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DIRITTO PENALE

Il diritto penale deriva da “pena”, per cui quando si parla di diritto penale si parla della pena, intesa come
punizione; pertanto il diritto penale è parte di un enorme ordinamento che possiamo chiamare “diritto
punitivo”, la sua essenza giace infatti nella natura punitiva delle sanzioni.
La peculiarità della punizione sta nel fatto che essa sia “violenta”, cioè procura e deve procurare delle
sofferenze a colui al quale viene inflitta. La letteratura penalistica italiana ha subito negli ultimi 150 anni
l’influenza della dottrina tedesca; gli ordinamenti di civil law e di common law procedono in modo parallelo
e indipendente, vi sono sicuramente delle attinenze ma sono differenti sia dal punto di vista teorico che
pratico.
Quando parliamo di diritto penale parliamo di diritto sostanziale, al quale è però affiancato il diritto
processuale. L’uno dà la sostanza, l’altro è lo strumento attraverso il quale tale sostanza diventa coercibile
cioè si può attuare, ma sono comunque due materie differenti che fanno parte di due discipline diverse e
distinte. Tale separazione vale quindi per quanto riguarda il diritto sostanziale, mentre per quanto riguarda
il diritto processuale, la sua impostazione è abbastanza dipendente dalle influenze di common law.

Peculiarità del diritto penale, dunque, è il peso della sanzione; importante però è anche il suo contenuto.
La sanzione penale ricade direttamente o indirettamente su un bene di estrema importanza, ossia la libertà
personale. Questo non vuol dire però che sempre la pena comporta una limitazione della libertà personale
di chi la subisce, anche se è indubitabile che il nostro sistema punitivo è carcero centrico.
Il bene della libertà personale è un bene preziosissimo per l’ordinamento, tanto che l’art. 13 C. lo considera
un bene inviolabile.
Proprio per questo il giurista tedesco Von Lizst afferma che la sanazione penale sia un’arma a doppio
taglio: si tratta di un’arma che per tutelare beni giuridici ne deve sacrificare necessariamente altri, e uno in
particolare è proprio la libertà personale. Così dicendo si va a sottolineare che la sanzione penale è una
violenza, che viene usata dall’ordinamento per combattere un’altra violenza, ma che comunque pur sempre
violenza è. Proprio per questo la sanzione penale va maneggiata con estrema cautela, dovendo
corrispondere, secondo il principio di sussidiarietà, al criterio dell’extrema ratio: l’ordinamento vi ricorre
quando non ve ne sono altre.
Se questo è vero, allora è valida l’idea per cui il diritto penale dovrebbe assumere nell’ordinamento una
consistenza minima  “diritto penale minimo”. In realtà se guardiamo l’ordinamento vigente ci
accorgiamo come questo non è affatto realizzato; basta fare un conteggio delle fattispecie di reato esistenti
nel nostro ordinamento (e non tutte si trovano nel codice penale).

Poiché il diritto penale viene connotato a partire dalla sanzione, la sua organizzazione, diversamente dalle
altre tipologie di diritto, non è relativa alle materie (diritto di famiglia, delle successioni, ecc.) ma alla
tipologia di sanzione. Questo crea un problema in relazione all’autonomia del diritto penale rispetto agli
altri settori, perché accade molto spesso che la sanzione penale venga usata semplicemente per rafforzare
un precetto che appartiene ad un altro settore dell’ordinamento: ad es. nel diritto penale delle società (che
non troviamo nel codice penale, ma nel libro V del c.c.) un precetto civilistico viene rafforzato nella sua
portata per il fatto che dalla sua violazione deriva la possibilità di applicare una sanzione penale. Quindi è
come se il diritto penale svolgesse una funzione ulteriormente sanzionatoria. Allora ci si domanda se questo
possa porre un problema relativo all’autonomia del diritto penale rispetto agli altri settori
dell’ordinamento; la risposta è positiva. Proprio per la specialità del diritto penale, che prevede sanzioni che
possono compromettere beni importanti, per il diritto penale valgono dei principi di garanzia ferrei che
invece non valgono in altri settori dell’ordinamento, ad es. il divieto di analogia, che vale per il diritto penale
ma non per quello civile. Quindi la specialità del diritto penale ci conduce a considerare l’autonomia
dell’ordinamento penalistico da preservare a tutti i costi.

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Il modo migliore per preservare l’autonomia sarebbe quello di confezionare dei precetti autonomi, anche
quando il diritto penale deve essere impiegato per rafforzare la tenuta di beni di altri settori
dell’ordinamento. In effetti in questa direzione vanno le più recenti riforme del diritto penale economico.
Quindi le sanzioni del diritto penale continuano a preservare la loro singolarità/specialità anche quando
vengono applicate a fattispecie extra penali.
L’unicità del diritto penale è spiegabile in maniera ancora più radicale guardando alla funzione svolta dalla
sanzione penale, rispetto a quella svolta dalle sanzioni previste dagli altri settori dell’ordinamento. La
funzione svolta di regola dalle sanzioni civili (es. risarcimento del danno) è quella di ricreare una situazione
di equilibrio che è stata turbata dall’illecito. Idealmente si tratta di riportare il creditore nella stessa
condizione in cui si trovava prima dell’illecito. Lo scopo della sanzione punitiva, invece, è quello di punire
l’autore del fatto, il colpevole. Ma in questo caso non è possibile riportare la vittima alla situazione
precedente il reato. Quindi lo scopo della sanzione penale non è lo stesso perseguito dalla sanzione civile.
È la teoria della pena che si occupa delle funzioni che deve assolvere la sanzione penale. Queste funzioni
però non sono solo proprie delle sanzioni penali, ma anche di sanzioni che si trovano al di fuori
dell’ordinamento penale inteso in senso stretto, es. sanzione amministrativa (perché il suo scopo è
comunque quello di punire e non di riequilibrare la situazione, es. quando uno passa con il rosso).

La pena punitiva  il nostro è un sistema penalistico carcero centrico, che pone cioè al centro la pena
detentiva ossia privativa della libertà personale. In realtà la pena carceraria così come la intendiamo noi
oggi si è affermata solo nel 1700, nell’era dei lumi ed in particolare durante l’illuminismo giuridico. I secoli
precedenti infatti erano caratterizzati da una situazione diversa: il reato era considerato come un
comportamento intollerabile e la pena era una pena corporale. Essa aveva un effetto demolitorio della
persona proprio perché si concentrava su questa stessa (la gogna, il taglio di arti, l’esilio, la pena di morte).

Foucault, un influente studioso sociologo e psicologo francese, scrisse agli inizi degli anni ’70 “Sorvegliare e
punire. Nascita del carcere”, nel quale si è dedicato in particolar modo allo studio e all’analisi del potere
disciplinare, per cui il potere punitivo è una delle espressioni più significative. Lo scopo che intese
raggiungere fu quello dello “smascheramento” del potere, il quale solitamente si nasconde anziché
manifestarsi immediatamente ai destinatari del suo uso. La sua intenzione, quindi, è quella di dimostrare
come la nascita del carcere sia la prima vera manifestazione del potere disciplinare e punitivo.
L’analisi parte con la descrizione di un supplizio, svolto a Parigi, a cui era stato condannato un uomo
supposto parricida intorno al 1750, tempi comunque tutt’altro che remoti e bui, lontani dall’età medievale.
I supplizi erano le tipiche pene corporali consistenti nella distruzione fisica del corpo del condannato,
attraverso pratiche particolarmente attente a durare nel tempo come una sorta di rito da consumarsi in
tempi relativamente dilagati composto da una serie di sofferenze mirate alla decadenza del corpo.
Attraverso i suoi studi Foucault rileva che in meno di 50 anni in Francia si è passati da pene così tremende
ad una pena di tutt’altra caratterizzazione dal punto di vista dell’impatto sul destinatario come quella della
carcerazione. Per comprendere come tale processo sia avvenuto in tempi così rapidi è necessario partire
dall’età illuministica. In particolare dal 1764: in quest’anno, 15 anni dopo il supplizio descritto dal sociologo,
viene pubblicato il libro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, libro rivoluzionario e incentrato sul
tema dell’utilità e dell’umanizzazione della pena, una pena scritta ai sensi dei paradigmi dell’Illuminismo:
utile alla comunità. A partire da questa e altre illustri pubblicazioni (Voltaire, Feuerbach, Montesquieu) la
pena quindi si trasforma in una punizione più umana nella quale il corpo passa in secondo piano perché
“toccato il meno possibile”. Si cerca quindi di infliggere la minor sofferenza possibile.
Persino la pena di morte, che comunque sopravvive alla fine dell’antico regime in Francia, subisce una
metamorfosi nel senso di un progresso in termini di umanizzazione: essa viene fatta con la ghigliottina, una
forma che rispetta il più possibile il corpo; non c’è la distruzione del corpo attraverso l’inflizione di una
sofferenza. Il dannato, anche se soppresso, deve soffrire il meno possibile.

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A tutela della dignità della persona privata della propria libertà, pertanto, l’art. 114 co. 6 bis cpp dispone il
“divieto di pubblicazione degli atti di indagine”, secondo il quale è vietata la pubblicazione dell’immagine
della persona in manette mentre viene sottoposto a restrizioni fisiche, salvo consenso.
Se ora la pena non si concentra più sul corpo della persona, su cosa fa leva? Qual è l’oggetto della pena
criminale? Foucault dice che l’oggetto della pena è “lo spirito” del condannato; è questo che deve essere
oggetto di una sanzione che infligge sofferenza: la sofferenza non colpisce il corpo ma l’anima, che “deve
essere piegata”. Questa ratio pone le basi per i futuri codici penali del 1800.

Diversamente da quanto avveniva nell’Antico Regime, in cui vi erano statuti criminali diversi e quindi pene
diverse a seconda dello strato sociale di appartenenza, la pena detentiva realizza perfettamente l’idea di
uguaglianza: il tempo della vita colpito da tale pena è uguale per tutti. Inoltre è una pena che può essere
dosata in maniera precisissima, con riferimento alla gravità del crimine commesso.
La pena detentiva può poi comportare anche l’utilizzo di tutta una serie di tecniche disciplinari che possono
permettere la trasformazione dello spirito e dell’animo dell’autore del reato. Ci spiega Foucault che si tratta
di tecniche che in realtà non vengono inventate ex novo, ma che l’esperienza occidentale aveva già
sperimentato in contesti molto diversi tra loro. infatti la pena detentiva esisteva già prima, svolgendo
essenzialmente una funzione cautelare: significa che l’autore del reato veniva ristretto per evitare che si
potesse dare alla fuga, nell’attesa che venisse inflitta la pena vera e propria (anche oggi un soggetto può
essere ristretto con funzione cautelare).
Le tecniche di cui parliamo sono:
 il lavoro: attraverso il lavoro era possibile ottenere una forma di riscatto sociale. Si tratta di un
lavoro retribuito attraverso il quale veniva data la possibilità a questi soggetti di guadagnare e,
sperimentando la fatica, essi potevano acquisire il rispetto della proprietà. Sono state pertanto
istituite diverse case lavoro, soprattutto nei paesi del Nord Europa. Secondo Foucault questo era lo
strumento che consentiva di recuperare i valori borghesi che si volevano imporre;
 la cella: è una tecnica propria del monachesimo cristiano cattolico tradizionale. L’isolamento dei
monaci, utile per un’esperienza spirituale, viene ripresa nell’ambito del carcere e vi aderisce
perfettamente proprio perché questa nuova punizione non colpisce più il corpo ma lo spirito e
l’animo.
L’uso di queste tecniche è stato ovviamente adattato nella logica della penalità. Possiamo riportare un
esempio del sistema nord americano in cui vi sono due diverse tipologie di impostazione degli istituti
penitenziari. Questi sistemi sono: il sistema dello stato della Pennsylvania ed il sistema dello stato di New
York. Il primo è fondato quasi esclusivamente sull’isolamento cellulare; i fautori di tale sistema sostenevano
che la pena per il condannato sarebbe consistita nel muro bianco che il condannato avrebbe dovuto
fissare/contemplare per tutto il tempo della condanna, e questo lo avrebbe fatto arrivare ad una sorta di
espiazione e redenzione spirituale. Il secondo sistema, invece, più laico, associa il momento dell’isolamento
e il momento della vita in comune: l’isolamento notturno e la vita in comune diurna, che si realizza in
diversi luoghi (es. dove si pranza, dove si può trascorrere qualche ora all’area aperta) e in cui le celle
restano aperte. Prevalentemente si afferma il sistema newyorkese; in Italia però i detenuti consumano i
pasti all’interno delle proprie celle.

Foucault, pertanto, nella sua analisi, nota che all’interno del carcere vengono adottate tutta una serie di
tecniche minuziose come il vestiario, il silenzio o la rigida scansione del tempo, e fa una considerazione: per
ottenere un effetto disciplinare bisogna puntare ad una educazione fatta di tante piccole cose, che slegate
tra loro sembrerebbe non avere alcun significato o valore, ma se messe tutte insieme producono l’effetto
voluto, che è quello di piegare l’autore di un reato.
L’uso di tutte queste tecniche non è casuale, ma è frutto di una elaborazione teorica che Foucault fa risalire
ad un pedagogista francese del 1600, Jean Battiste De La Sal: religioso che ha teorizzato sul piano spirituale

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l’idea ed il valore dei piccoli gesti. Egli ritiene che gli uomini, nella loro limitatezza, possono ambire a
mettersi in comunicazione con il divino solo attraverso un percorso di elevazione spirituale che consiste
nell’improntare la propria vita al compimento di tanti piccoli gesti quotidiani (es. rivolgersi agli altri in
maniera gentile, fare sforzi di carità).
Foucault continua dicendo che questa tecnica è stata adottata nel sistema penitenziario, ma sottolinea
come questo in realtà sia solo una delle diverse istituzioni disciplinari; ce ne sono anche altre: es. egli
menziona la caserma. E anche a questo proposito fa una elaborazione interessante: egli parte dalla
descrizione di un soldato del 1600, rappresentato come un uomo che si contraddistingue per particolari
caratteristiche fisiche e caratteriali. In virtù della presenza di queste caratteristiche specifiche si potrebbe
dire che l’arte della guerra non è un’arte per tutti. In realtà però non è così, Foucault sposta infatti
l’attenzione su Federico II di Prussia, facendo notare come egli attraverso l’addestramento abbia
trasformato i propri contadini in soldati, ottenendo un esercito di massa e diventando la prima potenza
militare in Europa. Dunque, applicando le tecniche disciplinari sono stati trasformati dei contadini in soldati.
Altre istituzioni disciplinari sono:
 la scuola  un luogo di disicplina dove si usano tecniche per formare un cittadino civile e
disciplinato;
 la fabbrica  che nasce nell’800 come luogo di lavoro in cui viene massimizzata l’efficienza. Non
per niente l’omologo di “Sorvegliare e punire” che scrive Foucault negli anni 70 è “Fabbrica e
carcere” di Melossi;
 i manicomi  in realtà per molto tempo non è stato neanche possibile separare i manicomi dal
carcere;
 gli ospedali  la gestione del profilo sanitario implica un approccio disciplinare.

Architettura dei luoghi disciplinari e in particolare del carcere  per ottenere lo scopo disciplinare è
necessario che i luoghi di disciplina siano configurati in un certo modo. Il modello di cui parla Foucault è
quello elaborato da un illuminista inglese Jeremy Bentam, che è il Panocticon: è un luogo nel quale pochi,
senza essere visti, possono sorvegliare e controllare tanti. Bentam aveva pensato ad una struttura circolare
con tante celle, all’interno della quale doveva essere collocata una torre che ospitava il posto del
sorvegliante. Quest’ultimo, attraverso anche giochi di luce e ombra, doveva poter guardare dentro le celle
senza che i detenuti potessero accorgersi di essere sorvegliati. In realtà questa è una tecnica più antica.

L’illuminismo giuridico.
L’illuminismo giuridico è la matrice teorico culturale del diritto penale moderno. Tutti i pensatori del 18°
secolo in qualche modo forniscono gli elementi perché il diritto penale possa trasformarsi da quello che era
nell’Antico regime in quello che è il diritto penale moderno, che attraverso un ulteriore percorso di
affinamento è arrivato ad essere quello di oggi. Quindi se per il diritto civile facciamo storicamente
riferimento al diritto dei romani, per il diritto penale facciamo riferimento all’illuminismo giuridico. In
particolare, oltre che all’illuminismo giuridico tout court, pensiamo agli illuministi che si sono in particolare
distinti nell’elaborazione giuridico penalistica: es. in Germania Feuerbach o in Italia Cesare Beccaria. A
fianco a questo ultimo pensiamo anche a Romagnosi e Filangeri, altri due illuministi italiani molto
importanti.
L’illuminismo giuridico presenta 3 caratteristiche peculiari:
1. il razionalismo giuridico, ossia l’essenza stessa dell’illuminismo (luce della ragione, ragione che
deve applicarsi in ogni ambito del sapere e quindi anche al diritto; gli istituti del diritto devono
rifarsi alla ragione);
2. contrattualismo, si riferisce al contratto sociale ossia al patto che lega i consociati con lo Stato;
quindi il fondamento del precetto punitivo è la violazione del contratto sociale;

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3. imperativismo, riguarda in particolare il nuovo assetto che viene dato all’ordinamento attraverso la
concentrazione delle fonti, tra cui quella prevalente è il codice e l’idea della codificazione.

L’eredità degli illuministi giuridici.


Una delle più importanti eredità degli illuministi giuridici è l’idea della umanizzazione delle pene, tema
centrale dell’opera fondamentale di Cesare Beccaria che irrompe nel panorama dell’Antico regime,
caratterizzato invece dalla brutalità delle punizioni. Dunque, attraverso la nuova punizione carceraria,
accompagnata all’idea della sobrietà punitiva, le pene assumono un carattere di umanità.
Per comprendere come questo messaggio assuma un valore non solo storico ma quasi anche precettivo nel
nostro ordinamento ricordiamo il contenuto dell’art. 27 co. 3 Cost.  per il quale le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Un’altra norma vigente e precettiva nel nostro ordinamento che accoglie il messaggio di civiltà è l’art. 3
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): “nessuno può essere sottoposto a tortura né a
pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Dunque, l’umanizzazione delle pene trova come strumento innovativo, rispetto all’assetto dell’Antico
regime, la pena detentiva, fondando un sistema che abbiamo detto essere carcero centrico. Alla pena
detentiva si affianca poi un sistema di pene pecuniarie. I due pilastri del sistema penale moderno, quindi,
sono da una parte quello della pena detentiva e dall’altra quello della pena pecuniaria; queste due pene
condividono un carattere fondamentale ossia quello di poter essere suddivise in termini indefiniti e
indefinibili e questo ci consente di adeguare in modo preciso la quantità di pena alla quantità di disvalore
espressa dal reato.
Con l’illuminismo giuridico inizia anche il declino della pena di morte. In realtà ci serviranno decenni per
scomparire completamente dal panorama penologico degli ordinamenti occidentali, ma possiamo
considerare il processo di disfavore della pena di morte come un corollario dell’idea della umanizzazione
della pena. Infatti il codice Zanardelli non conosce la pena di morte, che viene reintrodotta nel regime
fascista e poi tolta definitivamente al suo crollo.

Altra idea collegata all’opera degli illuministi è quella della c.d. pena utile, anch’essa contenuta nell’opera
di Beccaria. È un’idea collegata al principio del razionalismo: la pena, in quanto espressione di ragione,
deve assolvere ad una funzione di utilità sociale che è legata allo stesso motivo per cui la società moderna si
legittima il potere di punizione. Questo motivo è visto nel danno sociale che è recato dal crimine. Quindi si
punisce l’autore di un reato in quanto ha prodotto un danno alla società e dunque la pena, per essere uno
strumento razionale, deve in qualche modo riparare e svolgere una funzione utile.
A questa idea si collega, in una elaborazione più matura ed approfondita, un principio cardine
dell’ordinamento penalistico moderno, ossia il principio di offensività: un comportamento non dannoso,
non offensivo non può essere punito perché la sua punizione non corrisponde ad un criterio razionale.

L’eredità illuministica riguarda poi un’altra componente importante: l’affermazione dei grandi principi di
garanzia che caratterizzano il diritto penale rispetto alle altre branche dell’ordinamento. Questi principi
sono stati elaborati, almeno nella loro forma minima, proprio durante l’illuminismo giuridico; si tratta di
principi che ancora oggi governano completamente la disciplina penalistica e che ritroviamo affermati in
modo solenne da tutte le carte costituzionali moderne e quindi anche dalla Costituzione italiana, oltre ad
essere riconosciuti dalla CEDU che svolge nel nostro ordinamento una funzione para costituzionale.

Principio di materialità  nullum crimen sine actione: non si può configurare un reato, e quindi infliggere
una punizione, senza un comportamento materiale. Non si può essere puniti per la semplice ideazione di un
reato, perché dal pensiero del comportamento criminoso occorre passare ad una dimensione materiale,
che corrisponda ad una realizzazione concreta, percepibile di un proposito criminoso. È necessario che il
proposito si concretizzi in una condotta che abbia una qualche consistenza materiale.
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Una configurazione del genere non è scontata, perché per molto tempo sono stati puniti individui per meri
propositi criminosi che non si sono però trasformati in comportamenti effettivamente materiali.
Per materialità, inoltre, si intende che non si può neppure punire l’autore per il mero atteggiamento, per il
mero modo di essere. Quest’altra considerazione ci permette di anticipare una caratteristica fondamentale
degli ordinamenti penalistici moderni che dipingono un diritto penale c.d. del fatto, e non dell’autore: non
si punisce un individuo per ciò che è ma per ciò che fa; non per il proprio modo di essere ma per il fatto
commesso. Quindi il nostro è un diritto penale del fatto: il fatto è l’elemento fondante sul quale costruire
ogni profilo di responsabilità penale; senza fatto non ci può essere punizione. Questa è una caratteristica
tipica, in particolare storicamente, del diritto penale italiano.
Il principio della materialità lo ritroviamo affermato anche nella nostra Costituzione, all’interno all’art. 25.

Principio di legalità  nullum crimen sine lege/nullum crimen sine previa lege; il diritto penale è governato
in maniera ferrea da questo principio. Secondo tale brocardo il presupposto della punizione è la presenza di
una legge, che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Esso incorpora, tra gli altri corollari, il
principio di irretroattività.
Questo principio è affermato nella nostra Costituzione all’art. 25 comma 1.

Principio di offensività  nulla poena sine iniura: nessuna punizione senza offesa. Ciò vuol dire che non
basta la commissione di un fatto e né che quel fatto sia previamente previsto e punito dalla legge, ma è
necessario che quel fatto sia espressione di un’offesa.
Questo principio è strettamente legato alla stessa definizione di reato: il reato in senso moderno è l’offesa
di un bene giuridico; non c’è reato senza offesa. Quindi il principio in questione permette di dare una
definizione di reato.

Principio di colpevolezza  quarto grande principio di garanzia che discende dall’eredità illuministica, ma
che rispetto agli altri è quello che di più ha beneficiato di una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (in
particolare Corte Costituzionale); nullum crimen sine culpa.
La colpevolezza di cui stiamo parlando è la c.d. colpevolezza sostanziale, che non va confusa con il concetto
di colpevolezza proprio del diritto processuale. (Tra le due discipline esistono legami indissolubili di cui
bisogna tenere conto: il diritto processuale penale era considerato servente rispetto al diritto penale
sostanziale; anche se ad oggi non è più così). La colpevolezza sostanziale riguarda il rapporto di tipo
psicologico soggettivo che dobbiamo verificare essere esistito tra autore e fatto. Quindi non basta il fatto
nella sua consistenza oggettiva, ma occorre che l’autore abbia commesso quel fatto con un particolare tipo
di atteggiamento soggettivo. La necessità di fare questa verifica è espressione del principio di colpevolezza.
La norma della costituzione da cui facciamo discendere l’esigenza di verificare il rapporto fra autore del
fatto e fatto è l’art. 27 co. 1 Cost.: la responsabilità penale è personale. Questa formula racchiude una
mole di significati che, tra l’altro, sono stati sviluppati nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Inoltre, questi significati sono in continua evoluzione: il significato che si attribuiva a tale formula negli anni
’60 è diverso dal significato che gli attribuiamo noi oggi.
La colpevolezza processuale è invece quella di cui parla l’art. 27 co. 2 Cost., che contiene il principio di non
colpevolezza o di innocenza: l’imputato, fin tanto che non sia stato condannato con una sentenza
definitiva, si presume non colpevole. Questo però non vuol dire che è innocente, tanto che è possibile
applicare nei suoi confronti misure cautelari quando sussistano esigenze di tale tipo, come ad es.
nell’ipotesi di pericolo di fuga.
L’imputazione è l’ipotesi che formula la pubblica accusa e che sottopone alla verifica, secondo lo schema
del dibattimento processuale.
La colpevolezza processuale, dunque, nulla ha a che vedere con quella sostanziale, che è invece un
elemento proprio del reato. Nel comma 3, infatti, si parla di condannato come unico soggetto a cui può
essere inflitta la pena mediante una sentenza definitiva.

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Dal principio di innocenza, inoltre, discende il principio dell’onere della prova  l’onere della prova
incombe sulla pubblica accusa; questa è quella che deve dimostrare in giudizio l’esistenza di tutti gli
elementi del reato.
Quest’ultima è una regola fondamentale che caratterizza la materia processuale penalistica.

Von Litsz  esalta la componente garantista dei principi del diritto penale, intesi come limite invalicabile al
potere punitivo dello stato leviatano. Questa prospettiva lui la esprime con riferimento ad un programma
che è contenuto nella lezione introduttiva al corso di diritto penale da lui tenuto nel 1882.
Von Litsz dice che bisogna distinguere la c.d. politica criminale dal diritto penale vero e proprio. La politica
criminale è inerente alla scelta politica compiuta dal legislatore di cambiare le norme per renderle più
efficienti dal punto di vista della prevenzione. Il diritto penale vigente è organizzato in modo sistematico
secondo un reticolo di dogmi. Mentre la funzione della politica criminale è quella di migliorare la capacità
preventiva del sistema penale, lo scopo del diritto penale e della dogmatica penalista è quello di proteggere
il cittadino dallo stato leviatano. La politica criminale, dunque, riguarda il de iure condendo, cioè come va
scritto il diritto penale per la prevenzione, mentre il diritto penale vigente riguarda il de iure condito, cioè
l’insieme di regole e principi di garanzia.
Per esprimere bene questa sua idea Von Litsz diceva che il diritto penale è la magna carta libertatum del
delinquente, ossia un presidio di regole e principi a garanzia del cittadino.
Le norme vigenti non possono essere piegate in base alle esigenze di politica criminale, ma devono essere
determinate sulla base di principi garantisti per il cittadino.

La natura non deterministica della responsabilità penale  all’origine della responsabilità penale
l’illuminista pone il tema del libero arbitrio. Questo tema in realtà è molto complesso, e pertanto si pone
come un punto di contatto e di scontro tra il diritto penale e la scienza.
La persona si presuppone essere dotata di una libertà morale, cioè di una libertà di scelta tra il reato ed un
comportamento penalmente lecito e questo è il presupposto della natura non deterministica del diritto
penale, ossia che la persona sia libera di scegliere.

Da questa considerazione le grandi scuole di diritto penale italiano, tra ‘800 e ‘900, hanno prodotto
l’elaborazione teorica che in qualche modo ha condotto al codice penale vigente, ossia il codice del 1930.
In particolare parliamo di 2 scuole: la scuola classica e la scuola positiva.

La scuola classica è la più diretta erede dall’elaborazione illuministica; è la scuola che domina il dibattito
penalistico italiano della seconda metà dell’800 ed è quella che prepara il terreno ideologico concettuale
che porterà poi all’approvazione del primo codice penale italiano, ossia il Codice penale Zanardelli del 1889
di stampo di liberale. Questo codice, dunque, si rifà all’illuminismo giuridico, ai grandi principi di garanzia e
in particolare al principio di legalità; quindi viene redatto sulla base dell’idea per cui chi commette un reato
lo fa per scelta propria, motivo per cui la pena deve svolgere una funzione capace di rapportarsi
direttamente alla scelta morale compiuta dall’individuo che delinque.
La teoria della pena che meglio riesce a rapportarsi con l’idea per cui chi delinque esercita una propria
libertà morale è la teoria retributiva. Quindi il libero arbitrio si collega alla funzione retributiva della pena.
Un importante esponente della scuola classica è Francesco Carrara, avvocato penalista toscano, autore
dell’opera considerata il manifesto del diritto penale liberale, “???????” del 1959. Egli ha individuato in
maniera chiara e netta le due componenti essenziali del reato, abbozzando una prima teoria generale del
reato. Secondo Carrara il reato può essere scisso in due componenti:
 una oggettiva, che lui chiama forza fisica;
 una soggettiva, che lui chiama forza morale, e che riguarda il legame profondo che deve
congiungere il fatto all’autore.
L’individuazione di questi due elementi introduce ad uno schema di teoria generale del reato di tipo
bipartito; teoria determinante fino all’approvazione del codice penale vigente. Questo schema bipartito
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sarà poi superato da uno schema più elaborato che è lo schema tripartito, che però non è l’unico schema
usato oggi nella dottrina italiana (addirittura ve n’è uno quadripartito).
L’opera di Carrara tratta poi anche dell’istituto del tentativo. Il tentativo è la concretizzazione dell’idea per
la quale tra ideazione e realizzazione del reato ci possa essere qualcosa in mezzo meritevole di essere
punita. In questa zona intermedia, quindi, ci sono comportamenti che possono essere puniti, come ad es.
comprare un’arma da fuoco o un veleno.
Oltre all’idea di Carrara vi è poi anche un approccio più severo e meno liberale, che è quello scelto dal
codice del 1930. Mentre l’approccio di tipo liberale tende a spostare la soglia del tentativo ad un momento
il più vicino possibile all’inizio dell’esecuzione del reato, l’approccio di tipo rigoristico tende a spostare
questa soglia e ad anticiparla il più possibile, collocandola all’interno di atti meramente preparatori della
consumazione. Per Carrara gli atti preparatori non possono essere puniti a titolo di tentativo.
Oltre a Carrara possiamo ricordare altri grandi autori teorici del diritto penale liberale: Carmignani,
Pellegrino Rossi e Pessina. Il codice del 1889 è il prodotto dell’elaborazione di tutti questi.

La scuola positiva parte proprio dal pensiero positivistico. Ricordiamo che il Positivismo è scuola di pensiero
della seconda metà dell’800 nella quale il pensiero europeo instaura un rapporto con le scienze dure come
la chimica o la biologia, ma anche con le scienze sociali come l’antropologia o la sociologia. Il rapporto
instaurato è un rapporto di grande fiducia riposta nelle scienze tanto che si pensava che le scienze
potessero risolvere tutti i tipi di problemi, sia quelli materiali che spirituali.
Ad ogni modo, la scuola positiva colma quella che era considerata una lacuna e un limite del diritto penale
classico, cioè il disinteresse per la persona del delinquente. In effetti il diritto penale illuministico liberale è
un diritto penale essenzialmente del fatto; l’ordinamento punisce non per ciò che si è ma per ciò che si fa;
di conseguenza le caratteristiche personali di chi commette il reato risultano secondarie.
La scuola positiva, pertanto, riporta al centro della responsabilità penale la persona del delinquente, e lo fa
con un approccio opposto rispetto a quello liberale fondato sul libero arbitrio. La scuola positiva infatti si fa
portatrice della visione deterministica della responsabilità penale: chi sceglie di delinquere non è in realtà
libero di scegliere ma in qualche modo è determinato alla commissione del reato da una serie di fattori
esterni o interni alla propria persona che ne definiscono la qualità.
Uno dei più importanti esponenti di questa scuola è Cesare Lombroso, intellettuale italiano molto famoso
al tempo. Lombroso veniva da una ricca famiglia ebraica veronese, ma non era un giurista bensì un medico
che fece però una serie di esperienze grazie alle quali acquisì la competenza per elaborare le teorie che poi
lo faranno diventare famoso. Egli in particolare elabora una teoria sulla criminalità deterministica, che
esprime nel suo lavoro più importante, “L’uomo delinquente” (1876), e che prende il nome di teoria della
reversione atavica o atavismo. Secondo questa teoria chi delinque non lo fa perché sceglie di delinquere,
ma perché la propria natura biologica, che si rivela da particolari tratti somatici, lo determinerebbe verso
questa condizione. I tratti somatici di cui parla Lombroso rappresentano delle fasi evolutive della specie
umana passate che si rivelano mediante tratti fisici differenziati; quindi chi delinque si trova su un gradino
inferiore di questa scala evolutiva. Per Lombroso, dunque, attraverso lo studio scientifico del criminale si
possono individuare le ragioni del suo agire.
Altro autore della scuola positiva è Enrico Ferri, giurista e avvocato mantovano e poi docente universitario.
A differenza di Lombroso, Ferri sposta l’attenzione dai fattori biologici e antropologici ai fattori di ordine
economico e sociale; quindi anche lui non condivide il concetto del libero arbitrio.
Nel 1919 viene incaricato dal guarda sigilli di redigere un progetto di riscrittura del codice penale Zanardelli
del 1889; lui lavora con una commissione che presiede all’elaborazione di un articolato nuovo codice che è
diventato famoso con il nome di Progetto Ferri del 1921; progetto che ha circolato molto, in particolare
nell’area sud americana.
Ultimo rappresentante della scuola positiva è Raffaele Garofalo, magistrato napoletano, che sposa tutti i
principi della scuola positiva, spostando però la sua attenzione sulle componenti psicologiche dell’agire
criminale. Lui è il primo che conia il termine “criminologia”.
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[Satterland studiò la criminalità dei colletti bianchi e in proposito riteneva, al contrario della scuola
positiva, che non si diventa criminali per devianza ma per omologazione a modelli comportamentali
dominanti che sono tante volte di tipo criminale; ci si omologa perché è l’unico modo per sopravvivere in
un certo contesto.
Sulla base di questo è possibile fare una considerazione: nella società in cui noi oggi viviamo, molto ricca ed
istruita, si dovrebbe pensare che i tassi di criminalità siano diversi rispetto a quelli conosciuti nei precedenti
contesti; in realtà non è così e per questo è plausibile ritenere che non necessariamente la base della
criminalità va trovata nella devianza.]

Bisogna riconoscere che la scuola positiva ha lasciato un’eredità ancora utilizzabile, che da un lato ha preso
corpo nel Progetto Ferri e dall’altro è entrato direttamente nella struttura del Codice penale Rocco del
1930. Quest’ultimo raccoglie sia i principi classici della scuola liberale sia alcuni contributi elaborati dalla
scuola positiva. E questo lo ritroviamo soprattutto nella parte generale del codice penale.
Il segno più evidente che deriva dall’elaborazione positivistica lo ritroviamo nel c.d. sistema del doppio
binario sanzionatorio  nel c.p. troviamo 2 tipi di sanzioni: pene e misure di sicurezza; le pene sono
espressione tradizionale della concezione liberale, le misure di sicurezza invece sono uno strumento che
nasce nella elaborazione positivistica. Pena e misura di sicurezza hanno 2 presupposti differenti:
 la pena si trova in collegamento con la colpevolezza dell’autore del fatto;
 la misura di sicurezza invece si trova in collegamento con la pericolosità sociale dell’autore del
fatto.
Inoltre, mentre le pene hanno una durata determinata proporzionata alla colpevolezza del fatto, le misure
di sicurezza non hanno una durata determinata ma la loro applicazione dura fin tanto che il soggetto
manifesta una perdurante pericolosità sociale.
Le misure di sicurezza possono essere personali, con l’intento di azzerare la pericolosità sociale di una
persona, o reali, con l’intento di azzerare la pericolosità sociale di cose (cose che possono incentivare in
futuro a commettere nuovi reati).
All’interno del codice penale ritroviamo poi alcune tipologie criminologiche di delinquenti derivanti dalla
scuola positivista: un esempio sono i delinquenti per tendenza-abituali, e quindi l’istituto della recidiva. La
recidiva assume un senso nella scuola positiva perché chi commette più di una volta uno stesso reato risulta
più pericoloso. Al contrario, nella scuola liberale la recidiva non ha senso, perché un soggetto che è stato
punito e poi reinserito nella società liberale se dopo commette un altro reato sarà nuovamente punito ma
in proporzione al nuovo reato commesso, quindi senza prendere in considerazione il fatto che in
precedenza ha già commesso un altro reato.

Indirizzo tecnico-giuridico: si tratta di un ulteriore indirizzo, propugnato proprio da chi divenne l’artefice
della disciplinale vigente quindi il codice del 1930. Noto giurista esponente è Arturo Rocco (il fratello di
Alfredo Rocco da cui prende nome il codice).
Secondo l’indirizzo tecnico giuridico, le scienze hanno la capacità di inquinare la volontà legislativa espressa
nelle norme penali. Questo indirizzo prefigura un diritto penale completamente chiuso in se stesso, asfittico
e privato dalla libertà che saperi diversi dal diritto penale possano mettere in difficoltà le scelte compiute
dal legislatore. Pertanto, il giurista deve limitarsi a studiare le norme vigenti, ad un’analisi sistematica fatta
di confronti tra i diversi istituti così come sono espressamente positivizzati dal legislatore. Oltre non può
andare.
Nella scuola positiva la scienza diversa ha il compito di spiegare le effettive ragioni della scelta criminale,
secondo l’indirizzo tecnico giuridico il potere punitivo spetta allo stato, perché allo stato si deve obbedienza
 diritto penale inteso come diritto espressivo di dovere di ubbidienza dei cittadini nei confronti dello
stato. Il cittadino è punito perché ha disubbidito allo stato. Questa concezione verrà superata e messa in
discussione dalla stagione repubblicana e costituzionale dove non esiste alcun diritto soggettivo
all’ubbidienza e la pena è legata alla funzione che la sanzione serve a proteggere alcuni beni.

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Rapporto criminologia e diritto penale.
Da un punto di vista giuridico criminologia e diritto penale appartengono allo stesso settore e hanno il
medesimo oggetto, guardato però da due punti di vista differenti. L’oggetto in questione è il fenomeno
criminale; esso viene osservato dalla criminologia dal punto di vista empirico e dal diritto penale dal punto
di vista normativo, cioè partendo da norme scritte in maniera rigorosa e rigida.
Diverse sono poi le funzioni. La criminologia svolge una funzione descrittiva: descrive i fenomeni criminali,
fa un’analisi empirica dei comportamenti e verifica come i fenomeni criminali si svolgono all’interno della
società. Inoltre analizza le cause dei fenomeni, cioè quali sono le matrici antropologiche, psicologiche ecc.
che producono il fenomeno criminale. L’indagine criminologica, dunque, riguarda il fenomeno criminale in
senso oggettivo ma anche l’autore del fatto. In ultimo la criminologia deve fornire quel materiale
indispensabile alla costruzione di efficaci politiche criminali; tanto che Jescheck disse che “il diritto penale
senza la criminologia è cieco, e la criminologia senza diritto penale è sconfinato”.
Questa citazione offre un richiamo che dev’essere costante per il giurista e il penalista cioè il richiamo della
norma. La criminologia deve sempre fare i conti con le norme scritte, senza che la norma rappresenti un
recinto chiuso dove non si può andare oltre.
Nel diritto penale, invece, riscontriamo 3 protagonisti: legislatore; giurisprudenza (sia costituzionale, sia
delle corti di giustizia UE LUSSEMBURGO e corte europea dei diritti dell’uomo STRASBURGO); scienza
giuridica, cioè la dottrina della letteratura. Il diritto penale è il prodotto di una convergenza dell’apporto di
tutti questi soggetti, tutti quanti danno il proprio contributo per definire il diritto penale vivente.
Bisogna poi distinguere il diritto penale vigente dal diritto penale vivente: quest’ultimo è prodotto di
questi 3 soggetti.

