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DIRITTO PENALE Prof.

De Maglie

Introduzione

Cosa differenzia il diritto penale dalle altre branche del diritto?


Il diritto penale, come gli altri, si occupa di beni primari. Ma
non si tratta di una questione di materia. Ciò che caratterizza il
diritto penale è la sanzione, è il braccio armato dello Stato.
Il nostro è un diritto penale che ha come sanzione principale la
pena detentiva.
I reati si dividono in delitti e contravvenzioni. Per entrambi
esistono sia pene detentive che pecuniarie. Per quanto riguarda
i delitti le prime sono ergastolo e reclusione, mentre le pene
pecuniarie sono essenzialmente multe. Per le contravvenzioni
le sanzioni sono rispettivamente arresto e ammenda.

Funzione del diritto penale

Il diritto penale ha due funzioni:

- Tutela: Ossia la prevenzione generale. La minaccia della


pena si rivolge a tutti i consociati, perché la funzione di tutela
è quella di riuscire a contrastare una eventuale pulsione nei
confronti del delitto. Secondo l’impostazione più moderna,
questa funzione di tutela, ha anche un aspetto educativo, oltre
che intimidatorio, in quanto deve anche influire sul codice
morale dei consociati. (c.d. funzione pedagogica).

- Funzione rieducativa del condannato:


(art.27 comma 3 cost.). Il sistema americano ad esempio si
fonda sulla funzione retributiva della pena, mentre quello
italiano prende in considerazione il reinserimento.

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Rapporti tra diritto penale e morale

L’impostazione tradizionale dice che non c’è alcuna relazione


fra questi due aspetti.
Perciò il diritto penale deve incriminare dei fatti che sono
aggressivi contro i beni giuridici, quindi non può incriminare il
pensiero, seconda questa concezione.
C’è da fare una precisazione: esiste una connessione forte tra
diritto penale ed etica, però il rapporto fra questi non è così
nitido.
La norma penale, peraltro, ha un maggiore successo se è
eticamente riconosciuta dai consociati (v.tutela dell’ambiente).
Se la norma penale, non solo è minacciata dal legislatore, ma è
anche sentita come doverosa nell’ambito dei consociati, allora
ha più possibilità di essere rispettata dagli stessi.
Si può quindi dire che il diritto penale e l’etica sono separati,
ma esiste un filo rosso che in qualche modo li collega.

Il codice penale

La parte generale è contenuta nel libro I. Nel libro II sono


inseriti i delitti. Nel libro III le contravvenzioni.
La maggior parte delle fattispecie di reato non è contenuta nel
codice penale, ma nella normativa complementare.
Il nostro codice risale al 1930, i primi reati di cui si occupa
sono quelli contro la personalità dello Stato.

Sul manuale si studia il diritto penale classico, ma accanto ad


esso si è sviluppato il diritto penale c.d. post-moderno.

Art. 575 c.p : “Chiunque cagiona la morte di un uomo è


punito con la reclusione non inferiore a ventun anni”.

Si pensi a una petroliera che inquina il mare. Chi è la vittima?


Non si vede, ma in futuro dei consociati potranno essere
danneggiati da questo comportamento.
In questo caso il diritto penale classico non serve, perché la
sanzione non ripristina la situazione iniziale. In tal caso il fine
del diritto penale è prevenire certi comportamenti, non
sanzionarli.
Con i nuovi rischi del progresso emergono delle situazioni
nuove che devono essere prevenuti, perciò il diritto penale non

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può attendere che tali comportamenti vengano messi in atto,
ma deve arretrare e fare in modo che non accada.

Definizione

Il diritto penale è un complesso di norme giuridiche che


prevedono dei fatti illeciti a cui sono collegate delle sanzioni
penali che tengono in considerazione la personalità
dell’autore.
Ci deve essere un fatto criminoso che si realizza con un attacco
al bene giuridico.
Attualmente l’omosessualità è un reato in 68 Stati, negli stati
del sud USA è stata depenalizzata nel 2003.
Ci sono nel diritto penale delle costanti, ossia tutela della vita,
dell’ordinamento, del patrimonio etc., ma anche delle variabili,
che quindi non sono comuni a tutti gli Stati.

Prendiamo ora in esame, nello specifico, i seguenti elementi:

- Personalità dell’autore: c’è tutta una serie di norme, nel


sistema italiano, che tiene in conto le caratteristiche
dell’autore.
Si parla spesso di una contrapposizione tra diritto penale della
responsabilità e diritto penale della pericolosità.
L’essere umano è al centro dell’universo e dirige con libertà la
sua vita, ed è responsabile delle proprie azioni. D’altra parte
affiora (anche nel nostro codice) il diritto penale della
pericolosità.
art. 108 c.p. “Tendenza a delinquere. È dichiarato delinquente
per tendenza il soggetto il quale per sé e per altre circostanze
rivela una inclinazione al delitto che trova la sua causa
nell’indole particolarmente malvagia che determina il
soggetto al delitto”.

- Le conseguenze penali: esiste una crisi della finalità


rieducativa della pena in quanto la stessa non riesce a
reinserire il condannato.
La pena detentiva breve è disastrosa, avviene il fenomeno del
c.d. contagio criminale.
I NAP, secolo scorso, un gruppo sovversivo armato, si sono
formati in carcere. Nel movimento internazionale di riforma si

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è pensato a varie soluzioni, come la valorizzazione della pena
pecuniaria.
Il soggetto innanzitutto non viene allontanato dalla società e in
più lo Stato risparmia. Il problema è che non vale per tutti i
reati, bensì è più adatta a reati comuni fatti a scopo di lucro,
finanziari, economici.
La pena pecuniaria ha però dei difetti intrinseci, in quanto
manca il carattere della personalità.
Altro problema è la c.d. deterrence trap, in quanto alcuni
soggetti potrebbero non essere in grado di pagare. Una parte
della letteratura ha sostenuto che la rieducazione richieda un
trattamento, che rinvia necessariamente alla pena detentiva.
Nel nostro sistema la commisurazione della pena pecuniaria è
discutibile. Sono tenuti in considerazione questi elementi:
. gravità del reato
. capacità a delinquere
. possibilità economiche del soggetto

Si tratta di un meccanismo di commisurazione monofasica, che


crea una contaminazione fra questi tre elementi. In altri
sistemi, come quelli scandinavi, si usa la commisurazione a
passi giornalieri, nel senso che esiste una prima fase in cui si
valuta il reato e la capacità a delinquere, e una seconda dove si
prende in considerazione la situazione economica del soggetto.
Questo sistema assicura una valutazione equa della situazione
del soggetto, che quindi non influisce sugli altri due elementi.

Politica criminale, criminologia, dogmatica

Quando si parla di scienza del diritto penale si fa riferimento a


studi criminologici, valutazioni politico-criminali, che devono
trasformarsi in una norma.
La politica criminale è una scienza sviluppatasi nel secolo
scorso in Germania si occupa dello studio e della valutazione
degli strumenti più efficaci per contenere un fenomeno
criminale.
Questa scienza considera molto importante lo strumento della
comparazione giuridica.

Ad es. la figura dell’agente provocatore è un soggetto che


tendenzialmente è pubblico, che provoca un altro soggetto e lo
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induce a commettere un reato allo scopo di metterlo in
trappola. Si tratta di una figura introdotta nel nostro
ordinamento negli anni ’90 del secolo scorso per reati come
spaccio di stupefacenti o di stampo mafioso.

es. dal 2006 esiste un reato, quello di mutilazioni genitali


femminili (art.583-bis): c’è stata una sola sentenza, il
fenomeno è diventato clandestino, nel senso che queste
pratiche continuano a essere perpetrate, ma non è stato fatto
uno studio di politica criminale che permettesse di impedire
tali crimini.

La criminologia è invece una scienza empirica, si basa sui


fatti. Il criminologo fa indagini sul campo, esamina il
fenomeno, quantitativamente e qualitativamente.
Oggetto di studio della criminologia è la cifra nera: lo scarto
tra i reati commessi e quelli effettivamente denunciati (v.
violenza domestica).
Si tratta quindi di un dato che misura la effettività della norma
posta dal legislatore.

es. art. 416-bis: associazione per delinquere di stampo


mafioso. È stato fatto un amplissimo studio criminologico, per
valutare come si comporta il criminale mafioso, e una
valutazione di tipo politico criminale.

Principi fondamentali

- Principio di umanità: rispetto della dignità umana, che si


concretizza nel divieto di trattamenti disumani (tortura, pena di
morte, ergastolo ai minori). In Italia abbiamo 1805 ergastolani.
Secondo il movimento internazionale di riforma l’ergastolo
collide con il principio di umanità, è una pena fissa, che il
giudice non può adattare al condannato. La dignità umana è
comune a tutti, non si acquista né si perde, e deve essere
rispettata (v.lancio del nano, caso Omega)

es. anni ’80, nelle Marche si presentano in commissariato


ragazzi scappati dalla comunità di disintossicazione di San
Patrignano. Denunciano la comunità per i metodi invasivi che
venivano praticati. I collaboratori saranno imputati per
sequestro di persona, che si difenderanno con l’argomento del
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consenso dell’avente diritto. La risposta è che la dignità umana
non si negozia, inoltre il consenso deve essere sempre attuale e
può essere revocato, quindi in tal caso non si applica.

es. qualche anno fa a Pesaro, famiglia di immigrati albanesi


che vivono un appartamento, si verificavano delle situazioni di
violenza domestica, che i vicini denunceranno (venivano
maltrattati i bambini). Il padre si difende dicendo che la loro
cultura imponeva di comportarsi in tal modo e che quindi
sussisteva un consenso dei familiari. Anche in tal caso
l’orientamento va verso il fatto che la dignità umana non è
negoziabile

Principio di umanità significa però che la persona umana è al


centro dell’attenzione del diritto penale, ma qualcosa è
cambiato, perché negli obiettivi del diritto penale compare
anche la persona giuridica, che dal 2001 è soggetta a una
particolare disciplina penalistica.

La pena pecuniaria, secondo l’orientamento tradizionale, non


può essere rieducativa, perché non implica un trattamento,
bensì un mero esborso di denaro. La rieducazione nella pena
pecuniaria ci sarebbe nella possibilità di rieducare centrandola
sulle sue condizioni economiche del soggetto mediante dei
rateizzi. È la pena più importante per i reati commessi dalla
persona giuridica.

- Principio di tolleranza: Viene invocato quando si studia la


materia dei reati culturalmente motivati. l’Italia è una società
multiculturale, il che è dovuto alle varie migrazioni dai paesi
poveri del mondo, fenomeno relativamente recente, rispetto a
quello di altri paesi UE o gli USA.
Si pone il problema della convivenza fra le varie culture che
coesistono sul medesimo territorio, in quanto queste sono
spesso in conflitto, e danno luogo a reati culturalmente
motivati. Come si agisce?

es. una signora giapponese emigrata negli USA si trova in una


situazione in cui è stata lasciata dal marito. Si butta in un
fiume insieme ai bambini, in modo da uccidere questi e lei. I
bambini muoiono, lei viene salvata e si giustifica dicendo che
si tratta di un fatto culturale, secondo il suo gruppo etnico in
quella situazione l’unica via da percorrere è quella. Emerge
che la sua cultura di origine è stata così forte da far saltare
l’equilibrio psichico della persona.
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- Principio di sussidiarietà: Il diritto penale ha carattere


sussidiario. Il diritto penale non entra in azione per primo a
tutela di un bene, ma è la extrema ratio, l’ultimo strumento
utilizzato dal sistema. Entra in gioco solo quando le altre
branche del diritto sono risultati inefficienti (principio della
sussidiarietà in senso ampio)

All’interno del diritto penale stesso il principio si applica nella


misura in cui tra le sanzioni si parte da quella più leggera a
quella più grave (principio di sussidiarietà in senso stretto).

- Principio di frammentarietà: Il diritto penale ha carattere


frammentario. Il diritto penale ha la caratteristica
dell’incompiutezza. Il legislatore seleziona determinati
comportamenti da sanzionare.

Ad es. l’art. 640 c.p., che disciplina la truffa, è una fattispecie


incompiuta, perché si realizza solo se vengono provati gli
elementi del raggiro e dell’induzione in errore. Chiedendo così
tanti elementi il legislatore ha ridotto lo spazio della fattispecie
truffa.

- Principio di proporzione: si fonda sulla teoria retributiva


della pena, secondo la quale la pena non mira a nessuno
scopo, ma assolve il suo scopo quando viene applicata, nel
momento in cui viene applicata raggiunge il suo scopo, ma
perché sia così deve essere perfetta e proporzionata al reato.
Il giudice deve valutare questo principio quando decide sulla
pena del soggetto attivo.
Esistono anche le attenuanti generiche che rendono la pena più
proporzionale e adatta al soggetto imputato.

- Principio di effettività: Il principio di effettività opera per


ultimo, su questo si deve interrogare il legislatore. Il principio
di effettività riguarda una valutazione sulla convenienza. I
benefici dell’incriminazione devono superare i costi. Si dice
che sia implicitamente costituzionalizzato.
Se il reato che si vuole introdurre nel sistema comporta più
costi che benefici si creano dei problemi di effettività.
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Spesso però il legislatore si disinteressa di questo aspetto. Può
essere anche una ragione morale o simbolica. (v. ad es. la
legislazione sugli stupefacenti e la fattispecie di abbandono di
siringhe).
Questo è un tipo di legislazione a cui non interessa l’effettività.
Esiste anche una c.d. legislazione consensuale, con la quale il
legislatore incrimina comportamenti che sono sentiti dalla
maggior parte della società come bisognosi di pena.
Studi di diritto penale dicono che se si aumenta la pena tende a
diventare criminogena.

Ad es. esaminando l’art.628 c.p., ossia la rapina, si nota che


con l’aggravante di cui al comma 3, il ladro rischia di
diventare omicida, perché la pena è così grande che ormai non
gli cambierebbe nulla, in quanto l’omicidio è punito con la
reclusione di ventuno anni.
Il principio di effettività viene valutato per ultimo nella
sequenza degli accertamenti. Si accerta la legittimità della
pena e il bisogno di pena. È una valutazione della convenienza
dell’incriminazione.
Il legislatore italiano ha degli atteggiamenti discontinui in
relazione al principio di effettività, perché spesso non lo
rispetta. Ci sono diversi tipi di legislazione rispetto al principio
suddetto:

- legislazione simbolica: ciò che importa al legislatore è la


tutela di un dato valore, e non l’effettiva incriminazione di chi
viola la norma. Quindi in tal caso non viene in considerazione
il principio di effettività.
- legislazione consensuale: il legislatore esegue quello che
viene ritenuto opportuno dall’opinione pubblica.

Poniamo l’esempio dell’art. 628 c.p.: il legislatore deve


valutare il collegamento tra una fattispecie e l’altra, ad
esempio, una rapina con aggravante dà vent’anni, l’omicidio
ventuno, quindi per il rapinatore è facile diventare anche
omicida, perché la pena non è troppo
Il legislatore, attraverso un metodo induttivo, deve considerare
la trasparenza dello scopo e l’efficienza del risultato, quindi
una valutazione sulla convenienza dell’incriminazione.
L’ineffettività innanzitutto scredita il legislatore e soprattutto
crea situazioni di disuguaglianza.

Altro esempio: riguardo alla depenalizzazione dell’aborto sono


state fatte delle valutazioni sulla effettività della norma. Si è
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visto che l’incriminazione non funzionava, perché non è in
grado di contenere il fenomeno, ma lo rende clandestino. Si
crea poi disparità tra donne più o meno abbienti, perché le
prime possono andare all’estero ad abortire, le seconde no.
Il principio di effettività si può ritenere costituzionalizzato.
Sorge però un problema: effettività non significa che bisogna
conseguire l’iper effettività ad ogni costo, es. l’agente
provocatore è una figura che i sistemi hanno deciso di
restringere, quindi si deve trattare di un membro della polizia
giudiziaria e agisca per pochi e determinati reati (v.traffico di
stupefacenti e mafia).

