Sei sulla pagina 1di 93

Istituzioni di Diritto Penale

Paolo Giulini, criminologo cioè è un esperto che svela i crimini che accendono l’attenzione
dell’opinione pubblica. Da 25 anni svolge un’attività delicata e impopolare, cioè si occupa della
rieducazione del recupero di soggetti condannati per reati sessuali (chiamati sex offender), ovvero
pedofili, stupratori seriali, mariti violenti, persone che soffrono di impulsi sessuali irresistibili.
Questi soggetti una volta usciti dal carcere sono in pericolo, perché nel codice carcerario vige una
legge non scritta che conduce i detenuti a detestare gli autori di questi reati che vengono
considerati reati infamanti. Quindi i detenuti, appena hanno occasione, malmenano, uccidono
questi sex offender. C’è un problema di sicurezza per questi detenuti.
Richiamiamo anche il tema della c.d. recideva, art 99 c.p., disciplina l’istituto della recidiva, è la più
famosa tra le circostanze aggravanti. Se un soggetto compie un furto e si scopre che nella storia
dei suoi precedenti penali ha commesso un altro furto per la quale è stato condannato, il pubblico
ministero può aggravare la sua pena secondo l’istituto della recidiva. La pena prevista per il nuovo
furto viene quindi aumentata per il fatto che il soggetto è già stato condannato in precedenza,
quindi il condannato ha mostrato indifferenza alla prima condanna.
Il compito da criminologo è quello di comprendere il male che si annida nel reato e porvi rimedio.
Giulini ci dice come si possa passare da una situazione di immobilismo ad una situazione di
cambiamento.
Considera le vittime al centro del ragionamento, nel senso che non si può restituire ai violenti la
possibilità di tornare alla società, la risocializzazione, art. 27 c. 3 cost., senza passare dalla giustizia
riparativa che mette al centro proprio le vittime. Art 27 comma 3 della cost. ci dice che la pena
deve tendere alla rieducazione del condannato (del reo), in modo da farlo ritornare nella società.
La chiave di tutto è la riparazione dove per riparare si può intendere tante cose, come il fatto di
aver capito il disvalore del tuo comportamento, che hai risarcito il danno, che vuoi far azioni che
tengano conto dell’esperienza della vittima; si può arrivare anche alla rintegrazione tra il reo e la
vittima.
La giustizia riparativa, è considerata la terza via, aspira a risolvere il conflitto generato dal reato
tenendo conto che il reo e la vittima si possono integrare, si possano parlare, si possano capire,
spiegare e grazie a questi momenti di incontri tutte le sofferenze associate al conflitto possano
spegnersi, ridimensionarsi e quindi placano il tormento e il dolore.
L’incontro tra Reo e vittima è una delle pratiche della giustizia riparativa, non sempre si può
ricorrere a questa soluzione, anche perché la vittima può essere legittimamente non disponibile.
Giustizia riparativa è anche risarcimento del danno, ammissione di colpa, mettere in campo dei
comportamenti che segnalano la percezione del disvalore del reato che si è commesso ma anche
l’intenzione di non fare più del male.
La mediazione è una delle pratiche della giustizia riparativa.
Giulini quindi ci dice che è possibile lavorare su un detenuto anche se ha commesso un reato grave
e odioso attraverso gli strumenti della psicologia, psicoterapia comportamentale, della giustizia
riparativa, e questi strumenti sono indirizzati ad un duplice obiettivo: da un lato evitare la recidiva,
dall’altro, dove possibile, ripristinare un dialogo con la vittima.
Da questa esperienza ricaviamo anche un altro aspetto, che è un aspetto molto importante, che è
quello di associare l’autore del reato in modo indissolubile al reato che ha commesso (es. tu non
sei quel reato, a volte si indentifica una persona per il reato che ha commesso, cioè non si vede
altro al di fuori del reato che ha commesso, sei solo quel fatto di reato). Questa operazione di
riduzione è un’azione molto pericolosa perché quella persona che ha sbagliato e viene punita per il
male che ha fatto, è una persona che ha un potenziale di vita superiore al male che ha commesso.
Vocabolario di base:
La Politica Criminale è l’insieme degli studi e delle riflessioni e delle valutazioni volte a migliorare il
sistema penale. Mentre la criminologia studia la realtà del crimine dell’autore del crimine. Il diritto
Penale studia la legge penale, il diritto che troviamo nel codice penale, per come viene applicato
nelle aule del tribunale. La politica criminale si colloca in una dimensione di pensiero rivolta al
futuro, come posso migliorare l’esistente.
I principi costituzionali in materia penale, sono: l’art 3, art. 25, art. 27, art. 13, art. 76, 77, 117.
Due concetti: la teoria della pena (ad esempio: la recidiva) e la teoria del reato.

La dinamica punitiva. Cioè che cosa succede dal momento in cui si è a conoscenza di una notizia di
reato, la notizia criminis. Quindi si ha la scoperta del fatto di reato da parte delle agenzie di
controllo, sviluppo di un’azione di indagine che porta all’individuazione di un reato, fermo arresto
del sospettato che viene sottoposto a procedimento penale, viene rinviato a giudizio e se non
viene dichiarato innocente viene condannato dopo che la sua colpevolezza è stata acclarata oltre
ogni ragionevole dubbio. Quindi finisce in carcere e viene sottoposto a trattamento penitenziario
volta alla rieducazione e al reingresso nella società.
Quindi ci sono delle fasi del segmento penale:
- la prima fase è la fase delle indagini;
- la seconda fase è la fase del giudizio sull’accusa sollevata del pubblico ministero che ha
individuato in un soggetto il sospettato, il possibile autore del reato;
- se il giudizio esita in una sentenza di condanna che viene confermata e cristallizzata in una
condanna definitiva che non può essere attaccata in nessun grado di giudizio, da nessun appello, si
passa dalla fase del giudizio alla fase dell’esecuzione della sentenza di condanna, quindi alla fase
dell’esecuzione della pena (fase terza).
- Quest’ultima è la fase in cui si cerca di rieducare il condannato. Prendiamo come esempio
“Giulini” che entra in carcere e si parte attiva del trattamento.
- Poi c’è una sperabile quarta fase che è quella della risocializzazione, del ritorno alla vita sociale.

Principio della finalità della pena. La pena perpetua dell’ergastolo rischia di essere ampliamente
discriminatoria perché è il caso che decide se il soggetto potrà dopo X (26) anni può tornare in
libertà. È il caso perché è la variabile legata all’età anagrafica che accompagna il condannato al suo
ingresso in carcere.
Ci sono varie tipologie di ergastolo. La più temuta disciplinata dal comma 4 bis della legge
sull’ordinamento giudiziario è la tipologia dell’ergastolo ostativo, cioè vieni condannato
all’ergastolo ma se vuoi accedere ai benefici penitenziari, come le visite dei parenti o ai permessi
premio o al ritorno alla società dopo 26 anni, solo se tu decida di collaborare utilmente con
l’amministrazione della giustizia. Questo scambio è uno scambio di natura negoziale, un do ut des,
ti do qualcosa solo perché tu mi dia qualcosa, se non mi da nulla in cambio io non verserò un
corrispettivo. Dietro questa logica c’è una scelta di politica criminale, per sconfiggere il fenomeno
della criminalità organizzata si punta sui collaboratori di giustizia (i c.d. pentiti, come ad esempio
Tommaso Buscetta).

I simboli della giustizia:


- la benda: la benda simboleggia la necessità di non tenere conto delle caratteristiche degli
individui. Il giudizio è autonomo e indipendente. Però il giudizio penale deve essere in grado di
vedere, deve essere equi-prossimo, deve articolarsi sulla conoscenza della materia che si tratta.
- la bilancia: è una bilancia greca e questa bilancia ci comunica un’idea straordinaria, un’ideale
dell’armonia legata al concetto di proporzione, quindi giustizia come proporzione. È un simbolo
però che rischia di forviare nella comprensione dell’idea di giustizia. (significato di simbolo: deriva
dal greco dal verbo sumballei, che significa stare insieme, il simbolo è ciò che unisce, nel simbolo ci
troviamo, ci riconosciamo; il verbo opposto significa dividere. I simboli sono importanti perché ci
aiutano ad individuare un significato per i concetti che dobbiamo esprimere).
- la spada: è un’arma che viene impugnata da una donna e segnala una esigenza di protezione,
un’arma che nel diritto penale rinvia alla pena, alla minaccia, all’esecuzione della pena. Il diritto
penale gioca sulla contraddizione del bene e male, per fare del bene devo fare del male. Per
proteggere dei beni giuridici necessariamente devo ledere, offendere altri beni giuridici. I beni
giuridici sono dei valori, è un concetto fondamentale di bene giuridico, ma è una categoria che ci
aiuta a capire qual è il ruolo del diritto penale. Il diritto penale serve a tutelare i beni giuridici. I
valori tutelati dal diritto penale sono: la vita, la salute, la libertà, l’ambiente, l’economia,
l’industria, e per proteggere questi beni, il diritto penale minaccia una pena, che se eseguita porta
ad offendere altri beni giuridici. Quindi il diritto penale è un paradosso, cioè la lesione di un bene
per la protezione di un altro bene.
- il ginocchio protruso: la donna scopre la gamba sinistra e fa vedere il ginocchio. Il ginocchio
indica la misericordia, che è un altro attributo della giustizia, una giustizia che è caritatevole,
misericordiosa. In passato ad amministrare la giustizia era il sovrano che assommava su di sé tutti
e tre i poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario. Era tradizione che potevano appellarsi al sovrano
anche i soggetti condannati e, inginocchiandosi, chiedevano un atto di pietà, un atto di indulgenza.
Se il sovrano acconsentiva, scopriva una gamba e i condannati abbracciavano e baciavano la
gamba in segno di riconoscimento.

1532, anno importante per il diritto penale perché entra in vigore la Constitutio Criminalis
Carolina è un editto fortemente voluto dall’imperatore Carlo V. Carlo V non si sente padrone reale
dell’impero perché all’interno è diviso in ducati, baronati, ecc., e ciascuna porzione di questo
impero è governata da vassalli che esercitano un forte potere locale che sfugge al controllo
centralizzato dell’imperatore. Questa frammentazione si rifletta anche sul modo in cui questi
soggetti locali amministrano la giustizia. Carlo V vuole strumentalizzare il problema della giustizia
per ottenere un accentramento che lo rinsaldi al centro del potere e che gli consenta di
amministrare l’impero in modo omogeneo, piramidale, ottenendo rispetto e osservanza in tutte le
provincie dell’impero. Quindi la giustizia viene utilizzata per omogeneizzare le varie normative
locali che vengono dismesse e sostituite da un’unica normativa centrale incarnata dalla Constitutio
Criminalis Carolina.
Dal 1532 quindi vengono messe da parte le consuetudini locali e prevale solo una legge penale per
tutti. La Constitutio Criminalis Carolina ha l’ambizione di sostituire completamente le normative
locali e Carlo V affida il compito di far osservare questa Costitutio, non ai giudici locali, ma ai
giudici imperiali che dalla capitale vengono inviati per garantire una osservanza e un controllo
anche dei governanti locali. Quindi la giustizia come strumento di controllo politico.
Questa uniformità nell’applicazione del diritto presenta benefici e non benefici. I benefici sono
l’aspirazione a garantire la parità di trattamento e la certezza del diritto, cioè c’è una regola che
vale in tutto l’impero e deve essere rispettata. Ci sono però anche i non benefici perché questo
approccio calato dall’alto, di forte rigore, va a confliggere con una serie di tradizione locali che
nascevano dal basso. Molto spesso infatti gli uomini si facevano giustizia da se, che non sfociava
solo nella vendetta ma anche in una risoluzione amichevole della lite.
Rileviamo una dicotomia, quella fra due ideali di giustizia, una detta egemonica, cioè una giustizia
calata dall’alto, verticistica, top-down, che non ammette spazi di dialogo, ma solo cieca
obbedienza per non mettere in discussione il potere situato al vertice della piramide; e un altro
tipo di giustizia che definiamo giustizia negoziata, fatta di accordi, intesi, scambi, che nasce dal
basso. Entrambe queste forme di giustizia hanno obiettivi simili, vogliono affrontare e risolvere dei
conflitti che nascono dal fatto che ci sono dei beni giuridici che sono stati lesi, messi in pericolo.
Però sono stili di giustizia diversi, che utilizzano mezzi diversi, da una parte la giustizia dei tribunali
che ricorre spesso a pene molto severe, e dall’altra una giustizia informale.
Un esempio di giustizia negoziata è il Truglio Borbonico, siamo in Italia, nel regno delle due Sicilie,
e il Sovrano proponeva ai detenuti uno scambio, cioè proponeva la sostituzione della pena della
reclusione con la pena della galera. Nel tempo reclusione e galera sono diventati la stessa cosa, ma
prima la galera era un’imbarcazione e quindi la pena della galera era la pena del remo, cioè
remare all’interno di una nave dell’imperatore, in pratica si metteva il detenuto ai lavori forzati.
Questo scambio (do ut des) rappresenta un’altra pratica della c.d. giustizia negoziata.
Negli Stati Uniti, la giustizia negoziata, si afferma moltissimo fino ad arrivare ai giorni nostri.
I sistemi inquisitori (civili law) sono caratterizzati dall’obiettivo di ricercare la verità. Anche la
giustizia penale viene interpretata come accertamento della verità. L’organo della verità vi è
rappresentato nel rappresentante dell’accusa.
L’obbiettivo invece dei sistemi accusatori, (common law), cioè quelli che si ispirano alla parità delle
parti tra accusa e difesa, coltivano l’obiettivo nella soluzione del conflitto. La ricerca della verità è
costosa, non sempre porta ad un traguardo accettabile e può esasperare il conflitto, quindi nella
cultura americana si afferma il valore di risolvere il conflitto, che è anche l’interesse primario della
giustizia. Quindi non interessa se la soluzione corrisponde con la verità, è una cosa secondaria. Di
fatti nel sistema americano il giudice è una sorta di arbitro, non interviene mai, i protagonisti della
vicenda processuale sono le parti. C’è anche la giuria ma essa si espone su come si sono espresse
le parti, su come si sono comportate. Ma nella maggioranza dei casi i procedimenti penali si
concludono con un patteggiamento, perché gli imputati non hanno i soldi per una difesa costosa.
Il patteggiamento (Plea Bargaining), quando l’indagato viene arrestato e viene portato di fronte al
giudice per la prima udienza, il giudice gli domanda “come ti dichiari? colpevole o innocente?”, se
l’imputato risponde che è innocente l’imputato andrà a giudizio, se invece l’imputato si dichiara
colpevole si può accedere al patteggiamento. Senza dichiarazione di colpevolezza non può esserci
patteggiamento. Nel 95% negli Stati Uniti c’è una conclusione dei casi con patteggiamento, quasi la
modalità ordinaria della conclusione dei casi.
Mary Faghel, Boston 1830, a livello storico gli Stati Uniti sono di recente formazione e si assiste ad
un periodo di conflitto perché le istituzioni non si sono ancora legittimate, sono ancora nuove. Nel
1830 si assiste a Boston a forti dissidi sociali che derivano da un lato dal fatto che le istituzioni sono
di recente conio e non si sono ancora del tutto legittimante, e dall’altro è che quel periodo è
scosso da moltissimi fermenti sociali, l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la rivoluzione sociale.
Nella società entrano in gioco esigenze diverse. Quindi Faghel trovò negli archivi tanti documenti
che attestano moltissima conflittualità. Scopre che, in particolare, uno dei reati maggiormente
commessi è il reato di furto. Succedeva che gli operai non riuscivano a sfamare la prole, quindi
facevano dei furti, con la conseguenza che se venivano arrestati loro perdevano il lavoro perché
finivano in prigione e non potevano più sfamare la famiglia ed ecco che si sviluppa una soluzione
giudiziaria al problema, cioè è proprio il datore di lavoro a difendere il proprio operaio in caso di
furto, una sorta di padrino, che viene chiamato in causa per cercare di minimizzare la gravità del
fatto commesso, quindi è il datore di lavoro che presta delle garanzie. Quindi attraverso questa
garanzia si trova una composizione della lite, il datore di lavoro è disposto a rifondere il danno alla
vittima. Assistiamo ad una trattativa che ha come effetto la permanenza in libertà dell’operaio che
non perde il lavoro. Da un lato l’operaio diventa un debitore del datore di lavoro in quando l’ha
salvato, dall’altro ad ottenere un effetto positivo è la stessa istituzione dell’amministrazione della
giustizia che è benevole nei confronti dell’imputato. Quindi viene aumentato il quoziente di
legittimazione sociale.
Georg Fisher, 2003, si domanda anche lui (come Faghel) sul perché il patteggiamento è così
diffuso. La risposta che da Fisher è che il patteggiamento è estremamente conveniente, conviene a
tutti. È conveniente perché:
- il giudice: che ha un ruolo importante ma non paragonabile ad un giudice di civil law. E con il
patteggiamento può evitare tutto l’iter burocratico.
- per il PM, pubblico ministero: vige il principio di discrezionalità nel sistema americano, ed
essendo il PM una carica elettiva deve documentare dei successi per essere rieletto. Il
patteggiamento viene considerato un successo, perché innanzitutto c’è stata la dichiarazione di
colpevolezza. E allo stesso tempo si è impedito che i contribuenti americani hanno dovuto pagare
una serie di costi annessi ai ruoli processuali.
Anche imputato è soddisfatto perché va incontro ad una pena contenuta rispetto al rischio di una
pena severa (come può essere la pena di morte) alla quale si espone non colpevole e va incontro al
dibattimento. Anche l’avvocato può ritenersi soddisfatto perché evita i rischi di un processo,
teniamo conto che esistono avvocati che sono solo specializzati nella negoziazione e
patteggiamento.
Però, andiamo ad escludere che l’imputato sia innocente, cioè che se andrebbe a processo
avrebbe ottimo chances di essere assolto. Quindi è una scelta molto delicata, considerando che la
maggior parte delle volte l’imputato sceglie di patteggiare perché non ha i soldi per un processo,
quindi fa una valutazione di opportunità, un’analisi di costi/benefici. La vittima del reato invece
rimane fuori delle trattative, ed ha la sola speranza che i suoi interessi coinvolgano il PM.
La vittima quindi ha tutto l’interesse a procedere con il processo.
Grazie al patteggiamento abbiamo dei soggetti che possono ritersi soddisfatti e altri meno, ma il
soggetto più soddisfatto è l’amministrazione della giustizia, cioè l’intera organizzazione che
procede allo svolgimento delle indagini, all’intercettazione del responsabile del reato,
all’esecuzione della pena, perché ottiene uno straordinario risultato, e un gran risparmio
economico di risorse processuali perché non si celebrano udienze, non si riempiono celle di
prigioni, i tempi di definizioni della lite si accorciano evitando casi di giudizio, le risorse possono
essere dirottate verso casi più impegnativi. La giustizia negoziata quindi presenta pro e contro.
Tutto ciò non succede in Italia perché innanzitutto in Italia vige il principio di legalità, e di
obbligatorietà dell’azione penale quindi quando contesto un capo di imputazione non posso
modificarlo o eliminarlo senza il passaggio di fronte ad un giudice. Negli Stati Uniti invece l’azione
penale è discrezionale, fluida, il PM ha un enorme potere e può modificare i capi d’accusa senza
passare dal giudice.
Il successo del patteggiamento si è esteso in tutti i sistemi processuali, sia di civil law sia di
common law, ed ha raggiungo la giustizia internazionale.