Il Codice penale Rocco.


Il Codice Rocco è stato emanato nel 1930, prende il nome da Alfredo Rocco, ed entra in vigore il 1/1/31.
Sostituisce il codice Zanardelli. Il codice rocco è articolato in 3 libri:
 Libro 1 è dedicato ai reati in generale; in esso abbiamo la disciplina del reato in generale quindi tutti
gli istituti che costituiscono la parte generale del diritto penale.
 Libro 2 è dedicato ai delitti in particolare;
 Libro 3 è dedicato alle contravvenzioni in particolari.
Il codice disciplina tutte le fattispecie di reato, quindi delitti e contravvenzioni ma anche tutte quelle che
non si trovano al suo interno. Questo è ribadito anche dall’art. 16 c.p.: “Le disposizioni di questo codice si
applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti”.

Nella struttura del codice del 1930 il reato è rappresentato da due differenti tipologie di illecito: i delitti e le
contravvenzioni. I delitti sono i reati più gravi, le contravvenzioni sono i reati meno gravi (i c.d. reati nani).
Questa distinzione è puramente convenzionale; tuttavia nell’ordinamento italiano possiamo intravedere
degli indirizzi di politica criminale che tendono a utilizzare in modo sostanziale questa distinzione: ad es. per
tradizione si suole collocare nella categoria delle contravvenzioni quei reati che puniscono condotte che
violano un certo apparato di norme cautelari, cioè che servono a prevenire determinati eventi.
Una regola cautelare prevede il rispetto di cautele che servono per prevenire eventi pregiudizievoli
penalmente rilevanti.

La disciplina del libro 2 e 3 costituisce la parte speciale del diritto penale. Viene invece definito diritto
complementare tutto il diritto, della medesima materia, che si trova al di fuori del codice.

Caratteristiche del codice Rocco:


1. presenza di numerose norme definitorie. Definizioni che per la propria rigidità ed incompletezza
sono in realtà più dannose che utili;
2. principio di legalità: art. 1 c.p. esordisce con tale principio;
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3. non è poi così tanto fascista;
4. presenza di numerose ipotesi di responsabilità oggettiva, ossia priva di dolo e colpa;
5. presenza dell’istituto del tentativo: schema normativo che prevede di punire il reato prima che
arrivi a consumazione;
6. presenza di una disciplina molto più rigorosa del codice Zanardelli;
7. presenza disciplina del concorso dell’esecuzione del reato (?)
Nonostante ciò non si allontana dallo schema classico, rimane comunque nella tradizione classica liberale,
cioè di pensare ad un diritto penale del fatto, cioè è punito l’autore per ciò che ha fatto non per ciò che è. In
ogni caso sono fatte salve alcune contaminazioni della scuola positiva, come le misure di sicurezza, la
pericolosità sociale, la recidiva.

Sappiamo che nel 1948 è stata adottata la Costituzione. Come ha fatto a sopravvivere un codice fascista in
un contesto ideologico costituzionale diverso? È potuto sopravvivere perché i grandi attori del mondo del
diritto (il legislatore, la giurisprudenza e la dottrina) hanno incessantemente provveduto, e continuano a
provvedere, a smussare ed eliminare gli aspetti di disciplina, originariamente presenti nel codice del 1930,
che oggi risultano inaccettabili.
Questa opera di aggiornamento inizia in realtà ancor prima dell’intervento della Costituzione. Infatti già
dalla caduta del regime fascista nel 1943 il legislatore ha iniziato a mettere mano al codice penale:
eliminando la pena di morte e reintroducendo la clausola di non punibilità (1944). Quest’ultima riguarda la
reazione legittima del cittadino ad atti arbitrali della p.a. (art. 393 bis); il suo scopo è quello di riequilibrare il
rapporto fra Stato e cittadino. La violenza, la minaccia o l’oltraggio contro un pubblico ufficiale non sono
reati punibili se vengono messi in atto in risposta ad un pubblico ufficiale che eccede arbitrariamente alle
proprie attribuzioni.
Per atto arbitrario cosa si intende?
 Una parte di giurisprudenza ritiene che esso sia semplicemente un atto illegittimo (incompetenza,
inesistenza, eccesso di potere, violazione di legge, atto illecito che costituisce reato).
 Un’altra parte invece ritiene che la presenza di un atto illegittimo non basta perché si possa
configurare una reazione legittima; occorre qualcosa in più e cioè che il pubblico impiegato compia
quell’atto con un particolare atteggiamento di tipo soggettivo: con malanimo, con ostilità, con
sopruso, con derisione, con prepotenza. Questo perché se l’atto fosse semplicemente illegittimo si
potrebbero applicare direttamente i rimedi previsti dal diritto amministrativo, es. ricorso al TAR.
A questo proposito la giurisprudenza si divide ancora: da una parte ritengono che è necessario che
il pubblico ufficiale sia consapevole di avere questo atteggiamento, l’altra parte invece sostiene il
contrario, quindi che sia necessario e sufficiente che quell’atto sia oggettivamente compiuto in
modo prevaricatorio e ostile, e quindi accertabile da un osservatore esterno. La Cassazione ha
accettato quest’ultima interpretazione.

Norme Costituzionali e principi penalistici.


La Costituzione attribuisce alla Corte costituzionale il potere di sindacato di legittimità delle leggi, anche di
quelle penali; tale sindacato avviene attraverso l’affermazione dei seguenti parametri.
Le norme della Costituzione che accolgono i principi penalistici fondamentali sono:
 Art. 25 co. 2  principio di legalità
 Art. 27 co. 1  principio di colpevolezza.
 Art. 27 co. 3  finalismo rieducativo della pena: essa deve tendere alla rieducazione del
condannato.
A proposito di questi due commi dell’art. 27 è importante menzionare la sentenza n. 364 del 1988:
la Corte ha in primis precisato che la nozione costituzionale di colpevolezza non può essere oggetto
discrezionale del legislatore. Ha continuato poi dicendo che il privato sarà chiamato a rispondere
penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che producono
11
conseguenze penalmente vietate inconsapevolmente. Per questi soggetti la funzione rieducativa
risulterebbe inutile. Altrimenti non avrebbe senso la funzione rieducativa.

 Art. 3  principio di uguaglianza sostanziale: fissa la regola della razionalità che deve misurare la
bontà del legislatore penale.
A questo proposito è utile menzionare la recente sentenza n. 63 del 2022, che dichiara l’illegittimità
costituzionale di una norma del TU in materia di immigrazione del ‘98. I parametri usati dalla Corte
per sindacare la scelta del legislatore penale sono proprio l’art. 3 e l’art. 27 co. 3; in particolare però
l’art. 3: come dovere di razionalità della scelta politica compiuta dal legislatore penale. Qui si
trattava di capire se il quantum di pena previsto per la condotta di favoreggiamento
dell’immigrazione con l’uso di un aereo privato senza documenti fosse proporzionato e razionale.
La pena prevista era di 5 anni e la Corte l’ha ritenuta irragionevole, in quanto una pena così severa
appare sproporzionata. In questo modo la Corte ha ribadito il consolidato principio della
proporzione della pena rispetto al reato commesso.
 Art. 13 co. 1  per il quale la libertà personale è inviolabile. Questo articolo ribadisce come la pena
sia un’arma a doppio taglio quando si tratta di proteggere beni di altrettanto valore; per questo tale
disposizione prevede la riserva di legge e la riserva di giurisdizione.
 Art. 13 co. 4  segnala l’obbligo di punire ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a
restrizione di libertà. (Questo obbligo è stato accolto solo in tempi recenti dal legislatore quando è
stato introdotto nell’art. 613 bis del c.p. nel 2017. Quindi ora anche nel nostro ordinamento esiste il
delitto di tortura, che ha un campo di applicazione che va oltre l’indicazione costituzionale. Infatti la
tortura non è solo quella commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio
nei confronti di una persona che è affidato loro, ma più in generale è un reato comune che può
essere commesso da chiunque cagioni acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico ..
leggi norma.)
 Art. 24  riconosce il diritto di difesa
 Art. 111  contiene i c.d. principi del giusto processo
 Art. 112  principio della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale
Queste tre ultime disposizioni in realtà attengono più al processo penale che al diritto penale sostanziale,
ma in ogni caso ci permettono di comprendere alcuni meccanismi legati al fatto che l’esercizio dell’azione
penale debba essere promossa d’ufficio e non ad iniziativa di parte.

L’illecito depenalizzato.
Abbiamo detto che il diritto punitivo va oltre il diritto penale, perché include una serie ulteriore di strumenti
che però hanno la medesima funzione della pena. Tra questi strumenti punitivi, diversi dal penale, un ruolo
importante lo assume l’illecito depenalizzato.
A partire dagli anni ‘70 il legislatore si accorge che ha ricorso all’utilizzo di fattispecie incriminatrici in un
numero di ipotesi troppo grande, quindi decide di intervenire per depenalizzare comportamenti che oggi
non immaginiamo possano costituire reato (es. passare con rosso). Dunque, il legislatore inizia a
depenalizzare fattispecie di reato degradandole o mediante depenalizzazione secca, quindi facendo
diventare l’ipotesi in questione lecita, o trasformando l’illecito da penale in altro tipo.
I primi interventi di depenalizzazione sono stati effettuati dal legislatore senza una grande consapevolezza
sistematica. Tuttavia nel 1981 il legislatore muta schema: egli ricorre ad un nuovo impianto normativo con il
quale disegna i tratti di un nuovo tipo di illecito punitivo non penale. Prendendo come esempio altri
ordinamenti, ed in particolare quello tedesco, il legislatore emana la Legge n. 689 del 1981 con cui tenta di
dettare una disciplina generale per definire i tratti fondamentali di questo nuovo tipo di illecito punitivo non
penale. Tutte le successive leggi di depenalizzazione, pertanto, dovranno rifarsi a questa disciplina generale.

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Questa legge dell’81 costituisce la disciplina di riferimento anche di tutte le nuove figure di illecito punitivo
amministrativo che il legislatore ha previsto anche al di fuori di interventi di depenalizzazione.
Risulta da tutto ciò che il legislatore ha a disposizione una normativa generale di riferimento che permette
di usare un arsenale ampio di sanzioni di tipo punitivo. Per cui quando il legislatore decide che un certo
comportamento è meritevole di punizione ha una triplice possibilità:
1. configura un reato di tipo delittuoso;
2. configura una contravvenzione;
3. istituisce un illecito punitivo di tipo amministrativo che avrà come normativa generale di
riferimento quella contenuta nella prima parte della legge 689/81.
Mentre delitti e contravvenzioni hanno come riferimento il libro I del c.p., la sanzione prevista per l’illecito
punitivo amministrativo è prevalentemente di tipo pecuniario, ma non esclusivamente. In questo ambito il
legislatore infatti ricorre anche a sanzioni di altra natura: ossia sanzioni di tipo incapacitante, cioè che
incidono sulle capacità del trasgressore.

I principi generali dell’illecito punitivo amministrativo (1* differenza con il reato).


I principi generali dell’illecito punitivo amministrativo li ritroviamo nella prima parte della legge dell’81. Per
lo più questi principi sono di natura penalistica:
 principio di legalità;
 art. 3  è un richiamo all’elemento soggettivo del dolo o della colpa;
 art. 5  sul concorso di persone.
Si noti che il grosso dei principi sono di origine penalistica; in realtà all’interno di questi abbiamo regole che
hanno anche una diversa origine. Ci riferiamo in particolare alla regola della responsabilità solidale
contenuta nell’art. 6  es. quando c’è un incidente e risponde in solido il proprietario della macchina ed il
conducente; o in una società in cui ne risponde la società e l’autore della trasgressione.
Questa regola appare in contrasto con il principio di personalità, ma in realtà tale legge non nega tale
principio. Tanto che si dice che la responsabilità penale non si trasmette agli eredi (art. 7 della legge).
Quindi l’origine della responsabilità solidale è positiva ma la troviamo anche qui.

Altra differenza tra il sistema punitivo penale l’illecito punitivo amministrativo riguarda l’applicazione e
l’erogazione della sanzione. Per il reato abbiamo detto che esso produce i propri effetti quando la
responsabilità penale è accertata con una sentenza definitiva di condanna; quindi è necessaria tale
sentenza per l’esecuzione della pena. Nella legge 689/81, invece, il sistema è più flessibile: infatti qui il
protagonista non è il giudice ma l’autorità amministrativa che provvede ad accertare l’illecito e ad applicare
la sanzione.

Al tridente delitto-contravvenzione-illecito non punitivo amministrativo nel 2016 si è aggiunta un’altra


possibilità  viene inserito nel sistema punitivo l’illecito civile punitivo.
Nel 2016 in particolare vengono pubblicati due decreti legislativi: n. 7 e n. 8. Il primo è andato nella
direzione tradizionale e, rifacendosi alla legge 689/81, ha deciso di depenalizzare il delitto di atti osceni (art.
527 c.p.). Sono considerati tali gli atti che secondo il comune sentimento offendono il pudore; al co. 1 tale
articolo prevede come sanzione una di tipo pecuniario. Se grave allora carcere.
Il decreto n. 8, invece, ha creato un nuovo tipo di illecito consentendo al giudice civile di condannare
l’autore del fatto con le normali misure civilistiche in più il pagamento di una sanzione pecuniaria che non è
a titolo risarcitorio ma punitivo. Questa sanzione è devoluta alla cassa e alle ammende.
Dunque, di fianco alla legge dell’81 c’è l’inedita configurazione di illeciti punibili con sanzioni pecuniarie
civili. Alcuni comportamenti che prima configuravano reato invece di configurare illeciti non punitivi
amministrativi sono stati trasformati in un illecito civile, rimesso al sistema processuale civilistico o alla
possibilità eventuale per il giudice civile di applicare oltre che le sanzioni civili anche le sanzioni pecuniarie a

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titolo punitivo. Le due ipotesi più importante che hanno conosciuto tale sorte sono il reato di ingiuria ed il
reato di danneggiamento. L’ingiuria da reato viene trasformato in un illecito civile che può essere azionato
secondo le procedure previste nell’ambito del processo civile. Quindi non c’è un’iniziativa d’ufficio, ma
l’iniziativa è di parte. L’altra ipotesi è quella del danneggiamento, art. 635 c.p., cioè la condotta di chi
distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili cose mobili o immobili altrui con
violenza alla persona o minaccia ovvero in occasione di un delitto. Il legislatore ha depenalizzato a illecito
civile il danneggiamento non aggravato, mentre ha lasciato la pena nel danneggiamento aggravato (quando
esercitato su determinati beni o effettuato con violenza o minaccia).
Ultima forma di punizione prevista e fuori dal recinto strettamente rappresentato dal codice penale è
quello previsto dal decreto lgs. 231 del 2001  punizione dell’ente.
Quindi il sistema punitivo del nostro ordinamento è molto complicato: da un lato abbiamo il reato suddiviso
in delitto e contravvenzioni; dall’altro l’illecito depenalizzato in tutte le sue forme.

Il reato.
Sotto il profilo sostanziale, il reato può definirsi come il fatto umano che aggredisce un bene giuridico
ritenuto meritevole di protezione da un legislatore che si muove nel quadro dei valori costituzionali.
Sotto il profilo formale si definisce reato ogni fatto umano al quale l'ordinamento giuridico ricollega una
sanzione penale.
Il criterio formale che il legislatore usa e ricollega alla definizione formale di reato è l’art. 17 c.p., che elenca
le sanzioni penali, cioè le pene. Questa disposizione identifica da una parte le pene detentive, cioè quelle
restrittive della libertà personale, e dall’altra le pene pecuniarie, che consistono nel pagamento di una
somma di denaro. Più esattamente le pene detentive sono l’ergastolo, la reclusione e l’arresto; le pene
pecuniarie sono la multa e l’ammenda.
Dunque, quando ci troviamo di fronte ad un precetto sanzionato da una delle pene di cui all’art. 17 ci
troviamo di fronte ad un reato. In questo modo possiamo distinguere in maniera controvertibile il reato
dagli altri illeciti punitivi, per i quali il legislatore non prevede le pene di cui all’art. 17. Sulla base di questo
possiamo anche di che: un reato è un comportamento a cui la legge accompagna una delle pene contenute
nell’art. 17 c.p.

Il criterio formale dell’art. 17 può essere usato anche per distinguere le due tipologie di reato: delitti e
contravvenzioni. L’art. 17, infatti, specifica quali sono le pene previste per i delitti e quali sono quelle
previste per le contravvenzioni.
Per i delitti
 le pene detentive sono:
 l’ergastolo
 la reclusione
 le pene pecuniarie sono:
 la multa
Per le contravvenzioni
 le pene detentive sono:
 l’arresto
 le pene pecuniarie sono:
 l’ammenda
Per inciso, l’arresto di cui all’art. 17 non va confuso con l’arresto di cui al c.p.p., in cui troviamo una
particolare misura c.d. precautelare che può essere disposta dalla polizia giudiziaria nel caso di flagranza del
reato.
L’ergastolo, invece, è la c.d. pena senza limite; già prevista nel codice Zanardelli. Con riferimento
all’ergastolo vedremo che si registra un potenziale disaccordo rispetto alla funzione rieducativa della pena:

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l’ergastolo è una pena che non potrebbe rispondere a questa funzione. In realtà, nel nostro ordinamento
l’ergastolo non è di fatto una pena senza limite, perché fin dagli anni ‘60 questa prospettiva è stata mitigata
dal beneficio della liberazione condizionale, dopo che l’ergastolano ha scontato 26 anni, o dalla semi
libertà, dopo 20 anni. Ma queste regole valgono per il c.d. ergastolo comune, a cui si affianca il c.d.
ergastolo stativo, ossia l’ergastolo inflitto ad autori di reati che destano un particolare allarme sociale
(mafia, terrorismo). Per questi soggetti all’inizio degli anni ‘90 venne introdotto nella legge penitenziaria
l’art. 4 ter, che preclude agli autori di tali reati di usare tutta una serie di requisiti tra i quali la libertà
condizionale o la semi libertà.

Quelle elencate nell’art. 17 sono le c.d. pene principali. Queste sono previste dal legislatore attraverso una
cornice edittale, cioè tra un minimo ed un massimo; è il giudice che ha una discrezionalità in concreto nella
quantificazione della pena tra il minimo e il massimo. Non si tratta però di una discrezionalità assoluta,
perché nel quantificare la pena il giudice deve attenersi a criteri di commisurazione della pena contenuti
nell’art. 133 c.p.
A fianco alle pene principali il legislatore prevede delle pene accessorie (art. 19 c.p.), che conseguono di
diritto alla condanna pronunciata ad una delle pene principali. Quindi la caratteristica di tali pene è che non
sono decise dal giudice, ma sono previste direttamente dalla legge come conseguenza della commissione di
alcuni tipi di reato. Quindi alla commissione di un certo reato oltre alla pena principale consegue di diritto
una delle pene accessorie.
L’elenco di tali pene è contenuto nell’art. 19 c.p.; si tratta di pene incapacitanti, nel senso che producono
per il condannato la perdita di particolari capacità e ciò dipende dalla gravità e dalla qualità del reato
commesso. Le pene accessorie per i delitti sono:
1. l'interdizione dai pubblici uffici;
2. l'interdizione da una professione o da un'arte;
3. l'interdizione legale;
4. l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;
5. l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione;
6. l'estinzione del rapporto di impiego o di lavoro;
7. la decadenza o la sospensione dall'esercizio della responsabilità genitoriale.
Le pene accessorie per le contravvenzioni sono:
1. la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte;
2. la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di
condanna.

Distinguere i delitti dalle contravvenzioni è importante non solo da un punto di vista classificatorio perché il
codice penale, nella parte generale, detta una disciplina diversa per i delitti rispetto alle contravvenzioni.
Le differenze di disciplina sono le seguenti:
a) la prima la ritroviamo all’art. 42 ultimo comma c.p.: tale articolo disciplina i criteri soggettivi di
imputazione di un reato (dolo, colpa, ecc.) e, al contempo, stabilisce una regola fondamentale
secondo la quale per i soli delitti, quando il legislatore non specifica diversamente, si risponde per
dolo. L’art. 3 della legge 689/81 usa la stessa formula dell’art. 42: quindi anche nell’illecito punitivo
amministrativo è necessario il criterio soggettivo, che sia il dolo o la colpa; anche in questo caso
però c’è l’elemento di flessibilità e cioè l’accertamento del criterio non deve farlo il giudice ma può
farlo l’amministratore;
b) la disciplina prevista per l’istituto del tentativo si applica solo ai delitti;

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c) alcune circostanze aggravanti sono applicabili solo ai delitti: un esempio è la circostanza di cui
all’art. 61 n. 3 c.p. che prevede la colpa cosciente o con previsione, questa può essere applicata
solo ai delitti e non alle contravvenzioni;
d) tempo di prescrizione del reato. La prescrizione del reato, intesa come tempo il cui decorso
produce l’estinzione del reato, è un istituto fondamentale; il computo di questo tempo cambia a
seconda che il reato sia un delitto o una contravvenzione. La logica sta nel fatto che il delitto è un
reato più grave e quindi ci vuole più tempo perché si prescriva, perché si cancelli; le
contravvenzioni, invece, in quanto reati meno gravi, vengono cancellate dal tempo in un periodo
più breve;
e) per le contravvenzioni è prevista una forma di estinzione specifica che non vale per i delitti e che si
chiama oblazione. Questo istituto ha avuto una serie di sviluppo interessanti dal punto di vista
applicativo proprio nei settori del diritto penale economico.

L’oblazione.
L'oblazione è un rito alternativo al giudizio penale mediante il quale, con il pagamento allo Stato di una
somma di denaro prestabilita, si estingue un particolare reato contravvenzionale; è una sorta di
depenalizzazione negoziata.
Il codice penale prevede 2 forme di oblazione: l’oblazione di cui all’art. 162 e la c.d. oblazione speciale di cui
all’art. 162 bis.
Art. 162 c.p.  il presupposto per l’applicazione di tale disposizione è che la contravvenzione sia punita con
la sola pena dell’ammenda. Quando è presente tale presupposto al contravventore è data la possibilità di
monetizzare la contravvenzione, cioè di pagare una somma di denaro ed estinguere così il reato. La somma
dovuta corrisponde ad un terzo del massimo dell’ammenda prevista per la violazione.
Art. 162 bis c.p.  è stato introdotto dalla legge 689/81 e prevede una forma più pesante di oblazione
ammessa nell’ipotesi in cui la contravvenzione venga punita con la pena alternativa dell’arresto o
dell’ammenda. Con l’oblazione speciale però non basta il pagamento di una somma di denaro per poter
estinguere la contravvenzione, che tra l’altro in questo caso è pari ad un mezzo del massimo dell’ammenda
stabilita, ma in questa seconda tipologia il giudice ha una discrezionalità rispetto all’accettazione o meno
dell’oblazione. In particolare, il giudice deve prima di tutto fare una valutazione soggettiva, cioè una
valutazione del soggetto autore della contravvenzione, a cui conseguono altre due valutazioni discrezionali:
la prima sulla gravità del fatto e la seconda sul fatto che il contravventore abbia eliminato o meno le
conseguenze dannose o pericolose del reato dopo averlo commesso. Quest’ultimo è un passaggio
fondamentale dal punto di vista della politica criminale, perché inaugura l’uso di istituti chiamati ad operare
dopo la commissione del fatto che inducono il contravventore a tenere un comportamento ripristinatorio
del fatto.

La prescrizione.
Decreto legislativo 758 del 1944  introduce un istituto di particolare successo, che è stato pertanto
replicato: l’istituto della prescrizione.
Il termine “prescrizione” è qui sinonimo di direttiva, la quale viene impartita da un’autorità amministrativa
al contravventore; infatti tale istituto trova il proprio fondamento nel potere di prescrizione riconosciuto in
capo ad una autorità amministrativa.
La prescrizione è un altro meccanismo estintivo delle contravvenzioni: secondo la logica di tale istituto il
legislatore promette l’estinzione del reato, e quindi la non punizione dell’autore del fatto, in cambio di un
comportamento post factum di tipo ripristinatorio nonché il pagamento di una somma di denaro.
L’istituto della prescrizione di cui stiamo parlando non deve però essere confuso con un altro istituto,
ugualmente chiamato, inteso come causa di estinzione del reato collegato al decorso del tempo successivo
alla consumazione dello stesso.

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Il campo di applicazione della prescrizione è ristretto alle sole contravvenzioni in materia di sicurezza e
igiene ambientale, punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda. Pertanto, l’organo di
vigilanza che si trova di fronte un tale reato ha il potere-dovere di impartire una prescrizione.
Per “organo di vigilanza” si intende, il più delle volte, il personale ispettivo delle ASL. Questo, però, non è
l’unica autorità che ha il potere di prescrizione, perché ad esso si affiancano eventualmente altre strutture
ispettive chiamate ad operare in ambiti di rischio lavorativo settoriale: ad es. per il rischio incendio l’organo
di vigilanza di riferimento è il personale dei vigili del fuoco; per il rischio connesso ad attività estrattiva
l’organo di vigilanza di riferimento è il personale del corpo delle miniere.
Come detto, la prescrizione viene impartita da una autorità amministrativa; quest’ultima, nell’ipotesi che
sia stato commesso un reato, interviene nell’esercizio delle funzioni della polizia giudiziaria come previsto
dall’art. 55 del c.p.p. e questo produce una conseguenza: la prescrizione è a tutti gli effetti un atto del
procedimento penale. Il contravventore che riceve la prescrizione, quindi, se ne contesta il merito, non può
impugnarla come se si trattasse di un atto amministrativo di fronte al competente tribunale amministrativo;
gli unici rimedi consentiti, infatti, sono quelli c.d. endoprocedimentali, ossia quelli previsti dal c.p.p.
La prescrizione viene notificata al contravventore, ossia alla persona fisica che ha violato il precetto
sanzionato dalla contravvenzione; tuttavia il d. lgs. 758/1944 prevede che la notifica della prescrizione
avvenga anche nei confronti del rappresentante legale dell’ente all’interno del quale il contravventore
opera. (Es. l’autorità ispettiva della ASL fa un’ispezione, dopo di che rilascia una prescrizione e la notifica
alla persona fisica autrice della contravvenzione, ma la deve notificare anche al rappresentante legale
dell’ente in cui il contravventore opera). Questo è molto rilevante al fine di smistare la responsabilità
penale all’interno dell’organizzazione d’impresa.
Il contenuto della prescrizione non è definito dal d. lgs. 758/1944, perché esso muta a seconda della regola
cautelare che è stata violata. Quindi non esiste un contenuto definito una volta per tutte della prescrizione,
ma esso dipende dal tipo di norma che è stata violata. Questa considerazione ci permette di comprendere
come è organizzato il sistema penale in ordine alla prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie
professionali: dal punto di vista della offensività il contenuto delle norme cautelari del TU del lavoro non
attiene alla lesione dei beni tutelati (salute, integrità fisica) ma piuttosto ad una anticipazione della tutela,
ossia ad un momento precedente l’infortunio o la malattia professionale. Si dice, nel gergo tecnico, che
queste contravvenzioni hanno come obiettivo quello di evitare anche solo che i lavoratori siano esposti al
pericolo di lesione.
Di qui, aprendo una parentesi, possiamo operare una distinzione fondamentale che vale in generale per
tutti i reati. Questi possono essere ulteriormente distinti in
 reati di pericolo: sono quelli che dal punto di vista dell’offensività si caratterizzano proprio per il
pericolo, nel senso che sono puniti perché capaci di mettere in pericolo i soggetti. Le
contravvenzioni del TU in materia di sicurezza sul lavoro sono reati di pericolo;
 reati di danno: si realizzano tramite comportamenti che non si limitano da esporre a pericolo i
lavoratori ma comportano anche una lesione, un danno effettivo per i lavoratori. Questi reati nel
nostro ordinamento sono essenzialmente 2: il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione
delle norme di sicurezza e igiene sul lavoro (art. 589 c.p.) e il delitto di lesioni personali colpose
aggravate dalla violazione delle norme di sicurezza e igiene sul lavoro (art. 590 c.p.).
inoltre è importante distinguere l’infortunio e la malattia professionale: la differenza sta nel tipo di
processo causale che determina l’evento, perché l’infortunio è il risultato di un processo causale
concentrato nel tempo di un turno di lavoro, quindi in un arco temporale ben definito, mentre la malattia
professionale, definita nei termini residuali della definizione di infortunio, è un tipo di lesione che dal punto
di vista causale si realizza attraverso un processo diluito nel tempo, che va oltre l’orizzonte temporale del
turno di lavoro.
Le norme cautelari di settore possono avere un contenuto rigido o elastico: si dice rigido quando il
contenuto di tali norme è ben definito, mentre si dice elastico quando tali norme rimettono all’organo

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ispettivo una certa discrezionalità per quanto riguarda il contenuto della prescrizione (e in questo caso si
presentano diversi problemi).
Una volta emanata la prescrizione è necessario effettuare un controllo della stessa di fronte all’autorità
amministrativa (e non al giudice come nell’oblazione). Mediante tale controllo si verifica la correttezza
dell’adempimento da parte del contravventore e l’avvenuto pagamento della somma di denaro, che in
questo caso è pari ad un quarto del massimo dell’ammenda violata.
 Se il controllo è positivo l’autorità di vigilanza deve darne comunicazione al PM affinché questo
possa poi richiedere l’archiviazione del caso.
 Se il controllo è negativo, invece, l’autorità di vigilanza deve darne comunque comunicazione al PM,
che in questo caso però esercita l’azione penale nei confronti del contravventore. Quest’ultimo,
tuttavia, potrà sempre attivarsi per ottenere l’oblazione di cui all’art. 162 bis.
Dal momento dell’iscrizione della notizia crimins nel registro degli indagati del PM fino all’esito della verifica
il procedimento penale rimane sospeso. La sospensione è molto importante perché in materia di
prescrizione del reato vedremo che ci saranno queste due situazioni che incidono sul corso della
prescrizione. La sospensione del procedimento penale sospende anche il corso della prescrizione.
L’istituto della prescrizione è risultato talmente efficacie che il legislatore, nel 2015, ha ritenuto di doverlo
replicare nel settore della tutela penale dell’ambiente (legge n. 68/2015).
Lo schema proposto nel 2015 è molto simile a quello visto in proposito della tutela penale in materia di
igiene e sicurezza sul lavoro:
 anche in questo caso abbiamo la distinzione tra contravvenzioni di pericolo e delitto di danno: le
prime le ritroviamo nel TU in materia di tutela dell’ambiente.
 Tuttavia, la prescrizione in materia ambientale deve essere asseverata da un punto di vista tecnico:
prima di rivolgere la prescrizione al contravventore, l’autorità amministrativa deve ottenere
un’asseverazione del contenuto della prescrizione dall’ARPA di ciascuna regione.
 Anche per la materia della tutela ambientale la copia della prescrizione deve essere notificata al
contravventore e al rappresentante legale dell’ente entro il quale esso opera.

La querela.
Un altro meccanismo che fa leva sulla questione preprocessuale della questione penale è la querela. La
querela è una delle c.d. condizioni di procedibilità: si tratta cioè di un istituto che ha una valenza più
processuale che sostanziale. Infatti la disciplina in materia di querela la troviamo ripartita tra il codice
penale (art. 120 e ss.) e il codice di procedura penale (art. 336 e ss.).
La regola fondamentale è che la procedibilità in materia penale è d’ufficio, quindi è un organo pubblico
che può e deve esercitare l’azione penale. Sono però previste delle eccezioni a questa regola: in alcuni casi,
infatti, la procedibilità per un reato invece che avvenire di impulso pubblico può avvenire anche tramite la
presentazione di un atto da parte della persona offesa con il quale essa esprime la volontà perché si
proceda per quel reato. Di qui possiamo distinguere tra:
 reati procedibili d’ufficio (regola)
 reati procedibili a querela di parte (eccezione).
La persona offesa dal reato è il titolare del bene giuridico offeso. La persona offesa è diversa dal soggetto
danneggiato (art. 185 c.p.), perché ogni reato oltre che ad essere un illecito penale è allo stesso tempo un
illecito civile. L’azione per ottenere il danno da reato può essere effettuata sia in sede civile che in sede
penale. Le due figure possono coincidere ma non necessariamente coincidono.
La facoltà di querela spetta alla persona offesa e può essere presentata entro un termine specifico che di
regola è pari a 3 mesi dalla conoscenza dell’offesa.
La querela può essere
 oggetto di rinuncia  si può rinunciare all’esercizio della querela;

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 oggetto di revoca  chi ha presentato querela può revocarla. Si parla in questo caso di remissione
di querela (art. 152 c.p.). L’effetto della remissione della querela è l’estinzione del reato.
Normalmente la persona offesa revoca la querela quando ha ottenuto il risarcimento del danno o
comportamenti riparatori da parte dell’autore del reato. In questo caso, quindi, vi è una risoluzione della
questione della responsabilità penale mediante di tipo conciliativo tra le parti. In alcuni casi però la legge
stabilisce che la querela, una volta presentata, non possa più essere rimettibile: in particolare nei delitti di
stalking e di violenza sessuale.
Art. 162 ter c.p.  introdotto nel 2017; tale articolo prevede che nei reati procedibili a querela il giudice
può dichiarare l’estinzione del reato quando l’autore del fatto ha riparato il danno mediante un
risarcimento oppure ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose dello stesso. In virtù
del fatto che spesso la condotta riparatoria induce il querelante a revocare la querela, il legislatore ha
ritenuto che il giudice possa rimettere l’estinzione del reato in presenza di un comportamento riparatorio,
anche se il querelante non ha revocato la querela.
Nel 2018, per permettere a questo istituto di operare in maniera estesa, il legislatore ha ampliato
notevolmente il numero di reati contro la persona o contro il patrimonio procedibili a querela.

Le pene detentive e le pene pecuniarie.


Come sappiamo, la pena di morte abbiamo non è più prevista dal nostro ordinamento. Essa non era
prevista neppure nel codice Zanardelli, mentre era prevista nel codice Rocco, da cui è stata poi
successivamente abolita.
L’art. 27 co. 4 della Costituzione inizialmente prevedeva la pena di morte solo nei casi previsti dalle leggi
militari in tempo di guerra. Anche questa previsione è stata cancellata con la legge costituzionale n. 1 del
2007, la quale abolisce la pena di morte ovunque nel nostro ordinamento. A livello europeo, inoltre, nel
2003 è stato firmato un protocollo aggiuntivo alla CEDU che prevede espressamente l’abolizione della pena
di morte; questo del resto è condizione necessaria per l’appartenenza al consiglio d’Europa.

Le pene detentive.
Le pene detentive possono essere distinte in 3 tipologie: l’ergastolo, la reclusione e l’arresto.
L’ergastolo. Come già anticipato, la previsione dell’ergastolo pone un problema di compatibilità con l’art.
27 co. 3 Cost. in quanto tale articolo prevede la prospettiva della rieducazione. La funzione della
rieducazione è evidentemente incompatibile con una pena senza fine come l’ergastolo, perché con essa il
condannato viene privato della prospettiva di tornare a vivere nel contesto sociale.
Nonostante questa iniziale considerazione la Corte costituzionale non si è mai pronunciata nel senso di
ritenere incostituzionale la pena dell’ergastolo e questo per una ragione: nel 1962 è stato stabilito che
anche l’ergastolano possa accedere all’istituto della liberazione condizionale, purché abbia scontato una
parte importante di pena. Più esattamente l’ergastolano può accedere alla liberazione condizionale dopo
aver scontato almeno 26 anni di pena detentiva, dando, al contempo, segni certi di ravvedimento.
La liberazione condizionale è una sorta di anticipazione di quelle che oggi sono le misure alternative alla
detenzione; è prevista dall’art. 176 c.p. e può essere concessa dal tribunale di sorveglianza. Il giudice che
concede la condizionale è un giudice diverso rispetto a quello che pronuncia la sentenza di condanna.
Quindi esistono due tipi di processi quando si parla di reato e di applicazione della pena: ù
i. un processo di cognizione, che può concludersi con la pronuncia della sentenza di condanna
ii. e un processo di esecuzione, in cui l’autorità di riferimento è diversa (tribunale di sorveglianza).
L’ergastolano che ottiene la condizionale diventa libero, ma è tenuto al rispetto di determinate prescrizioni:
se entro 5 anni dalla liberazione rispetta queste prescrizioni e non commette altri reati della stessa indole la
pena dell’ergastolo si estingue. Alla luce di questa possibilità che l’ordinamento dà all’ergastolano la Corte
cost., investita della questione, ha considerato l’ergastolo ordinario compatibile con l’art. 27 co. 3 Cost.
(sent. 264/1974).