Il bene giuridico

Due funzioni:

- Sistematico-interpretativa: il bene giuridico rappresenta


l’oggetto della fattispecie, ossia la sua chiave di lettura. È
fondamentale per ricostruire gli elementi fondamentali di quel
reato. Il bene giuridico serve per individuare i limiti di tutela
per il reato in questione.
- Critica (politica criminale): il bene giuridico ha da sempre
svolto una funzione politico criminale. Il legislatore penale,
diversamente dagli altri legislatori, maneggia un arma molto
importante, perché per tutelare il bene giuridico, si aggredisce
un altro bene giuridico, che è la libertà personale dell’autore. È
per questo che il legislatore penale ha bisogno di una
legittimazione molto forte per entrare in azione, e questo si
ricollega al bene giuridico, che è un dato prepositivo esterno
all’incriminazione afferrabile materialmente, che quindi la
precede e la giustifica.

Perché siano svolte queste due funzioni, sono necessarie due


condizioni:

. Il bene giuridico deve essere formalizzato in categoria


giuridica, ossia gli devono essere attribuiti dei contenuti
giuridicamente validi.
. Bisogna individuare dei parametri per capire quando si ha il
bene giuridico e quando non lo si ha.

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Criteri di individuazione

Bisogna distinguere diverse fasi storiche:

. prima fase: dalla prima metà del ‘800, fino al 900:


concezione liberale classica del bene giuridico. In questa fase,
oggetto della tutela penale deve essere soltanto un diritto
soggettivo. Successivamente la concezione si allarga, può
esserci anche un interesse inteso come interesse che esprime
un bisogno indispensabile.
In questa fase il bene giuridico è afferrabile, si parla di beni
tradizionali di questo momento storico. Deve preesistere
all’incriminazione, quindi la norma penale trova il bene
giuridico ma non lo crea.

. seconda fase: dagli anni ’20, agli anni ’50. Antitetica alla
concezione liberale classica. Assistiamo a uno scardinamento
progressivo della categoria del bene giuridico, che viene pian
piano svilito fino ad essere assimilabile al dovere di fedeltà al
diritto.

. terza fase: anni ’60/’70: fase di restaurazione della categoria


di bene giuridico, dovuta a due esigenze di fondo: la prima è
quella di recuperare il bene giuridico come categoria critica
per individuare i limiti di entrata in azione del legislatore
penale, in secondo luogo si sente l’esigenza di riformulare
completamente la categoria. Esistono anche altri beni giuridici,
non solo quelli afferrabili, quindi il compito del legislatore è
costruire una categoria moderna del bene giuridico. Questi
sono beni con caratteristiche diverse rispetto a quelli della
concezione liberale classica. Hanno delle caratteristiche
particolari di afferrabilità. Il punto centrale del diritto penale è
il reato come azione, che è la condotta penalistica più
importante, ora però sono molto più rilevanti anche le
omissioni, che sono diventate importanti come le azioni. Nella
concezione classica era importante il delitto commissivo
doloso, ma ora la colpa è diventata un criterio di imputazione
sempre più importante, in quanto i reati colposi sono molto di
più di quelli dolosi, questo è un effetto degli inevitabili disastri
che il progresso porta. Queste considerazioni portano a una
concezione del bene giuridico che non può essere affermata in
modo nitido come nella concezione liberale classica.

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. fase attuale: emerge una teoria che considera come punto di
riferimento la costituzione, che è storicamente condizionata. Il
problema è che la costituzione italiana non tiene conto di
elementi che sono emersi negli ultimi anni, adesso non si può
più parlare della sola costituzione come elemento che
seleziona il bene giuridico, ma deve essere integrato da altri
elementi.

Negli anni ’70 affiora l’esigenza di rinnovare la categoria del


bene giuridico.
In Italia, si realizza, nella scuola di Bologna, l’approccio c.d.
costituzionale. L’approccio al bene giuridico si ricava dal testo
costituzionale.
Ci sono dei vantaggi dati da questa impostazione: essendo la
costituzione il parametro per individuare il bene giuridico, che
preesiste alla fattispecie creata dal legislatore. Si tratta poi di
una fonte privilegiata, sovraordinata rispetto alla legge penale.
Il problema è che la costituzione è condizionata storicamente, i
beni che la nostra costituzione riconosce sono degni di essere
penalmente tutelati, ma nel corso degli anni si sono affermati
nuovi beni che nella costituzione non vengono menzionati.
Perciò si può dire che la costituzione è documento
fondamentale per l’individuazione del bene giuridico, ma non
è l’unico punto di riferimento, in quanto bisogna ricavare il
bene giuridico facendo un lavoro interpretativo che passa sia
da questa che da altre fonti che la integrano.
Bisogna riesaminare le fattispecie classiche, che devono essere
sottoposte a un processo di omogenizzazione costituzionale.

es. i reati contro la P.A. prima tutelavano il c.d. prestigio, ora si


parla di imparzialità. Si tratta quindi di un adeguamento a
costituzione delle fattispecie classiche, che vengono rilette
secondo un punto di vista più moderno.

L’ambiente è meritevole di tutela penalistica anche se non è


menzionato nella nostra costituzione, in quanto è un bene
strumentale.

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Analisi della fattispecie

Dalla sanzione si capisce innanzi tutto se si tratta di un delitto


o una contravvenzione. Il bene giuridico può essere espresso
(la norma dice esplicitamente qual’è il bene tutelato, v.art.595
c.p.; art.422 c.p., art.501 c.p.), oppure può capitare che il
legislatore indichi solo gli elementi che delineano l’offesa al
bene, e quindi si dice che è implicito. (v.art. 575c.p., art.
582c.p e 581).
Un problema nella giurisprudenza è come qualificare
l’ecchimosi, se come lesione o percosse. Da una parte c’è chi
dice che non rientra nelle lesioni in quanto non è una ferita
così importante.
Altra ipotesi è che il bene giuridico non compaia né
direttamente né indirettamente, ma si ricava perché la norma
indica la direzione della condotta oggetto della fattispecie.
In tutte le fattispecie in cui c’è una falsificazione, il bene
giuridico tutelato è la fede pubblica (v.art. 476 c.p.).
Tutte le volte in cui il soggetto attivo è un pubblico ufficiale,
allora tutelata è sempre la pubblica amministrazione. Perciò
nell’art. 476 sono tutelati due beni giuridici.
Quando la fattispecie tutela un solo bene, il reato è
monoffensivo, quando c’è più di un bene tutelato, il reato è
plurioffensivo.

es. art. 368 c.p, la calunnia protegge il bene giuridico


dell’amministrazione della giustizia da una parte, ma dall’altra
si tratta anche di un attacco alla reputazione di una persona.
Siamo quindi davanti a una fattispecie plurioffensiva.

v.art. 630 c.p., che tutela innanzitutto la libertà personale,


intesa come libertà di locomozione, il patrimonio, e la vita.

art. 289-bis c.p.: questo è un attacco alla personalità dello


stato, contro l’ordine democratico, che si distingue dall’ordine
pubblico (rissa, spaccio etc.).

Tutte le volte che c’è un’offesa contro un giudice è tutelata


l’amministrazione della giustizia.

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Tipologia di beni giuridici

. individuali: la norma tutela i diritti soggettivi, che fanno


riferimento alla scuola classica.
. collettivi: che possono essere di due tipi: istituzionali (che
fanno capo ai poteri dello Stato), diffusi (rispecchiano un
interesse diffuso della collettività, v.ambiente, fede pubblica,
tutela dei consumatori).
Sono emerse nuove teorie per cui, per quanto riguarda i reati
contro gli animali, non viene tutelato il sentimento delle
persone, ma la vita degli animali stessi.

Esiste una classificazione ulteriore, una distinzione tra beni


strumentali e beni finali. Molte volte la legge protegge beni
che sono utili per la sopravvivenza di beni ulteriori, che non
vengono esplicitati, ma che sono effettivamente i beni tutelati.

La vita è tutelata dalla fattispecie dell’omicidio, c’è una tutela


totale di questa fattispecie, ma non tutti i beni giuridici
possono essere tutelati in modo assoluto, esistono infatti dei
contro interessi che collidono fra loro.
L’ambiente ad es. non può essere tutelato in assoluto, in quanto
esistono interessi alla produttività, all’urbanistica, iniziativa
economica etc., che vanno bilanciati.
Questo conflitto si può risolvere con norme generali e astratte
e anche con atti amministrativi.

Bene giuridico e vittima

La corrente classica diceva che dove c’è una fattispecie di


tutela del bene giuridico, esiste sempre una vittima. Spesso
però la vittima non è immediatamente individuabile. Certe
manifestazioni criminose non sono rilevanti in sé, ma perché il
loro effetto si realizzi sono necessarie operazioni multiple. Le
vittime sono potenzialmente tutti i consociati.
Esistono anche, secondo la letteratura americana, dei reati
senza vittima, dove viene tutelata la morale.

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Reati di danno e reati di pericolo

L’individuazione del bene giuridico serve a capire quali sono i


limiti della fattispecie.
Con i reati di danno assistiamo alla distruzione del bene
tutelato, v.vita, lesioni etc., l’aggressione si materializza quindi
in un danno. Accanto a questi reati assumono sempre più
importanza i reati di pericolo. Per certe caratteristiche di beni il
legislatore fa un passo indietro e non aspetta il danno, ma
sanziona il pericolo.
Il problema è, quanto è tollerabile che la legge penale si ponga
in questa posizione? Come si ricollega con il principio di
sussidiarietà?
art.422 c.p. Strage. È un reato di pericolo concreto. Bisogna
quindi accertare se quei fatti sono idonei a mettere in pericolo
il bene giuridico. Non esiste una presunzione del legislatore,
ma rimette al giudice la valutazione dell’accertamento del
pericolo.

Poniamo l’art. 423 c.p., l’incendio: anche qua la formula del


comma 2 fa capire che si tratta di un pericolo concreto.

Deve essere seguito un procedimento dal giudice per accertare


il pericolo, si chiama
prognosi postuma ex ante in concreto: secondo la quale il
giudice si mette nella posizione dell’agente, utilizza il
massimo delle conoscenze a sua disposizione in quel momento
storico, e valuta se il comportamento poteva creare un pericolo
per il bene tutelato. La base del giudizio è totale, ossia il
giudice non si basa, per formulare il suo giudizio,
esclusivamente sulle conoscenze che aveva l’autore, ma
utilizza tutti gli elementi conoscibili per valutare l’attacco al
bene anche se si tratta di elementi non conosciuti dall’autore.
Con l’art 423 c.p., l’incendio, è un pericolo presunto, in quanto
il bene giuridico è l’incolumità pubblica.
Il reato di incendio, dice la corte costituzionale, è un reato di
pericolo astratto, però non basta un qualunque incendio per
integrare la fattispecie, ma ha delle caratteristiche: per
incendio si intende la vastità, la violenza, la capacità
distruttiva, deve quindi avere delle caratteristiche importanti.
Certi beni hanno delle caratteristiche tali che solo il reato di
pericolo può difendere.

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Elementi per l’analisi della fattispecie:

. Delitto o contravvenzione
. Bene giuridico
. Tipologia (individuale, collettivo istituzionale o diffuso)
. Mono o pluri offensività
. Vittima visibile o no
. Pericolo astratto concreto, danno
. Tecnica legislativa

Le strutture costituzionali del sistema penale

- Principio di irretroattività della legge penale


- Principio di legalità
- Principio di colpevolezza
- Principio rieducativo

Ci sono quindi delle norme della costituzione che sono la


magna carta del reo, ossia garanzie per il soggetto passivo del
diritto penale. Dal punto di vista del legislatore la legge penale
deve minacciare i soggetti agendo come contro spinta alla
spinta al delitto.
La legge penale viene bloccata dal principio di
irretroattività, non può retro agire, ma disporre solo per il
futuro. Tutti i consociati devono avere la possibilità di
conoscere la legge penale.
L’art. 25 cost. al secondo comma dice che nessuno può essere
punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso.
Questa norma è utile per capire anche il principio di legalità,
nel senso che la norma penale può essere costruita e strutturata
solo in forza di una legge, e non di altra fonte inferiore.
L’art. 11 preleggi dice che la legge dispone solo per l’avvenire.

L’articolo 2 c.p. detta una disciplina molto articolata, dicendo


che la legge penale determina i suoi effetti nel tempo.
Il comma 1 viene, tra l’altro, ripreso dall’art. 25 della
costituzione. Fa riferimento al fenomeno della nuova
incriminazione, significa che il legislatore introduce una nuova
fattispecie che vale per l’avvenire, precede quindi la
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commissione del fatto in quanto non può essere applicata a
comportamenti antecedenti alla sua entrata in vigore.
Anche le circostanze aggravanti seguono la disciplina della
nuova incriminazione.
La nuova incriminazione vale anche come ampliamento di una
fattispecie preesistente.
La situazione del secondo comma è opposta a quella del primo
comma. Riguarda l’abolizione di una incriminazione (abolitio
criminis) che viene cancellata dal sistema. La legge che
abolisce è una legge retroattiva, in quanto la seconda legge
annulla il giudizio di disvalore che era insito nella legge
precedente. Questa depenalizzazione fa cessare
retroattivamente gli effetti penali, anche delle sentenze passate
in giudicato.
Può succedere una situazione più complicata, ad esempio il
legislatore non si limita a dire che una fattispecie non è più
reato, ma la elimina, non lasciando il vuoto al suo posto ma
inserendone un’altra, che contiene sia elementi caratteristici
della precedente, ma anche alcune caratteristiche nuove. Se un
soggetto commette il reato depenalizzato prima dell’entrata in
vigore della nuova norma, cosa succede? Si ricade nel quarto
comma, che dice che si applica sempre la norma che è più
favorevole al reo, in astratto. Ma ci può essere una situazione
in cui in astratto, il reo è punito di meno, ma in concreto vi
possono essere delle particolari condizioni che potrebbero
favorire meglio il reo, ad esempio in relazione a circostanze
attenuanti dovute al comportamento tenuto da questo.
es. Nel 1981 è stata abolita in Italia la c.d. causa d’onore., o
meglio, l’infanticidio per causa d’onore.
Al suo posto non è rimasta la casella vuota, ma è stata inserita
la fattispecie, al 578 c.p. di infanticidio in condizioni di
abbandono morale e materiale.
Chi abbia commesso il reato prima che venisse abolito e
sostituito come deve essere trattato?
Una delle ipotesi è che bisogna adottare un metodo che si
chiama continuità del tipo di illecito: se il bene giuridico è
identico nelle due fattispecie e le modalità di aggressione del
bene sono identiche si applica il quarto comma, in quanto le
fattispecie sono in successione. Questo metodo non è stato
soddisfacente, tanto che attualmente, si applica in modo più
diffuso il c.d. criterio della continenza. Le due norme sono in
successione quando la seconda norma è contenuta
perfettamente nella prima e ha degli elementi specializzanti in
più per cui se non ci fosse la seconda fattispecie il fatto
rientrerebbe nella prima.
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Solamente se l’analisi del giudice porta a una conclusione di
continenza tra le due fattispecie possiamo dire che le due
ipotesi sono in successione quindi applicheremo quella
fattispecie che è più favorevole al reo.
In caso di leggi temporanee o eccezionali non si applicano le
disposizioni enunciate precedentemente.
È condivisibile questa opzione di politica criminale, in quanto
le leggi temporanee hanno efficacia limitata nel tempo.
Quando si parla di leggi eccezionali si fa riferimento a due tipi
di situazione, che può essere esterna, ossia un fatto non
legislativo straordinario che provoca l’intervento del
legislatore (v. contenimento di una pandemia, stato di guerra
etc.), ma anche una situazione di tipo interno che deroga a
principi penalistici per fronteggiare situazioni eccezionali.
L’ultimo comma pone una ulteriore situazione, che prende in
considerazione i casi di decadenza e mancata ratifica di un
decreto legge, o di conversione con emendamenti dello stesso.
Nel 1930 la costituzione diceva che i decreti legge dovessero
essere convertiti entro 60 gg, e quelli non convertiti perdevano
efficacia nel momento della mancata conversione, ora invece
perdono efficacia ex tunc, quindi retroattivamente. Può
succedere quindi che un decreto depenalizza un determinato
reato, il soggetto, che ha commesso il reato durante la vigenza
del decreto in teoria non può essere incriminato. Ma se il
decreto non viene convertito? Il soggetto viene incriminato?
C’è un conflitto tra l’art 77 cost. e la disciplina dell’art.2 del
c.p.
La costituzione è una fonte superiore e prevale sul codice
penale, ma si pongono ancora dei problemi, in quanto questa
applicazione violerebbe un altro principio costituzionale, ossia
il principio di uguaglianza.
La corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’ultimo
comma dell’art. 2 nella parte in cui rende applicabili alle
ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel secondo e
nel terzo comma dello stesso art. 2.
Se c’è un decreto legge che prevede l’abolitio criminis di un
comportamento, e poi questo decreto non viene convertito, a
lui si applica la disciplina generale dell’art. 2, quindi non verrà
punito perché si applica la disciplina più favorevole al reo.