(esempio sul patteggiamento)


Caso Plavsic. Viviana Plavsic è una professoressa universitaria di fisica che assume un ruolo
decisivo nella vicenda della guerra dei Balcani, perché viene individuata dal leader serbo come
presidente della Repubblica, che era una serba all’interno della Bosnia Erzegovina (paese dell’ex
Jugoslavia). Plavsic, da Presidente di questa repubblica, è un leader politico che partecipa
attivamente alla programmazione e all’esecuzione di ordini militari volti a decimare la popolazione
delle Bosnia Erzegovina e a favorire l’assedio delle truppe serbe. Terminata la guerra lei viene
messa sotto indagine e viene processata dal tribunale internazionale per crimini contro l’umanità.
Il PM è Carla del Ponte, magistrato svizzero. Plavsic è disposta a trovare un accordo, quindi
patteggiare. Però ci domandiamo se è possibile patteggiare dinanzi ad un crimine del genere, che
non è né perdonabile e né condannabile, dato che ha condannato la morte di moltissime persone.
In questo caso si è arrivati ad un compromesso, perché la Plavsic convinse Carla del Pone ad
accettare la proposta d’accordo mettendo sul tavolo delle informazioni utili sul piano investigativo.
Proponeva la rivelazione delle fosse comuni che contengono corpi di centinai di vittime. Senza
quelle informazioni noi non avremo dato un volto e un nome a queste vittime.
Il patteggiamento quindi è l’emblema della giustizia negoziata, che è il simbolo di un sistema
processuale ispirato alla ricerca della soluzione del conflitto, ma può essere piegato per ottenere
l’obiettivo dell’accertamento della verità. Grazie al patteggiamento si favorisce una collaborazione
processuale che ci aiuta ad illuminare dei pezzi di storia che altrimenti rimarrebbero nell’ombra.

Il patteggiamento nel sistema procedimentale penale italiano. I tassi record del patteggiamento
che si hanno negli Stati Uniti in Italia sono inarrivabili.
Innanzitutto diciamo che dal punto di vista procedimentale noi abbiamo 3 fasi:
- la fase delle indagini, condotte dal Pubblico Ministero che se raccoglie elementi sufficienti circa la
presunta colpevolezza dell’indagato chiede ad un giudice il rinvio al giudizio;
- qui si apre la seconda fase in cui si discute la fondatezza dall’accusa del PM e il giudice
dell’udienza preliminare che è il GUP (da non confondere con il GIP, che è il giudice delle indagini
preliminari), al GUP è richiesto di svolgere una valutazione prognostica cioè deve fare una
prognosi, una previsione sulle indagini del PM, se il giudice dell’udienza preliminare da una
risposta positiva dispone con decreto il rinvio a giudizio dell’indagato;
- a questo punto si chiude la seconda fase dell’udienza preliminare, l’indagato diventa imputato e
si apre la terza fase, quella del giudizio, quella del dibattimento.
Questo è il procedimento ordinario, ma il legislatore prevede anche una serie di procedimenti
speciali, come il giudizio abbreviato, il giudizio immediato, il decreto penale di condanna e agli
articoli 444 e seguenti del c.p.p. troviamo il rito dell’applicazione della pena su richiesta delle
parti, noto anche come patteggiamento. Quindi sono le parti, il PM da una parte, la difesa
dell’indagato dall’altra che normalmente all’interno dell’udienza preliminare chiedono al giudice di
sottoscrivere un accordo intercorso tra di loro. Quindi le parti negoziano e si mettono d’accordo e
poi presentano un progetto di pena al giudice. Questa interazione nel nostro codice di procedura
penale è sottoposta al controllo giudiziale, al controllo della giurisdizione. Ciò significa che è
sottoposto al controllo del giudice, il giudice esercita la funzione giurisdizionale, svolge un
controllo sulle intese delle parti.
Art. 444 c.p.p. comma 1, “L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice
l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena
pecuniaria, diminuita fino a un terzo, o di una pena detentiva quando questa, tenuto conto
delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena
pecuniaria.”
In primo luogo andiamo a verificare perché l’imputato dovrebbe patteggiare, cioè quali sono gli
aspetti di convenienza per l’imputato. Viene promessa una riduzione di un terzo della pena (come
viene detto nel 1 comma). Altri vantaggi sono ad esempio che non bisogna pagare le spese
processuali, dopo 5 anni se si tratta di delitto esso viene estinto, invece dopo 2 anni se si tratta di
contravvenzione essa è estinta. Però nel 1989, dopo l’approvazione del codice di procedura
penale, si avvertono delle fortissime resistenze di ordine culturale che portano a sollevare delle
questioni di legittimità costituzionale.
Sentenza n. 313 del 1990, una della più importanti sentenze che la corte costituzionale ha scritto
in ambito penale. Relatore ed estensore è Ettore Gallo, professore di diritto penale. L’art. 444
c.p.p. diventa oggetto di una eccezione di una legittimità costituzionale. Si contesta una serie di
articoli della costituzione. La corte costituzione va “ultra petitum”, cioè va oltre quello che era
stato richiesto dai giudici rimettenti cioè quei giudici dai quali proviene la richiesta di censura.
L’art. 444 viene dichiarato parzialmente illegittimo per contrasto con l’art 27 comma 3 della
costituzione ma nessuno dei giudici rimettenti aveva considerato che l’art 444 poteva sovrastare la
finalità rieducativa della pena.
Ettore Gallo si concentra su quello che è il sindacato del giudice sulla proposta di patteggiamento e
vede che al giudice di procedura penale sia richiesto di valutare la correttezza della qualificazione
del fatto e la correttezza del calcolo sulle circostanze aggravanti o attenuati. La correttezza della
qualificazione del fatto, negli Stati Unti dove vige il principio della discrezionalità dell’azione penale
il PM può cambiare il titolo di reato (da rapina può farlo diventare furto, quindi reato meno grave),
in Italia non può succedere. Il giudice vede gli atti di causa e verifica se il nome del reato che è
stato configurato dalle parti corrisponde esattamente al materiale delle indagini. Il giudice è
chiamato a vigilare affinché la rappresentazione delle parti e il loro progetto di pena sia
argomentabile e rispetti i principi costituzionali di legalità e di obbligatorietà dell’azione penale.
Però secondo Ettore Gallo questi presidi sono insufficienti, manca qualcosa, manca l’elemento
della congruità della pena, la pena patteggiata deve essere una pena congrua. Viene richiamata la
necessità costituzionale che la pena debba tendere a rieducare e deve essere ribadito che il
precetto del comma 3 dell’articolo 27 (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e ciò vale tanto per il
legislatore tanto per i giudici della cognizione e dell’esecuzione, della sorveglianza e per le stesse
autorità penitenziarie. Gallo decide con questa sentenza di andare contro un vecchio
orientamento della corte costituzionale stessa, in punto di teoria della pena.
Fino a questa sentenza la corte costituzionale aveva adottato la c.d. teoria polifunzionale o pluri-
funzionalità della pena, veniva riconosciuta alla pena una serie di funzioni e riteneva che le
funzioni della pena dovessero corrispondere esattamente alle 3 fasi della dinamica punitiva:
- la fase legislativa della posizione del precetto e della minaccia della pena, cioè quando io conio
una nuova fattispecie di reato e la inserisco nel codice penale, ed è un compito che spetta al
legislatore;
- poi c’è la fase del giudizio, la fase giudiziale, dove l’attore principale è il giudice a cui è richiesto di
valutare la responsabilità del reato e se è colpevole deve commisurare una pena;
- infine c’è la fase esecuzione della pena, dove entrano in gioco le autorità giudiziarie e il giudice
dell’esecuzione.
La prima fase è c.d. la fase comminatoria. Comminare deriva dal latino “mineo” che significa
minacciare, e l’unico soggetto istituzionale che può minacciare qualcosa è il legislatore. Quindi non
bisogna usare la parola comminare in rapporto alla giurisdizione, il giudice non commina la pena,
solo il legislatore può comminare qualcosa, il giudice applica, infligge, determina. La
comminazione si riferisce alla previsione legislativa.
Quindi secondo la teoria poli funzionale della pena, distinte le tre fasi (comminatoria,
commisurativa ed esecutiva della pena) si devono agganciare a ciascuna di queste fasi altrettante
funzioni della pena. Nella fase comminatoria trionferà la funzione della minaccia, la c.d.
prevenzione generale, la funzione della intimidazione, della dissuasione, ti minaccio perché voglio
che tu abbia paura a commettere quel fatto.
Nella seconda fase, la fase giudiziale dell’applicazione del precetto e della sanzione al caso
concreto, la fase della commisurazione della pena, il giudice è chiamato a fare delle valutazioni e a
decidere quale sia la pena giusta. In questo frangente, secondo la teoria polifunzionale della pena,
entra in gioco la teoria retributiva, cioè provare una proporzione giusta, stabilire un equilibrio tra il
reato contestato e durezza del rimprovero.
Terza fase, quella dell’esecuzione penale, secondo la teoria polifunzionale, diventa il regno della
finalità rieducativa, art. 27 c. 3 costituzione, cercare di riabilitare il condannato.
Ettore Gallo contrasta questa ricostruzione perché ritiene che l’art. 27 c. 3 sia un articolo
fondamentale nell’economia dei principi costituzionali in materia penale, quindi ritiene riduttivo
che possa riguardare solo la fase dell’esecuzione. Il principio della finalità della pena è talmente
importante che illumina dei suoi effetti anche la fase della commisurazione e la fase della
comminazione. Quindi si deve sempre tener conto della rieducazione del condannato in tutte le
fasi. Gallo sostiene che la pena deve essere congrua, proporzionata alla rieducazione del
patteggiante. La dichiarazione di illegittimità costituzionale discende dal fatto che il legislatore del
1989 non abbia inserito tra i criteri che il giudice deve sorvegliare nella valutazione della
correttezza e validità del patteggiamento, il criterio della proporzione e della congruità della pena
patteggiata rispetto alla finalità rieducativa della pena.
A seguito di questa sentenza, l’articolo 444 c.p.p. e seguenti sono stati riformati e troveremo tra i
criteri che devono valutare il giudice anche il criterio della congruità della pena.