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Tutto questo concerne l’ergastolo ordinario.
Accanto all’ergastolo ordinario esiste un’ipotesi particolare di ergastolo rispetto alla quale si pongono
opzioni più precise. È il c.d. ergastolo ostativo  art. 4 bis della c.d. legge penitenziaria (n. 354 del 1975).
Quest’ultima è una legge fondamentale del nostro ordinamento penalistico; l’esecuzione della pena è
disciplinata proprio da questa legge, detta anche legge carceraria.
L’art. 4 bis prevede che rispetto alla commissione di reati particolarmente capaci di destare allarme sociale,
(es. associazione di tipo mafioso, terrorismo, sequestro di persona), in assenza di collaborazione, il soggetto
autore non possa essere destinatario di tutta una serie di benefici penitenziari. In particolare l’ergastolano
non può accedere alla liberazione condizionale. Condizione necessaria per tale beneficio sono, infatti, i
segni di ravvedimento e la mancata collaborazione è intesa come la dimostrazione della non interruzione
dei rapporti con l’organizzazione di appartenenza. Il condannato, quindi, non dimostra di aver intrapreso il
percorso di rieducazione e per questo non è considerato meritevole dei benefici.
Da un punto di vista di politica criminale questo ragionamento presenta delle falle: non è detto che il
mafioso non collabori perché non si è allontanato dall’organizzazione, infatti potrebbe non collaborare per
altri motivi, come per paura di esporre a pericolo sé stesso o la sua famiglia; oppure può non collaborare
perché effettivamente non è a conoscenza di certi fatti. Quindi, in questo senso, l’equazione elaborata dalla
disciplina dell’ergastolo ostativo non funziona.
Di questo si è accorta la CEDU che nella Sentenza Viola contro Italia del 2019 ha ritenuto che la disciplina
dell’ergastolo ostativo si pone in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
perché considerato un comportamento inumano e degradante. La questione è stata considerata rilevante
poi anche dalla Corte costituzionale italiana, che con un’ordinanza ha usato lo stesso modus operandi usato
in proposito della rilevanza di una questione di costituzionalità sollevata in proposito del delitto di aiuto al
suicidio. Essa, dunque, mediante ordinanza ha ritenuto che ci sono fondate ragioni per dichiari rare
incostituzionale l’ergastolo ostativo, ma ha preferito investire della questione il Parlamento, dando anche
un termine al legislatore per intervenire e cambiare la norma per renderla compatibile. Siamo in attesa, il
termine scade nel mese di maggio.
La reclusione e l’arresto. Sono le altre due pene detentive e sono stabilite dal legislatore in una cornice
edittale, cioè tra un minimo ed un massimo, ed è il giudice che stabilisce poi il quantum concreto della
pena, esercitando un potere discrezionale. Quest’ultimo, però, non è assoluto ma deve essere vincolato al
rispetto di determinati criteri.
In primis, sulla questione della commisurazione della pena il giudice deve dare conto del proprio percorso
argomentativo, cioè deve motivare come ha quantificato concretamente la pena. In realtà, nella prassi, su
tale questione i giudici non si spendono più di tanto, anche perché si tende ad appiattire sul minimo della
pena piuttosto che avvicinarsi al massimo. In ogni caso la motivazione è collegata al rispetto di criteri di
commisurazione di cui all’art. 133 c.p.
I criteri di commisurazione di tale articolo sono polarizzati su due elementi che il giudice deve valutare:
 la gravità del reato, che viene stabilita in base al disvalore espresso dal reato. Il disvalore è
collegato alle due dimensioni fondamentali del reato, ossia all’elemento oggettivo e soggettivo.
In proposito possiamo distinguere altri 2 tipi di reato:
 reati di sola condotta: sono quelli strutturati con riferimento al mero comportamento
tenuto dall’autore, indipendentemente dalle conseguenze. Essi sono allo stesso tempo
reati di pericolo;
 reati di evento: reati in cui alla condotta segue l’evento, come nel caso dell’omicidio;
 la qualità del reato: il giudice deve guardare alle caratteristiche dell’autore del fatto, cioè la
capacità a delinquere del colpevole, nonché a tutti i fattori che possono determinare la scelta di
delinquere. La “capacità a delinquere” va letta con riferimento alle possibilità di recidiva, cioè che il
soggetto commetta in futuro altri reati.

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Art. 131 bis c.p. “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”.
L’espressione “tenuità del fatto” è possibile ricollegarla al principio di offensività. Tuttavia in questo articolo
non si parla di mancata offesa: l’offesa c’è ma è tenute, scarsa, modesta. E proprio facendo leva su questo il
legislatore consente al giudice di fare una valutazione su quanto sia importante l’offesa recata al bene
giuridico, perché se modesta e tenue il giudice può decidere che l’autore del fatto possa non essere punito.
Deve inoltre trattarsi di reati di disvalore medio-basso, in particolare di reati non puniti con pena detentiva
con un massimo non superiore a 5 anni. Sono richieste poi altre condizioni che attengono alle qualità
soggettive dell’autore, come il comportamento che non deve essere di tipo abituale.

Le pene pecuniarie.
Le pene pecuniarie sono di due tipologie: la multa e l’ammenda.
Anche le pene pecuniarie sono di regola legate a minimi e massimi edittali indicati dal legislatore e possono
essere previste da sole o congiunte, ossia congiuntamente a pene detentive.
Nello stabilire la pena tra il minimo e il massimo il giudice deve rispettare i medesimi criteri commisurativi
di cui all’art. 133 c.p., con l’aggiunta però di quanto previsto dall’art. 133 bis c.p. che riguarda le condizioni
economiche del reo.
Mentre la libertà personale è un bene che condividiamo tutti allo stesso modo, la pena pecuniaria pesa
diversamente a seconda delle condizioni economiche del condannato. Per correggere questo limite il
legislatore ha aggiunto la possibilità, nel determinare il quantum, per il giudice di aumentare/diminuire la
multa o l’ammenda tenendo conto delle condizioni economiche del reo. Anche in questo caso, però, sono
previsti dei limiti dal co. 2.
Nonostante questa possibilità, il sistema di determinazione della pena resta monofasico o a somma
complessiva. Questo sistema è considerato poco efficacie e da sempre si sostiene che siano più efficaci i
c.d. sistemi della commisurazione della pena pecuniaria per tassi giornalieri: è un sistema bifasico che
opera per quote. In una prima fase il giudice decide il numero di quote tra un minimo ed un massimo,
guardando ai criteri dell’art. 133; in un secondo momento, invece, attribuisce un valore alla quota sulla
base della capacità economica del condannato; dopodiché moltiplica il numero delle quote per il valore
stabilito.
Il sistema bifasico è usato nel nostro ordinamento attualmente per le pene pecuniarie dell’ente.
In Italia la pena pecuniaria ha poi un altro grande limite: l’effettività. Chi viene condannato al pagamento di
una pena pecuniaria quasi mai paga; la percentuale di mancati pagamenti delle pene pecuniarie è altissima.
Quando il condannato non adempie la pena pecuniaria risulta insolvente e la pena viene convertita in una
forma di sanzione che si chiama libertà controllata.
La libertà controllata si ha quando il condannato è libero ma è soggetto ad una serie di prescrizioni, come il
divieto di allontanamento dal comune di residenza o l’obbligo giornaliero di presentarsi alla stazione di
polizia per la firma, il ritiro della patente o del passaporto, ecc.
L’indice di ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive noi lo ritroviamo all’art. 135 c.p. e questo criterio è di
250 euro per ogni giorno di libertà controllata.
Dunque, la libertà controllata è
 da un lato, una misura sostitutiva delle pene non superiori a 6 mesi: il giudice invece di condannare
ad una pena inferiore a 6 mesi può usare la libertà controllata. In questo primo senso la libertà
controllata ha trovato poca applicazione, perché superata da altri istituti.
 dall’altro, è la modalità per convertire le pene pecuniarie non pagate.

La competenza penale del giudice di pace.


La competenza penale del giudice di pace, insieme alle sanzioni sostitutive della pena detentiva, completa il
quadro di una serie di circuiti paralleli che da un lato sono capaci di realizzare la deflazione dei carichi
giudiziari e dall’altro rappresentano una via di fuga dalla pena detentiva. Il legislatore, infatti, per superare

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la visione carcero centrica, immagina percorsi alternativi, in particolare per le pene detentive brevi,
attraverso dei meccanismi vari come quello previsto dall’art. 162 ter c.p.
Il giudice di pace non ha solo una competenza civile ma anche penale, istituita dal d. lgs. 274 del 2000.
Il giudice di pace, nell’esercizio della competenza penale, non può mai condannare ad una pena detentiva,
ma solo a pene pecuniarie, al lavoro di pubblica utilità o alla permanenza domiciliare. L’arsenale
sanzionatorio di cui il giudice di pace può disporre in sede penale è dunque limitato a queste tre tipologie di
sanzioni.
I reati rimessi alla competenza del giudice di pace, inoltre, sono reati che esprimono un disvalore modesto e
che procurano uno scarso allarme sociale: ad esempio il delitto di percosse, le lesioni personali lievissime, le
lesioni personali colpose, con l’esclusione delle lesioni cagionate per colpa professionale (quindi in
particolare con l’esclusione di quei fatti che sono la conseguenza della violazione delle norme della
sicurezza e igiene sul lavoro).
Nell’esercizio della competenza penale il giudice di pace ha poi a disposizione uno strumento di
conciliazione del tipo di quello previsto dall’art. 162 ter c.p. che è disciplinato dall’art. 35 del decreto
legislativo 274 del 2000.

Le misure alternative alla pena detentiva.


Le misure alternative alla pena detentiva, a differenza di quelle esaminate fino ad ora, non fanno capo al
giudice in sede di cognizione; quindi non è il giudice che deve conoscere e accertare la consistenza del reato
che può disporre tali misure, in quanto si limita solo a condannare il soggetto riconosciuto responsabile del
fatto. Le sanzioni sostitutive sono di competenza del giudice esecutivo della pena, ossia il tribunale di
sorveglianza, che può decidere circa l’eventuale ammissione del condannato ad una misura alternativa alla
detenzione.
L’ammissione del condannato a queste misure alternative comporta l’ammissione dello stesso ad un
percorso extracarcerario e permettono in maniera più efficace di realizzare la funzione educativa della pena
e la riduzione dei tassi di recidiva. È stato infatti dimostrato che coloro i quali hanno potuto beneficiare di
questi percorsi alternativi presentano dei tassi di recidiva in una misura considerevolmente meno
importante rispetto a coloro i quali invece non hanno avuta questa opportunità.
Nel realizzare e organizzare questi percorsi alternativi, a fianco alla competenza della magistratura, il nostro
ordinamento riconosce una competenza importante ai UEPE: uffici di esecuzione penale esterna. Questi
sono articolazione del Ministero della giustizia che hanno il compito di prendersi in carico le persone
ammesse alle misure esterne all’istituto penale.
Le misure alternative alla pena detentiva sono le seguenti:
 l’affidamento in prova al servizio sociale  è la più importante nonché la più nota. Perché il
condannato possa accedere a questa misura vi sono delle condizioni stabilite dal legislatore: il reo
deve essere stato condannato ad una pena detentiva non superiore a 4 anni; questo limite vale
anche con riferimento al residuo di pena, cioè è possibile chiedere l’ammissione a questa misura
anche nel caso in cui il condannato abbia un residuo di pena di 4 anni. Se il programma alternativo
previsto viene rispettato dal reo con esito positivo la pena si estingue.
 la detenzione domiciliare  è la possibilità di eseguire la pena in casa o in un altro luogo di cura
anziché in carcere. Si ricorre a questa misura per lo più per ragioni di tipo umanitario: es. nei
confronti di soggetti malati o fragili. Il limite di pena previsto dalla legge per l’ammissione a questa
misura alternativa è di 2 anni, anche come residuo.
 la semi libertà  si ha quando viene data la possibilità al condannato di trascorrere una parte della
giornata fuori dal carcere, in particolare per svolgere attività lavorative, per poi farvi la sera. La semi
libertà è una misura alternativa che può essere concessa anche agli ergastolani che abbiano
scontato almeno 20 anni di pena in detenzione.

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Oltre alle misure alternative alla detenzione la Legge penitenziaria (l. 354/1975) prevede i c.d. benefici
penitenziari. Ne ricordiamo 2:
 la liberazione anticipata  che consiste nella possibilità di avere degli sconti di pena paria a 45
giorni per ogni semestre di pena. Per ottenere tale beneficio è necessario che il reo tenga una
buona condotta e che dia segni positivi di partecipazione all’opera di rieducazione che viene svolta
all’interno del carcere. Tale beneficio, quindi, si presenta come un incentivo per aderire ai progetti
di rieducazione e di risocializzazione;
 i permessi premio  si aggiungono ai permessi di necessità concessi al condannato in relazione a
situazione di necessità che gli sono riconosciute, come ad es. la partecipazione al funerale di un
congiunto. Nei permessi di necessità il condannato esce sotto scorta, quindi non si configurano
come un potenziale pericolo. Diversa è la situazione per i permessi premio: questi possono
costituire un pericolo di evasione, perché viene concesso al condannato di uscire dal carcere senza
scorta. Nella logica rieducativa i permessi premio sono il modo attraverso il quale viene testata
l’efficacia del percorso di recupero e risocializzazione che viene svolto. Il magistrato di sorveglianza,
che decide da solo circa la concessione del permesso premio, può verificare che il percorso di
recupero si sta svolgendo in maniera fruttuosa in vista della concessione di una misura alternativa
alla detenzione. Le statistiche ci dicono, a dispetto da quello che talvolta viene fatto passare dai
media, che nella grande maggioranza dei casi i condannati che usano i permessi premio dimostrano
di meritarsi questa dose di responsabilizzazione.
I permessi premio sono l’unica possibilità di realizzare il diritto all’affettività nel nostro
ordinamento carcerario. Per “affettività” si intende la possibilità di trascorrere del tempo con la
propria famiglia, compagna, ecc., nel rispetto anche di una tutela della riservatezza e privacy che
altrimenti non sarebbe possibile, in quanto nei colloqui carcerari è sempre prevista la presenza del
personale di sorveglianza.

La funzione della pena.


La parte del diritto penale che si occupa della funzione della pena si chiama Teoria generale della pena.
Nessuna delle funzioni di cui tratteremo è capace di esaurire completamente gli scopi della pena nel nostro
ordinamento. Ci sono opinioni discordati in dottrina nonché orientamenti diversi della giurisprudenza in
proposito; tuttavia nessuno degli scopi dei quali diremo annulla gli altri, e questo fa sì che la teoria della
pena, quindi la funzione che la pena persegue, si presenti come il risultato di una sorta di sinergia e di
complementarietà di tutti questi orientamenti.

La teoria retributiva è la prima teoria, la più antica e tradizionale.


Secondo la teoria retributiva, la pena deve compensare il male perpetrato con la commissione del reato o
del peccato. Male compensato con altro male: questa è la logica retributiva. Alla luce del dolore che il reato
produce nei confronti delle vittime che lo subiscono, la pena deve andare a svolgere una funzione di
compensazione di quel dolore con altro dolore.
Questa logica retributiva ha una ricaduta di tipo garantistico: se la pena è dolore che deve compensare altro
dolore, il dolore della pena deve essere proporzionato al dolore che è stato determinato dal reato. Quindi la
teoria retributiva ha un indubbio valore positivo ancora valido oggi nel nostro ordinamento costituzionale,
ossia il valore di assicurare una proporzionalità tra disvalore del reato e disvalore della pena. La
proporzione, tra l’altro, è legata al concetto di ragionevolezza, che la Costituzione usa come metro per
valutare della costituzionalità delle pene stabilite dal legislatore.
Si dice che la teoria retributiva è una teoria assoluta. Questo significa che è una teoria che si disinteressa di
qualsiasi utilità pratica legata alla punizione. Non si punisce per determinare dei risultati utili dal punto di
vista pratico, ma solo per compensare il male con un altro male; in questo senso lo scopo della pena è uno
scopo assoluto. Quindi, il quadro empirico che deriva dall’inflizione della pena è totalmente trascurabile.

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Il presupposto per cui la teoria retributiva possa svolgere questa funzione è che l’autore del reato fosse
moralmente libero (libertà morale/libero arbitrio), ossia che si trovasse nella condizione di poter scegliere
tra bene e male ed ha consapevolmente scelto il secondo (Francesco Carrara). Motivo per cui andrà
incontro alle conseguenze che questa scelta produce. Ecco perché nella impostazione liberale classica del
diritto penale la teoria retributiva è la teoria più importante; legata tra l’altro al concetto di diritto penale
del fatto.
Nella teoria retributiva la colpevolezza è figlia della libertà morale, perché essa è sinonimo di rimprovero
per aver tenuto un comportamento che il soggetto avrebbe potuto non tenere. La pena, pertanto, è lo
strumento attraverso il quale si concretizza questo rimprovero; mentre le misure di sicurezza assolvono ad
un’altra funzione che è quella di neutralizzare la pericolosità sociale, riconosciuta in capo all’autore di un
reato.
Nell’ambito della teoria retributiva ricordiamo il pensiero del filosofo tedesco idealista Kant: egli nello
spiegare quale dovesse essere lo scopo della punizione portava l’esempio di una comunità che vive in
un’isola lontana, che ha dei detenuti nelle carceri da punire, ma che decide ad un certo punto di sciogliersi.
Kant ritiene che l’ultima cosa che devono fare i membri di questa comunità prima di sciogliersi è punire gli
autori dei reati, perché questo è un gesto dovuto alla dignità di essere razionale, la quale deve essere
riconosciuta anche al delinquente che sceglie di agire in un certo modo. Infliggendo la pena, dunque, si
onora il debito e la razionalità del condannato. Si capisce da qui che non c’è alcuno scopo di utilità sociale
da perseguire, perché la comunità sta per sciogliersi; quindi è irrilevante qualsiasi discorso sulla recidiva o
sulla rieducazione. La pena è assoluta.
Un altro filosofo che ha riconosciuto una validità alla teoria retributiva è stato Hegel. Nella sua concezione
dialettica il reato è la tesi (negazione del diritto), la pena è l’antitesi (negazione della negazione), e la sintesi
è l’aver ristabilito la situazione di legalità. Dunque la pena serve a ristabilire la condizione ideale di legalità e
non ha scopo pratico. Questa idea di Hegel la ritroveremo nel concetto di legittima difesa.

Le teorie relative  A fianco alla teoria retributiva esistono le c.d. teorie relative, le quali ritengono invece
che la pena debba assolvere ad uno scopo di utilità sociale. Le teorie relative, infatti, introducono il concetto
di “pena utile”. Quest’ultimo, in realtà, lo aveva già intravisto Cesare Beccaria nella sua opera, nella quale,
trattando della ratio della pena/del reato/ della punizione collegata al danno sociale prodotto, allude al
fatto che la pena debba produrre un risultato in chiave di utilità.
Secondo le teorie relative l’utilità che ci si aspetta che la pena realizzi è l’utilità preventiva.
La prevenzione per l’esattezza è di due tipi: prevenzione generale e prevenzione speciale; queste a loro
volta possono essere declinate in una forma positiva o in una forma negativa.
Prevenzione generale  quando parliamo di prevenzione generale facciamo riferimento alla collettività.
Dunque lo scopo della pena è quello di indurre un certo tipo di comportamento non al singolo autore del
reato ma alla collettività, al complesso dei consociati. La pena deve tendere a determinare come risultato
un certo tipo di comportamento collettivo.
In senso negativo la pena svolge la funzione di dissuasione o della coazione psicologica, secondo lo schema
del punirne 1 per educarne 100. Alla spinta criminosa si accompagna una controspinta costituita dalla pena,
la quale dovrebbe essere un fattore di condizionamento psicologico nei confronti dei consociati, secondo lo
schema Pavloviano.
Criticità avanzata: la verifica empirica  Ci si chiede infatti se la pena riesca effettivamente a svolgere
questa funzione di condizionamento. La risposta è più no che sì e possiamo fare una verifica proprio con
riferimento alla pena criminale più severa, e che secondo tale teoria dovrebbe produrre con più forza
questo effetto, ossia la pena di morte. C’è tutto un settore della criminologia che si occupa della verifica
dell’efficacia delle sanzioni, la c.d. criminologia quantitativa. Questi studi hanno documentato che, al
contrario, proprio negli stati abolizionisti i tassi di omicidio sono più bassi rispetto ai tassi registrati negli

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stati non abolizionisti. I numeri quindi smentiscono che la pena che meglio dovrebbe assolvere a questo
compito non produce in realtà questi risultati.
Lo stesso tipo di verifica è possibile svolgerla rispetto ad una criminalità diversa, che non è di tipo violento,
ossia la criminalità economica, verificando ancora una volta se i dati empirici confermano o meno la
capacità della teoria generale della pena di trattenere certi reati economici.
Criminalità economica: si tratta di una scoperta criminologica relativamente recente rispetto alla
criminalità tradizionale violenta, che era quella immaginata essenzialmente dal positivismo criminologico.
La criminalità economica diventa oggetto di studio in particolare ad opera degli studi pioneristici di
Sutherland (anni 40/50), il quale conia l’espressione “criminalità dei colletti bianchi”, ossia dei soggetti che
si collocano in strati sociali marginali, contrapposta alla criminalità dei colletti blu.
Sutherland mette in discussione l’idea per cui all’origine del crimine ci sia una devianza, quindi un risvolto di
anormalità rispetto ad un agire comune, indotto da diversi fattori interi o esterni. Al contrario, egli
considera che la criminalità economica ha origine da una omologazione, cioè dalla necessità di omologarsi
ad un agire criminale che domina in un certo ambiente sociale.
Dai suoi studi, pertanto, è possibile desumere una serie di considerazioni che caratterizzano la criminalità
dei colletti bianchi.
 In primis pensiamo al tipo di autore di questi reati: si tratta di un soggetto che si caratterizza per lo
stato sociale ricoperto; i reati dei colletti bianchi sono quelli commessi da soggetti rispettabili, di
elevata condizione sociale, nel corso della propria occupazione, cioè nello svolgimento della propria
funzione sociale. Sutherland, in virtù di ciò, elabora la seguente equazione: i soggetti che hanno più
potere sociale sarebbero tenuti ad una maggiore responsabilità sociale e quindi dovrebbero essere
destinatari di un alto grado di affidamento sociale. Ebbene il disvalore specifico del crimine del
colletto bianco risiede proprio in questo, cioè nel tradimento di questo dovere di responsabilità
sociale. Sutherland, che aveva studiato l’agire all’interno delle più importanti corporations
statunitensi, riuscì a dimostrare che in realtà non ci si trovava di fronte ad una forma di criminalità
marginale e ciò in ragione della particolare tipologia di vittimizzazione che è espressa dalla
criminalità dei colletti bianchi.
Il concetto di vittima del reato è diverso rispetto a quello di persona offesa dal reato e soggetto
danneggiato dal reato: la vittima del reato è un concetto che ha una propria connotazione
criminologica e raramente lo troviamo nei testi di diritto positivo penale. Si tratta, dunque, di un
concetto più criminologico che penalistico, ma esso comunque si riferisce a soggetti rispetto ai quali
si producono gli effetti del reato. Nella criminalità economica la vittimizzazione può presentare 2
elementi rilevanti: a) dal punto di vista quantitativo, l’estensione del numero delle vittime del
reato; b) guardando ad un dato qualitativo, la vittimizzazione nella criminalità economica può
presentare una gravità anch’essa molto importante e estremamente estesa. Diversamente dalla
criminalità violenta, di strada, che provoca una vittimizzazione ristretta.
Anche per i reati in materia di sicurezza sul lavoro o in materia ambientale la storia ci racconta di
reati criminosi con una vittimizzazione estremamente importante ed estesa (pensiamo al processo
per le morti da malattia professionale e per le conseguenze ambientali prodotte a seguito della
attività della Montedison negli stabilimenti di Porto malgherà)
Tuttavia, nonostante l’estensione del dato quantitativo e qualitativo relativo alla criminalità dei
colletti bianchi, l’opinione pubblica percepisce tale criminalità in termini poco allarmanti; al
contrario è maggiormente allarmata dai crimini violenti, di strada, cioè quelli dei quali ci parla la
cronaca nera tutti i giorni, a dispetto invece di fenomeni criminali che all’apparenza possono
sembrare meno pericolosi per la collettività ma che in realtà possono produrre conseguenze sociali
estremamente gravi.
Questo succede per diverse ragioni; una di queste potrebbe essere il fatto che l’immagine che le
imprese forniscono all’opinione pubblica spesso è alimentata dalle stesse imprese grazie ai mezzi di

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informazione di loro proprietà e questo riesce a far sì che di fronte agli occhi della collettività gli
esponenti del mondo imprenditoriale risultino come soggetti dotati di un qualche prestigio, di un
certo grado di rispettabilità, che solo in parte risulta intaccata da qualche sporadico episodio
criminale.
 La seconda caratteristica della criminalità dei colletti bianchi è la capacità di replicazione, ossia la
capacità di diventare sistemica. Questa è la considerazione più rilevante che possiamo ricavare
dagli studi del Sutherland. Che la criminalità dei c.b. tende a diventare sistema vuol dire che chi vive
in un determinato ambiente sociale nel quale qualche soggetto è capace di avvantaggiarsi sugli altri
tramite l’uso di pratiche criminali non può far altro che adeguarsi per sopravvivere.
Se queste sono le caratteristiche della criminalità dei colletti bianchi, ci si chiede se ha valenza il discorso
fatto intorno alla capacità dissuasiva della teoria general preventiva della penale risposta è NO, perché
questa criminalità è una criminalità di calcolo, cioè è il frutto di scelte profondamente razionali. Qui chi
sceglie di delinquere lo fa partendo da una valutazione di costi e benefici, cioè confrontando il vantaggio
economico che deriva dalla commissione del reato e il costo che potrebbe derivare dalla commissione dello
stesso, costo sia in termini di probabilità di essere scoperto sia in termini di gravità delle sanzioni.
Qui, pertanto, si colloca il concetto di certezza della pena: la certezza della pena non è la certezza di
scontare la stessa pena per la quale si è condannati, bensì è la certezza di essere scoperti. Più ci si avvicina
alla certezza di essere scoperti, più si realizza l’effetto preventivo cercato.
Quindi, da un lato abbiamo la certezza della pena come alta probabilità di essere scoperti, dall’altro la
certezza della pena come certezza di essere scoperti e andare incontro a sanzioni severe.
In Italia non sono state introdotte politiche criminali tendenti all’inasprimento delle sanzioni in relazione
alla commissione di reati economici (cosa che è avvenuta invece in America). Tuttavia nel complesso
l’ordinamento italiano, trascinato da impulsi internazionali, ha col tempo iniziato a dotarsi di meccanismi
punitivi capaci di agire sul fattore primario capace di incidere su questo tipo di criminalità che è
rappresentato dalla cultura interna alle imprese. Cioè si è capito che occorre agire sull’humus culturale che
caratterizza le imprese al proprio interno, perché è lì che si radica la scelta criminale come scelta di sistema.
Sono state progressivamente introdotte delle riforme comportanti forme innovative di punizione indirizzate
a innalzare la c.d. cultura della legalità interna alle aziende.
L’esempio più vistoso di meccanismo punitivo che ha come obiettivo quello di rafforzare la legalità interna
alle aziende è quello introdotto dal d. lgs. 231/2001, il quale pone al centro della punizione non la persona
fisica ma l’ente nel suo complesso.
La prevenzione generale in senso positivo, invece, è quella finalizzata non alla dissuasione ma alla
promozione di comportamenti positivi. Si tratta cioè di una prevenzione volta ad indurre comportamenti
virtuosi.
La questione della prevenzione generale positiva ha però uno spettro di applicazione più ampio rispetto alla
semplice criminalità dei colletti bianchi, che deve fare i conti con una obiezione di fondo non trascurabile
(professor Fiandaca): un ordinamento moderno penalistico dovrebbe essere caratterizzato dal dato della
laicità; questo non significa che diritto penale e religione devono essere separati e distinti, ma significa che
l’ordinamento penalistico dovrebbe essere neutrale, cioè non si dovrebbe proporre di innalzare i livelli di
eticità dei comportamenti dei consociati. Tuttavia una separazione netta tra diritto penale e moralità è
molto difficile, perché configurano come stessi poli di un unico ragionamento.
In effetti il legislatore italiano degli ultimi 10 anni ha colto anche un’opportunità che il diritto penale gli dà,
cioè quella di inaugurare politiche criminali capaci di svolgere una funzione di orientamento socioculturale.
Parliamo quindi un diritto penale che non si limita distruggere valori con la pena, ma che è altresì capace di
promuovere valori e di indicare alla comunità che ci sono valori e nuovi valori che si affacciano sulla scena
collettiva che meritano una tutela ad oltranza, anche quindi attraverso l’uso del diritto penale.

Il caporalato.

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Un esempio di criminalità economica è rappresentato dal fenomeno del caporalato, il quale può essere
definito come l’intermediazione illecita di mano d’opera. In materia è stata effettuata una riforma
penalistica, inerente sempre alla cultura della legalità dell’impresa: l’introduzione all’interno del c.p. della
fattispecie “delitto di caporalato”.
A dispetto del fenomeno caporalato, che è un fenomeno antico e fiorente in particolare nel sud Italia
nell’ambito dell’agricoltura, la prima normativa adottata con l’obiettivo di reprimerlo risale al 2011. Questa,
tra l’altro, è apparsa insufficiente e per questo è stata poi corretta dal legislatore penale nel 2016. Proprio
con quest’ultima modifica è stato introdotto il delitto di caporalato all’interno del c.p. all’art. 603 bis,
aggiunto al titolo XII dei delitti contro la persona. Il titolo XII del libro 2° del c.p. è quello che maggiormente
ha svolto la funzione di luogo in cui collezionare tutte le nuove forme di tutela della persona.
Un altro reato che possiamo collocare a fianco a quello dell’art. 603 bis è quello di cui all’art. 629 c.p.
relativo alla estorsione: anche questa fattispecie è stata usata dalla giurisprudenza per punire condotte
coercitive del datore nei confronti del prestatore di lavoro.
Per entrambe le fattispecie, caporalato o estorsione, nel nostro ordinamento mancava una norma che fosse
capace di punire la situazione per cui un lavoratore, che si trova in una particolare situazione di bisogno,
sceglie di eseguire la prestazione lavorativa in condizioni degradanti e di sfruttamento, anche senza essere
necessariamente esposto ad una forma di violenza o di minaccia che possono eventualmente essere
circostanze aggravanti. Lo stato di bisogno del lavoratore è una condizione di difficoltà, e non di necessità,
nel senso che il soggetto rimane libero di scegliere, però rappresenta una forma di pressione determinante.
La riforma del 2016, rispetto alla precedente del 2011, registra una modifica molto significativa che consiste
nello sdoppiamento del fatto punibile. A dispetto di quello che si ritiene comunemente, l’art. 603 bis c.p.
non si limita a punire solo il caporalato, ma punisce anche la successiva condotta del datore di lavoro di
utilizzazione della mano d’opera in condizione di sfruttamento. I fatti puniti da tale articolo, dunque, sono
due: alla prima condotta classica del caporale la riforma del 2016 ne aggiunge un’altra, la quale potrebbe
essere collegata alla prima ma non necessariamente lo è. Il datore di lavoro, infatti, potrebbe aver reclutato
i propri dipendenti anche al di fuori del canale della intermediazione illecita e quindi non necessariamente i
lavoratori sono stati reclutati dal caporale.
Schematizzando, l’art. 603 bis prevede 2 reati:
A. da un lato il reato del caporale, cioè colui che ha intermediato illecitamente mano d’opera,
B. dall’altro la condotta del datore che impieghi mano d’opera in condizione di sfruttamento,
approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, sia che questi siano stati reclutati tramite
caporale sia che siano stati reclutati in altro modo.
Come detto, queste due condotte non necessariamente sono collegate. Per questo è decisivo comprendere
quando sussistono degli indicatori capaci di rivelare quando un certo lavoro avviene in una condizione di
sfruttamento. In questo la norma è molto chiara ed individua 4 gli indici di sfruttamento:
1. la retribuzione  il lavoratore è sotto pagato. Il parametro di riferimento per verificare tale
indicatore è la contrattazione collettiva oppure la sproporzione rispetto alla qualità e quantità del
lavoro prestato (art. 36 C.);
2. l’osservanza dei tempi di lavoro  quindi la violazione reiterata delle norme sull’orario di lavoro;
3. la violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene sul lavoro  in questo caso la norma non
richiede una violazione sistematica, reiterata o grave, in quanto è sufficiente anche una violazione
isolata o occasionale di tali norme;
4. ultimo indice è quello che allude all’eventuale presenza di metodi di sorveglianza del lavoratore
degradante o l’aver messo a disposizione dei lavoratori soluzioni alloggiative degradanti.
Ai fini dell’accertamento della presenza di una condotta di sfruttamento di lavoro è necessaria la presenza
di uno solo di questi indici, non necessariamente questi devono essere compresenti.

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In generale possiamo dire che l’art. 603 bis c.p. rappresenta norma con un valore fondamentale dal punto
di vista della prevenzione generale positiva, nel senso di far emergere il valore della dignità del lavoro e la
necessità di proteggere il lavoratore dallo sfruttamento.
Un’altra fattispecie che possiamo collocare nello stesso tipo di logica è quella dell’art. 604 bis, in cui sono
confluite tutta una serie di disposizioni in materia di discriminazione. In particolare, all’interno di tale
disposizione hanno trovato la propria collocazione anche i c.d. fatti di negazionismo.
Questa disposizione è una di quelle che svolgono una funzione di orientamento socio culturale ed ha nel
nostro ordinamento un valore di tipo simbolico.

I nuovi delitti contro l’ambiente.


I nuovi delitti contro l’ambiente sono stati introdotti con la Legge n. 68 del 2015.
Prima di esaminare le più importanti disposizioni del Titolo sesto bis del libro 2° del c.p., che oggi accoglie
tali delitti, è necessario menzionare la recentissima Riforma costituzionale dell’11 febbraio 2022, contenuta
nella l. n. 1, la quale ha modificato il testo degli artt. 9 e 41 Cost.
Fino a questa riforma la nostra carta costituzionale non dava alcun riconoscimento esplicito al bene
ambiente; un tale riconoscimento, tra l’altro, è fondamentale per far sì che il bene giuridico ambiente possa
essere tutelato anche in materia penale. Il motivo della lacuna era dovuto al fatto che nel ‘48 le questioni
ambientali non si ponevano con la stessa urgenza e gravità con cui si pongono oggi. Tuttavia la Corte
costituzionale da tempo aveva riconosciuto un valore al bene ambiente, desumendolo da una serie di
disposizioni costituzionali che erano indirizzate ad altro:
 art. 32 Cost. che riconosce il bene della salute, individuale e collettivo; in particolare la corte ha
affermato che tra le condizioni necessarie per affermare la salute è necessario affermare le ragioni
della salubrità, quindi si riteneva che l’art. 32 già riconoscesse importanza al bene ambiente;
 art. 9 Cost. che è stato oggetto di modifica della riforma del febbraio scorso; questo articolo non
parlava di ambiente nello specifico bensì di paesaggio;
 art. 41 Cost. che è stato anch’esso oggetto di modifica da parte della legge del febbraio scorso;
 art. 117 Cost., che riconosce tra le materie di competenza esclusiva dello stato la materia della
tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, anche se non allo scopo di riservare a questi beni una tutela
particolare bensì allo scopo di ripartire le competenze tra stato e regioni.
Ad ogni modo, mancava un riferimento esplicito alla tutela del bene ambiente e con la L. cost. 1/2022 si è
affermata la consistenza piena del bene ambiente come bene oggetto di tutela.
La legge cost. 1/2022 ha apportato una modifica all’art. 9 e all’art. 41 della Costituzione:
 l’art. 9 C. ha visto l’aggiunta di un comma, ossia il secondo  nella prima parte di tale 2° comma si
fa in particolare riferimento alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. Nella
seconda parte, invece, si fa riferimento alla tutela degli animali; aggiunta utile dal p.d.v. del diritto
penale. Anche nell’ambito della tutela degli animali il legislatore ordinario è stato anticipatore, in
quanto già da diversi anni era stato aggiunto nel libro 2° del c.p. un titolo apposito dedicato non ai
alla tutela degli animali, ma al sentimento degli uomini che provano per gli animali. Il riferimento
espresso dalla riforma del 2022 nei confronti degli animali, quali soggetti meritevoli di tutela
autonoma rispetto al sentimento degli uomini, fa emergere le due prospettive alle quali è possibile
ricondurre la tutela dell’ambiente: la prospettiva antropocentrica e la prospettiva eco centrica. Il
diritto nel momento in cui si pone la questione di come e perché tutelare l’ambiente può scegliere
tra queste due diverse prospettive: la prima prevede la tutela dell’ambiente perché in questo modo
si realizza la tutela degli interessi umani collegati all’ambiente (es. gli interessi legati allo
sfruttamento delle risorse ambientali). Questa idea ad un certo punto è stata però messa in
discussione e si è fatta strada un’idea diversa, secondo la quale l’ambiente è meritevole di tutela a
prescindere dalla possibilità per cui attraverso tale tutela si realizzano interessi umani. Questa è la

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prospettiva eco centrica. Pertanto, attraverso l’accoglimento dell’ambiente e degli animali nella C.
questa seconda prospettiva è stata definitivamente avallata.
 l’art. 41  esso al 1° comma afferma che l’iniziativa economica privata è libera; tuttavia tale libertà
non è riconosciuta in maniera assoluta perché occorre bilanciare l’esercizio dell’attività d’impresa
con l’esistenza di altri beni di interesse. Il vecchio art. 41 al secondo comma menzionava tra gli altri
beni di interesse la scurezza, la libertà e la dignità umana. La Corte costituzionale ha sempre
ritenuto che all’interno di questi concetti rientrassero anche la salute e l’ambiente; la riforma del
2022 non ha fatto altro esplicitare questa idea. Quindi i beni che condizionano l’esercizio della
libertà d’impresa sono anche quelli della salute e dell’ambiente.
Per vedere come nel pratico la Corte costituzionale ha utilizzato questo nuovo art. 41, nella dialettica tra
esercizio della libertà di impresa e ed i beni dell’ambiente e della salute, è possibile segnalare 2 sentenze,
entrambe rese nelle vicende dell’Ilva Taranto.
Siamo intorno agli anni 2011/2012, la procura di Taranto si accorge che l’esercizio così come avveniva
dell’attività di impresa siderurgica comprometteva in maniera intollerabile i beni della salute e
dell’ambiente. Individua quindi una serie di fattispecie di reato che possiamo distinguere in reati contro la
salute dei lavoratori (delitto 436 c.p.), da un lato, e reati contro l’ambiente dall’altro.
Il procedimento penale aveva comportato il sequestro di una parte degli impianti; nonostante questo però
il governo, vista l’importanza di tali impianti, mediante un decreto, decide di concedere ai gestori dell’Ilva di
usare comunque gli impianti siderurgici, anche se oggetto di sequestro penale. La magistratura penale
quindi sequestrava tali impianti ed il governo neutralizzava gli effetti del sequestro mediante i c.d. decreti
salva Ilva. I due poteri dello stato, quindi, entrano in contrasto e quest’ultimo viene risolto dalla Corte
costituzionale, la quale in più occasioni si è dovuta pronunciare sulla legittimità di questi decreti.
In una prima sentenza (n. 85 del 2013) la corte, di fronte al conflitto fra beni tutti di rilievo costituzionale,
afferma che nessuno di questi interessi può essere considerato tiranno nei confronti degli altri, cioè
nessuno può essere considerato decisamente preponderante nei confronti degli altri. Salvando così nella
sostanza i decreti salva Ilva.
Questo atteggiamento però muta con una successiva sentenza (n. 58 del 2018) nella quale la corte
riconosce che il legislatore ha privilegiato in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività
produttiva trascurando gli interessi inviolabili della tutela della salute e della vita e quindi del diritto al
lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso. Assistiamo, dunque, ad un cambiamento di prospettiva
radicale: la corte ammette che ci sono interessi preponderanti, ex art. 41 della Costituzione.
La riforma del 2022, dunque, non fa altro che rafforzare questa prospettiva perché sancisce in maniera
esplicita che tra libertà d’impresa e salute e ambiente, sono questi ultimi due a prevalere.
Prima che introducessero queste fattispecie a tutela diretta dell’ambiente la magistratura al fine di tutelare
l’ambiente tentava di usare norme già presenti, anche se non direttamente atte all’ambiente. Un esempio,
nonché la fattispecie più usata era quella dell’art. 434 c.p. che chiudeva la fattispecie dei delitti contro
l’incolumità pubblica. In particolare, con l’espressione “altri disastri dolosi”, i c.d. disastri innominati, si
soleva fa rientrare anche i disastri ecologici.