Principio di legalità

È enunciato dall’art.1 del codice penale. È previsto anche


dall’art. 25 secondo comma della costituzione, dove ci sono
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degli spunti per l’affermazione del principio di irretroattività e
anche delle indicazioni riguardanti il principio di legalità.
Questo principio ha un’origine illuministico liberale, ha quindi
un’origine politica. È stato cristallizzato allo scopo di impedire
di vincolare ogni potere dello stato alla legge penale. Si
articola in diversi sotto principi:

Principio di riserva di legge

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge. Cosa


vuol dire legge? Qual’è la legge che è demandata alla
costruzione del reato? Qui c’è una prima contrapposizione,
ossia tra riserva formale e riserva materiale. C’è
un’impostazione molto garantista: solo la legge è demandata
alla creazione del reato, solo il parlamento lo può fare
(Marinucci). La prassi ha però contraddetto questo principio,
in quanto in vari periodi, nel nostro paese ci sono reati che
sono stati previsti da atti aventi forza di legge. Il principio
della riserva di legge in senso formale è stato superato, perché
nella realtà dei fatti vige la c.d. riserva materiale, che prevede
che la legge penale possa essere emanata anche mediante atti
con forza di legge. No possono produrre materia penale le
leggi regionali, non solo in forza dell’art. 117, che da
indicazioni sul potere delle regioni, ma esistono delle
considerazioni di carattere generale molto importanti: la
restrizione dei beni che riguarda la pena detentiva è compito
dello Stato. Se si desse la possibilità alle regioni di legiferare
in materia penale si violerebbe il principio di uguaglianza, e si
avrebbero dei grossi problemi di coordinamento fra le varie
regioni.

Riserva assoluta o riserva relativa

Riserva assoluta vuol dire che la legge deve costruire tutti gli
elementi della fattispecie.
La riserva di legge esiste, ma non è assoluta. La legge è
fondamentale per strutturare gli elementi essenziali del reato,
però ammette una collaborazione della fonte sub-legislativa
solo in funzione tecnico-descrittiva. Il regolamento può
contribuire alla strutturazione della legge penale quando ci
sono elementi tecnici. È meglio un interesse di una fonte
subordinata, in tal caso, piuttosto che rischiare di trovarsi in
una situazione di conflitto di pronunce dei giudici sulla stessa
fattispecie. La legge individua gli elementi essenziali della
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fattispecie, quindi la condotta, l’evento, soggetti attivi e
passivi, i presupposti etc. Ma se ci sono elementi tecnici e
descrittivi, questi possono essere specificati da una fonte
subordinata. Se quest’ultima estende le sue facoltà
intervenendo sulla descrizione di elementi fondamentali, allora
si ha una violazione del principio di riserva di legge.
Questa affermazione apre un varco su una questione
importante e complessa, ossia quella delle norme penali in
bianco, ossia delle norme cornice in cui ci sono degli elementi
che sono descritti, e poi c’è un vuoto, che la norma colma
rinviando espressamente ad un’altra norma. Che riempie il
vuoto. Il buco può essere riempito esclusivamente da una
norma di pari livello, ma se la. Orma rinvia, per capire quei
requisiti fondamentali, a una fonte subordinata, è
anticostituzionale.

es. art. 650 c.p. Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità.

In tal caso la legge rinvia a un provvedimento dell’autorità


giudiziaria, che è un atto non legislativo. È un caso di norma
penale in bianco, che rimanda ad altra norma per individuare
in concreto la condotta che deve essere sanzionata.
Suscita, questa norma, delle perplessità, perché rinvia ad una
fonte subordinata la determinazione di un elemento
fondamentale della fattispecie.
È partita diverse volte l’eccezione di incostituzionalità, ma la
corte costituzionale ha sempre salvato questa norma,
affermandone la precisione, senza però risolvere il problema
del rispetto della riserva di legge relativa.

Principio di precisione

È un principio importante, soprattutto nell’epoca attuale,


riguarda le parole, gli elementi letterali che il legislatore usa
per costruire la legge penale. È un principio che si pone quindi
dal punto di vista del legislatore, esistono varie tecniche a
disposizione del legislatore:
. Tecnica casistica: il legislatore sceglie, per costruire la
fattispecie, una tecnica che preveda un elenco analitico di due
o più condotte (es. art. 580 c.p., art. 216 l. fallimentare). Può
essere da alcuni riconosciuta come ottimale, ma secondo altri,
come la De Maglie, non è una tecnica auspicabile.
Apparentemente risolve il problema della precisione, ma non è
detto, perché le condotte descritte, che sembrano così precise
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sul piano teorico, ma questo non succede nella giurisprudenza,
che considera anche altre ipotesi che portano allo stesso
risultato. Ci può essere anche un appesantimento della legge
che diventa più difficile da interpretare.
. Tecnica della clausola generale: per determinati beni o
valori viene utilizzata: “chiunque cagioni la morte di un
uomo…”, c’è un solo verbo, che ricomprende tutta una serie di
situazioni, attive o omissive, che conducano poi a quel
risultato. Esiste quindi una sola condotta che viene punita, e
questa condotta può essere attuata mediante vari mezzi.
. Definizioni legislative: il legislatore può definire degli
elemento, categorie o soggetti al fine di bloccare la
discrezionalità del giudice, che deve seguire queste indicazioni
(v. Secondo periodo dell’art. 583-bis primo comma c.p.). La
norma definitoria si riconosce dall’incipit, ad es. “ai fini del
presente articolo si intendono come pratiche di mutilazione
…”
. Tecnica descrittiva: il legislatore penale utilizza i c.d.
elementi descrittivi, che recupera dai comportamenti umani,
quindi che caratterizzano la realtà empirica. Accanto agli
elementi descrittivi ci sono anche elementi normativi. La
norma utilizza una qualificazione di sintesi con l’impiego di
elementi normativi che rinviano a fonte esterna rispetto a
quella incriminatrice. v. ad es. la fattispecie di cui all’art.624
c.p. che rinvia implicitamente alla definizione di cosa mobile
definita dal c.c.. La fattispecie può essere descritta anche da
elementi extra giuridici, che subiscono delle oscillazioni
interpretative nello spazio e nel tempo, come norme sociali e
di costume, che fanno riferimento a un sentimento sociale, che
può, appunto, variare nel tempo. Ci sono anche altri elementi,
vedi, “chiunque cagioni la morte di un uomo”, gli elementi
“uomo” e “morte” sono descritti dalla scienza medica.
. Divieto di analogia: l’applicazione di una norma presuppone
un procedimento interpretativo. È possibile l’analogia in diritto
penale? Data una norma che incrimina un fatto la si applica
anche ad un altro non descritto dalla norma ma con caratteri
fondamentali comuni. Con l’interpretazione estensiva, si
rimane all’interno della situazione descritta e si cerca di
adeguare, descrivendo meglio la fattispecie. ad. es. il concetto
di famiglia estende i suoi effetti anche alla famiglia di fatto,
oltre che a quella di diritto. Con l’analogia invece, il giudice
esce dalla norma. Ci sono due tipi di analogia: innanzitutto
esiste un’interpretazione che dice che l’analogia in diritto
penale non si applica mai, nemmeno quando è favorevole al
reo, in quanto il diritto penale ha bisogno di norme precise che
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descrivano la situazione punibile. Altra interpretazione è che
l’analogia è vietata quando è sfavorevole al reo e ammessa
invece nel caso inverso. Ma l’art. 14 delle preleggi, che tratta il
problema dell’analogia dice che le leggi penali non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse determinati. Ciò vuol
dire che l’analogia non è possibile, quando ci si trova davanti a
leggi penali e leggi eccezionali, che possono essere eccezionali
sia nel senso di essere sfavorevoli al reo, ma anche favorevoli.
Le cause di non punibilità sono eccezioni nel nostro
ordinamento, in quanto la regola è la punibilità.
Il ragionamento non è completo, ci sono delle norme non
penali che sono espressione dei principi generali
dell’ordinamento giuridico: cause di giustificazione, stato di
necessità etc., non sono norme penali, nonostante siano nel
c.p., sono principi dell’ordinamento giuridico, e questi possono
essere sottoposti ad analogia. È uscita da poco una sentenza
sulla legittima difesa della donna maltrattata, si ponga la
situazione in cui la vittima uccide l’altro soggetto nell’unico
momento in cui non è pericoloso, quindi si tratta di una
situazione in cui il pericolo non è attuale.

Principio di colpevolezza

Nel nostro ordinamento si parla di colpevolezza in diverse


accezioni: innanzitutto colpevolezza come principio
costituzionale, ossia struttura costituzionale del sistema penale.
La responsabilità penale è personale. Su questo punto abbiamo
una teoria minima, una teoria intermedia e una teoria massima.

- la teoria minima: per tale intendendosi il divieto di


responsabilità penale per fatto altrui. Responsabilità penale
personale significa quindi responsabilità per fatto proprio. La
responsabilità penale richiede quindi un nesso eziologico tra il
reato e la persona che l’ha compiuto.

- la teoria intermedia: pone il problema del controllo


finalistico del fatto.

- Teoria massima: secondo la quale responsabilità penale


personale significa responsabilità per fatto proprio colpevole,
non basta quindi il nesso causale, ma bisogna avere la prova
della colpevolezza. Senza la prova di colpevolezza la
responsabilità non può dirsi personale. C’è, secondo questa
corrente dottrinale, un collegamento tra il primo comma e il
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terzo comma dell’art.27 cost. secondo il quale le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato.

Ad es. nell’art. 116 del c.p. viene applicata l’interpretazione


minima, perciò in caso di reato commesso da più persone,
qualora questo sia diverso da quello voluto da taluno dei
concorrenti, ne risponde anche quest’ultimo se vi è nesso di
causalità tra la sua azione o omissione e l’evento.
È stata posta l’eccezione di incostituzionalità rispetto all’art.27
per quanto riguarda le situazioni di concorso nel reato, perché
talune fattispecie concrete che si sono poste in relazione
all’art.16 sono delle imbarazzanti violazioni del principio di
colpevolezza.
Importante è anche la sentenza della Corte Costituzionale del
1988 che dichiara in parte illegittimo l’art.5 del c.p., che pone
il principio secondo il quale ignorantia legis non excusat.
Esistono due diversi tipi di ignoranza, assoluta (il soggetto non
conosceva la norma) e relativa (il soggetto conosceva la norma
ma l’ha interpretata male). Una parte della giurisprudenza ha
cercato di dare un correttivo nell’efficacia scusante della buona
fede, ma solo per le contravvenzioni e la mancanza di
conoscenza della legge non derivi da semplice ignoranza bensì
da un fatto positivo idoneo a indurre in errore il soggetto.
La sentenza n. 364/1988 della C.C., è scritta in modo molto
chiaro e comprensibile. Con questa la Corte dichiara la
parziale incostituzionalità dell’art.5, dicendo che è illegittimo
“nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità della legge
penale l’ignoranza inevitabile”. Il punto cardine di questa
decisione è l’interpretazione dell’art. 27 comma 1 cost.
insieme al terzo comma, perciò la Corte fa propria la c.d.
interpretazione massima.
La motivazione sottolinea la funzione di orientamento
culturale delle norme penali che trova le sue radici nel
rapporto contrattualistico tra Stato e cittadino. Lo Stato e il
cittadino non sono in una posizione tale per cui uno è
incombente e l’altro soccombente, ma sono due contraenti
sullo stesso piano, la cui posizione è un sinallagma funzionale,
perciò entrambi hanno diritti e doveri. Quindi il cittadino ha il
dovere di informarsi ma allo stesso tempo lo Stato ha il dovere
di informare il cittadino. La Corte in questo caso tira in ballo
anche il principio di riconoscibilità dei c.d. reati artificiali che
sono quelli sganciati dalla disapprovazione legislativa.
Con questa sentenza l’indicazione per il futuro data dalla Corte
è che il legislatore non immetta più nel sistema penale
fattispecie di reato a responsabilità esclusivamente oggettiva,
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per quanto riguarda invece le fattispecie già esistenti che
prevedono questo tipo di incriminazione dà dei criteri di
valutazione al giudice, indicando la via della prova della colpa
in concreto e non del solo nesso di causalità tra
comportamento ed evento.
Per quanto riguarda l’art. 116 c.p. la Corte cost. aveva dato nel
1965 una interpretazione secondo la quale sussiste, in
relazione a questa fattispecie, un onere probatorio non della
sola causalità materiale, ma anche della c.d. causalità psichica.
Bisogna quindi provare, oltre al nesso di causalità, anche la
colpa.
Sono emerse quindi due teorie: quella dell’accertamento della
colpa in astratto e quella dell’accertamento della colpa in
concreto. La giurisprudenza suggerisce la prima ipotesi, che
prende in considerazione la fattispecie programmata e non
realizzata e tutte quelle che invece si sono realizzate. Per
queste esiste un coefficiente di prevedibilità in astratto che dal
reato base programmato potesse verificarsi il reato che in
concreto si è verificato. Se tra la norma che prevede il fatto che
non si è realizzato ma solo programmato e quella che invece
prevede il fatto che si è realizzato, tra queste vi deve essere
una omogeneità sostanziale. (v. art. 624 e 628 c.p.).
C’è un’altra interpretazione che dice che la prevedibilità va
valutata in concreto, quindi tenendo in considerazione i
soggetti e i loro precedenti penali.
La giurisprudenza, attualmente preferisce l’accertamento in
astratto. Per quanto riguarda la fattispecie di omicidio
preterintenzionale (art. 584 c.p.) invece, la giurisprudenza
attuale non segue la linea della Corte Cost., ma preferisce la
mera prova del nesso causale tra evento e comportamento.
Nel caso di morte del tossicodipendente a seguito
dell’assunzione della sostanza procuratagli dallo spacciatore,
quindi fattispecie rientrante nell’art. 586 c.p. (morte o lesioni
come conseguenza di altro delitto), la giurisprudenza ricerca la
colpa in concreto dello spacciatore, che non viene incriminato
per il solo fatto che sussiste un nesso di causalità tra il suo
reato e la morte del tossicodipendente.

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Responsabilità penale delle persone giuridiche

Il problema che per molto tempo ha bloccato l’introduzione di


questo tipo di responsabilità nel sistema italiano è dato dal
collegamento con l’art. 27 cost., secondo il quale la
responsabilità penale presuppone che ci sia una persona umana
alla quale questa deve essere ricondotta.
Per anni questo articolo è stato un ostacolo alla responsabilità
penale delle persone giuridiche. Nel d.lgs. 231/2001 infatti,
non si parla mai di responsabilità penale, ma di responsabilità
da reato, per evitare l’eccezione di incostituzionalità.