Il principale nemico del patteggiamento è la prescrizione. La prescrizione è una causa di estinzione


del reato che sanziona l’inutile decorso del tempo, passati tanti anni l’interesse a punire viene
meno.
Quindi l’indagato deve valutare se patteggiare o aspettare che la causa vada in prescrizione. Negli
Stati Uniti la prescrizione non esiste e anche per questo motivo è così forte il patteggiamento.
Quindi reati, pene, interessi dell’amministrazione della giustizia cioè economia della giustizia e poi
il quarto punto sono gli interessi della vittima, che oggi è al centro delle considerazioni del sistema
penale che è un sistema vittimo centrico.

IL SIGNIFICATO DELLA PENA.


Il primo autore a cui ci colleghiamo per comprendere il significato della pena è Friedrich
Nietzsche. Friedrich Nietzsche è un filosofo, scrive un libro “Genealogia della morale. Uno scritto
polemico” e alcune parti del libro sono dedicate alla pena e al significato della pena.
Secondo Nietzsche il concetto di pena non presenta più un unico significato, ma un’intera sintesi di
significati; la precedente storia della pena in generale, la storia della sua utilizzazione ai fini più
diversi finisce per cristallizzarsi in una sorta di unità, che è difficile ad analizzarsi e del tutto
impossibile a definirsi.
Nietzsche ci dice che è impossibile definire il concetto di pena. Per comprendere quanto sia
incerto il significato della pena e di quanto una sola procedura possa essere utilizzata in propositi
radicalmente diversi determina uno schema. “Pena come neutralizzazione di pericolosità, come
impedimento di un ulteriore danno. Pena come risarcimento del danno al danneggiato. Pena come
isolamento di un’alterazione d’equilibrio, per prevenire un propagarsi di alterazione. Pena come
una sorta di compensazione per i vantaggi che il delinquente ha goduto fino a quel momento.
Pena come segregazione di un elemento in via di degenerazione. Pena come festa e derisione di
un nemico finalmente abbattuto. Pena come uno scolpire nella memoria, sia per colui che subisce
il castigo, sia per i testimoni dell’esecuzione. Pena come corresponsione di una retribuzione,
riservatasi dalla potenza che tutela il malfattore dagli eccessi della vendetta. Pena come
compromesso con lo stato di natura della vendetta. Pena come dichiarazione di guerra e misura di
guerra contro un nemico della pace, della legge, dell’ordine, dell’autorità.”
Quindi Nietzsche ci dice quali e quanti possono essere i significati della pena. Si rende conto come
la pena possa essere funzionalizzata, strumentalizzata per conseguire degli obiettivi, degli scopi,
scopi di varia natura. Questi scopi si riducono essenzialmente a due, che vengono definiti la
prevenzione generale e la prevenzione speciale.
Si ricorre alla minaccia della pena per scoraggiare la generalità dei destinatari del precetto penale
dal commettere un reato, questa è la prevenzione generale che fa leva sull’elemento della
minaccia volta ad impaurire il destinatario del comando o del divieto; se commetti quel
comportamento configurato dal legislatore come reato le conseguenze su di te sono delle
conseguenze sanzionatorie e severe.
Prevenzione speciale, qui non ragioniamo più sulla fase della minaccia ma sulla fase
dell’applicazione della pena, un soggetto minacciato non ha ascoltato il legislatore e ha commesso
un reato, è stato scoperto, è stato messo sotto processo penale, è stato condannato con sentenza
passata in giudicato. Prevenzione speciale perché non si rivolge a tutti i destinatari del precetto ma
solo al soggetto che ha trasgredito un precetto, si rivolge solo a lui. La prevenzione speciale coltiva
l’obiettivo che troviamo nell’art. 27 c. 3, l’obiettivo è la rieducazione del condannato. Questa
rieducazione non è fine a se stessa ma punta a evitare, scongiurare la recidiva, cioè la ricaduta nel
reato, la reiterazione nel reato.

Un altro autore Emile Durkheim, è uno dei padri della sociologia ed è un pensatore nella quale in
alcune sue opere si domanda sul perché punire.
La minaccia della pena, prevenzione generale, serva a scoraggiare i cittadini dal realizzare dei reati,
noi non abbiamo la prova che i destinatari del precetto (es. non uccidere) si regolano di
conseguenza perché vengono puniti con una sanzione. Alcuni soggetti non uccidono, non perché
conoscono l’articolo del codice penale, ma non uccidono magari perché conoscono il
comandamento, o perché ripugnano l’uccisione del prossimo. Noi rispettiamo la legge non perché
abbiamo paura della sanzione che interviene in caso di trasgressione, ma la rispettiamo perché la
legge trasmette un messaggio indivisibile, esprime un valore, il quale noi ci identifichiamo. Inoltre
noi non abbiamo la prova che più pene si minacciano e più registriamo un calo di reati. Non esiste
una correlazione diretta tra minaccia di pene severe e calo della criminalità, lo dimostrano quegli
ordinamenti in cui si arriva a minacciare pene severissime, però non si registra un decremento
delle pene di reato, ma anzi un aumento. Ad esempio pensiamo agli Stati Uniti, è presente la pena
di morte ma si continua a commettere reati, la pena di morte non scoraggia i destinatari dei
precetti.
Per Durkheim si punisce per mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza
comune tutta la sua vitalità. “La funzione della pena non è quella di fare scontare al colpevole la
colpa facendolo soffrire, né di intimidire con mezzi comminatori gli eventuali imitatori, bensì di
rassicurare quelle coscienze che la violazione della norma ha potuto, ha dovuto necessariamente
turbare nella commissione del reato. La sofferenza è solo un contraccolpo della pena, non è
l’elemento essenziale.”
La funzione della pena è quella di riaffermare la validità di un precetto trasgredito. Ogni volta che
viene commesso un reato la coesione sociale si incrina, va a mettere in discussione i valori. Quindi
è proprio con il procedimento penale, la condanna dell’omicida serve a riaffermare i valori nella
società. La pena svolge una funzione placativa, ma questa funzione placativa, rassicuratrice della
pena, nel pensiero di Durkheim, passa dentro un canale, un canale rappresentato dai riti
processuali. I processi per Durkheim sono delle liturgie, hanno le loro regole, i loro codici interni.
Sono così importanti perché attraverso il processo penale che le persone spaventate dalla notizia
che c’è stato un reato possono essere rassicurate. Nella teoria di Durkheim la rassicurazione
sprigionata dal rituale serve a tranquillizzare sul fatto che il trauma del reato è stato assorbito dal
sistema, che i valori messi in discussione siano stati confermati, e quindi i rituali rilasciano potenti
dosi di coesione sociale; l’ordine è stato ripristinato, i valori rimangono integri.
Questa teoria di Durkheim è stata sottoposta a delle critiche. La pena come procedura morale, i
sentimenti morali ne costituiscono il motore. Il compito della pena viene individuato nell’ordine
morale violato. Le forme della pena, i rituali, simbolizzano ed esprimono sentimenti morali e
passioni. La pena è un circuito morale che produce solidarietà sociale incanalando l’energia dei
sentimenti collettivi in un processo circolare di riconoscimento e di conferma di quanto vi è di più
sacro alla base della società.
I punti deboli: questa teoria presuppone l’esistenza di una larga coscienza collettiva, oggi in una
società pluralista, complessa, frammentata, una coscienza collettiva arranca ad esistere.
George Mead, il padre dell’integrazionismo simbolico, nel 1918 scrive un saggio “la psicologia della
giustizia punitiva, Mead critica la posizione di Durkheim perché ritiene che i rituali in realtà non
servano come intende Durkheim a costruire i sentimenti, a suggerire cosa sentire di fronte ad un
reato o ad una pena, in realtà i rituali sono pericolosi perché comporta la scomparsa delle
inibizioni, si sente parte di un gruppo, il gruppo di assistere, e nell’essere parte di un gruppo i
nostri freni inibitori si allentano e si può scatenare un’aggressività nei confronti dell’indagato e
nell’imputato di turno. Questa aggressività porta con sé un rischio molto pericoloso, cioè che
l’indagato o l’imputata di turno venga trasformato dalla collettività nel capro espiatorio. I rituali
quindi non rinforzano una moralità che già esiste ma contribuiscono a crearla, producono e
organizzano emozioni, svolgono una didattica dei sentimenti, modellano la sensibilità individuale,
ci fanno apprezzare un senso di piacere e gratificazione che deriva dall’avere un nemico comune
che genera coesione sociale. Viene prodotta ostilità che impedisce di trattare con equilibrio le
vicende penali, le cause del reato e del crimine e su quale possa essere la pena più appropriata.
Quindi riassumendo, Durkheim ci fa apprezzare il rilievo dei sentimenti morali nell’idea di giustizia,
il ruolo giocato dai rituali nel contenere le tensioni sollevato da un reato e nel riportare l’ordine
attraverso il processo che deve riaffermare i valori e a produrre coesione sociale. Ma Mead
sostiene che questi rituali alimentano la tensione perché abbattano le inibizioni e scatenano le
ostilità.
Quindi in un processo penale ci sono anche fattori esterni, come i mass media, la pressione del
pubblico.

Altro autore. Michel Foucault, filosofo Francese, scrisse dei libri sul carcere ma anche su quelli che
lui definisce universi concentrazionari, cioè dei luoghi di reclusione, luoghi in cui si svolge una
funzione di custodia e di controllo. Uno dei testi più famosi di Foucault è “sorvegliare e punire”.
In uno dei suoi racconti ci parla di un supplizio pubblico, una esecuzione sul patibolo alla quale
assistono centinaia di persone, di un ragazzo che ha ucciso il proprio padre. Viene quindi
condannato e viene eseguita una pena che non si limita ad ucciderlo, non è la classica pena di
morte, ma la morte viene preceduta dalla tortura che ha l’obiettivo di infliggere dei dolori atroci
prima della morte.
In un altro racconto ci descrive la vita del carcerario. Quindi abbiamo un racconto di un supplizio e
un impiego del tempo, a distanza di 70 anni l’uno dall’altro. Non sanzionano gli stessi crimini, non
puniscono lo stesso genere di delinquenti, ma ciascuno definisce bene un certo stile penale. È
l’epoca in cui tutta l’economia del castigo viene redistribuita, in Europa e negli Stati Uniti.
Assistiamo all’estinzione dei supplizi pubblici e vengono sostituiti dall’avvento del carcere. Quindi il
carcere assiste ad una distribuzione dilagante. Assistiamo al tramonto della punizione, intesa come
pubblico spettacolo esercitato sul corpo del condannato, e dalla nascita della prigione come forma
generalizzata di punizione moderna. Assistiamo a questa rivoluzione perché abbiamo una
sostituzione di una tecnologia punitiva con un’altra, dal patibolo al penitenziario, di fatti prima i
soggetti venivano eliminati fisicamente, adesso rimangono in vita ma non circolano più per le
strade, ma vengono inseriti nei circuiti penitenziari; assistiamo al cambiamento del bersaglio,
mentre prima la pena patibolare, l’esecuzione, era uno spettacolo pubblico, adesso non succede
più perché il carcere consente di concentrare l’attenzione nel corpo del condannato (che era il
bersaglio dell’esecuzioni pubbliche) e anche e soprattutto nello spirito, nell’anima, ciò si ricollega
anche alla rieducazione, si afferma un ideale di riforma della psiche. In questo modo posso andare
a controllare i movimenti del detenuto così da studiarlo, quindi raccogliendo delle informazioni
che mi servono per esporli a trattamento affinché cambino atteggiamento.
Nell’epoca premoderna non si assiste ad una sensibilità che faccia apprezzare il valore della vita
umana per come lo apprezziamo oggi, la morte è un fatto normale, il tasso di mortalità era
altissimo. Uccidere non comportava neanche un danno per la forza lavoro, perché la manodopera
costava molto poco, ucciso un lavoratore se ne trovava un altro. Tutto ciò che veniva fatto al
corpo, anche la tortura, non era ritenuto molto importante perché veniva considerato importante
la salvezza dell’anima. Però mutando i tempi muta la percezione del valore del corpo, muta il
valore della manodopera, si assiste ad una crescente secolarizzazione che porta a riconoscere
l’importanza delle sofferenze e poi al mutamento delle sensibilità, si afferma la civiltà delle buone
maniere. Cominciamo a percepire l’affermazione di sensibilità che determinano disgusto e disagio
alla visione della sofferenza pubblica.

Nel 1700, secolo fondamentale per il diritto penale, abbiamo l’avvento del pensiero illuminista. Gli
illuministi si fanno paladini della civiltà, anche i condannati hanno dei diritti. Sostengono che anche
la fase dell’esecuzione della pena sia caratterizzata da razionalità, uniformità, misura, proporzione,
efficacia del trattamento punitivo. Bisogna bandire gli eccessi. Quindi viene meno la pubblicità dei
supplizi, la popolazione gode di un sentimento di serenità in quanto non sono più esposti a
torture, a sangue; si riacquista tranquillità. Nel secolo dei lumi, con le proprie riforme, difende il
successo dell’approccio disciplinare. Nell’economia della pena la disciplina acquista un ruolo molto
importante. La permanenza nel carcere consente attraverso il ricorso alla disciplina, cioè una
regolamentazione minuziosa della giornata del detenuto, di conoscerlo per trasformarlo; ciò è
chiamato da Foucault la microfisica del potere disciplinare. Anche la disciplina secondo Foucault è
una pratica di potere, sul corpo e sull’anima del condannato, per governare questi soggetti privati
della loro libertà personale e volgerli a realizzare degli scopi di utilità sociale.
Accanto a questa rivoluzione illuministica troviamo anche il movimento positivistico, che sostiene
la necessità di uno studio sistematico delle cause del crimine e degli scopi della pena. Il carcere
funge da laboratorio perché consente di osservare, analizzare, i movimenti, gli atteggiamenti e i
costumi dei detenuti lungo la giornata, mesi e anni.
Il 18esimo secolo ha dato vita alle libertà con una base disciplinata da cui dipendiamo ancora oggi.
La nascita della prigione va pari passo con l’approccio disciplinare, che punta ad addestrare il
corpo verso un’anatomia politica del dettaglio. Inoltre normalizza la devianza, perché si vuole
controllare, attraverso il carcere, i comportamenti del detenuto in modo tale da ridurre il rischio di
recidiva.
Abbiamo un risvolto interessante sotto il profilo dell’architettura carceraria, cioè ci si prefigge di
costruire le carceri in modo da consentire e favorire il controllo sul corpo dei detenuti.
Jeremy Bentham, è un filosofo utilitarista, il quale modella una soluzione architettonica per
consentire un controllo minuzioso sui movimenti dei carcerari. L’idea è quella di un corpo centrale
che consente di ispezionare e vedere tutti i detenuti che sono disposti intorno al controllore.
Quindi il controllore può vedere tutti ma i detenuti non si possono vedere, questo modello c’è
anche al carcere di San Vittore. Questo progetto viene chiamato da Bentham Panopticon.