Nel 2015, con l’approvazione della Legge n. 68, il legislatore mette a disposizione della magistratura norme
capaci di tutelare in maniera diretta l’ambiente: lo scenario cambia.
Innanzitutto c’è da dire che è abbastanza eccezionale il fatto che una riforma venga effettuata mediante
legge, anziché decreto legislativo. Anche il significato politico non è trascurabile da questo punto di vista:
questo testo di legge venne approvato con i voti della maggioranza e con i voti di una parte consistente
dell’opposizione di allora; quindi ci fu una convergenza politica su un testo di legge che si proponeva di
disegnare un volto completamente diverso della tutela penale dell’ambiente. Questo obiettivo è stato
perseguendo partendo da un input proveniente dall’ordinamento comunitario. Dunque, non si trattava di
un’iniziativa completamente nazionale, bensì di un disegno che in realtà era stato inaugurato da una

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direttiva dell’UE risalente al 2008, la quale era stata recepita in maniera parziale ed insufficiente dal d. lgs.
121/2011 che non aveva dimostrato il coraggio necessario per dare corpo alle indicazioni date dal
legislatore comunitario.
Lo fa invece la Legge n. 68 del 2015  Questa legge va in più direzioni, sono stati diversi gli interventi tutti
capaci di dare un nuovo assetto al diritto penale dell’ambiente. Senza dubbio l’innovazione più rilevante è
costituita dalla introduzione del Titolo sesto bis nel libro 2° del codice penale.

Titolo sesto bis, dei delitti contro l’ambiente.


Una prima osservazione che possiamo fare, relativamente a questo titolo, è la collocazione topografica: non
è casuale, infatti, il fatto di aver aggiunto tali delitti dopo quelli contro l’incolumità pubblica. Questo perché
le caratteristiche del bene incolumità pubblica e quelle del bene ambiente sono molto simili, in quanto in
entrambi i casi si tratta di apprestare una tutela giuridica non di singoli soggetti identificabili in maniera
specifica, ma di una collettività indeterminabile a priori di persone, cioè tutti coloro i quali vivono in un
determinato ambiente; soggetti sia presenti che futuri. Quindi si tratta di beni giuridici con un interesse
diffuso.
Nel Titolo sesto bis sono collocate le fattispecie capaci di tutelare il bene ambiente in diversi modi. Le più
importanti sono quelle di cui all’art. 452 bis e 452 quater c.p.
Per completezza, però, è utile vederne anche altre.
Art. 452 quaterdecies  che punisce l’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti. Questa fattispecie
storicamente è la prima che il legislatore penale italiano introduce nel nostro ordinamento per colpire un
fenomeno criminale allarmante che aggredisce l’ambiente, ossia l’ecomafia e gli eco delitti.
Per combattere questo fenomeno, il legislatore, mediate il Decreto Ronchi, ha introdotto alla fine del secolo
scorso questa nuova fattispecie di reato, che per la prima volta assume nel contesto della tutela
dell’ambiente la forma del delitto anziché della contravvenzione. Tuttavia questo delitto era rimasto fuori
dal sistema degli eco reati così come configurati dalla legge 68/2015; è stato proprio grazie all’art. 3 bis c.p.
che nel 2018 il legislatore ha scelto di spostare questa disciplina dal TU dell’ambiente al Titolo sesto bis del
c.p., completando così in modo anche simbolico il sistema di tutela delittuosa dell’ambiente.
Art. 452 septies  possiamo considerarlo come un punto di incontro tra contravvenzioni di pericolo e
delitti di danno; questa disposizione punisce l’impedimento del controllo, tutelando l’attività di controllo
delle autorità in materia ambientale.
Ad ogni modo, le più importanti fattispecie introdotte dalla legge del 2015 nel nuovo Titolo sesto bis sono
quella di cui all’art. 452 bis e quater.
Art. 452 bis “Inquinamento ambientale”  tale articolo è posto con una prospettiva eco centrica, infatti
leggendo la norma ci accorgiamo che tutti gli oggetti materiali delle condotte di inquinamento ambientale
prescindono da una dimensione umana, cioè legata all’interesse che l’uomo può vantare nei confronti
dell’ambiente.
Al n. 2, inoltre, viene introdotto un concetto chiave: quello di ecosistema, ossia il complesso delle
componenti abiotiche e biotiche di un ambiente ecologico, a cui si aggiunge la questione della biodiversità
della flora e della fauna. (Tutte queste sono nozione usate anche nel nuovo testo dell’art. 9 Cost.)
La condotta punita dalla fattispecie di cui all’art. 452 bis c.p. è la condotta di chi cagione una
compromissione o un deterioramento di una di queste componenti dell’ecosistema.
La compromissione ed il deterioramento sono due condotte che abbiamo già incontrato nella fattispecie del
danneggiamento; per cui potremmo più correttamente chiamare questa nuova fattispecie, piuttosto che di
inquinamento ambientale, di “danneggiamento ambientale”.
Per determinare quando un ecosistema è compromesso o deteriorato possiamo utilizzare una chiave di
lettura di tipo ecologico. In particolare possiamo riferirci al concetto di resilienza ecologica, termine che in
certi contesti tecnici assume un significato molto preciso. Per resilienza di un ecosistema si intende la
capacità di un ecosistema di tornare in una condizione di equilibrio a seguito di una condotta perturbatrice.
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Gli ecosistemi, anche se aggrediti, possiedono una capacità intrinseca di tornare in equilibrio, ed è questa la
resilienza ecologica. In virtù di ciò restiamo nell’ambito della fattispecie di inquinamento/danneggiamento
ambientale quando non si compromette la resilienza ecologica di un ecosistema, cioè quando la condotta
compromissoria che abbia deteriorato l’ecosistema non sia stata tale da comprometterne definitivamente
la resilienza.
Inoltre, molto importante è il fatto che il comportamento descritto fa riferimento al risultato che esso
produce. Si usa l’espressione “cagiona”, cioè produce in termine causali. Questo è l’elemento che ci indica
in modo inequivocabile che siamo di fronte ad un delitto di danno e non ad un reato di pericolo. Il delitto di
danno si ha, quindi, quando si descrive il risultato di una condotta, cioè l’evento del reato; inoltre tra
condotta ed evento, perché il reato possa sussistere, è necessaria la presenza di un nesso di causalità. Nel
reato di pericolo invece si punisce una condotta indipendentemente dal risultato che essa ha prodotto in
termini materiali.
La pena prevista per questo delitto va dai 2 ai 6 anni, ed è aumentata se l’ecosistema è un ambiente
tutelato.
Art. 452 quater “Disastro ambientale”  dal punto di vista della progressività di disvalore, tale
disposizione rappresenta uno stadio successivo. Dunque, qualora si superi il discrimine rappresentato dalla
compromissione radicale della resilienza ecologica si trascende dall’inquinamento ambientale per entrare
nel campo indentificato dalla fattispecie di disastro ambientale: inteso come alterazione irreversibile
dell’ecosistema. In questo caso l’equilibrio non può essere ripristinato, o al più è ripristinabile ma ad un
costo altissimo.
La differenza tra le due fattispecie non è da poco, infatti in questo secondo caso la pena va dai 5 ai 15 anni,
e può essere ulteriormente aumentata se il reato avviene in una zona protetta.
Anche questo è un delitto di evento naturalistico e quindi è necessario accertare il nesso causale.

Tra le altre cose, la Legge del 2015 ha inserito le fattispecie dell’inquinamento e del disastro ambientale
nell’elenco di quei reati che per la loro gravità si prescrivono in tempi lunghissimi. Questo significa che il
termine di prescrizione viene addirittura raddoppiato per questi reati (il tempo di prescrizione del reato
vedremo che dipende dalla quantità di pena).

Al fianco di queste due tipologie di comportamento e di evento, che designano un tipo di tutela eco
centrica, il legislatore ne ha aggiunta una terza che invece torna alla tradizione antropocentrica  n. 3, co.
2 art. 452 quater c.p.  si tratta dell’offesa alla pubblica incolumità, che è la prospettiva di tutela
tradizionale, cioè quella che caratterizza il titolo sesto del c.p.; in questo caso dovremmo parlare più
propriamente di “disastro sanitario”, che è proprio l’ipotesi che configura questo articolo. In particolare, si
punisce chi ha prodotto un disastro ecologico che abbia coinvolto anche un profilo sanitario, esponendo a
pericolo o danneggiando una cerchia indeterminabile a priori di popolazione (profilo che non è rilevante
nell’ipotesi di 452 bis).

Prevenzione speciale  altra funzione della pena in termini di prevenzione. Mentre la prevenzione
generale guarda alla generalità dei consociati, la prevenzione speciale guarda all’autore del fatto di reato.
Pertanto, erogando la pena, si intende evitare la recidiva dell’autore del fatto; questa è l’utilità concreta: si
vuole evitare che chi commette un reato possa tornare a commetterlo.
Per raggiungere tale utilità ci sono 2 modi: prevenzione speciale negativa e positiva.
 in senso negativo, è possibile impedire di commettere altri reati rendendo il reo innocuo,
neutralizzandolo, cioè mettendolo in una condizione di isolamento rispetto alla società, così che
non possa tornare a delinquere. In questa declinazione negativa della prevenzione speciale sul
singolo prevale l’esigenza c.d. della difesa della società;

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 in chiave positiva, invece, guardando la condizione di chi delinque, lo scopo non è quello di
neutralizzare il reo bensì quello di recuperarlo al vivere comune attraverso un percorso di
rieducazione e risocializzazione. Entrambe le prospettive, negativa e positiva, sono compresenti nel
nostro ordinamento.
In virtù di queste due declinazioni della special prevenzione i penalisti hanno elaborato l’idea del c.d. diritto
penale del nemico: come se nel nostro ordinamento ci fosse un diritto penale dell’amico, cioè del reo che
l’ordinamento deve prendere a cuore in una prospettiva del recupero, ed un diritto penale del nemico, cioè
del reo che per quello che ha fatto deve essere in qualche modo espulso dalla società.

Neutralizzazione  una forma di neutralizzazione è rappresentata dall’ergastolo ostativo, per cui l’autore di
un reato particolarmente odioso, se non collabora, rimane in carcere a vita, senza possibilità di riscatto,
rieducazione o risocializzazione.
Un altro esempio è il 41 bis, regime speciale pensato per gli autori di delitti gravi con lo scopo proprio di
isolare completamente il reo rispetto alla società.
La Costituzione di fronte a queste ipotesi di disciplina neutralizzante è intervenuta più volte sugli aspetti più
odiosi e crudi di neutralizzazione.

La funzione di prevenzione speciale positiva è la funzione della pena per antonomasia, perché è l’unica che
riceve un espresso riconoscimento da parte del legislatore addirittura a livello costituzionale: l’art. 27 co. 3
Cost. dispone, infatti, che “le pene (plurale, è importante perché il legislatore costituzionale è favorevole al
superamento di un impianto penologico di tipo carcerocentrico) devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Oltre a questa, ci sono anche altre norme della Costituzione che considerano l’obiettivo della
rieducazione: es. l’art. 3 Cost., il quale ci ricorda che la Repubblica ha un dovere positivo di realizzazione del
principio di uguaglianza, nel senso che deve rimuovere gli ostacoli per raggiungere tale scopo e in
particolare rispetto agli autori dei reati vuol dire puntare alla rieducazione e alla risocializzazione. Questo
scopo quindi è espressione dello stato di diritto di tipo sociale.
L’espressione “rieducare”, usata dal legislatore, però potrebbe far pensare che lo stato, attraverso la pena,
possa o voglia imporre una visione etica e morale e questo non corrisponde al concetto di laicità
dell’ordinamento. Proprio per questo motivo è preferibile utilizzare l’altra della “risocializzazione” e
“reinserimento sociale”.
Lo scopo rieducativo della pena è in particolare perseguito dalle norme che disciplinano l’esecuzione della
pena. Senz’altro anche il giudice di cognizione tiene conto di questa funzione della pena nel momento
dell’irrogazione della stessa, tuttavia lo scopo della risocializzazione trionfa ed è dominante nella seconda
fase della esecuzione della pena, cioè nelle norme che presiedono l’ordinamento penitenziario e in
particolare nelle norme contenute nella Legge n. 354 del 1975 (Legge penitenziaria). Questa contiene le
norme del “trattamento penitenziario”.
L’art. 1 di tale legge elenca i principi direttivi del trattamento penitenziario, riprendendo le nozioni
tratteggiate dall’art. 27 co. 3 Cost. pertanto, il trattamento penitenziario non può essere una forma di
imposizione, ma deve essere un percorso che può essere accettato o rigettato dal condannato, il quale può
esercitare così il diritto di rimanere sé stesso.
Una caratteristica del trattamento penitenziario è quello per cui esso deve essere impostato su un criterio
individualizzante: esso più che guardare al fatto deve guardare all’autore del fatto, facendo così venire in
primo piano le sue caratteristiche personali. Questo criterio viene ripreso e approfondito dall’art. 13 della
legge penitenziaria, dove si stabilisce che per individualizzare il trattamento occorre procedere da una
osservazione scientifica della personalità del condannato, perché solo attraverso una osservazione di
questo tipo è possibile individuare le cause che hanno condotto il soggetto a commettere il reato nonché il
programma capace di rimuoverle.

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L’art. 13 della legge 354/1975 è importante anche per un’altra ragione: esso rappresenta uno dei casi rari
nei quali in una norma del sistema penalistico si menziona un’altra funzione della pena della quale diremo,
ossia la funzione riparativa. Perché dall’osservazione ed individuazione delle cause della condotta criminale
può nascere un’opportunità per il condannato di una riflessione sul comportamento commesso dalla quale
si auspica possa nascere una considerazione da parte dello stesso circa le ragioni della vittima e quindi delle
possibili azioni di riparazione che il condannato è in grado di mettere in campo in suo favore.
Concretamente gli strumenti con cui è possibile perseguire l’obiettivo del trattamento sono diversi e sono
elencati all’art. 15 della legge 354/1975: es. l’istruzione, le attività culturali, le attività ricreative, le attività
sportive e tutte quelle altre attività che sono capaci di riannodare i collegamenti con il mondo esterno che il
reato aveva spezzato. Tuttavia, lo strumento principe del trattamento è rappresentato dal lavoro: solo
apprezzando il guadagno che si ricava dalla fatica del lavoro il condannato rispetterà il lavoro altrui. Le
forme di lavoro previste dall’ordinamento penitenziario sono diverse: lavori domestici che il condannato
può svolgere all’interno del carcere; lavoro di natura imprenditoriale, sempre svolto all’interno del carcere;
ma anche il lavoro esercitato fuori dal carcere, che rappresenta un momento essenziale per una serie di
istituti già studiati (come le pene alternative o la semi libertà).
Al fine di incentivare un imprenditore a dare un’occasione ad un condannato il legislatore concede una
serie di benefici fiscali, rendendo conveniente questa scelta.
Anche in questo caso bisogna verificare empiricamente se il trattamento penitenziario è efficacia e quindi
se questa prospettiva nei fatti è realizzata. Gli indici di recidiva per chi ha compiuto questo processo di
trattamento ci dicono che c’è una forte diminuzione della recidiva nel caso in cui il trattamento
penitenziario sia stato concretamente realizzato. Quindi i dati ci dicono che funziona.

Problema del sovraffollamento carcerario  problema dichiarato anche in una sentenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, con la quale l’Italia è stata condannata per la violazione dell’art 3 della
Convenzione perché la situazione di sovraffollamento è stata considerata una condizione di trattamento
disumano e degradante.
Dal problema del sovraffollamento deriva anche il problema dei suicidi in carcere, che sono ormai sempre
più frequenti. A fronte di questo, va perciò accolta con favore la crescita della c.d. area penale esterna, cioè
quell’area penale che riguardante l’utilizzo delle misure alternative alla detenzione e l’uso delle sanzioni
sostitutive e dei lavori di pubblica utilità. Se guardiamo ai numeri questa area di penalità esterna supera
addirittura quella dell’area carceraria perché al 2021 avevamo ben 61.000 persone, di queste una parte è
rappresentata dall’affidamento in prova nel servizio sociale ma ancor di più ad un meccanismo nuovo che è
rappresentato dall’istituto della c.d. sospensione del processo con messa alla prova. Questo è un istituto
che non è semplicemente alternativo alla pena, ma è alternativo anche al processo.

La sospensione condizionale della pena e la sospensione del procedimento penale.


La sospensione condizionale della pena è l’istituto con cui il sistema penalistico concede al condannato di
essere messo in prova. In particolare si tratta di concedere al condannato un periodo di tempo perché egli
possa dimostrare di essere in grado di non cadere nella recidiva. All’esito di questa prova l’effetto è quello
della estinzione del reato (artt. 163 e ss. c.p.).
In primis viene stabilito un limite di tempo, cioè una quantità massima di pena necessaria perché questa
possa essere sospesa condizionalmente: di regola la pena non deve essere superiore ai 2 anni. Il giudice di
fronte ad una condanna non superiore ai 2 anni, compiuta una valutazione sulla persona condannata e sul
fatto commesso, può pertanto concedere questo beneficio. Quando questo accade l’esecuzione della pena
viene sospesa per un periodo di prova, diverso a seconda che la condanna abbia avuto come titolo un
delitto o una contravvenzione, e se durante questo periodo il reo non commette reati della stessa indole
(non necessariamente lo stesso reato, ma anche reati diversi con degli elementi comuni, inerenti per lo più
il bene giuridico offeso) la pena si estingue.

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Mentre la sospensione condizionale della pena presuppone la condanna, la sospensione del procedimento
penale può essere chiesta prima, cioè nella fase decisoria del procedimento di primo grado e quindi prima
della sentenza di condanna (artt. 168 bis e ss.).
perché si possa usare tale istituto: non deve trattarsi di un reato con particolare allarme sociale e la cui
pena prevista non è superiore a 4 anni; inoltre non deve trattarsi neppure di tutta una serie di reati previsti
dalla norma stessa, a prescindere dalla quantità massima di tempo.
Chi chiede la sospensione del processo è l’imputato, sulla base di un programma che è definito con le
strutture degli uffici della UEPE. Oltre a questo programma è necessario anche che l’imputato offra una
prestazione di lavoro di pubblica utilità, quindi un’attività lavorativa non retribuita in favore della
collettività. Se l’esito di tutto questo è positivo il reato si estingue.
Sia la sospensione condizionale che la sospensione del processo possono essere revocate in caso di
trasgressioni del programma e nel caso in cui il soggetto commetta un reato della stessa indole rispetto a
quello già commesso.

Funzione riparativa della pena.


La giustizia riparativa può essere considerata un’altra funzione della pena, che ha una natura ideologica e
teorica completamente diversa rispetto a quelle visto finora. Fino questo momento, infatti, abbiamo
parlato di un diritto penale che punisce; quando si parla di giustizia riparativa, invece, si allude ad un diritto
penale che si propone di ricostruire legami spezzati dalla commissione del reato.
Di giustizia riparativa si inizia a parlare negli anni ‘70 negli Stati Uniti ed in Canada. Questa concezione ha
faticato ad affermarsi in Europa e in Italia, dove la vittima è un soggetto messo al margine dal diritto penale.
Nel paradigma della giustizia riparativa la vittima è posta al centro della funzione della pena. Perché possa
avvenire questa valorizzazione della posizione della vittima è necessaria molta cautela, per evitare la c.d.
vittimizzazione secondaria: cioè per evitare che chi sia stato vittima del reato diventi vittima per una
seconda volta.
La posizione della vittima se è molto trascurata dal nostro diritto penale, è molto a cuore nell’impianto della
CEDU: in molte occasioni abbiamo avuto dei procedimenti di fronte la CEDU nei quali le vittime di reato
hanno ottenuto condanne contro lo stato italiano per l’assenza di normative capaci di assicurare una
adeguata protezione, anche rispetto al rischio permanente di vittimizzazione secondaria. Proprio per questa
ragione la vittima del reato può partecipare al percorso di giustizia riparativa in maniera libera, nel senso
che essa può liberamente decidere di accettare di partecipare a questa forma di ricomposizione oppure no.
Inoltre questa forma di ricomposizione deve necessariamente essere cercata con l’aiuto di un soggetto
terzo imparziale che è il c.d. mediatore.
L’elenco, le definizioni ed i ruoli di questi soggetti della giustizia riparativa li ritroviamo nella direttiva
europea n. 29 del 2012: questa disciplina ogni procedimento che permette alla vittima e al reo di
partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti da reato
con l’aiuto di un terzo imparziale.
Gli istituti che attualmente fanno riferimento al paradigma della giustizia riparatoria sono:
 l’affidamento in prova al servizio sociale: il reo deve adoperarsi in favore della vittima del suo
reato;
 l’individualizzazione del trattamento penitenziario: consiste in un’osservazione della personalità
del condannato che deve implicare anche possibili azioni di riparazione delle conseguenze del
reato;
 reati procedibili a querela (art. 162 ter c.p.): nei quali il giudice può dichiarare estinto il reato di
fronte al risarcimento dei danni prodotti dal reo;
 giudice di pace art. 35.
Tuttavia nel nostro ordinamento manca una disciplina generale sulla giustizia riparativa.

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Il principio di legalità.
Art. 8 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 già dava corpo a questa idea della
legalità  “La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può
essere punito se non in virtù di una Legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente
applicata”.
Ritroviamo espresso lo stesso principio nell’art. 4 del codice napoleonico penale del 1810, che rappresenta
il modello per tutte le codificazioni penalistiche italiane preunitarie.
Anche a livello costituzionale, già l’art. 26 dello Statuto albertino disponeva che nessuno poteva essere
arrestato o tradotto in giudizio se non nei casi previsti dalla legge o nelle forme che essa prescriveva.
Attualmente, le disposizioni che configurano tale principio sono:
 l’art. 25 co. 2 Cost.  nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso;
 l’art. 7 CEDU  nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che al momento
in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto
internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al
momento in cui il reato è stato commesso.
 l’art. 1 c.p.  nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto
come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. (legalità del fatto e legalità
della pena)
 l’art. 199 c.p.  nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente
stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.
 l’art. 14 delle preleggi  Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
 l’art. 1 l. 689 del 1981: nessuno può essere assoggettato a sanzione amministrativa se non in forza
di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Quindi il principio di legalità è l’architrave di tutto il sistema punitivo, di quello specificatamente penale e di
quelle para penale. Il fatto che sia costituzionalizzato conduce poi ad una conseguenza decisiva perché il
legislatore ordinario non può derogarvi se non violando la costituzione, violazione che viene rilevata dalla
Corte costituzionale.
Il principio di legalità, così come lo abbiamo definito, si articola in 4 corollari:
1) il primo riguarda l’individuazione delle fonti che possono contenere la materia penale. A questo
proposito il principio di legalità impone la regola della riserva di legge, quindi riserva di legge in
materia penale;
2) il secondo riguarda la formulazione del precetto penale, cioè come deve essere formulato il
principio penale perché la regola della legalità non venga poi a svuotarsi. Il corollario che persegue
questo compito è il corollario della determinatezza;
3) il terzo, astrattamente collegato al secondo, è il corollario che riguarda le modalità di
interpretazione della legge penale. La legge penale può essere interpretata anche in maniera
estensiva con il limite però del divieto della analogia. Quindi divieto di analogia in materia penale;
4) l’ultimo corollario riguarda la legge penale nel tempo, che consiste nella regola della irretroattività
della legge penale.

La riserva di legge. (1)


Le fonti che possono contenere materia penale sono:
 le leggi, comprese quelle costituzionali
 i decreti governativi in tempo di guerra
 i decreti legislativi
 i decreti legge.

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La ragione per cui solo queste fonti posson contenere materia penale sta nel fatto che solo rispetto ad
essere un ruolo determinante è svolto dal parlamento, il quale è l’organo costituzionale deputato a definire
la materia penale. La scelta dell’incriminazione, così come quella della decriminazione, può essere rimessa
esclusivamente alla competenza del parlamento, quale extrema ratio, perché questo rappresenta la
nazione nella sua interezza, cioè tutte le componenti politiche della nazione, sia forze della maggioranza sia
forze della minoranza. Per cui mediante la dialettica parlamentare tutte le opinioni politiche hanno la
possibilità di esprimersi e quindi di condizionare questa scelta politica fondamentale.
Se questa è la ratio della riserva di legge, la possibilità che i decreti legislativi ed i decreti legge possano
contenere materia penale è ammessa ma con delle riserve, in quanto la funzione legislativa in questo caso
vede come protagonista il governo e non il parlamento.
Le leggi regionali, invece, non possono contenere materia penale. Per tanto tempo si è faticato a trovare
una indicazione normativa definitiva che permettesse di escludere una competenza delle regioni in materia
penale. L’argomento definitivo è giunto con la riscrittura dell’art. 117 Cost. che definisce le attribuzioni fra
stato e regione e che stabilisce la competenza esclusiva del primo in materia di ordinamento penale.
Quanto alle fonti sub legislative (ci riferiamo a quelle che presentano i caratteri della generalità e
dell’astrattezza) diciamo che di norma esse non possono contenere materia penale perché la scelta politica
come detto è consentita solo al parlamento. Tuttavia è ammesso un piccolo spazio di contributo per la
fonte secondaria in contesti molto particolari, cioè quelli nei quali il precetto penale necessita di una
specificazione di tipo tecnico che il parlamento non è in grado di offrire o di aggiornare in maniera
continuativa. Possiamo fare 2 esempi: in primis, possiamo pensare alla materia degli stupefacenti,
l’identificazione di cosa è la sostanza stupefacente è una questione tecnica piuttosto che politica, quindi
occorre un contributo di tipo tecnico che tenga anche conto della incessante introduzione di nuove
sostanze stupefacenti nel mercato che ormai è velocissimo; lo stesso discorso può essere fatto per le
sostanze dopanti, in quanto in materia di doping sussiste la stessa esigenza di adottare un decreto
ministeriale che provvede in questo senso.
Dunque lo scopo dell’apporto della fonte legislativa è quello di specificare più e meglio una scelta politica
che però rimane di esclusiva pertinenza parlamentare. Per questo è corretto parlare di una riserva di legge
tendenzialmente assoluta.
Può accadere che un ruolo nella definizione del precetto penale possa essere giocato non da una norma sub
legislativa generale ed astratta, ma da un provvedimento amministrativo individuale e concreto. L’esempio
che possiamo fare in proposito è quello dell’art. 650 del c.p.  Chiunque non osserva un provvedimento
legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o
d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con
l'ammenda fino a euro 206. Può essere considerato una norma penale in bianco o no? Viola oppure no la
regola costituzionale della riserva di legge in materia penale? No, perché si tratta di un provvedimento
individuale e concreto. Il provvedimento legalmente dato dall’autorità in questo caso funge semplicemente
da presupposto di fatto della punizione.
Quindi la fonte sub legislativa possiede una possibilità meramente residuale di partecipare alla definizione
della materia del divieto o del comando penalmente sanzionatorio. La p.a. non può quindi sostituirsi al
legislatore nella scelta politica di ciò che deve o può essere punito oppure no.
Il fatto che esista la riserva di legge, inoltre, esclude anche che la consuetudine possa avere una funzione sia
incriminatrice che abrogatrice. Ci si è però interrogati sulla possibilità che la consuetudine possa costituire
fonte di cause di non punibilità o di cause di giustificazione  la c.d. consuetudine scriminante. Questo
tema è divenuto recentemente attuale con riferimento alle c.d. scriminanti culturalmente orientate. Ci si
riferisce al fatto che la nostra società, che ha accolto persone provenienti da culture lontane dalla nostra, si
possa appellare a consuetudini pienamente accettate nei paesi da cui certi soggetti provengono al fine di
giustificare i loro comportamenti. La nostra giurisprudenza, in particolare quella della Corte di Cassazione,
ha escluso in radice la possibilità che questi tipi di consuetudini possano svolgere una funzione scriminante.

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La riserva di legge è una riserva di legge nazionale, e questo vuol dire che la competenza in materia penale
è di tipo autarchico, quindi capace di manifestarsi all’interno dei confini nazionali.
L’ordinamento comunitario non ha nessuna competenza diretta in materia penale, con nessuno dei suoi
strumenti. Le norme penali possono essere introdotte esclusivamente tramite norme nazionali. La
competenza dell’UE in materia penale è solo ed esclusivamente indiretta: l’UE può chiedere agli stati
membri di implementare il proprio ordinamento penale interno, ma solo in determinati casi, come ad
esempio per tutelare interessi che hanno rilevanza comunitaria (es. ambiente, direttiva 99 del 2008 con cui
l’UE ha richiesto di innalzare i livelli di tutela dell’ambiente anche attraverso l’introduzione di reati); per la
criminalità transnazionale; per un elenco di materie che troviamo all’interno dell’art. 83 del TFUE.
Cosa succede se il legislatore nazionale non ha tradotto in maniera corretta l’input dell’UE ed è quindi
possibile verificare un contrasto tra la norma interna e quella comunitaria? Per rispondere occorre fare
alcune premesse.
Bisogna in primis muovere dal principio della preminenza del diritto comunitario, principio riconosciuto da
tempo dalla corte di giustizia e recepito dalla nostra giurisprudenza costituzionale. Questo principio
disciplina il rapporto tra l’ordinamento interno e comunitario. In particolare riconosce al giudice penale il
potere di disapplicare le norme interne non conformi con il diritto comunitario; tuttavia questo potere non
può essere esercitato con una direttiva. In caso di contrasto tra direttiva e norma interna, contrasto
verificato dalla corte di giustizia, è necessario infatti sollevare una eccezione di incostituzionalità di una
norma penale interna che si sia discostata dalla direttiva comunitaria. Questa conclusione è stata raggiunta
muovendo da 3 norme fondamentale della nostra Costituzione  artt. 10-11-117.

Rapporto tra riserva di legge e CEDU.


Anche la CEDU deve essere considerata un parametro di costituzionalità delle norme interne ai sensi degli
artt. 10-11-117 Cost., che sono le c.d. norme interposte.
È importante ricordare la CEDU in quanto i suoi principi a volte possono dare garanzie maggiori rispetto alla
nostra Costituzione; da qui deriva l’obbligo di una interpretazione conforme, la quale permette di
concretizzare al meglio i principi costituzionali. Laddove non sia possibile un’interpretazione conforme alla
CEDU rispetto ad una norma interna il giudice ha la possibilità di sollevare una questione di legittimità
costituzionale per violazione degli artt. 10-11-117 Cost.
Un’altra questione è la c.d. materia penale: ci si è chiesto se i principi di garanzia della CEDU debbano
applicarsi solo alle norme che i singoli stati chiamano espressamente “penali” o se essi possano essere
applicati anche ai singoli istituti sanzionatori che i diversi ordinamenti chiamano in modo differente.
Partendo dall’esempio italiano, sappiamo che più propriamente non si dovrebbe parlare di diritto penale
ma di diritto punitivo, in quanto allo stesso si riconducono tutti gli istituti e le sanzioni che perseguono uno
scopo punitivo, anche se le sanzioni non appartengono al diritto penale in senso stretto. Se così non fosse
sarebbe molto facile per il legislatore usare la c.d. truffa delle etichette: questa viene posta in essere
quando un determinato illecito, invece di essere qualificato come reato viene chiamato in un altro modo
applicando un’altra sanzione rispetto a quella prevista dal c.p., sottraendo così quella sanzione ai principi di
garanzia della CEDU.
La giurisprudenza della corte di Strasburgo afferma che i principi della CEDU non si applicano solo alle
sanzioni che i singoli stati chiamano penali, ma a tutte le altre sanzioni che perseguono lo scopo punitivo.
Per garantire un’applicazione estesa la corte di Strasburgo ha elaborato una nozione in materia penale
antiformalistica, in particolare dando dei criteri enunciati nella sentenza Hengel contro i Paesi Bassi.
Il primo criterio è quello della qualificazione formale del fatto; il secondo ed il terzo sono i criteri sostanziali.
Il secondo prende in considerazione la gravità del fatto ed il terzo stabilisce che laddove vi sia un dubbio
circa la natura della sanzione bisognerà guardare lo scopo: se lo scopo è punitivo rientra nella materia
penale, se invece lo scopo è risarcitorio non rientra nell’applicazione dei principi CEDU.
È sufficiente che sussista anche uno solo di questi criteri.

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Un esempio di tipo processuale è la sentenza Grande Stevens contro Italia del 2014: Grande Stevens era
uno degli avvocati della Famiglia Agnelli coinvolto in una vicenda di manipolazione del mercato per i reati
di:
 insider trading  compravendita di titola di una determinata società da parte di soggetti che, per la
loro posizione all’interno della stessa o per la loro attività professionale, sono venuti in possesso di
informazioni privilegiate e non di pubblico dominio, usandole per trarne profitto;
 aggiotaggio  condotta di chi, usando notizie false e truffaldine, determina un’alterazione del
corso del prezzo dei beni.
Il TU della finanza, oltre che punire tali reati con sanzioni propriamente penali, punisce tali condotte anche
con l’aggiunta di sanzioni amministrative, che non competono al giudice penale bensì’ alla Consob. Grande
Stevens, destinatario di tali sanzioni, si rivolse alla corte di Strasburgo adducendo ad una violazione di un
grande principio di garanzia che la CEDU prevede in materia penale, ossia il principio ne bis in idem
sostanziale, cioè il diritto a non essere punito due volte per lo stesso fatto.
Tale principio è contenuto nel protocollo addizionale 7 all’art. 4; mentre nel nostro ordinamento è
disciplinato solo in ambito processuale.
L’art. 4 del protocollo 7 si riferisce non solo ad una doppia punibilità per uno stesso fatto concreto ma
anche ad uno stesso fatto che possa essere punito astrattamente due volte con sanzioni che hanno
semplicemente un nomen iuris diverso, facendo così venire allo scoperto la c.d. truffa delle etichette.
La corte ha pertanto concluso che le garanzie del principio di legalità si estendono a qualsiasi sanzione,
comunque sia qualificata dal punto di vista formale; ciò che importa è la natura punitiva.

Interessante è anche la vicenda Contrada: un funzionario del ministero fu accusato di concorso esterno
nell’associazione mafiosa.
Prima di esaminare tale vicenda dobbiamo però definire il “concorso di reato”. Questo si ha quando più
persone concorrono nel medesimo reato ed è disciplinato dagli artt. 110 e ss. del c.p.
Possiamo distinguere 2 tipologie di concorso di reato:
 concorso eventuale di reato (art. 110 c.p.)  quando vi è una eventualità di concorso;
 concorso necessario di reato  si configura quando le ipotesi criminose devono necessariamente
essere realizzate da più persone perché possa configurarsi il reato. Senza la partecipazione plurima,
quindi, non si ha quel particolare reato.
Una di queste ipotesi di concorso necessario di reato è quella della associazione per delinquere (art. 416
c.p.): quando 3 o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti. Qui è la norma stessa che
dispone che è indispensabile, perché si abbia associazione a delinquere, la presenza di più soggetti che si
associano. L’art. 416 bis c.p. poi descrive una ipotesi particolare di associazione per delinquere, ossia
l’associazione di tipo mafioso, che è anch’essa una fattispecie a concorso necessario ma con la specificità
derivante dalle caratteristiche della mafiosità dell’associazione, le quali sono descritte al comma 3 della
stessa norma.
Detto ciò, nel caso Contrada l’accusa era proprio quella di concorso esterno nell’associazione mafiosa.
La giurisprudenza della Corte di cassazione, innovando dal punto di vista del diritto vivente, ha ipotizzato la
possibilità di configurare una forma di compartecipazione eventuale rispetto ad una ipotesi a concorso
necessario. Ha dunque ipotizzato la possibilità di applicare l’art. 110 c.p. in un concorso a titolo necessario.
Dopo essere stato condannato in via definitiva per concorso eventuale in un reato a concorso necessario,
Contrada ha ritenuto di rivolgersi alla corte europea di Strasburgo, ricorrendo contro lo stato italiano,
contestando che tale condanna avesse violato il principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU. In particolare tale
principio sarebbe stato violato perché nel momento in cui Contrada commetteva i fatti contestati questa
soluzione giurisprudenziale non era ancora stata avanzata dalla giurisprudenza e non era dunque stata
consolidata; quindi questo orientamento era successivo ai fatti.
Pertanto, di fronte al ricorso di Contrada, con grande clamore, la CEDU ha accolto il ricorso di Contrada,
ricordando che i fatti per i quali egli è stato condannato erano fatti commessi fra la fine degli anni ‘70 e
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inizio anni ‘80. L’orientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento del concorso esterno si
consolida invece solo con l’intervento delle sezioni uniti nel 1994. Questo vuol dire che Contrada nel
momento in cui commetteva i fatti non era nella condizione di sapere che con quel comportamento stava
integrando una fattispecie di concorso eventuale nell’associazione mafiosa, perché quell’orientamento
giurisprudenziale non si era ancora formato e quindi la corte di cassazione nel condannarlo avrebbe fatto
un’applicazione retroattiva non della legge penale ma del diritto giurisprudenziale che si era formato solo
successivamente.
Le sezioni unite della cassazione italiana poi hanno ridimensionato la portata di quella decisione: nel 2020
infatti hanno affermato che la sentenza del 2015 non si può estendere oltre il singolo caso per il quale c’era
stato ricorso.
Ad ogni modo, questa sentenza è molto importante in quanto la CEDU ha equiparato la legge al diritto
giurisprudenziale.