Sistema USA

La prima sentenza che condanna penalmente le persone


giuridiche risale al 1909.
Bisogna specificare quali sono le persone giuridiche che
secondo il sistema statunitense sono imputabili. La legge parla
di organization, ossia società per azioni, società di persone,
fondazioni, trust, joint stock companies, sindacati, fondi di
pensione, comitati, associazioni non riconosciute, no-profit.
Ci sono dei modelli nel nord Europa che prevedono la
parificazione della persona giuridica a quella fisica. Altra
tecnica è invece quella dell’elenco di reati imputabili alla
persona giuridica, tecnica utilizzata sia da Italia che da USA,
ma l’elenco USA è così lungo che c’è quasi una parificazione
di fatto.
Fino agli anni ’70 questa responsabilità viene costruita
trasportando sul piano penalistico il principio secondo il quale
respondeat superior, per cui la persona giuridica risponde
quando vengono provati tre elementi:

. Il reato è compiuto da un agent


. L’agent ha commesso il reato nell’ambito delle funzioni
attribuitegli dalla persona giuridica
. Deve aver agito allo scopo di beneficiare la persona giuridica

Primo problema: chi è l’agent? La nozione è molto estesa, e


non ricomprende quindi solo coloro che sono ai vertici
dell’organizzazione, ma chiunque in qualche modo vi
partecipi. Il reato scatta quindi quando è commesso da
qualunque impiegato a qualunque livello.
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L’agent deve aver agito nell’ambito delle sue funzioni, e
nell’intento di recare un beneficio alla persona giuridica, che
può essere di qualunque tipo, e la giurisprudenza non pretende
che questo interesse sia assoluto, quindi può anche esservi
sullo sfondo un interesse personale dell’agente.
Questo meccanismo, per la letteratura, è carente di elemento
soggettivo: ci vuole anche la prova di una colpevolezza della
persona giuridica.
Su questo punto ci sono varie argomentazioni, per alcuni la
colpevolezza emerge quando la condotta criminosa non è
un’ipotesi isolata, per cui è chiaro che i dirigenti della persona
giuridica hanno acconsentito al compimento di questo reato.
Altra impostazione è la tesi del c.d. collective intent, secondo
la quale la colpevolezza della persona giuridica è uguale alla
somma delle colpevolezze degli individui che la compongono.
Il problema di tutte queste teorie è che hanno approccio
antropomorfico, quindi costruiscono la colpevolezza della
persona giuridica a partire dagli elementi con cui è costruita la
colpevolezza della persona umana.
Il c.d. approccio strutturale si basa invece sull’organizzazione
della struttura della persona giuridica, e in particolare se nelle
linee di cultura interna della persona giuridica emergono
regole tese ad impedire la realizzazione dei reati.
Nella legge federale degli Stati Uniti la verifica della
responsabilità tiene conto dell’esistenza di questi meccanismi,
se si prova che la persona giuridica ha commesso un reato, ma
emerge dalle indagini che questa ha fatto di tutto per
impedirla, allora il prosecutor può decidere di non far partire
la condanna, oppure, se la condanna è stata già emessa, può
prevedere una riduzione fino al 95% della pena (c.d. carrot ’n
stick philosophy).
Le sanzioni sono diverse e possono essere alternative o
combinate. Innanzitutto abbiamo la sanzione pecuniaria.
Ma quali sono le finalità? La finalità primaria è la retribuzione,
la pena deve compensare il male che è stato fatto con il reato,
deve essere perfettamente proporzionata al danno e
commisurata alla colpa della persona giuridica.
Il massimo della pena è la c.d. incapacitation fine, che priva la
persona giuridica di tutto il suo assetto economica,
paralizzandola.
Abbiamo poi la funzione preventiva, secondo la quale la pena
minacciata deve scoraggiare dalla commissione del reato. La
persona giuridica viene incentivata ad attivare dei meccanismi
atti a prevenire la commissione del reato (c.d. compliance

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programs) in quanto in seguito all’approvazione di questi ne
riceve un beneficio in termini di riduzione della pena.
La persona giuridica non può quindi trascurare la valutazione
dei benefici che dall’applicazione dei compliance programs
deriva, perché nonostante siano molto costosi fanno derivare
alla società dei vantaggi enormi, che superano i costi.

Dal 2004 si parla di compliance and ETHIC programs. 



Struttura dei compliance programs: devono essere effective
(non onnipotenti). Ragionevolmente costruito, adattato alla
persona giuridica. Devono avere almeno 7 requisiti in USA e
tenere conto della of the organization, del tipo di attività
svolta e delle zone a rischio di reato. Individuazione dei rischi
di reato. È importante la ricostruzione del passato. 7 punti:
Selezione dei dipendenti
Modelli e procedure ragionevolmente in grado di ridurre la
commissione di reato
Individuazione dei soggetti demandati a far funzionare questi
programs, i c.d. vigilants.
Selezione dei dipendenti con criterio della propensione al reato
(si indaga, anche con problemi della privacy)
Tecniche di comunicazione pedagogica (e.g. seminari,
opuscoli..)
Meccanismo di controlli dell’efficienza dei programs. Viene
anche incentivata la delazione, con garanzie di anonimato, c.d.
hot lines.
Sanzioni disciplinari per la violazione die programs
Valorizzazione del post fatto. Quando la persona giuridica ha
commesso ili etto deve analizzare dove il program non ha
funzionato.

Colpevolezza delle persone giuridiche

É diversa dalla responsabilità della persona fisica. C’è un


approccio strutturale per la definizione della colpevolezza
delle persone giuridiche che si basa sostanzialmente sulle linee
di politica interna e l’adozione di compliance programs, che
tenendo conto di una serie di fattori (rispetto della grandezza
della società, il tipo di attività svolta e tenendo conto delle
possibili situazioni di reato), hanno uno scopo doppio:
innanzitutto preventivo, impedire quindi la commissione del
reato. Esiste anche un effetto premiale per la persona giuridica,
che se dimostra di aver adottato tali programmi, che siano
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razionalmente efficaci e efficienti, nel caso di reato il PM può
anche decidere di non far partire l’azione penale, oppure,
qualora ci dovesse essere una condanna, questa potrebbe
essere ridotta fino al 95%.

Un modello interessante è quello del codice penale francese


del 1994 ha inserito affianco alla responsabilità delle persone
fisiche, quella delle persone giuridiche. Il reo si divide quindi
in due tipi. Questo sistema non funziona molto bene perché
adotta un meccanismo di imputazione che passa
necessariamente attraverso la persona fisica.
Prima bisogna dimostrare che il reato è stato commesso
dall’organo della persona giuridica, e che questo abbia agito
per conto di quest’ultima. Questo significa che non esiste un
meccanismo di imputazione che colpisca direttamente la
persona giuridica, si deve sempre passare attraverso il corpo e
la mente della persona fisica. Molte volte non si riesce a
ricostruire alla responsabilità del singolo all’interno
dell’impresa, e per questo motivo, attraverso studi di politica
criminale, si è teorizzata una responsabilità che colpisca la
persona giuridica senza passare per quella fisica. Si cade
quindi nel vizio che si voleva evitare, perché se c’è un
rapporto di causalità tra persona fisica e giuridica vuol dire che
non si riesce a colpire la persona giuridica direttamente.

Responsabilità delle persone giuridiche in Italia

È disciplinata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Si tratta di una


riforma molto importante che è stata varie volte rinviata e non
si poteva più aspettare per ragioni esterne, ma anche interne al
sistema. Ragioni esterne perché c’era già stata, attraverso varie
raccomandazioni agli Stati membri, una spinta
all’armonizzazione della disciplina da parte dell’UE, già a
partire dal 1988. Si raccomandava agli Stati membri di istituire
una responsabilità separata che colpisse direttamente le
persone giuridiche per i reati da esse commessi. C’erano delle
pressioni dalla Comunità, delle ragioni di tipo politico -
criminale, come anche delle spinte del diritto penale post
moderno.

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Il d.lgs 231/2001 contiene 85 articoli e costituisce un micro
sistema che affronta e ha l’ambizione di esaurire il problema
della responsabilità delle persone giuridiche.
Ha suscitato molte polemiche il problema della natura
giuridica di questo tipo di responsabilità. È una responsabilità
amministrativa o penale? Il titolo dice che si tratta di una
responsabilità amministrativa, ma anomala, che si discosta
dalla disciplina base di questa responsabilità. La relazione che
accompagna il decreto dice che questa responsabilità è un
“tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema
penale e di quello amministrativo nel tentativo di
contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle
della massima garanzia”.
Nonostante ciò il dibattito è stato acceso. Coloro che
sostenevano la natura penale della responsabilità hanno parlato
di frode delle etichette, perché la natura penale si vede
soprattutto da due elementi, ossia il collegamento dell’ente con
il reato commesso, e la cognizione, che viene affidata al
giudice penale, quindi il procedimento è penale. Chi dice che è
amministrativa sostiene che il nome esprima la sostanza,
quindi sarà responsabilità amministrativa perché si chiama
così.
Sono poi intervenute sentenze della Cassazione che dice che la
responsabilità delle persone giuridiche è nominalmente
amministrativa, ma dissimula la sua natura penale.

Ogni sistema decide per quali reati risponde la persona


giuridica. Ci sono varie tecniche, in Italia, come in USA,
abbiamo quella dell’elenco, tanto che ci sono 85 articoli per tre
reati. Adesso però sono stati aggiunti altri reati a quelli del
231/2001, tanto che l’elenco dei reati imputabili alla persona
giuridica è molto più consistente.
Le persone giuridiche che rispondono sono indicate all’art.1
d.lgs. 231/2001, secondo il quale il regime di responsabilità si
applica non solo agli enti con personalità giuridica, ma anche a
quelli che ne sono privi. Queste disposizioni non si applicano
però allo Stato e agli enti pubblici territoriali, non economici,
enti che svolgono servizi pubblici di rilievo costituzionale
(partiti e movimenti).

Esistono criteri di imputazione soggettiva e oggettiva (artt.


4,5,6,7 d.lgs 231/2001).
La persona giuridica risponde quando siano stati commessi
reati nel suo interesse sia da soggetti che rivestono
formalmente il ruolo dirigenziale, ma anche da chi svolge
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queste funzioni solo di fatto: queste due fattispecie sono
parificate (art.5).
Rispondono non solo i soggetti al vertice, ma anche chiunque
appartenga a qualsiasi gradino della scala gerarchica della
persona giuridica. L’ente non risponde se le persone hanno
agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi.
In Italia viene importato il modello dei compliance programs,
che, se adottati, sono addirittura idonei ad escludere la
colpevolezza dell’ente.
L’art 8 dice che la responsabilità dell’ente sussiste anche
quando l’autore materiale del reato non è stato identificato. La
responsabilità della persona giuridica quindi, è autonoma.
Le sanzioni sono: la pena pecuniaria, che si applica secondo il
sistema bifasico, nella prima fase si accerta il numero delle
quote e nella seconda fase l’ammontare della quota. Altre
sanzioni sono interdittive, la confisca, la pubblicità
denigratoria.

I fini della pena nel nostro sistema

L’unico fine della pena che è costituzionalizzato è quello


rieducativo. Ha assunto un’importanza fondamentale anche per
comprendere il significato della responsabilità penale
personale.
Secondo le opere principali di teoria generale del reato,
quando si parla di fini della pena bisogna distinguere tra due
gruppi di teorie:
- teorie assolute, secondo le quali il fine della pena non c’è,
nel momento in cui questa viene irrogata ha svolto la sua
funzione, non ha più alcuna finalità esterna a cui tendere.
- teorie relative, in cui la pena deve tendere a determinate
finalità.

Teorie assolute

Si ricollega alla teoria retributiva, per cui la pena trova


giustificazione in se stessa. Nel momento in cui la pena viene
applicata svolge la sua funzione, non ha finalità estrinseche al
fatto di essere applicata al soggetto. La pena è la perfetta
compensazione del male arrecato mediante la realizzazione del

29

DIRITTO PENALE Prof. De Maglie


delitto. In altre parole, riproduce il male che il soggetto ha
cagionato commettendo il reato.
In Europa ci sono state le due concezioni di retribuzione in
senso morale e in senso giuridico.
In senso morale si intende che la pena scardina l’ordine morale
che esiste nella società e la pena ripristina l’ordine etico che è
stato sconvolto dal delitto.
In senso giuridico il delitto è un’offesa all’ordine giuridico,
perciò la pena restaura la violazione che è stata commessa nei
confronti dell’ordinamento e restaura la supremazia dello
Stato.
La teoria retributiva è stata molto criticata da vari studiosi,
soprattutto i sostenitori del fatto che la pena deve essere
rieducativa, perché non ha alcuna finalità.
Esiste un elemento molto importante della pena retributiva,
ossia la proporzione. Questa idea si accompagna anche all’idea
di giustizia, per cui solo una pena perfettamente proporzionale
può essere tollerata. Non sono quindi ammesse pene
simboliche, o strumentali.

Teorie relative

La pena deve avere uno scopo, ed emergono quindi quattro


sottotipi di teoria.
prevenzione generale attraverso l’inflizione della pena.
L’esecuzione della pena serve a distogliere tutti i consociati
dalla commissione del reato, la pena applicata al singolo serve
ad esempio per tutti i consociati e intende essere un deterrente
affinché questi non cadano nel delitto. Il singolo a cui viene
applicata la pena quindi, viene ridotto dal sistema ad un mero
strumento attraverso il quale realizza degli scopi esterni a lui.
Questo è un individuo ormai perso, in una concezione teorica
che tende a non avere l’interesse a rieducare il singolo, nel
quale non trova alcuna utilità se non quella di utilizzarlo come
mezzo per prevenire la commissione del delitto da parte dei
consociati.

(Inizio appunti Rachele)


Prevenzione speciale: La pena applicata al singolo
soggetto che ha commesso il reato, e che quindi ha
infranto il patto con l’ordinamento, deve servire a lui per
non ricadere nel reato. In queste due concezioni vi sono
solo elementi negativi, non un fine rieducativo. Alcuni
ritengono esageratamente che vi debba essere una
catarsi del soggetto. Negli ultimi anni però si è visto che

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la rieducazione è un mito. Allora si pensa che non vi
debba essere un peggioramento nella desocializzazione
del soggetto.
Prevenzione generale attraverso la minaccia: La pena
minacciata dal legislatore serve a scoraggiare tuti i
consociati dalla commissione del reato. Qui nessuno ha
ancora fatto niente.
Emenda: Scopo rieducativo di risocializzazione.

Queste erano le teorie tradizionali. Secondo le nuove teorie


tutte le teorie della pena, e non sono quelle relative,
pretendono che la pena sia rivolta a uno scopo. Si assiste
quindi a un ridimensionamento della contrapposizione tra
teorie assolute e relative.

Prevenzione generale: la pena è rivolta a tutti i consociati.


L’attore principale è il legislatore. Il veicolo attraverso cui
passa questo messaggio è la minaccia della pena. Oggi vanno
considerati due aspetti: effetto intimidatorio ed effetto
pedagogico, moralizzante. Plasma il codice morale dei
consociati. Questa è una novità emersa nel secolo scorso.
Prevenzione speciale: doppia anima anche qui. La pena viene
applicata al soggetto che ha commesso il reato. L’attore
principale è il giudice tramite la sentenza di condanna. Il
soggetto non deve più ricadere nel reato. Art 27 cost. funzione
di risocializzazione.

La retribuzione in questo schema è anch’essa una teoria


relativa. La proporzione vi deve essere in qualunque fase.
Secondo le nuovissime teorie anche la retribuzione ha dei fini:
la conferma, attraverso la pena, delle norme sociali, che
precedono il sistema penale.
Placamento dei bisogni di punizione che la comunità avverte e
manifesta

Fine dominante della pena

Per tutto il 1800 vi è stata una prevalenza della funzione


retributiva, collegata alla scuola classica. Con il positivismo
poi fino agli anni ’30 è emersa l’idea special preventiva in
senso intimidatorio. Nel secondo dopo guerra vediamo modelli
polifunzionali in Austria, Germania e invece in Scandinavia e
Common law trionfa l’idea rieducativa. Recentemente invece
vi è stata una crisi della rieducazione (utopia rieducativa) e
sono state scoperte le idee pedagogiche della prevenzione
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generale. Adesso il fine dominante della pena: vi sono state
diverse suggestioni e la terra forse più convincente è quella
stat elaborata dalla letteratura tedesca alla fine del 1900, ad
opera di Roxin. Secondo questa teoria della scuola di Monaco
bisogna distinguere le fasi in cui la pena agisce: minaccia,
commisurazione e esecuzione. È sbagliato individuare un fine
sempre in tutte le situazioni. Bisogna distinguere le fasi, il fine
varia a seconda di esse. In ogni fase va individuata una finalità
dominante e la proporzione non è mai dominante ma è sempre
presente come metodo da seguire.
Nella fase della minaccia della pena la finalità dominante è la
prevenzione generale; la prevenzione speciale resta sullo
sfondo e serve ad impedire gli eccessi della prevenzione
generale. La minaccia della pena non deve scadere in
situazioni di terrorismo statuale.
Nella fase esecutiva è la prevenzione speciale il fine
dominante. La prevenzione generale resta sul fondo per far sì
che non si scada in eccessivi indulgenzialismi.
Nella fase della commisurazione vi è dibattito. Il giudice
decide e commisura dall’astratto al concreto la pena. Le norme
alla base della commisurazione. Art 132 c.p: Il giudice ha una
discrezionalità vincolata all’obbligo della motivazione. Art
133c.p.: Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena.
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo
precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato,
desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo,
dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona
offesa dal reato;
3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a
delinquere del colpevole, desunta:
. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta
e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del
reo.
Questa norma non indica espressamente una finalità della
pena. Vi è sia proporzionalità, sia prevenzione speciale. Anche
prevenzione generale. Dalla lettura di questa norma non si
capisce quali sono i fini della pena da seguire.

