
un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti, nei secondi il legislatore incrimina
il ‘non agire’ del soggetto quando una norme lo impone.
- Reati di pura condotta e reati d’evento: nei primi la fattispecie si esaurisce in una condotta
attiva o omissiva, nei secondi nelle fattispecie è presente come elemento costitutivo un evento
naturalistico.
- Reati istantanei, reati permanenti e reati abituali: nei primi la condotta si realizza in un solo
istante, nei secondi si richiede la protrazione nel tempo di una condotta, alla quale si accompagna
il permanere dell’offesa del bene giuridico, nei terzi il fatto è descritto in modo da richiedere la
reiterazione di una pluralità d’azioni che vengono considerate come una sola condotta.

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CAPITOLO XII - REATI OMISSIVI

La teoria dell'aliud agere, è una teoria secondo la quale il fondamento materiale dell'omissione
consisterebbe nella condotta attiva tenuta dal soggetto quando avrebbe dovuto agire.
I reati omissivi sono tradizionalmente distinti in reati propri ed impropri. Nei primi è incriminata
la semplice condotta omissiva: si tratta pertanto di reati di pura condotta (come nei casi di
omissione di soccorso), i secondi consistono nel mancato impedimento di un evento che il soggetto
aveva l’obbligo giuridico di impedire, essi sono costituiti da un evento naturalistico.
Nel nostro ordinamento penale l’omissione è rilevante solo in due casi:
1. Qualora l’omissione sia espressamente prevista come modalità della condotta in specifiche
fattispecie incriminatrici;
2. Nell’applicazione dell’art. 40 cpv. c.p.

Il reato omissivo proprio è un reato d’azione nel quale il fatto consiste nell’omettere la condotta
imposta dal precetto (nell’omissione di soccorso è punito chi non presta soccorso o non avvisa
l’autorità della persona in pericolo).
Nel reato omissivo tra i requisiti del fatto va considerata la cosiddetta situazione tipica, ossia la
situazione di fatto, descritta dalla norma incriminatrice, in presenza della quale sorge l’obbligo
giuridico di attivarsi. Altro elemento del fatto tipico è costituito dalla condotta omissiva: nella
descrizione del fatto il legislatore indica in quale direzione il soggetto debba agire per evitare di
trasgredire il precetto. Un’omissione, per essere rilevante, richiede un termine di adempimento
entro il quale deve essere tenuta la condotta doverosa. Infine è necessario che il soggetto abbia la
possibilità d’agire.

Il reato omissivo improprio consiste nel mancato impedimento di un evento che si aveva l’obbligo
giuridico di impedire. La norma di riferimento è l’art 40 cpv. c.p.: essa opera come clausola di
equivalenza, in quanto consente, a determinate condizioni, di equiparare la condotta omissiva a
quella attiva.
Il precetto del reato omissivo improprio è costituito da una norma comando, perché il soggetto
risponde per aver omesso di impedire l’evento. A differenza del reato omissivo proprio, che è reato
di pura condotta, il reato omissivo improprio è reato d’evento.
Il reato omissivo improprio presenta problemi di struttura, in quanto sono indeterminati gli elementi
che lo compongono, sollevando così dubbi sul rispetto dei principi di riserva di legge e di
determinatezza.

Ambito di applicazione della clausola di equivalenza : L’art. 40 cvp. c.p. si combina con le
diverse fattispecie incriminatrici. La norma però, non chiarisce se la clausola di equivalenza sia

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applicabile a tutte le fattispecie di reato. Innanzitutto, l’art. 40 cvd. c.p. è applicabile solo ai reati
con evento naturalistico, in quanto inserita nella disciplina del rapporto di causalità. Vengono
esclusi tutti i reati di pura condotta. La clausola di equivalenza non si applica altresì ai reati nei
quali la condotta omissiva è già prevista dal legislatore. Una terza limitazione è costituita
dall’inapplicabilità ai reati con condotta a tipizzazione necessariamente attiva.
L’ambito di applicazione della clausola di equivalenza è allora limitata ai reati causali puri, nei quali
il legislatore considera rilevante qualsiasi condotta che sia causale rispetto alla realizzazione
dell’evento.

Nella struttura del reato omissivo improprio svolge una funzione essenziale l’obbligo giuridico di
impedire l’evento, perché solo per i titolari di tale dovere l’omissione è equiparata alla condotta
attiva. I reati omissivi impropri sono dunque reati propri, in quanto presuppongono una particolare
qualifica personale definita dalla titolarità dell’obbligo giuridico di impedire l’evento che deve
preesistere alla situazione di pericolo per il bene.
L’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento non è risolta nell’art. 40 cvd. c.p. che
si limita a richiedere un obbligo giuridico: è in tal modo esclusa la rilevanza di obblighi di natura
meramente morale o di solidarietà sociale.
Per individuare gli obblighi di impedire l’evento sono state proposte diverse teorie:
- La teoria formale: si fonda sulle fonti formali dell’obbligo, la legge, il contratto e la precedente
attività pericolosa.
- La teoria funzionale (o sostanziale): individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento
attraverso la cosiddetta posizione di garanzia. Considerato che vi sono casi nei quali il titolare di
un bene giuridico non è in grado di tutelarlo adeguatamente, l’ordinamento giuridico individua la
figura di un garante in modo da offrire una tutela adeguata. È innanzitutto necessario che il
garante sia titolare di obblighi impeditivi, perché il garante risponde del mancato impedimento
dell’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire. È altresì necessario che alla titolarità dei
poteri impeditivi si accompagni la capacità di esercitarli. La titolarità dei poteri impediti deve
essere sempre precostituita rispetto alla situazione di pericolo in cui il bene viene a trovarsi: la
posizione di garanzia non si costituisca con la situazione di pericolo, ma deve precederla. È,
infine, necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ossia che il garante sia
tale in relazione a specifici beni di specifici soggetti: non sono ammissibili posizioni di garanzia
a contenuto generale, sia perché ciò contrasterebbe con il principio di determinatezza sia perché
il garante sarebbe gravato da un obbligo così ampio di impedire eventi lesivi da rendere
inesigibile il suo adempimento.
- La teoria mista: accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale, ma richiede al contempo
una base legale delle posizioni di garanzia: è sempre necessaria, cioè, la presenza di una legge
che preveda la posizione del garante originario, cui ancorare la responsabilità per il mancato

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impedimento dell’evento, nel rispetto della riserva di legge. Spetta, pertanto alla legge
individuare le posizioni di garanzia ma, in conformità alla teoria funzionale, è necessario che
queste ultime presentino i caratteri della precostituzione e della specificità.

Le posizioni di garanzia vengono tradizionalmente distinte in:


- Posizione di protezione, che impone di preservare il bene protetto dai rischi che possono ledere
l’integrità;
- Posizioni di controllo, che impongono di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possono
minacciare i beni di terzi.

Le posizioni di garanzia possono essere originarie quando il garante è individuato da una norma di
legge. Le posizioni di garanzia possono essere trasferite, dando così vita a posizioni derivate. La
fonte del trasferimento può essere la legge ma anche il contratto. Non basta che una fonte trasferisca
la posizione di garanzia, ma è necessario che vi sia stata la concreta presa in carico del bene da parte
del garante derivato.

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CAPITOLO XIII - RAPPORTO DI CAUSALITÀ

Il nesso di causalità in ambito penale si traduce in un problema d’imputazione di un evento ad una


condotta umana.
Nei reati ad evento, la presenza del nesso causale costituisce un presupposto indefettibile per
garantire il rispetto dell’art. 27, comma 1, Cost. : la responsabilità penale personale, presuppone
anzitutto una responsabilità per fatto proprio, ossia per un fatto che sia oggettivamente imputabile al
suo autore.
L’art. 40, comma 1, c.p. prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge
come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione o omissione”. Il comma 2 dell’art. 40 prevede che “non impedire un
evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Più articolata si presenta la disciplina delle concause dell’art. 41 c.p. di cui il comma 1 stabilisce
che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
dall’azione o omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione o omissione
dell’evento”, il comma 2 dice che “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando
sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione o omissione
precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”.

Secondo la teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non) causa è l’insieme delle
condizioni necessarie per la produzione dell’evento: ogni condizione ha dunque efficacia causale
rispetto all’evento.
Il carattere causale di una condizione è accertato attraverso il procedimento di eliminazione
mentale:
a) la condotta umana è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei
fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato;
b) la condotta umana non è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante
il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe ugualmente verificato.
Questa teoria della causalità è andata incontro alle critiche di una parte della dottrina. Un primo
rilievo attiene al rischio di estensione eccessiva della responsabilità penale attraverso il cosiddetto
regresso all’infinito: se causali sono tutte le condizioni dell’evento, saranno a loro volta causali
anche le condizioni delle condizioni e così via a seguire in un regresso potenzialmente esteso
all’infinito. Questa obiezione, però, non tiene conto del fatto che la responsabilità penale non si
fonda solo sugli elementi oggettivi della fattispecie, ma richiede anche l’accertamento della
colpevolezza.
Più consistente è invece l’obiezione sollevata dalla cosiddetta causalità alternativa ipotetica, ossia
dall’intervento di un fattore causale che avrebbe comunque prodotto l’evento all’incirca nello stesso

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momento. (Es: un medico, a fronte della richiesta di un malato, pratica allo stesso un’iniezione
letale, che procura il decesso del paziente, il quale sarebbe comunque morto di lì a poco a causa
delle gravi condizioni di salute. In questo caso l’applicazione dell’eliminazione mentale dovrebbe
condurre ad escludere il nesso di causalità, in quanto eliminando la condotta non viene meno
l’evento morte.)
Le obiezioni della causalità alternativa ipotetica non colgono nel segno, perché impostano
l’accertamento del nesso di causalità partendo da una nozione di evento in astratto, mentre, un
punto fondamentale nell’accertamento del nesso causale, sta, invece, proprio nel prendere come
secondo termine del rapporto l’evento in concreto, così come si è verificato nella particolare
situazione di vita (evento hic et nunc).
Critiche alla teoria condizionalistica sono derivate anche dalla cosiddetta causalità addizionale:
quando l’evento deriva da azioni congiunte (si pensi alla contemporanea azione omicida di due
condotte), tali che, se anche una venisse meno, non verrebbe meno l’evento, il procedimento di
eliminazione mentale dovrebbe portare ad escludere il nesso di causalità. Alla causalità addizionale
si è però risposto che il procedimento di eliminazione mentale va verificato rispetto al complesso
dei fattori causali e non alle singole condotte.
La teoria condizionalistica è parsa a buona parte della dottrina incapace di esprimere la specificità
che il nesso causale pone in ambito penale: poiché in questo settore dell’ordinamento si pone un
problema di accertamento della responsabilità penale, la causalità non potrebbe essere risolta in
termini naturalistici, come propone la teoria condizionalistica, ma dovrebbe essere affrontata come
problema d’imputazione di un evento ai fini della responsabilità penale: ossia l’evento che, da un
punto di vista puramente naturalistico, è riconducibile ad una condotta umana (la condotta è dunque
condizione dell’evento) non necessariamente deve essere imputato all’autore della condotta ai fini
della responsabilità penale. Questa scissione tra causalità naturalistica ed imputazione giuridica sta
alla base di alcune teorie (causalità adeguata, causalità umana, imputazione oggettiva dell’evento)
che non costituiscono modelli alternativi alla causalità condizionalistica, ma si propongono come
correttivi della stessa, in quanto restringono l’imputazione di un evento ad una condotta di cui va
comunque accertato il carattere di condicio sine qua non dell’evento.

La teoria della causalità adeguata accoglie i principi della teoria condizionalistica secondo i quali
la condotta umana deve costituire condizione dell’evento, ma limita la responsabilità penale
esclusivamente alla condotte che si presentano come idonee a produrlo: la valutazione d’idoneità va
effettuata secondo un giudizio ex ante, ossia accertando se, al momento della condotta, questa
costituiva, in base alle massime d’esperienza, un fattore probabile di determinazione dell’evento. Le
esigenze di limitare la responsabilità penale, alle quali intese venire incontro la teoria della causalità
adeguata, possono essere meglio soddisfatte sul terreno dell’elemento soggettivo, che deve essere
sempre accertato con giudizio ex ante, al momento della condotta: rispetto agli effetti atipici della

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condotta sarà escluso il dolo, salvo che il soggetto abbia intenzionalmente sfruttato tali effetti atipici
per produrre l’evento; quanto all’accertamento della colpa, il problema dell’atipicità degli effetti
della condotta deve essere più correttamente risolto in sede di giudizio di prevedibilità dell’evento,
alla luce delle leggi scientifiche e delle massime d’esperienza disponibili al momento in cui il
soggetto ha agito, o avrebbe dovuto agire.

La teoria della causalità umana afferma che la causalità delle condotte dell’uomo presenta proprie
specificità, in quanto l’uomo, in forza dei propri poteri conoscitivi e volitivi, ha una sfera di signoria
che gli consente di dominare una serie di circostanze nelle quali si inserisce la sua condotta: i fattori
che rientrano in questa sfera di signoria possono essere considerati causati dall’uomo, perché
dominabili dallo stesso; i fattori che, invece, fuoriescono da questa sfera non possono essere
imputati al soggetto, perché si tratta di fattori eccezionali, del tutto imprevedibili.
Pertanto, la sussistenza del rapporto di causalità richiede due elementi, uno positivo ed uno
negativo: è necessario anzitutto che la condotta costituisca condicio sine qua non dell’evento
mediante giudizio controfattuale, secondo l’impostazione data dalla teoria condizionalistica; è però
necessario altresì che non sia intervenuto un fattore eccezionale il quale interrompe il nesso di
causalità.

La teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento afferma che affinché un evento possa essere
imputato ad una condotta sono necessari tre requisiti:
1. La condotta deve essere condizione dell’evento;
2. La condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall’ordinamento.
3. L’evento deve essere la realizzazione del rischio non consentito.
La teoria dell’imputazione oggettiva sposta sul piano oggettivo la soluzione di un problema
d’imputazione che la maggior parte della dottrina risolve sul piano dell’elemento soggettivo. Ai fini
dell’affermazione della responsabilità penale non basta accertare il nesso di causalità, ma è
necessaria anche la presenza di una componente psichica, in termini di dolo o colpa.

I principi della teoria condizionalistica costituiscono la base del rapporto di causalità giuridica:
anche le teorie che a questa si sono affiancate l’hanno comunque accolta, apportando dei limiti
all’imputazione penale. Torniamo ancora alla teoria condizionalistica. Il procedimento di
eliminazione mentale, di cui la stessa si avvale, funziona nella misura in cui si conosca la legge di
copertura che spiega che ad un certo fattore ne segue un altro.
L’accertamento del nesso di causalità si complica in presenza di eventi di natura multifattoriale. È
quindi necessario che il rapporto di causalità sia spiegato facendo riferimento alle leggi scientifiche
che giustificano la causalità di un certo fattore rispetto ad un altro (cosiddetta sussunzione sotto
leggi scientifiche di copertura).

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Il giudice deve passare da un metodo individualizzante ad un metodo generalizzante nella
spiegazione del nesso causale: deve necessariamente partire dal caso concreto, ma questo deve
essere ridescritto (cosiddetta descrizione dell’evento), astraendo da talune delle connotazioni della
vicenda concreta e dando rilevanza alle sue modalità tipiche e ripetibili rilevanti ai sensi della legge
scientifica secondo la quale a fattori generali del tipo A, analogo al fattore che in concreto si è
verificato (a), segue un evento generale di tipo B, analogo a quello che in concreto si è verificato
(b).
Il giudice non crea, dunque, le leggi scientifiche per spiegare il rapporto tra avvenimenti, ma è
fruitore di leggi scientifiche, in modo da garantire il massimo di certezza nell’accertamento del
nesso di causalità e assicurarne la controllabilità. Talvolta le leggi sono universali, ossia affermano
che ad un fattore segue nel 100% dei casi un certo evento. Tuttavia, le leggi scientifiche sono, nella
maggior parte dei casi, statistiche, perché consentono di affermare che ad A segue B solo in una
percentuale di casi.
Oltre che alle leggi scientifiche, il giudice può ricorrere alle generalizzate regole di esperienza, ossia
alle massime d’esperienza che stabiliscono una connessione tra avvenimenti secondo attendibili
risultati di generalizzazioni del senso comune. Il giudice deve altresì accettare l’esistenza di
cosiddette assunzioni tacite, ossia di principi che si assumono per dimostrati o alcuni passaggi
causali che la scienza non riesce a dimostrare.
Un’ultima importante notazione: agli effetti del nesso di causalità, il giudice deve considerare
sempre lo stato delle conoscenze presenti al momento del giudizio, perché si tratta di accertare un
elemento di natura oggettiva ed il giudizio di causalità è sempre ex post. Un ragionamento diverso,
deve essere sviluppato dal giudice quando, accertato il nesso causale, si chiede se l’autore abbia
agito con colpa: qui la prevedibilità ed evitabilità sono accertate con giudizio ex ante, facendo
riferimento alle conoscenze scientifiche disponibili al momento della condotta.

I problemi sollevati dal rapporto di causalità si amplificano in presenza di una condotta omissiva:
quando il soggetto omette di intervenire, gli eventi si sviluppano secondo un decorso naturale e
l’evento è l’effetto di una serie di fattori tra i quali non rientra la condotta omissiva; solo dopo aver
accertato l’efficacia causale di questi fattori ci si potrà interrogare sull’omissione della condotta
doverosa.
Si spiega così il dettato dell’art. 40 cvp. c.p., secondo il quale non impedire un evento che si aveva
l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Si sostiene che la causalità omissiva ha natura
ipotetico-normativa. Ha anzitutto natura normativa, poiché è la legge a considerare equivalente alla
condotta attiva quella di omesso impedimento dell’evento da parte di chi aveva l’obbligo giuridico
di impedirlo. Ha altresì natura ipotetica, in quanto l’accertamento del nesso causale in presenza di
una condotta omissiva richiede un ragionamento di tipo ipotetico, anzi doppiamente ipotetico: è
necessario individuare quale azione doverosa il titolare di garanzia avrebbe dovuto tenere (primo

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ragionamento ipotetico) e poi chiedersi se, ipotizzando presente la condotta doverosa, l’evento
sarebbe venuto meno (solo in caso di risposta affermativa sussiste rapporto di causalità tra
l’omissione e l’evento).
Deve essere riconosciuta natura commissiva alla condotta che ha introdotto nel decorso causale un
nuovo fattore di rischio (è sufficiente che la condotta omissiva abbia aumentato il rischio di
verificazione dell’evento).
Quest’orientamento interpretativo trasforma un illecito di evento in illecito di condotta rischiosa,
perché il disvalore del reato non è incentrato sulla cassazione dell’evento, ma sul disvalore della
condotta (la condotta che ha aumentato o non diminuito il rischio per il bene tutelato).