Il principio di determinatezza. (2)


Il principio di determinatezza è un corollario ulteriore del principio di legalità. Questo principio si rivolge
direttamente al legislatore e dispone che egli ha il dovere costituzionale di scrivere le leggi penali in
maniera determinata. La norma penale, quindi, deve essere scritta in modo determinato.
Precisione, chiarezza e determinatezza sono simili; quindi i relativi principi sono similari tra loro.
Tecniche di redazione della norma penale  il giudice quando descrive un reato può usare elementi
descrittivi o normativi. I primi sono elementi che fanno riferimento a concetti che appartengono al sentire
comune (es. concetto di uomo o concetto di morte/omicidio), quindi non ci può essere più di tanto
contrasto nell’intendere il significato di uno di questi concetti; i secondi, invece, possono essere elementi di
tipo sociale o di tipo giuridico: quelli di tipo sociale sono ad esempio quelli di atti osceni, il metro è un
metro di costume che corrisponde ad una norma sociale che per sua stessa natura è destinata ad evolversi
e a modificarsi; altre volte il giudice deve definire un concetto partendo da una norma giuridica.
La determinatezza riguarda sia la descrizione del fatto, quindi gli elementi descrittivi e normativi, sia la
quantificazione della pena, quindi la previsione di una cornice edittale che non sia eccessivamente dilatata.
La corte costituzionale ha in alcune occasioni dichiarato incostituzionale una norma in quanto
indeterminata; ciò è avvenuto in realtà in poche occasioni perché il più delle volte la corte ha respinto le
eccezioni di incostituzionalità fondate sull’indeterminatezza della previsione e lo ha fatto sulla base della
possibilità per cui, attraverso l’applicazione giurisprudenziale, una norma indeterminata potrebbe essere
migliorata anche dal punto di vista della precisione. La corte quindi ha ritenuto non indeterminata la
fattispecie incriminatrice tutte le volte che sia stato possibile per la giurisprudenza offrire di essa una
indicazione costante nel tempo. Questo conferma una tendenza in atto da tempo: cioè l’integrazione della
legalità formale con il processo giurisprudenziale.
Una delle rare ipotesi nelle quali è stata accolta l’eccezione di indeterminatezza è quella relativa al delitto di
plagio, delitto contro la persona, impugnato in quanto ritenuto indeterminato sent. 96/1981.
La condotta di plagio era definita come la riduzione di una persona in uno stato di soggezione ma da un
p.d.v. psicologico e non fisico/materiale. La corte costituzionale ha ritenuto questa previsione non
conforme al canone di determinatezza, poiché non era possibile accertare nel giudizio una condizione
psicologica di questo tipo.
Possiamo, invece, riscontrare una serie di fattispecie di reati che hanno perso il limite di indeterminatezza
solo grazie ad un percorso giurisprudenziale di interpretazione, acquisendo così tutta una serie di elementi
determinatori.
A. Prendiamo ad esempio la fattispecie di traffico di influenze illecite: introdotta nell’ordinamento di
recente, prendendo il posto di un delitto già esistente contro la p.a. che era quello del millantato
credito. Questa fattispecie è stata collocata nell’art. 346 bis c.p. e sin da subito la giurisprudenza si
è interrogata sul contenuto che questa fattispecie dovesse avere per perdere il connotato di

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indeterminatezza, che da più interpreti era stata sollevata. Con la previsione del traffico di influenze
il legislatore ha voluto punire una forma prodromica alla corruzione, sottoponendo a pena tutte
quelle condotte in precedenza irrilevanti ma preparatorie rispetto alla corruzione, le quali
consistono in accordi aventi ad oggetto le illecite influenze su un pubblico agente che uno dei
contraenti, il c.d. trafficante, promette di esercitare in favore dell’altro. Quindi tutte quelle
condotte relative alla vendita della possibilità di agire su un pubblico agente. Il problema della
norma sta nella distinzione effettiva tra le forme di influenza lecite e quelle indebite, perché il 346
bis non definisce l’influenza illecita (indeterminatezza). Con una sentenza del 2021 la
giurisprudenza è riuscita ad indicare un principio di diritto capace di raggiungere tale obiettivo. La
Cassazione, in particolare, fa leva sulla finalità perseguita mediante la mediazione e dunque
dispone che è illecita la mediazione quando è finalizzata alla commissione di un reato. La
determinatezza viene così conquistata mediante l’interpretazione della Cassazione.
B. Un’altra fattispecie a cui possiamo accennare in questo contesto è quella del delitto di stalking (art.
612 bis c.p.). Questa, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, è stata adattata a contesti di
tutela inediti rispetto alla scelta originaria del legislatore. Lo stalking nasce per proteggere la vittima
di condotte reiterate di minaccia e molestia in contesti ben specifici; tuttavia la giurisprudenza ha
usato questo reato per adattare gli stessi scopi di tutela in altri contesti molto rilevanti. Ad esempio
è pacifico nella giurisprudenza della cassazione usare l’art. 612 bis per punire il c.d. stalking
condominiale oppure per punire alcune gravi forme di mobbing.
Il mobbing consiste in condotte di molestia che si realizzano sul luogo di lavoro da parte del datore
di lavoro o del superiore gerarchico nei confronti di un sottoposto, ma anche tra colleghi. Si tratta di
comportamenti vessatori e di esclusione, capaci di produrre conseguenze in termini di salute nei
confronti di chi li subisce. Questa condotta, quindi, è assimilabile a quella presa in considerazione
dall’art. 612 bis che tratta di condotte reiterate, minacce o molestie tali da cagionare un perdurante
e grave stato di ansia o di paura, nonché timore per l’incolumità propria o di un soggetto a sé
prossimo. Attraverso questa estensione del 612 bis la giurisprudenza assicura al lavoratore
mobbizzato non solo una tutela civilistica ma anche una penalistica. La sentenza con cui la
Cassazione ha incluso il mobbing nel 612 bis è particolarmente interessante in quanto riconosce
che la condotta di atti vessatori può esplicarsi con modalità atipica (l’illecito penale di norma è
tipico); eppure da questa atipicità la cassazione è in grado di costruire una nuova tipicità per via
interpretativa, adattando il contesto nel quale si situa la condotta persecutoria. Questo isolato
orientamento è stato confermato da una più recente decisione che ha un valore doppio perché è
resa da una cassazione penale riunita a sezioni unite (n. 3842/2021): questa conferma come la
sistematica reiterazione di atti ostili e persecutori verso il dipendente, con l’esclusiva finalità di
mortificarne personalità e dignità, può comportare la configurabilità del reato di atti persecutori
(stalking) di cui all’art. 612 bis c.p.

Il divieto di analogia. (3)


Il divieto di analogia è il terzo corollario del principio di legalità in materia penale.
L’analogia può essere definita come il modo che ha l’interprete di colmare una lacuna dell’ordinamento,
usando una disposizione già esistente e che disciplina un caso analogo.
Per comprendere il senso del divieto di analogia in materia penale dobbiamo partire dal concetto di
interpretazione del diritto penale e dal presupposto per cui l’analogia in realtà non è una forma di
interpretazione della legge penale bensì una fonte del diritto.
Nel diritto civile si fa spesso ricorso all’analogia, e questo perché l’ordinamento civile è continuo, nel senso
che non può contenere lacune e quindi tutte le fattispecie, anche quelle nuove, devono in qualche modo
essere disciplinate. Per tale ragione o esiste una norma o il giudice la crea attraverso un’analogia, che così si
configura come fonte del diritto.

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Il diritto penale, invece, è un ordinamento discontinuo: non è destinato a disciplinare necessariamente tutte
le situazioni ma solo quelle più gravi e davvero meritevoli di essere destinatarie di una norma penale, sulla
base del principio di sussidiarietà e sulla base della logica dell’extrema ratio. L’ordinamento penalistico,
tuttavia, tende ad essere continuo quando si tratta di tutelare beni di estrema importanza (es. la vita),
mentre è meno continuo quando si tratta di tutelare beni di minore importanza (es. patrimonio). Pertanto
se ci sono lacune nell’ordinamento penale è perché il legislatore ha ritenuto che quelle lacune debbano
esserci, in quanto, rispetto a quelle ipotesi, per il legislatore non sussiste la necessità di prevedere una
norma penale (che deve essere sempre un’extrema ratio).
Dunque, in linea di massima, l’analogia nel diritto penale non è consentita, perché se il giudice ricorresse
all’analogia il giudice farebbe quello che compete al parlamento. L’analogia è vietata innanzitutto dall’art.
14 delle preleggi e poi dall’art. 25 co. 2 Cost. in particolare però l’analogia in materia penale è vietata se è in
malam partem, mentre si ritiene che possa essere consentita quando è in bonam partem.
L’analogia deve essere distinta dalla c.d. interpretazione estensiva della legge penale. I criteri di
interpretazione sono diversi:
 il primo criterio è il criterio letterale, per il quale la legge penale si interpreta in senso letterale.
Questo criterio è un principio generale dell’ordinamento valido per qualsiasi norma, non solo quella
penale. Ai sensi di tale criterio il giudice deve attenersi al significato semantico dei termini impiegati
dal legislatore, al senso linguistico di quel termine. Rispetto a tale significato il legislatore può
estenderlo al massimo, ma non può andare al di là del significato linguistico della parola.
 un altro criterio importante è il criterio teleologico, che guarda al bene giuridico tutelato. Secondo
tale criterio tra più possibili interpretazioni letterali di una norma, il giudice deve scegliere quella
che meglio soddisfa l’esigenza imposta dal rispetto del principio di offensività.
 ultimo criterio è quello dell’interpretazione conforme alla Costituzione.
All’interno di questi 3 criteri il giudice ha una libertà di movimento molto ampia e questo può mettere in
crisi il principio di legalità nella sua forma più rigida, cioè quella che deriva dalla elaborazione illuministica
per cui il ruolo del giudice, rispetto alla interpretazione della legge, è un ruolo limitatissimo: giudice come
bocca della legge.

La successione delle leggi penali nel tempo. (4)


Ultimo corollario del principio di legalità è quello che attiene alla successione di leggi penali nel tempo e che
è disciplinato dall’art. 2 c.p.
Tale articolo è formato da più commi che vanno esaminati separatamente:
 Comma 1  nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato.
Questo comma ribadisce il principio della irretroattività della legge penale sfavorevole, per cui la
punizione non può riguardare fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma che la
istituisce. Questo principio vale in generale per tutte le norme dell’ordinamento, tuttavia la
peculiarità della disciplina penale è che questo principio oltre che ad essere previsto dalla legge
ordinaria, è previsto anche da una norma costituzionale (art. 25 co. 2 Cost.), oltre che in particolare
dall’art. 7 della CEDU.
 Comma 2  nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisca reato; e se vi è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
Questo comma tratta di una condotta che nel momento in cui viene realizzata è punita, ma dopo la
norma che punisce quel comportamento viene abrogata: ipotesi della abrogatio criminis.
Conseguenza di questa ipotesi è che se il processo è in corso il soggetto viene automaticamente
prosciolto; se invece è stata pronunciata una condanna definitiva l’esecuzione della pena emessa
con sentenza passata in giudicato cessa così come cessano tutti gli effetti penali. Questa ipotesi,
dunque, travolge anche il giudicato.

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 Comma 3  tratta una particolare ipotesi di retroattività della norma più favorevole, cioè il caso di
una modifica legislativa che sostituisce alla pena detentiva, originariamente prevista, una pena
pecuniaria. Tale comma dispone che se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore
prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente
nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 135.
 Comma 4  se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile.
Immaginiamo che un soggetto viene punito per un fatto commesso, ma che poi la norma punitiva
viene successivamente modificata. Quel fatto continua ad essere punito ma in termini diversi.
Questa è la vera ipotesi di successione di una legge penale nel tempo. La conseguenza prevista dal
c.p. è che se la nuova disciplina è peggiorativa si applica il principio di irretroattività, se la nuova
disciplina è invece migliorativa, e quindi più favorevole al reo, si applica il principio di retroattività
della legge più favorevole. Quest’ultimo, però, incontra il limite del giudicato, che rappresenta uno
sbarramento invalicabile, per cui se è già stata pronunciata una condanna l’esecuzione della
sentenza non si interrompe.
Dunque, la ratio sottostante al principio di retroattività della norma più favorevole è il principio di
uguaglianza, che non vuole che soggetti che hanno commesso lo stesso fatto vengano trattati in
maniera diversa a seconda del momento in cui l’hanno commesso, col limite del giudicato che è
giustificato dal principio della certezza del diritto.
 Comma 5  prevede una disciplina derogatoria rispetto a quanto detto, disponendo che se si
tratta di leggi eccezionali o temporanee non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

Una disciplina peculiare è poi prevista per le misure di sicurezza ex art. 200 c.p.:
 al comma 1 prevede che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della
loro applicazione; dunque il legislatore in questo caso ha previsto l’applicazione del principio del
tempus regit actum, al posto del principio della irretroattività;
 al comma 2 invece prevede che se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è
diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione.
La disciplina diversa è dovuta al fatto che le misure di sicurezza svolgono, rispetto alle pene, la funzione
peculiare di rispondere alla pericolosità sociale dell’autore del reato. La misura di sicurezza dunque
funziona in maniera ancora più specifica, come una funzione di tipo terapeutico.

Altra disciplina peculiare è quella che riguarda i decreti legge non convertiti. Secondo la attuale disciplina
costituzionale il decreto legge, contenente materia penale, non convertito è come se non fosse mai esistito,
cioè perde di efficacia ex tunc.
Un problema particolare però si pone quando un decreto legge non convertito introduce una disciplina di
favore per il reo. In questo caso bisogna separare l’ipotesi dei fatti concomitanti alla vigenza del decreto
non convertito e l’ipotesi dei fatti antecedenti alla vigenza dello stesso, cioè commessi prima della sua
entrata in vigore. Per i secondi nulla questio; per i primi invece si applicherà il regime più favorevole
previsto dal decreto legge poi non convertito.
Lo stesso tipo di considerazione lo dobbiamo fare a proposito delle leggi dichiarate incostituzionali. Anche
queste vengono cancellate dall’ordinamento in maniera radicale, cioè in modo da considerarle come non
esistite. Quindi anche a proposito di chi ha commesso un fatto in relazione ad una norma poi dichiarata
incostituzionale dobbiamo svolgere lo stesso tipo di ragionamento.

L’ultimo punto da esaminare sulla successione delle norme penali è il problema della datazione del reato,
problema rilevantissimo in materia in quanto datare il reato significa collocarlo nel tempo: dargli una data
di inizio e una data di fine utili non solo per stabilire quale legge deve essere applicata a quel fatto, ma
anche per le norme in materia di prescrizione.
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La risoluzione intorno alla datazione cambia a seconda dell’istituto da applicare, in quanto una cosa è
definirne la data ai fini della prescrizione, un’altra è con riguardo all’applicazione della legge penale nel
tempo. Riguardo al primo punto, è necessario che il reato sia esaurito e per questo faremo riferimento
all’art 158 c.p. “dal giorno della consumazione”, per cui il concetto di riferimento è la completezza del reato
nei suoi elementi costitutivi (consumato).
Per quanto riguarda invece la decisione circa la legge applicabile, vale un criterio diverso che prevede la
distinzione tra
 reati istantanei: sono quelli che si consumano in un istante, anche se la realizzazione ha tempi
molto lunghi. Un esempio è l’omicidio. La datazione per la prescrizione quindi corrisponde nel
momento in cui si realizza l’evento.
 reati a distanza: si tratta di casistiche nelle quali gli eventi non seguono le condotte, ma si
verificano a distanza di molto tempo rispetto ai comportamenti che li provocano. La giurisprudenza
si è pronunciata con riferimento a 2 casistiche particolari:
o malattia professionale dovuta all’esposizione all’amianto  l’esposizione all’amianto
produce un tumore della pleura e che si verifica a distanza di decenni. In questo caso la
giurisprudenza ha ritenuto che si debba applicare la disciplina vigente al momento
dell’evento, anche se questo è molto lontano dalla condotta;
o morte del pedone investito, sopraggiunta dopo molto tempo rispetto all’incidente e dopo
che la disciplina penale è cambiata  la cassazione in questo caso ha optato per la teoria
della condotta, quindi si deve far riferimento al momento in cui è stato posto in essere il
comportamento;
 reati di durata: prendiamo l’esempio del sequestro di persona. Ipotizziamo che durante il periodo
del sequestro cambia la disciplina penale e diviene maggiormente sfavorevole per il reo; quale
disciplina si applica? Si applica la disciplina vigente al momento dell’inizio della condotta o quella
vigente nel momento in cui cessa il comportamento antigiuridico? Viene confermato il criterio della
condotta, quindi legge vigente nel momento in cui il reo compie il fatto.
 reati abituali: sono una fattispecie particolare di reati di durata in cui offesa ed evento sono
collegati. Un esempio è il maltrattamento, che per qualificarsi necessita di una pluralità di condotte
ripetute nel tempo. In questo caso, ai fini dell’individuazione della legge penale applicabile, non si
deve guardare alla prima condotta, che insieme alle altre costituisce la serie di condotte, ma
all’ultimo atto.
Se la legge viene cambiata in senso migliorativo si applica sempre la disciplina più favorevole al reo (art. 2
c.p.).

La prescrizione. (Artt. 157 e ss. c.p.)


La prescrizione è una modalità di estinzione del reato legata al decorso del tempo, il quale viene
computato, in particolare, dal momento della consumazione del reato (art. 158 c.p.). quindi la prescrizione
estingue il reato una volta decorso il relativo termine di tempo.
Precedentemente, entro il tempo della prescrizione era necessario che lo Stato accertasse l’esistenza del
reato mediante una sentenza definitiva. Nel 2019, tuttavia, la legge Bonafede, al fine di evitare che la
tagliola della prescrizione decapitasse in maniera copiosa il numero di processi in corso, anticipa questo
momento, dalla sentenza definitiva, alla sentenza di primo grado, a prescindere dal fatto che si trattasse di
una sentenza di condanna o di assoluzione.
Il termine di prescrizione è proporzionato alla gravità del reato e in ogni caso non può essere inferiore ai 6
anni per i delitti e ai 4 anni per le contravvenzioni. L’art. 157 c.p. stabilisce inoltre che i reati punibili con la
pena dell’ergastolo non si prescrivono mai, proprio in virtù della proporzionalità rispetto alla gravità del
reato. Rispetto a questa regola generale del termine di prescrizione operano poi 2 istituti: la sospensione
della prescrizione (art. 159 c.p.) e la interruzione della prescrizione (160-161 c.p.).

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Per consumazione del reato si intende la venuta ad esistenza del reato nella sua completezza, cioè il
momento in cui tutti gli elementi che lo costituiscono, soggettivi ed oggettivi, vengono ad esistere.
Una regola adattata vale per un reato tentato, il quale presuppone la non consumazione dello stesso. Per il
reato tentato il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole.
Un’altra regola particolare è prevista per i c.d. reati di durata, contrapposti ai reati istantanei. Il reato
istantaneo è quello che si consuma in un istante; tipico es. è l’omicidio. I reati di durata, invece, non
avvengono in un istante ma in un certo lasso temporale che viene detto periodo di consumazione; es. tipico
è il sequestro di persona. Il criterio utile per la determinazione del termine di prescrizione che distingue
queste due tipologie è relativo alla offensività del fatto. Per i reati di durata l’art. 158 c.p. pone la regola per
cui il termine di prescrizione decorre da quando cessa il termine di continuazione.
Alla disciplina della prescrizione si applica il principio della irretroattività, che è un corollario del principio di
legalità. Questa è la soluzione di compromesso adottata dal legislatore nella legge Cartabia del 2021 (L.
134/2021), intervenuta nella questione specifica della prescrizione. Questa legge ha spezzato l’unitarietà
dell’istituto: una parte continua ad essere disciplinato dal c.p. e una parte è stata trasferita nel c.p.p. In
particolare, se la prescrizione è di diritto sostanziale si applica il principio di legalità e in particolare quello
della irretroattività, se invece la prescrizione è un istituto processuale non si applica il principio di
irretroattività ma il principio in virtù del quale si applica la legge del momento in cui deve essere compiuto
l’atto processuale, ossia il principio del tempus regit actum.
La cessazione della prescrizione nel codice penale è disciplinata dall’art. 161 bis, che ribadisce quanto
disposto dalla Riforma Bonafede, secondo cui il corso della prescrizione cessa con la pronuncia della
sentenza di primo grado. Una volta pronunciata tale sentenza la prescrizione cessa di decorrere
definitivamente. Questo, però, comporterebbe che il processo che prosegue negli altri gradi potrebbe
durare un tempo indefinito. A questo proposito è stata coniata l’espressione di “ergastolo processuale”,
che è la conseguenza per l’imputato, una volta pronunciata la sentenza in primo grado, di poter essere
sottoposto ad un processo che si potrebbe prolungare senza un termine finale.
Per scongiurare questa eventualità il legislatore è intervenuto sul versante del processo attraverso la Legge
Cartabia, la quale ha introdotto nel c.p.p. l’art. 344 bis  improcedibilità per superamento dei termini di
durata massima del giudizio di impugnazione. Con questa disposizione è stata introdotta una condizione
per impedire che il processo di impugnazione possa durare in eterno, in particolare si è stabilito un termine
di durata massima che è pari a 2 anni per il giudizio di appello e 1 anno per quello in cassazione; oltre questi
termini il processo non sarà più procedibile e quindi si estinguerà.
Quindi fino alla sentenza di primo grado vale il principio di irretroattività; dalla sentenza di primo grado fino
alla cessazione del processo la prescrizione diviene processuale e pertanto si applicherà il principio del
tempus regit actum.
Nel caso Taricco il giudice italiano si trovava a giudicare su alcuni casi di frode di iva relativi ad un
commercio di bottiglie di champagne; egli aveva ritenuto che la legislazione italiana in materia di
prescrizione impedisse di tutelare in maniera adeguata gli interessi finanziari dell’UE. Così il giudice italiano
si rivolse alla Corte di giustizia europea, la quale stabilì che, siccome le regole italiane sulla prescrizione
conducevano ad una impunibilità del fatto in questione, queste dovevano essere disapplicate al ricorrere di
determinate condizioni. Questa sentenza della Corte di giustizia però ha destato perplessità in quanto le
circostanze della disapplicazione erano indicate in maniera tale da lasciare un margine di interpretazione
troppo ampio per il giudice nel caso concreto. Oltre a ciò, la sentenza era applicabile anche ai processi nei
quali venivano contestati i fatti antecedenti alla sentenza stessa. Sulla base di queste perplessità, diversi
giudici italiani sollecitarono l’intervento della corte costituzionale, ritenendo che l’applicazione della
sentenza della corte di giustizia avrebbe portato alla violazione del principio di legalità ex art. 25 co. 2 Cost.
in materia penale e affermando poi che tale principio, essendo dotato di rilievo costituzionale, deve
prevalere rispetto a qualunque altra norma.

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Questione Taricco bis  così nel 2017 la Corte costituzionale decide di far presente e di sottolineare alla
corte di giustizia gli effetti che l’applicazione della giurisprudenza Taricco comportava in Italia, facendo
chiaramente intendere che tali effetti non potevano essere tollerati dall’ordinamento costituzionale italiano
(minacciando con la teoria dei contro limiti). La corte di giustizia ha pertanto oggi teso una mano alla corte
costituzionale facendo leva sia sulla CEDU che sulla carta dei diritti fondamentali dell’UE, salvaguardando il
principio di legalità e osservando le tradizioni costituzionali comuni agli stati membri. La corte di giustizia,
quindi, conferma la prima sentenza, ma con una precisazione: dove le norme hanno natura sostanziale i
giudici non devono disapplicarle se ciò contrasta con il principio di legalità.
La corte costituzionale così con la pronuncia 115/2018 prende atto della decisione della corte di giustizia.

L’applicazione della legge penale nello spazio.


Una idea diffusa in dottrina e in giurisprudenza è quella per cui la potestà punitiva è intimamente legata
all’idea della sovranità nazionale. Vale quindi il principio della riserva di legge nazionale in materia penale.
Esistono però altri criteri di collegamento che consentono di radicare la competenza e la giurisdizione del
giudice penale italiano. Ci muoviamo tra due tradizioni ideali fondamentali: quella romanistica, che è
collegata al criterio della territorialità, e quella germanica, che è legata al criterio della persona. A questa
seconda tradizione si lega proprio il principio della personalità. Ciò premesso possiamo fare un elenco dei
criteri di collegamento possibili:
 criterio della territorialità  tutti coloro i quali commettono un reato sul territorio di uno stato
sono soggetti alla legge penale di quello stato;
 criterio della personalità attiva  si applica la legge penale della nazionalità di chi commette il
reato;
 criterio della personalità passiva  si applica la legge penale del titolare dell’interesse del bene
giuridico offeso dalla condotta;
 criterio della universalità  si applica la legge penale italiana a qualsiasi reato ovunque sia
commesso e da chiunque sia commesso.
Questa idea della universalità è un po’ utopistica e corrisponde alla teoria di Grozio dell’aut dedere
aut punire: lo stato nel quale si trova l’autore di un reato o lo consegna allo stato nazionale al quale
appartiene o lo punisce. Se si potesse affermare questo principio dell’universalità non sorgerebbero
tutte le questioni alle quali assistiamo in questo periodo di guerra. È però un principio utopistico
perché per poter funzionare presuppone, da una parte, una coesione della comunità internazionale
perfetta, e dall’altra una piena corrispondenza nella valutazione della rilevanza penale dei
comportamenti. Nell’assetto internazionale questi due presupposti mancano, motivo per cui questo
principio è un auspicio difficilmente realizzabile.

Circa la questione dell’applicazione della legge penale nello spazio il punto di partenza della nostra
disciplina codicistica è legato al criterio di territorialità, il quale troviamo declinato innanzitutto all’art. 3 del
c.p.: “obbligatorietà della legge penale”: la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini e
stranieri, si trovino nel territorio dello stato, con una serie di eccezioni relative alle immunità. L’altra
disposizione che conferma questo orientamento è l’art. 6 c.p.: “reati commessi nel territorio dello Stato”:
chiunque commette un reato nel territorio dello stato è punito secondo la legge italiana.
Che cosa si intende per territorio dello Stato ce lo chiarisce l’art. 4 del c.p., integrato con le disposizioni
previste dal Codice della navigazione: è territorio dello stato il c.d. territorio metropolitano, cioè definito
dai confini della repubblica; ma è territorio dello stato anche il c.d. mare territoriale (12 miglia marine dalla
costa o dalle linee che congiungono le sporgenze della costa).
Per le imbarcazioni e gli aeromobili vale il criterio della legge di bandiera: navi e aerei che battono
bandiera italiana sono considerati territorio italiano:
 se si tratta di navi o aerei militari, sempre e dovunque, ai fatti commessi a bordo di questi si applica
la legge penale italiana;
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 se si tratta di navi e aerei civili, invece, in acque internazionali si applica la legge penale italiana,
mentre se si trovano nello spazio sottoposto alla sovranità di un altro stato è necessario distinguere
tra
o atti interni  non sono capaci di ripercuotersi sugli interessi dello stato nel quale il naviglio
si trova;
o atti esterni  si ripercuotono sugli interessi dello stato nelle cui acque si trova la nave e
quindi si applica la legge penale di quello stato.
Le sedi diplomatiche sono territorio dello stato nel quale esse si trovano, quindi non godono della extra
territorialità. Tuttavia gli agenti diplomatici godono delle c.d. immunità previste dal diritto internazionale.
Per determinare quando un reato si intende commesso nel territorio dello stato italiano si adotta il criterio
della ubiquità: un criterio molto estensivo, che ritroviamo al comma 2 dell’art. 4 c.p. Partendo da tale
comma, per radicare dal pdv territoriale la giurisdizione del giudice penale italiano basta che anche solo un
frammento del reato, cioè della sua condotta o del suo evento, si siano verificati nel territorio dello stato.
Cosa succede se un reato previsto dalla legge penale italiana è commesso all’estero?
Il principio di territorialità in questo caso viene parzialmente superato da altre disposizioni: il legislatore
italiano parte dall’idea della territorialità, ma poi integra tale criterio con gli altri due della personalità attiva
e passiva. Il codice penale disciplina questi reati ai seguenti articoli:
 Art. 7 c.p.  questo dispone che sarà punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che
commettono in territorio estero uno dei reati elencati nella norma stessa. Si tratta di reati legati
all’offesa di interessi inerenti all’esercizio della sovranità italiana e per questo possono essere puniti
secondo la legge italiana. Si tratta fondamentalmente dei reati contro la personalità dello stato,
dunque il criterio applicato per questi è proprio quello della personalità passiva. La punizione di
questi reati secondo la legge italiana è incondizionata, cioè non è necessario che sussistano
condizioni di procedibilità, come ad es. la presenza del reo sul territorio dello stato.
 Art. 8 c.p.  tratta del delitto politico commesso all’estero. Questo può essere distinto in 2 tipi:
oggettivo e soggettivo. Il primo è il delitto che offende interessi politici dello stato e
fondamentalmente rientra tra quelli di cui all’art. 7 c.p.; il secondo è quello determinato da motivi
politici. Il delitto politico soggettivo commesso all’estero viene anch’esso punito secondo la legge
penale italiana; ancora una volta si applica il criterio della personalità passiva.
Lo scopo di questa previsione è quello di assicurare il controllo penale su ogni attività di tipo
politico svolta all’estero. Quindi non è uno scopo di garanzia, ma di controllo autoritario del
cittadino rispetto ad attività commesse all’estero.
Nella Costituzione, invece, il concetto di delitto politico ha un altro significato. Ci sono alcune norme
dedicate proprio a tale tipo di delitto:
o art. 10 ultimo comma  vieta l’estradizione dello straniero per
reati politici.
o Art. 26  al 2° comma ribadisce il concetto dell’ultimo comma
dell’art. 10.
Da un lato questi due articoli hanno la funzione di garantire che delle persone non siano perseguite
per motivi politici; tuttavia, per evitare che questo diventi un privilegio, esistono delle convenzioni
internazionali che impegnano gli stati firmatari a non considerare politici i reati che comportino
l’uso di mezzi violenti.
 Art. 9 c.p.  tratta dei delitti comuni commessi all’estero dal cittadino italiano. Per questi reati il
criterio ispiratore non è quello della personalità passiva ma quello della personalità attiva. La norma
dispone che questi reati, se sono di una certa gravità (es. comportano l’ergastolo o la reclusione
non inferiore a 3 anni), devono essere puniti secondo la legge italiana. Tuttavia l’applicazione della

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legge penale italiana a questi soggetti è subordinata ad alcune condizioni di procedibilità, previste
dal 2° comma.
All’art. 9 c.p. è stato aggiunto un comma nel 2019 dalla c.d. Legge Bonafede a proposito dei reati di
corruzione e traffico di influenze illecite qualora siano commesse all’estero da un cittadino italiano.
Questa legge ha stabilito che per questi due reati possa essere applicata la legge italiana, anche
senza la presenza delle condizioni di procedibilità, con l’unica eccezione della presenza del reo sul
territorio dello stato.
 Art. 10 c.p.  tratta del delitto comune commesso dallo straniero all’estero, escluso dai casi
previsti dall’art. 7 e 8. Anche in questo caso è stabilito che per i delitti più gravi (che comportano o
l’ergastolo o la reclusione non inferiore ad 1 anno) si debba applicare la legge penale italiana. Per
questi delitti, però, il criterio di riferimento è quello della personalità passiva. Inoltre, anche qui
sono necessarie le condizioni di procedibilità ai fini dell’applicabilità della legge italiana.

L’estradizione.
L’estradizione è la più antica forma di collaborazione tra stati in materia di giustizia penale. Si tratta di una
procedura con cui uno stato chiede ad un altro stato che gli venga consegnato un soggetto o per
processarlo o per eseguire una pena che è già stata decisa con una sentenza definitiva di condanna.
Presupposto della estradizione è il c.d. criterio della doppia incriminazione e cioè che il fatto costituisca
reato in entrambi gli ordinamenti.
L’estradizione è vietata
 per i reati politici;
 quando viene domandata da uno stato che punirebbe il reo con la pena di morte;
 quando vi è un fondato motivo di credere che il reo nello stato estradato sarà sottoposto a tortura.
Questa previsione è stata introdotta di recente, con la stessa legge che nel 2017 ha introdotto il
delitto di tortura.

Le immunità.
L’art. 3 c.p. è un principio generalissimo circa la obbligatorietà della legge penale ma prevede delle
eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Si tratta delle c.d. immunità, che
possiamo distinguere in funzionali o assolute. Le prime sono collegate all’esercizio della funzione svolta dal
soggetto; le seconde prescindono dal fatto che il reato sia commesso nell’esercizio di una funzione
istituzionale o meno.
Ipotesi di immunità previste dalla Costituzione:
 art. 90 Cost. prevede l’immunità in favore del PDR  il PDR non è responsabile degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costitute.
 Art. 68 Cost. prevede l’immunità in favore dei parlamentari  i membri del Parlamento non posso
essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Ipotesi di immunità previste dal diritto internazionale:
 immunità assoluta per i capi di stato esteri e per il sommo pontefice;
 immunità funzionale per i diplomatici.
Esistono poi alcune cause di non punibilità, che possiamo distinguere in 3 grandi categorie:
1) cause di giustificazione: sono quelle che rendono lecito un fatto tipico. L’esempio tipico è di chi
commette un fatto di reato in una situazione di legittima difesa.
2) scusanti: la non punibilità dipende dall’assenza della colpevolezza dell’autore del fatto.
3) cause di non punibilità in senso stretto: non dipendono da fattori che incidono su un elemento
costitutivo del reato (come negli altri 2 casi), ma da ragioni di opportunità pratica del punire. In
questa categoria collochiamo le immunità.

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Diritto penale internazionale.
È un corpus normativo autonomo rispetto al diritto penale classico.
Con riferimento ai reati commessi in un certo territorio in prima battuta competente è la legge penale di
quel territorio. Ad esempio i reati che dovessero essere consumati in Ucraina devono e possono essere
repressi applicando la legge penale dell’Ucraina. È tuttavia possibile applicare anche altre leggi penali
nazionali che dovessero radicare la propria competenza sulla base dei criteri dell’universalità, territorialità,
ecc. Più o meno tutti gli ordinamenti penali si rifanno a uno o a più di questi criteri, come avviene per la
legge penale italiana. Se pensiamo a crimini commessi sul territorio nazionale italiano durante l’ultima
guerra, sono stati perseguiti in primis sulla base della legge penale italiana: c.p. italiano o c.p. militare per
fatti commessi in tempo di guerra.
A fianco a questo sistema punitivo nazionale, classico, espressione delle varie sovranità nazionali, si è
andato costituendo nel tempo un sistema punitivo alternativo che ha la propria fonte nel diritto
internazionale.
Storicamente il primo embrione del diritto penale internazionale ha l’origine nei due tribunali penali
internazionali che si sono costituiti al termine della 2° guerra mondiale: il tribunale di Norimberga,
chiamato a giudicare i crimini commessi dai vertici della Germania nazista, e il tribunale di Tokyo, istituito
per conoscere della responsabilità dei vertici dello stato giapponese per i crimini di guerra commessi in
particolare nei territori della Manciuria. La nostra attenzione è stata maggiormente attirata dalla esperienza
del processo di Norimberga, che tra l’altro si decise di celebrare proprio nella città tedesca perché fu una
delle città prescelta dal regime nazista per i grandi raduni dello stesso regime. Quindi la scelta non fu
casuale, ma simbolica, volta a colpire la città simbolo del regime nazista dal punto di vista della propaganda.
I più grandi imputati del processo di Norimberga: il n. 2 del regime nazista Erman Goring, che affiancò Hitler
sin dall’inizio per diventare il capo dell’aereonautico militare tedesca; Fon Ribbentrop, il ministro degli
esteri della Germania, famoso per aver sottoscritto il celebre patto Ribbentrop-Molotov per la spartizione
della Polonia; e così via.
Le esperienze di Norimberga e di Tokyo furono in parte anche criticate dal punto di vista specifico dei
cultori del diritto penale, perché si contestava il fatto che si trattava di una forma di prosecuzione della
opera di vittoria da parte dei vincitori, i quali giudicano i vinti sulla base di fattispecie criminose create in
violazione del principio di irretroattività. Infatti i crimini per cui furono processati gli imputati furono creati
dopo i fatti, violando così il principio cardine del diritto penale garantista che è il principio di legalità sub
specie principio di irretroattività.
Nella storia del dopo guerra i tribunali di Norimberga e di Tokyo non furono gli unici ad essere istituiti;
dobbiamo ricordare almeno altri 2 tribunali penali internazionali creati ad hoc per giudicare fatti commessi
in particolare durante altri 2 episodi di guerra:
a) il tribunale dell’Aja, istituito per la punizione dei crimini commessi nella dissoluzione della ex
Iugoslavia. Si era trattato di episodi avvenuti nelle guerre che hanno accompagnato la dissoluzione
della ex Iugoslavia: negli anni 90 lo stato federale iugoslavo cominciava a sgretolarsi, uni stato per
volta aveva dichiarato la propria secessione (prima la Slovenia, poi Croazia, Bosnia Erzegovina…)
Peraltro Aja è la sede dell’attuale tribunale permanente competente a giudicare i crimini commessi
sul piano internazionale.
b) il tribunale creato per i crimini commessi in Ruanda negli anni ‘90, istituito in Tanzania, per punire
i crimini commessi nella guerra civile del Ruanda esplosa tra le due entità etniche che costituivano
questo Stato, cioè gli Utu e i Tuzi.
Questi due tribunali sono stati costituiti entrambi dal consiglio di sicurezza dell’ONU, ma con una
competenza non generale bensì specifica; la loro esperienza è stata fondamentale per l’elaborazione del
diritto penale internazionale.