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L’art 133 bis c.p., ma anche altre norme danno al giudice la
possibilità di meglio adeguare la pena. e.g. circostanze
aggravanti e attenuanti. (Fine appunti Rachele)

Qual’è il fine della commisurazione della pena

Non ha senso di parlare di commisurazione della pena, ma è


più utile dividere la pena per fasi. La prima fase è quella della
comminazione, la cui finalità è quella di prevenzione generale.
Nella fase dell’esecuzione la prevenzione speciale è il fine
dominante. Le norme degli artt. 132, 133, 133-bis c.p.
spiegano la commisurazione in senso stretto.
L’art. 176 c.p. prevede che possa essere liberato tramite
condizionale qualora abbia tenuto un comportamento tale da
far ritenere il suo ravvedimento.
Anche la sospensione condizionale della pena è una causa di
estinzione del reato, l’art.164 dice che è ammessa soltanto se il
giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati. In questo caso si tratta di prevenzione speciale, è
un problema di valutazione sulla possibilità di ricaduta nel
reato del reo, quindi non si parla di ravvedimento.
L’art. 169 c.p., altra causa di estinzione della pena, disciplina il
perdono giudiziale per i minori di anni diciotto, anche in tal
caso abbiamo lo stesso tipo di presunzione che deve fare il
giudice all’art. 164 c.p.
Da queste norme sembrerebbe di aver trovato la soluzione,
ossia che la prevenzione speciale sia il fine dominante, ma non
sempre è così.
Altra finalità è quella della proporzionalità della pena,
soprattutto nell’ambito di reati contro il patrimonio e altri tipi
di reato commessi a scopo di lucro (art 61 comma 1 n. 7 c.p.).
Nel caso di soggetto che compie reato dopo essersi sottratto a
pena detentiva è prevista un’aggravante dal n.6 dell’art cit., in
tal caso si tratta di prevenzione speciale intimidatoria.
all’art. 62 n.6 c.p. si disciplina il caso in cui il reo, prima del
giudizio, abbia riparato il danno. Il fine del legislatore è quello
di evitare procedimenti inutili, ma anche la proporzionalità
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DIRITTO PENALE Prof. De Maglie


della pena, in quanto non essendoci un danno non ci può
essere procedimento. Abbiamo poi la prevenzione speciale in
senso di rieducazione. Il comportamento deve però essere
spontaneo ed efficace (finalità retributiva).
Dall’analisi di tali norme si può estrapolare che il fine della
pena è vario, non ne esiste uno dominante. A seconda delle
situazioni può emergere un fine piuttosto che un altro. La
legislazione ordinaria non ci dice nulla di definitivo.
L’unica risposta ce la da l’art. 27 cost., il quale dice che la
pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
L’obiezione che viene fatta è che le pene devono tendere alla
rieducazione, perciò c’è una strada che viene indicata, ma non
è preteso che questo venga realizzato. La costituzione in tal
caso non pone alcuna garanzia sul fatto che questo obiettivo
debba essere realizzato. È chiaro che il legislatore costituente
non ha pensato alle pene pecuniarie, in quanto la rieducazione
riguarda solo la pena detentiva, in quanto quest’ultima
comporta un trattamento del reo, che è l’unico modo per
realizzare la tendenza alla rieducazione.
Una sentenza della cc del 1990 sul patteggiamento dice che il
fine della pena è la rieducazione, intesa come risocializzazione
del condannato, ed’ è dominante in tutte le fasi nelle quali la
pena agisce. In particolare questa sentenza dice che la
proporzione è legata alla rieducazione, perché se la pena è
proporzionata e ben calibrata, la rieducazione si raggiunge più
facilmente.

(Da qua a ne lezione appunti Rachele)


Analisi del reato

L’analisi del reato si svolge attraverso la scomposizione del


reato in parti che sono distinte ma non separate. Il reato è
qualcosa di irripetibile. Non bisogna sopravvalutare il reato
come un tutto non scomponibile, poiché altrimenti si sposta
inevitabilmente l’attenzione sull’autore del reato. Invece il
nostro sistema è focalizzato sul fatto, sul principio di
offensività. Ogni reato ha la sua storia irripetibile, ma la
scomposizione del reato favorisce lo studio del diritto penale
sul fatto. L’intenzione si deve tradurre in una offesa che mette
in pericolo o danneggia il bene giuridico. vi sto diverse
concezioni sulla struttura del reato poiché non vi è una presa di

34

fi

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posizione del legislatore (come invece avviene in Austria e
Germania).

Concezione classica bipartita del reato

Il reato è costituito da due elementi: elemento oggettivo (fatto)


e elemento soggettivo (colpevolezza). Nel fatto finisce tutto
ciò che di oggettivo c’è nella descrizione legale. Nella
colpevolezza vanno tutti i requisiti che implicano un
collegamento soggettivo tra autore e fatto. In USA si utilizza la
bipartizione: actus reus e mens rea. All’incirca lo stesso in
Francia. In questa costruzione si parla di antigiuridicità non
quale elemento autonomo del reato, ma quale elemento che
qualifica il reato. La risultante tra fatto e colpevolezza. È un
giudizio di relazione, non un elemento del reato. È la
qualificazione, l’in sé del reato. Il reato per configurarsi deve
portare a questa dimostrazione: tutti gli elementi positivi =
fatto e colpevolezza, più l’assenza degli elementi negativi,
ossia le cause di giustificazione.

Concezione tripartita del reato

È quella che la De Maglie adotta, come il Fiandaca Musco. Gli


elementi del reato sono tre in questo ordine (Ciò si riverbera
sul terreno della prova):
Fatto tipico: la conformità di un comportamento al modello
legale.
Antigiuridicità: ossia la contrarietà del fatto alle norme
dell’ordinamento giuridico (l’intero ordinamento giuridico,
non solo penale).
Colpevolezza: è il rimprovero che l’ordinamento muove nei
confronti dell’autore del reato per aver commesso un atto
tipico e antigiuridico.

La differenza tra bipartita e tripartita sta nella diversa


concezione della antigiuridicità. Nella concezione tripartita
essa è un elemento del reato. È preferibile la concezione
tripartita perché è teleologicamente orientata: ogni elemento
del reato ha una sua finalità. Inoltre questa concezione risolve
molti problemi sul piano dell’accertamento ed è una
concezione gradualistica, nel senso che prima si procede
all’accertamento della tipicità. Se si dimostra che ci sono tutti
gli elementi del fatto tipico vi è tipicità. Solo allora si precede
e si valuta se il fatto è anche antigiuridico. Per antigiuridicità si
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intende assenza di cause di giustificazione. Solo a questo
punto si valuta se il soggetto può essere rimproverato
dall’ordinamento. Questa concezione tripartita si riverbera
sulle formule di proscioglimento processuale se utilizzate
correttamente, ad es. nell’omicidio il fatto tipico è aver
cagionato la morte di un uomo. Se non si dimostrano tutti gli
elementi del fatto tipico il soggetto verrà prosciolto perché il
fatto non sussiste. Questa formula scagiona in pieno il
soggetto. Se invece il fatto è dimostrato, bisogna mostrare
come il fatto è antigiuridico, ergo non ci sono cause di
giustificazione. Se ci sono cause di giustificazione la formula
di proscioglimento è perché il fatto non costituisce reato.
Come ultimo punto si valuta se si può muovere un rimprovero.
Questa costruzione è molto razionale e impone accertamento e
ragionamento senza far perdere tempo. Qualunque elemento di
cui è costituito il reato va dimostrato.

Concezione quadripartita

Non ha avuto particolare successo. È nata in Germania e poi è


stata seguita da una parte autorevole della dottrina italiana. È
uguale come impostazione a quella tripartita. È
teleologicamente impostata e gradualistica, solo che vi è un
quarto elemento da dimostrare, ossia la punibilità. Cioè
l’insieme delle situazioni in base alle quali si ritiene opportuno
punire o non punire un fatto tipico antigiuridico colpevole. La
scelta di punire o meno può essere fatta dal legislatore oppure
dal giudice. Se a scegliere è il legislatore: ad es. art 44 c.p.:
condizione obiettiva di punibilità. Quando, per la punibilità del
reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il
colpevole risponde del reato, anche se l'evento, da cui dipende
il verificarsi della condizione, non è da lui voluto. Le
condizioni obiettive di punibilità sono fatti futuri ed incerti
completamente sganciati dal comportamento dell’agente e
dalla colpevolezza. Sono fuori dal dominio corporeo
dell’oggettività o dal cono di proiezione della colpevolezza.
Ad esempio, nel caso di bancarotta fraudolenta ex art. 216 l.
fall., il reo è punito solo quando dichiarato fallito: è un fatto
incerto che non dipende da lui. Secondo la concezione
tripartita il reato è perfetto quando è dimostrata la tipicità del
reato, antigiuridicità e colpevolezza. Il reato allora c’è. La
condizione obiettiva di punibilità è esterna. Secondo la
concezione quadripartita invece il reato non si perfeziona
finché non si realizza anche la condizione di punibilità.
Cambia solo sul piano teorico.
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Categorie di reati

reato istantaneo/reato permanente. Istantaneo: la realizzazione


del fatto tipico integra ed esaurisce l’offesa criminosa. e.g.
omicidio, che se uno resta in come per due anni. In
contrapposizione quello permanente: nella letteratura tedesca
si chiamano Dauerdelikte, ossia delitti di durata. Sono
qualificati dal tempo. Il comportamento del soggetto integra la
fattispecie ma gli effetti perdurano per un lasso di tempo
considerevole. Vi è una azione ma anche una omissione: nel
tempo vi è un mantenimento della situazione antigiuridica.
Tutti i reati di sequestro di persona sono permanenti. Se fermi
una persona per dieci minuti è violenza privata, invece e.g. tre
gironi è sequestro di persona. Mentre nel reato istantaneo il
bene viene distrutto, nel reato permanente vi è una
compressione del bene. Nel momento in cui viene rimossa la
situazione antigiuridica il bene si riespande. Il lasso di tempo è
importante. Serve un vincolo associativo con caratteristiche di
organizzazione interna e ha un lasso di tempo che lo qualifica.
Reati abituali. Anche questi sono qualificati dal tempo ma in
modo diverso dal reato permanente perché sono caratterizzati
dalla ripetizione nel tempo della condotta antigiuridica.
Reati comuni/reati propri. Bisogna guardare l’autore del reato.
Reato comune: l’autore è chiunque. Nel reato proprio è un
soggetto con un ruolo particolare o che ricopre una qualifica
particolare.

(Fine appunti Rachele)

Struttura del reato commissivo doloso

Fatto tipico. È il complesso di elementi che delineano


l’aspetto di uno specifico reato. Il fatto tipico ritaglia le
caratteristiche del fatto tipico, che deve soddisfare principi
costituzionali di irretroattività e di precisione. La descrizione
del legislatore indica gli elementi della tipicità che devono
essere dimostrati affinché si accerti che la aggressione del bene
giuridico avvenga secondo quelle modalità.
Ci sono delle fattispecie in cui la tipicità è caratterizzata dalla
presenza di presupposti, ossia situazioni che devono
preesistere perché l’azione sia penalmente rilevante.

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DIRITTO PENALE Prof. De Maglie


es. art. 505 c.p., omissione di soccorso. La norma è
caratterizzata da un presupposto: situazione di pericolo in cui
si trova un soggetto per tutta una serie di condizioni.
Questi presupposti possono riguardare sia il soggetto attivo,
che quello passivo, ma anche le azioni.

Evento. É il risultato della condotta.dal comportamento del


soggetto avviene una modificazione della natura da parte del
soggetto attivo, ben separata dalla condotta. L’evento può
esserci anche nei reati di pericolo concreto, oltre che in quelli
di danno. Quando c’è un evento in senso naturalistico si deve
dimostrare il nesso di causalità tra fatto ed evento. Quindi in
senso naturalistico devono sussistere: condotta, evento e nesso
di causalità.
Per alcuni questa teoria sbaglia: secondo la concezione
naturalistica l’evento è solo naturale, ma secondo un’altra
concezione l’evento c’è sempre, e non sempre è naturale.

L’evento, se si utilizza una definizione poco tecnica, è il


risultato della condotta assunto come elemento della
fattispecie. Ci sono due concezioni di evento, una materiale (o
naturalistica), secondo la quale l’evento consiste in una
modificazione del mondo esteriore da parte del soggetto attivo.
Ci deve essere quindi un nesso causale tra azione e evento. Ci
sono quindi reati con e senza evento.
Le percosse sono un reato di mera condotta, secondo questa
teoria.
Secondo un’altra concezione esiste sempre l’evento, che è
costituito dall’offesa.
Il problema emerge quando si passa dalla teoria alla pratica.
Come influiscono queste teorie sul giudice? Utilizza lo stesso
metodo sia per accertare l’evento, sia per accertare la condotta.
L’evento si ha nei reati di danno, ma anche in quelli di pericolo
concreto.

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Nesso causale

Riportiamo in seguito alcuni esempi utili a esemplificare la


trattazione:

1) La moglie spinta dall’istinto omicida versa del veleno nella


tazza di caffè del marito il quale muore poco dopo aver bevuto.

2) Una moglie fa ingerire al marito una dose di veleno ad


effetto letale differito. Nel corso di una violente lite scoppiata
poco dopo il marito viene ucciso dalla propria amante con un
colpo di pistola.

3) I dirigenti nella ditta farmaceutica grenental’ mettono in


commercio un preparato farmaceutico il cosiddetto talidomide
che viene ingerito anche da donne gestanti. Quasi tutte
partoriscono figli con malformazioni congenite ma non è
scientificamente chiaro il meccanismo di produzione del
fenomeno.

4) Gli abitanti della zona in cui è sita una fabbrica di alluminio


che emette fumi all’esterno vengono colpiti da manifestazioni
morbose cutanee a carattere epidemiologico, le cosiddette
‘macchie blu’. Neppure in questo caso però si riescono ad
individuare con certezza le cause del fenomeno.

5) Tizio e caio all’insaputa l’uno dell’altro, versano due dosi di


veleno ciascuna capace di produrre l’evento letale, nel
bicchiere di birra di un loro comune nemico il quale muore
dopo aver bevuto.

6) Tizio fa saltare in aria con candelotto di dinamite l’antica


casa di campagna del sindaco a lui ostile, casa riconosciuta
come di elevatissimo valore artistico. Si accerta tuttavia che la
casa sarebbe stata ugualmente distrutta da un incendio di vaste
proporzioni scoppiato nelle vicinanze per cause naturali quasi
contemporaneamente al fatto.

7) Tizio viene ferito all’addome da un colpo di pistola


sparatogli da un rapinatore in fuga, ricoverato in ospedale egli
muore in seguito a una setticemia dovuta all’uso di strumenti
operatori non sterilizzati.