Le caratteristiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: importanza della riforma penale
(illuminismo) e della correzione; la propensione a migliorare invece che a distruggere, si cerca di
modificare i corpi non più eliminarli; imbarazzo rispetto alla violenza manifestata in pubblico;
gestione dell’esecuzione penale, sorgono nuove professioni come la polizia penitenziaria, il
direttore del carcere quindi c’è un approccio manageriale; il rapporto con il nuovo stile di giustizia
penale che viene esercitato non solo nel corpo ma anche nell’anima.
Noi ci troviamo di fronte a due poli che entrano in conflitto tra di loro, e che ancora oggi sono
presenti. Da un lato il desiderio di punire passionale e moralmente connotato, questo desiderio c’è
stato raccontato da Durkheim, le emozioni, i sentimenti scossi dal crimine e scossi dall’esecuzione
della pena. Dall’altro lato assistiamo all’emersione di un altro pilastro ideologico, cioè l’interesse
razionale a cercare di ridurre la devianza, ad una gestione manageriale della criminalità. Quindi da
un lato la passione e dall’altro la gestione.

Joel Feinberg, ci aiuta nell’analisi del meccanismo politico. Si occupa della funzione espressiva
della pena, in questo scritto induce a riflettere sulla necessità di disaggregare, di dividere, il
momento punitivo in due fasi. Una fase è la sfera del giudizio, l’altra fase è la sfera dell’esecuzione
della sanzione associata a quel giudizio. Tenere insieme questi due momenti comporta delle
conseguenze negative che ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Perché se io riesco ad isolare
i due momenti (il momento del giudizio dal momento della pena) io ottengo un intervallo che mi
da tempo per riflettere su quali siano le misure sanzionatorie più appropriate.

Elias Canetti, scrittore, ci dice chi è il soggetto che detiene il potere. È un soggetto che non vuole
essere potere, non si fa toccare ma vuole poter toccare tutti gli altri. Chi esercita il potere vuole
poter toccare, cioè entrare nella sfera privata degli altri ma non vuole essere toccato. Il potente è
tale perché fa di tutto per sfuggire alla morte. Non vuole essere toccato nemmeno dalla morte.
Canetti racconta di alcune popolazioni che combattevano tra di loro e alla fine della battaglia il
capo vincitore andava a squartare il corpo del capo che aveva perso la sfida, traeva fuori il cuore e
lo divorava. Il potersi cibare del cuore conferisce maggiore forza al capo della tribù antagonista. Il
potere fa di tutto per sfuggire alla morte. La morte è una livella, perché equipara tutti.
Rapporto potere morte è un rapporto fondamentale, nel pensiero di Canetti si lega a questo
rapporto il concetto di massa, io devo poter controllare la massa, devo poter gestire un numero
ampio di persone.
L’irruzione della disciplina nel sistema carcerario (Foucault) che conseguenze porta? Che
caratteristiche ha? Innanzitutto accanto alla dimensione di una giustizia penale pulsante, di
emozione, di forti reazioni innescate dal reato, abbiamo all’opposto una forte enfasi sulla
razionalizzazione del sistema penale connesso alla disciplina; mettiamo da parte le emozioni e
trattiamo razionalmente le cause del crimine e gli effetti della pena.
Le caratteristiche salienti sono:
- creare sistema penali capaci di gestire in maniera soddisfacente un numero sempre più
consistente di autori di reato;
- il processo di razionalizzazione della pena deve soddisfare questa prima esigenza.
- Inoltre il carcere per essere individuato come la camera di compensazione nella quale alloggiano
gli output del sistema della giustizia, i condannati, occorre dotarsi di un sistema amministrativo di
gestione della fase esecutiva.
Ecco la possibilità di censire processi di centralizzazione e di professionalizzazione (es. corpo di
polizia penitenziaria, medici e psicologi penitenziari). Il carcere porta con sé una serie di esigenza
che richiedono di essere soddisfatte, quindi nascono delle figure professionali nuove. Questa
razionalizzazione della pena, orientata verso degli obiettivi razionali, presenta dei vantaggi, perché
ho bisogno di una serie di figure che assicurano precisione, velocità, chiarezza, conoscenza della
documentazione, unità, costi. Questi sono dei vantaggi che associamo al concetto di disciplina. Ci
sono però anche dei svantaggi, la disciplina, la burocratizzazione, porta ad un rischio gravissimo,
cioè la disumanizzazione degli apparati che esercitano l’ufficio dell’amministrazione della giustizia,
che nella routine della burocrazia, un compito esercitato senza amore, senza entusiasmo. Per il
rischio della disumanizzazione chiamiamo in causa Bauman, sociologo, che nel libro Modernità e
olocausto (1989), disumazione in riferimento alle carceri. Bauman chiama in causa a sua volta
Hannah Arendt che scrive la “Banalità del male”. Il cambio istantaneo di personalità, cioè passare
da una personalità benevola ad una maligna, avvengono principalmente in ordinamenti che hanno
ripudiato un sistema di convivenza civile basato sulla democrazia, nei quali invece si è affermato
un regime totalitario o autoritario.
La soluzione del carcere esprime un approccio disciplinare regolamentare. Il principale
inconveniente del carcere è la disumanizzazione che discende da approcci burocratici seguiti nella
gestione del sistema carcerario. Richiamando il libro Modernità e olocausto di Bauman, nella quale
ci dice che i sistemi democratici sono sistemi pluralisti cioè sistemi che adottano uno sguardo laico
rispetto al concetto di verità, ritengono che non esista una verità ma che il sistema di valori che è
destinato ad affermarsi come maggioritario possa valere sugli altri in quanto questa prevalenza
discenda da un libero concorso di idee. Quindi in un certo senso viene incoraggiato il dissenso.
Mentre il dissenso nei sistemi dittatoriali viene percepito come pericoloso perché si teme che il
dissenso possa sovvertire l’ordine costituito, a sovvertire il potere. Allora il dissenso viene represso
in modo violento, evitando la circolazione di idee alternative.
Possiamo fare un parallelismo con il processo accusatorio, dato che la caratteristica fondamentale
è data dal contraddittorio tra le parti, è il contraddittorio che caratterizza la democrazia pluralista.
Bauman commenta un esperimento di psicologia sociale, l’esperimento di Milgram. “Il pluralismo
è la migliore medicina preventiva contro la possibilità che individui moralmente normali
commettano azioni moralmente anormali. I nazisti dovettero distruggere quanto sopravviveva del
pluralismo politico prima di poter mettere in atto progetti come quello dell’Olocausto, che
richiedevano come risorsa necessaria la prevista disponibilità della gente comune a compiere
azioni immorali e disumane. Nell’Unione Sovietica la sistematica distribuzione dei reali o presenti
avversari del sistema cominciò effettivamente solo dopo che erano stati estirpati i residui
dell’autonomia sociale, e con essi quelli del pluralismo politico che ne era un riflesso. A meno che il
pluralismo non sia stato eliminato a livello della società nel suo complesso, le organizzazioni aventi
scopi criminali, che hanno bisogno di garantirsi l’infaticabile obbedienza dei propri membri
nell’esecuzione di azioni palesemente immorali, sono gravate dal compito di erigere solide
barriere artificiali che isolino quei membri dall’influenza “moderatrice” della diversità dei valori e
delle opinioni. La voce della coscienza morale individuale si ode meglio nel rumore della
discordanza politica e sociale.”
Questo messaggio ci suggerisce come ad esempio i nazisti sono stati prima impregnati di una
ideologia che non ammetteva critiche e successivamente è stato messo nella condizione di
mettere azioni anormali. Da questa esperienza ricaviamo l’impegno di un sistema democratico che
deve sempre essere alimentata, e che la burocrazia annulla l’umanità delle persone perché
attraverso una serie di meccanismi priva di umanità l’essere umano (es. gli ebrei venivano chiamati
in un certo modo, ovvero “sotto uomini”).
Anche il sistema carcerario è retto dalla disciplina e da un approccio burocratico.
Bauman commenta anche l’esperimento di Milgram che si tratta di un esperimento di questo
scienziato sociale (Milgram) che pubblica su un quotidiano americano una proposta, un’offerta di
lavoro, si da notizia di un esperimento per l’apprendimento e la formazione dei giovani e si
reclutano dei candidati che si rendono disponibili per questo esperimento. Si ottengono numerose
candidature. Questi candidati vengono fatti sedere e dinanzi a loro hanno una pulsantiera
collegata ad un filo elettrico. L’esperimento prevede che il candidato prema i pulsanti e inneschi
una piccola scossa che raggiunge un altro soggetto (la cavia) il quale sta leggendo un libro. Verrà
colpito da questa piccola scossa ogni volta che commetterà un errore di lettura. L’idea superficiale
dell’esperimento è che attraverso questa scarica il soggetto che legge viene educato a porre
maggiore attenzione e quindi fare meno errori. L’esperimento prevede però che se la cavia ripete
l’errore il voltaggio aumenta. Quindi inizia l’esperimento e la maggior parte dei candidati iniziano
ad infliggere delle scosse sempre maggiori quando commettono degli errori di lettura. Quello che
si registra è che i candidati infliggono sofferenze gratuite al prossimo. Solo qualcuno quando vede
che il voltaggio aumenta si fermano per non infliggere dolore. Gli altri che hanno continuato si
sono appellati al rispetto delle regole dell’esperimento.
Un altro esperimento è l’esperimento di Philip Zimbardo, è un esperimento di psicologia sociale, i
candidati venivano distribuiti in due sfere di impegno, si voleva riprodurre l’esistenza di un
carcere, alcuni indossavano le vesti della pulizia penitenziaria, altri quella dei detenuti.
L’esperimento dovette essere interrotto dopo pochi giorni, perché i soggetti che rappresentavano
la polizia penitenziaria si erano calati nella parte talmente tanto che si registravano delle violenze
gratuite. Anche qui notiamo che si allentano i freni inibitori, le persone si rendono responsabili di
aberrazione.
Quindi come disse Hannah Arendt che all’origine dei totalitarismi non c’erano malati di mente ma
quelle atrocità che venivano poste in essere sono state commesse da persone normalissime,
quindi ciascuno di noi può commettere un crimine se vive in un sistema totalitario con un
approccio burocratico, in un sistema dove non è possibile formarsi una coscienza critica.

L’approccio disciplinare negli anni si è infiltrato e ha modificato radicalmente il sistema penale, in


particolare il sistema della pena carceraria. Una prima novità inerente alla razionalizzazione delle
pene, riguarda la mentalità degli operatori del campo penale, cioè di tutti quei professionisti che
operano all’interno del sistema della giustizia penale (poliziotti, avvocati, magistrati, giudici) è di
smettere di utilizzare una comunicazione che riguarda il reato e la pena in termini di oltraggio
morale, passioni punitive, vendetta, si assiste ad una sterilizzazione del linguaggio, ad una
razionalizzazione delle parole che comunicano sentimenti morali e si registra il tentativo di
neutralizzare l’emotività del crimine e del processo e di sostituirla con un’azione professionale che
allontanano i sentimenti e le passioni lasciandoli all’opinione pubblica, ai mass media e alla visione
dei processi in tv.
Una seconda novità riguarda il processo di burocratizzazione che viene raccontato come un
processo di grande civiltà quando invece rischia di essere un processo disumanizzante, cioè l’idea
di emanciparsi dalle passioni e di affrontare il problema del reato e della pena in termini razionali
viene rappresentato come un obiettivo capace di tutelare le ragioni del reo, del condannato,
perché questa distanza emotiva evita che nei confronti del reo si assumono degli atteggiamenti dei
sentimenti di vendetta. Prima invece tra la comunità e il reo veniva mantenuto in vita un dialogo
anche conflittuale ma non arrivava immediatamente all’espulsione, si potevano verificare dei
fenomeni di esilio, ma il carcere interrompe qualunque tipo di comunicazione fra la società e il
detenuto. Questo distanziamento è accompagnato dal successo degli esperti.
Caratteristiche che connotano il fenomeno burocratico: la rimozione delle pene dalla sfera
pubblica, si è passati dal sistema dei supplizi pubblici alla costruzione delle carceri fuori dai centri
abitati; si rinuncia a dare al pubblico una coscienza sistematica della realtà della pena; delega agli
esperti del trattamento punitivo; marginalizzazione delle critiche al sistema penale; promozione di
altri valori (calcolo costi-benefici, efficacia delle politiche di controllo).
C’è uno strettissimo rapporto tra pena e cultura, cioè i modi di pensare non della singola persona
ma dell’intera opinione pubblica, c’è un dialogo continuo tra pena e cultura, non è una visione
unilaterale, c’è una reversibilità dei rapporti. Le istituzioni penali sono dei sistemi di poteri, ma
sono anche dei sistemi che esprimono cultura e messaggi. Proprio tra il rapporto tra cultura e pena
sulla nostra sensibilità c’è la privatizzazione degli eventi perturbanti, cioè la “messa dietro le
quinte” del sesso, della violenza, delle funzioni organiche, della malattia, del dolore e della morte.
La sofferenza viene isolata e nascosta perché viviamo in una società analgesica, una società che
rifugia il dolore e ricerca il piacere. Uno dei tratti tipici delle società moderne sta proprio nella
sopraffazione della violenza alla vita pubblica quotidiana. Quindi si procede verso la sensibilità, e
comincia una pratica di bonifica del linguaggio penale e di nascondimento della sofferenza.