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Verso la fine degli anni ’90 si è svolta a Roma una conferenza che si è conclusa con la elaborazione e
approvazione del c.d. Statuto di Roma che ha istituito un tribunale penale internazionale permanente
avente sede all’Aja. Lo statuto di Roma entra in vigore il primo luglio del 2002. La scelta della sede dove
collocare questa corte penale internazionale è caduta sulla città olandese dell’Aja, un po’ per il precedente
e un po’ per il fatto che esiste all’Aja già una corte internazionale di giustizia che però ha una competenza
diversa, ossia quella di risolvere controversie fra stati. bisogna stare attenti a non confondere i due, infatti il
tribunale internazionale permanente è competente a giudicare i singoli individui e non gli stati.
Gli stati che hanno sottoscritto e ratificato lo statuto di Roma e che quindi hanno accettato questa
giurisdizione che ha origine pattizia, che non discende dal concetto di sovranità, ma che è il frutto di un
accordo, sono 123. Se ne deduce che una buona parte degli stati che compongono le nazioni unite non
hanno ratificato tale statuto e quindi non riconoscono tale corte. Tra questi ricordiamo: gli Stati uniti, la
Russia, la Cina (che sono 3 dei 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu; gli atri due sono
Francia e Gran Bretagna), Israele, l’Ucraina.
Caratteristiche del sistema penale internazionale.
La prima caratteristica fondamentale di questo sistema penale alternativo è che si tratta di un sistema
complementare/sussidiario: è chiamato ad operare solo se lo stato nazionale non voglia o non possa
perseguire uno dei crimini sui quali la corte dell’Aja è chiamata a giudicare. Dunque, questo sistema
riconosce che in prima battuta la competenza penale si radica in capo agli stati nazionali, i quali hanno il
potere-dovere di perseguire i crimini commessi sul proprio territorio oppure i crimini rispetto ai quali la
competenza è determinata sulla base dei criteri visti. Solo se gli stati non vogliono o non possono
perseguire uno dei crimini sui quali è competente anche la corte dell’Aja allora scatta questa sua
competenza.
Oltre a questo primo criterio di attivazione, esistono altri meccanismi di attivazione della competenza della
corte penale internazionale. Tra questi c’è la possibilità che sia il consiglio di sicurezza dell’Onu a chiedere
alla corte penale internazionale di attivarsi. Questo è un meccanismo che può facilmente andare in stallo,
perché è sufficiente che uno dei 5 stati che compongono il consiglio ponga il proprio veto perché questo
meccanismo si blocchi. Così ad es. è accaduto con riferimento ai crimini commessi nella guerra di Siria
(iniziata nel 2011 e ancora in corso). Al contrario, questo meccanismo di attivazione ha funzionato nei
crimini commessi in Darfur, regione del Sudan, agli inizi degli anni 2000, crimini perseguiti dalla corte
penale internazionale anche se il Sudan non ha ratificato lo statuto di Roma. Va per altro detto che l’allora
presidente sudanese benché investito di ben 2 mandati di arresto non è mai stato, anche una volta cessato
nella sua carica, consegnato alla corte penale dell’Aja.
E questo ci permette di individuare un’altra caratteristica di questo sistema penale alternativo: la corte
penale internazionale non può giudicare gli imputati in contumacia. Quindi condizione essenziale perché la
corte penale internazionale possa operare è che l’imputato sia tratto in arresto o si presenti
volontariamente, quindi che sia fisicamente presente di fronte alla corte giudicante.
Crimini per i quali la corte penale internazionale è competente.
Lo statuto di Roma ripristina il principio di legalità e irretroattività che è stata un limite della giustizia penale
internazionale così come praticata fino all’istituzione della corte dell’Aja. Nello statuto si dice che i crimini
per i quali la corte è chiamata a giudicare sono solo quelli commessi a partire dall’entrata in vigore dello
statuto stesso.
I crimini penali internazionali per i quali la corte è competente sono:
 crimini di genocidio: per genocidio si intende l’uccisione di un genere, quindi la distruzione in tutto
o in parte di un’etnia, di un gruppo razziale, di un gruppo religioso.
Il primo genocidio dell’era moderna riconosciuto dalla comunità internazionale è il genocidio degli
armeni del 1915 (1 milione e mezzo), iniziato ad opera dell’allora impero ottomano che tra l’altro
contesta ancora oggi (la Turchia) che un genocidio si sia mai consumato a danno degli armeni. Il
secondo genocidio è quello che vede coinvolti gli ebrei. I genocidi presentano dei tratti comuni: le

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condotte utilizzate per sterminare un gruppo sono uccisioni, inflizioni di gravi lesioni, sottopozione
del gruppo a condizioni di vita dirette a causarne la distruzione fisica, impedimento delle nascite,
trasferimento forzato di bambini…
 crimini contro l’umanità: riguardano condotte di attacco contro popolazioni civili. L’attacco deve
avere determinate caratteristiche di gravità, cioè deve essere esteso e sistematico. Una prima
elencazione di queste condotte criminose è stata fatta proprio all’interno della carta del tribunale di
Norimberga. Nell’ambito dello statuto di Roma, in particolare, si è slegato il concetto di crimine
contro l’umanità dal fatto che questo avviene all’interno di un episodio di guerra. Quindi i crimini
contro l’umanità prescindono dal fatto che avvengano all’interno di un conflitto armato.
Questi attacchi estesi e sistematici contro la popolazione civile possono realizzarsi attraverso una
lunga serie di condotte: come ad es. omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù,
deportazione, tortura, stupro, schiavitù sessuale, sterilizzazione forzata…
 crimini di guerra: trovano attualmente la propria disciplina all’interno delle convenzioni di Ginevra
del 1949; ma crimini di guerra possono essere costituiti anche da comportamenti posti in violazione
di altre convenzioni di guerra.
I crimini di guerra possono essere distinti in 4 gruppi diversi:
1. crimini contro persone protette (es. reclutamento di bambini)
2. crimini contro beni protetti (es. attacco a monumenti storici, ospedali…)
3. l’impiego di metodi di combattimento vietati dalle convenzioni di Ginevra o da altre
convenzioni (es. riduzione alla fame di civili, impiego di civili come scudi umani…)
4. uso di mezzi di combattimento vietati (es. armi chimiche o batteriologiche)
 crimine di aggressione o crimini contro la pace: si allude alla c.d. guerra di aggressione. Dal punto
di vista concettuale è proprio la guerra di aggressione lo specifico di questa disciplina penale
internazionale perché rappresenta il salto di qualità dal punto di vista di idea di civiltà che si è avuta
con la fine della 2gm e con l’istituzione dell’Onu e che è legata alla formula usata dal nostro
legislatore costituzionale “l’Italia ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie
internazionali”. Di fatti fino alla 2gm la guerra era proprio lo strumento prediletto per la risoluzione
delle controversie internazionali.
Nel tribunale di Norimberga si contesta in primis questo crimine alla Germania: aver scatenato la
guerra mondiale proprio attaccando la Polonia.
La caratteristica fondamentale di tali crimini, rispetto agli altri, è che è quello che automaticamente
può essere contestato ai vertici dello stato che aggredisce la sovranità di un altro stato. Sono i
vertici politici e militari dello stato che rispondono direttamente del crimine della guerra di
aggressione. Perché in tutti gli altri casi si tratterebbe di trovare la persona responsabile dei singoli
episodi, quindi di un’indagine giuridica non semplice. Tuttavia nell’art. 15 bis dello statuto di Roma
è stabilito espressamente che il crimine di aggressione può essere contestato solo nei confronti dei
vertici politici e militare in uno stato parte del trattato; questo è un limite fortissimo.
Ad oggi tale limite lo riscontriamo nel conflitto Russia/Ucraina che non sono parti del trattato:
tuttavia l’attivazione della corte penale internazionale è stata possibile attraverso la richiesta da
parte dell’Ucraina.

TEORIA GENERALE DEL REATO.


La teoria generale del reato ci offre gli strumenti di analisi del reato e delle sue componenti strutturali. È
quella parte del diritto penale generale che si occupa di analizzare il reato scomponendolo negli elementi
fondamentali che lo costituiscono. E questa metodologia di analisi non ha una finalità, come sempre nel
diritto, teorica ma ha una finalità essenzialmente pratica.

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Nella storia del diritto penale moderno si sono succedute diversi modelli di analisi del reato: un modello ad
es. lo proponeva già Carrara, padre del diritto penale italiano liberale classico, poi ripreso dal legislatore del
1930. Il modello in questione era quello della Teoria della bipartizione: che separa nel reato
 componente oggettiva materiale  elemento che può essere riscontrato da un terzo esterno in
termini oggettivi;
 componente soggettiva  che riguarda il legame tra autore e fatto. Qui ad essere privilegiato non
è il pdv di un terzo osservatore, bensì quello del soggetto agente.
La differenza dei punti di vista è importantissima e si riflette anche sul momento dell’accertamento
processuale e sulla prospettiva temporale dell’accertamento: l’elemento oggettivo materiale viene
accertato secondo una prospettiva ex post, mentre l’elemento soggettivo viene accertato secondo una
prospettiva ex ante. Nell’accertamento ex post viene privilegiato il pdv del giudice, che è competente a
conoscere il reato: egli agisce come uno storico e tenta di ricostruire i fatti nella maniera più esatta
possibile. Nell’accertamento ex ante, invece, il giudice deve porsi nella condizione in cui si trovava l’autore
del fatto al momento della sua commissione, cioè deve immedesimarsi nella condizione soggettiva del
soggetto agente.
Nella teoria della bipartizione l’elemento oggettivo era a sua volta composto da 2 tipi di elementi:
a) gli elementi positivi del fatto, che sono gli elementi che devono essere presenti perché il fatto di
reato sussista (es. nell’omicidio gli elementi positivi sono che qualcuno abbia cagionato la morte di
un uomo);
b) gli elementi negativi del fatto, che sono gli elementi che devono essere assenti perché il fatto
costituisca reato (es. cause di giustificazione, come la legittima difesa).
Anche la componente soggettiva è a sua volta composta da 2 elementi, intesi come legame psicologico che
deve unire l’autore al fatto:
c) il dolo
d) la colpa

La teoria della bipartizione è stata superata dalla Teoria della tripartizione, che è il modello che noi
utilizziamo.
Lo schema tripartito prevede che il reato sia strutturato da un fatto tipico, antigiuridico e colpevole.
Dunque le 3 categorie sono: tipicità, antigiuridicità e colpevolezza; sono lo strumento che ci permette di
smontare il motore complesso del reato.
Questa tripartizione è gradualista, nel senso che è come se fosse una scala fatta da 3 gradini: non si inizia
dal 3° gradino, ma dal 1° e così fa il giudice nel processo: la prima cosa che si fa nel processo è accertare che
di fatto si sia commesso un fatto tipico, perché in caso contrario, anche per ragioni di economia
processuale, il giudice non accerterà l’antigiuridicità (2° gradino) e poi la colpevolezza (3° gradino).
A questa idea gradualista corrispondono diverse forme di assoluzione per l’imputato, perché il cpp dice che
l’imputato può essere assolto
i. perché il fatto non sussiste  quel fatto tipico, in termini oggettivi, non è stato commesso;
ii. perché il fatto non costituisce reato  quando il fatto viene ad esistenza in maniera tipica, ma non
è detto che sia stato antigiuridico, perché magari era legittima difesa, o magari è stato commesso
senza dolo; quindi il fatto c’è ma non costituisce reato perché manca l’antigiuridicità o la
colpevolezza.

Nel tempo si è affermata anche la Teoria della quadripartizione. Questa aggiunge il quarto elemento che è
quello della punibilità. Cioè non basta perché il reato sia un fatto tipico, antigiuridico e colpevole ma è
necessario che quel fatto sia anche punibile.

La tipicità (1° categoria).

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È la prima componente oggettiva del reato.
Caratteristiche della tipicità:
Il fatto tipico deve essere un fatto umano  art. 42, co. 1 c.p. Il requisito che definisce l’umanità minima
del fatto è la coscienza e volontà. Queste devono impedire che si possa considerare un fatto tipico un fatto
che non abbia un requisito minimo di umanità. La coscienza e la volontà segnano quindi il requisito di
appartenenza di quel fatto ad un autore, tant’è che alcuni giuristi chiamano questo requisito suitas. Questo
significa escludere che sia stato commesso un fatto tipico in una serie di situazioni: es. malore improvviso
alla guida di un’autovettura; la giurisprudenza in questi casi ci dice che non c’è fatto tipico di omicidio
perché manca il fatto minimo di umanità che distingue l’atto umano dall’atto dell’uomo.

Il soggetto autore del fatto.


I reati dal pdv delle caratteristiche soggettive dell’autore li dissanguiamo in 2 categorie:
 i reati comuni  sono quelli che possono essere commessi da chiunque, cioè rispetto ai quali il
legislatore non specifica che l’autore sia in possesso di una qualifica personale particolare. Es.
omicidio, chiunque cagiona la morte di un uomo. Normalmente questi reati sono introdotti dal
“chiunque”, anche se non sempre;
 i reati propri  sono reati a soggettività ristretta, cioè possono essere commessi solo da chi si trovi
in possesso di una determinata qualifica soggettiva. La qualifica è dovuta al fatto che questi soggetti
hanno il potere di salvaguardare determinati beni giuridici.
Es. nel diritto penale economico, il reato di bancarotta propria dell’imprenditore, che è punito
perché ha il potere di salvaguardare i beni dei creditori.
Es. in materia di sicurezza del lavoro, i reati propri sono quelli commessa dal datore di lavoro, dai
dirigenti e dal preposto.

È necessario poi distinguere i soggetti di fatto ed i soggetti di diritto.


Tale distinzione è rilevante all’interno delle organizzazioni d’impresa che hanno una caratteristica
importante che è quella della spersonalizzazione. Nel reticolo dell’organizzazione d’impresa, infatti, è
importante individuare a chi imputare il reato.
Il penalista di fronte a questa necessità è portato a compiere delle operazioni di semplificazione che
possono andare in 2 direzioni diverse: da una parte c’è la tendenza a concentrare le responsabilità nel
vertice dell’organizzazione, individuando le c.d. responsabilità da posizione; dall’altra c’è la tendenza a far
cadere la responsabilità ai livelli più bassi dell’organizzazione, secondo la logica del capro espiatorio.
Entrambe sono da respingere, perché non sono conformi con i principi di garanzia del diritto penale.
Pertanto sono stati individuati 3 istituti che sono capaci di risolvere questa questione della ricerca del
soggetto. Il primo è quello relativo alla distinzione tra soggetti di fatto e soggetti di diritto.
Tale distinzione nasce nel nostro ordinamento penalistico con riferimento ai reati di bancarotta: condotte
che offendono un bene giuridico rappresentato dal patrimonio sociale, che è la garanzia dei creditori.
Bisogna evitare che, attraverso delle schermature formali, il vero autore del reato possa sottrarsi alla
propria responsabilità.
Es.  il prestanome, che assume la qualifica di soggetto di diritto autore del reato, ma che di fatto non lo è
perché un altro soggetto è il vero dominus della situazione.
La giurisprudenza, quindi, partendo da tale distinzione soggettiva, ha sostenuto che la responsabilità penale
incombe a prescindere dalla qualifica formalmente ricoperta, quando i poteri tipici della qualifica sono
esercitati da un soggetto che ne è privo. Da questo pdv bisogna distinguere le due posizioni:
 la posizione dell’amministratore di diritto  che assume la qualifica pur rimanendo inerte, cioè pur
non attivandosi rispetto ai propri obblighi di controllo
 la posizione dell’amministratore di fatto  che usa la schermatura, realizzando le condotte
offensive delle ragioni dei creditori.

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Per la giurisprudenza è l’amministratore di fatto che risponde dei reati di bancarotta; mentre
l’amministratore di diritto, che rimane inerte, va incontro ad una responsabilità diversa: può essere
considerato responsabile nei confronti di un reato di bancarotta commesso dall’amministratore di fatto in
quanto titolare di un obbligo di garanzia.
Questa giurisprudenza ha indotto il legislatore ad introdurre una norma ad hoc all’interno della nuova
disciplina penale in materia di società con la riforma del 2002 del titolo 11°, libro 5, c.c.
Questa norma la ritroviamo all’art. 2639 cc  per i reati previsti dal titolo 11°, questa norma equipara i
soggetti qualificati ai soggetti non qualificati ma che di fatto svolgono le medesime funzioni o esercitano gli
stessi poteri di chi detiene la qualifica. Inoltre, l’esercizio di questi poteri deve essere qualitativamente
significativo non deve essere temporaneo, bensì continuato nel tempo. Dunque, il principio di diritto
elaborato in via giurisprudenziale per i reati di bancarotta viene recepito dal legislatore, divenendo oggetto
di legge.
L’idea cardine di questa impostazione è che la responsabilità non segue la forma ma la sostanza.
Dunque centrale è la questione del potere, del resto abbiamo visto come il legislatore talvolta per
descrivere la nozione di soggetti penalmente rilevanti parta proprio dal dato dell’esercizio di un potere.

Individuazione dei soggetti attivi in materia di sicurezza sul lavoro.


Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro  decreto legislativo 81/2008
Organizzato in 13 titoli :
 il 1^contiene disposizioni generali, in chiusura ci sono disposizioni sanzionatori;
 dal 2^ all’11^ si tratta di diversi ambiti di rischio specifico rispetto ai quali si pongono esigenze di
tutela più specifiche;
 il 12^ contiene disposizioni nuove rispetto alla disciplina del 90, importanti sono:
o l’art 299: riproduce, nel contesto specifico della sicurezza sul luogo di lavoro, il contenuto
dell’art. 2639. Parte dal potere (e non dalla qualifica esteriore) per individuare la
responsabilità;
o l’art 300;
o l’art 301 che richiama il decreto legge n. 758 del ‘94 (procedura che permette di estinguere
una contravvenzione in materia di sicurezza sul lavoro attraverso un adempimento seppur
tardivo accompagnato dal pagamento di una quota della pena pecuniaria stabilita per la
contravvenzione)

Titolo 1^: Soggetti attivi della materia.


Lettera B art.2 = contiene la definizione di datore di lavoro (ai fini dell’attribuzione della responsabilità
penale in materia di sicurezza), che possiamo distinguere in:
 datore di lavoro in senso formale  la controparte del rapporto di lavoro subordinato: se è
un'impresa è l'imprenditore persona fisica, se è una società è il soggetto che ha il potere di
impegnare la società e spenderne il nome;
 datore di lavoro in senso sostanziale  colui che ha il potere di decisione e di spesa nell'assetto
dell'organizzazione nel suo complesso o, nel caso di una grande azienda, nella singola unità
produttiva (principio di effettività (chi fa è)). Quindi abbiamo due datori di lavoro in senso
sostanziale; quello che ha potere decisionale e di spesa in materia di sicurezza e igiene sul lavoro in
merito all’intera organizzazione e quello che lo ha in relazione alla singola unità produttiva.
Lettera D art. 2 = definizione di dirigente.
Nella vecchia disciplina era semplicemente considerato un alter ego del datore di lavoro, soggetto a lui
subordinato ma con cui condivide poteri di decisione e di spesa.
Lettera E art. 2 = definizione di preposto.

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Il preposto è la persona che sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive
ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere
di iniziativa. Egli, in caso di rilevazione di comportamenti non conformi, deve intervenire e se persiste
l’inosservanza deve interrompere l’attività del lavoratore ed informare il superiore diretto. Il preposto non è
solo un mero sorvegliante ma GARANTE.

RSPP: altro soggetto responsabile del servizio di protezione e prevenzione. Egli è il consulente del datore di
lavoro nell’adempimento all’obbligo di redazione del documento sulla valutazione dei rischi.
A differenza degli altri soggetti appena descritto, l’RSPP non è titolare di obblighi penalmente rilevanti
perché non ha poteri decisionali, solo obblighi di consulenza.

Le posizioni di garanzia: chi è garante è responsabile.


Analisi preliminare della condotta penalmente rilevante.
La condotta può essere di due tipi, attiva o omissiva, e corrisponde alle due tipologie di reato:
 attivi o di azione;
 omissivi.
La teoria del diritto penale classico liberale prevedeva essenzialmente i reati di azione, che sono
espressione della violazione di precetti di divieto. (es. reato di furto).
Il diritto penale moderno post costituzione (espressione di un ordinamento sociale e non solo liberale)
invece aggiunge come precetto penalmente sanzionato anche la violazione di precetti di comando. Questa
idea affonda le radici nell’art. 2 cost che parla dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, intesi come
doveri di attivazione sotto minaccia di sanzione penale (es. il cittadino è tenuto a conoscere i precetti
penali, es. obbligo di attivarsi in favore di determinati beni giuridici  reati omissivi, es. obbligo di rispettare
norme cautelari in particolari contesti di rischio  responsabilità colposa).
Abbiamo due tipi di reati omissivi:
a) propri (di pura omissione): la legge descrive tali reati partendo c.d. situazione tipica. La situazione
tipica è l’insieme dei presupposti che rendono concreto e attuale l’obbligo del soggetto attivo di
attivarsi. L’inosservanza di questo obbligo di attivazione è di per sé penalmente rilevante,
indipendentemente dalle conseguenze che possano derivarne.
Sono al contempo reati di pericolo perché l’omissione della condotta espone di conseguenza un
soggetto ad un rischio.
Es. art. 593 cp: omissione di soccorso (“Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo
minore degli anni dieci, o un'altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di
mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all'Autorità è
punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a duemilacinquecento euro. Alla stessa
pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita
o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso
all'Autorità.)
Es. (2) art. 437 cp: rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro. Seppur
inizia con “chiunque”, questo reato può essere commesso solo da datore di lavoro, dirigente e
preposti (e soggetti individuati dalla normativa) e presume il DOLO (il soggetto, consapevole del
rischio a cui andrebbero in contro i lavoratori, effettua l’omissione).
b) impropri (commissivi mediante omissione): trovano base giuridica nell’art. 40 co. 2 cp  clausola
di equivalenza  “Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo”.
Mentre i reati omissivi propri sono descritti autonomamente in norme appositamente dedicate,
quelli impropri sono il risultato della combinazione dell’art. 40 c.2 e altrettante fattispecie
commissive di evento previste nel nostro ordinamento.

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Es. delitto di omicidio: chiunque cagiona la morte di un uomo. La cagione della morte può essere
effettuata o mediante condotta attiva o mediante un’inerzia imputabile a un soggetto che ha
l’obbligo di impedire quell’evento (medico che omette di diagnosticare un infarto in corso e lo
dimette/ datore di lavoro che omette di predisporre l‘impianto antincendio in un luogo di lavoro in
cui è richiesto.
Non c’è una norma che stabilisce quali sono le fattispecie commissive che possono essere convertite in
fattispecie improprie. Questa materia è nelle mani dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale che si
basa su 3 criteri per limitare al minimo le fattispecie commissive convertibili:
1. importanza del bene tutelabile dalla fattispecie: si tende a convertire fattispecie che tutelano beni
di particolare importanza (es. vita e dunque possono essere convertii reati come omicidio, lesioni
personali…);
2. deve trattarsi di una fattispecie casualmente orientata o a forma libera (es. omicidio è a forma
libera perché basta per la legge che un soggetto cagioni la morte di una persona, non importa
come, dunque anche tramite omissione); una parte della dottrina ritiene, invece, che anche le
fattispecie a forma vincolata possano essere causati tramite condotte omissive;
3. deve esserci un obbligo giuridico di impedimento: nel nostro cp non c’è un elenco di obblighi di
impedimento penalmente rilevanti, perché nel 1930 eravamo ancora in un momento storico in cui
non c’era una particolare esigenza di punire l’omissione. È stata poi la giurisprudenza ad estendere
a dismisura la categoria dell’obbligo di impedimento penalmente rilevante.
Destinatario dell’obbligo di impedimento è il GARANTE, cioè il titolare di una posizione di garanzia.
La fonte dell’obbligo di impedimento è discussa tra dottrina e giurisprudenza: le due possibili concezioni
che si confrontano sono:
 concezione formale
 concezione sostanziale.
Secondo la concezione formale la fonte può essere la legge, qualsiasi atto normativo della P.A. che abbia la
caratteristica della generalità e dell’astrattezza (anche dell’esecutivo) e le fonti di diritto privato negoziali o
unilaterali (es. contratto). Questo momento generale è indispensabile per la genesi dell’obbligo: non si può
configurare un obbligo se non si parte da una di queste fattispecie.
La dottrina, per parte sua, sostiene di dover correggere questa base formale con considerazioni di carattere
sostanziale:
1. primo correttivo  affinché un soggetto possa essere considerato come responsabile occorre
guardare all’effettiva presa in carico del potere di tutelare determinati soggetti.
Es. un gruppo di subacquei concordano con la guida un’immersione. Il gruppo decide alla fine di
immergersi senza guida e c’è un incidente che causa la morte dei subacquei. La guida risponde di
condotta omissiva?
Invece in un altro caso viene stipulato un accordo invalido dal punto di vista civilistico per un vizio
qualsiasi; nonostante l’invalidità la guida accompagna i subacquei e poiché omette un qualche
comportamento doveroso si verifica lo stesso la morte di uno dei subacquei. In questo caso è
responsabile?
Sulla base dell’effettiva presa in carico nel primo caso non è responsabile (seppur l’accordo sia
valido), nel secondo caso si.
2. secondo correttivo  è espresso dal brocardo latino “Ad impossibilia nemo tenetur “, cioè se il
contenuto di un'obbligazione diventa oggettivamente impossibile da adempiere per la parte che
l'aveva assunta, l'obbligazione è nulla per cosiddetta impossibilità oggettiva.
In questo caso se c’è un’impossibilità fisica di impedire l’evento il soggetto non viene meno
all’obbligo di impedimento e dunque non può essere considerato responsabile.
Es. un papà che non recupera il bambino in acqua perché non sa nuotare o un bagnino che non lo
salva perché è svenuto a causa di un colpo di sole.

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Distinzione tra obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza  ci si chiede se l’RSPP possa essere
considerato responsabile penalmente.
Ci sono state oscillazioni giurisprudenziali: intorno al 2005 la Cassazione si è pronunciata in merito a
situazioni in cui la mancata previsione di alcuni rischi da parte del RSPP aveva comportato degli infortuni sul
lavoro. La corte ha ritenuto che egli dovesse essere ritenuto un garante e dunque responsabile in concorso
con il datore di lavoro.
Alcuni giudici della cassazione si sono opposti ritenendo invece che l’RSPP non ha poteri decisionali che
giustificano una responsabilità penale e quindi deve essere considerato una figura con mero potere di
sorveglianza.
La giurisprudenza non si è pronunciata in senso definitivo, la chiave di lettura da prediligere è quella
secondo la quale la figura di garante presuppone un potere di impedimento, se tale potere non c’è allora si
ha davanti solo un mero sorvegliante.

Possiamo distinguere tre obblighi di garanzia.


1. Obbligo di protezione: es. quello dei genitori nei confronti dei figli.
2. Obbligo di controllo su fonti di pericolo: non c’è un elenco chiuso di garanti, la giurisprudenza è
libera di individuare figure di garanti partendo da una fonte formale dell’obbligo e applicando poi i
correttivi sostanziali.
3. Obbligo di impedimento del reato del terzo: si basa sull’art. 110 cp concorso di persone. Il
concorso di reato si realizza in questo caso attraverso l’omissione dell’obbligo di controllo su un
altro soggetto.
Es. ogni membro di un’equipe medica ha l’obbligo di controllare l’attività degli altri medici.
Es. titolare del bar che non impedisca la somministrazione di alcolici a minori

Si ritiene che la figura del datore di lavoro, in qualità di garante, sta nel mezzo tra due posizioni di garanzia:
quella relativa agli obblighi di protezione e quella relativa agli obblighi di controllo su fonti di pericolo.
Si deve partire dalla fonte formale dell’obbligo di garanzia del datore di lavoro, ossia l’art. 2087 cc che
stabilisce che tra gli obblighi dell’imprenditore c’è quella di tutela dell'integrità fisica e la personalità morale
dei prestatori di lavoro, tramite l’utilizzo di misure idonee a seconda della particolarità del lavoro,
dell'esperienza e della tecnica. Ciò implica che le misure devono essere costantemente aggiornate nel
tempo. Oggi, con il testo unico, nel momento in cui il datore adempie all’obbligo di formazione e
informazione ha responsabilizzato il lavoratore. Questo perché altrimenti ci sarebbe il problema che il
datore dovrebbe essere sempre presente per assicurare tale tutela.

La delega di funzioni.
La disciplina della delega di funzioni è contenuta nel testo unico in materia di sicurezza sul lavoro (dlg 81 del
2008), art. 16.
La delega di funzioni è un istituto di origine giurisprudenziale: la giurisprudenza ha riconosciuto che,
nell’ambito della sicurezza sul lavoro, il garante della sicurezza, ossia il datore, possa trasferire parte degli
obblighi prevenzionistici (sanzionati penalmente) su altri soggetti dell’organizzazione.
Tuttavia, poiché da un lato i soggetti destinatari del diritto penale non possono disporre delle norme penali
a proprio piacimento, e dall’altro c’è un’esigenza di organizzazione, la giurisprudenza ha riconosciuto
l’istituto della delega ma solo in presenza di determinate condizioni.
Inoltre, il legislatore ha definito in due passaggi ulteriori dubbi posti in materia di delega:
 riconosce la delega di funzioni in maniera indiretta/implicita. stabilendo che alcuni obblighi non
sono delegabili (nomina de rspp e la valutazione dei rischi);

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 riconosce espressamente la delega di funzioni in tutti gli ambiti in cui sussiste l’esigenza di trasferire
obblighi penalmente rilevanti ad altri soggetti dell’organizzazione più competenti (es. tutela
dell’ambiente). Dunque la delega può essere rilasciata in qualsiasi organizzazione
indipendentemente dalla dimensione.
Il legislatore, inoltre, ha previsto dei requisiti per la delega di funzioni:
 deve risultare da atto scritto recante data certa;
 il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica
natura delle funzioni delegate (dunque deve essere competente);
 deve attribuire al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate;
 deve attribuire al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate
 deve essere accettata dal delegato per iscritto (atto di tipo negoziale dell’autonomia privata che
produce l’effetto sul piano penale di creare un nuovo garante in senso tecnico della sicurezza nella
persona del delegato).

Art. 16 co. 3  in che limiti la delega spoglia il datore della responsabilità.


All’obbligo originario di adempimento delle misure prevenzionistiche del datore si sostituisce l’obbligo di
vigilanza in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite.
Questo prefigura una possibile forma di concorso nel reato.
L’obbligo di vigilanza si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e
controllo di cui all’articolo 30, comma 4. Questo è il modello di cui devono dotarsi gli enti collettivi se
vogliono liberarsi dalla responsabilità prevista dal d. lgs. 231 del 2001 (responsabilità dell’ente collettivo).

La responsabilità degli enti collettivi: decreto legislativo n. 231 del 2001.


Fino all’approvazione del decreto 231 del 2001 la responsabilità penale riguardava solo ed esclusivamente
le persone fisiche. Era stato Savigny nel 1800 a stabilire questa definizione antropomorfa della
responsabilità penale sulla base di 3 argomenti:
 solo la persona fisica ha capacità d’azione e può materialmente realizzare la condotta penalmente
rilevante;
 solo la persona fisica ha capacità di colpevolezza, intesa come rimproverabilità, per aver tenuto un
comportamento penalmente rilevante, e quindi può essere destinataria di un rimprovero;
 solo la persona fisica ha la capacità di essere destinataria della punizione (prigione).
Negli anni ‘90 sono state approvate convenzioni europee per la repressione del reato di corruzione, il quale
produce la distorsione del mercato. Nella corruzione si punisce sia il corrotto che il corruttore, se
quest’ultimo però è un ente, il problema è capire chi si deve punire. Invece che punire solo il soggetto
interno all’ente responsabile, si è deciso di punire anche l’ente.
L’Italia ha così adottato il decreto 231 “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”.

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Se analizziamo la disciplina del decreto emergono criticità:
i. da una parte abbiamo degli indici che ci dicono che questa è una forma di responsabilità
autenticamente penale. Il primo di tra questi è la competenza del giudice a conoscere questa
responsabilità in un simultaneus processus, cioè in uno stesso processo in cui il giudice analizza da
una parte la responsabilità della persona fisiche che ha commesso il reato da parte dell’ente, e
dall’altra la responsabilità dell’ente stesso;
ii. dall’altra parte abbiamo indici che paiono contraddire questa idea. Ne esaminiamo qualcuno.
Vedremo che nell’ipotesi in cui a commettere reato sia un soggetto che riveste una posizione apicale
nell’ente, l’art. 6 del decreto prevede un’inversione dell’onere della prova, cioè non è il pm che deve
provare la responsabilità dell’ente, ma è l’ente che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per
impedire che l’apice potesse commettere un reato. Questa previsione crea dei problemi di compatibilità
con l’art. 27 Cost nella parte in cui pone una presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva,
ponendo il principio dell’onere della prova in capo al pm. Ci si domanda come si possa parlare di
responsabilità penale dell’ente se esiste questo art. 6 in contrasto con la parte dell’art. 27 che abbiamo
detto.
Altro indice normativo problematico è la disciplina in materia di prescrizione contenuta nel decreto 231
(prescrizione intesta come causa di estinzione del reato e legata al decorso del tempo). La disciplina in
materia di prescrizione lega la durata di prescrizione di un reato alla gravità dello stesso. La stessa tecnica è
adottata dall’art. 22 del decreto 231.
Altro indice di disciplina normativo che contraddice la natura penale della responsabilità dell’ente è sempre
una regola che riguarda più il momento processuale e che riguarda in particolare il meccanismo di
archiviazione. Circa l’archiviazione di un certo caso decide un giudice; nel caso del decreto 231 invece per
l’archiviazione è previsto un procedimento semplificato senza controllo del giudice. Cioè il pm
autonomamente può decidere di archiviare la posizione di un ente. Questo ci spiega anche come mai i
numeri dei procedimenti penali incardinati in capo agli enti sono statisticamente in un numero
significativamente più basso rispetto al numero dei reati per i quali si procede in capo alle persone fisiche
che li hanno commessi.
La questione circa la natura della responsabilità degli enti non è una questione semplicemente accademica,
perché ha delle ricadute pratiche di un certo rilievo. Se parliamo di responsabilità autenticamente penale è
chiaro che dovremmo necessariamente estendere alla disciplina della responsabilità dell’ente tutti i grandi
principi di garanzia previsti dal c.p. e dalla cost.
Ci sono poi tutte delle questioni marginali. Pensiamo ad es. alla questione controversa della costituzione di
parte civile nel processo per la responsabilità dell’ente. La costituzione di parte civile, relativamente alle
persone fisiche, si ha quando un illecito penale produce conseguenze rilevanti sul piano civilistico, cioè
obblighi di risarcimento o restituzioni, e il danneggiato può scegliere di esercitare le proprie prerogative
civilistiche in sede penale anziché in sede civile. Dunque, coloro i quali ritengano di essere stati danneggiati
dall’illecito dell’ente (es. i soci di una società) possono agire per il risarcimento e le restituzioni contro l’ente
davanti al giudice penale? Dovremmo rispondere in modo affermativo se l’illecito dell’ente può essere
considerato un reato, che è il presupposto della disciplina in materia di costituzioni di parte civile. Ma se il
fatto dell’ente non è un reato, e questa è l’ipotesi sul campo, questa possibilità dovrebbe essere preclusa.
Un’altra disciplina la cui applicabilità dipende dalla natura che riconosciamo rispetto all’illecito dell’ente è
quella sulla tenuità del fatto (ipotesi in cui l’offesa c’è ma è tenute; di norma in questi casi il legislatore ha
previsto che il giudice possa decidere che l’autore del fatto che ha prodotto un’offesa trascurabile possa
non essere in concreto punito). Questo istituto si applica o no all’ente? Anche in questo caso la risposta
dipende dalla natura che noi riconosciamo all’illecito dell’ente: se è un reato allora si deve applicare anche
la clausola sulla tenuità del fatto, se invece non è un reato non possiamo applicare tale clausola. E in effetti
la cassazione di recente ha confermato che il 131 bis non si applica agli enti e tra i diversi argomenti usati

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c’è che noi non ci troveremmo, in materia di responsabilità degli enti, di fronte ad una ipotesi di
responsabilità penale in senso stretto.
Altra questione che contribuisce insieme a quella dell’archiviazione a spiegare come mai vengono iscritti nel
registro degli indagati molti meno enti rispetto alle persone fisiche autrici di reati capaci di impegnare la
responsabilità dell’ente  l’art. 112 c.p. dice che l’esercizio dell’azione penale nel nostro ordinamento è
obbligatorio. Se dunque la responsabilità degli enti non è autenticamente penale l’art. 112 non si applica
agli enti, quindi il pm non è obbligato ad esercitare l’azione penale nei confronti dell’ente mentre è
obbligato ad esercitare l’azione penale nei confronti della persona fisica. Da qui ricaviamo che la
responsabilità degli enti non è né penale né civile né amministrativa, è un qualche cosa a parte, e più
esattamente la cassazione ha qualificato la responsabilità degli enti come una responsabilità del terzo tipo,
è un terzium genus.
Quindi alla domanda, che tipo di responsabilità prevista per l’ente? Rispondiamo che è riconducibile ad un
terzium genus.