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CAPITOLO XIV - FATTO TIPICO E OFFENSIVITÀ

Il principio di offensività in astratto, si rivolge:


- In primo luogo al legislatore, al quale spetta descrivere fattispecie incriminatrici a tute la di beni
giuridici;
- In secondo luogo all’interprete, ed in particolare al giudice, che deve interpretare la norma
penale in modo da garantire il rispetto del principio d’offensività in astratto, adeguando il bene
tutelato ai principi costituzionali o, qualora ciò sia impossibile, sollevando questione di
legittimità costituzionale.
Non sempre un fatto tipico è anche offensivo del bene giuridico, perché il legislatore non sempre è
in grado di descrivere una fattispecie in modo tale che la realizzazione di un fatto concreto
conforme alla fattispecie astratta sia sempre anche offensivo del bene giuridico a cui tutela è posta l
norma incriminatrice: in alcuni casi si assiste alla discrasia tra fatto tipico ed offesa al bene
giuridico.
La dottrina si è chiesta se sia ragionevole se sia ragionevole che il diritto penale, che dispone delle
sanzioni più affettive, intervenga a reprimere un fatto tipico, ma in concreto non offensivo
dell’interesse tutelato. Una parte della dottrina italiana ne ha escluso la rilevanza penale in
applicazione dell’art. 49, comma 2 c.p. che prevede la non punibilità del reato impossibile per
inidoneità dell’azione. Questa norma prevede la non punibilità del fatto tipico, ma in concreto non
offensivo del bene giuridico (cosiddetta concezione realistica del reato). In tal modo l’art 49 cvp.
diventa la base la base normativa del principio di necessaria offensività del reato (offensività in
concreto).
I sostenitori della concezione realistica del reato riconoscono al principio d’offensività in concreto
rilievo costituzionale: se la norma penale dovesse essere applicata anche a fatti che in concreto non
offendono l’interesse a tutela del quale la norma è posta, la pena si ridurrebbe a punizione della
mera disobbedienza, ossia colpirebbe un fatto meramente sintomatico di pericolosità soggettiva,
assolvendo impropriamente la funzione delle misure di sicurezza, in contrasto con gli artt. 25 e 27
Cost. che distinguono pene da misure di sicurezza.
La cosiddetta concezione realistica del reato è stata criticata da una parte della dottrina che, non
riconoscendo nell’art. 49 cvp. una base normativa sufficientemente solida per sancire il principio
d’offensività, preferisce risolvere l’assenza dello stesso fatto tipico: ci troveremmo di fronte a un
caso di tipicità apparente.
Il tratto differenziale tra le due impostazioni teoriche, sta nel diverso ruolo riconosciuto al principio
d’offensività nel rapporto con il fatto tipico: secondo la concezione realistica l’offensività
costituisce un elemento del reato che si aggiunge agli elementi del fatto tipico (concezione
strutturale del principio d’offensività); secondo la teoria della tipicità apparente, l’offensività
diventa criterio di interpretazione del fatto di reato (concezione interpretativa del principio

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d’offensività). Ciò che, però, preme mettere in evidenza è che entrambi gli orientamenti sostengono
la necessità di garantire il rispetto del principio di offensività in concreto: il reato, per essere
punibile, richiede sempre che ne si accerti la necessaria offensività.

La Corte costituzionale riconosce la stretta connessione tra offensività in astratto ed offensività in


concreto. Così il principio d’offensività opera su due piani, rispettivamente, della previsione
normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in
astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della
tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto),
quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato
abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato.

Il principio d’offensività in concreto consente di escludere la rilevanza penale del fatto nei casi in
cui sia del tutto assente l’offesa all’interesse protetto. Può accadere che in concreto il fatto sia
offensivo del bene giuridico tutelato, sebbene l’offesa arrecata non sia così significativa. Si tratta
dei cosiddetti reati bagatellari in concreto (o reati bagatellari impropri), dove la scarsa significatività
non sta nel tipo di bene offeso, come nei cosiddetti reati bagatellari in astratto (o reati bagatellari
propri), nei quali non si giustifica l’intervento del diritto penale per assenza di meritevolezza del
bene da tutelare, ma nell’esiguità dell’offesa in concreto arrecata ad un interesse ritenuto meritevole
di tutela.
L’offesa al bene giuridico non costituisce un elemento rigido che c’è o non c’è, con la conseguenza
di giustificare l’intervento penale nel primo caso e di escluderlo nel secondo. L’offesa è un entità
graduale, tanto che si parla di gradualità del reato. Dobbiamo allora chiederci se l’offesa
all’interesse tutelato, anche se scarsamente significativa, giustifichi comunque l’intervento penale.

L’offesa al bene giuridico è assicurata sia dalla lesione che dalla messa in pericolo del bene
giuridico tutelato. È possibile quindi distinguere tra:
- Reati di danno, nei quali il bene giuridico è, in tutto o in parte, pregiudicato nella sua
consistenza.
- Reati di pericolo, nei quali è presente solo una probabilità di lesione al bene giuridico tutelato.

I reati di pericolo vengono tradizionalmente distinti in due categorie:


- Reati di pericolo in concreto, nei quali il pericolo è elemento costitutivo espresso di fattispecie.
Sebbene la dottrina abbia a lungo discusso sulla nozione di pericolo, prevale l’orientamento che
lo identifica con un giudizio di relazione tra una certa situazione ed un evento futuro dannoso da
prevenire: non basta a qualificare il pericolo un giudizio in termini di mera possibilità di
verificazione dell’evento futuro, ma si richiede una più consistente probabilità (o rilevante

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possibilità) che tale evento si realizzi. Nell’accertamento del pericolo è fondamentale distinguere
il momento, la base e il metro di giudizio. Il momento di giudizio indica il tempo nel quale deve
essere compiuta la valutazione di probabilità dell’evento pregiudizievole. La base del giudizio
indica gli elementi della situazione concreta dei quali il giudice deve tener conto per esprimere la
prognosi: secondo il giudizio a base parziale si tiene conto delle condizioni di fatto conoscibili da
una persona avveduta posta nelle medesime condizioni, integrate da eventuali conoscenze
specifiche che la stessa abbia; il giudizio a base totale prende invece in considerazione la totalità
delle circostanze del caso concreto presenti al momento del giudizio. Infine il metro del giudizio
indica i parametri che il giudice deve utilizzare nell’accertamento del pericolo: si tratta delle
stesse leggi scientifiche di copertura e regole di esperienza che si utilizzano nell’accertamento del
nesso di causalità.
- Reati di pericolo in astratto, nei quali il pericolo non compare come elemento costitutivo di
fattispecie, ma si limita a costituire la ratio della norma, ossia il legislatore descrive un fatto che,
ad una valutazione astratta, mette in pericolo il bene giuridico tutelato. A differenza dei reati di
pericolo in concreto, queste fattispecie sono più precise, in quanto la situazione pericolosa è
descritta dal legislatore; possono però, essere problematiche in relazione al rispetto del principio
d’offensività, laddove il fatto concreto, pur riproducendo gli elementi della fattispecie astratta,
non costituisca alcun pericolo per il bene tutelato, ossia la valutazione di pericolosità
astrattamente fatta dal legislatore, non può trovare corrispondenza nel fatto concreto.

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CAPITOLO XV - CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE

Non sempre la realizzazione di un fatto corrispondente alla fattispecie di un reato comporta


responsabilità penale per il comportamento posto in essere. In alcune situazioni un fatto, che
normalmente costituirebbe un illecito penale, non è considerato tale in quanto giustificato
dall’ordinamento. È affermazione condivisa che le cause di giustificazione (dette anche
scriminanti) siano collegabili a norme che autorizzano o addirittura impongono la realizzazione del
fatto che normalmente costituirebbe reato.
Le cause di giustificazione sono considerate, secondo un’impostazione teorica minoritaria, elementi
negativi del fatto: la loro presenza fa sì che il fatto non possa essere considerato tale. L’opinione
prevalente le considera invece cause di esclusione dell’antigiuridicità.
È fondamentale, peraltro, tenere ben distinte le scriminanti dalle mere cause di non punibilità.
Queste ultime sono situazioni nelle quali il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per
semplici ragioni di opportunità, mentre il fondamento delle cause di giustificazione risponde a
criteri di natura sostanziale imperniati sul bilanciamento degli interessi contrapposti.
Sul piano formale si può fondare larga parte delle cause di giustificazione sul principio di non
contraddizione, come emerge in tema di esercizio del diritto o adempimento del dovere previsti
dall’art 51 c.p.: se una norma autorizza o addirittura impone una certa condotta non è possibile
ammettere che essa possa dare luogo contraddittoriamente ad una responsabilità penale.
Sul piano sostanziale alla base delle principali cause di giustificazione è presente una valutazione
dell’ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti. Così nella legittima difesa
si privilegia, pur entro certi limiti, l’interesse di chi si difende da un’ingiusta aggressione con
correlativo sacrificio del bene dell’aggressore colpito dalla reazione; nell’uso legittimo delle armi,
art. 53 c.p., si attenua la tutela di chi realizza una violenza o resistenza alla pubblica autorità.

La disciplina delle cause di giustificazione non è delineata in maniera organica dal codice penale.
Essa è desumibile in parte da principi generali, in parte da disposizioni collocate in settori diversi
dal codice.
In relazione ai principi generali va sottolineato che le cause di giustificazione devono rispettare il
principio di riserva di legge, nei limiti in cui esso opera per gli altri elementi costitutivi del reato.
Quindi né la legge regionale né atti dell’esecutivo possono costruire ex novo una causa di
giustificazione o modificare l’assetto delle scriminanti disegnate dal legislatore statale. Ciò non
esclude che fonti non statali o infralegislative possano influenzare l’ambito di applicazione di quelle
cause di giustificazione a struttura aperta.
Un profilo importante di disciplina è costituito dalle disposizioni in tema di errore. L’art. 59 c.p.
comma 4 si riferisce al cosiddetto errore di fatto, una non corretta percezione della realtà esterna
che genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe, se

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corrispondesse alla realtà, di fruire di una causa di giustificazione. L’art 59. comma 4 c.p. non
riguarda invece l’errore di diritto, che può consistere nell’erronea credenza sull’esistenza di una
causa di giustificazione o un errore sui limiti normativi di una causa di giustificazione prevista
dall’ordinamento.

L’art. 50 c.p. dispone che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso di chi
può validamente disporne.
In ambito penale il consenso non sempre costituisce una causa di giustificazione. In alcuni casi,
infatti, il consenso (o il dissenso) interviene come elemento del fatto tipico, che esclude in radice
l’offesa all’interesse protetto. In alcuni casi è la stessa norma incriminatrice a prevedere
espressamente questo elemento: nella violazione di domicilio è necessario che il fatto sia commesso
con il dissenso del titolare del domicilio stesso (art. 614 c.p.); la violenza sessuale (art. 609-bis c.p.)
presuppone il dissenso della vittima, il cui consenso renderebbe quell’atto espressione della volontà
personale di disporre del proprio corpo nella sfera delle relazioni sessuali.
Il consenso ha invece natura giuridica di causa di giustificazione, quando interviene in relazione ad
un fatto tipico offensivo del bene giuridico, giustificandone la lesione. Potremmo allora concludere
affermando che la natura giuridica del consenso come causa di esclusione del fatto tipico o come
causa di giustificazione dipende dal significato che assume la libertà di autodeterminazione del
titolare del bene: se questa è coessenziale allo stesso bene giuridico tutelato, allora, se il consenso è
stato prestato, manca l’offesa al bene e manca lo stesso fatto tipico; si tratterà, invece, di causa di
giustificazione laddove la tutela del bene assuma un significato autonomo rispetto alla libertà di
disporne del suo titolare.

L’art. 50 c.p. indica in modo sintetico i requisiti della scriminante, limitandosi a richiedere che il
soggetto possa disporre validamente del diritto. Sono quindi necessari due elementi:
- Deve trattarsi di diritti disponibili;
- Devono sussistere le condizioni per la valida rinuncia alla tutela del diritto.
Va innanzi tutto chiarito che il termine diritto qui va inteso non nell’accezione civilistica, ma come
bene o interesse tutelato dalla norma incriminatrice.
Sono disponibili quei beni rimessi all’esclusivo interesse del singolo, che può disporne; sono invece
indisponibili quei beni rispetto ai quali prevale l’interesse pubblico alla loro tutela.
Sono considerati beni indisponibili:
- L’ordine pubblico;
- La pubblica amministrazione;
- L’amministrazione della giustizia;
- La fede pubblica.

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Sono considerati beni disponibili:
- Gli interessi patrimoniali (salvo che la libertà di disporne entri in conflitto con un prevalente
interesse pubblico);
Come non sono esplicitati dall’art. 50 c.p. i limiti di disponibilità dei diritti, così non sono indicate
le condizioni di validità del consenso. Il consenso non deve anzitutto essere viziato da violenza, o
da errore, e può essere sottoposto a condizioni.
È necessario che il soggetto abbia la capacità di consentire alla lesione del bene: in alcuni casi tale
capacità è definita da limiti di età fissati dal legislatore (ad es. 14 anni in relazione alla libertà
sessuale; 18 anni in relazione ai beni patrimoniali, salvo alcune deroghe).
In caso di soggetti incapaci di intendere e di volere, il consenso può essere prestato dal legale
rappresentante, salvo che si tratti di beni personalissimi, rispetto ai quali l’interesse rimane nella
disponibilità esclusiva del suo titolare.
Se vi sono più titolari del bene, l’art 50. c.p. opera a condizione che il consenso sia prestato da tutti.
Non sono richieste particolari formalità di manifestazione del consenso che può essere espresso o
tacito, quando sia manifestato attraverso atti concludenti. Il consenso tacito non va confuso con il
consenso putativo e il consenso presunto. Si ha consenso putativo, quando il consenso non è stato
dato, ma chi lede il bene ritiene che il consenso sia stato prestato. Il consenso è invece presunto,
quando chi offende il bene sa che il consenso non è stato dato, ma presume che lo avrebbe ottenuto,
qualora lo avesse chiesto al titolare del bene. Questa situazione non è regolata dal codice.
Un ruolo importante è rivestito dal consenso del paziente agli interventi medici. Qui il consenso non
opera come scriminante, in quanto l’attività medico-chirurgica si giustifica, per l’importante ruolo
sociale rivestito, vuoi come scriminante tacita vuoi come esercizio di una facoltà legittima;
consenso costituisce piuttosto condizione di liceità dell’intervento medico: senza il consenso del
paziente il medico non è legittimato ad intervenire. Per operare come condizione di liceità del
trattamento medico, il consenso deve essere informato, ossia al paziente devono essere date tutte le
informazioni sul tipo di trattamento e sugli effetti dello stesso affinché possa essere pienamente
esercitata la libertà di autodeterminazione in ordine alle proprie cure.
La funzione imprescindibile del consenso informato ha come risvolto anche il riconoscimento del
diritto a rifiutare le cure, anche nei casi in cui la terapia avrebbe la possibilità di salvare la vita del
paziente. Ebbene, nella misura in cui il soggetto esprime la propria libertà di autodeterminazione,
non possono essergli imposti trattamenti sanitari, anche se il rifiuto espone a rischio la vita del
soggetto.
Gli effetti del riconoscimento della libertà di autodeterminazione del paziente hanno due importanti
effetti. Da un lato, il bene vita è diventato un bene parzialmente disponibile, ma esclusivamente nei
limiti del legittimo esercizio della libertà di rifiutare le cure; dall’altro lato, nei limiti in cui il
paziente legittimamente rifiuta le cure, cessa la posizione di garanzia del medico, la cui condotta
omissiva non rileva penalmente.

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La scriminante dell’adempimento del dovere è classica espressione del principio di non
contraddizione. L’adempimento del dovere può derivare da:
- Una norma giuridica;
- Un’ordine dell’autorità.

Anche il riconoscimento esplicito dell’efficacia scriminante dell’esercizio di un diritto trova


giustificazione alla luce del principio di non contraddizione.
Si ritiene che l’art. 51 c.p. faccia riferimento non solo ai diritti soggetti in senso stretto ma a
qualsiasi situazione giuridica soggettiva che consenta ad una persona di realizzare un
comportamento che astrattamente corrisponde ad una fattispecie incriminatrice.
Occorre interpretare correttamente la norma che riconosce il diritto o la facoltà il cui esercizio ha
efficacia scriminante: la condotta giustificabile è solo quella corrispondente al diritto o alla facoltà
legittima e non può allargarsi a condotte strumentali all’esercizio del diritto.
In molti casi occorre identificare i limiti entro cui un diritto, pur proclamato in generale, deve essere
esercitato; ciò comporta talvolta la ricerca di un punto di equilibrio tra diritti in conflitto.
Tra le ipotesi ambigue in cui talvolta si è parlato di esercizio del diritto, in particolare del diritto di
proprietà, si colloca il problema degli offendicula, cioè quelle forme di difesa passiva che possono
andare dalla predisposizione di reticolati con energia elettrica al più banale inserimento di cocci di
vetro appuntiti situati alla sommità di muri perimetrali. In realtà non si può sostenere che sia
espressione dell’esercizio di diritto di proprietà cagionare conseguenze lesive nei confronti di
ipotetici aggressori, in quanto le norme in materia di proprietà non autorizzano esplicitamente tali
casi. Gli offendicula, devono, invece, esse ricompresi nell’ambito dell’applicazione della
scriminante della legittima difesa alla luce del principio di proporzione o della necessità.

La causa di giustificazione storicamente più collaudata ed universalmente riconosciuta è la difesa


legittima. L’art. 52, comma 1 c.p. delinea la legittima difesa classica: “non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui
contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.
Nel 2006 il legislatore ha ritenuto di affiancare ad essa una seconda ipotesi: la cosiddetta legittima
difesa domestica o allargata.
La legittima difesa ordinaria presenta una serie di requisiti attinenti sia al pericolo di offesa sia ai
limiti della difesa. Il pericolo deve essere attuale, nel senso che l’offesa deve essere in corso di
attenuazione o quantomeno imminente. Il pericolo deve investire un diritto proprio o altrui. Di
regola si tratta del pericolo di lesione di un vero e proprio diritto soggettivo. La difesa deve essere
necessaria: se è possibile sottrarsi al pericolo senza alcun rischio e con modalità diverse dalla
commissione di un reato nei confronti dell’aggressore deve essere privilegiata tale scelta. Infine, la

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reazione deve essere proporzionata. Il rapporto di proporzione deve essere instaurato tra il bene
aggredito e quello pregiudicato dalla reazione.