A cavallo tra gli anni 70 e 80 assistiamo ad una svolta politica che si riflette anche nel perimetro
dei fatti di rilevanza penale. Negli Stati Uniti si passa dalle presidenze democratiche alle presidenze
repubblicane. Arriva Ronald Reagan negli Stati Uniti, invece nel Regno Unito arriva Margaret
Thatcher. Negli Stati Uniti questo passaggio porta una diversa visione della materia criminale, fino
agli anni 70 c’era un fermento culturale, progressista di sinistra che portava a leggere il fatto di
reato non solo come l’effetto dell’azione di una persona che delinque ma anche come una
conseguenza di una corresponsabilità della società, quindi la società si doveva far carico del
criminale; tutto ciò viene messo da parte con i repubblicani perché l’opinione pubblica comincia ad
avvertire con disagio l’esperienza del crimine, il disagio è dettato dalla presunzione che i soldi spesi
per riabilitare i condannati siano soldi inutilmente investiti perché i reati non diminuivano
malgrado i soldi che venivano spesi per questi soggetti. Quindi la critica alla rieducazione serve alle
amministrazioni repubblicane per portare avanti l’idea del c.d. stato minimo. Per stato minimo
intendiamo l’idea di uno stato liberale e liberista che non intende inserirsi nella vita dei cittadini se
non per il necessario. È proprio un’idea opposta coltivata dalle amministrazioni di centro sinistra,
del welfare state, stato assistenziale. L’idea dello stato minimo è quella di abbassare la pressione
fiscale ma anche ritirare la presenza dello stato nelle scelte di politica sociale. Quindi assistiamo
nelle politiche penali allo spostamento verso il libero mercato. Il rapporto tra economia e pena è
un rapporto molto stretto, questo rapporto interpella un altro soggetto, la politica.
La tarda modernità ha comportato la precarizzazione dei rapporti di lavoro; la riconfigurazione dei
nuclei familiari, si è passati da famiglie numerose a famiglie mononucleari perché viviamo in un
contesto economico che non avvantaggia la natalità; assistiamo alla riorganizzazione dell’ecologia
sociale cioè ad una ricostruzione delle comunità, delle città, fenomeni di urbanizzazione; la
diffusione dei mass-media; lotte di emancipazione democratica; individualismo morale, c’è una
minore disponibilità a farsi carico del prossimo, c’è una maggiore attenzione su se stesso.
Dagli anni ’70 in poi assistiamo in USA alla trasformazione in campo penale . (Garland). Questi
cambiamenti sono:
- l’aumento vertiginoso dei tassi di carcerazione;
- aumento del ricorso alla pena di morte, nonostante ciò i tassi di criminalità non sono scesi;
- victims impact statements, cioè una novità è stata dare voce alla vittima dandole un microfono e
darle la possibilità di scrivere delle richieste di pena che vengono consegnate ai giudici;
- nel sistema americano esiste un sistema di commisurazione della pena (con delle ascisse e
ordinate) che porta a valorizzare una serie di elementi e a irrogare delle pene severissime nei
confronti dei recidivi, vale la legge che se si commette tre infrazioni al sistema penale, anche lievi,
ci si espone a sentenze di condanne a vita (leggi draconiane);
- il minore deve essere trattato come un adulto in ambito penale;
- compaiono le carceri penali, quindi vengono stipulati dei contratti con dei privati che gestiscono
le carceri;
- si assiste anche alla comparsa di sanzioni reputazionali che si aggiungono alle sanzioni classiche,
ad esempio sui giornali compaiono le foto e i nomi dei reati sessuali;
- assistiamo in alcuni stati alla reintroduzione di pratiche di incatenamento e si ridiscute per
ritornare alle pene corporali;
- abbiamo anche il declino delle idee riabilitative e del correzionalismo, cioè l’idea fosse
corresponsabile nella produzione del crimine e si facesse carico del reo dandogli un’altra chance;
- ricompaiono misure apertamente retributive, di giustizia espressiva, cioè farsi giustizia da soli;
- la vittima da soggetto marginale diventa un soggetto centrale, un processo smette di essere visto
come pubblica accusa e difesa e alla vittima viene assegnato più spazio;
- la politica penale diventa tema di confronto pubblico;
- la politica criminale viene politicizzata cioè anche i politici si interessano al mondo penale
andando a garantire maggiore sicurezza e un maggior ricorso al carcere, ma anche attraverso una
prevenzione primaria cioè per prevenire il crimine i primi a doversi impegnare sono i cittadini;
- la commercializzazione del controllo del crimine, nel controllo crimine vengono coinvolti anche
soggetti privati;

Fatte queste premesse e ricordato che nel campo penale risiedono due polarità in tensione tra
loro, una emotiva e una razionale, vediamo come nel campo penale si è reagito alla tarda
modernità.
Noi registriamo due tipologie di reazioni, una prima tipologia di reazione è ispirata dalla polarità
razionalizzante, burocratica, manageriale, ed è una reazione che chiamiamo amministrativa e che
si caratterizza per la scelta di non contrastare ed opporsi alle trasformazioni della tarda modernità
ma per cercare di adattarsi a queste trasformazioni. Cioè se la scelta dello stato è quella di fare un
passo indietro, verso un passaggio di politiche neoliberiste, l’effetto di questo passo indietro è una
riduzione delle risorse investite nel settore dell’amministrazione della giustizia. La risposta
adattativa cerca di fare in modo che il bilancio torni. I soggetti che consentono questa risposta
adattativa o amministrativa sono gli amministratori della giustizia, cioè quei soggetti deputati a
gestire la macchina della giustizia penale. Ovvero sono i dirigenti del ministero della giustizia, sono
quelli che decidono quanti soldi destinare alla polizia, al sistema dell’esecuzione penale, alla
magistratura, e cercano di introdurre e praticare delle politiche di risparmio. Il risparmio di spesa
va collegato ad alcune azioni per cercare di centrare ugualmente gli obiettivi di prevenzione di
sicurezza nonostante il taglio dei finanziamenti. Ad esempio, privatizzare il sistema cioè tutto ciò
che può fare il privato può essere delegato ad esso, ad esempio sistemi di sicurezza privata; si
smette di ragionare sulle cause del crimine, ma si cerca di riflettere sugli effetti, per controllare i
costi; si cerca di ridimenzionare la devianza, si è capito che la violenza non è un’entità statica ma è
può essere plasmata nelle sue dimensioni, perché ad un alto numero di reati corrisponde un alto
numero incriminatrici quindi si cerca di ridurre le norme penali per ridurre i crimini; riconoscere i
limiti, diminuire le aspettative e ridefinire le responsabilità. Queste sono le misure messe in campo
dalla reazione amministrativa che si adatta all’avvento della tarda modernità.
Se prendiamo invece l’altra polarità, cioè la polarità passionale, emotiva, la ricerca di sicurezza
attraverso capri espiratori, la reazione è diversa. Non abbiamo una reazione degli amministratori
ma è una reazione dei politici che hanno scoperto come la giustizia penale rappresenti un ottimo
strumento di rendita elettorale per ottenere maggiori voti. La loro reazione è una reazione non
adattativa, si respinge l’idea di venire a compromessi con queste trasformazioni indotte dalle
politiche neo liberali. Si procede come se nulla fosse, cioè con un atteggiamento di diniego. I nostri
politici talvolta ritengono le questioni sociali debbano essere affrontate e risolte ricorrendo alla
pena, quindi maggiore repressione. Ovviamente ai politici non costa niente introdurre nuove
norme ma le ripercussioni sono clamorose in termini economici e sull’amministrazione della
giustizia.

Per Reato intendiamo un’azione umana che si contrappone, che contrasta la legge. Ma questa è
una definizione sostanziale cioè che si sforza di catturare l’anima del reato, l’essenza del reato.
Ma l’unica definizione affidabile di reato è una definizione di tipo formale, perché poggia su degli
indici formali nominalistici che sono offerti dalle conseguenze del reato, cioè una definizione che
non ha interesse a catturare l’essenza del fatto ma per individuare il reato si concentra sulle
conseguenze previste dall’ordinamento per quel fatto.
All’art. 17 c.p. troviamo l’elenco delle pene principali, una delle pene principali è la morte (è stata
soppressa, però fino a qualche anno fa era ancora vigente nel codice penale in tempo di guerra),
poi abbiamo altre cinque pene principali.
Le pene principali stabilite per i delitti sono: ergastolo, reclusione e multa.
Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: arresto e ammenda. Quando parliamo di
reato ci troviamo al cospetto di un concetto di genere. Parliamo di un illecito penale che conosce
due specie, la specie dei delitti e delle contravvenzioni. Per i delitti, l’art. 17 prevede tre pene
principali (ergastolo, reclusione e multa), due di queste tre pene principali previste per i delitti
posseggono il contenuto di una privazione della libertà personale (ergastolo e reclusione), mentre
la multa possiede il contenuto di una incisione del patrimonio del condannato e una pena che non
priva la libertà ma ha la sostanza di una pena c.d. pecuniaria.
Per quanto riguarda le contravvenzioni sono previste solo due sanzioni penali, la prima a
contenuto privativo della libertà personale ed è l’arresto, la seconda incide sul patrimonio ed è
una pena pecuniaria, ed è l’ammenda.
Quindi se vengono utilizzate una di queste 5 parole (ergastolo, reclusione, multa, arresto,
ammenda) ci troviamo di fronte ad un illecito penale.

Abbiamo delle sanzioni che incidono sulla libertà personale e altre che investono il patrimonio.
Nel nostro sistema penale conosciamo delle sanzioni penali che non sono principali ma sono c.d.
sanzioni accessorie, cioè non sono previste dalla legge penale come conseguenze immancabili,
indefettibili di un reato, della commissione di un fatto penalmente rilevante previsto dalla legge.
Non per ogni fatto scatta una pena c.d. accessoria. Sono sanzioni a contenuto interdittivo che
accedono alla pena principale, che la seguono, sulla base della scelta del giudice che viene ricavata
dalla presenza della pena accessoria legata a quel singolo reato. Se nella disciplina di quel reato il
legislatore ha aggiunto anche la pena accessoria, allora il giudice valuterà l’applicazione della pena
accessoria in aggiunta alla pena principale. Ma di per sé la pena accessoria non ci aiuta ad
individuare un fatto di reato, perché non tutti i reati prevedono pene accessorie.

L’ergastolo, la prima pena principale che troviamo nell’art. 17 c.p.. Il nostro legislatore
diversamente da altri ordinamenti ha prescelto un sistema penale c.d. carcero centrico, cioè ha
scelto di imperniare l’intero sistema sanzionatorio sulla privazione della libertà personale come
prima forma di reazione al reato.
Ad esempio invece in Germania l’80% delle sanzioni penali sono sanzioni pecuniarie (cioè il
pagamento di una somma di denaro all’erario) e il carcere viene applicato solo quando non se ne
può fare a meno.
Quindi noi ci troviamo di fronte ad un ordinamento che fa del carcere la prima ratio e questo
spiega come in Italia ci si trovi quotidianamente ad affrontare il problema del sovraffollamento
carcerario.
Ciò comporta che oltre alla privazione della libertà personale si aggiungono delle sanzioni indirette
non previste dal codice penale che discendono dalla scarsa qualità della vita all’interno di un
carcere.
Nonostante la legge sull’ordinamento penitenziare imponga di distinguere le cause di reclusione in
modo tale che alcune ospitino i soggetti condannati in esito ad un processo penale che si è chiuso
con una sentenza passata in giudicato, cioè definitiva; e distinguere casi di reclusione nei quali
inserire soggetti che sono in attesa di condanna, cioè soggetti che sono stati arrestati che sono
destinatari di un misura cautelare, cioè di una misura adottata dal giudice delle indagini preliminari
per salvaguardare esigenze come il pericolo di reiterazione del reato. Nonostante la legge
sull’ordinamento penitenziario preveda questa distinzione tra soggetti condannati e riconosciuti
colpevoli e soggetti che sono presunti innocenti perché non è ancora intervenuta una sentenza di
condanna passata in giudicato, nel nostro sistema queste due tipologie di profili vengono messi
tutti insieme. Vengono inseriti all’interno dello stesso edificio o cella.
L’ergastolo quindi riguarda dei soggetti che si sono resi responsabili di reati molto gravi che sono
stati condannati con sentenza passata in giudicato definitiva alla pena principale più severa, più
cruda, più afflittiva prevista dall’ordinamento, una pena che sancisce l’impossibilità di ritornare nel
contesto civile, esclude definitivamente dalla società.

Pena e costituzione.
Art. 13 cost., è il principio di inviolabilità della libertà personale (habeas corpus). Dall’art. 13
della costituzione noi ricaviamo che la libertà personale rappresenta nella gerarchia dei valori
dell’ordinamento l’apice della piramide, il bene più prezioso. La libertà personale è inviolabile. La
libertà personale è così importante perché solo apprezzando fino in fondo la grandezza di questo
valore, la potenza di questo valore, ci si rende conto del sacrificio che si chiede al soggetto che
viene privato di questo valore, al condannato.
Sulla base dell’art. 13 costruiamo una leva che è indispensabile per proporzionare la reazione al
reato. Una leva che rappresenta un meccanismo essenziale dell’operazione di bilanciamento tra il
reato e la conseguenza sanzionatoria alla quale l’ordinamento espone l’autore del reato. Quindi è
talmente importante il valore della libertà personale che potrà essere compressa solo se il
destinatario di questa limitazione, cioè della violazione della libertà personale abbia compiuto un
fatto grave, gravissimo che giustifica la compressione della libertà personale. Però non per ogni
reato si può ricorrere alla limitazione della libertà personale, ma si può ricorrere solo quando
venga minacciata e applicata con riguardo a fatti gravi, gravissimi. Quindi si può ricorrere alla
sanzione più severa quando dall’altra parte ci sia stata una violazione di un bene giuridico che si
posizioni allo stesso livello di importanza della libertà personale nella gerarchia dei valori, per cui è
legittimo privare un soggetto della libertà persona quando abbia ucciso perché quel soggetto ha
sacrificato il bene della vita, un bene comparabile alla libertà, un bene fondamentale.
Ai commi successivi dell’art. 13 troviamo delle precisazioni fondamentali, sul ricorso a misure
limitative della libertà personale. Comma 2: “Non è ammessa nessuna forma di detenzione, di
ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non
per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”;
se non c’è una legge che autorizza la limitazione, la restrizione della libertà personale, nessuno
può permettersi di restringere la libertà personale di chiunque, e rischia di essere accusato di
sequestro di persona.
Comma 3: “In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l'autorità
di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori (cioè io ti arresto in flagranza, ma
devo andare subito da un giudice per ottenere la convalida dell’arresto), che devono essere
comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle
successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.
Comma 4: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni
di libertà”;
questo è un comma importantissimo perché rappresenta l’unico obbligo di punire presente nella
costituzione e si tratta di obbligo costituzionale di tutela penale.
Comma 5: “La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”, carcerazione
preventiva cioè di quello stato detentivo che prevede la sentenza, una sentenza che può essere
anche di assoluzione.
Quindi il bene della libertà personale è talmente importante che esso può essere sacrificato solo
nei casi previsti dalla legge, solo quando è necessario sacrificarlo per tutelare valori di portata così
elevata da compararli con la libertà personale.
La corte costituzionale con una sentenza recente, 25 ottobre 2018 n. 223, ci ricorda l’essenza della
sanzione penale. La sanzione penale si caratterizza sempre per sua incidenza, attuale o potenziale,
sul bene della libertà personale.
Quindi la sanzione penale come prima extrema ratio, la sanzione penale detentiva come seconda
extrema ratio, la sanzione penale detentiva dell’ergastolo come terza extrema ratio.

Un altro principio che viene in gioco quando parliamo di carcere e di ergastolo, quando parliamo di
pena e di sistema penale è il principio di uguaglianza, art. 3 cost., “Tutti i cittadini sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali.”

Il dibattito sulla carcerazione preventiva nacque in Italia a seguito del caso Tortora. Enzo Tortora
era un conduttore televisivo, che venne immortalato dalle telecamere con le manette e portato in
carcere perché un collaboratore di giustizia indicava in lui un sodale della camorra. Lui ha subito
un procedimento penale per poi essere prosciolto da tutte le accuse. Ma per via delle pressioni e
delle tensioni dopo pochi anni morì. Quindi teniamo sempre presente che un soggetto, art. 27
comma 2 della cost., non può essere presunto colpevole ma anzi deve essere presunto non
colpevole fino ad una sentenza che definisca una volta per tutte se l’ipotesi dell’accusa regge l’urto
di una prova oltre ogni ragionevole dubbio.
L’art. 27 comma 3 della cost. che sancisce il valore della finalità rieducativa della pena si rivolge al
condannato, non vale per il soggetto in attesa di giudizio che non essendo colpevole non ha alcun
bisogno di essere rieducato.