Esaminiamo ora gli articoli più importanti del decreto 231 del 2001.
Art. 1  ci dice quali sono i soggetti destinatari del decreto. Il campo di applicazione è molto vasto, infatti
tale decreto si applica a tutti gli enti personificati e non, indipendentemente dal tipo di attività svolta. Ci
sono però delle esclusioni elencate al comma 3: lo stato, le regioni e i comuni (per ragioni politiche), gli enti
pubblici non economici (es. università pubbliche o ospedali pubblici), gli enti che svolgono funzioni di
rilevanza costituzionale (es. sindacati e partiti politici).
Ci si è chiesti se gli adempimenti previsti dal decreto 231, utili agli enti per liberarsi della propria
responsabilità siano obbligatori oppure no. La risposta è negativa, non lo sono. Questa è la nota più critica
di questa disciplina: non c’è un obbligo generalizzato per gli enti di adottare le misure di prevenzione
previste dalla 231. Queste misure consistono nell’adozione di un modello organizzativo, detto MOG, che
però gli enti sono liberi di non adottare.
Anche in questo caso ci sono delle eccezioni previste da discipline settoriali: es. le società le cui azioni sono
quotate in mercati regolamentati hanno l’obbligo di adottare gli adempimenti previsti dalla 231; oppure gli
enti che erogano servizi sanitari per poter erogarli in un regime convenzionato devono dotarsi del decreto
231 (questo però varia da regione in regione). Il risultato in termini pratici è che, a parte quelli che sono
obbligati, gli altri enti decidono di non adempiere al decreto 231 perché costa, rinunciando così all’unico
strumento che l’ordinamento metto loro a disposizione per potersi difendere in un processo celebrato nei
loro confronti quando un soggetto dell’organizzazione commette un reato.
Quindi dal punto di vista giuridico l’adozione del modello possiamo qualificarlo non come un obbligo, ma
come un onere.
Art. 2  principio di legalità. L'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se
la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente
previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.
Art. 5  è la norma che pone il criterio di collegamento tra l’agire della persona fisica e la responsabilità
dell’ente.
 Parte 1: ci spiega il motivo per cui l’ente risponde di un reato commesso da una persona fisica che
fa parte dell’organizzazione. La ragione sta nel fatto che la persona fisica ha commesso quel reato
nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Quindi se il reato della persona fisica non è commesso
nell’interesse dell’ente, quest’ultimo non risponde del reato.
 Parte 2: differenzia le due posizioni soggettive che concretamente l’autore del reato assume
nell’organizzazione dell’ente. Questa è la distinzione fra soggetti apicali e soggetti sottoposti. In
particolare, i primi sono quelli che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di
direzione dell’ente o di un suo ramo autonomo, nonché le persone che esercitano anche di fatto la

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gestione ed il controllo dello stesso (principio del soggetto di fatto: si guarda alle funzioni svolte di
fatto).
La distinzione fra apici e sottoposti è importante perché la disciplina del 231 cambia a seconda di
chi dei due commette il reato. Infatti l’art. 6 disciplina il caso in cui il reato sia commesso dall’apice,
mentre l’art. 7 il caso in cui il reato è commesso dal sottoposto.
Art. 6  reati commessi da un soggetto in posizione apicale.
L’apice è un soggetto distinto dall’ente ma l’ente si immedesima nell’apice. La disciplina dell’art. 6 si fonda
sulla possibilità di spezzare questo legame di immedesimazione e dimostrare che l’ente non è parte della
vicenda criminosa e che ha fatto tutto quello che la legge richiede per impedire che l’apice non
commettesse il reato. Pertanto tale articolo prevede l’inversione dell’onere della prova: di solito in materia
penale è il pm che deve dimostrare la colpevolezza del reo, invece in questo caso l’onere è in capo all’ente,
il quale deve dimostrare di aver adottato tutte le indicazioni elencate nell’art. 6 stesso.
Tra questi adempimenti innanzitutto ritroviamo l’adozione del c.d. MOG (modello di organizzazione e
controllo), uno schema organizzativo che deve essere adottato dall’ente per prevenire la commissione dei
reati delle persone fisiche poste in posizione apicale (funzione preventiva). Questi modelli di organizzazione
non sono dettagliati dalla legge, quest’ultima infatti dà solo un’indicazione generica ma non spiega
concretamente in cosa devono consistere questi modelli. L’art. 6 lascia questo spazio bianco, che deve
essere colmato a livello prasseologico, perché non esiste un modello di organizzazione unico valido per tutti
gli enti, in quanto i modelli di organizzazione hanno una consistenza di tipo sartoriale. Questo significa che il
MOG è come un abito che deve essere cucito su misura a seconda delle esigenze preventive specifiche che
attengono lo specifico ente e che riguardano l’attività da questo svolta. Quindi l’ente deve costruire un
modello su misura, capace di prevenire i reati che possono essere commessi all’interno della propria
struttura in ragione dell’attività istituzionale svolta. Possiamo fare l’esempio di una società che lavori per
pubbliche commesse: in questo caso il reato principale su cui bisogna concentrare un’attenzione preventiva
nella costruzione del modello è il reato relativo alla corruzione.
La fase di costruzione del modello è la fase più delicata e vede un contributo efficacie da parte di diversi
professionisti. Essa inizia da una particolare attività, la c.d. mappatura dei rischi: l’ente con l’aiuto di
professionisti esperti in materia dovrà fare un’indagine su quali sono i reati che statisticamente è più facile
che possano essere commessi nella propria organizzazione in ragione dell’attività che esso svolge. La
mappatura è simile dal punto di vista concettuale all’attività prevista dal TU in materia di sicurezza sul
lavoro ad opera del datore di lavoro, ossia la valutazione dei rischi. Però quest’ultima riguarda un
adempimento che è necessario assumere per escludere una responsabilità della persona fisica datore di
lavoro; la mappatura dei rischi invece è un adempimento necessario per prevenire una responsabilità non
della persona fisica ma dell’ente nel suo complesso.
Il MOG poi deve rivelarsi idoneo, ai sensi dell’art. 6. Questo è un punto problematico, perché questo
significa imporre all’ente una prova impossibile: è sensato chiedere all’ente di dimostrare l’idoneità del
modello relativamente ad un reato che è stato commesso? No perché se il reato è stato commesso allora il
modello non era idoneo, altrimenti non si sarebbe verificato.
In effetti, se andiamo ad esaminare la giurisprudenza che si è formata su questo punto, nella maggioranza
dei casi ha dichiarato il modello non idoneo. In realtà la giurisprudenza, in particolare della cassazione, ha
detto che il concetto di idoneità non va inteso ex post, perché se il reato è stato commesso il modello è
sempre inidoneo; il concetto di idoneità va visto in una prospettiva ex ante, cioè il giudice deve valutare il
modello prima che il reato per il quale c’è il giudizio sia stato commesso.
Il MOG deve poi prevedere l’istituzione di un autonomo organismo che vigili sulla efficacia effettiva del
modello; questo organismo è detto organismo di vigilanza, meglio noto nella prassi con l’acronimo ODV.
L’odv promuove il miglioramento del modello ma non ha un potere decisionale intorno all’adozione del
modello; il mog è deciso e adottato dall’organo amministrativo. Dunque i componenti dell’odv più che
garanti sono dei soggetti investiti di un compito di mera sorveglianza: questo comporta che, nel caso in cui

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dovesse essere commesso un reato da parte dell’amministratore, i membri dell’odv non rispondono in
concorso, perché tale organismo non ha il potere di impedimento.
Anche l’odv è sottoposto al vaglio del giudice, al fine di ritenere il MOG idoneo/inidoneo.
L’odv è un organismo collegiale formato di norma da 3 membri, uno dei quali riveste la funzione di
presidente. Negli enti di particolari dimensioni l’odv è formato da 5 membri. Vengono scelti dei collegi
formati da un numero dispari di persone perché tali organismi non possono stare in una situazione di stallo.
Di questi 3 o 5 membri è consigliato che almeno uno possegga delle competenze giuridiche specifiche
relative alla disciplina contenuta nel decreto 231 (può essere anche un membro interno dell’ente); gli altri
membri possono essere scelti in ragione delle competenze specifiche richieste in ragione dell’attività svolta
da quell’ente.
Il presidente dell’odv è colui che dà impulso alle attività dell’organismo: quindi convoca periodicamente
l’odv (almeno 3-4 volte l’anno), deve verificare poi che il modello sia effettivamente rispettato e i protocolli
comportamentali all’interno di esso siano effettivamente osservati. Per fare questo l’odv può fare ogni tipo
di attività volta ad ottenere questo tipo di verifica: può fare ispezioni, richiedere documentazioni e così via.
Altra attività dell’odv è quella di curare nel tempo il miglioramento dell’ente.
L’organismo di vigilanza deve essere autonomo rispetto all’amministrazione dell’ente e deve vigilare
sull’attività degli organi di amministrazione. Tuttavia la legge non dice nulla in proposito a chi nomina l’odv;
la prassi prevede però che la nomina venga effettuata dall’organo amministrativo e questo rappresenta un
problema  il controllato nomina il controllore.
Spesso accade che l’organo amministrativo nomini come membri dell’odv soggetti compiacenti, che non
intralciano l’operato dell’amministrazione. E quindi già in partenza con una nomina sbagliata l’ente si
preclude la possibilità di aver adottato un MOG idoneo.
Un modello di organizzazione efficacie deve prevedere anche un sistema disciplinare, cioè delle sanzioni a
carico dei membri dell’organizzazione che violino i protocolli. Le sanzioni vengono irrogato dall’organo
amministrativo ma l’odv ha una funzione anche da questo punto di vista, perché è l’organo che promuove
l’azione disciplinare.
L’ente, per dimostrare la sua innocenza, deve dimostrare anche che le persone che hanno commesso il
reato hanno eluso fraudolentemente il modello  si rompe così il nesso di immedesimazione organica.
Deve dimostrare che tra azione degli amministratori e l’ente c’è una separazione, perché gli amministratori
da un lato approvavano il modello e dicevano di osservarlo ma in maniera nascosta lo eludevano.
Nel 2017 sono stati aggiunti i commi 2 bis-ter-quater all’art. 6, quando la legge 179 ha approvato la
disciplina in materia di whistleblowing = segnalazione di illeciti. (La segnalazione di illeciti è un
comportamento, considerato virtuoso nell’ambiente anglosassone, di un membro dell’organizzazione che
quando sia a conoscenza di comportamenti scorretti o illegali di colleghi o superiori li segnala e li fa
emergere attraverso meccanismi appositi di segnalazione. Nell’ambiente latino invece questo
comportamento è visto in maniera negativo, come una spia che rompe un patto di fedeltà all’ente.
Nonostante queste differenze culturali rispetto a questo fenomeno, ad un certo punto l’Italia si conforma
ed introduce nel nostro ordinamento una disciplina sulle segnalazioni illecite). Nel 2012 ha introdotto
questi meccanismi di segnalazione nella pubblica amministrazione, nel mondo privato solo nel 2017 il
legislatore ha introdotto tali canali di segnalazione nella disciplina della 231, prevedendo di considerare
inidoneo il MOG qualora questo non contenga specifici canali di segnalazione, che devono consentire ai
membri dell’ente di segnalare all’organismo di vigilanza eventuali comportamenti illeciti e scorretti in
maniera non anonima ma riservata (la segnalazione riservata è quella che non espone il segnalante al
rischio di ritorsione).
La pubblica autorità che si occupa di queste materie è l’ANAC: autorità nazionale per la prevenzione della
corruzione.

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Qualche anno fa è stato aggiunto il comma 4 bis: ha offerto una soluzione di retroguardia, da un lato al
problema dell’istituzione dell’odv negli enti di piccole dimensioni, e dall’altro al problema dei costi di
allestimento del modello nelle società grandi dimensioni permettendo un risparmio. In particolare negli enti
di piccole dimensioni i compiti dell’odv possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente: anche se
questo è assurdo perché c’è un grave conflitto di interessi, ossia l’identificazione tra organo amministrativo
e odv.
Nelle società di capitali si dice che i compiti dell’odv possono essere attribuiti a organi di controllo delle
società previsti dalla rispettiva disciplina. Anche questo è assurdo in realtà perché i tipi di controllo da
svolgere sono diversi.
Completamento del discorso sulla delega di gestione: Art. 30 TU in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Questo è norma speciale rispetto all’art. 6, cioè nello specifico settore della prevenzione dei reati in materia
di sicurezza nei luoghi di lavoro il legislatore ha ritenuto di introdurre una disciplina più dettagliata dei mog
rispetto a quella prevista dall’art. 6. Questo significa che l’ente nella prevenzione dei reati in materia di
sicurezza sul lavoro dovrà attenersi alle prescrizioni più dettagliata di cui all’art. 30.
Anche l’art. 30 prevede l’istituzione di un organismo di vigilanza (comma 4).
Al comma 5 invece prevede che, in sede di prima applicazione, il modello si presume idoneo quando ricalca
degli schemi standardizzati specifici, ossia delle linee guida che sono uni-inail oppure il british standard.
Questo vuol dire che quando si costruisce il modello seguendo questi standard il legislatore stabilisce una
presunzione di idoneità; non prevista dall’art. 6  disciplina derogatoria specifica per questo settore.
L’art. 16 co 2, invee, prevede che il datore di lavoro possa vigilare sull’attività del delegato utilizzando i
modelli di organizzazione e gestione previsti dalla 231. L’art. 16 dice che se per vigilare sull’attività del
delegato si usano dei Mog conformi al c. 5 dell’art. 30 si presume adempiuto l’obbligo di vigilanza.
Concretamente c’è una presunzione che si basa su un’altra presunzione.
Art. 7  prevede le stesse cose dell’art. 6 con una differenza fondamentale: non c’è l’inversione dell’onere
della prova. Si ripristina la regola ordinaria, cioè che per quanto riguarda l’inadempimento dell’ente in
materia di prevenzione dei reati dei sottoposti la prova deve essere fornita dal pm. Nel caso del reato
sottoposto il regime probatorio è più favorevole all’ente, anche se statisticamente sono gli apici che
commetto i reati del tipo.
Art. 8  è fondamentale dal pdv sistematico e testimonia come la legge italiana in materia di responsabilità
degli enti sia particolarmente raffinata a dispetto della disciplina prevista da altri ordinamenti.
L’art. 8 introduce il principio dell’autonomia della responsabilità dell’ente: l’ente risponde di un titolo di
responsabilità diverso rispetto al titolo del quale risponde la persona fisica; l’ente risponde di un proprio
fatto che è il mancato impedimento del reato. L’autonomia è anche della colpevolezza, nel senso che l’ente
risponde per un titolo proprio di colpevolezza, la c.d. colpa di organizzazione.
Questo concetto è stato elaborato dalla dottrina tedesca e ci fa pensare che l’ente sia destinatario di un
autonomo giudizio di rimprovero per non essersi organizzato in modo da prevenire la commissione del
reato da parte della persona fisica dell’organizzazione (ricorda che il concetto di colpevolezza è collegato
alla rimproverabilità).
Dunque, se la responsabilità dell’ente è autonoma, sia dal punto di vista oggettivo (fatto) che soggettivo
(colpevolezza), si spiega il contenuto di talune previsioni dell’art. 8.
c) Se in un’organizzazione d’impresa non si riesce ad identificare la persona fisica responsabile di quel
fatto, l’art. 8 prevede che l’ente comunque risponde perché la sua responsabilità è autonoma, sta
in piedi da sola.
d) Se l’autore del fatto non è imputabile, ad es. perché incapace di intendere e di volere, la
responsabilità dell’ente non decade, perché essa è autonoma e perché l’ente risponde per un fatto
proprio e per una colpa propria.

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e) Supponiamo che il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia, ad es. per prescrizione. Se
il reato della persona fisica viene prescritto, l’ente risponde comunque perché la sua responsabilità
è autonoma.

Le sanzioni dell’ente.
Uno dei motivi per cui era difficile immaginare una responsabilità penale era proprio perché era difficile
immaginare sanzioni applicabili all’ente, perché l’ente è un’astrazione. Dunque il legislatore si è dovuto
sforzare per pensare a forme sanzionatorie adatte.
Le tipologie sanzionatoria previste dal decreto 231 sono 4:
1) sanzione pecuniaria: prevista sempre e comunque, cioè per qualsiasi reato presupposto scattano
sempre delle sanzioni pecuniarie;
2) sanzioni interdittive, che devono essere previste espressamente dal legislatore. Sono sanzioni che
fanno perdere delle capacità all’ente;
3) confisca;
4) pubblicazione della sentenza di condanna, questo ha un peso dal pdv della reputazione dell’ente.

Sanzioni pecuniarie.
Le sanzioni pecuniarie previste dalla 231 vengono commisurate attraverso il meccanismo bifasico (per le
persone fisiche viene usato il meccanismo a somma complessiva).
Il legislatore pur di favorire l’adozione del modello ha immaginato dei meccanismi per promuoverne
l’adozione anche post factum. Pertanto, ex art. 12 decreto 231  l’ente può beneficiare di una riduzione
della sanzione pecuniaria se adotta post factum il modello organizzativo.
Questo è un meccanismo molto usato nel diritto penale in generale e nel diritto penale economico in
particolare.
Le sanzioni pecuniarie sono efficaci ma hanno dei limiti: sono efficaci perché colpiscono l’ente nel profitto
che si è procurato commettendo il reato, cioè l’ente viene colpito nel motivo che lo ha spinto a commettere
il fatto; tuttavia, così la sanzione diventa per l’ente un mero costo. Proprio per questo le sole sanzioni
pecuniarie non bastano.

Sanzioni interdittive.
Sono sanzioni incapacitanti per l’ente e sono elencate al comma 2 dell’art. 9 del decreto 231:
 l'interdizione dall'esercizio dell'attività;
 la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell'illecito;
 il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un
pubblico servizio;
 l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già
concessi;
 il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Sull’interdizione dall’esercizio dell’attività va detta una cosa: le sanzioni interdittive di regola sono sanzioni
temporanee e quindi applicate per un certo periodo di tempo. Eccezionalmente l’interdizione, in
particolare dall’esercizio dell’attività, può essere inflitta in via definitiva e questo significa condannare a
morte un ente, perché esso non potrà più svolgere la sua attività.
L’interdizione in via definitiva può essere applicata, ex art. 16 comma 3, quando l’ente è del tipo
costituzionalmente illecito.
Dobbiamo distinguere 2 tipi di enti:
 gli enti costituzionalmente leciti  il 231 è pensato quasi esclusivamente per questi. L’ente
destinatario della 231 cioè nasce per perseguire fini leciti e riconosciuti dall’ordinamento; tuttavia,
questi enti nel corso della propria vita possono commettere illeciti permettendo a membri

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dell’organizzazione di commettere reati dai quali trarre beneficio, che il più delle volte è un
risparmio di costi o un aumento di profitti. La 231 va proprio a colpire queste situazioni.
 gli costituzionalmente illeciti  sono quelli creati allo scopo esclusivo o prevalente di commettere
reati (es. associazione per delinquere; associazione mafiosa). Il decreto 231 non si rivolge quasi per
niente a questi enti; prevede solo delle disposizioni eccezionali come l’art. 16 co. 3, il quale afferma
che in questi casi è sempre disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività.
Anche per le sanzioni interdittive esiste un meccanismo premiale post factum simile a quello visto per le
sanzioni pecuniarie. Ex art. 17, quando l’ente adotta un comportamento ripristinatorio non c’è solo una
riduzione di questa sanzione, ma si dice che la sanzione non viene proprio applicata.
Es. l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato
ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso.
Es. l'ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e
l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Il legislatore della 231 si è poi preoccupato anche delle conseguenze più generali della punizione dell’ente,
perché punire un ente può produrre conseguenze anche per la collettività. Pensiamo ai lavoratori, le prime
vittime, oppure ai consumatori quando l’ente svolge un servizio di pubblico interesse.
In virtù di queste due situazioni il legislatore ha previsto in questi casi che l’ente possa essere
commissariato: quindi la sanzione consiste qui nell’espropriazione della gestione dell’ente. E ovviamente il
profitto prodotto dalla gestione dell’ente commissariato verrà confiscato.

La confisca.
La confisca è un istituto che nel diritto punitivo trova un vastissimo impiego in contesti molto diversi:
confisca come misura di sicurezza, confisca come misura di prevenzione, confisca come pena.
Confisca come misura di sicurezza (art. 240 c.p.): presupposto per l’applicazione di tale confisca è la
pericolosità sociale derivante dalla commissione di un reato o di un quasi reato, della cosa e non della
persona.
La pericolosità sociale deve essere accertata, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali tutte le
ipotesi di pericolosità presunta.
La confisca come misura di sicurezza è di tipo reale, in quanto ciò da cui deriva la pericolosità sociale è una
cosa; quando, invece, la pericolosità sociale è rivelata dalla persona autrice del reato/quasi reato le misure
di sicurezza sono personali (es. libertà vigilata…).
Tramite la confisca la legge vuole dimostrare che il delitto non paga. Ciò che viene confiscato è il profitto
(inteso sia in senso positivo come l’utilità economica derivata dalla commissione del reato sia in senso
negativo inteso come il denaro risparmiato, es. denaro che si risparmia se non si prendono determinate
misure di sicurezza o se non si adotta il Mog) e il prezzo del reato. Quindi esiste un vincolo di
pertinenzialità  la confisca presuppone che sia trovata proprio quella cosa o quel denaro.
La confisca così da misura di sicurezza tende a diventare pena perché non va solo a neutralizzare la
pericolosità sociale della cosa ma va proprio a punire.
Non possono essere confiscate cose che appartengono a terzi. La giurisprudenza ci dice che è terzo rispetto
a reato chi non è concorrente; quindi, chi non ha partecipato alla commissione del reato. Quindi la cosa che
appartenga al terzo non può essere oggetto di confisca, a meno che non sia intrinsecamente criminosa (es.
stupefacente).
Confisca come misura di prevenzione: la confisca in taluni casi rappresenta una misura di prevenzione. Si
parla in questo caso della c.d. confisca di sproporzione, cioè la confisca di quei beni che sono
sproporzionati rispetto al reddito dichiarato, quando si ha un fondato motivo di temere che si tratta di beni
provenienti da commissione di reato.

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Confisca come pena (art. 19 decreto 231): “Nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di
condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al
danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di
denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato.”

Fino ad ora abbiamo parlato di reati della persona fisica che fa parte dell’organizzazione dell’ente, esiste poi
un elenco chiuso di reati per i quali l’ente risponde reati presupposto. Originariamente l’elenco era
ristretto, ogni anno ne vengono aggiunti alcuni. Tra questi: corruzione; delitti di criminalità organizzata
(aggiunti nel 2009); reati societari; caporalato; abusi di mercato; omicidio colposo e le lesioni personali
colpose gravi e gravissime commessi in violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro (25
septies); reati in materia ambientale; reati tributari; reati informatici.

Ex artt. 27 e ss. del decreto 231: gli enti possono andare in contro a vicende, disciplinate dal cc, che
consentono loro di modificare la propria consistenza giuridica attraverso una serie di vicende modificative
(es. scissione, fusione…). In assenza di una disciplina specifica l’ente potrebbe cambiare forma e dunque
identità sottraendosi alla propria responsabilità: per scongiurare questa possibilità il decreto 231 ha
previsto che questi eventi modificativi non incidono sulla responsabilità dell’ente.
Es. fusione  l’art. 29 prevede nel caso di fusione, anche per incorporazione, che l'ente che ne risulta
risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione.

Responsabilità delle persone fisiche.


Ripartiamo dallo schema tripartito:
 Colpevolezza
 Antigiuridicità
 tipicità: una volta detto che il fatto coincide con una condotta umana attiva o omissiva, dobbiamo
occuparci dell’ultimo elemento della tipicità che è rappresentato dall’evento.
Nel diritto penale si può parlare di
 evento giuridico: esso è presente in tutti i reati e consiste nell’offesa al bene giuridico;
 evento naturalistico: è un elemento strutturale che non è previsto in tutti i reati ma solo nei reati di
evento, che si contrappongono a quelli di mera condotta.
L’evento naturalistico è una modificazione naturalistica e materiale del mondo esteriore/naturale/fisico (es.
evento morte, di un omicidio). Per poter imputare l’evento naturalistico a un soggetto autore del reato
occorre dimostrare il nesso di causalità tra l’evento naturalistico e la condotta.

Il nesso di causalità.
L’art. 40 c. 1 cp: cerca di definire cosa si deve intendere per nesso di causalità.
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento (1) dannoso (2) o
pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.”
L’evento dannoso o pericoloso sopra citato non è l’elemento giuridico ma quello naturalistico.
L’evento deve essere conseguenza dell’azione o omissione dell’agente affinché ci possa essere un nesso.
Ma quando l’evento è conseguenza della condotta? Dal punto di vista del significato questa norma viene
definita VUOTA dai giuristi perché non riesce a dare nessuna definizione utile per l’interprete per
individuare il nesso di causalità. Infatti l’art. 40, pur essendo l’unica norma che si sforza di dare una
definizione di nesso di causalità, ed è da qui che deriva la sua importanza, non ci riesce. (Il concetto del
nesso è importante anche nell’ambito civilistico es. per la responsabilità contrattuale).
La prima teoria a cui gli interpreti hanno fatto ricorso per assegnare un contenuto al nesso di causalità è la
teoria condizionalistica. Questa ha un forte significato sul piano logico e può essere sintetizzata così = ogni
condizione di un evento deve essere considerata causa di quell’evento  ogni condizione è causa.
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Il concetto di causalità coincide con quello di condizione necessaria, ossia la condizione senza la quale
quell’evento non si sarebbe verificato.
Per verificare se una certa condotta è stata condizione necessaria di un evento si usa la c.d. formula della
“conditio sine qua non”. Questa si accerta o con la formula della eliminazione mentale o on quella
dell’aggiunta mentale. Queste due sono formule controfattuali, cioè sono formule attraverso le quali
ipotizziamo un decorso degli eventi diverso da quello che effettivamente è stato (che cosa sarebbe successo
se …?). Il giudice nella ricostruzione del fatto tipico procede come uno storico, quindi ricostruisce i fatti ex
post, così come storicamente sono avvenuti, e nella ricostruzione del nesso di causalità procede a ritroso
ipotizzando uno scenario ipotetico controfattuale, che è diverso a seconda che la condotta imputata sia
omissiva o attiva.
 Se la condotta è attiva, si ricorre all’eliminazione mentale: il giudice si domanda che cosa sarebbe
successo se quella data condotta che ha cagionato l’evento non fosse mai stata realizzata (che cosa
sarebbe successo se il chirurgo non avesse tagliato quell’arteria?).
La condotta è causale quando si riesce a dimostrare che eliminando la condotta attiva l’evento non
si sarebbe verificato (es se il chirurgo non avesse tagliato l’arteria il paziente sarebbe vivo).
 Se la condotta è passiva, si ricorre all’aggiunta mentale: (es. che cosa sarebbe successo se avesse il
medico avesse praticato il parto cesareo invece che attendere quello naturale che ha causato la
morte della donna?).
La condotta è causale quando si riesce a dimostrare che l’omissione di un’azione ha comportato un
certo evento (es. se il ginecologo avesse praticato il cesareo non sarebbe morta).
La formula della conditio sine qua in Italia è stata proposta da Federico Stella verso i primi anni ‘70 ed è
stata poi progressivamente accolta dalla giurisprudenza.
Ad un certo punto però Stella si è accorto del fatto che una ricostruzione puramente concettuale del nesso
di causalità comportava delle problematiche. Se ne è accorto in relazione a casi particolarmente complessi.
Es. datore che espone un lavoratore all’amianto violando le norme di sicurezza. Dopo 10 anni il lavoratore
muore. Come si può dimostrare il nesso tra l’esposizione alle polveri e la morte? L’eliminazione logica della
sostanza tossica è sufficiente per dimostrare il nesso? Per dimostrare cioè che senza le sostanze non ci
sarebbe stata la morte?
La risposta è NEGATIVA; a questo approccio meramente logico infatti mancano le conoscenze scientifiche a
disposizione del giudice intorno ad una data materia. Cioè, nel caso di specie, il giudice deve conoscere,
sulla base di una legge scientifica, che quella sostanza sia effettivamente in grado di provocare una certa
malattia. Le conoscenze scientifiche intorno a determinati fenomeni ci permettono di distinguere le cause
spurie dalle cause genuine. Dunque la questione causale non può essere intesa unicamente come una
questione logica, poiché essa è anche una questione scientifica.
Questo è il contributo più importante che Federico Stella ha offerto all’elaborazione del concetto di
causalità: senza una legge causale scientifica di riferimento non è possibile rassegnare alcuna conclusione in
materia di causalità. Quindi bisogna necessariamente passare per una legge scientifica.
Questa constatazione per Stella comporta anche un altro risultato: il giudice non è un creatore delle leggi
causali, bensì un mero consumatore delle leggi causali. Cioè il giudice non può decidere sulla base del suo
intuito. Questo vuol dire riportare la questione causale sotto il dominio del principio di legalità, in cui la
legalità è la legalità scientifica, costituita dalla legge scientifica.
Successivamente però anche questo modo di ricostruire la causalità va in crisi, perché Stella è il primo ad
accorgersi che tutte le leggi scientifiche hanno una portata euristica, cioè una capacità di dire la verità,
limitata. Non esistono leggi scientifiche universali. In realtà tutte le leggi scientifiche sono probabilistiche.
La struttura probabilistica delle leggi scientifiche è la misura della nostra conoscenza delle cose del mondo.
Anche il diritto penale deve tenere conto di questa realtà, che vincola il giudice.
Di fronte a questa conclusione la giurisprudenza penale è andata in crisi e si sono formati 2 orientamenti:

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a) il primo riteneva che i giudici potessero usare nei processi solo leggi scientifiche con indici
probabilistici alti o altissimi; in mancanza il giudice doveva sempre assolvere e mai condannare 
diritto della certezza causale;
b) il secondo, invece, si è soffermato principalmente sulla causalità omissiva, ritenendo che, non
essendo questa una vera causalità perché non ha consistenza naturalista e quindi non può
cagionare un evento naturalistico, ma equivalendo invece ad una condotta attiva, è possibile
accettare probabilità in termini meno rigorosi rispetto all’accertamento di una causalità attiva.
Tuttavia lo standard di prova del processo penale è quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Quindi se
sussiste anche solo un minimo dubbio non si può condannare, perché “in dubbio pro reo”.

Di fronte allo stallo nella quarta sezione della cassazione tra i due orientamenti, è intervenuta la corte a
sezioni unite con la celebre decisione nel caso Franzese nel 2002. In tale sentenza vengono definiti dei
principi di diritto che ancora oggi sono il punto di riferimento della giurisprudenza e degli autori per le
questioni che riguardano la causalità.
Federico Stella ha criticato questa sentenza definendola come un groviglio di rovi e intorno al 2005 ha
affermato che il diritto penale dovrebbe rinunciare a risolvere la questione inerente la causalità complessa,
che resterà in ogni caso sempre incerta, a favore di altri strumenti dell’ordinamento che possono
accontentarsi di uno standard probatorio meno rigido (nel diritto penale lo standard probatorio è quello
dell’oltre ogni ragionevole dubbio; nel diritto civile lo standard è quello del “più probabile che non” = 50%
+1).
La cassazione, però, ha deciso di non rinunciare ad accertare i nessi causali nei settori della causalità
complessa, ma ha deciso di farlo sulla base degli indirizzi dati dalle Sezioni Unite Franzese.
Le sezioni unite Franzese si assestano sull’obiettivo della certezza processuale: il processo penale non
pretende di risolvere le questioni causali con il rigore dell’assolutezza, ma ha come obiettivo quello di
attestare o meno la possibilità di imputare un certo evento all’imputato. Si guarda dunque alla possibilità
che nel singolo processo, all’esito della fase istruttoria, si possa raggiungere l’obiettivo di imputare il singolo
evento al singolo imputato.
La cassazione ovviamente non rinnega che la causalità ha una dimensione epistemologica intrinsecamente
probabilistica, cambia però il tipo di probabilità che si intende dimostrare attraverso il processo: non è più
una probabilità quantitativa, bensì di tipo logico ossia qualitativa. La Cassazione supera così lo stallo,
affermando che non si deve guardare al numero ma alla tenuta logica di un certo dato probabilistico.
Per attestare, attraverso il processo, questa probabilità logica per cui la condotta dell’imputato ha
cagionato un dato evento, si ricorre al metodo dell’esclusione.
Il metodo dell’esclusione si rifà ad un modello logico che era stato ideato da un filone della filosofia
nordamericana dell’800, il neo pragmatismo, il cui esponente più illustre è Charles Sanders Pierce. Per
questo orientamento vero è ciò che funziona, che è funzionale a determinati obiettivi pratici.
Dunque il processo è lo strumento utile ad escludere spiegazioni migliori rispetto a quella ipotizzata nel
capo d’imputazione; ed il suo obiettivo è quello di dimostrare che un determinato evento è imputabile ad
una determinata condotta.
Per raggiungere tale obiettivo il metodo logico usato da Pierce è quello dell’ABDUZIONE, che è diversa da:
 deduzione: si può usare quando si ha una legge universale dalla quale si può dedurre il caso singolo;
 Induzione: dal particolare all’universale, si necessitano una serie di elementi dai quali indurre la
soluzione al caso singolo tale da non poter mai essere raggiunta attraverso il processo penale.
L’abduzione è la ricerca della miglior spiegazione possibile attraverso la formulazione di un’ipotesi.
L’ipotesi parte da una legge scientifica probabilistica; entra nel processo e, nella fase probatoria, viene
sottoposta ad un vaglio: c’è una abduzione creatrice di un’ipotesi accusatoria che è formulata sulla base
della scienza disponibile; segue poi un’istruttoria, cioè la fase in cui l’ipotesi accusatoria viene sottoposta a

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tentativi di falsificazione attraverso i quali si realizza il secondo momento abduttivo, cioè l’abduzione
selettiva, che è quello della selezione della esclusione.
La Cassazione trattando dei tentativi di falsificazione fa un richiamo a Popper, filosofo che nel 900
affermava che la scienza procede non attraverso la verifica di ipotesi bensì attraverso tentativi di
falsificazione di un’ipotesi (es. tutti i cigni sono bianchi, è vera fino a quando si scopre un cigno nero).
Sulla base di questo, dunque, il processo costituisce una serie di tentativi di falsificare l’ipotesi accusatoria
così da poter giungere alla migliore delle spiegazioni possibili per il caso sottoposto a giudizio.
La migliore delle spiegazioni possibili è quella che abbraccia il maggior numero di elementi fattuali e li
contraddice il meno possibile.
Sulla base di questo metodo il giudice, anche quando l’accusatoria è espressiva di un indice probabilistico
alto o medio alto, potrà assolvere l’imputato se al processo si giunge ad una ipotesi che spieghi meglio il
caso sottoposto a giudizio, e viceversa può condannare anche se la legge causale azionata nel processo è
accompagnata da un dice basso o medio basso.
 Caso riportato da Federico Stella: suora violentata da soldato malato di HIV e contagiata.
In termini numerici scientifici si ha il 15% di probabilità di ammalarsi con un rapporto non protetto
(indice basso). Sulla base dell’orientamento degli anni ‘90 il giudice deve sempre assolvere con un
indice così basso. Tuttavia, dopo il caso Franzese non si guarda più solo all’indice, ma si guarda al
singolo processo che può confermare o meno che il soggetto imputato ha causato o no il contagio.
Es. se il soggetto dimostra che la suora in realtà aveva avuto altre occasioni capaci di offrire
un’ipotesi migliore di quell’avvenimento (es. rapporti frequenti, trasfusioni di sangue…), è l’esito
del processo che definisce la qualità della probabilità e non l’indice frequenzista in sé. Quindi anche
se l’indice è basso il giudice può condannare e viceversa.
Rispetto a questo modello c’è stata giusto una piccola correzione di rotta nel 2014, nel caso Tissengroup, in
cui si è proposto di sostituire l’espressione probabilità logica con grado di corroborazione, cioè grado di
tenuta dell’ipotesi accusatoria rispetto ai tentativi di falsificazione che vengono a realizzarsi nella fase
istruttoria processuale.

Ruolo del giudice dinanzi alla scienza.


Quanto detto finora vale non solo per l’accertamento causale ma anche per altri istituti che non possono
fare a meno della scienza, come l’accertamento dell’imputabilità che è il presupposto della colpevolezza e
che dipende dalla capacità di intendere e di volere che può essere diminuita del tutto o in parte da una
malattia mentale.
Mesotelioma della pleura: unica malattia che può essere causata solo dall’esalazione dell’amianto.
I lunghi tempi di latenza (20 anni tra esposizione e malattia) rendono incerto l’accertamento del nesso
causale.
La possibilità di ammalarsi dipende dalle dosi di esposizione o no? Studi scientifici hanno dimostrato che il
mesotelioma non sia dose correlato: anche l’inalazione di una sola fibra è sufficiente per innestare la
carcinogenesi. Tutti gli ordinamenti hanno messo così al bando l’amianto, non era sufficiente ridurre
l’esposizione.
Dal punto di vista penale se il mesotelioma non è dose correlato, tutte le esposizioni successive alla prima
sarebbero irrilevanti  se un lavoratore ha lavorato in più aziende in cui è stato esposto all’amianto, la
responsabilità penale su chi ricade?
Si può limitare la ricerca della responsabilità nei datori presso il quale è avvenuta la prima esposizione
contra ius ? Prima, infatti, non c’erano normative specifiche per l’esposizione all’amianto, poi si sono
evolute di pari passo allo sviluppo delle conoscenze scientifiche. il giudice non ha conoscenze in queste
materie e quindi si fa affiancare da un perito ma non è vincolato al suo parere; così come le parti del
processo possono farsi assistere da dei consulenti.

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Su quale debba essere l’atteggiamento del giudice si è pronunciata la quarta sezione della cassazione
penale nella sentenza Cozzini nel 2010: di fronte a diverse ipotesi scientifiche nel processo, il giudice deve
scegliere sulla base di una criteriologia: in relazione all’autorevolezza di chi sostiene l’ipotesi, in base al
fatto che l’ipotesi sia pubblicato o meno in riviste prestigiose.
Inoltre, la cassazione ha stabilito che le esposizioni successive alla prima sono rilevanti perché sono capaci
di abbreviare i tempi di latenza. Una persona esposta più massicciamente ad una sostanza tossica si
ammala prima; si ha un’anticipazione nel tempo dell’evento morte.
È causale non solo la condotta che causa la morte ma anche quella che la anticipa.

L’epidemiologia studia l’incidenza di fattori di rischio rispetto a popolazioni: afferma relazioni causali in
termini generali. La causalità generale va a esprimere un indice frequenzista che nel processo penale si
traduce in termini di pericolosità di un fattore; l’indice può essere confermato e smentito.

Le concause/concorso di cause: art. 41 c.p.


L’art. 41 c.p. fa una distinzione:
 ipotesi in cui più fattori causali concorrono a determinare l’evento  c.d. catena causale (1^ e 3^
comma). L’evento penalmente rilevante è il prodotto dell’agire di fattori causali tra loro collegati;
 ipotesi in cui una delle cause della sequenza spezza interrompe la relazione causale tra l’azione e
l’evento causale  causalità sorpassante (2^comma art.41).
Ipotesi 1.
Comma 1: “Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione
od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”.
Il primo comma afferma che il fatto che un evento sia determinato da più fattori causali non esclude il
nesso di causalità tra la condotta incriminata e l’evento stesso, a prescindere dal fatto che le diverse cause
siano preesistenti, simultanee o sopravvenute.
Es. datore di lavoro che omette di allestire gli impianti per impedire il contatto tra lavoratore e amianto e
morte della moglie del lavoratore (che prende le tute del marito).
L’omissione del datore che avrebbe dovuto impedire che la tuta del lavoratore non venisse contaminata
dall’amianto, può essere collegata alla morte della moglie? Ma perché il lavoratore invece non muore?
Magari la moglie era predisposta ad ammalarsi di mesotelioma, e questa predisposizione configura
un’ulteriore causa che è preesistente.
Il giudice affermerà sulla base dell’art. 41 che l’evento è stato il prodotto di due cause: la condotta omissiva
del datore e la predisposizione genetica della moglie del lavoratore. Il concorso di queste diverse cause non
esclude il rapporto di causalità.
Comma 3: presenta una sotto ipotesi del co. 1 perché prende il caso in cui la condotta concorrente è
rappresentata da un fatto illecito altrui (es. chi fornisce in modo illecito un’arma a un soggetto che la userà
per uccidere qualcuno).

Ipotesi 2.
Comma 2: “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando siano da sole sufficienti a
determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé
un reato, si applica la pena per questo stabilita.”
Il comma 2 prende in considerazione solo le cause sopravvenute perché il legislatore parte dal principio
secondo il quale “l’agente prende la vittima così com’è”. Questo è un principio morale, in quanto volto a
tutelare i soggetti più deboli e a responsabilizzare i cittadini.
Es. 1 ferisco un emofiliaco (che ha una patologia del sangue che impedisce il coagulamento del sangue)
anche lievemente, e lui muore.
L’emofilia può essere considerata una condotta interruttiva dal punto di vista giuridico? No, perché non è
una causa sopravvenuta ma preesistente. Così vengono tutelati i soggetti fragili.
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Es. 2 discussione per motivi banali che poi degenera. Uno dei due litiganti che è cardiopatico muore.
L’agente in questo caso può essere considerato responsabile di omicidio? No, perché l’agente prende la
vittima così come è, con tutte le sue caratteristiche. Questa possibilità è però riconosciuta solo alle cause
sopravvenute alla condotta dell’agente.
Es. 3 A ferisce lievemente B; B viene portata in autombulanza in ospedale ma fa un incidente e B muore.
L’agente risponde di lesioni lievi, e non di omicidio, perché la condotta sopravvenuta è sufficiente a
spiegare l’evento.
Il comma 2, tuttavia, non specifica quando una causa sopravvenuta è da sola sufficiente a determinare
l’evento; per questo la dottrina ha elaborato delle teorie. La principale è la teoria della causalità umana di
Francesco Antolisei. Questa teoria prende in considerazione i c.d. decorsi anomali, atipici che sfuggirebbero
alla dominabilità dell’agente. L’agente può essere chiamato a rispondere solo di eventi da lui dominabili. I
fattori causali atipici, chiamati da lui eccezionali, sfuggono a tale dominabilità. Sulla base di questo
possiamo affermare che la causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento è quel fattore
eccezionale.
Es. infortunio sul lavoro nel quale il lavoratore concorre con condotta imprudente. I fattori causali qui sono:
 condotta imprudente del lavoratore
 mancata vigilanza del datore (o delegato o preposto).
In generale, la giurisprudenza si rifà a un principio protettivo del lavoratore: il datore (o chi per lui) è tenuto
a proteggere il lavoratore persino da sé stesso e dalle proprie negligenze (approccio paternalistico).
Ci sono però casi limite in cui il comportamento sopravvenuto del lavoratore, gravemente imprudente, è in
grado di interrompere il preesistente nesso di causalità: ciò accade quando il comportamento del
lavoratore sia stato “abnorme” cioè del tutto esorbitante rispetto alle mansioni che erano state affidate al
lavoratore, ossia quando va oltre le proprie mansioni.
Quindi, dal punto di vista pratico della teoria della causalità umana, l’eccezionalità consiste nell’andare
oltre le proprie mansioni.

Fine primo capitolo della teoria del reato = fatto tipico.

Secondo capitolo della teoria del reato  ANTIGIURIDICITA’.


Il fatto tipico non sempre è antigiuridico. Questo in particolare quando si è in presenza di un una causa di
giustificazione.