Proprio in relazione al requisito della proporzione il legislatore ha ritenuto di intervenire nel 2006
introducendo due nuovi commi nell’art. 52 c.p. L’intento dichiarato era quello di mettere al riparo
da un’incriminazione chi si fosse difeso contro un’aggressore all’interno della propria abitazione.

Il codice penale italiano dedica una norma specifica all’uso dei mezzi di coazione da parte dei
pubblici ufficiali. L’art. 53 c.p. delinea, una scriminante propria: i soggetti non qualificati possono
fruirne solo alle condizioni previste dal comma 2 (persona che, legalmente richiesta dal pubblico
ufficiale, gli presti assistenza).
Benché la norma si riferisca in generale ai pubblici ufficiali, è opinione consolidata che la causa di
giustificazione si applichi solo ai pubblici ufficiali ai quali siano esplicitamente conferiti poteri e
strumenti di coazione, sinteticamente individuati con l’espressione ‘forza pubblica’ (polizia,
carabinieri, guardia di finanza, corpo forestale dello Stato, polizie locali).
Gli strumenti utilizzabili sono le armi in dotazione e quegli altri mezzi di coazione fisica
legittimamente utilizzabili dai predetti soggetti in base alla disciplina dei corpi di appartenenza.
L’uso di detti strumenti è legittimo in presenza di alcuni requisiti:
- Al fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio;
- La necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità per adempiere
alla funzione, o, in alternativa, per impedire la consumazione di alcuni reati.

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CAPITOLO XVI - PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA

La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità del fatto al suo autore sono imposti, nel nostro
sistema penale, dal principio di colpevolezza.
Tale principio impedisce, in primo luogo, la responsabilità penale per fatto altrui. Inoltre, impone di
punire solo quando il soggetto abbia agito con dolo o colpa, cioè quando il fatto sia concretamente
rimproverabile. Ne deriva che vanno decisamente respinte tutte quelle tendenze a declinare il
giudizio di colpevolezza non sul fatto storico, ma sulla personalità dell’autore, intesa come colpa
per il carattere - incapacità di controllare le pulsioni aggressive, che rendono “malvagio” uomo -
che per la condotta di vita.
In epoca meno recente era diffusa, tra gli studiosi del diritto penale, una concezione cosiddetta
psicologica della colpevolezza, intesa quale relazione tra fatto e autore.
Si è, pertanto, progressivamente imposta una diversa idea di colpevolezza, cosiddetta normativa,
quale mero giudizio di rimproverabilità per il fatto, che impone di non realizzare, volontariamente
(dolo) o per violazione di regole cautelari (colpa), fatti vietati.

In ottica retributiva la pena veniva intesa proprio come corrispettivo della colpevolezza, in una
prospettiva che rischiava di confondere diritto penale e morale, proponendosi, appunto di
ricompensare, con la sofferenza della pena, il male commesso.
La progressiva crisi dell'idea retributiva della pena, con il conseguente affermarsi del paradigma
preventivo ha assegnato diversa funzione alla colpevolezza: la necessità di prevenire (attraverso la
minaccia di piena) il compimento di gravi fatti offensivi di beni o interessi dei cittadini della
collettività, non può mai superare il limite del concreto disvalore del fatto, anche sotto il profilo
della sua rimproverabilità.
Esiste un aggancio costituzionale, per il principio di colpevolezza? Nel rispondere al quesito la
nostra Corte costituzionale, in assenza di una previsione esplicita al riguardo, ha elaborato un
articolato e complesso ragionamento, sopratutto attraverso due fondamentali sentenze, entrambe del
1988. La prima, è stata emessa con riferimento al principio originariamente contenuto nell’art. 5
c.p. in materia di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale. La Corte ha esplicitamente
attribuito rango costituzionale al principio di colpevolezza, con riferimento all’art. 27, commi 1 e 3,
Cost.
La piena affermazione del principio di colpevolezza può essere colta proprio attraverso una lettura
del comma 1, alla luce della finalità rieducativa della pena: collegando il comma 1 al comma 3
dell’art.27, agevolmente si scorge che non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo
almeno in colpa, rispetto al fatto, non ha certo bisogno di essere rieducato.
La fondamentale pronuncia della Corte conclude nel senso che, alla luce il principe di colpevolezza,
è necessaria quanto meno la colpa, con riferimento agli elementi più significativi della fattispecie
incriminatrice.
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Nella struttura della colpevolezza rientrano: il dolo, la colpa, la conoscibilità della legge penale.
Il principio di inesigibilità: consente al giudice, anche al di fuori dei casi tassativi indicati dalla
legge, di non punire, per difetto di colpevolezza, tutte le volte che si ritenga non esigibile il rispetto
il precetto penale.

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CAPITOLO XVII - DOLO

Il dolo costituisce la più grave forma di imputazione soggettiva: compiere un fatto volontariamente
rende più pesante la responsabilità rispetto a chi abbia agito per negligenza o scarsa attenzione ad
una regola cautelare.
Nel vigente sistema penale, il dolo costituisce la forma ordinaria di responsabilità colpevole per i
delitti. Solo eccezionalmente, e a seguito di esplicita previsione normativa, questa categoria di reati
è punita a titolo di colpa o di preterintenzione, dettata dall’art. 42, comma 2 c.p.
Il nostro codice penale ha definito i diversi tipi d’imputazione soggettiva (dolo, colpa,
preterintenzione). In particolare, secondo l’art. 43, comma 1, c.p. il delitto è doloso, o secondo
l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza
della propria azione od omissione.
L’oggetto del dolo non va ricercato solo nell’art. 43 c.p. che contiene un riferimento unicamente
all’evento, conseguenza della condotta dell’agente, ma anche dagli artt. 47 e 59 c.p. Entrambe
queste norme, infatti, dettate in materia di errore, prevedono che l’erronea rappresentazione di uno
degli elementi della fattispecie incriminatrice (art. 47) o di una causa di giustificazione (art. 59)
escludono la punibilità dell’agente, proprio per mancanza di dolo.
Pertanto, gli artt. 43, comma 1, 47 e 59 c.p. consentono di ricomprendere nell’oggetto del dolo di un
determinato delitto tutti gli elementi che, in positivo o in negativo, ne definiscono la fattispecie. Il
che equivale a dire che l’oggetto del dolo è costituito dal fatto tipico, conforme ad una fattispecie
astratta di delitto.
Premesso che oggetto del dolo è il fatto tipico nel suo complesso, quali elementi costitutivi devono
concretamente essere oggetto di rappresentazione, e quali anche di volizione?
Oggetto di rappresentazione devono essere sia gli elementi descrittivi che normativi del fatto
tipico. Tutti gli elementi, sia descrittivi che normativi, del fatto, s’è detto, devono essere oggetto di
rappresentazione: i presupposti della condotta; la condotta stessa; l’evento naturalistico; le
qualifiche soggettive del reo.
Nelle condotte omissive proprie, l’agente deve rappresentarsi la situazione tipica descritta dalla
norma. L’autore, cioè, deve poter individuare, nella vicenda concreta, quale sia la condotta imposta
dalla legge, e rendersi conto che essa è concretamente applicabile.
Nei reati omissivi impropri, invece, sono oggetto di rappresentazione la possibilità di agire; la
posizione di garanzia rivestita rispetto al bene tutelato, nonché l’azione impedita dell’evento.
Con riferimento, invece, alla volontà, si contendono il campo due diverse opinioni. Secondo quella
più datata, detta teoria della rappresentazione, oggetto di volizione potrebbe essere solo, la
condotta. Ciascuno di noi, infatti, può letteralmente volere solo i propri movimenti corporei, mentre
le conseguenze dei nostri atti possono essere, al più rappresentate e auspicate, ma non volute. Oggi,

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tende, invece, a prevalere una diversa teoria, detta della volontà, secondo la quale - in maniere
forse più aderente al reale atteggiamento psicologico di chi agisce con dolo - le conseguenze dei
comportamenti umani, sia quando intenzionalmente prodotte, che quando rappresentate come certe,
o anche solo possibili, ma delle quali si accetta il rischio della verificazione, sono accettate dalla
volontà umana, e pertanto, volute.
Se è vero che tutti gli elementi del fatto devono essere oggetto di volizione, non si può dimenticare
che il momento nel quale valutare la presenza del dolo è proprio la condotta, o meglio il momento
nel quale l’agente compie l’ultimo atto di dominio sullo svolgimento del fatto. Si dice, in tal senso,
che il dolo deve essere concomitante alla condotta. Non rileva pertanto, il dolo antecedente (es:
tizio vuole uccidere la fidanzata e la sta conducendo, in auto, sul luogo del delitto programmato, ma
durante il percorso, a causa della velocità eccessiva, esce di strada e la vittima muore per le ferite
riportate nell’incidente; omicidio colposo e non doloso), e né può rilevare il dolo susseguente (es:
se caio porta distrattamente a casa un ombrello molto simile al suo, prelevato dal portaombrelli del
ristorante nel quale ha cenato, e giunto a casa, accortosi dell’errore, si tiene, con soddisfazione,
l’oggetto altrui, che è in miglior stato del suo; nessun reato, perché manca il dolo al momento
dell’impossessamento - il furto, infatti, non è punito a titolo di colpa). Infine, non rileva il
cosiddetto dolus generalis, cioè quella situazione nella quale l’agente si rappresenta e vuole
l’evento naturalistico, ma in termini astratti e generici, senza che l’atteggiamento psicologico sia
specificatamente rivolto a tutti gli elementi concreti del fatto storico. (es: se sempronio ferisce a
bastonate la vittima e poi, credendola morta, le da fuoco, ma la polizia accerta che essa è morta
soffocata dal fumo delle fiamme; non omicidio doloso e distruzione di cadavere, perché manca il
dolo al momento nel quale si cagiona la morte, ma tentato omicidio e omicidio colposo).

Con riferimento alla condotta attiva, occorre distinguere tra:


- Reati a forma libera, nei quali il momento volitivo del dolo deve investire l’ultimo atto, tra
quelli che causano l’evento morte, che sia sotto il dominio diretto dell’agente.
- Reati a forma vincolata, occorre che l’agente voglia proprio la particolare modalità del fatto
descritta dalla fattispecie incriminatrice.
Si parla di dolo generico, quando la rappresentazione e la volontà di commettere un fatto coincide
in tutti i suoi elementi con una fattispecie incriminatrice, si parla invece di dolo specifico quando tra
gli elementi di fattispecie, compare anche una particolare finalità che deve muovere l’agente.
Il dolo si dice intenzionale quando il soggetto agisce perché intende realizzare la condotta o
causare l’evento (quest’intenzionalità, non deve essere confusa con il movente, che costituisce,
invece, la ragione interiore, intima, la motivazione personale che spinge il reo a realizzare il delitto,
per conseguire un qualche suo scopo).

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Nel dolo diretto, il soggetto pur non avendo di mira come finalità primaria la realizzazione del fatto
vietato dalla norma penale, agisce con la consapevole certezza di realizzarlo.
Nel dolo eventuale, l’agente si configura come possibile (non come certo o altamente probabile) il
verificarsi di un reato, e ciò nonostante agisce anche a costo di realizzarlo.

Ai sensi dell’art. 133 c.p. l’intensità del dolo è uno degli elementi del quale il giudice deve tener
conto, per graduare la pena tra il minimo e il massimo previsti a livello edittale. Deve quindi essere
possibile una sorta di graduazione del dolo, in termini di maggiore o minore gravità.
Con riferimento al momento intellettivo, costituiranno elementi di maggiore intensità un elevato
grado di certezza della rappresentazione del fatto e la più spiccata coscienza dell’offesa all’interesse
tutelato. Correlativamente, daranno conto di minore gravità il dubbio su alcuni degli elementi
costitutivi del fatto, o la mancanza di consapevolezza di offendere un interesse protetto.
Sotto il profilo volitivo, oltre alla distinzione tra dolo intenzionale e dolo diretto ed eventuale,
acquista rilevanza la distinzione tra:
- Dolo d’impeto, il soggetto agisce in un momento assai prossimo a quello nel quale ha preso la
decisione.
- Dolo di proposito, tra determinazione ed esecuzione trascorre un certo lasso di tempo, che dà
conto ad un maggiore consolidamento del proposito criminoso e quindi di una superiore intensità
del dolo.

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CAPITOLO XVIII - COLPA

La seconda forma di responsabilità colpevole è costituita dalla colpa, cioè dalla causazione di un
fatto vietato dalla legge penale per violazione di regole cautelari.
Proprio per questa sua natura, l’illecito colposo assume gravità minore, rispetto a quello doloso.
La regola generale dettata per i delitti colposi è l’art. 42 c.p. che prevede che la punibilità a titolo di
colpa necessiti di un’esplicita previsione normativa, in assenza della quale il fatto potrà essere
sanzionato solo se commesso con dolo.
L’art. 43 c.p. definisce come colposo il delitto “quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
La definizione di cui all’art. 43 c.p. deve essere integrata con le norme che, in materia di errore di
fatto (art. 47 c.p.), o in materia di cause di giustificazione (artt. 55 e 59 c.p.), consentono di
affermare che la definizione di colpa deve abbracciare tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico.

Dalla definizione dell’art. 43 c.p. è possibile individuare tre espliciti elementi costitutivi della colpa:
- L’elemento negativo della mancanza di volontà del fatto;
- L’elemento oggettivo dell’inosservanza di regole cautelari;
- L’evitabilità dell’evento.
- Infine, un quarto elemento, ricavato per via interpretativa da parte della dottrina, è dato dalla
cosiddetta doppia misura della colpa, della sua misura soggettiva, cioè dell’elemento della
esigibilità del rispetto delle regole cautelari nel caso concreto.

Questo primo elemento, esplicitamente richiesto dall’art. 43, c.p. consente di distinguere la colpa
dal dolo. La mancanza di volontà non va limitata all’evento del delitto ma può concernere qualsiasi
altro elemento del fatto tipico. La mancanza di volontà del fatto non esclude, però, che l’agente del
delitto colposo, possa prevedere l’evento.

L’art. 43 c.p. distingue due diverse ipotesi, a seconda che si tratti di imprudenza, imperizia,
negligenza, oppure violazione di leggi, ordini, regolamenti e discipline.
Nel primo caso (cosiddetta colpa generica) vi è una violazione di norme di prudenza, perizia ed
attenzione non scritte, ma derivanti da fonti sociali delle quali l’ordinamento pretende il rispetto da
parte di tutti i cittadini.
La seconda ipotesi (cosiddetta colpa specifica) attiene invece alle regole cautelari, individuate e
scritte una volta per tutte.

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Sia con riferimento alla colpa generica che a quella specifica, è possibile individuare diversi
contenuti delle regole di condotta. Non sempre infatti, è possibile ricondurre la responsabilità
colposa al mero dovere di attuare una o più misure cautelari.
Talora, infatti, ciò che si imputa al soggetto è di essersi assunto un compito che non era in grado di
portare a termine, senza esporre a rischio l’incolumità altrui (cosiddetta colpa per assunzione).
Altre volte, invece, il rimprovero attiene al mancato dovere di informazione.
Infine, con riferimento alle attività caratterizzate da rapporti gerarchici, può imputarsi al soggetto
apicale di aver non debitamente individuato coloro a cui affidare un certo compito (culpa in
eligendo), o di non avere controllato l’operato di coloro che sono sottoposti alla sua vigilanza
(culpa in vigilando).
La colpa generica, come detto, consiste in un atteggiamento negligente (cioè trascurato, corrivo,
distratto), imprudente (cioè incauto, avventato, che non vede o non tiene nel debito conto il pericolo
che si profila all’orizzonte) o imperito (cioè di chi agisce senza capacità e preparazione adeguate, ed
è pertanto incapace di affrontare questioni che richiedono abilità tecniche o manuali, conoscenze
particolari e specifiche). Nella colpa generica la regola cautela violata, non scritta, deve essere
individuata in concreto da un giudice. Il giudice dovrà accertare la violazione cautelare sulla base di
fonti sociali. I due parametri alla stregua dei quali valutare se l’evento è stato causato da negligenza
sono la prevedibilità e l’inevitabilità. La difficoltà maggiore sta nell’individuare quali parametri
utilizzare, per esprimere il giudizio sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento, cioè quale punto di
osservazione assumere. Per ancorare il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento a
parametri solidi e certi, si sono proposti alcuni criteri. Innanzitutto, è da escludere come
assolutamente insufficiente ed inadeguato il richiamo alla prassi, secondo il quale non sarebbe
prevedibile ed evitabile tutto ciò che è causato da condotte diffuse nella prassi.
Neppure può apparire appagante la scelta di rifarsi al cosiddetto uomo medio: sarebbe prevedibile
ciò che un soggetto medio, né troppo accorto né troppo corrivo, sarebbe in grado di rappresentarsi
come possibile. Una scelta in tal senso infatti, finirebbe per abbassare indebitamente lo standard di
rispetto delle regole cautelari.
Pertanto, si ritiene che prevedibilità ed evitabilità dell’evento vadano parametrate sul cosiddetto
agente modello, cioè il soggetto che, svolgendo quel tipo di attività, utilizza tutte le cautele
possibili, cioè tutte le cautele che l’rodimento giuridico può legittimamente aspettarsi e pretendere
dai cittadini, in quelle medesime circostanze.
Inoltre occorre chiarire che il giudice deve tenere conto delle capacità e conoscenze del soggetto,
quando si tratti di conoscenze che possono avere rilevanza causale nel prevedere ed impedire
l’evento.
La colpa specifica, invece, come detto consiste nella violazione di regole cautelari scritte una volta
per tutte in una legge, regolamento, ordine, o disciplina. Nella colpa specifica, pertanto il giudizio
sulla prevedibilità dell’evento viene compiuto dalla fonte che pone la regola cautelare.

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Inoltre, occorre tenere presente che il rapporto tra accertamento della violazione della regola
cautelare scritta e responsabilità a titolo di colpa specifica non è privo di eccezioni, sotto due diversi
profili. Da un lato, infatti, il giudice dovrà sempre accertare se il rispetto della regola scritta ha
esaurito la misura della diligenza nel caso concreto. D’altro canto, occorre sempre verificare se il
rispetto della regola cautelare non avrebbe, sempre nel caso concreto, aumentato i rischio di
realizzazione del fatto.
La prevedibilità del fatto può avere ad oggetto anche il comportamento di un altro soggetto, ma con
quali limiti si può muovere un rimprovero di questo tipo, relativo alla mancata previsione di un
comportamento colposo altrui?
Nelle ipotesi di colpa specifica, la risposta sarà positiva tutte le volte che la regola scritta abbia di
mira anche l’impedimento di un fatto delittuoso da parte di terze persone.
La questione si pone, invece, in termini assai più complessi, con riferimento alla colpa generica. Al
riguardo infatti, l’astratta previsione che un altro soggetto possa tenere un comportamento non
conforme al dovere di diligenza non è ancora sufficiente per imporre a ciascun consociato di
prevenire i fatti colposi altrui, in virtù di un’ovvia aspettativa (cosiddetto principio di affidamento)
che di norma, le regole cautelari siano rispettate. Peraltro, il principio di affidamento conosce due
limiti: in primo luogo, non può essere invocato da chi abbia una posizione di garanzia sul terzo, del
quale si possa, in astratto, prevedere il comportamento non diligente. Un secondo limite consiste nel
fatto che si può invocare il principio di affidamento solo quando non vi siano elementi concreti che
inducano il soggetto a ritenere che il terzo non rispetterà le regole cautelari.