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DIRITTO PENALE Prof. De Maglie


Tutti questi casi hanno in comune un evento in senso
naturalistico, ossia una modificazione del mondo esteriore che
deriva dalla condotta del soggetto agente. Il problema da
affrontare è dimostrare il rapporto di causalità tra il
comportamento e l’evento.
Responsabilità significa responsabilità per fatto proprio, quindi
ci vuole il nesso di causalità per dimostrarlo (teoria minima).
Perché vi sia il nesso di causalità ci deve essere anche
l’evento, in caso contrario è sufficiente dimostrare la condotta
perché vi sia colpevolezza.
Sull’accertamento del nesso di causalità ci sono varie teorie,
ma importa qui sapere quella adottata dal nostro codice penale
agli artt. 40 e 41.
Teoria della condicio sine qua non, secondo la quale la causa è
ogni condizione dell’evento senza la quale l’evento non si
sarebbe verificato.
La causa è diversa dalla responsabilità penale.
Per provare questa condicio sine qua non si utilizza un
procedimento particolare, che si chiama di
eliminazione mentale: Il punto di partenza è l’evento,
bisogna capire qual’è stata l’azione che l’ha prodotto. Ci sono
quindi n azioni che potrebbero averlo prodotto.
Ciascuna di queste azioni viene ipoteticamente eliminata, e, se
anche in tal caso l’evento rimane, vuol dire che quell’azione
non ne era la causa. Se si elimina un’azione e l’evento viene
meno, vuol dire che è la causa dell’evento.
La formula della condicio sine qua non, con questo metodo
che viene offerto al giudice, risolve il problema
dell’accertamento del nesso di causalità, ma possono emergere
altri problemi. Questa formula funziona efficacemente solo nei
casi più semplici, emergono dubbi però quando le situazioni
diventano più intricate, perciò bisogna fare alcune
precisazioni.
Al caso n.6 l’evento è il danneggiamento, ma con
l’eliminazione mentale la causa è incerta, dato che anche
togliendo il comportamento l’evento rimane.
Quando si parla di evento, si parla di evento in concreto, non
di quello in astratto previsto dalla norma. Quindi l’evento che
si è effettivamente verificato. Bisogna domandarsi come sono
andate le cose, non come sarebbero andate.
Altra obiezione è la seguente: il regresso all’infinito.
Prendiamo in considerazione il caso n.1, se applichiamo la
regola dell’eliminazione mentale con regresso all’infinito
potremmo arrivare a dire che responsabili sono i genitori della
signora che l’hanno fatta nascere, e così nonni, bisnonni etc.
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DIRITTO PENALE Prof. De Maglie


Prendiamo in considerazione il caso n.5, in cui c’è una c.d.
causalità addizionale, le situazioni sono entrambe rilevanti. In
tal caso ciò che può fare il giudice è ordinare una autopsia, che
verifica quale è la causa della morte. La causa della morte è
stata x+y, le due condizioni, cumulativamente considerate
costituiscono presupposti necessari dell’evento, dato che,
anche se in astratto quelle dosi sono sufficienti a causare
l’evento morte, questo si verifica in concreto per causa di
entrambi.
Nei casi 3 e 4 la condicio sine qua non non sembra essere
sufficiente, perché il problema è il seguente: per ragioni di
tassatività bisogna trovare un metodo che non sia diverso da
caso a caso, ci vuole un metodo generalizzante.
Ci sono vari studi e tutti sono d’accordo nel dire che uno dei
più grandi studiosi della spiegazione del metodo di causalità è
stato Federico Stella, secondo il quale la spiegazione del nesso
causale deve essere fatta utilizzando il c.d. metodo di
sussunzione sotto leggi scientifiche, secondo il quale bisogna
cercare una legge generale di copertura che sia in grado di
spiegare il legame che esiste tra l’azione e l’evento non come
un accadimento singolo, ma come accadimento che si può
ripetere qualora ricorrano determinate condizioni.
Ci vuole quindi una legge scientifica. Ci sono due tipi di legge
a cui possiamo fare riferimento per la spiegazione del nesso di
causalità:
Leggi universali, ossia quelle leggi che ci danno la certezza
che arriva al coefficiente 100, quindi data una azione x segue
sempre y nella totalità dei casi, adottano quindi una
spiegazione nomologico-deduttiva.
Legge scientifica di copertura è sempre una legge universale,
ma la spiegazione del nesso di causalità si spiega anche
attraverso la statistica.
Leggi statistiche, che obbediscono a un procedimento che si
chiama spiegazione probabilistico-induttiva. Non c’è il rigore
e la certezza delle leggi universali, c’è quindi la probabilità di
cadere in errore. Quindi a x segue y in una percentuale n di
casi.
Emerge quindi il problema del valore di n, Federico Stella dice
che non è possibile spiegare il nesso di causalità senza avere
un alto livello di percentuale, se no si rischia di incolpare un
innocente. (“Preferisco cento colpevoli in circolazione, che un
innocente in galera”).
In Italia una parte giurisprudenza richiede una bassissima
percentuale (30%) per dire che l’azione rientra nella legge di
copertura. Ci sono quindi dei grossi problemi sul punto.
41

DIRITTO PENALE Prof. De Maglie

Negli anni ’90 le sezioni unite recepiscono il metodo della


sussunzione sotto leggi scientifiche nel c.d. caso Stava, dove
c’erano due bacini che contenevano sterili di miniera e si
trovavano vicino al centro abitato, in seguito a delle alluvioni i
bacini sono crollati e una immensa quantità di macerie si è
riversata sul centro abitato provocando la morte di 278
persone.
Questa sentenza precisa che c’è una distinzione tra leggi
scientifiche, ponendo sullo stesso piano di quelle universali
anche quelle statistiche che si limitano ad affermare che a x
segue y soltanto in una certa percentuale di casi.
I giudici hanno individuato, in base a uno studio, la
costruzione dei due bacini di sterili e anche il posizionamento,
dato che erano messi uno sopra l’altro, ed erano situati a
ridosso del centro abituato. È stata individuata quindi la legge
di copertura in base alla quale si poteva dire che è molto
probabile che bacini costruiti in quel modo possano cagionare
catastrofi.
Questa sentenza non ci dice se le modalità di accertamento del
nesso di causalità nell’azione sono le stesse o sono diverse
rispetto a quelle nell’omissione.
Altro problema è, qual’è la percentuale che fa sì che una legge
statistica possa essere scientifica?
Stella fa uno studio della giurisprudenza americana, che è
molto garantista. Secondo lui la legge statistica è definibile
come scientifica soltanto quando è vicina alla certezza.
Emerge a questo punto la necessità di distinguere tra causalità
specifica e causalità generale.
La prima significa che x ha causato y nel tempo t e nel luogo l.
La seconda è ad. es. il fumo aumenta il rischio del cancro al
polmone del 20%, ma non si può dire che ha causato la morte
di quel soggetto.
Cosa vuol dire legge scientifica?
I criteri sono stati dati da una sentenza della corte suprema nel
1993, e sono i seguenti.
Controllabilità e falsificabilità della teoria
Determinazione del margine di errore
Controllabilità della teoria da parte di altri esperti
Accettazione da parte della comunità scientifica
La prova deve essere fit (riferibile ai fatti concreti della singola
causa)

Bisogna vedere se il concetto di legge scientifica è chiuso alle


scienze dure, o aperto alle scienze. La risposta è sì. Le scienze
42

DIRITTO PENALE Prof. De Maglie


umane non hanno lo stesso metodo delle scienze dure, ma sono
comunque ammissibili.
Non abbiamo in Italia un orientamento preciso sul nesso di
causalità, abbiamo solo delle sentenze del 2000 che
recepiscono il messaggio di Stella, quindi sono orientate sulla
tendenza garantista che considera scientifica una legge
statistica scientifica solo quando si avvicina al 100%.

Caso: una donna ricoverata in ospedale muore, dalla cartella


clinica emerge che è morta a causa dell’AIDS, emerge che da
tempo ha avuto rapporti sessuali con partner affetto da AIDS.
Per l’accertamento della causalità si deve far ricorso a leggi
scientifiche, sia universali che statistiche, ma queste ultime
devono esprimere un efficiente probabilistico prossimo a 1,
deve essere quindi praticamente certa. Canzio dice: “Io non
posso dire che il soggetto è quasi responsabile”.
Canzio però vuole una verifica in più, ossia che vengano
esclusi eventuali decorsi causali alternativi, ma la sentenza qua
cade in contraddizione.
È indubbio che coefficienti medio bassi impongano verifiche
attente e puntuali, quindi sarebbe meglio lasciarli perdere, ma
nulla esclude che anche questi, se corroborati da un sufficiente
materiale probatorio e dalla più aggiornata criteriologia
medico-legale, possano essere utilizzati per provare il nesso di
causalità.

Antigiuridicità e cause di giustificazione

Il reato è tripartito, il primo elemento è la tipicità, il secondo


l’antigiuridicità, il terzo la colpevolezza.
Questa è una concezione che assegna all’antigiuridicità il ruolo
di elemento del reato, è una concezione gradualistica, che
significa che ogni elemento del reato svolge una funzione
teleologica.
Nella teoria generale del reato la categoria dell’antigiuridicità
è emersa per ultima, l’elaborazione dottrinale ha preceduto di
molto quella legislativa. Nella legislazione austriaca, tedesca e
portoghese c’è una presa di posizione legislativa in relazione al
reato, che è un fatto antigiuridico e colpevole. Da noi non c’è
alcuna norma che dice quali siano gli elementi del reato,
quindi la divisione dello stesso in vari elementi è discussa.
L’antigiuridicità non si configura se c’è una causa di
giustificazione (c.d. scriminante), viene quindi dimostrato che
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il fatto è tipico ma non antigiuridico, perciò la formula di
proscioglimento sarà “perché il fatto non costituisce reato”.
Questi sono quindi due elementi che vanno considerati
essenzialmente come un binomio irriducibile.
L’art. 59 c.p. ad es., è una norma molto importante che
racchiude tutte quelle situazioni in cui viene esclusa la pena,
ma non ha alcun riferimento specifico alle cause di
giustificazione, si tratta di una norma promiscua, che mette
tutto insieme in modo confusionario, ma questa promiscuità
viene tamponata dalla presenza in alcune fattispecie di parte
speciale di parole come: abusivamente, arbitrariamente, in
modo illecito: queste sono situazioni in cui si fa riferimento
espresso all’antigiuridicità (v. art. 348 c.p.).
In certe norme si utilizzano certe parole per evidenziare
l’elemento dell’antigiuridicità, ma ciò non significa che solo
questi reati sono antigiuridici, ma che in alcune norme
l’elemento è espresso e in altre è tacito, e quindi è sempre
presente.
Anche nel nostro sistema quindi, il reato è fatto di tre elementi.
L’antigiuridicità è legata in modo ineliminabile alle cause di
giustificazione, che la escludono: il fatto tipico può non essere
antigiuridico per varie ragioni.
L’antigiuridicità deve essere considerata in senso oggettivo, è
un elemento formale: il fatto tipico può essere solo lecito o
antigiuridico, non esiste una via di mezzo.
L’antigiuridicità può però essere graduata, nel senso che un
fatto tipico può essere più o meno antigiuridico.
Questa idea trova riscontro normativo nell’art. 579 c.p., che
non c’era nel codice Zanardelli.
Se si confronta questa fattispecie (omicidio del consenziente)
con quella dell’art. 575 c.p. risalta che il primo viene
considerato meno grave del secondo.
Nelle due fattispecie gli elementi del fatto tipico sono uguali,
ma la pena comunque diminuisce.
Il consenso non esclude l’antigiuridicità, perché la vita è un
diritto indisponibile, ma il fatto è comunque meno grave.

Le cause di giustificazione, o scriminanti, sono situazioni in


presenza delle quali un fatto che altrimenti sarebbe punibile
diventa lecita perché esiste una norma che glielo consente o
glielo impone. La presenza di una causa di giustificazione
esclude l’antigiuridicità in tutto l’ordinamento, il che significa
che rende lecito il fatto anche nelle branche civili e
amministrative. Le cause di giustificazione sono quindi

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principi generali dell’intero ordinamento, non solo di quello
penale.
Da un punto di vista politico criminale, nelle cause di
giustificazione, c’è un bilanciamento di interessi, tra quello
tutelato dalla norma e uno esterno che prevale sul primo.
Le cause di giustificazione si dividono in:
assolute o generali: si applicano alla generalità delle norme.
(art. 52 c.p.)
relative: ossia che si applicano a singole norme o a gruppi di
norme. La causa di giustificazione dell’art.54 ad.es è stata
estesa a condotte a basso contenuto lesivo, in quanto stato di
necessità non si intende più come sola situazione di pericolo di
morte incombente, ma anche pericolo di vivere ad.es. in
condizioni disagiate, quindi anche a pericoli meno gravi
(v.occupazione di immobili sfitti)
personali: applicabili esclusivamente a certi soggetti, che
ricoprono un determinato ruolo (v.art. 53 c.p)

Alcune cause di giustificazione sono strutturate con elementi


di tipo prognostico, v.difesa legittima e stato di necessita: sono
elementi che si valutano mediante la prognosi ex ante in
concreto, la base è totale. Sono entrambe caratterizzate
dall’elemento del pericolo attuale.
In linea di massima gli elementi delle cause di giustificazione
vanno valutate in senso oggettivo.

Cause di giustificazione e concorso di norme

Può succedere che un fatto sia riconducibile a diversi reati.


Solo uno di questi è coperto dalla causa di giustificazione. Non
c’è una estensione analogica della causa di giustificazione
all’altro reato.

es. Tizio porta un’arma in un luogo pubblico illegittimamente


e uccide uno sconosciuto che sta attentando alla sua vita.
In tal caso abbiamo il concorso di due reati, uno è l’omicidio
(art. 575 c.p.), l’altro è il porto abusivo d’armi (art.699 c.p.).
La causa di giustificazione copre solo l’omicidio, quindi il
soggetto risponderà comunque per porto abusivo d’armi.

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Cause di giustificazione e analogia

C’è una parte della letteratura che dice che l’analogia, in


quanto contraria alla certezza del diritto non si applica.
Un’altra parte della dottrina dice che si applica sempre quando
è favorevole al reo.
L’art.14 delle preleggi dice: “Le leggi penali e quelle che
fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
Le norme regolari sono espressione dei principi generali
dell’ordinamento giuridico, perciò solo le cause di
giustificazione, che non sono norme penali e sono principi
generali del diritto possono essere applicate per analogia.

Rilevanza obiettiva delle cause di giustificazione

Le cause di giustificazione vanno valutate a favore dell’agente


anche se lui non le conosce (art. 59 c.p.).
Gli elementi delle cause di giustificazione vanno analizzati e
compresi in senso oggettivo.

La rilevanza del putativo

Secondo l’ art. 59 comma 4 c.p. l’erronea supposizione da


parte del soggetto attivo dell’esistenza di una causa di
giustificazione è valutata a suo favore.
Tre ipotesi:
- Poniamo che il soggetto attivo ritenga che esista una causa
di giustificazione che non esiste nel nostro ordinamento ma in
altri sistemi.
- Altra ipotesi è che un soggetto ritenga che una causa di
giustificazione esistente nel nostro sistema abbia dei limiti più
ampi.
Altra ipotesi è che il soggetto abbia un’erronea supposizione
nella realtà dell’esistenza di una causa di giustificazione.

Il primo caso è un errore di diritto, perciò non è rilevante. Il


secondo caso anche. Il terzo è invece un errore di fatto, che
riguarda la situazione concreta nella realtà.
Quindi il comma 4 rileva soltanto riguardo all’errore di fatto,
mentre per quanto riguarda l’errore di diritto non rileva in
quanto abbiamo il principio ignorantia legis non excusat.

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L’art. 55 c.p. prevede la fattispecie dell’eccesso colposo. La
differenza tra l’eccesso colposo e l’erronea supposizione di
una causa di giustificazione è che in quest’ultima le cause di
giustificazione sono nella testa dell’agente, nel secondo caso,
pur con l’esistenza di cause di giustificazione il soggetto
supera i limiti stabiliti dalla legge, dall’autorità o dalla
necessità.
Nell’eccesso colposo ci sono gli estremi di fatto della causa di
giustificazione ma l’agente per colpa supera i limiti. Ci può
essere una erronea valutazione della situazione di fatto oppure
un errore nella fase esecutiva (il soggetto tira fuori un’arma
per intimorire l’aggressore o presunto tale e per sbaglio
ucciderlo).

Difesa legittima

Art.52 c.p.:

Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato


costretto dalla necessità di difendere(1) un diritto proprio od
altrui contro il pericolo attuale(2) di un'offesa ingiusta(3),
sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa(4)
Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma,
sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo
comma del presente articolo se taluno legittimamente presente
in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente
detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o la altrui incolumità:
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è
pericolo d'aggressione(5).
Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma si
applicano anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno
di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività
commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in
stato di legittima difesa colui che compie un atto per
respingere l'intrusione posta in essere, con violenza
o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da
parte di una o più persone(6).