Possiamo distinguere 3 diverse categorie di cause che escludono la pena per ragioni diverse:
a) cause di giustificazione: operano oggettivamente e incidono sull’antigiuridicità;
b) cause scusanti: operano soggettivamente e incidono sulla colpevolezza;
c) cause di non punibilità in senso stretto: incidono sulla punibilità e operano oggettivamente, in
relazioni limitate alle ragioni che determinano l’inopportunità concreta della punizione.
Es. art. 649 c.p.: ipotesi di non punibilità che si applica ad alcuni reati contro il patrimonio: non è
punibile chi ha commesso un furto in danno del coniuge, dell’ascendete, discendete…
Se il figlio si fa aiutare da un amico, quest’ultimo risponde

Le cause di giustificazione.
Sulle cause di giustificazione distinguiamo una disciplina generale, che le riguarda tutte, e una speciale per
ogni causa (che possono essere a loro volta generali o speciali).
La disciplina generale è contenuta nella parte generale del codice: dall’art. 50 all’art. 54.
L’art. 59 c.p., invece, disciplina il regime di operabilità delle cause di giustificazione: esse operano
oggettivamente, per il solo fatto di esserci.
 Comma 1 art.59: “Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore
dell'agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”.
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Significa, in termini pratici, che potrà beneficiare della causa di giustificazione, chi uccide per
legittima difesa senza sapere di essere in una causa di legittima difesa.
Questa regola vale per le cause di giustificazione che escludono la pena ma non per le cause
scusanti, che agiscono sulla colpevolezza e non sull’antigiuridicità.
 Comma 4 art. 59: disciplina un caso diverso, ossia il caso di chi crede di trovarsi in una situazione di
una causa di giustificazione (es. legittima difesa) ma in realtà questa non esiste.
Es. un soggetto fa uno scherzo all’amico gioielliere fingendo una rapina. Lui spara per difesa e
uccide l’amico.
In questo caso c’è una colpa in capo al gioielliere e il fatto commesso è punibile ai sensi del codice
come omicidio colposo.

La ratio dell’art. 59 c.p. la ritroviamo nell’art. 47 c.p.: l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la
punibilità.
Es. cacciatore spara a un cinghiale dietro un cespuglio ma prende un uomo. Il cacciatore non risponde di
omicidio perché non ha il dolo del fatto: vuole la morte del cinghiale e non dell’uomo.
 Co. 1 art. 47: se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo.
Questa disciplina è sovrapponibile all’art. 59 co. 4: in entrambi casi l’autore del fatto non è punito a
titolo di dolo perché non ha agito con la volontà del fatto; ma in entrambi i casi c’è un errore di
percezione, quindi non sopravvive una responsabilità a titolo di dolo, perché il dolo non c’è, ma una
responsabilità a titolo di colpa.
La sovrapposizione delle due discipline è dovuta al fatto che il legislatore del ‘30 non conosce ancora la
tripartizione, ma solo la bipartizione, quindi non distingue ancora l’elemento negativo del fatto da quello
positivo.

Le cause di giustificazione rispondono al principio di non contraddizione: una condotta non può essere
punita da una parte dell’ordinamento e autorizzata/imposta da un’altra parte dell’ordinamento.
Questo è il principio che fonda l’art. 51 c.p. in materia di esercizio e adempimento del dovere.
Sia l’esercizio del diritto sia l’adempimento del dovere possono derivare da una norma giuridica o da un
ordine legittimo della pubblica autorità.
Esercizio del diritto. La casistica ha profilato una serie di ipotesi penalmente rilevanti.
 Diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Pensiamo, in concreto, al diritto di cronaca
giornalistica contro il reato di diffamazione: la giurisprudenza ha elaborato dei requisiti che devono
essere presenti affinché il diritto di cronaca possa giustificare, e quindi rendere lecito, un fatto di
diffamazione:
o la verità del fatto: cioè il fatto oggetto di cronaca deve essere raccontato nella sua verità. È
possibile che il giornalista riporti un fatto non vero ma verosimile, per cui però le fonti sono
state accuratamente vagliate, così che anche in questo caso egli possa beneficiare della
scriminante. A questo proposito cassazione ci dice quali possono essere le fonti credibili
che il giornalista ha il dovere vagliare. Nel 2019 la cassazione ha ritenuto come non
attendibili la consultazione dei più noti motori di ricerca e l’enciclopedia web Wikipedia;
o la sussistenza di un interesse pubblico: cioè deve sussistere un fondato interesse legato
all’informazione su quel fatto;
o requisito relativo alle modalità di narrazione del fatto di cronaca: il fatto deve avere il
requisito della continenza, ossia le modalità con cui si narra il fatto non devono essere
gratuitamente offensive.
Nel caso di critica politica la giurisprudenza tollera anche l’utilizzo di toni più aspri.
 Esiste poi una specifica giurisprudenza a proposito del diritto di critica storica: può essere
considerato tanto come libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 cost) tanto quanto libertà di
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ricerca e diffusione scientifica (art.33 cost). Anche in questo caso la giurisprudenza ritiene decisivo il
valore scientifico dell’opera attraverso la quale si esercita il diritto di critica storica, per questo
anche in questo caso è importante il livello delle fonti usate dallo studioso. Dunque il giudice è
tenuto ad effettuare un vaglio critico sugli strumenti utilizzati distinguendo buona scienza (scienza
da riviste accreditate) e scienza spazzatura.
Adempimento del dovere. Il dovere può essere imposto:
 da una norma giuridica;
 da un ordine legittimo della pubblica autorità (l’art. 51 non opera rispetto all’ordine impartito da un
privato).
L’ordine è legittimo formalmente quando proviene dall’organo competente ad impartirlo, quando il
destinatario è competente ad eseguirlo e quando siano seguite le forme prescritte.
Es. ordinanza di custodia cautelare da parte dell’ufficiale di polizia penitenziaria: il soggetto che emana
l’ordinanza deve essere competente (es. giudice); l’ufficiale di polizia deve essere in possesso di tale
qualifica e devono essere rispettate le procedure del cpp.
Se il destinatario dell’ordine illegittimo esegue tale ordine risponde in solido con chi lo ha impartito,
secondo lo schema del concorso di persone nel reato: chi impartisce risponde in qualità di istigatore, chi ha
ricevuto l’ordine risponde in qualità di esecutore materiale dello stesso.
L’art. 51 disciplina poi anche l’ipotesi per cui i destinatari degli ordini legittimi non hanno potere di
sindacato su tali ordini, ossia i militari e forze di polizia che in quanto tali sono tenuti ad un’immediata
obbedienza. Vi è tuttavia un limite: il c.d. ordine manifestamente criminoso; dovere di non eseguire l’ordine
manifestamente criminoso.

Legittima difesa: art. 52 c.p.


Esistono diverse chiavi di lettura della legittima difesa:
 una parte della dottrina la riconduce a un fondamento di tipo giusnaturalistico: il diritto di
difendersi legittimamente da un’aggressione illegittima costituisce un diritto naturale della persona,
e quindi non richiede un fondamento del diritto positivo. È un diritto insopprimibile, che oggi
potremmo ricondurre a un diritto inviolabile dell’uomo (art. 2 cost);
 un’altra parte della dottrina la riconduce a fondamento giuspositivistico: non esiste un diritto alla
difesa violenta perché il monopolio dell’uso della violenza spetta allo stato. Il cittadino può
utilizzare la violenza in termini eccezionali sottoforma di delega concessa dallo stato solo nei casi in
cui non può intervenire la forza pubblica;
 chi si difende da un’aggressione ingiusta difende sé stesso ma anche l’ordinamento, la legalità. È
come se in questo modo contribuisse a stabilizzare l’ordinamento, con la conseguenza che chi
agisce ingiustamente si pone al di fuori dell’ordinamento e dunque non è meritevole di tutela.
La disciplina vigente sulla legittima difesa risulta spiegata un po’ da tutte e tre queste visioni.
L’analisi della disciplina generale dell’art. 52, ossia della disciplina che si applica nei casi di legittima difesa
posta in essere fuori dal domicilio, presenta
i. dei requisiti che servono da parametro per le caratteristiche che deve avere la difesa,
ii. dei requisiti che attengono all’oggetto della difesa,
iii. dei requisiti che attengono alle caratteristiche che deve avere l’aggressione.
Comma 1 art 52: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di
difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia
proporzionata all'offesa”.
Oggetto della difesa  può essere un diritto proprio o altrui; in quest’ultimo caso si parla di soccorso
difensivo.
Il legislatore usa l’espressione “diritto” (e non bene giuridico) perché ha voluto saldare ciò che può essere
legittimamente difeso e la persona, fisica o giuridica, intesa come centro di interessi circoscritto. Quindi il

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diritto deve essere un interesse riferito a un soggetto ben individuato; si tende a escludere la difesa di diritti
collettivi. Inoltre si può trattare sia di interessi di tipo patrimoniale sia id interessi di tipo personale. In
questo concetto è possibile ricondurre anche l’interesse legittimo e non solo il diritto soggettivo.
Caratteristiche dell’aggressione  da cosa ci si può difendere? Da un’offesa ingiusta, che non è
necessariamente un reato completo di tutti i suoi elementi. È sufficiente che si tratti di un fatto tipico e
antigiuridico (sine iure= non giustificabile), ma non deve essere per forza colpevole (es. aggressione da
parte di un pazzo). Il fatto può consistere in un atto sia omissivo che attivo. (es. posso agire legittimamente
sia nei confronti di un padrone di un cane che mi sta per mordere e che non fa nulla per impedirlo, sia nei
confronti del cane).

Un altro requisito dell’offesa è l’attualità del pericolo: non si può invocare la legittima difesa rispetto al
pericolo di un’offesa ingiusta passato (già esaurito) futuro.
Nell’art. 52 co. 1 non è menzionato, invece, il requisito dell’involontarietà del pericolo (presente invece
nell’art. 54); tuttavia la giurisprudenza ritiene che tale requisito debba ritenersi implicito. La presenza di
tale requisito permette la risoluzione di alcuni casi problematici, nonché di escludere che possa essere
invocata la legittima difesa quando il soggetto si sia esposto volontariamente al pericolo (es. duello, sfida,
rissa  i co rissanti non possono invocare reciprocamente la legittima difesa).
Caratteristiche che deve possedere la difesa per essere legittima  la difesa deve essere:
 necessaria: non ci deve essere alternativa (deve esserci la condizione del tipo “o mi difendo o
subisco”).
Per valutare la necessarietà della difesa bisogna prendere in considerazione anche la possibilità che
l’aggredito possa allontanarsi per evitare l’aggressione (commodus discessus): non può invocare la
legittima difesa chi si sarebbe potuto allontanare in maniera comoda, ossia non pericolosa dal
luogo dell’aggressione.
La necessarietà si riferisce anche al mezzo difensivo: non solo chi si difende non deve aver avuto
alternative, ma relativamente al mezzo difensivo, la scelta deve ricadere sul mezzo meno lesivo. La
difesa non è considerata necessaria se viene scelto il mezzo più lesivo.
 proporzionata: la difesa deve essere proporzionata all’offesa. Il rapporto di proporzione deve porsi
tra i beni in conflitto, cioè tra il bene leso da chi si difende e il bene minacciato dall’aggressore.
Questi due beni devono essere bilanciati, perché è vero che si deve dare prevalenza al bene di chi si
difende, ma deve altresì esserci la condizione di un rapporto di proporzione.
La Costituzione ci indica la scala gerarchica utile a misurare questo rapporto di proporzione: i beni
di natura personale prevalgono su quelli di natura patrimoniale. Una conferma di questa gerarchia
la ricaviamo anche dall’art. 2 della CEDU: per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza
illegale si può cagionare la morte solo nell’ipotesi in cui risulti assolutamente necessario. Il bene
della vita, quindi, non può mai essere sacrificato per difendere un bene che ha un valore meno
importante.

Legittima difesa speciale. Nel 2006 con la Legge n. 59 è stata aggiunta una seconda parte all’art.52 c.p.;
questa è relativa alla legittima difesa che dovesse esercitarsi in luoghi particolari quali il domicilio o altri
luoghi ad esso equiparati (luoghi in cui avvenga un’attività commerciale, imprenditoriale o economica) 
legittima difesa domiciliare.
Chi si difende nel proprio domicilio deve avere spazi di difesa più ampi rispetto a quelli riconosciuti quando
la difesa avviene in campi diversi. Per questo il legislatore del 2006 ha agito sul requisito della proporzione:
egli ha ritenuto sussistente una proporzione tra i beni in conflitto qualora la difesa avvenga nel domicilio o
nei luigi ad esso parificati.
La giurisprudenza successiva al 2006 ha cercato di restringere il campo di questi casi speciali attraverso
diversi percorsi interpretativi:

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i. in primis facendo una considerazione selettiva dei luoghi in cui tale difesa è ammessa  es. non si
configura la legittima difesa domiciliare con riguardo a condotte compiute in un’autovettura o in un
fabbricato in costruzione attiguo al domicilio;
ii. un altro percorso interpretativo invece ha riguardato il requisito della violazione del domicilio: si
può avere legittima difesa domiciliare nei casi previsti dal 614 del c.p., che tratta proprio della
violazione di domicilio. La giurisprudenza però ha previsto in questo caso che la violazione di
domicilio deve essere effettivamente consumata e non solo tentata perché possa configurarsi una
legittima difesa domiciliare (es. ladro che sta per scavalcare il muro); nei casi di mero tentativo non
si può invocare la legittima difesa speciale.
iii. in merito alla proporzionalità la dottrina ha ventilato un’ipotesi di incostituzionalità perché da un
lato verrebbe violata quella gerarchia valoriale che caratterizza il nostro impianto costituzionale e
dall’altra in particolare si ipotizza una violazione dell’art. 2 CEDU che considera il diritto alla vita del
tutto prevalente rispetto a tutti gli altri beni.

Nel 2019 il legislatore è tornato sulla materia della legittima difesa domiciliare per completare la disciplina
del 2006 con la Legge n. 36; in particolare egli è intervenuto su due norme:
 sul corpo dell’art.52 c.p.: aggiunge un avverbio per rafforzare la proporzione tra difesa e offesa.
Oggi il co. 2 di tale articolo prevede che nei casi di violazione di domicilio sussiste SEMPRE il
rapporto di proporzione;
 sul testo dell’art. 55 c.p., che disciplina l’eccesso colposo di difesa (applicabile a tutte le cause di
giustificazione).
C’è eccesso colposo di difesa quando una causa di giustificazione è effettivamente presente dal
punto di vista fattuale ma chi agisce ha colposamente ecceduto i limiti propri di quella causa di
giustificazione. Il superamento dei limiti imposti dalla necessità può essere di 2 tipi:
 può consistere in un errore della valutazione/percezione del pericolo
 oppure in un errore di esecuzione dell’attività difensiva.
In entrambi i casi, per esserci eccesso colposo di difesa, occorre che questo errore sia
rimproverabile a titolo di colpa (se addirittura ci fosse dolo risponderebbe di omicidio volontario).
All’interno dell’art. 55 c.p. il legislatore del 2019 ha aggiunto un nuovo comma: esso prevede che
nei casi di legittima difesa domiciliare non c’è eccesso colposo se chi ha agito, ha agito in particolari
condizioni di tipo esistenziale:
a. situazione di grave turbamento/spavento/terrore dovute al pericolo. Deve essere uno stato
emotivo astenico (ossia dovuto alla situazione) e non stenico (es. rabbia, rancore…);
b. condizione aggravante prevista dall’art. 61 n. 5: chi si difende si trova in una minorata
difesa (es. signora anziana, durante la notte…).
In questi casi (grave turbammo o minorata difesa), anche se travalicati i limiti imposti dalla
necessità difensiva, non si ha eccesso colposo. Per questo non si parla di cause di giustificazione
ma di scusanti, le quali escludono la punibilità.

Uso legittimo delle armi: art. 53 c.p.


“Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di
adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di
coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza
all'Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione,
disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti
assistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di
coazione fisica.”

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L'istituto dell'uso legittimo delle armi è una disposizione autonoma, ma sussidiaria ed aggiuntiva, in quanto
opera solo qualora manchino i presupposti della legittima difesa (art. 52 c.p.) e dell'adempimento del
dovere (art. 21 c.p.).
Tale scriminante, inoltre, è riconoscibile solo in capo a soggetti determinati, ossia i pubblici ufficiali; per cui
l'uso dell'arma è consentito solo al fine di adempiere a un dovere del proprio ufficio oppure, secondo
l'interpretazione fornita da parte della dottrina, di eliminare un ostacolo che si è frapposto tra il pubblico
ufficiale e il dovere da adempiere. Per questo è esclusa la scriminante nei casi in cui il soggetto abbia agito
per un fine privato (es. vendetta) e nei casi in cui lo scopo sia l'adempimento di una facoltà, e non di un
dovere del proprio ufficio.
Dunque, il pubblico ufficiale può usare legittimamente le armi in 2 casi:
a) quando è costretto dalla necessità di respingere una violenza (rivolta nei confronti del pubblico
ufficiale stesso o di cose o persone che questi ha il dovere di tutelare);
b) quando deve vincere una resistenza, attiva o passiva, fermo restando il compito del giudice di
valutare concretamente se questa era tale da dover essere vinte con le armi.
La scriminante opera anche nei confronti del privato, solo qualora la richiesta di intervenire, rivoltagli dal
pubblico ufficiale, sia stata fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p..

Lo stato di necessità: art. 54 c.p.


“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona), pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti
evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato
dall'altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta
a commetterlo.”
La norma individua tre elementi che caratterizzano la scriminante in esame:
 il pericolo attuale  parimenti che per l legittima difesa, deve essere esistente al momento del
fatto. Il pericolo, inoltre, viene definito "volontario" quando causato dall'agente con dolo o con
colpa;
 la necessità di salvataggio  si richiede la concreta attualità di una situazione di pericolo, in cui non
vi sia altra scelta se non quella di ledere il diritto del terzo. Non ha rilevanza l'origine di tale stato di
necessità, basta che non sia volontariamente causato. Al riguardo si pone il problema dei rapporti
tra stato di bisogno economico e stato di necessità. La giurisprudenza della Cassazione ritiene che il
bisogno economico non soddisfi i requisiti dell'articolo in esame, in quanto alle carenze
economiche si potrebbe far fronte attraverso la moderna organizzazione sociale, che tutela
indigenti, eliminando per questi il pericolo di restare privi di quanto occorre per il sostentamento.
Non sono mancate però pronunce di diverso segno;
La norma, inoltre, si riferisce alla necessità di salvataggio anche in relazione a soggetti terzi.
 la proporzione fatto-pericolo  a quale dovrà essere valutata sulla base del rapporto di valore
intercorrente tra i beni confliggenti. La scriminante opererà dunque quando bene minacciato deve
prevale o, almeno equivale a quello sacrificato.
L’art. 54 si riferisce anche al c.d. costringimento psichico. Lo stato di necessità si applica anche quando un
soggetto tiene un certo comportamento antigiuridico, perché minacciato. Il soggetto agente si torva
dunque di fronte a dunque aut aut: agire o subire il male minacciato. La scriminante in esame, però, potrà
applicarsi solo se la minaccia è grave, seria e non evitabile, tale da creare nell'agente un vero e proprio
stato di necessità, di cui devono al contempo essere presenti gli elementi costitutivi. Del fatto sarà
chiamato a rispondere colui che ha posto in essere le minacce.

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La norma, infine, il limite di applicabilità della stessa, di cui non potrà fruire chi ha un dovere giuridico di
esporsi al pericolo (es. comandante di una nave, non potrà invocare lo stato di necessità qualora abbia
ucciso un passeggero allo scopo di mettersi in salvo sull'ultima scialuppa).

Il consenso dell’avente diritto: art. 50 c.p.


“Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente
disporne.”
Bisogna porre l’accento sul requisito che il soggetto possa validamente disporre di un bene protetto dalla
norma incriminatrice. Distinguiamo:
 beni disponibili  integrità fisica. L'art. 5 cc sancisce il divieto di poter disporre del proprio corpo
quando si cagioni una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando si violi la legge,
l'ordine pubblico o il buon costume
 beni assolutamente indisponibili  bene alla vita.
Con riferimento ai beni indisponibili è importante analizzare il caso dell’atto di disposizione del bene vita:
art. 579 c.p. “omicidio del consenziente”, che punisce chi cagiona la morte di un uomo con il suo consenso,
e art. 580 c.p. “istigazione o aiuto al suicidio”, che punisce chi aiuta o determina il suicidio di un uomo.
La base giuridica di queste due disposizioni è costituita dall’art. 2- 13 e soprattutto 32 Cost., che sanciscono
la tutela dell’autodeterminazione della persona, gli obblighi di solidarietà ed il diritto alla salute.
Il diritto all’autodeterminazione rinviene poi anche in una serie di trattati internazionali come la
convenzione di Oviedo, che ha introdotto disposizioni inerenti al consenso informato.
La disciplina sul consenso informato, rispetto all’attività medica e in materia di condizioni anticipate di
trattamento, è stata espressamente introdotta in Italia con la Legge n. 219 del 2017. Questa prevede il
consenso informato per mettere il soggetto nella condizione di sapere le conseguenze del trattamento
medico, anche in caso di rifiuto. Dunque, il presupposto dell’istituto del consenso informato è
l’autodeterminazione della persona: cioè la persona per poter esprimere il proprio consenso o l’eventuale
rifiuto circa l’attività a cui potrebbe essere sottoposta deve essere correttamente informata intorno alle
alternative e alle conseguenze; il consenso informato confluisce nella cartella clinica. Questa previsione
rispecchia la nuova concezione del rapporto medico-paziente, che è di tipo paritetico in virtù dell’alleanza
terapeutica.
La legge del 2017 inoltre stabilisce che l’idratazione e la nutrizione debbano essere considerate delle cure
che possono essere rifiutate dal paziente; se il paziente non è in grado di rifiutarsi, la legge prevede che la
decisione spetti al rappresentante legale dell’incapace, anche attraverso una ricostruzione della volontà del
paziente (es. volontà scritte secondo modalità di redazione stabilite come quella notarile o presso l’ufficio
stato civile del comune di residenza).
Quindi, possiamo dire ad oggi che esiste il diritto a lasciarsi morire, lasciando però che la malattia faccia il
suo corso (diverso dall’eutanasia che presuppone un atto, un intervento dall’esterno che determini la
morte della persona e diverso dal suicidio che è compiuto dalla persona stessa).

Caso di DJ FABO  a seguito di un incidente stradale si è ritrovato paralizzato in un letto, tetraplegico e


cieco. Ad un certo punto viene a sapere che in Svizzera, in strutture apposite, è consentito l’aiuto al suicidio
e si rivolge ad un’associazione per essere assistito, e in particolare a Marco Cappato che dà di fatto un
contributo alla sua morte, agevolandone l’esecuzione  fatto tipico dell’art. 580 c.p.
Una volta che Dj Fabo si è dato alla morte Cappato si presenta a Milano e si autodenuncia. Inizia il processo,
ma il Tribunale di Milano lo sospende operando un rinvio alla corte costituzionale, richiedendo la
valutazione della legittimità dell’art. 580 c.p. La corte costituzionale interviene con un doppio passaggio. In
un primo momento riconosce l’incostituzionalità della disciplina vigente e decide di dare del tempo al
parlamento per intervenire con una disciplina positiva. Il parlamento però non interviene. Così con la sent.
n. 242 del 2019 la corte costituzionale dichiara parzialmente incostituzionale l’art 580: la parte relativa
all’istigazione al suicidio è fatta salva, e continua ad essere punita per proteggere i soggetti più fragili; la
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parte riferita ad un soggetto affetto da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o
psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli invece viene
dichiarata incostituzionale. Dunque, se un soggetto si trova in questa situazione e la malattia produce la
morte senza necessità di intervento esterno, può darsi la morte.
In mancanza di disciplina sul suicidio assistito, vale questa sentenza 242 della corte che di fatto lo riconosce.

Relativamente all’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), invece, la corte costituzionale non ha ammesso
il referendum abrogativo, perché in difetto di una disciplina positiva ciascuno potrebbe farsi uccidere (es.
un amico depresso un giorno chiama e chiede di essere ucciso).

Terzo capitolo della teoria del reato  COLPEVOLEZZA: ultimo elemento del reato.
Nella colpevolezza rientra tutto ciò che collega l’autore al fatto; si parla di una colpevolezza come elemento
del reato e non la colpevolezza processuale.
In tempi più risalenti la colpevolezza racchiudeva i soli istituti del dolo e della colpa. Poi ci si è resi conto che
esaurire la colpevolezza semplicemente nella presenza del dolo o della colpa poneva limiti concettuali: la
colpa ha una dimensione psicologica molto flebile a differenza del dolo, perché si esaurisce in un qualcosa
di meno psicologico e più normativo e si risolve nella verifica della violazione di una norma cautelare da
parte dell’autore del fatto. Inoltre, c’era il problema della difficoltà di collegare dolo, colpa e imputabilità,
intesa come capacità di intendere e di volere.
Così la concezione psicologica della colpa è stata soppiantata da una concezione normativa, secondo la
quale la colpevolezza consiste in un complesso di parametri volti a misurare la rimproverabilità dell’autore
del fatto. Questi parametri sono: l’imputabilità, la conoscibilità della illiceità penale, l’assenza di scusanti,
dolo e colpa, a cui si aggiunge anche la preterintenzione, un altro collegamento soggettivo.

IMPUTABILITA’ (art. 85 e ss. c.p.)


È la capacità di intendere (di cogliere il significato delle cose e agire in modo consequenziale) e di volere che
l’autore deve avere al momento della condotta. Non deve essere confusa con la suitas (art. 42, requisito
minimo che la condotta deve avere per essere considerata umana).
L’imputabilità è il presupposto del rimprovero.
Perché un soggetto possa dirsi imputabile la malattia mentale deve essere assente. Il vizio di mente lo
possiamo distinguere in
 totale  esclude l’imputabilità
 parziale  riduce l’imputabilità
Sul vizio di mente si è aperto un dibattito riguardante i parametri che il giudice deve utilizzare per
riconoscere la malattia. Gli schemi di riferimento sono 2:
a) schema rigorosamente clinico  che indica tassativamente le malattie riconosciute dalla scienza
psichiatrica. In questo caso il giudice chiede al perito di verificare se il soggetto è affetto da una di
queste malattie;
b) schema che riconosce il vizio di mente anche in merito a gravi e intensi disturbi della personalità
non riconducibili allo schema clinico. La corte di cassazione nel 2005 ha accolto questo
orientamento nel caso di un giudizio su un disturbo paranoideo/della personalità.

CONOSCIBILITA’ DELLA ILLICEITA’ PENALE


Va analizzata con riferimento alla rilevanza dell’istituto dell’ignoranza sulla legge penale, cioè il c.d. errore
sul precetto.
L’errore sul precetto è diverso dall’errore sul fatto: nel secondo l’agente non sa quello che fa, è un errore di
percezione rispetto alla realtà che lo circonda; nel primo, invece, l’agente sa quello che fa ma nella
convinzione che quel comportamento non sia penalmente illecito (es. straniero non cosciente dell’esistenza
del delitto di bigamia, si sposa due volte perché nel suo paese è riconosciuta la poligamia).

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L’art.47 co. 3 dispone che “L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha
cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.
Es. un italiano sposato in Germania ottiene il divorzio, torna in Italia e si risposa con un’altra persona. Dopo
qualche tempo scopre di essere indagato per bigamia: lui è consapevole del delitto di bigamia ma è
convinto che il divorzio in Germania sia riconosciuto in Italia. In realtà la sentenza straniera per risultare
valida deve essere sottoposta a un processo di delibazione. Si trova così nella stessa situazione di chi non
era proprio a conoscenza del divieto di bigamia.
Dunque, un errore di diritto extrapenale mette il soggetto agente nella stessa condizione di chi versa in un
errore di fatto. Di qui, l’errore sul fatto può essere un errore di fatto (comma 1) oppure un errore sul fatto
derivante da un errore extrapenale. Il risultato dal punto di vista psicologico è però lo stesso: l’agente non
sa quello che fa, cioè è convinto che non sta commettendo un delitto.
Queste due situazioni sono diverse da un errore sul precetto di diritto penale, che è l’errore in cui versa chi
sa quello che fa ma è convinto che questo non sia penalmente rilevante.
La corte, interpretando in modo molto riduttivo il co. 3 dell’art. 47, ritiene che l’errore di diritto extrapenale
possa produrre il risultato di escludere il dolo nei soli casi in cui la norma extrapenale non sia integratrice
del precetto perché se è integratrice diventa tutt’uno con la norma penale e quindi diventa un errore di
diritto penale. Interpreta così perché vuole che il sistema tenga (es. art 2082 cc integra la descrizione della
bancarotta e quindi l’errore sul 2082 è come se fosse un errore di diritto penale).
Così dicendo il sistema tiene perché l’art. 5 c.p. non scusa l’ignoranza della legge penale: non ci si può
difendere usando come scusa quella di non conoscere la legge penale.
Nel 1988 con la sentenza 364, l’art.5 è stato ritenuto parzialmente incostituzionale. Già prima la cassazione
aveva accolto un orientamento più indulgente in merito all’ignoranza ma solo in merito alle
contravvenzioni, riconoscendo la buona fede. Con la sentenza 364 questa apertura è stata estesa anche ai
delitti.
In questa sentenza viene ribadito che la responsabilità penale è personale (art. 27 cost), però non è solo
responsabilità per fatto proprio ma per fatto proprio COLPEVOLE. Viene così saldato il principio della
personalità della responsabilità penale con il principio di colpevolezza. Presupposto per la colpevolezza è
l’imputabilità e la conoscibilità dell’illiceità, proprio per questo l’art. 5 viene cambiato intendendo quindi
che l’ignoranza non è ammessa a meno che non sia inevitabile (se il cittadino si è informato e ha fatto di
tutto per informarsi e conoscere allora l’errore è inevitabile). Il legislatore ha sì il dovere di scrivere le
norme in modo determinato ma il cittadino ha il dovere di conoscere la legge penale (in un’ottica di
solidarietà sociale), dovere che in alcuni contesti non ammette eccezioni. La cassazione ha infatti stabilito
che alcuni soggetti non possono non conoscere la norma per cui l’errore non è imputabile: tra questi il
professionista, il consulente…
In pochissimi rari casi è stata riconosciuta tale inevitabilità.

ASSENZA DI SCUSANTI
Le scusanti sono clausole presenti nell’ordinamento, che tengono conto del fatto che un soggetto autore di
un comportamento che costituisce reato ha agito in una condizione esistenziale peculiare nella quale non è
umanamente possibile pretendere che questo avesse potuto agire in un modo diverso. Le scusanti si
fondando sul principio di inesigibilità: non si può esigere un comportamento umanamente diverso.

DOLO & COLPA


L’art. 42 c.p. prevede che per le contravvenzioni si risponda per dolo e colpa; quindi nella prassi basta la
colpa, non ponendosi alcun problema relativamente al dolo.
Per i delitti, invece, si pone il problema del dolo, perché per questi vale la regola del co. 2 art. 42 c.p.: un
soggetto risponde a titolo di dolo a meno che il legislatore preveda espressamente che si risponde per
colpa (es. omicidio colposo) o preterintenzione (esistono solo due delitti preterintenzionali: l’omicidio
preterintenzionale e l’aborto preterintenzionale).

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Ex art.43 c.p. il delitto, rapportato alla volontà, può essere:
 doloso, se è secondo l’intenzione  realizzato con volontà
 colposo, se è contro l’intenzione  realizzato con assenza di volontà
 preterintenzionale, se è oltre l’intenzione  oltre quello che si vuole

DOLO. L’art. 43 c.p. definisce il dolo come previsione e volizione; esso infatti dispone che, affinché possa
esserci dolo, sono necessari due requisiti:
 l’intenzione
 la previsione (si deve prima prevedere di fare un atto e poi si deve realizzare ciò che si è idealizzato)
Questi due elementi devono essere presenti al momento del fatto: non rileva né dolo antecedente né
quello susseguente.
Il legislatore poi distingue tra dolo di impeto e dolo di proposito: la premeditazione è un’aggravante.
Oggetto del dolo: oggetto di previsione e volizione deve essere il fatto che costituisce reato, e quindi ogni e
ciascun elemento del fatto storico corrispondente al modello di reato. Se anche solo un elemento del fatto
è senza dolo non c’è dolo.
Dolo specifico: è una particolare forma di dolo. Per esserci dolo specifico è necessario che il soggetto abbia
perseguito un fine ulteriore rispetto al fatto, anche senza realizzarlo. Questo fine ulteriore è a volte così
significativo che è rispetto ad esso che si concentra il disvalore del reato.
Es. associazione per delinquere: il disvalore è dato dal fatto che l’associazione viene creata per perseguire
una serie di reati. In questa associazione è presente il dolo anche se poi i reati non sono realizzati; conta il
fatto che i soggetti si siano associati per il fine di perseguire tali reati.
Possiamo distinguere 3 forme di dolo, a seconda dell’intensità, la quale serve per commisurare la pena:
1. intenzionale: forma più grave, quando l’agente agisce e costruisce la sua condotta con l’intenzione
ben precisa di commettere il reato;
2. diretto: viene considerato con riferimento agli effetti collaterali. Es. armatore di una nave vuole
intascare il premio dell’assicurazione e fa affondare la nave causando la morte dell’equipaggio. È
omicidio volontario perché sapeva le conseguenze della sua azione ma lui non voleva la morte delle
persone, voleva il premio;
3. indiretto o eventuale: è la forma più problematica perché si posiziona al confine tra la forma meno
grave di dolo e quella più grave di colpa (art. 61 n.3 colpa aggravata per la previsione dell’evento).
Nei tempi più risalenti si distingueva il solo eventuale dalla colpa grave sulla base dei fatti: cioè per fatti più
rilevanti si attribuiva il solo, per quelli meno rilevanti, invece, la colpa.
Es. rapinatore che uscendo dalla banca spara e uccide delle persone  omicidio volontario con dolo
eventuale.
Es. circolazione stradale: condotta imprudente contro il codice della strada, 120 km/h in centro abitato e
investe un bambino  omicidio colposo.
Successivamente l’orientamento giurisprudenziale cambia, anche per la pressione dell’opinione pubblica, e
l’imputazione dolosa rientra in settori che prima non la conoscevano minimamente. Ad es. si è ritenuto che
alcuni comportamenti come quello dell’automobilista che a 120 km/h nel centro uccide un bambino, o
soggetto che sa di essere positivo all’HIV e ha rapporti non protetti causando la morte del partner
potessero essere puniti non a titolo di colpa ma di dolo.
L’argomento su cui faceva leva la giurisprudenza non era tanto la componente volitiva del dolo ma la
componente della rappresentazione del dolo: se l’agente si è rappresentato l’evento in termini di mera
possibilità allora viene punito a titolo di colpa; se invece si è rappresentato quell’evento in termini più
concreti di probabilità, allora risponde a titolo di dolo.
Un altro stratagemma utilizzato dalla giurisprudenza per la distinzione era quello del dubbio risolto e
dubbio irrisolto: il primo viene così definito perché si riesce a dimostrare di avere la fondata convinzione
che una cosa non sarebbe successa (es. della strada, io faccio quella strada tutti i giorni quindi conosco tutte
le insidie, inoltre la macchina va bene senza nessun problema); il secondo invece è un dubbio che rimane
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aperto perché c’è la possibilità che possa succedere un certo epilogo. Nel primo caso si risponde per colpa,
nel secondo per dolo.
Per molto tempo quindi per la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente ci si è basati sul criterio della
rappresentazione.
Nel 2010, però, con la sentenza Lucidi la cassazione cambia di nuovo orientamento: il Signor Lucidi, in
macchina con la sua fidanzata, passa con il rosso e uccide due ragazzi senza volerlo; l’assenza di volontà è
stata dimostrata e confermata durante il processo dalla sua fidanzata che riporta la frase di Lucidi “Ale
oddio li ho ammazzati”. In virtù di questa frase, chiave per il processo, si è ritenuto che Lucidi non potesse
rispondere a titolo di dolo perché non c’era la volontà di uccidere quei ragazzi, volontà che rappresenta
l’elemento distintivo tra dolo e colpa.
Le sezioni riunite della Cassazione pertanto hanno ripreso questa sentenza stabilendo che affinché ci possa
essere dolo deve emergere un disprezzo dell’agente nei confronti del bene offeso. A conferma del
disprezzo, la cassazione, per distinguere dolo eventuale e colpa cosciente, usa una formula risalente a fine
‘800: la seconda formula di Frank  partiva dal caso di un cacciatore che per provare la gittata del fucile
mira a un contadino lontano e lo uccide: ci sarebbe stato dolo se avesse agito pur sapendo che la gittata
avrebbe colpito il bersaglio. Quindi, si può dire che l’agente ha agito con dolo se si riesce a dimostrare che
egli avrebbe agito ugualmente se avesse saputo che con quel comportamento avrebbe offeso un certo
bene.
Quindi da tutta questa evoluzione giurisprudenziale possiamo ricavare che il dolo presume la volontà, la
colpa no, è assenza di volontà.
La giurisprudenza ha definito la questione nel 2014 (processo Espenhahn, Thyssenkrupp) fissando i criteri
distintivi: Espenhahn è stato condannato per omicidio colposo, per quanto gravi le azioni non c’era volontà
di uccidere gli operai.

COLPA. La colpa è legata al criterio del rischio consentito: l’ordinamento prende atto del fatto che ci sono
alcune attività che implicano un rischio intrinseco ma che non possono essere interrotte a causa della loro
funzione sociale (attività chirurgica; circolazione aerea o navale). Il rischio consentito è però circoscritto
dalla presenza di norme cautelari. Infatti il senso della colpa è la violazione di norme cautelari.
La colpa dunque è aver cagionato il fatto in violazione di una norma cautelare, ma senza volontà. Dunque
presuppone 2 requisiti:
 assenza di volizione
 violazione della regola cautelare.
La colpa è allo stesso tempo:
 elemento di garanzia: qualcuno per essere rimproverato deve aver agito almeno con colpa. Questo
però rende problematica la questione dei casi punibili a titolo di responsabilità oggettiva, che è
senza dolo e senza colpa, perché si pone in contrasto con l’art. 27 cost. che, prevedendo una
responsabilità personale, intende una responsabilità rimproverabile il cui requisito minimo è la
colpa
 elemento di responsabilizzazione: richiama i cittadini a doveri di solidarietà sociale (es. rispetto del
codice della strada). La colpa agisce sul piano del dover essere e questo pone la prospettiva del
diritto penale come strumento di prevenzione. Es. prevenzione sul lavoro: il piano dell’essere è
l’insieme delle misure prese dalla generalità dei datori, il dover essere sono le misure che il datore
avrebbe dovuto prendere per evitare i rischi
Possiamo distinguere 2 forme di colpa:
1. colpa generica: la regola cautelare è imposta da parametri sociali generici (es. prudenza o
diligenza);
2. colpa specifica: la regola cautelare è scritta in leggi, regolamenti, ordini…

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Se non ci sono norme scritte, per individuare la colpevolezza il giudice si basa su un “agente modello” (cosa
avrebbe fatto il buon medico, il bravo guidatore…?), che può essere definito come la personificazione
dell’ordinamento nella situazione data.

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