Nel delitto colposo il fatto deve verificarsi “a causa” della violazione della regola cautelare.
Occorre, pertanto, sempre accertare la cosiddetta causalità della colpa, e cioè quello stretto
collegamento tra violazione del dovere di diligenza ed evento, che deve essere accertato secondo le
cadenze della teoria condizionalistica.
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L’ultimo elemento strutturale della colpa attiene alla sua dimensione più rigorosamente soggettiva, e
consiste nella possibilità di esigere, nel caso concreto, che l’agente rispetti le regole cautelari che
avrebbero evitato il realizzarsi dell’evento.
Questa è, certamente, la situazione più comune e più frequente, ma talora può avvenire che la
doverosa concretizzazione e personalizzazione del giudizio di colpevolezza porti a ritenere che la
pur accertata violazione (a livello oggettivo) di una regola cautelare, secondo il riferimento
all’agente modello, nel caso concreto non sia rimproverabile. In tal senso, possono venire in rilievo
solo deficit di natura fisici o psichica o di socializzazione che, in concreto, rendano non esigibile il
rispetto della regola di diligenza.
Come per il dolo, anche la colpa, può essere graduata, con le inevitabili ricadute in ordine alla pena
in concreto. L’art. 133, comma 1, n.3, c.p. infatti, tra gli indici di gravità del fatto, rilevanti

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nell’esercizio del potere discrezionale del giudice. In particolare, il giudice dovrà tenere conto del
divario tra la condotta che sarebbe stata imposta dalla regola cautelare ed il concreto
comportamento tenuto dall’agente. Oltre a questa prima valutazione di carattere oggettivo si dovrà
poi, ulteriormente prendere in considerazione la misura soggettiva della colpa.

Ai sensi dell’art. 45 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito, cioè un
accadimento essenziale ed assolutamente imprevedibile, che viene ad interferire con la condotta
dell’agente.

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CAPITOLO XIX - DISCIPLINA DELL’ERRORE

Nell’ambito della colpevolezza assume rilievo la tematica dell’errore e dell’ignoranza che consiste
in una falsata percezione della realtà o della normativa vigente.
In primo luogo, viene in rilievo l’errore sul fatto. L’errore sul fatto, a sua volta può essere di fatto
e di diritto. Si pensi al delitto di furto, che punisce chi si appropria di una cosa mobile altrui.
L’agente può credere, per errore (sul fatto) che la cosa sia, in realtà, di sua proprietà, per esempio
perché porta via dal guardaroba di un ristorante un soprabito del tutto simile al suo, che invece
appartiene ad un altro commensale (errore di fatto; ossia erronea percezione della realtà). Diverso
dall’errore sul fatto è l’errore sul diritto, che verte sulla fattispecie penale, oppure su una norma
extrapenale.

Il caso di colui che si appropri di una cosa altrui molto simile alla sua, credendola erroneamente
propria è disciplinato dall’art. 47, comma 1, c.p. in virtù del quale “l’errore sul fatto che costituisce
reato esclude la punibilità dell’agente”.
La ragione di tale esclusione è evidente: l’errore consiste in una falsa rappresentazione della realtà,
che incide sul processo di formazione della volontà, e pertanto esclude il dolo.
Prosegue, infatti, la norma in questione, disponendo che “se si tratta di errore determinato da colpa,
la punibilità non è esclusa se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Diverso, ovviamente, il caso di un delitto per il quale non è prevista la punibilità a titolo di colpa.
Pertanto, colui che si appropri della cosa altrui, simile alla sua, ritenendola propria, non sarà punito,
neppure se il giudice dovesse ritenere che la falsa rappresentazione della realtà sia dovuta a colpa.

L’errore sul fatto, oltre che da una falsata percezione della realtà, può essere frutto di una non
corretta interpretazione (o conoscenza) di una norma di legge extrapenale.
Ai sensi del comma 3 dell’art. 47 c.p. questo tipo di errore esclude la punibilità. L’errore sulla legge
extrapenale potrà riguardare tanto gli elementi normativi della fattispecie incriminatrice, quanto
quelli di natura normativa etico-sociale.

La disciplina dettata dall’art. 47 c.p. prevede, poi, un’ultima ipotesi, relativa al cosiddetto errore
sugli elementi specializzanti o differenziali tra fattispecie incriminatrici. Il comma 2, infatti, dispone
che l’errore sul fatto - che, ai sensi del comma 1, esclude la punibilità dell’agente - non esclude la
punibilità per un reato diverso.
In concreto, si possono prospettare tra diverse situazioni:
1. Se l’agente ignora, per errore, l’esistenza di un elemento della fattispecie concreta che rende
diversa e più diversa e più grave l’ipotesi delittuosa, deve applicarsi l’ipotesi meno grave.
(cosiddetto errore su un elemento aggravante o elevante).

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2. Ugualmente poco problematica la situazione relativa all’ignoranza di un elemento che rende
meno grave la fattispecie.
3. Molto più complessa, invece, l’ipotesi nella quale l’agente crede, sempre per errore, che nella
situazione concreta sia integrato un elemento che degrada la punibilità, che, cioè, porterebbe a
realizzare una meno grave fattispecie di reato.
Anche in assenza di una specifica previsione al riguardo, dovrebbe valere la regola dettata dal
codice all’art. 59, comma 4, c.p. in materia di erronea supposizione di una causa di esclusione della
pena. Solo tale soluzione, infatti, consente di rispettare appieno il principio di colpevolezza, dal
momento che tiene nel debito conto l’esigenza di punire in base ad un rimprovero del disvalore del
fatto che sia proporzionato al concreto atteggiamento doloso dell’agente.

Può avvenire che l’errore sul fatto sia frutto dell’inganno di una terza persona. In questo caso,
all’autore materiale del falso si applica l’art. 47 c.p. (egli, in sostanza, non potrà essere punito) ma,
ai sensi dell’art. 48 c.p. “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a
commetterlo”.
Per inganno si deve intendere qualsiasi condotta che abbia concretamente tratto in errore l’autore
materiale del reato: una menzogna, la produzione di un documento falso, o qualsiasi altro artificio.
L’art. 48 c.p. rinvia alla disciplina di cui all’art. 47 c.p. nel suo insieme; pertanto, qualora il soggetto
ingannato abbia tenuto la condotta criminosa per essere stato tratto in inganno, ma gli si possa
rimproverare di non aver utilizzato tutta la diligenza che l’ordinamento impone ai soggetti che
svolgono quel tipo di attività, egli risponderà del fatto a titolo di colpa, sempre che tale imputazione
soggettiva sia prevista per quel delitto.

Ai sensi dell’art. 49, comma 1 c.p. “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato,
nella supposizione erronea che esso costituisca reato”. L’art. 49, comma 1, c.p. descrive un errore
del soggetto ma speculare ed inverso a quello di cui agli artt. 5 e 47, comma 1 e 3, c.p.: il soggetto,
infatti, non ritiene, per errore che manchi un elemento del fatto tipico, o una norma giuridica che
rende penalmente rilevante il suo comportamento; al contrario, l’erronea rappresentazione attiene
proprio alla presunta putativa commissione di un fatto di reato.

Come detto a proposito dell’oggetto del dolo, la coscienza dell’illiceità penale del fatto non deve
essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell’agente. Ma quale disciplina detta, il
nostro codice, nei confronti di un soggetto che ignora l’esistenza di una legge penale, o cade in
errore sui limiti o sulla corretta interpretazione di una fattispecie incriminatrice?
L’originaria formulazione dell’art. 5 c.p. prevedeva un’assoluta ed invincibile presunzione di
conoscenza (o meglio, conoscibilità) della legge penale, in virtù della quale nessuno può invocare a
propria scusa l’ignoranza della legge penale.

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Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ed il conseguente, progressivo affermarsi
del principio di colpevolezza, si è manifestata con sempre maggior peso l’esigenza di contemperare
il principio ignoranti legis non exscusat, con la necessità di non punire soggetti nei confronti dei
quali, in virtù dell’impossibilità di conoscere il precetto penale, non è possibile muovere alcune
rimprovero.
Si parla di “buona fede nelle contravvenzioni”, cioè di quell’atteggiamento psicologico in virtù
del quale il soggetto agente ha, si, violato la norma penale, ma con la verosimile e non
rimproverabile consapevolezza di agire in maniera lecita.
Pertanto, si tratta di un orientamento che, limitato alle sole contravvenzioni, richiede, oltre alla non
conoscenza della norma penale, un elemento ulteriore, positivo, che giustifichi l’errore sulla legge
penale, quale ad esempio, un atto della pubblica amministrazione o un parere dell’autorità preposta
all’attività disciplinata dalla norma penale.
La ricerca di un punto di equilibrio coerente, è stata oggetto di interventi della Corte costituzionale.
Il problema più delicato, aperto dalla fondamentale sentenza della Corte, attiene ai criteri di
valutazione dell’inevitabilità e dell’ignoranza della norma penale.
La Corte individua, innanzitutto, alcuni criteri cosiddetti oggettivi puri, che, cioè, rendono
impossibile la conoscenza della norma penale per tutti i consociati: l’assoluta oscurità del testo
legislativo nonché una sorte di marasma interpretativo da pare degli organi giudiziari.
Inoltre possono venire in rilievo i cosiddetti criteri misti, quali assicurazioni erronee di persone
istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni
dell’agente per lo stesso fatto.
Pertanto, criteri soggettivi puri, cioè che prendono in considerazione solo ed esclusivamente le
caratteristiche dell’agente, non possono essere presi in considerazione, a meno che, non si tratti di
reati di pura creazione legislativa, ed il soggetto abbia un’assoluta carenza di socializzazione.

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CAPITOLO XX - IPOTESI DI RESPONSABILITÀ ANOMALA

Il codice penale, nel delineare l’elemento soggettivo del reato, prevede una ulteriore forma di
responsabilità: “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente
coma conseguenza della sua azione od omissione” (art. 42, comma 3, c.p.).

Il legislatore italiano conferisce una specifica autonomia, negli art. 42 e 43 c.p. al delitto
preterintenzionale, che si verifica “quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o
pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.
I delitti espressamente qualificati come preterintenzionali sono un numero ristrettissimo; nel
codice compare soltanto l’omicidio preterintenzionale (art. 548 c.p.). Questo omicidio è figura
autonoma che si inserisce nell’ambito delle ipotesi di omicidio (collocandosi per gravità tra
l’omicidio doloso e quello colposo) e non costituisce una circostanza aggravante del delitto di
lesioni dolose previsto dall’art. 582 c.p.
Il nodo interpretativo centrale che pone il delitto preterintenzionale è costituito dal titolo effettivo di
imputazione dell’evento più grave di quello voluto.
Occorre premettere che detto evento non solo non deve essere voluto, ma nemmeno previsto e
accettato come probabile/possibile conseguenza del fatto colposo

La categoria dei delitti aggravati dall’evento di natura preterintenzionale verrà analizzata sia sotto il
profilo dell’imputazione soggettiva sia sotto quello della natura giuridica.
Il codice penale italiano dedica una specifica attenzione ad un’altra forma di errore, che si profila
durante l’esecuzione di un reato e che viene definito errore inabilità. Una prima ipotesi consiste
nell’errore che comporta la realizzazione di un evento diverso da quello voluto, disciplinato dall’art.
83 c.p., tradizionalmente definita aberratio delicti. La causa dell’errore non va ricercata in un
difetto di percezione della realtà. Dovendo trattarsi di reato non voluto per poter individuare un’
aberratio delicti occorre preliminarmente escludere il dolo eventuale. Se davvero l’evento diverso
non è investito dal dolo, l’art. 83 stabilisce che di esso il soggetto agente risponde a titolo di colpa,
sempre che il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo.

La seconda forma di reato aberrante è individuata dall’art. 82 c.p. e definita: aberratio ictus. Si
descrive in tal modo la situazione in cui l’autore di un reato realizza il fatto che realmente intendeva
compiere ma, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato colpisce una vittima diversa da
quella designata.
Si tratta di una situazione per certi aspetti analoga a quella costituita dal cosiddetto error in persona,
preso in considerazione marginalmente dall’art. 60 c.p. Nell’aberratio ictus la divergenza deriva da

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un errore nell’esecuzione, in un contesto in cui l’autore conosce benissimo l’identità del vero
bersaglio e non vuole colpire la vittima effettiva.
Il comma 1 dell’art. 82 c.p. precisa che il reo risponde come se avesse commesso il reato in danno
della persona che voleva offendere ma fa “salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e
attenuanti, le disposizioni dell’art. 60 c.p.”
Il significato effettivo di questa norma è controverso.
L’autore dell’aberratio ictus sarebbe chiamato a rispondere con le pene dei delitti dolosi per un fatto
che doloso non è: l’art. 82, comma 1 avrebbe la funzione di sanzionare con le pene dei reati dolosi
fatti che sarebbero realizzati solamente per colpa o, addirittura, in previsione di un mero rapporto di
causalità materiale (responsabilità oggettiva).
Per attutire la durezza di questa disciplina si propone, in via interpretativa, di subordinare
l’operatività dell’art. 82, comma 1 c.p. all’individuazione di un coefficiente colposo per evitare
problemi di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 27, comma 1 Cost. Si tratterebbe pur
sempre, comunque, di responsabilità anomala: il reato sarebbe sostanzialmente colposo ma verrebbe
punito con le pene del delitto doloso.

Non ha rilevanza, invece, una terza forma di aberratio, concernente il rapporto di causalità e definita
aberratio causae. L’espressione fa riferimento ad una particolare divergenza tra voluto e realizzato
che emerge nella fase esecutiva: un soggetto vuole realizzare un determinato evento ed
effettivamente lo cagiona ma attraverso un iter causale diverso da quello previsto.
Si ritiene che questa forma di errore nell’esecuzione non incida sull’elemento soggettivo e quindi la
responsabilità sia dolosa, essendo irrilevante che la causa dell’evento sia diversa da quella
programmata. Controversa è invece la soluzione di vicende, apparentemente simili alla precedente,
in cui l’autore del fatto cagiona effettivamente l’evento che voleva cagionare ma attraverso una
successione di condotte: di esse solo l'ultima determina realmente l’evento finale ma quando è posta
in essere il reo è convinto di aver già cagionato l’evento con la condotta precedente.

La definizione codicistica delle condizioni obiettive di punibilità è contenuta nell’art. 44 c.p. in


base al quale quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una condizione di
cui il colpevole risponde anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della stessa, non è da lui
voluto.
Si tratta di eventi naturalistici o giuridici, dai quali non dipende l’esistenza del reato ma è
condizionata la mera punibilità. Le condizioni dell’art. 44 c.p. sono obiettive dal momento che esse
non costituiscono l’oggetto di un giudizio di responsabilità ma rilevano giudizialmente.

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PARTE QUARTA - L’IMPUNIBILITÀ
CAPITOLO XXI -IMPUNIBILITÀ

L’impunibilità nel nostro codice la definisce all’art. 85 c.p. come “capacità di intendere e di
volere”.
La capacità di volere è l'attitudine ad autodeterminarsi, indirizzando i propri comportamenti verso
fini e obiettivi scelti consapevolmente.
Naturalmente, la capacità di volere (che, inesorabilmente, presuppone la capacità di intendere) non
va intesa con il libero arbitrio assoluto, così come intendevano gli illuministi, dal momento che
l'uomo è per definizione soggetto a condizionamento di vario genere, quanto piuttosto come quella
relativa libertà di scegliere come agire e comportarsi, che consente di controllare le passioni e gli
impulsi.
Entrambi i requisiti devono essere presenti, perché un soggetto possa essere ritenuto imputabile, dal
momento che la mancanza di anche uno solo dei due renderebbe non rimproverabile il fatto
commesso, nonché inefficace la minaccia di pena, con la conseguenza che, in prospettiva generale
preventiva, non si deve punire chi non può comprendere correttamente la realtà esterna e non è in
grado di compiere scelte autodeterminate.
L’art. 85 c.p. chiarisce esplicitamente che la capacità di intendere di volere deve essere presente al
momento del compimento di fatto, perché questo costituisce il riferimento temporale rispetto al
quale domandarsi se il soggetto fosse in grado di comprendere e volere i propri comportamenti
(criminosi).
Inoltre, l’imputabilità deve essere accertata proprio con riferimento al reato commesso. Può infatti,
accadere che, nel medesimo istante, un soggetto sia in grado di percepire il disvalore del proprio
comportamento rispetto ad un fatto e non ad un altro.

Minore di età : Il diritto penale, necessità, nel rispetto del principio di legalità, di indicazioni e di
termini tassativi precisi, che consentono di individuare con certezza quando, cioè a partire da quale
età, un minore debba rispondere penalmente dei propri atti. Per dar conto di questa esigenza, il
nostro codice penale individua tre diverse fasce di età, e per ciascuna di esse definisce regole
diverse.
Al di sotto dei 14 anni, infatti, vige ai sensi dell’art. 97 c.p. una presunzione assoluta ed invincibile
di non imputabilità.
Al di sopra dei 18 anni vige, invece, una presunzione, egualmente invincibile, ma di segno
contrario: il maggiorenne è sempre imputabile, e la capacità di intendere di volere potrà essere
esclusa solo dalla presenza di un’altra e diversa tra le cause indicate del vigente ordinamento
penale.

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Com’è ovvio, la fascia di età più delicata è quella tra i 14 e 18 anni, rispetto al quale il
conseguimento della capacità di intendere di volere può essere significativamente influenzata da
molteplici fattori.
Ebbene, proprio in virtù di tale difficoltà, l’art. 98 c.p. prevede che il giudice debba valutare caso
per caso la capacità di intendere di volere ci colui che commette un reato tra il 14 e i 18 anni di età.
Certo, quanto più si avvicina alla soglia dei 18 anni, tanto più eccezionale diventa il giudizio di non
imputabilità del minore.
Quanto agli esiti del giudizio, il codice vigente prevede che, se il minore è non imputabile, egli non
sia punibile, cioè non possa essere proposto a pena. Ma, se ritenuto socialmente pericoloso, potrà
essere sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario.
Se, invece, il minore tra 14 e 18 anni viene ritenuto imputabile, potrà essere sottoposto a pena,
diminuita sino ad un terzo.