Per certezza della pena si intende la pretesa veicolata dai politici, mass media e diffusa
nell’opinione pubblica per cui ci deve essere una perfetta corrispondenza tra quanto previsto dalla
norma incriminatrice che minaccia una pena da un minimo ad un massimo e la dose di pena
concreta decisa dal giudice che poi si pretende venga scontata per l’intero dal condannato. Quindi
che la pena eseguita corrisponda aritmeticamente senza nemmeno un giorno di meno alla pena
contenuta nella sentenza. Se ci attenessimo a questa affermazione porterebbe all’esclusione nella
nostra costituzione dell’art. 3 e dell’art. 27 comma 3, cioè l’espulsione della finalità rieducativa
della pena.
Tutto il nostro sistema sanzionatorio è un sistema che guarda al passato cioè al passato nel quale è
contenuto l’atto del reato ma guarda anche al futuro, cioè guarda alla prospettiva del possibile
reinserimento sociale del condannato. Quindi la misura della pena non può tenere conto solo del
passato, solo della responsabilità ascritta al soggetto che ha commesso il delitto, ma deve
necessariamente tener conto anche di quelle che sono le chances, le probabilità del reinserimento
sociale. La pena non può essere fissa, immobile e certa, sarebbe incostituzionale, la pena deve
rispondere ad un trattamento finalizzato al reingresso nel contesto sociale, deve essere una pena
individualizzata che tiene conto della personalità di un soggetto. La pena va proporzionata alle
personali responsabilità del soggetto, tenendo uno sguardo verso il passato e all’esigenze di
risposta che ne conseguono (sguardo verso il futuro).
Quindi per certezza della pena, richiamando Cesare Beccaria, la certezza della pena non è la
rispondenza tra pena minacciata e la pena eseguita, è tutt’altro. La certezza della pena è la
probabilità di essere scoperti dopo aver commesso un reato, di essere arrestati, processati e
condannati. La certezza della pena è la sintesi di un concetto fondamentale per la vigenza di un
sistema penale, è la certezza che il sistema penale funzioni.
Quindi la pena certa è, secondo Cesare Beccaria, una pena pronta, celere, che sta ad attestare una
reazione immediata dell’amministrazione della giustizia alla scoperta di un fatto di reato. Solo la
certezza delle reazioni fa si che nell’opinione pubblica circoli una sensazione di effettività della
capacità dell’amministrazione della giustizia di proteggere, di garantire la sicurezza dei cittadini e
di fare in modo che nei cittadini si avverta la presenza dello stato e che le varie analisi
costi/benefici che un soggetto fa se commettere un reato o meno.
Richiamiamo anche l’art. 3 cost., che ci dice che la pena costituzionalmente orientata è una pena
fluida, mobile, una pena che necessita di esprimersi attraverso un trattamento individualizzato che
tenga conto delle caratteristiche personologiche. L’uguaglianza formale si risolve nel fatto che
siamo tutti uguali difronte alla legge e non sono ammesse discriminazione di fronte alla razza, al
sesso ecc. Ma nell’art. 3 è presente anche l’uguaglianza sostanziale che impone al legislatore e al
giudice di trattare situazioni omogenee in modo omogeneo e situazioni eterogenee in modo
eterogeneo, altrimenti si va incontro a trattamenti arbitrari che sono contro il principio di
uguaglianza. Quindi per rispondere meglio ai bisogni del condannato la pena, in corso d’opera, può
subire delle modificazioni, così da attuare anche il precetto della finalità rieducativa della pena
(art.27 c.3 cost.).
Sempre dal principio di uguaglianza deriva una particolare afflizione delle pene pecuniarie. Le pene
pecuniarie sono meno invasive delle pene detentive però le pene pecuniarie rischiano di essere
pene meno democratiche. Perché la pena detentiva in ipotesi non fa distinzioni, è la pena uguale
per eccellenza, si attua a tutti. La pena pecuniaria invece è una pena meno penetrante perché non
comporta una privazione della libertà personale ma produce effetti diversi a seconda che si
applichi ad un soggetto benestante o meno. Ovviamente una pena pecuniaria applicata ad un
soggetto benestante può essere pagata tranquillamente. Quindi il principio di uguaglianza impone
al giudice di commisurare le pene pecuniarie attraverso un sistema di calcolo che troviamo all’art.
133 bis c.p. sulla base delle disponibilità economiche del reo.
Con la sentenza n. 222/2018, si è intervenuti per dichiarare la parziale illegittimità costituzionale
dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare). L’art. 216
prevedeva l’applicazione di una pena accessoria, cioè quelle pene che accedono ad una sentenza
di condanna che abbia già inflitto una pena principale. La modifica è avvenuta nella parte in cui
dispone (il regio decreto) che: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa
per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità
per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”.
Ci troviamo di fronte ad un caso di pena fissa, una pena che viene direttamente misurata dal
legislatore senza la previsione di un minimo e di un massimo edittale, quindi impedisce al giudice
qualunque tipo di valutazione discrezionale per commisurare la pena alla finalità rieducativa del
reo. Il giudice è costretto a prendere questo numero (10 anni) ed a inserirlo direttamente in
sentenza, senza nessun tipo di valutazione, quasi fosse un gesto automatico, senza la possibilità di
mediare che tenga conto delle caratteristiche del condannato. La corte quindi ritiene contraria
questa disposizione al principio di uguaglianza, perché non consente di adattare, di modulare la
pena e quindi impedisce che la pena si traduca in un trattamento individualista.
La corte modica quindi la disposizione in questo modo: “la condanna per uno dei fatti previsti dal
presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.
Sembra una modifica minima ma con questa variazione si da al giudice la possibilità di valutare
all’interno di un ampio range di pena quale sia pena accessoria giusta, personalizzabile.
Quindi possiamo dire che contrasta con il principio di uguaglianza e il principio di rieducazione
della pena qualunque previsione di pena fissa.
Anche la Consulta ci dice che la regola generale in materia di trattamento sanzionatorio è quella
della mobilità o dell’individualizzazione della pena: di conseguenza ogni pena fissa è, per ciò solo,
indiziata di incostituzionalità. La pena deve essere proporzionata alle esigenze di rieducazione del
condannato.

Altro principio fondamentale per rendere la pena conforme alla costituzione. Il riferimento è
all’art. 25 comma 2 della costituzione. Questo articolo sta a segnalare nel nostro ordinamento il
principio di legalità dei reati. “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso”. Quindi un soggetto può essere punito quando esista,
prima che lui ha commesso il fatto, una legge che incrimina quel fatto, cioè che configura quel
fatto come fatto penalmente rilevante.
Il principio di legalità dei reati, il reato è tale solo se viene espressamente previsto da una norma
legislativa.
L’art. 25 comma 2 fissa il principio di legalità della pena, accanto al principio di legalità dei reati.
La norma si compone di due elementi: il precetto e la sanzione che rende effettivo quel precetto.
Precetto e sanzione fondano la norma. La sanzione è una sanzione che abbiamo definito come
pena principale (ergastolo, reclusione, multa, arresto e ammenda) e alla pari del precetto ricade
sotto gli effetti del principio di legalità. Il legislatore attraverso la legge si deve fare carico di
descrivere in modo preciso e precedente rispetto al fatto di reato quali saranno le conseguenze
alle quali andrà incontro chi commetterà quel fatto contemplato dalla norma incriminatrice.
Dal principio di legalità della pena discende la possibilità di pene illegali, di pene che contrastano
con il principio di legalità delle pene e come tali sono soggette di illegittimità costituzionale. La
corte costituzionale è intervenuta negli anni per dichiarare l’illegittimità costituzionale come pene
indeterminate nel massimo (quando non si pone al giudice un limite massimo), altro fenomeno è
la cornice edittale imprecisa (quando si consegna al giudice un minimo e un massimo edittale. Se
non fornisce delle coordinate al giudice entro le quali il giudice si possa muovere in modo
ragionevole ci possono essere disparità di trattamento che calpestano il principio di uguaglianza),
e cornice edittale eccessivamente divaricata (che contrasta con il principio di legalità della pena.
Quando si lascia al giudice un’eccessiva distanza di un minimo e un massimo edittale). Una pena
legale quindi è una pena contenuta all’interno di un diametro sanzionatorio ragionevole.

Art. 27 comma 3 della costituzione. Principio della rieducazione del condannato.


L’art. 27 si compone di due proposizioni: la prima condiziona la finalità rieducativa della pena, “Le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”;
la seconda è “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nessuna pena potrà
tendere alla rieducazione se viene inflitta attraverso trattamenti contrari al senso di umanità.
La pena può svolgere diverse funzioni ma ciascuna di esse non può comportare il sacrificio della
finalità rieducativa del condannato.
Tant’è che la Corte costituzionale in due sentenze ha ribadito:
- con la sentenza del 2018, n. 149: “non sacrificabilità della funzione rieducativa di ogni altra
legittima funzione della pena”;
- con la sentenza del 1966, n. 12: “un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario
presupposto per un’azione rieducativa del condannato”.
In riferimento all’ergastolo, ci si domanda se i giudici quando condannano un soggetto
all’ergastolo irrogano una pena che possa dirsi costituzionalmente legittima.
Innanzitutto la pena dell’ergastolo si caratterizza per essere una pena a vita, una pena quindi
perpetua, una pena che rischia di essere fissa, e una pena che esclude definitivamente il
condannato da un reingresso in società. Nel codice penale troviamo l’ergastolo all’art. 22 “La pena
dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del
lavoro e con l'isolamento notturno”.
Di recente è anche intervenuta la corte costituzionale dichiarando l’illegittimità costituzionale di
una previsione del codice di procedura penale che escludeva l’ergastolo in esito ad un giudizio
abbreviato, che è un rito speciale come il patteggiamento.
La pena dell’ergastolo però conosce delle modalità di esecuzione severe che rappresentano casi di
ulteriore inumanità. Ci sono casi più gravi, c.d. carcere duro, la legislazione sull’ordinamento
penitenziario prevede delle modalità ancora più severe. L’art. 72 c.p. amplia l’isolamento diurno in
taluni casi da sei mesi a tre anni, isolamento diurno significa che questo soggetto non vede
nessuno che non siano gli agenti di polizia penitenziaria che gli portano i viveri.
Nella legge 374/1975, legge sull’ordinamento penitenziario, è stato inserito l’art. 4 bis, che
combinato con l’art. 41 bis, determina un trattamento particolarmente afflittivo per una
particolare tipologia di soggetti condannati all’ergastolo, quei soggetti condannati all’ergastolo
ostativo, ostativo all’accesso dei benefici penitenziari.
Questa previsione nasce come reazione dello Stato all’aggressione subita da parte del crimine
organizzato di stampo mafioso. La strategia dello stato prevede che l’accesso ai benefici
penitenziari per soggetti che si siano resi responsabili per reati molto gravi contro l’ordine pubblico
sia condizionata alla disponibilità di questi condannati a fornire una collaborazione processuale
rilevante che consenta alla magistratura di conoscere maggiormente le responsabilità per i crimini
commessi e quindi svolgere delle indagini che diano vita ad un’azione repressiva efficace.
L’assenza di una collaborazione utile impedisce che il condannato possa beneficiare di misure a
suo favore. L’art. 4 bis rappresenta la vetta della disumanità del sistema penale.
Nel nostro ordinamento è prevista, nel codice penale, una misura alternativa dalla detenzione
data dalla liberazione condizionale. Art. 176 c.p., la liberazione condizionale è la possibilità di
tornare all’esterno dopo aver trascorso un periodo rilevante di tempo in carcere (26 anni di pena)
e a condizione di aver tenuto una buona condotta, cioè non aver commesso fatti che lascino
intravedere una pericolosità sociale.
Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, non è sufficiente il dato oggettivo della
regolare condotta del condannato, ma sono richiesti anche altri indicatori, come: l’essersi
adoperato, anche e soprattutto con sacrificio personale, nella rimozione delle conseguenze
dannose del reato; e la condanna incondizionata della propria pregressa condotta criminale,
declinata in forme che richiamano la conversione psicologica, il riscatto morale, il pentimento
sincero e profondo, la trasformazione ideologica, addirittura la propensione verso una nuova
visione della vita con l’accettazione di principi e valori anche morali precedentemente
misconosciuti o abbandonati.
La corte costituzionale ha pronunciato una serie di sentenze negli anni per cercare di mitigare la
durezza dell’ergastolo e dell’ergastolo ostativo. Quindi non tutti i condannati all’ergastolo
beneficiano della liberazione condizionata, non è un automatismo.
Ad oggi si verifica che numerosi condannati all’ergastolo ostativo decidono di non collaborare,
questo accade perché non sempre la collaborazione è utile perché magari altri collaboratori di
giustizia hanno detto tutto quello che il condannato all’ergastolo potrebbe dire, ma a tal riguardo è
intervenuta la corte costituzionale dicendo che a costui non può essere precluso l’accesso ai
benefici di legge. Quello che interessa rilevare è che numerosi condannati all’ergastolo ostativo
per reati di mafia si rifiutano di collaborare perché dopo aver dato informazioni utili assisteranno a
delle ritorsioni ai membri del proprio nucleo familiare, quindi preferiscono tacere.
Anche la corte europea dei diritti dell’uomo intervenne al riguardo andando a far rispettare ai
legislatori e giudici dei paesi membri dell’UE l’esistenza di certi requisiti, cioè la pena per non
essere contraria all’art. 3 della CEDU che contiene il divieto di tortura, anche la pena perpetua non
può essere gravemente sproporzionata rispetto al reato commesso, (principio di proporzione).
Inoltre anche la pena perpetua, per essere legittima, deve mantenersi funzionale nel tempo
rispetto a uno dei molteplici scopi che sono ad essa legittimamente ascrivibili, cioè laddove la pena
perpetua smetta di rispondere ad uno di questi obiettivi cessa di essere una pena utile, cessa di
essere una pena necessaria. Occorre dunque che il condannato all’ergastolo alla pena perpetua
venga monitorato per capire se la pena perpetua continui a rispondere ad almeno uno di queste
funzioni legittimamente ascrivibili. Inoltre deve sussistere la possibilità di essere rimesso in libertà
anticipata, anche la pena dell’ergastolo deve contemplare l’esistenza di almeno una possibilità.
La stessa giurisprudenza della corte di Strasburgo ha accolto che l’ergastolo senza la possibilità di
revisione della pena è una violazione dei diritti umani, rappresenta un trattamento degradante ed
inumano.
La corte europea ci dice quindi che l’ergastolo è una pena legale, e può essere una pena legittima
solo se contempla espressamente la disciplina che regolamenta la disciplina dell’ergastolo cioè la
possibilità di una revisione che impedisca di continuare a predicare il carattere di una pena
eliminativa.
Il giudice irlandese, Ann Power-Forde, sostiene con la sua opinione di introduce un concetto
nuovo, introduce il diritto alla speranza, anche gli ergastolani hanno diritto alla speranza che
quindi non può essere negata loro. La speranza è un aspetto importante e costitutivo della
persona umana, questi soggetti hanno la capacità intrinseca di cambiare. Conservano in loro la
speranza che un giorno potranno riscattarsi per gli errori commessi.
La sentenza Vinter quindi pretende la previsione di un meccanismo di visione ma fissa anche il
limite massimo di 25 anni dalla condanna. La speranza è che l’ordinamento italiano si conformi a
queste previsioni.