L’ipotesi del comma 2 è una ipotesi speciale, che avviene in un


contesto particolare, ossia la violazione del domicilio. È
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caratterizzata da una sorta di elemento soggettivo: al fine di
difendere.
È una norma che solleva molti problemi dal punto di vista
dell’accertamento.
La violazione di domicilio è integrata sia in caso di illecita
introduzione che di illecita permanenza.
In questo caso sussiste un rapporto di proporzione, che viene
presunto, mentre gli altri elementi devono essere dimostrati.
Le lett. a) e b) mettono sullo stesso piano due beni, ossia la
vita e il patrimonio.
Nel 2019 viene introdotto il quarto comma, che presume
esistenti tutti gli elementi della legittima difesa se il soggetto
compie il fatto per respingere una intrusione posta in essere
con violenza, minaccia, uso di armi.

Colpevolezza

Ci sono due concezioni della colpevolezza, la concezione


psicologica e quella normativa.
I fautori della concezione normativa criticano quella
psicologica perché questa considera solo dolo e colpa, ossia
elementi interni.
Secondo la concezione normativa, adottata da tutti, la
colpevolezza è più completa, e guarda anche al lato esterno,
ossia al rapporto che esiste tra il soggetto e la legge penale, e
all’imputabilità. La colpevolezza è quindi riprovevolezza, il
soggetto è colpevole perché quando ha compiuto il fatto tipico
gli si sarebbe potuto muovere un rimprovero da parte
dell’autorità.

Imputabilità

Secondo l’art.85 c.p. l’imputabilità è la capacità di intendere e


di volere, che deve essere valutata al momento in cui il fatto è
stato commesso. Entrambe le capacità devono sussistere
affinché il soggetto sia imputabile.
Innanzitutto è da precisare che con capacità di intendere e di
volere non ha nessun riferimento alla conoscenza della legge,
la capacità di intendere è la capacità del soggetto di
rappresentarsi la realtà della vita in cui vive, comprendere le
possibilità che la vita offre, per capacità di volere, invece, si
intende la capacità del soggetto di scegliere autonomamente
senza alcuna coazione o fattore cogente.
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L’elenco di situazioni di incapacità di cui agli artt. 85 ss. c.p., è
esemplificativo e non tassativo, in quanto esistono altre
situazioni che escludono la capacità di intendere e di volere.

Natura giuridica

Secondo la giurisprudenza dominante la imputabilità deve


essere definita come capacità di pena, quindi uno status in cui
si trova il soggetto, che è completamente sganciato dalla
colpevolezza.
Una parte della letteratura dice che l’imputabilità è il
presupposto della colpevolezza, quindi bisogna innanzi tutto
dimostrare che il soggetto è imputabile, e solo dopo valutare
gli elementi della colpevolezza.

Casi previsti dal codice penale

Agli artt. 97 e 98 c.p. si disciplina il caso dei minori di diciotto


e quattordici anni.
La corte costituzionale dice che il minore è una persona in
formazione, perciò c’è una larghissima tolleranza nei confronti
di questi soggetti.
Se il minore ha meno di dodici anni si ha una presunzione di
immaturità, mentre nei casi di quattordici e diciotto anni il
giudice deve accertare l’imputabilità del soggetto e si serve
della perizia psicologica.
Quando il soggetto ha commesso il fatto e ha compiuto
diciotto anni è imputabile, perciò abbiamo una presunzione di
maturità.

Gli artt. 88 e 89 c.p. prevedono invece i casi in cui vi sia vizio


totale o parziale di mente.
Per entrambe le fattispecie si deve accertare il vizio al
momento in cui il fatto è stato commesso.
Per vizio totale di mente si fa riferimento sia all’infermità
mentale primaria che a una infermità fisica che si proietta sulla
psiche.
La scienza medica non da delle sicurezze sui paradigmi della
malattia mentale, il che ha creato vari problemi
nell’accertamento dell’imputabilità.
Ci sono vari paradigmi per l’accertamento della malattia
mentale, e di questi non ne esiste uno dominante in
giurisprudenza, ogni tribunale sceglie il suo.
I paradigmi rintracciabili nella giurisprudenza sono due:
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- paradigma medico: secondo il quale le malattie mentali
sono quelle che sono vere e proprie malattie del cervello o del
sistema nervoso, ci vuole quindi una base anatomico-
funzionale. Sono escluse tutte le anomalie della personalità,
del sentimento, le neuropsicosi, le psiconevrosi. Questa
giurisprudenza esclude che certe situazioni possano portare
alla non imputabilità del soggetto. È un paradigma che ha un
concetto ristretto di malattia mentale. All’interno di questa
giurisprudenza si rintraccia anche un altro orientamento che si
basa su classificazioni nosografiche elaborate dalla psichiatria,
le c.d. classificazioni di Kraepelin.
- paradigma psicologico: estende il concetto di malattia e si
ricollega alle teorie freudiane sull’inconscio. Quando in un
soggetto la fantasia prevale sulla realtà o addirittura la
sostituisce, si configura la malattia mentale. Secondo questo
paradigma la concezione di malattia è dinamica e bisogna
valutarla in concreto e non in riferimento a classificazioni
astratte.

La giurisprudenza oscilla quindi tra questi due paradigmi, fin


quando si arriva a una sentenza delle sezioni unite del
2005/9163, che dice che anche i disturbi della personalità sono
causa idonea all’esclusione della capacità di intendere e di
volere, quindi il paradigma psicologico si amplia ancora. Nel
manuale DSM c’è una autonoma categoria dei disturbi della
personalità che comprende, suddivisi in tre gruppi, tutta una
serie di disturbi ben lontani dal rientrare nelle psicosi, ma che
rientrano nella molto più ampia categoria delle psicopatie.
Questa sentenza enfatizza i rapporti tra scienza e diritto per
definire l’imputabilità, ma mette dei paletti, i disturbi possono
acquisire rilevanza solo quando siano di consistenza, intensità,
rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sulla
capacità di intendere e di volere. Bisogna poi dimostrare che il
fatto criminoso commesso ha un collegamento con il disturbo,
solo in questo caso è rilevante al fine di escludere
l’imputabilità.
Il concetto di imputabilità è in crisi, perciò da qualche anno
entrano in campo le neuroscienze che cercano di dare una
spiegazione rigorosa dei meccanismi neurologici da cui
derivano le opzioni umane.

Dagli artt. 91 a 94 c.p. ci sono una serie di situazioni che


prevedono l’ubriachezza e l’effetto di sostanze stupefacenti.
L’imputabilità è esclusa qualora l’intossicazione derivi da

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cause di forza maggiore, negli altri casi il soggetto è
imputabile, o addirittura c’è un aumento di pena.
È da precisare che intossicazione da stupefacenti e ubriachezza
sono due situazioni diverse.

Dolo e colpa

L’art. 43 c.p. parla dell’elemento psicologico del reato. Il


delitto può essere colposo solo se c’è una previsione espressa
da parte del legislatore, se no il delitto è sempre colposo.
C’è una differenza sul piano sanzionatorio tra dolo e colpa, in
quanto il legislatore considera il primo elemento molto più
grave del secondo. L’autore doloso si è ribellato
consapevolmente all’ordinamento, mentre l’autore colposo ha
violato la legge per negligenza.
Il delitto è doloso quando l’evento di danno o di pericolo è dal
soggetto agente preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione o omissione. Il dolo è costituito da due
elementi:
- rappresentazione: è l’elemento intellettivo del dolo,
riguarda la conoscenza degli elementi che integrano la
fattispecie oggettiva, anche quelli normativi. Si pretende
che il soggetto in dolo abbia la c.d. conoscenza parallela
della sfera laica, nel senso che quando si rappresenta gli
elementi che integreranno un determinato delitto, non deve
sapere la norma del codice, ma sapere che sta commettendo
un fatto illecito. Il dolo è compatibile con lo stato di dubbio
(dolo eventuale), a meno che la fattispecie di parte speciale
richieda la certezza.
- volontà: per tale intendendosi la volontà consapevole di
realizzare il fatto tipico. Nel codice penale il legislatore si
esprime male, perché sembra voler dire che tutti i reati
abbiano un evento, quando già si è constatato che alcuni
reati sono di mera condotta. Inoltre, la formulazione non è
completa, perché sembra che oggetto del dolo sia solo
l’evento, mentre oggetto del dolo sono tutti gli elementi del
fatto tipico.

Quando si dice che il dolo è elemento del fatto tipico, significa


che la volontà si deve tradurre in realizzazione, non si può
punire la semplice volontà del reo.

Nel dolo rientra la coscienza dell’antigiuridicità? No, non


rientra nel dolo perché l’art. 5 c.p. dice che l’ignoranza della
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legge non è scusabile, quindi non si pretende che conosca la
norma, ma si può pretendere la coscienza dell’offesa, che è
diversa dalla prima e si configura come consapevolezza di aver
prodotto un’offesa nei confronti del valore tutelato dalla norma
penale. Quando si parla di coscienza dell’antigiuridicità e
dell’offesa si tira in ballo la differenza tra reati naturali e reati
artificiali. I primi sono quelli che tutte le persone, nella loro
sfera parallela laica conoscono, il cui valore è indiscusso da
parte dei consociati.
I secondi sono fattispecie di pura creazione legislativa al fine
di tutelare dei beni collettivi.
Nei reati naturali la coscienza dell’antigiuridicità e quella
dell’offesa coincidono, nel senso che le persone sanno e
condividono l’impostazione per cui quei reati non devono
essere commessi.
Nei reati artificiali esiste invece un capovolgimento della
dinamica cognitiva, la consapevolezza della collettività emerge
soltanto successivamente, quando già esiste la norma penale
che sanziona quei determinati comportamenti.

Le forme del dolo

La forma più grave di dolo è il dolo di premeditazione. È


strutturato in due elementi:
- elemento cronologico: che deve essere un lasso di tempo
piuttosto lungo tra l’insorgenza e l’attuazione del proposito
criminoso;
- elemento ideologico: che si estrinseca nel perdurare,
nell’arco del tempo, della risoluzione criminosa nell’animo
dell’agente.

La premeditazione è un elemento che il legislatore prevede


solo nei reati c.d. di sangue (lesioni, omicidio), quindi ad es.
per delitti come il sequestro di persona non si può parlare di
delitto premeditato.

Altra forma è il dolo intenzionale, o di primo grado, che vede


la massima forma della volizione. La realizzazione del fatto
illecito è il fine della condotta del reo.
Tendenzialmente il dolo intenzionale non è espresso dalla
norma, si ricava invece dalla valutazione del fatto concreto, ma
ci sono delle fattispecie da cui emerge espressamente e che
possono quindi essere realizzate solo in questo modo, ad es.
quando il legislatore inserisce nella norma l’avverbio
intenzionalmente.
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La maggior parte delle fattispecie del codice è costruita sul
dolo generico, ossia il legislatore non enfatizza su alcun tipo
di dolo, quindi sull’atteggiamento dell’agente.

Il dolo di secondo grado si chiama dolo diretto, e si ha tutte le


volte in cui l’agente si rappresenta con certezza gli elementi
costitutivi della fattispecie incriminatrice e si rende conto che
il suo comportamento con certezza o con alta probabilità
integrerà la fattispecie incriminatrice.

Il dolo eventuale è la forma più debole di dolo, ci sono state


molte teorie su questo, ma quella accettata dalla
giurisprudenza dominante sostiene che il soggetto si
rappresenta perfettamente l’evento e accetta il rischio che
questo possa avvenire, l’evento non è però voluto
intensamente dal soggetto, ma semplicemente è consapevole
del rischio che l’evento si verifichi e lo accetta.
La colpa cosciente è il massimo grado della colpa, ed è talvolta
molto difficile distinguere tra questa e il dolo eventuale.
Per distinguere le due fattispecie si possono fare due esempi
pratici: per quanto riguarda la colpa cosciente v. il lanciatore di
coltelli al circo, e per dolo eventuale v. ragazzo disturbato dai
bambini sotto casa che gli lancia addosso il codice penale.
La differenza fra le due fattispecie è che mentre il secondo è
consapevole del rischio che si verifichi una fattispecie
criminosa e lo accetta, il secondo, pur consapevole, non lo
accetta perché è sicuro che con la sua capacità quell’evento
non si verificherà. Ci sono state varie teorie sulla colpa
cosciente, per alcuni bastava anche la speranza. Si è poi
sostenuto che fosse necessario qualcosa di più della speranza,
ossia la certezza del soggetto agente.

Altro tipo di dolo è il c.d. dolo specifico che consiste in una


finalità che l’autore del reato intende perseguire e questa
finalità è assunta dal legislatore come elemento essenziale
della fattispecie soggettiva (v.art.630 c.p.).
La finalità non si deve necessariamente verificare, in quanto
non è elemento della fattispecie ma della colpevolezza, basta
la prova dell’esistenza di detta finalità.

Il dolo è deciso dal legislatore, quindi l’omicidio, ad. es.,


riguarda sempre un dolo generico, nonostante sia stato
commesso con una determinata finalità, che non si configura
come dolo bensì, come motivo, che però non trasforma la
fattispecie in dolo specifico.
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Contagio da AIDS: dolo eventuale o colpa cosciente?

Tizio, consapevole di essere siero positivo e di come si


contagia l’AIDS, in una relazione esclusiva o continuativa, ha
rapporti sessuali plurimi non protetti con la partner che è
completamente ignara che viene contagiata e muore.
In primo grado si è deciso che il soggetto rispondesse per dolo
eventuale, mentre Corte d’Appello e Cassazione hanno deciso
di imputarlo per omicidio a titolo di colpa cosciente, con delle
motivazioni molto labili.
Bisogna accertare innanzi tutto il nesso di causalità tra il
comportamento del soggetto e la morte della donna, mediante
il metodo della sussunzione sotto leggi scientifiche, esiste una
legge scientifica di copertura di tipo statistico che dice che il
virus HIV ha un periodo di incubazione che può essere dai
cinque ai dieci anni in cui il sistema immunitario subisce un
indebolimento progressivo e irreversibile anche in assenza di
sintesi, che sfocia nella morte.
Qual’è però il grado della colpevolezza?

Il tribunale di primo grado dice che risponde di omicidio


doloso con dolo eventuale chi, pienamente consapevole della
sua sieropositività e delle modalità di contagio del virus
intrattiene con il partner ignaro una pluralità di rapporti
sessuali non protetti accettando il rischio sia di un probabile
contagio che di una possibile evoluzione letale dell’infezione.
Il soggetto sieropositivo disponeva di specifiche e precise fonti
informative, tanto che anche il suo medico conferma che tutti
coloro che risultano sieropositivi vengono informati sui
comportamenti e le precauzioni da seguire per evitare la
trasmissione del virus e sulle modalità di contagio. Anche sua
sorella ha ammesso del fatto che il fratello fosse pienamente
consapevole delle modalità di trasmissione.