Vizio di mente : Ai sensi dell’art. 88 c.p. infatti, chi si trovi, per infermità, in uno stato di mente tale
da escludere la sua capacità di intendere o di volere, non è imputabile.
La norma successiva prevede che se l'infermità produce uno stato mentale che non esclude del tutto,
ma scema grandemente la capacità di intendere di volere, il reo risponde per il reato commesso, ma
la pena sia diminuita.
Anche l'infermità di mente deve essere presente al momento del fatto, per esplicita previsione
normativa. Inoltre, essa deve aver casualmente influito sulla commissione del reato, alla quale il reo
deve essere stato determinato proprio a causa del vizio di mente.
Una prima delimitazione importante il concetto di infermità di mente, rilevante ai sensi degli artt.
88 e 89 c.p. è che essa può consistere anche in uno stato patologico di tipo fisico. Ciò distingue il
concetto di infermità, rilevante sullo stato mentale, da quello di infermità psichica, di cui all’art. 222
c.p. disciplina le modalità del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
L’infermità può essere anche non permanente, cioè può consistere in una patologia che regredisce,
purché non sia di così breve durata da non poter neppure assumere le forme di uno vero e proprio
stato patologico.

Assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti : La disciplina nel codice vigente in materia di


reati commessi sotto l'effetto di sostanze alcoliche e stupefacenti, è dettata dall’art. 85 c.p. che
imporrebbe di considerare non imputabile chi sia privo, al momento del fatto, della capacità di
intendere e volere.
Peraltro la disciplina codicistica attribuisce l'effetto di escludere l'incapacità solo a due situazioni
(ubriachezza o intossicazione di sostanze stupefacenti incolpevole; intossicazione cronica da
sostanze alcoliche o stupefacenti), mentre in tutte le altre ipotesi il soggetto autore di un reato viene
ritenuto imputabile, in virtù di una vera e propria finzione.

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Una prima situazione - che esclude l’imputabilità del soggetto - è quella dell'ubriachezza dovuta al
caso fortuito o forza maggiore. Si tratta di casi molto marginali.
Infine, se l'ubriachezza non è piena, ma la capacità di intendere e di volere è gradualmente scemata,
il comma 2 dell’art. 91 c.p. prevede che il soggetto imputabile ma la pena è diminuita.
È, invece, colposa l'ubriachezza di colui che, negligentemente, non controlla la quantità di alcol
ingerita. Peraltro, il rispetto di colpevolezza imporrebbe di punire a titolo di dolo l'omicida solo se
si è ubriacato con dolo, e se il fatto era quantomeno prevedibile.
Negli altri casi (ubriachezza dovuta a colpa; ubriachezza volontaria ma in assenza di qualsiasi
prevedibilità del fatto di reato può realizzato sotto l’effetto di sostanza alcolica stupefacente)
l’imprescindibile canone della colpevolezza imporrebbe una modifica legislativa, alla stregua della
quale, in virtù delle rimprovero mosso, fosse prevista la responsabilità del reo a titolo di colpa.
Il sistema descrive, poi due situazioni che, non solo non escludono l’imputabilità, ma aggravano la
pena, e possono portare all’applicazione di una misura di sicurezza.
Si tratta, in primo luogo, del caso di ubriachezza preordinata, cioè finalizzata al compimento di un
reato. In quest’ipotesi, non si pongono problemi di colpevolezza, dal momento che il reato
commesso dal soggetto ubriaco era già stato previsto e voluto al momento dell’assunzione della
sostanza alcolica o stupefacente.
La seconda circostanza aggravante è prevista dall’art. 93 c.p. e consiste nella cosiddetta ubriachezza
abituale, cioè, come esplicitamente definisce il codice, la situazione di colui che oltre ad essere
dedito all’uso di bevande alcoliche, è in stato frequente di ubriachezza.

Sordomutismo : L’art.96 c.p. introduce, tra le cause di esclusione dell’imputabilità, il


sordomutismo che abbia escluso la capacità di intendere di volere il soggetto, al momento del
compimento del fatto.
Il comma 2 della norma prevede che, se la capacità di intendere di volere è grandemente scemata, la
pena sia diminuita.
Il codice non distingue tra sordomutismo congenito ed acquisito. Pertanto, entrambi potranno
portare ad una declaratoria rilevante in tema di imputabilità.
Al contrario, colui che sia solo sordo o solo muto, non potrà beneficiare della previsione di cui
all’art. 96 c.p. e se dovesse essere ritenuto incapace di intendere e di volere a causa della propria
infermità fisica, si applicherebbe la disciplina di cui agli artt. 88 e 89 c.p.in materia vizio di mente.

Actio libera in causa : La disciplina dell'imputabilità si completa con la previsione di cui all’art. 86
c.p. in virtù del quale, se un soggetto si mette in stato di incapacità d'intendere di volere al fine di
commettere un reato o di prepararsi una scusa, non si applica l’art. 85 c.p. cioè viene ritenuto
pienamente imputabile.

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PARTE QUINTA - LE FORME DI MANIFESTAZIONE OFFESA
CAPITOLO XXII - REATO CIRCOSTANZIATO

Le circostanze sono elementi accidentali diversamente dagli elementi costitutivi, e la loro presenza
non è necessaria al fine dell'esistenza del reato, aggiungendosi ad una fattispecie criminosa già
costituita e incidendo sulla sua gravità comportando di regola una variazione della pena o una
modifica della procedibilità del reato.
La variazione della pena può essere :
- Quantitativa, quando, per esempio, alla pena applicabile al reato base deve aggiungersi un
quantum di pena della stessa specie o quando la legge prevede una cornice edittale autonoma;
- Qualitativa, quando la circostanza modifica la specie della pena.
Hanno un’ efficacia extra edittale: infatti la circostanza comporta una variazione del trattamento
sanzionatorio con superamento dei limiti edittali indicati dalle singole fattispecie incriminatrici.
Sono riconosciute due diverse funzioni agli elementi circostanziali :
- Le circostanze consentono di adeguare il trattamento sanzionatorio al reale disvalore del fatto
attraverso la previsione normativa di elementi capaci di incidere sulla gravità del reato o sulla
capacità a delinquere del soggetto, alla cui presenza viene collegata una modificazione della
risposta sanzionatoria.
- Alle circostanze viene riconosciuta anche la funzione di garanzia del principio di legalità, in
quanto descritto dalla legge consentono di realizzare l'adeguamento del trattamento sanzionatorio
alla gravità del reato senza lasciare questo compito alla discrezionalità del giudice.

Esistono le circostanze aggravanti, che comportano un aumento del trattamento sanzionatorio, e le


circostanze attenuanti, che invece prevedono una diminuzione della sanzione applicabile.
Le circostanze comuni, previste agli art. 61 (aggravanti), art. 62 (attenuanti) e art. 62-bis
(attenuanti generiche) sono potenzialmente applicabili a tutte le ipotesi di reato o ai reati con le
quali presentano una compatibilità strutturale.
Un’altra classificazione attiene alla tipologia della variazione di pena: circostanze ad effetto
comune, circostanze ad effetto speciale, circostanze autonome, circostanze indipendenti.
Le circostanze sono ad effetto comune quando la pena è aumentata o diminuita fino ad un terzo
(nel rispetto dei limiti di cui agli artt. 64-65 c.p.).
Ai sensi dell’art. 63, comma 3 c.p. sono circostanze ad effetto speciale quelle che comportano una
variazione di pena (aumento o diminuzione) superiore ad un terzo.
Sono circostanze autonome quelle in cui il legislatore stabilisce una pena di specie diversa; le
circostanze sono indipendenti quando la pena è determinata in misura indipendente rispetto quello
ordinaria entro una nuova cornice edittale.

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L’art. 70 c.p. definisce circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi,
l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo,
ovvero le condizioni e le qualità personali dell’offeso; sono circostanze soggettive quelle che
concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa, le condizioni e le qualità personali del
colpevole, o i rapporti fra il colpevole l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole.
Sono circostanze tipiche quelle in cui i elementi costitutivi sono descritti in materia tassativa dalla
norma. Sono invece circostanze indefinite quelle in cui l'individuazione degli elementi costitutivi è
rimessa alla discrezionalità del giudice.
Con la locuzione circostanze privilegiate (o anche blindate), nel giudizio di bilanciamento si
intende fare riferimento a quelle particolari ipotesi circostanziali di cui viene sempre garantita
l’applicazione.

Ai sensi del comma 1 dell’art. 59 c.p. ‘le circostanze che attenuano....la pena sono valutate a favore
dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”.
Con la riforma, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, le circostanze che aggravano la pena
sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute
inesistenti per errore determinato da colpa.

L’art. 60 c.p. introduce delle deroghe alla disciplina dell'imputazione delle circostanze nell'ipotesi di
errore sulla persona offesa dal reato.
Nel caso di errore sulla persona offesa dal reato non sono poste a carico dell'agente le circostanze
aggravanti che riguardano le condizioni qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e
colpevole. Ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, sono invece valutate a suo favore le
circostanze attenuanti.

Bisogna distinguere a disciplina del computo a seconda che vi sia in presenza di una sola
circostanza o di un concorso (omogeneo o eterogeneo) di circostanza.
In presenza di una sola circostanza è differente la modalità di computo della circostanza a seconda
della tipologia della stessa. In presenza di una circostanza ad effetto comune, l'aumento o la
diminuzione si opera sulla quantità di pena che il giudice applicherebbe se non concorresse alcuna
circostanza (pena base). Quando ricorre una sua circostanza gravante ad effetto comune la pena è
aumentata fino ad un terzo; la pena per la reclusione da applicare per effetto dell'aumento non può
superare gli anni 30. Quando ricorre una sola circostanza attenuante ad effetto comune, la pena è
diminuita fino a un terzo e alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da 20 a 24 anni.
In presenza di circostanze indipendenti o ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione di pena per
le altre circostanze non opera sulla pena base del reato ma sulla pena stabilita per le predette
circostanze.

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Il concorso di circostanze può essere omogeneo e eterogeneo a seconda che concorrano più
circostanze dello stesso o di diverso segno.
In caso di concorso the circostanza ad effetto comune, opera la regola contenuta nel comma 2
dell’art. 63 c.p. secondo la quale l’aumento o la diminuzione di pena va operata sulla quantità di
essa risultante dall'aumento o dalla diminuzione precedente.
In caso di concorso di circostanze ad efficacia speciale il comma 4 dello stesso articolo, stabilisce
che si applica solo la pena stabilita per la circostanza più grave, con la facoltà del giudice di
aumentarla fino ad un terzo nel rispetto dei limiti dell’art 64 c.p.
In caso di concorso di circostanza ad efficacia comune e speciale, opera la regola indicata nel
comma 3 dell’art. 63, secondo la quale l'aumento o la diminuzione operano sulla pena stabilita per
la circostanza ed efficacia speciale.

L'art. 66 c.p. individua i limiti degli aumenti di piena nel caso del concorso di più circostanze
aggravanti: la pena da applicare non può superare il triplo del massimo stabilito dalla legge, salvo
le ipotesi di circostanza ad effetto speciale. L’art. 67 c.p. individua i limiti di diminuzione della
pena nel caso di concorso di più circostanze attenuanti: la pena non può essere inferiore a 10 anni di
reclusione, se per il delitto la legge stabilisce la pena dell’ergastolo, per le altre pene la pena non
può essere applicata in misura inferiore ad un quarto.

II giudizio di bilanciamento assolve in pieno alla funzione di individualizzazione della pena al caso
concreto, ed è “un giudizio complessivo sintetico sulla personalità del reo e sulla gravità del reato”.
II giudice dovrà procedere ad una valutazione unitaria ed integrale dell'episodio criminoso, che
consenta il pieno rispetto dei principi di proporzione tra la pena da comminare e il fatto criminoso.

L'obbligatorietà della valutazione comparativa delle circostanze eterogenee garantisce la funzione
di adeguamento della pena al caso concreto, attraverso una valutazione integrale della personalità
del colpevole e dell'entità dei fatti realizzati.

II legislatore ha introdotto con sempre maggiore frequenza delle circostanze blindate a cui ha
riconosciuto un particolare privilegio nel giudizio di bilanciamento. La blindatura del giudizio di
bilanciamento può avere due contenuti alternativi: a base totale o base parziale. Nel primo caso si
verifica 1'esclusione della dichiarazione di prevalenza o di equivalenza delle circostanze attenuanti,
nella seconda alternativa invece viene preclusa al giudice la sola dichiarazione di prevalenza delle
circostanze attenuanti, rimanendo in pregiudicata la possibilità che le stesse siano valutate
equivalenti, con la conseguenza della vanificazione dell’aumento di pena riconnesso alla
contestazione dell’aggravante.
Rientra tra le circostanze blindate anche l'ipotesi della minore età : il privilegio però non ha
un’efficacia generale ma opera solo quando l'attenuante concorra con aggravanti che comportano la

!56
pena dell’ergastolo. Infatti il privilegio opera per una circostanza attenuante e non deriva da una
particolare disposizione di legge ma si deve ad una sentenza della Corte costituzionale.
La Corte si è limitata a stabilire che debba essere garantita la diminuzione della pena nel caso in cui
si verifica un concorso con circostanze che prevedono direttamente la pena dell’ergastolo: tale
possibilità non viola i principi di uguaglianza in quanto il giudice, nell'esercizio del suo potere
discrezionale, è in grado di determinare in ogni fattispecie concreta la pena più adeguata alle
condizioni oggettive e soggettive del fatto realizzatosi.

L'art. 62-bis c.p. contempla una particolare categoria di circostanze attenuanti indefinite, le
cosiddette attenuanti generiche: il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste dell’art.
62 c.p. può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da
giustificare una diminuzione della pena.
II legislatore è intervenuto a limitare la discrezionalità del giudice con due interventi di riforma.
Con la legge ex Cirielli vengono introdotte dalle tali limitazioni al riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche per alcune ipotesi di recidività.
Invece, con il decreto.-legge n. 92/2008 viene introdotto un ultimo comma all'et 62-bis c.p., in cui
Si afferma che “in ogni caso, l'assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato
non può essere, perciò solo posta a fondamento della connessione delle circostanze di cut. al primo
comma”.

Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole l’art.70 c.p. ricomprendere anche la recidiva,
disciplinata dall’art. 99 c.p. L'istituto della recidiva, oggetto di una profonda riforma (cd. ex
Cirielli), si caratterizza per la previsione di un aumento di pena in cui il soggetto dopo essere stato
condannato per un reato nel commetta un altro.
Esistono diverse forme di recidiva: recidiva semplice, recidiva aggravata e la recidiva reiterata.
1. Semplice: Ai sensi dell'art. 99, comma 1 c.p., chi è stato condannato per un delitto non colposo,
ne commette un altro può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere
per il nuovo delitto non colposo.
2. Aggravata: Il comma 2, dello stesso articolo, disciplina le diverse forme di recidiva aggravata,
in cui la pena può essere aumentata fino alla metà.
3. Reiterata: Il comma 4 dell’art. 99 c.p. disciplina la recidiva reiterata: se il recidivo commette
un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di recidiva semplice è della meta e,
nei casi della recidiva aggravata è di due terzi. II comma 5, dello stesso articolo, prevede
un’ipotesi di recidiva reiterata obbligatoria individuata attraverso un rinvio al catalogo di reati
per i quali è previsto un termine più ampio di durata nei termini di custodia cautelare: l'aumento
della pena recidiva è obbligatorio, e nei casi indicati al secondo comma, non può essere
inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto.

!57
La recidiva è infraquinquennale quando il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque
anni dalla condanna precedente.

In considerazione delle significative conseguenze in punto di disciplina, di ordine sostanziale e


processuale, applicabile, è importante comprendere quando ci si trovi di fronte ad una fattispecie
circostanziata e quando a reati autonomi.
Per quanto riguarda il regime di imputazione soggettiva, mentre gli elementi costitutivi della
fattispecie sono imputati di regola a titolo di dolo, gli elementi circostanziali sono imputati
indipendentemente a titolo di dolo o di colpa.
La compresenza di circostanze attenuanti e aggravanti comporta l'applicazione del giudizio di
bilanciamento disciplinato dall’art. 69 c.p.
Appare opportuno precisare che non esiste un criterio normativo in base al quale possa essere
stabilito con certezza quando ci si trovi in presenza di una circostanza o quando, invece, a un vero e
proprio elemento costitutivo. L'unico criterio che talvolta può dirsi decisivo è quello che fa
riferimento al rapporto di specialità: se tra le due fattispecie non viene un rapporto di genere ma di
incompatibilità-alternatività o di sostituzione di un elemento con un altro elemento, si può essere
certi che si sta di fronte ad un reato autonomo e non ad una circostanza.
Il principio di specialità opera, però, come criterio decisivo ai fini della distinzione tra reato
autonomo e circostanza solo in negativo, dal momento che in sua presenza rimangono valide
entrambe le soluzione.
In sintesi il criterio di specialità è necessario, ma non sufficiente ad individuare un'ipotesi
circostanziale, in quanto è necessario, allora, ricorrere a criteri suppletivi cui valore e meramente
indiziario.

Un primo indice, che potrebbe essere utilizzato è costituito dalle indicazioni ricavabili dal testo
della legge.
Indicativa dell’intentio legis potrebbe sembrare anche la rubrica, ove la fattispecie è espressamente
qualificata come circostanza: il richiamo alla rubrica della norma, non ha valore vincolante in
quanto solo dall'analisi del tipo di struttura della norma o della disciplina applicabile si possono
dedurre indicazioni sulla natura circostanziali, o meno, della fattispecie.
Poco probante è anche il criterio topografico, secondo il quale saremmo di fronte ad una circostanza
nel caso in cui l'ipotesi sia collocata della medesima norma e ad un reato autonomo nel caso
opposto. Altri elementi strutturali sono quelli inerenti alla tecnica di formulazione e di indicazione
della sanzione e del precetto. Nel primo caso si afferma che quando la fattispecie è descritta
attraverso un mero rinvio al fatto reato tipizzato in altra disposizione di legge, ci si trova in presenza
di una circostanza aggravante o attenuante. Nel secondo caso il criterio strutturale, indicativo delta

!58
natura autonoma o circostanziale della fattispecie, è rappresentato dalla modalità di determinazione
della pena.
Per reati aggravati dall'evento, si intendono quei delitti che subiscono un aumento della pena
quando si verifica un ulteriore evento dannoso o pericoloso oltre a quello che è richiesto per la loro
esistenza. All'interno della categoria possono essere distinte tre diverse tipologie.
- Nella prima forma l'evento aggravatore è voluto perché costituisce la realizzazione dello scopo o
getto del dolo specifico del reato base.
- Nella seconda forma di delitti aggravati dall'evento, è indifferente che l'evento aggravatore sia
voluto o non voluto dal momento che anche quando sia richiesta all'effettiva volizione
dell’evento, essa non produce conseguenze penalmente rilevanti.
- Nell'ultima categoria l’evento deve essere non voluto, perché altrimenti se fosse voluto
troverebbe applicazione la corrispondente ipotesi dolosa.