Direttiva 2012/29/UE. Vittima e giustizia riparativa nel sistema penale.


L’art. 2 della direttiva per “vittima” intende “una persona fisica che ha subito un danno, anche
fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato”.
Viene incluso nella definizione anche la c.d. vittima indiretta, ovvero “il familiare di una persona la
cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della
morte di tale persona”. Per familiare intendiamo non solo il coniuge ma anche il convivente more
uxorio, nonché i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima.
La direttiva punta a definire una serie di diritti da riconoscere in capo alla vittima quindi non
esistono solo i diritti del reo, anche la vittima ha diritti che tocca l’ordinamento che sono da
riconoscere e tutelare.
Primo diritto è quello di essere informati sul proprio caso (ad esempio se il pubblico ministero
vuole chiedere l’archiviazione lo può fare però deve dare comunicazione di questa scelta al giudice
e alla persona offesa, e la persona offesa a questo punto ha diritto ad opporsi alla richiesta di
archiviazione, quindi si istaura un contraddittorio di fronte al giudice), poi abbiamo il diritto di
accesso ai servizi di assistenza (anche di tipo psicologico), diritti di partecipazione al
procedimento penale, diritto a garanzie nel contesto dei servizi di giustizia riparativa.
La direttiva si fa carico di vigilare sul fatto che a questa persona siano risparmiate le conseguenze
di quella che viene definita la vittimizzazione secondaria. La vittimizzazione primaria deriva
dall’esperienza del reato, ad es. sono stata vittima di una violenza sessuale. La vittimizzazione
secondaria deriva alla vittima con il contatto delle agenzie di controllo, ad esempio la vittima che
deve affrontare un processo nella quale rivive l’accaduto è un’esperienza traumatica.
La direttiva protegge le vittime da un contatto traumatico con le agenzie di controllo e da
intimidazioni, ritorsioni nei loro confronti. Non è un caso che nel codice penale la vittima di
violenza sessuale è autorizzata a sporgere querela.
La direttiva non si limita a valorizzare i diritti, la direttiva riguarda la vittima e la giustizia riparativa.
Giustizia riparativa è un insieme di teorie e pratiche che puntano a promuovere un diverso
modello di giustizia, una giustizia non conflittuale, ma che cerca di intercettare gli obiettivi della
prevenzione generale, della prevenzione speciale, quindi cerca di evitare che i reati vengano
commessi favorendo la ripresa di un dialogo tra il reo e la vittima. La giustizia riparativa non può
valere per tutti i reati.
I bisogni che la vittima potrebbe realizzare all’interno della giustizia riparativa sono ottenere che
l’autore del reato riconosca il male, dell’errore che ha commesso, la seconda esigenza è quella che
c’è una presa d’impegno a non farne altro, dato che la vittima è spaventata dall’accaduto e quindi
necessita di sicurezze.
All’art. 12, si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in
base ad eventuali considerazioni di sicurezza, e se sono basati sul suo consenso libero e informato
della vittima, che può essere revocato in qualsiasi momento. La vittima non può essere costretta a
partecipare a incontri di mediazione, a pratiche di giustizia riparativa. Se la vittima si rifiuta si terrà
conto della indisponibilità del reo.
Sempre all’art. 12, l’autore del reato deve aver riconosciuto i fatti essenziali del caso. Questa
affermazione è problematica perché ci fa misurare la distanza fisica rispetto al procedimento
penale ordinario. Il procedimento penale ordinario è retto dalla presunzione di innocenza. Nella
giustizia riparativa l’elemento che può favorire un dialogo tra le parti, innanzitutto è che il reo
faccia un passo in avanti e ammette che è stato lui.
La riparazione non punta necessariamente al perdono, il perdono è un atto privato che la vittima
se crede può compiere, è un atto personalissimo frutto di riflessioni profonde. La riparazione è un
processo difficile, irto di difficoltà che punta ad una doppia riparazione, sia del colpevole sia della
vittima, e non è destinato sempre al successo, può anche fallire. Ma anche quando fallisce è
meglio del processo penale perché c’è l’accertamento della verità e la prevenzione di reati futuri.
La filosofia della riparazione ha portato a delle novità profonde anche all’interno del codice
penale. Art. 163 ter c.p. che disciplina l’estinzione del reato per condotte riparatorie, “Nei casi di
procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la
persona offesa, quando l'imputato ha riparato interamente il danno cagionato dal reato, mediante
le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato”.
Secondo comma “Quando dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non
addebitabile, entro il termine di cui al primo comma, l'imputato può chiedere al giudice la
fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche
in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento; in tal caso il giudice, se accoglie la
richiesta, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine
stabilito.”
Terzo comma “Il giudice dichiara l'estinzione del reato, di cui al primo comma, all'esito positivo
delle condotte riparatorie”.

La prescrizione.
È l’istituto che pone fine al procedimento penale.
Le ragioni poste a fondamento della prescrizione sono:
- innanzitutto abbiamo il paradigma della prevenzione generale che è quella teoria che ritiene che
la pena serva ad uno scopo preciso, lo scopo è quello di distogliere i cittadini, gli utenti dal
commettere reati attraverso la minaccia di una sanzione, questa minaccia dovrebbe indurli ad
astenersi da realizzare fatti penalmente rilevanti. Secondo questa teoria quando è passato troppo
tempo dalla commissione di un fatto di reato, l’allarme sociale che quel fatto aveva sollevato si è
spento, si è perso. Quindi non c’è più motivo di andare a riprendere il fatto quando la collettività
non ritiene più pericoloso quel fatto. Questo discorso vale per reati di medio/bassa gravità. Poi ci
sono reati molto gravi che sono imprescrittibili perché la memoria rimane viva.
- altra ragione è quella della prevenzione speciale. Dalla prevenzione speciale infatti deriva la
teoria della rieducazione, volta ad evitare la recidiva. Il protagonista in questo caso non ha alcun
bisogno di essere rieducato perché ha iniziato a vivere una vita nel rispetto delle regole, il reo
quindi si è dissociato da quell’esperienza ed è diventato una persona utile per la società.
- dopo una modifica alla costituzione è stato introdotto e regolamentato il valore del giusto
processo. Si è ritenuto che il giusto processo dovesse avere un riconoscimento costituzionale, ed il
giusto processo è quello che manifesta una ragionevole durata. L’esigenza di una ragionevole
durata risponde ad un duplice fine, un fine oggettivo, propria dell’amministrazione della giustizia
che essa sopporta dei costi economici, quindi è interesse della collettività che i processi vengano
celebrati in tempo rapidi, in tempi contenuti perché altrimenti il rischio è quello di un dispendio
inutile di risorse economiche con il rischio di non arrivare all’accertamento della verità dei fatti. La
ragionevole durata del processo è un valore, è un principio, è un interesse anche dell’imputato che
passa interi anni sopportando l’incertezza (cit. Beccaria).

La prescrizione del reato quindi risponde ad una serie di esigenze, di natura oggettiva e soggettiva
che però a causa dell’estrema inaccettabile lunghezza dei processi penali in Italia, quando arriva
rappresenta una sconfitta per l’ordinamento e per le vittime che rimangono inappagate di
giustizia. La risposta dell’ordinamento è l’allungamento della prescrizione e non reclutare giudici o
snellire il procedimento penale.

Il sistema del doppio binario. (scuola classica e scuola positiva)


Accanto alle pene accessorie vi è una terza tipologia di sanzioni che sono definite dal codice penale
come misure di sicurezza. Sono state introdotte per la prima volta dal codice Rocco del 1930,
tutt’ora vigente. Per comprendere la natura, le funzioni e i limiti delle misure di sicurezza
dobbiamo tornare agli anni della promulgazione del codice penale che è tutt’ora vigente. Sono
anni di grande fermento dal punto di vista penalista perché sono anni in cui competono due
ordinamenti di pensiero contrapposti, da una parte c’è la scuola classica e dall’altra c’è la scuola
positiva.
Francesco Carrara considerato fondatore della scuola classica, giurista toscano, ha un approccio
filosofico, secondo lui l’essere umano è dotato di libero arbitrio, è un essere libero che al suo
interno matura delle scelte, e in quanto essere umano libero e che sa decidere, si sa assumere la
responsabilità delle proprie opere, la responsabilità delle conseguenze del proprio agire. Quindi
Carrara, ma anche lo stesso Cesare Beccaria, ritengono il Reo una persona capace di prendere
delle decisioni e di andare incontro alle conseguenze di queste decisioni. Alla decisione della
commissione di un reato corrisponde l’accettazione delle conseguenze penali di quel reato, quindi
arrestato, processato e condannato. Il libero arbitrio si traduce nella possibilità di concepire
l’essere umano che commette un reato come essere umano colpevole. La scuola classica è una
scuola che guarda all’essere umano come un soggetto libero e capace di accettare le conseguenze
delle proprie azioni delittuose.
Alla scuola classica si contrappone la scuola positiva, il cui fautore è Cesare Lombroso. Lombroso è
colui che ha dato vita ad un movimento di studi e di ricerca che ha inciso il nostro immaginario
collettivo. Lombroso andava alla ricerca della causa del crimine e ritrovava questa causa del
crimine nell’idea che i soggetti che commettono un crimine sono soggetti malati, sono soggetti
pericolosi in conseguenza di una malattia che li determina a commettere il crimine. La causa del
crimine è una malattia, patologia, che obbliga il soggetto deviante a realizzare un fatto penalmente
rilevante. Lombroso diede vita alla teoria dell’etichettamento.

Principi fondamentali della materia penale.


Il primo principio è il principio di offensività che può essere condensato nel baluardo latino
“Nullim crimen, nulla poena sine iniuria”, traduzione nessun reato, nessuna pena senza un’offesa
ad un bene giuridico. Questo principio si rivolge al legislatore e al giudice.
Il principio di offensività costruisce e costituisce un limite per le scelte del legislatore in materia
penale, ha l’ambizione di vincolare il legislatore attraverso questa intimazione, cioè il legislatore
potrà introdurre una nuova disposizione incriminatrice solo se questa disposizione incriminatrice
va a sanzionare un fatto che rappresenta un’offesa ad un bene giuridico. Quindi il legislatore è
autorizzato a punire a patto che il comportamento che intende punire, attraverso la posizione di
una norma incriminatrice, sia un comportamento offensivo di un bene giuridico.
Gli ordinamenti cercano di conformarsi al principio di offensività, e le scelte incriminatrici ruotano
intorno a fatti, a comportamenti, a condotte di bene offensivi di beni giuridici, cioè leggendo la
norma si apprezza l’esistenza di una condotta afferrabile, che può essere oggetto di prova, che va a
colpire un bene giuridico (ad es: pensiamo all’art. 575 c.p. l’omicidio volontario, qui si ha la
possibilità di apprezzare l’esistenza di un fatto, il fatto è la condotta che produce l’offesa ad un
bene giuridico, cioè l’aggressione al bene della vita. La condotta fattuale porta all’offesa ad un
bene giuridico, cioè la vita di un soggetto). È importante mantenersi fedeli al diritto penale del
fatto, quindi al principio di offensività, perché deriva dal diritto penale liberale che temeva quegli
ordinamenti penali che sganciavano la punizione dalla prova di un comportamento realmente
offensivo, ma che avevano un orientamento di pensiero che si accontentava di molto meno per
punire. Gli orientamenti che hanno aderito alla concezione del diritto penale d’autore sono degli
ordinamenti che non dimostrano l’esistenza di una condotta offensiva di un bene giuridico, ma
puniscono il modo di essere dell’autore.
È necessario legare il diritto penale liberale, proprio di un paese democratico, alla prova di un
fatto. Questo fatto per essere provato deve esprimere un’offesa ad un bene giuridico e questa
offesa per poter essere provata deve costituire una parte della fattispecie incriminatrice. Deve
potersi ricavare dalla norma, se quella norma non prospetta un’offesa ad un bene giuridico è una
norma incostituzionale per violazione del principio di offensività.
Il principio di offensività è costituzionalizzato nell’art. 25 c. 2 “nessuno può essere punito se non in
forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
In questa norma troviamo un collegamento con il diritto penale del fatto e con il principio di
offensività. Abbiamo due conseguenze, la prima è che questo principio non si rivolge solo al
legislatore ma si rivolge anche al giudice, all’interprete, perché ci possono essere delle situazioni
che rispecchiano gli elementi della norma incriminatrice ma che in concreto non fanno registrare
alcuna offesa ad un bene giuridico. (es. un ragazzo che al mercato sottrae delle piccole cose da una
bancarella, sotto il profilo morale si ha un comportamento discutibile, però il furto rappresenta un
fatto che esprime una tale esiguità offensiva che non merita di essere punito. In concreto si
possono verificare delle situazioni in cui astrattamente ricorrono tutti gli elementi della norma
incriminatrice ma in concreto quella situazione non riflette alcuna offesa apprezzabile al bene
giuridico tutelato dalla norma incriminatrice).
Il principio di offensività è anche costituzionalizzato anche nell’art. 13, “La libertà personale è
inviolabile”, la libertà è uno dei valori più importanti. La libertà è inerente al principio di offensività
perché fa riflettere sulla proporzione che deve intercorrere tra la violazione della libertà connessa
alla minaccia e all’inflizione di un’azione penale e dall’altra parte il comportamento che viene
sanzionato con una pena così gravosa perché va ad incidere un bene fondamentale, come la
libertà personale. Quindi l’art. 13 dice al legislatore che può essere autorizzato a limitare la libertà
personale solo se c’è un fatto che si traduca in un’offesa ad un bene giuridico.
Quindi da un lato abbiamo l’art. 25 comma 2 che dice al legislatore e al giudice di subordinare la
punizione alla prova di un fatto scolpito all’interno della norma incriminatrice e di un fatto
portatore di un’offesa concreta ad un interesse tutelato dalla norma incriminatrice che chiamiamo
bene giuridico. E dall’altra parte abbiamo l’art. 13 che vincola il legislatore, quindi anche il giudice,
al rispetto della proporzione.
La seconda riflessione che va fatta inerente al principio di offensività, è che l’offesa, l’aggressione
ad un bene giuridico, deve essere incarnato nella norma incriminatrice, che deve essere provato
all’interno di un processo perché si possa arrivare ad una posizione legittima.
L’offesa può essere di due tipi. Ci sono due forme di offesa penalmente rilevante, la prima è la
forma della c.d. lesione, la lesione di un bene giuridico, per lesione di un bene giuridico si intende il
sacrificio dell’integrità di un bene giuridico. Un sacrificio irreversibile, come l’omicidio, il bene vita
è stato leso. Ma accanto alla lesione, che è la forma di offesa più grave, il nostro ordinamento
conosce una forma di offesa più problematica, sulla cui legittimazione in termini di punibilità si
discute molto, ed è la messa in pericolo, cioè l’esposizione a pericolo di un bene giuridico, che in
questo caso non viene distrutto ma viene messo a repentaglio, come ad esempio il tentato
omicidio. In questo caso si cerca di anticipare il pericolo.
Ad esempio, con riferimento ai reati di pericolo, art. 423 c.p., è composto da due commi ed è un
articolo posto a tutela del bene giuridico della pubblica incolumità. Questo articolo esprime due
ipotesi di reato che si caratterizzano per essere reati di pericolo. In un caso abbiamo la punizione
del c.d. incendio di cosa propria, e nell’altro caso abbiamo la punizione del c.d. incendio di cosa
altrui. Questi due casi danno vita a reati di pericolo astratto e reati di pericolo concreto. Nel caso di
incendio di cosa propria, es. il contadino che brucia le stoppie del proprio campo, il legislatore al
primo comma dell’art. 423 c.p. dice che è punito solo se dal fatto deriva pericolo per la pubblica
incolumità, se non è un pericolo l’incendio non è punibile. Viceversa il legislatore punisce
l’incendio di cosa altrui tuout court, è una punizione incondizionata. Nell’ipotesi di incendio di cosa
altrui, il pericolo per pubblica incolumità si ritiene presunto laddove si incendi una cosa che non è
propria ma è altrui, basta la presunzione.