La Corte d’Appello dice che risponde di omicidio colposo


aggravato dalla previsione dell’evento colui che consapevole
dello stato di sieropositività e delle modalità di trasmissione
del virus intrattiene con il proprio partner ignaro rapporti
sessuali continuativi non protetti senza che sia stata però
raggiunta la prova di una sufficiente rappresentazione.
Si è deciso colpa cosciente perché l’imputato affermava di
aver avuto i primi rapporti sessuali con lei sei mesi dopo averla
conosciuta e che la precauzione di usare il profilattico era stata
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seguita nei primi tempi della relazione nella certezza che non
sarebbe successo niente suggerita da un’imperfetta conoscenza
delle modalità di trasmissione e dalle sue perfette condizioni di
salute, tanto che dopo un anno il soggetto aveva addirittura
smesso di fare i controlli sulla propria salute nella sicurezza
che non sarebbe mai successo niente. Dichiarava anche di non
aver rivelato mai alla moglie la sua condizione perché questo
gli causava disagio.
La Cassazione dice che il soggetto deve rispondere a titolo di
colpa cosciente in quanto ha sempre agito confidando che il
contagio sarebbe anche non potuto avvenire ed escludendo che
la salute della moglie avrebbe potuto subire danni, e in
considerazione del modesto livello culturale e nonostante le
informazioni avute dai medici aveva maturato la convinzione
che la sua salute non sarebbe peggiorata e quindi nemmeno
quella della moglie.
La base della decisione riguardante il dolo eventuale è
l’informazione ricevuta dai medici, invece la base della colpa
cosciente è il suo ottimismo, e la sottovalutazione della
situazione dovuta anche al basso livello culturale del soggetto
in questione.
La giurisprudenza tedesca dà delle indicazioni riguardo il
trattamento di casi in cui sorgano questo genere di dubbi.
Prendiamo vari casi:
- il soggetto è inconsapevole della sua sieropositività, il che
esclude la colpevolezza
- Il soggetto è consapevole del suo stato di salute e non
informa il partner che viene contagiato e muore, in questo
caso si distingue tra l’occasionalità o meno del rapporto
sessuale, nel momento in cui è occasionale si ha colpa
cosciente, nel caso invece di relazione stabile e quindi
rapporti continuativi si configura il dolo eventuale.
C’è in questo caso una contaminazione dell’elemento
oggettivo con quello soggettivo, è una situazione molto
complicata che mette il giudice in grave difficoltà.

Concorso apparente di norme e concorso di reati

Ci troviamo di fronte a delle situazioni nelle quali una serie di


fattispecie penali entrano in gioco contemporaneamente.
La pluralità, nel caso di concorso di norme, è solo apparente,
in quanto a queste fattispecie si applica solo un reato. Il caso
invece del concorso di reati è una situazione diversa, bisogna
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utilizzare più fattispecie penali per disciplinare la situazione
particolare.

Concorso apparente di norme

È quella situazione nella quale sembrano confluire più norme


rispetto a una situazione di fatto ma a seguito di un
procedimento ci si rende conto che la norma applicabile è solo
una.
V. ad es. una fattispecie di rapina che sembra integrare anche
la fattispecie del furto, della minaccia e della violenza privata,
ma in tal caso si applica solo la prima.
Ci sono dei criteri per risolvere questi potenziali conflitti, sono
sostanzialmente tre:
- criterio di specialità: (v. art 15 c.p.) quando ci sono due
fattispecie penali che regolano la stessa materia e una è
speciale rispetto all’altra si applica la seconda. Per specialità
si intendono due concetti: specialità per aggiunta e per
specificazione.
Si parla di specialità per aggiunta quando abbiamo due
fattispecie che hanno in comune una serie di elementi
costitutivi, ma una di esse prevede in aggiunta ulteriori
elementi costitutivi che quella generale non prevede (v. artt.
605 e 630 c.p.). in questi casi si applica solo la fattispecie
speciale per aggiunta, ossia quell’elemento che nell’art. 630 è
il fine.
Per specialità per specificazione si intende come elemento
caratterizzante il fatto che uno degli elementi della fattispecie
generale viene, in quella speciale, definito in maniera più
circoscritta, ossia delimitato solo ad alcuni casi.
Per stessa materia per alcuni si intendeva, in passato, stesso
bene giuridico protetto, ma per dottrina e giurisprudenza
prevalenti quasi all’unanimità si ritiene stessa situazione
concreta.
Il principio di specialità ha natura logico formale, sono i
requisiti scritti nella fattispecie a far dire qual’è la norma
applicabile. Questo criterio si intende quindi in termini
strutturali e astratti.
Ci sono infatti dei casi in cui si potrebbe riconoscere la
specialità non dalle norme ma dal fatto concreto, in quanto le
norme sono strutturalmente diverse, perciò in tal caso si viene
puniti per entrambi.
Ci sono anche delle fattispecie reciproche, ossia l’una è
speciale rispetto all’altra (art.623 c.p. e 608 c.p.). in questi casi

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non si applica il principio di specialità, perciò si applicano
entrambe le ipotesi di reato.

- criterio di sussidiarietà, la quale si ha quando esistono due


fattispecie di cui una possiede un disvalore maggiore
rispetto all’altra e ingloba tutto il disvalore dell’altra,
definita sussidiaria.
La sussidiarietà espressa si riconosce con delle particolari
locuzioni, le c.d. clausole di sussidiarietà, la fattispecie si
applica salvo che sussistano gli elementi per l’applicazione di
un’altra. Non si applica quindi quando ricorrano gli estremi di
un’altra fattispecie più grave, che quindi è punita più
severamente. Il legislatore in tal caso dice che non c’è un
concorso fra i due reati, ma se ne applica solo uno, in quanto il
reato più grave assorbe il disvalore della norma sussidiaria.
Rispetto alla sussidiarietà la dottrina ha sempre sostenuto che
nonostante manchi la clausola si potrebbe capire che le cose
stanno esattamente nello stesso modo in alcuni casi. (c.d.
sussidiarietà tacita).

- criterio di assorbimento, in quanto esistono casi nei quali la


realizzazione di un reato comporta in maniera quasi
inevitabile alla commissione di un altro reato, e si ritiene
che contestato debba essere solo quello finale (c.d.
progressione criminosa). Quando, per arrivare al reato più
grave bisogna passare da quello meno grave si parla di
antefatto non punibile in quanto viene assorbito da quello
più grave. Quando il reato meno grave viene dopo si parla
di post fatto non punibile e si applica solo il reato più grave.
Il nostro ordinamento punisce sia per la detenzione di
determinati beni, sia per la cessione a terzi, divulgazione
etc. Se io cedo un bene è ovvio che io lo debba prima
detenere, quindi è ovvio che la fattispecie della cessione
debba tenere conto anche della detenzione. Si è però
sollevato un dibattito perché secondo una giurisprudenza
più rigorosa che applica entrambe le fattispecie. La
giurisprudenza prevalente ritiene che tale criterio sia
applicabile solo nel caso in cui il bene giuridico protetto sia
identico e la norma più grave prenda effettivamente in
considerazione la fattispecie meno grave.
L’art. 84 del codice contempla l’ipotesi di reato complesso, in
cui ciò che è un reato autonomo, in casi specifici costituisce o
l’elemento costitutivo di un altro reato o l’aggravante di un
altro reato, è ovvio che in tal caso si applica solo il reato
complesso.
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Sono criteri elaborati e condivisi esclusivamente dalla dottrina,


perché la giurisprudenza non tende a riconoscerli tutti perché
di questi tre sono regolati normativamente il primo, ossia la
specialità, e una parte del secondo, la c.d. sussidiarietà
espressa. La sussidiarietà tacita e l’assorbimento non sono
legislativamente previsti e sono perciò criticati dalla
giurisprudenza.

Concorso di reati

Quando non c’è il concorso apparente, si potrebbe configurare


il concorso di reato, ma ci sono altre situazioni che si devono
tenere in considerazione e da escludere, la c.d. unificazione
giuridica di fatti plurimi, un esempio classico di questa
situazione è quella del reato abituale, in cui si esclude la
sussistenza di più reati ed è lo stesso legislatore che dice che
integri gli estremi di un unico reato.
Nel caso di concorso di reati la persona ha commesso più di un
reato e tutti sono applicabili.
Esiste il concorso materiale di reati e concorso formale.
Il caso di concorso materiale è quello nel quale ci sono più
azioni od omissioni da parte dell’agente e questi effettivamente
corrispondono a una serie di reati, che richiedono
l’applicazione di fattispecie diverse. In questi casi
semplicemente il soggetto viene condannato per tutti i reati che
commette e le pene devono essere, in linea teorica, sommate
(c.d. cumulo materiale delle pene), ma agli artt. 71 e seguenti
il legislatore prevede un limite che viene stabilito a seconda
delle circostanze. Nel momento in cui questi reati sono
commessi per eseguire o occultare altri reati si applica il c.d.
nesso teleologico.
Nel caso del concorso formale una sola azione od omissione
integra contemporaneamente più ipotesi di reato, sia dello
stesso tipo (omogeneo) che di tipo diverso (eterogeneo).
Questi casi si distinguono dal concorso materiale ma dal punto
di vista sanzionatorio il discorso è diverso, dispone infatti l’art.
81 comma 1 c.p. che ci dice che in questi casi si infligge la
pena che dovrebbe essere inflitta per il reato più grave
aumentata fino al triplo (c.d. cumulo giuridico delle pene). La
scelta dipende dal fatto che in quest’ultimo caso il soggetto
solo una volta ha deciso di delinquere, mentre nel caso di

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concorso materiale si è determinato più volte a commettere
uno o altri crimini.
Particolare ipotesi di concorso materiale è la continuazione,
che viene punita con il cumulo giuridico, quindi quando le
diverse condotte sono commesse in esecuzione di un
medesimo disegno criminoso, in quanto il legislatore ritiene
meno grave il fatto che il soggetto una sola volta abbia deciso
di violare la legge e non abbia preso una serie di decisioni
diverse. Questo discende dall’idea che un soggetto che si
determina varie volte a commettere un crimine sia più
pericoloso di quello che invece decide una volta sola.
Cosa si intende per medesimo disegno criminoso? È la
decisione che è fatta una volta per tutte di commettere in
futuro una serie di reati, occorre una determinazione di
massima, non specifica, e la unitarietà dello scopo.
Che cosa si intende per reato più grave? Ci sono state nel corso
del tempo diverse opinioni, una che guarda alla gravità in
concreto e quella in astratto, la seconda valuta la durata della
sanzione, per quanto riguarda la gravità in concreto decide il
giudice valutando la realtà fattuale.
Deve ritenersi più grave il reato in astratto punito più
severamente ma bisogna considerare anche le aggravanti che
in concreto si verificano.
Cosa succede se ci sono pene eterogenee? Ci sono due
possibilità, una dice di applicare la pena più grave, il che
porterebbe ad applicare una pena detentiva dove c’è quella
pecuniaria; altro orientamento dice di tenerle separate ma in tal
caso si disapplica l’art.81 c.p.
La soluzione è quella di una teoria intermedia secondo la quale
la pena detentiva va aumentata fino al triplo, tuttavia si deve
convertire in pecuniaria la pena detentiva aggiuntiva attraverso
i criteri di ragguaglio di cui all’art. 135 c.p.

Il concorso di persone nel reato

Il concorso di persone si ha quando più soggetti concorrono


nella realizzazione del medesimo reato.
La prima distinzione è tra:
- concorso necessario, quando la fattispecie di parte speciale
richiede per la sua esistenza una pluralità di soggetti (v.
art.416 c.p.)

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- concorso eventuale, si verifica quando c’è una fattispecie
che è modellata su un singolo autore, ma può essere
realizzata da più persone.

Gli artt. 110 ss. c.p. disciplinano il concorso eventuale nel


reato.
Il legislatore può adottare, come succede in Francia e in
Germania, il c.d. modello differenziato, che prevede
l’esistenza di diverse norme che descrivono il ruolo dei
possibili concorrenti nel reato e agganciano il tipo di pena che
quindi è diversa dall’uno all’altro.
Il nostro codice adotta invece il modello unitario (art.110
c.p.).
I concorrenti vengono puniti tutti allo stesso modo, si verifica
quindi un appiattimento delle posizioni. Dietro una previsione
di legge del genere c’è un ragionamento di politica criminale,
che, finalizzato alla difesa sociale, tende a considerare il
gruppo più pericoloso del singolo.
Alcuni studi criminologici dicono che l’agire in gruppo
stempera il senso di responsabilità, si dice anche che l’azione
di gruppo è l’azione di nessuno, in quanto un singolo non
farebbe mai da solo ciò che fa in gruppo.
Esiste un’altra giustificazione, ossia lo scopo di
esemplificazione probatoria, in modo che non si debba provare
il comportamento di ogni singolo soggetto.
Ma questa presa di posizione suscita delle perplessità
addirittura costituzionali, come il rispetto del principio di
precisione, di quello di colpevolezza, data l’ombra di una
responsabilità oggettiva, il principio di rieducazione o il
principio di uguaglianza.

Le differenze, sul piano naturalistico, sono state sottolineate e


confermate anche dalla giurisprudenza:
- L’autore è colui che realizza la condotta tipica;
- Il coautore ne realizza una frazione;
- Il partecipe realizza il contributo atipico.
L’art 110 c.p. prevede che il concorso punisca tutti gli autori
allo stesso modo, ma fa salve le successive disposizioni di
legge che prevedono delle circostanze aggravanti e attenuanti a
seconda del ruolo delle persone nel reato.

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La struttura del concorso

Affinché si possa parlare di concorso di persona debbono


sussistere i seguenti elementi:

- pluralità di agenti: devono esserci almeno due soggetti;


- realizzazione del fatto di reato: la fattispecie deve essere
consumata oppure tentata;
- valutazione del contributo e prova dell’elemento soggettivo:
si distingue tra contributo materiale e contributo morale.
Sono emerse a riguardo varie teorie. Una prima
impostazione molto garantista dice che il contributo è
rilevante quando è stato condicio sine qua non della
realizzazione della fattispecie, ma questo porta a punire di
meno. Secondo l’impostazione dominante non si può uscire
dallo schema della causalità, perché il contributo del
concorrente sia rilevante, deve essere causalmente rilevante,
ma esiste anche la causalità agevolatrice o di rinforzo, per
cui il contributo è causalmente rilevante, anche come
agevolazione. La giurisprudenza, che è molto punitiva, dice
che anche questo è insufficiente, e vuole che si punisca il
comportamento che ha aumentato il rischio che si
consumasse il fatto, si pensi al complice inattivo e a quello
maldestro, ad esempio. Qua la letteratura sottolinea invece
che esiste una norma base, ossia l’art. 116 c.p., che
riconduce al terreno del rapporto di causalità. Allora la
soluzione, per la giurisprudenza è la causalità agevolatrice,
che è comunque un metro di valutazione più largo rispetto
alla condicio sine qua non. Il concorso morale è esercitato
da un soggetto (istigatore) che fa nascere o rinforza il
proposito criminoso in un altro soggetto (istigato). Il
problema è che il comportamento deve essere valutato come
quello del concorso materiale, ma il giudice deve accertare
il nesso di causalità che passa per la testa delle persone,
ossia la causalità psicologica. Bisogna quindi accertare due
collegamenti:
. il passaggio tra istigatore e istigato, quindi il fatto che
l’istigatore abbia fatto sorgere il proposito criminoso
nell’istigato;
. che cosa ha fatto l’istigatore per determinare l’istigato a
delinquere;
Può succedere anche che l’istigazione non sia rilevante: il
messaggio istigatore non è rilevante quando la persona aveva
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già deciso di fare tutto per conto suo. L’istigatore non può
essere punito nemmeno per il fatto dell’istigato che sia
completamente deviato rispetto al contenuto del messaggio
istigatorio.
Se non sono accertati i collegamenti di cui sopra l’istigatore
non è punibile.
È rilevante il messaggio istigatorio invece quando la nuova
volizione dell’esecutore si manifesta quando è in corso il fatto
voluto dall’istigatore, ad es. Tizio istiga Caio a entrare nella
casa di Sempronio e appropriarsi delle cose che ci sono sul
comodino di Sempronio, ma vedendo quelle cose Caio ruba le
cose sul comodino di Mevio, che vive con Sempronio. In tal
caso la nuova volizione si manifesta dopo ed è una deviazione
minima, non fondamentale.
Se viene fatta un’istigazione il destinatario deve essere
determinato, ma secondo alcuni non è necessario che sia
determinato, ma basta che sia determinabile, ossia faccia parte
di una cerchia di soggetti determinata o determinabile.
Altro problema è l’oggetto dell’istigazione, per alcuni deve
essere nitido affinché sia rilevante, il punto è che l’evento non
nitido può essere individuabile a seconda della struttura, delle
caratteristiche e degli scopi dell’organizzazione.
Il dolo deve essere provato, quello dell’istigatore è per sua
caratteristica ampio, in quanto passa anche per la testa di
un’altra persona.

Svolgimento dell’esame

La prova d’esame sarà articolata in tre domande:

- la prima verterà su una questione molto generale


- La seconda sarà una domanda tecnica
- Analisi della fattispecie
Tendenzialmente le prime due parti si svolgono con gli
assistenti, mentre l’ultima con la prof. De Maglie.

The end
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