!59
CAPITOLO XXIII - DELITTO TENTATO

L'individuazione del momento consumativo è di estrema importanza, e varia a seconda delle


diverse categorie di reati.
I reati ad evento ad naturalistico si consumano nel momento nel quale si realizza 1'evento stesso.
Quando il compimento di un reato ad evento naturalistico avviene in ipotesi di predisposizione della
forza pubblica, non è sempre agevole distinguere tra consumazione e tentativo.
I reati di mera condotta istantanei giungono a consumazione quando si esaurisce la condotta
tipica, cioè quando l’agente compie l'ultimo atto che la realizza.
I reati permanenti, invece, giungono a compimento quando cessa la condotta criminosa descritta
dalla fattispecie.
Nei reati abituali, infine, la consumazione coincide con il compimento dell'ultimo fatto. Peraltro,
può succedere che lo svolgimento dell'attività criminosa non giunga a compimento. Ebbene, anche
in questi casi, pur in assenza della realizzazione di tutti gli elementi descritti dalla fattispecie
incriminatrice, l'ordinamento penale reagisce con una sanzione, dal momento che il fatto, pur se non
consumato, è rilevante sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo: il colpevole manifesta una certa
capacità criminale, indipendentemente dal fatto che, per ragioni che non dipendono dalla sua
volontà, l’iter criminis non sia giunto a compimento.
II tentativo è sanzionato con una pena significativamente ridotta rispetto alla corrispettiva ipotesi
consumata: l'ergastolo è sostituito con la reclusione non inferiore a 12 anni, mentre le altre pene
sono ridotte da un terzo alla metà.
In un sistema improntato il principio di legalità, un primo problema che si pone è quello di
individuare i presupposti normativi che legittimano l'inflizione di una pena a colui che non abbia
portato a termine la condotta o non abbia comunque realizzato l’evento. Le fattispecie
incriminatrici, infatti, descrivono sempre condotte compiute, o fatti realizzati: la norma che prevede
1'omicidio, infatti, punisce chi cagiona la morte di un uomo. Quando, invece, la punibilità del
tentativo sia estesa a tutte le fattispecie delittuose, come nel nostro ordinamento, è opportuno
introdurre una norma (art. 56 c.p.) che, combinandosi con le singole fattispecie incriminatrici dia
origine ad una nuova ed autonoma fattispecie criminosa: il delitto tentato.
La nuova fattispecie penale così individuata, pur se punita con una pena ridotta rispetto al fatto
consumato, non costituisce una mera circostanza attenuante, ma un'ipotesi di reato dotata di propria
autonomia. La questione più delicata attiene all'individuazione del momento dal quale è legittimo,
oltre che doveroso, punire il colpevole per un fatto che non è giunto a compimento.
Alcune vicende hanno introdotto la modifica dalla disciplina legislativa in materia di tentativo,
finalizzata, nelle intenzioni dei compilatori del codice del 1930, a punire chi ha intenzione di
uccidere.

!60
Si risponde a titolo il delitto tentato, solo se non si verifica la consumazione del reato. Si distingue,
a riguardo, tra tentativo incompiuto, nel quale la condotta non giunge a compimento, e tentativo
compiuto, ove l'agente porta a termine la condotta tipica descritta dalla fattispecie incriminatrice,
ma l'evento non si realizza.

Il primo dei due requisiti oggettivi positivi è l'idoneità degli atti. Gli atti sono idonei quando
probabile che, nell'ordinario svolgimento dei fatti che nel loro concatenarsi, porti alla consumazione
del delitto.
Con riferimento al punto di osservazione nel quale porsi, per valutare l'idoneità degli atti, vi è una
sostanziale convergenza di vedute: il giudice dovrà operare una cosiddetta prognosi postuma, cioè
collocarsi, idealmente, al momento nel quale la condotta di tenuta, per domandarsi se valutati ex
ante gli atti compiuti potevano portare alla consumazione del delitto. Qualsiasi valutazione ex post,
infatti, porterebbe sempre ad escludere l'idoneità dell'atto, dal momento che, nel tentativo, la
condotta non deve aggiungere a compimento o l'evento verificarsi.
Più complessa l'individuazione della base del giudizio che deve essere operato dal giudice. Al
riguardo, si contendono il campo due soluzioni: secondo una prima impostazione (base parziale) il
giudice deve prendere in considerazione solo le circostanze del fatto conosciute o conoscibili dal
reo. La valutazione a base totale, invece, tiene conto anche di quelle evenienze del fatto che, non
erano conoscibili dal reo o da un terzo estraneo, e sono state scoperte sono in seguito.

Più problematico l'accertamento del secondo elemento oggettivo positivo, alla stregua del quale si
risponde del delitto tentato solo se gli atti sono diretti in modo non equivoco a commettere un
delitto. II requisito, in sé, significa che gli atti devono portare a far comprendere di essere indirizzati
al compimento di una, e una sola, specifica ed individuabile fattispecie incriminatrice.
Secondo la teoria soggettiva, l’atto è inequivoco quando vi sia la prova dell'intenzione criminosa
dell’agente, desunta dalla confessione il colpevole.
Da tempo, la nostra migliore dottrina ha abbracciato una teoria cosiddetta oggettiva, in virtù della
quale gli atti possono ritenersi non equivoci solo se di per sé oggettivamente considerati, sono in
grado di rivelare l'intenzione criminosa del colpevole.
L'art. 115 c.p. impedisce di considerare punibile a titolo di tentativo ogni attività prodromica, non
solo quando si manifesti nelle forme dell’accordo o dell’istigazione ma, a maggior ragione, quando
si tratti di comportamenti monosoggettivi, che non raggiungono ancora la soglia dell’inizio
dell’attività punibile. L’art. 115 c.p., pertanto, prevedrebbe la non punibilità dell’accordo e
dell’istigazione quando non di raggiunga almeno la soglia del tentativo, intesa quale compimento di
un atto esecutivo.
L'unico titolo di imputazione soggettiva compatibile con il tentativo è il dolo.

!61
La prima, di carattere testuale e sistematica, si muove dalla rubrica dell’art. 56 c.p. ove, si può
parlare di delitto tentato. Vi è poi un ulteriore argomento, dal momento che la direzione non
equivoca degli atti, pur integrando, un requisito di carattere oggettivo, pare incompatibile con un
atteggiamento meramente colposo, caratterizzato dalla violazione di regole cautelari, rispetto alle
quali la consumazione del reato costituisce una mera rappresentazione contenuto esclusivamente
negativo.
Molto più problematica la questione della compatibilità del tentativo con tutte le forme di intensità
del dolo, ed in particolare con il dolo eventuale.
Una prima tesi, affermativa, sostenuta da autorevole dottrina e dalla giurisprudenza meno recente,
ritiene che vi sia sostanziale identità.
A questa prima affermazione si ribatte, da parte dei fautori della tesi negativa, che il delitto tentato
ha una sua piena e totale autonomia rispetto alla corrispondente fattispecie consumata, rendendo,
pertanto, del tutto verosimile che, anche dal punto di vista dell'imputazione soggettiva, possano
valere regole diverse.
L'attuale orientamento giurisprudenziale che esclude la rilevanza del dolo eventuale, tende, peraltro,
a salvaguardare le esigenze di prevenzione generale attraverso un allargamento della sfera di
operatività del dolo diretto.

Si è già detto che il nostro ordinamento prevede e punisce solo il tentativo del delitto. Sono pertanto
esclusi i delitti colposi nonché le contravvenzioni.
La configurabilità del tentativo, nelle fattispecie omissive improprie, è, in astratto, del tutto
pacifica: colui che, gravato da un obbligo giuridico, pur potendo agire, non si attivi per impedire il
realizzarsi di un evento, ne risponde a titolo di tentativo a partire dal momento nel quale ha violato
l'obbligo di agire, qualora l'evento venga evitato dall'intervento di una terza persona, o da altri
fattori indipendenti dalla sua volontà.
Non vi è univocità di veduta, sulla possibilità di integrare il tentativo di una fattispecie omissiva di
mera condotta, che si consuma con la violazione dell'obbligo di agire. Una prima posizione tende ad
escludere questa possibilità dal momento che il reato omissivo prevede sempre un termine.
Altri autori, invece, ritengono che il soggetto gravato dall’obbligo di agire possa rispondere a titolo
di tentativo se, pur non essendo ancora spirato il termine per adempiere, abbia tenuto una condotta
idonea e diretta in modo non equivoco a porsi nell'impossibilità di adempiere. Verosimilmente,
questa seconda soluzione è proponibile solo quando la fattispecie incriminatrice omissiva propria
descrive un termine temporale di durata.
La compatibilità dei reati di pericolo, si distingue per situazioni differenti: per quanto concerne i
reati di pericolo astratto, non pare legittimo anticipare in maniera tanto rilevante la punibilità.
Nella fattispecie di pericolo concreto, ove il pericolo è l'evento del delitto, caratterizzante da un
evento intermedio, non paiono ravvivarsi ostacoli di ordine strutturale a punire chi appicchi il

!62
fuoco, immediatamente spento dal tempestivo arrivo dei pompieri, se la condotta era idonea a
mettere a repentaglio 1'incolumità pubblica.
Quando la legge prevede che la pena sia aumentata o diminuita in presenza di un certo fatto, intendi
fatto storico, penalmente rilevante, sia consumato che tentato, alcune circostanze, sia attenuanti che
aggravanti, preesistono al momento del compimento del fatto. In questi casi, se l’agente risponde a
titolo di tentativo, le circostanze, se presenti al momento del fatto, producono effetto sulla pena, che
in concreto il giudice infliggerà al reo. Più complessa, invece, la questione, quando la circostanza
sarebbe venuta ad esistere solo nell'ipotesi che il reato fosse giunto complimento. In questi casi, il
rispetto del principio di legalità impone di non tener conto della circostanza, dal momento che esso
non si p ancora realizzato, quanto l’iter criminis si interrompe.

In una prospettiva premiale, tesa ad incentivare il reo ad interrompere la condotta criminosa, o ad


eliminarne gli effetti dannosi, gli ultimi due commi dell'art. 56 c.p. prevedono rispettivamente la
desistenza volontaria ed il recesso attivo.
Il primo dei due istituti è una causa (personale e sopravvenuta) di non punibilità in senso stretto,
cioè motivata da ragioni di opportunità in virtù della quale, colui che intraprende la commissione di
un reato, ed avendo già integrato la soglia degli atti idonei e diretti in modo non equivoco, desiste
volontariamente la sua azione, va esente da pena. Ciò che caratterizza la resistenza volontaria è che
il colpevole arresta l’iter criminis quando ancora la condotta non è giunta a termine, cioè quando
egli ha ancora un dominio sulla situazione tale da poter impedire, se interrompe l’azione, che il
delitto giunga a consumazione. Si tratta, peraltro, di un causa di non punibilità sopravvenuta del
solo delitto tentato, per cui l'agente potrà essere chiamato a rispondere per quegli atti che abbiamo
già consumato una diversa fattispecie incriminatrice.
L'aspetto delicato attiene alla valutazione della volontarietà della desistenza. Al riguardo occorre
precisare che l'ordinamento non richiede assolutamente una qualche forma di pentimento morale.
Pertanto, la causa di non punibilità di cui all’art. 56, comma 3 c.p. si applica anche se l'agente
ritorna sui suoi passi solo perché reputa più conveniente tornare a compiere il delitto programmato
in un momento più opportuno. Ai sensi dell'ultimo comma, colui che, sempre volontariamente,
impedisce l'evento, è soggetto alla pena del delitto tentato, significativamente ridotta. Nel recesso
attivo a differenza di quanto avviene con la desistenza volontaria, l'azione ha esaurito i suoi effetti, e
giunta a compimento.

!63
CAPITOLO XXIV - CONCORSO DI PERSONE NEL REATO

Come ogni attività umana, anche il reato può essere il risultato della cooperazione di più persone;
così anche il reato commesso in concorso da più persone deve essere considerato opera di tutte. II
concorso di persone nel reato regola appunto questa situazione e coloro che collaborano alla
realizzazione del reato prendono il nome di concorrenti o compartecipanti.
II concorso di persone si distingue in concorso eventuale e concorso necessario. Nel concorso
eventuale la pluralità dei concorrenti non è un elemento costitutivo del reato, che può di per sé
essere commesso anche da sola persona. II concorso eventuale si contrappone cosi al concorso
necessario dove la pluralità degli attori è invece elemento costitutivo di fattispecie.
Per estendere la responsabilità penale a questi soggetti potrebbe essere utilizzata una nozione
estensiva di autore, comprensiva non solo di chi tiene la condotta tipica descritta nella fattispecie
incriminatrice, ma anche di tutti coloro che contribuiscono alla sua realizzazione. In un sistema a
legalità formale, ancorato ai principi di determinatezza e tassatività della fattispecie penale, non può
essere accolta la nozione estensiva di autore, che determina una indebita applicazione della
fattispecie a casi da questa non espressamente previsti: autore del reato può, quindi, essere solo chi
tiene la condotta tipica descritta nella fattispecie di parte speciale (nozione restrittiva di autore).
In un sistema penale improntato sul principio di legalità, una volta accolta la nozione restrittiva di
autore, le norme sul concorso di persone (art. 110 ss. c.p.) svolgono una funzione di incriminazione,
nel senso che rendono penalmente rilevanti condotte che non lo sarebbero in forza della fattispecie
monosoggettiva di parte speciale.
In alcuni casi, però, le norme sul concorso di persone svolgono esclusivamente una funzione di
disciplina. Nei casi in cui ognuno dei concorrenti tenga per intero la condotta tipica, la rilevanza
penale delle condotte è già data dalla fattispecie monosoggettiva.
I sistemi penali disciplinano il concorso di persone secondo modi diversi che privilegiano ora la
determinatezza della descrizione del contributo concorsuale, ora l'esigenza di evitare lacune in
tutela.
Un primo modello è costituito dalla tipizzazione differenziata dei diversi contributi concorsuali con
la predeterminazione di diverse cornici edittali in relazione all’importanza della tipologia di
contributo. In una prospettiva diversa si è mosso, invece, il codice Rocco, improntato ad un
modello unitario, va chiarito però, che il codice Rocco non costituisce un modello unitario paro, nel
quale tutti i contributi concorsuali sono equivalenti ed equiparati sul piano della risposta
sanzionatoria. L'art. 110 c.p. infatti, nel momento in cui prevede che a tutti i concorrenti si
applicano, indistintamente, le pene stabilite per il reato commesso, salve le disposizioni degli
articoli seguenti che, attraverso il meccanismo delle circostanze aggravanti (art. II I-112 c.p.) e
attenuanti (art. 114 c.p.) considerano il diverso apporto dato alla commissione del reato agli effetti

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della pena. In altri termini, il codice sposta la differenziazione dei contributi dalla sede della
tipizzazione legislativa a quella della commisurazione giudiziale della pena.

Parte della dottrina (tedesca), ricorre alla teoria dell'accessorietà, secondo la quale la punibilità del
contributo atipico (fatto accessorio) si giustifica in quanto accede alla condotta dell'autore che
pone in essere il fatto tipico (fatto principale).
Parte autorevole della dottrina italiana accoglie la teoria dell'accessorietà basandosi in particolare
sull’art. 115 c.p. che prevede la non punibilità dell'accordo e l'istigazione quando agli stessi non sia
seguita la commissione del reato: accordo e istigazione costituiscono, pertanto, forme di contributo
concorsuale a condizione che un terzo realizzi il fatto tipico. Tuttavia, il suo accoglimento è andato
incontro ad una serie di obiezioni.
In primo luogo, la teoria dell'accessorietà non si concilia con la cosiddetta esecuzione frazionata
che si presentano nei casi in cui nessuno dei concorrenti pone in essere per intero il fatto tipico, ma
ne realizza una parte. Un diverso modello teorico è stato proposto dai sostenitori della fattispecie
plurisoggettiva eventuale. Si sostiene che nel concorso di persone non deve essere ricercato il
rapporto di accessorietà tra le condotte del partecipante e dell’autore, in quanto la tipicità dei
contributi concorsuali deve essere valutata alla luce della fattispecie che nasce dall'incontro tra l'art. 110
c.p. e le singole fattispecie incriminatrici di parte speciale.
Un’obiezione rivolta alle teorie dell'accessorietà e della fattispecie plurisoggettiva eventuale sta nel fatto
che entrambe richiedono l’unicità del reato di cui tutti concorrenti rispondono, mentre può accadere che
diversi concorrenti rispondono di uno stesso fatto materiale, ma sulla base di diverse imputazioni
soggettive, chi per dolo chi per colpa.
Parte della dottrina ha proposto la teoria delle fattispecie plurisoggettive differenziate, sostenendo che il
concorso di persone dal luogo ad una pluralità di reati, tanti quante sono le condotte concorsuali.

II concorso di persone richiede la presenza di quattro requisiti: la pluralità degli agenti, la


realizzazione di una fattispecie di reato, il contributo concorsuale, un particolare elemento
soggettivo.

Affinché vi sia una pluralità di concorrenti ne sono sufficienti due. Non tutti i concorrenti, però, devono
essere anche punibili: 1'ultimo comma dell’art. 112 c.p. prevede che le circostanze aggravanti previste
si applicano anche se taluno dei partecipanti al fatto non è imputabile o non punibile.
È sufficiente che attraverso la cooperazione plurisoggettiva il fatto concreto riproduca tutti gli elementi
della fattispecie astratta. Può trattarsi di un reato consumato del delitto tentato. E quindi ammesso il
concorso in un tentativo, mentre non è punibile il tentativo di concorso, ossia il fatto di tentare, senza
riuscirci, di concorrere in un reato: lo si desume dall’art. 115 c.p. che prevede la non punibilità
dell'accordo e all’istigazione se agli stessi non segue la commissione del reato.

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Contributo concorsuale : Per rispondere a titolo di concorso è indispensabile l’apporto di un
contributo da parte di ciascun concorrente. È proprio questo punto che si gioca la tenuta di due
fondamentali principi costituzionali in ambito concorsuale: il principio di legalità e il principio della
responsabilità per fatto proprio.

In relazione al tipo di contributo si distingue tra concorso materiale, che si esplica sul piano oggettivo
della preparazione dell’esecuzione del reato, e concorso morale che consiste in un contributo di
carattere psichico di determinazione o rafforzamento del proposito criminoso.

Nel contributo materiale si distinguono:


a) L’autore: che realizza per intero il fatto tipico;
b) Il coautore: se più soggetti realizzano gli elementi della fattispecie incriminatrice;
c) Il complice: che da un contributo oggettivo alla realizzazione del fatto in fase preparatoria.
In ambito concorsuale la causalità condizionalistica l'unico criterio in grado di garantire il rispetto dei

principi di legalità e di responsabilità per il fatto proprio.
Anzitutto, va definito il secondo termine del rapporto causale: non e l’evento, come nella causalità, ma
il ratio di reato, poiché il concorso di persone e ipotizzabile rispetto qualsiasi reato, sia esso di evento di
pura condotta.
Nei reati permanenti il contributo concorsuale può essere prestato anche in epoca successiva alla
prefazione del reato, sino a che perdura la permanenza.
In conclusione, la casualità condizionalistica va mantenuta fermamente come unico criterio in
grado di delimitare il contributo concorsuale materiale atipico e svolge in ambito concorsuale una
duplice funzione: da un lato criterio di imputazione del fatto di reato e sotto questo profilo
garantisce il rispetto del principio di responsabilità per ratio proprio; dall'altro esercita la
fondamentale funzione di tipizzazione del contributo di partecipazione, contribuendo, nell'assenza
di indicazioni legislative, a garantire anche in ambito concorsuale il rispetto dei principi di riserva
di legge e di determinatezza della fattispecie penale.

II contributo morale consiste in una inflizione psichica e si presenta nella forma della
determinazione, quando si fa sorgere un proposito criminoso prima inesistente, o dall’istigazione,
quando si rafforza un proposito già presente. Costituiscono forme di determinazione o di
istigazione anche l’accordo, quando chi vi partecipa non prenda poi parte alla preparazione o
esecuzione del reato, e il consiglio. Anche il contributo morale richiede un accertamento rigoroso
della causalità psichica: cioè è necessario accertare che l'istigatore abbia influito sulla volontà di
istigato, determinando o rafforzando il proposito criminoso che si è poi tradotto nella commissione
di un reato.

A fronte delle difficoltà di accertamento della causalità psichica, la giurisprudenza ha talvolta
ripiegato su un giudizio di prognosi postuma.

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È possibile concorrere in un reato anche attraverso la condotta omissiva, nei reati omissivi propri
possono rispondere della condotta omissiva coloro che abbiano l'obbligo di intervenire per effetto,
dalla situazione tipica, come nel caso di pin persone che, trovando una persona in pericolo,
omettono di prestare soccorso.
Negli altri reati è possibile concorrere attraverso una condotta omissiva solo se sussiste un obbligo
giuridico di impedire che altri commettano il reato: è quindi necessario che chi commette sia
titolare di una posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento di reati commessi da terzi.
Orbene, le posizioni di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato commesso da terzi sono
riducibili a quelle di protezione e di controllo.
All'art. 40 cpv. c.p. il termine "evento" assume significato diverso nel contesto di realizzazione ora
monosoggettiva ora plurisoggettiva del reato, nel primo caso va inteso in senso naturalistico, nel
secondo giuridico. II concorso mediante omissione va distinto dalla semplice connivenza
consistente nella condotta di chi, non essendo titolare di una posizione di garanzia, non interviene
dinanzi alla commissione di un reato.

Tra i requisiti del concorso di persone è necessario un particolare dolo di partecipazione. Non è
richiesto un previo accordo dai concorrenti. II dolo di partecipazione richiede invece la sussistenza
di due requisiti:
a) rappresentazione e volontà del fatto di reato;
b) rappresentazione e volontà di concorrere con altri della commissione del reato.
Nei reati a dolo specifico non è necessario che tutti concorrenti agiscano con la particolare finalità
di richiesta della fattispecie incriminatrice, ma è sufficiente che nessuno compartecipe abbia tale
finalità purché gli altri ne siano consapevoli.
Discussa è la rilevanza penale della condotta di chi induce taluno a commettere un reato al fine di
assicurare il colpevole alla giustizia (agente provocatore). Va detto che nella prassi l'agente
provocatore costituisce una figura recessiva, mentre maggiore importanza ha acquisito la figura
dell’infiltrato che realizza operazioni sotto copertura stessi nell'ambito delle indagini contro la
criminalità organizzata: sebbene l'infiltrato realizzi condotte conformi a fattispecie incriminatrici, la
sua non punibilità espressamente prevista, a determinate condizioni, dalla legge.

II codice affida al giudice il compito di differenziare le pene tra concorrenti in relazione alla
tipologia del contributo di partecipazione attraverso la previsione di circostanze aggravanti e
attenuanti.
L’unica circostanza che non prende in considerazione la posizione del singolo concorrente
costituita dalla gravante ad effetto comune applicabile se il numero di concorrenti non inferiore a
cinque.

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La circostanza è applicabile salva se la legge disponga altrimenti. Le circostanze aggravanti si
applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non punibile. Le circostanze
attenuanti sono previste all'art. 114 c.p. e sono efficacia comune e facoltative. Alcune descrivano
situazioni speculari alle aggravanti: la pena può essere diminuita perché stato determinato a
commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite.
Particolare importanza riveste la circostanza attenuante della minima importanza che focalizza il
giudice a diminuire la pena, se 1'opera prestata da taluna delle persone che sono concorsi nel reato
abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato.
L'importanza del contributo viene valutata nell'ambito della interazione tra le condotte dei
concorrenti, allora l'attenuante potrebbe godere di maggiore considerazione in sede applicativa: si
dovrebbe considerare la marginalità del ruolo di un compartecipe rispetto a quello degli altri.
La disciplina delle circostanze in ambito concorsuale soggiace a regole specifiche. Anzitutto,
poiché nel reato realizzato in forma plurisoggettivo possono essere presenti circostanze aggravanti
attenuanti, l’art. 118 c.p. disciplinare loro estensione ai concorrenti.
All'art. 116 c.p., rubricato reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti: qualora il reato
commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se
l'evento conseguenza delta sua azione omissione.
A mitigare la disciplina del cosiddetto concorso anomalo interviene sull'applicazione di una
circostanza attenuante obbligatoria ad effetto comune se il reato commesso più grave di quello
voluto. Stando alla lettera della norma, affinché il concorrente che non volle il reato diverso ne
risponda, è necessario che vi fosse un accordo per la commissione di un reato e che il reato diverso
sia stato realizzato con dolo da parte di (almeno) uno degli altri concorrenti. Questa forma di
concorso anomalo richiede altresì il nesso di causalità, tra la condotta del concorrente e di reato
diverso. Infine è necessaria la non volizione del reato diverso, perché se il concorrente fosse in
dolo, rispetto al reato diverso realizzato, ne dovrebbe rispondere in applicazione della disciplina
generale dell’art. 110 c.p.
Stando alla lettera della norma, l'unica possibilità di escludere la responsabilità penale risiede nella

interruzione del nesso causale tra la condotta del concorrente ed il reato diverso non voluto.
Come l'imprenditore della Costituzione, il contrasto di questa disciplina con l'art. 27, comma 1
Cost. appariva insanabile, in quanto l'imputazione del reato diverso avveniva su basi meramente
oggettive. Fu inevitabile che venisse sollevata la questione di legittimità costituzionale per
violazione dell’art. 27, comma 1 Cost., la Consulta la dichiarò non fondata con una sentenza
interpretativa di rigetto. Sostenendo che la norma costituzionale impone un messo di imputazione
soggettiva, accanto al nesso di causalità materiale. La Corte ha richiesto l'accertamento di un nesso
di causalità psichica. Con questa sentenza interpretativa l’art. 116 c.p. è stato arricchito dal requisito
della prevedibilità del reato diverso realizzato. Al riguardo sono state prospettate due soluzioni.

Un primo orientamento, facendo leva sul richiamo della Consulta alla prevedibilità logica, si

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espresso a favore della prevedibilità in astratto. Un secondo orientamento interpretativo richiede
invece l'accertamento della prevedibilità in concreto. Tra le due letture del requisito della
prevedibilità va accolta la seconda, in quanto il criterio della prevedibilità in astratto rischia di
mascherare un’ imputazione oggettiva del reato diverso. La prevedibilità in concreto costituisce
l'unico requisito in grado di garantire il rispetto del principio di colpevolezza.
Può concorrere nel reato proprio anche chi (extraneus) non possiede la qualifica personale richiesta
dalla legge come elemento costitutivo del fatto tipico, a condizione che, in applicazione dei principi
generali sulla responsabilità concorsuale sia colpevole chi concorre con il soggetto titolare della
qualifica (intraneus).
Non è invece necessario che sia l’intraneus a tenere la condotta tipica. Ad una diversa conclusione
si deve invece prevenire laddove sia l'offesa al bene giuridico tutelato a richiedere che l’intraneus
tenda la condotta tipica (cosiddetti reati di mano propria).
Allo stesso modo è l'indagine sul bene giuridico tutelato a decidere se sia necessario che l’intraneus
sia in dolo.
L’art. 117 c.p. disciplina una particolare ipotesi di concorso in reato proprio, ossia quella nella quale
la qualifica personale determina il mutamento del titolo di reato per taluno dei concorrenti: il fatto
costituisce reato anche in assenza della qualifica (reato comune), ma il titolo del reato muta se è
presente la qualifica (da reato comune a reato proprio).
Ebbene in questi casi l’art. 117 c.p. dispone: se per le condizioni o le qualità personali del
colpevole, o per i rapporti tra il colpevole l’offeso, muta il titolo di reato per taluno di coloro che vi
sono concorsi, anche gli altri rispondo dello stesso reato.
Ci troviamo di fronte ad un caso di responsabilità oggettiva, perché è imputata oggettivamente la
qualifica dell’intraneus anche ai concorrenti che non erano conoscenza.

L’art. 119 c.p. disciplina gli effetti delle circostanze di esclusione della pena in caso di concorso di
persone nel reato.
Lo stesso articolo dispone che quelle soggettive che escludono la pena per taluno di coloro che sono
concorsi nel reato si applicano alla persona cui si riferiscono, mentre quelle oggettive si estendono a
tutti concorrenti.
Le cause oggettive che escludono la punibilità sono le cause di giustificazione: queste, infatti,
facendo venire meno il profilo oggettivo del reato, operano nei confronti di tutti concorrenti.
Sono, invece, cause soggettive di esclusione della pena le scusanti, che escludono la colpevolezza,
le cause che escludono l’imputabilità, e le cause personali di non punibilità.
Il concorrente può desistere dalla partecipazione, ma l'applicazione della causa sopravvenuta di non
punibilità del tentativo presenta profili problematici nell'ambito del concorso di persone. Se è il caso
di commissione del reato in forma monosoggettiva è sufficiente che l'autore del delitto tentato
desiste volontariamente all’azione, in presenza di una compartecipazione il concorrente non può

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limitarsi ad abbandonare volontariamente l'azione criminosa concordata, in quanto la sua condotta
ha già interagito con quella degli atti concorrenti nell'ambito della preparazione o dell'inizio
esecuzione della condotta.
L’art. 113 c.p. disciplina la cooperazione nel delitto colposo, stabilendo che nel delitto colposo,
quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace
alle pene stabilite per il delitto stesso. Anche nella cooperazione del delitto colposo sono necessari i
requisiti generali di struttura del concorso di persone della pluralità degli agenti della realizzazione
di una fattispecie di reato. Presentano invece profili specifici l'elemento soggettivo del contributo di
partecipazione.
Con riferimento all’elemento soggettivo, trattandosi di cooperazione in un delitto colposo, è
necessario che concorrenti non vogliano fatto di reato, ma abbiano la consapevolezza dell’altrui
partecipazione, ossia che la propria condotta converge comprare gli altri.
Questo elemento soggettivo fa da collante tra i diversi contributi concorsuali e consente di
differenziare la cooperazione nel delitto colposo dal concorso di fattori colposi indipendenti.
Sia nella cooperazione nel delitto colposo che nel concorso di fattori colposi indipendenti gli autori
delle condotte rispondono nel delitto colposo, ma nel primo il reato e unico ed è realizzato in forma
concorsuale, nel secondo invece sussistono tanti reati quante sono le condotte colpose, accomunate
dalla causazione di un unico evento.
Poiché il concorso di persone disciplina la compartecipazione di più soggetti non fatto di reato, non
vi sono ostacoli di natura dogmatica a prospettare diversità di imputazione soggettiva tra i
concorrenti.
Il concorso di persone viene distinto in concorso eventuale e concorso necessario: nel primo la
realizzazione informa plurisoggettiva costituisce andato eventuale, in quanto la fattispecie
incriminatrice è descritta dal regista settore in forma soggettiva.
Nel concorso necessario, invece, è la stessa legge a prevedere come elemento costitutivo di
fattispecie la pluralità dei soggetti attivi. Anche reati a concorso necessario vanno estese regole di
disciplina previste con il concorso eventuale, a meno che la fattispecie incriminatrice non prevede
regole proprie che trovano applicazione in quelle generali.
La legge può prevedere fattispecie che incriminano il semplice accordo (reati-accordo). In una
fattispecie legislatore legislatore incrimina il semplice incontro di volontà tra più persone finalizzato
alla commissione di un reato.
Rispondono ad un'analoga esigenza di anticipazione della tutela i reati associativi, nei quali il
legislatore incrimina la costituzione di una struttura associativa finalizzata a commettere delitti.
Nei reati associativi il registratore incrimina il solo fatto di associarsi in vista della realizzazione del
programma criminoso: a differenza del reato-accordo in questa fattispecie è necessaria la
costituzione di un’associazione.

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Gli associati rispondono del reato associativo indipendentemente dalla commissione dei delitti-
scopo: anche se il programma criminoso non viene attuato, costituisce reato il fatto stesso di aver
formato un organismo associativo finalizzato perseguirlo. La condotta di associazione, consiste nel
svolgere un ruolo all'interno dell’organizzazione. Rispetto reato associativo, ci si chiede se le norme
in concorso di persone possono svolgere una funzione incriminatrice, ossia se consentono di
estendere la punibilità rispetto a condotte che, non integrando la condotta di partecipazione, diamo
comunque un contributo alla vita dell’associazione: si tratta del cosiddetto concorso esterno.

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PARTE SETTIMA - IL SISTEMA SANZIONATORIO
CAPITOLO XXVII - FUNZIONI DELLA PENA

Il diritto penale partecipa alla funzione di controllo sociale al pari degli altri istituti di
socializzazione in forza della sua capacità di influire sulle condotte umane tramite norme che
impongono divieti o comandi. Nel diritto penale, le sanzioni sono costituite dalle pene. A differenza
di altre sanzioni presentano carattere afflittivo, ossia si traducono nella privazione o limitazione
dei diritti.
Al carattere afflittivo delle pene si accompagna il loro personalismo, che trova un espresso rilievo
costituzionale nell’art. 27, comma 1 Cost.: la responsabilità penale personale fonda non solo la
necessità che il reato sia assistito da coefficienti soggettivi minimi che assicurino la responsabilità
per fatto proprio colpevole, ma anche la dimensione personale della pena che si traduce in una serie
di connotati della sanzione penale.
Il personalismo della pena e, in primis, la sua capacità di incidere sui fondamentali dell’individuo,
danno ragione della previsione di garanzie sostanziali e processuali da forzate rispetto a quelle che
caratterizzano l'applicazione di altre sanzioni.
Tradizionalmente nel dibattito sulle funzioni della pena si contrappongono le teorie assolute alle
teorie relative della pena. Secondo le teorie assolute, l’inflizione della sanzione a seguito della
commissione di un reato si giustifica di per sé, per il semplice fatto che il reato è stato commesso
dell'autore risulta responsabile. Secondo le teorie relative, la pena si giustifica in relazione allo
scopo di prevenire la commissione di reati, ora rivolgendosi alla generalità dei consociati affinché
commettano reati, ora all'autore del reato affinché non commetta in futuro altri reati.
La teoria retributiva attribuisce alla pena la funzione di compensare la colpevolezza del reo. Si
afferma che questa categoria, richiedendo l'equivalenza tra reato e pena, rappresenta la
razionalizzazione della vendetta privata.
Della teoria retributiva sono state formulate le varianti. Secondo una prima impostazione proposta
da Kant, la pena costituirebbe un imperativo categorico con funzione di compensare la violazione
del principio etico realizzata con la commissione del reato.
Uno sviluppo della teoria retributiva, privata di ogni riferimento etico, si ha in Hegel, per il quale la
pena si giustifica in funzione di riaffermazione simbolica della giuridico violato.
La teoria retributiva, è andata incontro a fondate critiche. Lo stato di diritto è improntato al
principio di laicità: perché in ogni caso scopo dello Stato è assicurare le condizioni di esistenza di
sviluppo della convivenza associata.
Della teoria retributiva devono, però, essere evidenziati due profili positivi. Anzitutto, il divieto di
strumentalizzazione dell'autore del reato a fini di prevenzione della criminalità valorizza la dignità
della persona umana. In secondo luogo, asse portante della teoria retributiva è il principio di

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proporzione tra la pena, da un lato, e il disvalore del fatto la colpevolezza del soggetto per il fatto,
dall’altro.
È possibile, pertanto, concludere escludendo la retribuzione come scopo della pena.
Secondo la teoria della prevenzione generale la pena ha la funzione di distogliere i consociati
dalla commissione di reati. Secondo il modello tradizionale, la pena consiste nella privazione di un
bene ed avendo carattere afflittivo, opera come intimidazione c deterrenza (prevenzione generale
negativa).
Il rispetto delle nonne penali deriverebbe dallo spontaneo adeguamento dei consociati al rispetto
degli interessi tutelati dalle nonne penali, che svolgerebbero una funzione di socializzazione
analogamente ad altre istituzioni sociali, come la famiglia e la scuola (prevenzione generale
positiva).
Secondo la teoria della prevenzione speciale, scopo della pena e impedire che chi ha commesso un
reato torni a commetterne in futuro. Sono presenti due citazioni.
Secondo un primo orientamento la prevenzione speciale si realizza mediante la neutralizzazione o
incapacitazione del soggetto (prevenzione speciale negativa).
La prevenzione speciale positiva pone l'accento sulla funzione rieducativa della sanzione. Si è allora
proposto di intendere la prevenzione speciale come rieducazione del condannato al rispetto dei
valori condivisi dalla convivenza associata.
Più in generale, l'idea rieducativa, pur non escludendo la responsabilità individuale, tiene conto
della corresponsabilità della società nella genesi del reato: nella misura in cui il reato non è solo il
risultato di scelte individuali, il diritto penale non può non farsi carico di questa complessità.
La dottrina maggioritaria oggi non riduce la pena ad unica funzione, ma riconosce la compresenza
delle diverse funzioni. Se nonché l'idea della polifunzionalità della pena ristabilire il facile
espediente per il prevalere di una funzione a scapito dell'altra a seconda delle esigenze interpretative
o del particolare momento storico.
Il problema sta nel coordinare le diverse funzioni per evitare che il prevalere di uno scopo di annulli
un altro. Lo ha ben chiarito la Corte costituzionale, secondo la quale se non può stabilirsi a priori
una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione, il legislatore
può far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l'uno all'altra finalità della pena, ma fatto che
nessuna ne risulti obliterata. Ne consegue la necessità che il sistema sanzionatorio sia flessibile.
Va in primo luogo è ribadito un principio fondamentale in uno stato di diritto: la pena non può che
assolvere ad una funzione di prevenzione, in quanto è lo stato a salvaguardare la comunità. Deve
essere invece delegittimata la retribuzione come funzione della pena, salvaguardando il principio di
proporzione che costituisce una garanzia inviolabile, di cui questa teoria si fa comunque portatrice:
proporzionalità, dunque, come connotato della sanzione da valutare in relazione al disvalore del
fatto alla colpevolezza del soggetto per quel fatto.

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La norma, però, non impone la rieducazione del condannato come risultato della pena: “/e pene
devono tendere alla rieducazione”. Dunque, la rieducazione non può mai essere imposta, è piuttosto
dovere dello Stato offrire possibilità di risocializzazione.
Nel momento della previsione della pena da parte legislatore assume una funzione preminente nella
prevenzione generale, in quanto la sanzione penale si giustifica proprio in funzione della tutela dei
beni giuridici e per prevenire punizioni arbitrarie dell'autore del reato.
L'efficacia preventiva generale e speciale della pena è condizione della proporzione della sanzione.
Attraverso il principio di proporzione qualità e quantità della pena comminata in astratto diventano
specchio del differente valore attribuito dall'ordinamento ai beni giuridici offesi. Il principio di
proporzione diventa allora un parametro di ragionevolezza.
Va aggiunto che l'efficacia di prevenzione generale può variare in relazione ai soggetti destinatari:
può essere fortemente ridotta rispetto ai delinquenti intenzionali, spesso insensibili alla minaccia
della pena o alla sua forza di orientamento culturale.
La Corte costituzionale ha chiaramente riconosciuto alla prevenzione speciale un ruolo essenziale
già in fase comminatoria in astratto delle pene.
A differenza della fase della combinatoria legale, nella fase di commisurazione giudiziale della pena
al caso concreto non può rilevare la funzione di prevenzione generale.
L'efficacia generale preventiva non è condizionata solo dalle norme di diritto penale sostanziale ma
anche dalla disciplina processuale.
In sede di commisurazione della pena svolge invece un ruolo centrale il principio di proporzione
rispetto la gravità del fatto concreto e dalla colpevolezza del soggetto per quel fatto.
Quanto alla funzione di prevenzione speciale, la Corte costituzionale ha riconosciuto a ruolo
trasversale nelle diverse fasi di vita della pena. L'orientamento prevalente in dottrina riconosce alla
prevenzione speciale la capacità di giustificare una pena inferiore a quella che appare proporzionato
rispetto fatto commesso, ma mai superiore.
La pena proporzionata, al reato concreto commesso costituisce, un limite invalicabile alle esigenze
preventive della politica criminale.
In fase esecutiva svolge un ruolo preminente la funzione rieducativa della pena ed è proprio questa
fase che si è sviluppata l’attuazione dell’alt. 27, comma 3, Cost. attraverso la previsione delle
misure alternative alla detenzione e delle pene detentive brevi. La Corte costituzionale ha
riconosciuto la rieducazione come “diritto per il condannato”. È dovere dello Stato confermare
l'esecuzione delle pene al rispetto del dettato costituzionale.
Spetta alla funzione special preventiva aver assunto significato centrale nell’ammodernamento del
sistema sanzionatorio: è la stessa funzione di prevenzione speciale ad imporre la proporzione della
risposta sanzionatoria, che sarebbe altrimenti sentita come abuso da parte del potere statale nelle
diverse fasi in cui si articolano lo sviluppo della sanzione.

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CAPITOLO XXVIII - PENE

Ovviamente il principio della riserva di legge investe non soltanto la descrizione del fatto
costituente reato ma anche le conseguenze sanzionatone, in primo luogo le pene (art. 25, comma 2,
Cost.)
Vi è la distinzione tra pene principali (pene previste indefettibilmente per ciascun reato) e pene
accessorie (sanzioni che non possono essere applicate isolatamente ma hanno un ruolo ancillare
rispetto alle pene principali). Le prime sono costituite secondo lo schema duale rappresentato dalle
pene detentive (ergastolo, reclusione, arresto) e delle pene pecuniarie (multa, ammenda).
I reati possono essere sanzionati sia con la previsione esclusiva della pena detentiva o della pena
pecuniaria, sia con pena congiunta (detentiva e pecuniaria) o alternativa (detentiva o pecuniaria).
Il panorama cambia con il nuovo ordinamento penitenziario varato nel 1975: con esso fanno la
comparsa le misure alternative alla detenzione: sanzioni sostitutive delle pene sentite brevi; la pena
pecuniaria si arricchisce con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità.
Ai sensi dell’art. 17 c.p. le pene principali sono: per i delitti l’ergastolo, la reclusione e la multa, e
per le contravvenzioni l’arresto c rammenda.
La pena per l'ergastolo, è prevista per alcuni reati contro la personalità dello Stato, contro
l'incolumità pubblica e contro la vita, secondo quanto indicato dall’art. 22 è perpetua. Infatti ai sensi
dell’art. 176, comma 3, c.p. è prevista la possibilità per il condannato all'ergastolo di usufruire della
liberazione condizionale, quando abbia scontato almeno 26 anni di pena.
Infine ai sensi degli artt. 30-ter, comma 4, lett. d) e 50, comma 5 Ord. penit. è consentito ai
condannati alla pena dell'ergastolo di usufruire, dopo l'espiazione di almeno 10 anni, dei permessi
premio e, dopo 20 anni, della semilibertà.
Le due tipologie si differenziano in merito alla possibilità di accedere alle misure alternative, alla
detenzione e sul piano della ripartizione dei detenuti.
Gli artt. 23 e 25 c.p., prevedono per entrambe le tipologie di limiti minimi e massimi e edittali
generali: ai sensi dell’art. 23 c.p. la reclusione “si estende da 15 giorni a 24 anni e, ai sensi dell’art.
25 c.p.m l’arresto si estende da cinque giorni a tre anni ”.
Ai sensi dell’art. 17 c.p. la pena pecuniaria per i delitti è la multa e per le contravvenzioni è
l’ammenda. Esse consistono entrambe nel pagamento allo Stato di una somma di denaro. Ai sensi
dell’art. 24, comma 1, c.p. la multa può oscillare da un minimo di € 50 ad un massimo di € 50.000,
ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p. l'ammenda può variare da un minimo di € 20 ad un massimo di €
25.000.
Anche la pena pecuniaria assolve ad una finalità rieducativa.
L’art. 24, comma 2, c.p. dispone che “per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge
stabilisce solo la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da 50 a € 25.000”.

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Il giudice può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o
l'ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta. La rateizzazione della pena pecuniaria può
essere concessa sia coloro che versano in una temporanea difficoltà di pagamento sia ad un soggetto
non abbiente.
La conversione è disciplinata dagli artt. 102 e 105 della 1. 24 novembre 1981, i quali stabiliscono
che le pene da conversione della pena pecuniaria non sono più la reclusione o l'arresto ma la libertà
controllata e il lavoro sostitutivo.
L’art. 30 individua i limiti massimi di durata delle sanzioni da convertire: la durata complessiva
della libertà controllata non possono superare un anno sei mesi, se la pena convertita è quella della
multa, e nove mesi se la pena convertita e quella dell’ammenda.
Le pene accessorie hanno tendenzialmente carattere interdittivo, dal momento che consistono in una
privazione di determinati diritti o facoltà o nella limitazione del loro esercizio.
Sono previste pene accessorie specifiche per i delitti e per le contravvenzioni.
Caratteristica delle pene accessorie, oltre al loro (tendenziale) inevitabile collegamento con le
principali, è quella di un maggior automatismo.
Ai sensi dell’art. 37 c.p. “quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria
temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria una durata è
uguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di una conversione,
per insolvibilità del condannato”.
Sei in tema di pene accessorie, la discrezionalità del giudice è fortemente limitata, essa appare in
dimensioni più ampie nella commisurazione delle pene principali.
Fanno eccezione, ovviamente, l’ergastolo e le rare ipotesi di pena fissa. Negli altri casi il legislatore
delinea una cornice edittale, fissando un minimo ed un massimo, all'interno della quale è attribuito
al giudice il potere di stabilire discrezionalmente la pena concretamente inflitta secondo quanto
stabilito dagli artt. 132-133 c.p.
I criteri indicati per l'esercizio del potere discrezionale da parte del giudice sono stabiliti dall’art.
133 c.p.,che li raggruppa all'interno delle categorie della gravità del reato e della capacità a
delinquere del soggetto.
Il legislatore ha previsto con la legge 24 novembre 1981, n. 689 che il giudice può sostituire una
pena detentiva di breve durata con altre sanzioni espressamente indicate dall’art. 53 della predetta
legge.
La funzione delle sanzioni sostituite è quella di evitare il contatto con l'ambiente carcerario per
autori di reati di scarsa gravità.
Le sanzioni sostitutive sono la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria.
La semidetenzione può sostituire le pene detentive fino a due anni e consiste nell'obbligo di
trascorrere almeno 10 ore al giorno in un carcere e in una serie di limitazioni quali il divieto di

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detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa
autorizzazione di polizia; la sospensione della patente di guida; il ritiro del passaporto.
La libertà controllata può sostituire le pene detentive fino ad un anno e consiste nel divieto di
allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione concessa di volta in volta ed esclusione
per motivi di lavoro, studio, famiglia o salute; presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale
ufficio di pubblica sicurezza.
La pena pecuniaria può sostituire le pene detentive fino a sei mesi e viene disposta nella specie
corrispondente alla pena detentiva sostituita.
La pena detentiva, se è stata comminata per un fatto commesso nell'ultimo decennio, non può essere
sostituita:
a) Nei confronti di coloro che sono stati condannati più di due volte per reati della stessa indole;
b) Mi confronti di coloro ai quali la pena detentiva sostitutiva è stata convertita, ovvero nei
confronti dei quali sia stata revocata la concessione del regime di semilibertà;
c) Nei confronti di coloro che hanno commesso il reato mentre si trovavano sottoposti alla misura
di sicurezza della libertà vigilata o alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale.
Mentre le sanzioni sostitutive della pena detentiva breve sono applicate dal giudice della
cognizione, le misure alternative intervengono nella fase di esecuzione della sentenza e sono di
competenza della magistratura di sorveglianza.
Le misure alternative previste dall'ordinamento penitenziario sono l'affidamento in prova al
servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare, adesso se si affianca una misura
semialternativa prevista al codice penale, la liberazione condizionale.
Presupposti per la sua applicazione sono essenzialmente: la durata della pena da espiare non
superiore a tre anni.
La competenza è del tribunale di sorveglianza quale collegiale.
L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale. Può,
altresì, essere dichiarata estinta dal tribunale di sorveglianza, qualora l'interessato si trovi in
disagiate condizioni economiche, la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa.
Ulteriore presupposto per la concessione era semilibertà è lo svolgimento di attività risocializzante.
La pena della reclusione non superiore a quattro anni può essere espiata nella propria abitazione o in
un altro luogo di privata dimora ovvero il luogo pubblico cura, assistenza o accoglienza quanto
trattasi di:
a) Donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni 10 con lei convivente;
b) Padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni 10 con lui convivente;
c) Persona in condizioni di salute particolarmente gravi;
d) Persona di età superiore a 60 anni, se inabile anche parzialmente;
e) Persona minore di anni 21 per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

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La detenzione domiciliare è revocata se il comportamento del soggetto, appare incompatibile con
la prosecuzione delle misure e quando vengono a cessare le particolari condizioni soggettive che
aveva giustificato l'applicazione della misura.
Il condannato che, esserne stato di tensione dell'abitazione o in un altro dei luoghi indicati dal
comma 1, se ne allontana, commette il delitto di evasione. La denuncia per evasione importa la
sospensione del beneficio e la condanna ne importa la revoca.
Alle misure alternative si affianca la liberazione condizionale. È inserita formalmente tra le cause di
estinzione della pena e prevede la sospensione dell'esecuzione di una pena detentiva già in corso di
espiazione.
Può essere ammesso alla liberazione condizionale chi ha scontato almeno 30 mesi o comunque
almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni.
La concessione della libertà condizionale è subordinata aH'adempimento delle obbligazioni civili
derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempiere.
Le posizioni neoretibutive sostengono che l'inflazione della pena nei confronti del reo serve a
canalizzare l'aggressività dei consociati e ristabilizzare la loro fiducia nella salvaguardia dei valori
tutelati dalle norme penali.
In una direzione ideologicamente contrapposta si pongono gli andamenti del neopositivismo, che
valorizzano l'autore del reato come soggetto pericoloso.
Ci troviamo di fronte ad un sistema sanzionatorio profondamente in crisi. Le giuste istanze di
risocializzazione che avrebbero dovuto operare sul duplice fronte, quello dell'esecuzione
penitenziaria e della previsione di sanzioni extra carcerarie, si sono dimostrate nei fatti fallimentari:
si scontrano con il patologico sovraffollamento carcerario.
Non stupisce, ancora una volta, l'Italia sia stata condannata l’8 gennaio 2013, dalle Corte europea
dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti sul ricorso di alcuni detenuti che avevano
una disposizione meno di 3 m2 metri quadrati di superficie.
E qui si apre l'altro nervo scoperto della funzione educativa della pena: quello delle misure extra
carcerarie che nel nostro ordinamento sono costituite dalle misure alternative alla detenzione, dalle
sanzioni sostitutive delle peni brevi e dalle sanzioni non detentive applicate dal giudice di pace.
Sebbene il sistema sanzionatorio abbia progressivamente visto l’ampliamento, continua a rimanere
essenzialmente carcenocentrico, in quanto la detentiva rappresenta la pena principale.
La dottrina ha evidenziato la necessità di recuperare l'efficacia del sistema sanzionatorio
bilanciandola con il rispetto della funzione educativa della pena.
Anzitutto, è necessario il sistema sia sempre meno carcenocentrico: la pena deve costituire
I'extrema ratio l’intervento del controllo penale a favore di altri strumenti sanzionatori che
privilegino l'esecuzione penale estrema. Sono state segnalate due prospettive intervento.
La prima prevede di introdurre come sanzioni principali che oggi costituiscono solo pene
accessorie.

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In questa prospettiva si era mosso il progetto della Commissione Grosso di riforma il codice penale,
che nella stessa logica aveva proposto una revisione della disciplina della sospensione condizionale
della pena.
Anche la pena pecuniaria è nel nostro ordinamento del tutto inefficace, in quanto è ineffettiva.
L’efficacia del sistema sconta, in parte, anche i difetti insiti nel sistema di commisurazione della
pena pecuniaria, che nel nostro ordinamento è a somma complessiva, nel senso che non viene data
adeguata rilevanza alle condizioni economiche del reo. Sarebbe necessario pensare ad un sistema di
cosiddetto commiserazione per tassi giornalieri, che consente un migliore adeguamento di pena
pecuniaria alle condizioni economiche del reo.
Si impone necessariamente una revisione del sistema penale nella prospettiva di depenalizzazione.
E necessario un intervento sussidiario dell'intervento penale, nella prospettiva di un diritto penale
minimo.

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CAPITOLO XXIX - CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO E DELLA PENA

Il codice penale prevede le cause di estinzione, suddividendole in cause di estinzione del reato e le
cause di estinzione della pena.
Secondo l’impostazione tradizionale le prime escludono la cosiddetta punibilità in astratto,
operando anticipatamente rispetto alla pronuncia della sentenza di condanna e precludendo
l’applicazione della pena; le seconde invece, escludono la cosiddetta punibilità in concreto,
presupponendo l’emanazione di una sentenza di condanna e, pertanto, incidendo sull’esecuzione
della sanzione penale.
Sono collocate tra le cause di estinzione del reato sono la morte del reo (art. 150 c.p.), l’amnistia
( art. 151 c.p.), la remissione della querela ( artt. 152-156 c.p.), la prescrizione del reato (artt.
157-161 c.p.), l’oblazione (artt.162-162-bis c.p.), la sospensione condizionale (artt. 163-168 c.p.), il
perdono giudiziale (art. 169 c.p.).
Sono cause di estinzione della pena la morte del reato dopo la sentenza di condanna (art. 171
c.p.), la prescrizione della pena (artt. 172-173 c.p.), l’indulto e la grazia (art.174 c.p.), la non
menzione nel casellario giudiziario (art. 175 c.p.), la liberazione condizionale (art. 176-177 c.p.), la
riabilitazione (artt. 178-181 c.p.).
Le cause di estinzione possono essere classificate:
- Generali e Speciali;
- Condizionate o Incondizionate;
- Legate ad accadimenti naturali o alla manifestazione della volontà.

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CAPITOLO XXX - MISURE DI SICUREZZA

Il codice penale prevede, accanto alle pene, anche le misure di sicurezza in funzione di controllo e
prevenzione della pericolosità dell’autore. Le misure di sicurezza sono prive di contenuto punitivo
ed il loro scopo è la prevenzione sociale, intesa come difesa sociale, ossia come tutela della
collettività del rischio di recidiva dell’autore del reato.

L’applicazione delle misure di sicurezza personali richiede la presenza di due presupposti, uno
oggettivo e l’altro soggettivo. Il primo funge da limite alle istanze preventive del legislatore, il
secondo è costituito dalla pericolosità sociale (art. 203, comma 1 c.p.).

Le misure di sicurezza personali si dividono in detentive e non detentive.


Sono misure di sicurezza detentive:
- L’assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro per i delinquenti abituali, professionali e
per tendenza;
- Il ricovero in una casa di cura o di custodia;
- Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario;
- Il ricovero in un riformatorio giudiziario.
Sono misure di sicurezza non detentive:
- La libertà vigilata (art. 228 ss. c.p.);
- Il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province;
- Il divieto di frequentare osterie o pubblici spacci di bevande alcoliche;
- L’espulsione dello straniero extracomunitario dallo Stato e l’allentamento dal territorio dello
Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione Europea.

Le misure di sicurezza hanno una durata minima, differenziata in relazione alle diverse misure ed ai
destinatari delle stesse.
Non è prevista una durata massima delle misure di sicurezza, che non possono essere revocate se le
persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose. Hanno dunque una
durata non predeterminata che si prolunga attraverso il sistema del riesame della pericolosità.

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