Principio di legalità. Senza il principio di legalità non sarebbe concepibile il diritto penale
moderno. Questo principio si alimenta di una serie di sotto principi, ma presenta un nucleo forte
che è dato dal così detto principio di riserva di legge. Principio di legalità e principio di riserva di
legge sono correlati, ma la riserva di legge è la parte fondamentale di un tutto che chiamiamo
principio di legalità.
La ratio del principio di legalità. In un momento della storia si è deciso che la scelta sui reati e sulle
pene spettasse al parlamento, che è l’ente istituzionalmente deputato ad emanare le leggi. La
potestà punitiva intesa come potere di definire reati e sanzioni è stata riservata al parlamento
attraverso lo strumento della legge. Questo perché il nostro costituente, dopo la seconda guerra
mondiale, aveva ancora forte l’eco della repressione ed ha preferito individuare nel parlamento la
sede più indicata per trattare la materia penale, perché il parlamento fornisce delle garanzie di
rappresentatività che nessun altro organo riesce ad assicurare. Il parlamento riesce a dare delle
garanzie perché il procedimento legislativo fa si che si arrivi alla definizione di una legge dopo una
dialettica parlamentare in cui tutti i rappresentanti eletti al parlamento posso dare un contributo al
miglioramento del testo. Il provvedimento che esce dal parlamento sotto forma di legge, gode di
una maggiore legittimazione perché in quel provvedimento refluiscono le valutazioni dei
parlamentari della camera e del senato, di maggioranza e di opposizione, quindi anche le
minoranze hanno la possibilità di farsi portatrici di interessi meritevoli di tutela.
I sotto principi del principio di legalità, sono: la riserva di legge, di Precisione, di determinatezza,
di tassatività (divieto di analogia), di irretroattività.

Riserva di legge, cioè la scelta compiuta dalla nostra costituzione all’art 25 comma 2, cioè la scelta
del nostro costituente di riservare alla legge e solo alla legge il potere di decidere chi, cosa e come
punire. Nullum crimen, nulla poena sine previa lege peonali, scripta et stricta. Nessun reato,
nessuna pena se non c’è nessuna legge penale scritta che espressamente incrimina un fatto come
reato e ricollega a quel fatto alla sanzione della pena e la legge deve essere entrata in vigore prima
del reato commesso.
L’articolo 25 comma 2 cost. “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso”, ci dice quindi che la punizione di un essere umano è
legittima se è stata prevista da una legge. Ma non è l’unica fonte a fondamento del principio di
legalità, il principio lo troviamo anche all’art 1 del c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto
che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa
stabilite”.
Lo troviamo anche a livello di convenzione internazionale, art 7 della convenzione europea dei
diritti dell’uomo e delle libertà del cittadino ( CEDU), Nulla poena sine lege, “Nessuno può essere
condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non
costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale (principio di legalità dei reati).
Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il
reato è stato commesso (principio di legalità delle pene)”. Quando noi parliamo di principio di
legalità dobbiamo sapere che esiste per i reati e per le pene, e anche per le misure di sicurezza.
Esiste una riserva di legge formale e una riserva di legge materiale.
La riserva di legge formale è prevista dall’art 72 della costituzione, ed è il procedimento legislativo
classico, ordinario, il testo di legge viene discusso dalle due camere finché non matura
un’approvazione definitiva, viene promulgato dal Presidente della Repubblica, viene pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale. La legge come strumento prioritario di matrice esclusivamente
parlamentare per introdurre nel nostro ordinamento modifiche al sistema penale. Quindi questo è
lo strumento classico, e ribadisce il primato della legge come fonte esclusiva della legge penale
parlamentare.
La costituzione all’art 77 c. 1 e 2, però ammette la possibilità di introdurre precetti e sanzione
attraverso c.d. atti aventi forza di legge, atti che sul piano delle fonti vengono equiparati alla legge
parlamentare e questi atti sono i decreti legislativi e i decreti legge. In entrambi i casi è previsto
l’intervento del parlamento, e accanto all’intervento del parlamento prevedono un intervento
dell’esecutivo, cioè del Governo.
I decreti legislativi, art. 77 c. 1, il parlamento svolge un ruolo nella prima fase, cioè delibera vota e
approva una c.d. legge delega o una legge di delega, con quale delega il governo ad impegnarsi
nella scrittura di un decreto legislativo. Il parlamento delega quindi il governo ad elaborare un
testo che deve rispettare alcune specifiche direttive che il parlamento ha inserito nella legge di
delega, e se non vengono rispettate il parlamento può impugnare il decreto legislativo dinanzi alla
Corte Costituzionale per la violazione della legge di delega.
Il parlamento ricorre allo strumento dei decreti legislativi perché ci sono alcune materie complesse
e articolate che richiedono la disponibilità di competenze che il parlamento non dispone, allora
attribuisce al governo il potere di farlo però in una serie di coordinate e direttive che devono
essere rispettate. Come ad esempio la materia sulla sicurezza del lavoro. Quindi il parlamento
esercita un controllo sul governo, però le direttive del parlamento devono essere molto precise,
molto vincolati, perché se sono generiche il governo se ne approfitta e calpesta la riserva di legge.
Il decreto legislativo prevede alla fonte un controllo da parte del Parlamento però se esso non
costruisce delle direttive chiare e vincolanti diventa difficile quando il governo abbia esorbitato
queste direttive, andare dinanzi alla corte costituzionale per difetto o eccesso di delega.
I decreti legge invece, in questi casi, per ragione di necessità ed urgenza il governo emana un
decreto legge che resta in vigore 60 giorni, nell’arco dei quali il parlamento può decidere se
ratificare il decreto legge o se far decadere il decreto legge con efficacia ex tunc (con retroattività).
Il governo potrebbe introdurre una norma penale che va a calpestare dei principi o delle libertà, in
quei 60 giorni però il palamento può intervenire e può rimuovere quelle conseguenze evitando di
ratificare il decreto legge. In quei 60 giorni possono essere partiti dei procedimenti penali o ci
possono essere stati degli arresti, delle misure cautelari, e in questi casi, anche se il parlamento
decidesse di non ratificare il decreto legge si sono causati degli effetti irreversibili. Il ricorso alla
decretazione di urgenza nella materia penale è sconsigliato anche perché è una materia delicata
quindi è richiesta ponderazione che però viene meno con la decretazione d’urgenza perché la
decretazione d’urgenza interviene senza che ci sia stata una riflessione articolata. Questa fretta
può comportare delle violazioni dei principi e delle libertà fondamentali che sono proprio
connesse ad una scarsa ponderazione delle conseguenze di una scelta dettata dall’urgenza.

I tradimenti della riserva di legge, cioè le situazioni, le scelte che attentano al rispetto del
fondamento politico, del principio di rappresentatività, che attentano alla separazione dei poteri.
Un primo esempio è nella dialettica tra la riserva di legge in senso formale e riserva di legge in
senso materiale.
Ci sono anche altri esempi di tradimenti e pericoli per il rispetto della riserva di legge.
Le leggi regionali: ci si domanda se la legge regionale può essere fonte di diritto penale. Cioè se la
legge regionale può contenere come espressione della giunta regionale delle norme incriminatrici,
cioè norme che riducono gli spazi di libertà dei soggetti che vivono in quella regione.
Teniamo conto che esiste l’assemblea regionale (che funge da parlamento), con i propri consiglieri
che godono di una legittimazione, quindi si può dedurre che il principio di rappresentatività è
rispettato, qualora una regione si doti di una sorte di statuto differenziato di punibilità.
Ma in realtà il rispetto della riserva di legge è soltanto apparente, perché l’assemblea regionale
rispecchia la volontà dei cittadini regionali e non nazionali. Quindi andiamo incontro ad una
disparità di trattamento. Quindi si creerebbero delle geometrie variabili della punibilità che
produrrebbero delle situazioni di incertezza, di irragionevole disparità di trattamento e di
violazione del principio di riserva di legge.
Il principio di riserva di legge a livello regionale è confermato, oltre che dall’art. 25 c. 2 della cost.,
anche dall’art 117 c. 2 lettera L della Cost . Assistiamo ad una distribuzione delle competenze tra
stato e regioni, e all’interno di questa distribuzione ci sono delle materie che appartengono alla
competenza esclusiva dello stato, tra queste materie c’è anche quella penale. Altre materie sono
poi di competenza concorrente e altre appartengono alla sola competenza regionale. Ma la
materia penale appartiene alla sola competenza statale, quindi del parlamento.
Quindi se la regione ampia le sfere di libertà dei cittadini, introducendo una causa di
giustificazione, cioè un fattore che giustifica, scrimina un comportamento penalmente rilevante.
Questa scelta è illegittima, sarebbe sanzionata dalla corte costituzionale, perché viola la riserva di
legge e l’art. 117 al comma 3.
Art 117 comma 3, contiene una disciplina che impone alle regioni il rispetto dei principi
fondamentali non delle materie assoggettate alla legislazione esclusiva dello stato (come la
materia penale), ma quelle materie che abbiamo definito come concorrenti, cioè le materie in cui
la regione è ammessa a disciplinare, a regolamentare, a legiferare purché rispetti una serie di
parametri che vengono stabiliti dallo stato. Tra questi parametri ci sono quelli di non introdurre
norme che escludono la punibilità per fatti commessi sul suolo regionale. Le regioni non possono
né introdurre norme incriminatrici e non possono introdurre norme che escludono la punibilità di
fatti qualificati dalla legge parlamentari come illeciti penali, come reati.
Altri due tradimenti. La consuetudine, è una fonte del diritto richiamata anche all’interno del
codice civile che si caratterizza per la forma, cioè è una fonte non scritta; il secondo aspetto è la
sostanza, cioè il contenuto della consuetudine è dato da un comportamento che sulla base di una
ripetizione nel tempo, l’opinione pubblica assume come vincolante.
Per quanto riguarda la consuetudine come fonte del diritto penale, posiamo dire che la
consuetudine attenta alla riserva di legge perché non si sa quale sia l’esatta portata della
vincolatività, non essendo una fonte scritta il rischio è che ciascuno la interpreti come vuole, o che
può valere in alcuni territori e in altri no, ma soprattutto proprio il carattere non scritto della fonte
genera una incertezza intollerabile perché non potendosi confrontare con un testo scritto si deve
misurare con il “sentito dire” che risentono molto della intemperia culturale, quindi questo
margine di incertezza collide con il rispetto del principio di legalità.
Quindi è da escludere che la consuetudine può costituire fonte del diritto penale, perché occorre
poter documentare formalmente ed esplicitamente una certa regola di condotta la cui violazione
innesca un rimprovero a titolo di responsabilità penale. Ci vuole un testo scritto anche del diritto
penale, cosa che la consuetudine non fa, anche perché il precetto penale è un precetto scritto.

Il rapporto tra riserva di legge nazionale e fonti sovranazionale. L’Italia appartiene all’Ue, e
dall’adesione dell’Ue e dall’adesione alla convezione europea dei dritti dell’uomo derivano degli
obblighi.
Abbiamo sottoscritto il trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) c.d. trattato di Lisbona e ci siamo
conformati al rispetto del principio del primato dell’UE. Si tratta di una scelta impegnativa perché
comporta che gli atti di diritto dell’Ue, regolamenti e direttive, producano degli effetti dirittamente
o indirettamente nel nostro ordinamento. Il regolamento produce effetti diretti, le direttive
possono essere self-executive cioè che automaticamente, cioè senza nessun bisogno di alcuna
mediazione da parte della legge nazionale determinano ricadute significative nell’ordinamento
italiano; e le direttive tradizionali che per essere applicate in Italia necessitano della trasposizione
attraverso provvedimenti ad hoc da parte del parlamento.
Ci si domanda quindi se il diritto dell’Ue può rappresentare fonte del diritto penale. Se può l’UE
produrre degli atti normativi che introducano norme incriminatrici che poi trovano applicazione
nel nostro sistema nazionale in contrasto quindi con quanto previsto con la legge nazionale. E se
può l’UE inserire un reato per un fatto che la legge italiana considera penalmente rilevante.
Tutte le ipotesi di tradimento della riserva di legge è la ratio politica, il parlamento europeo è stato
eletto dagli italiani, ma non solo dagli italiani, perché siedono nel parlamento europeo tutti i
rappresentanti degli stati membri. Già qui quindi riscontriamo un deficit di piena rappresentatività,
perché le scelte in parlamento non corrispondono alla maggioranza degli italiani. Le scelte
fondamentali non sono assunte dal parlamento europeo ma dalla Commissione che è un organo
esecutivo, che non è un organo eletto. I componenti della Commissione sono nominati sulla base
di accordi tra i premier dei vari stati membri. Quindi il diritto dell’UE non si pone come fonte del
diritto penale, con una serie di precisazioni. La prima, immaginiamo che una direttiva self-
executive cioè una direttiva immediatamente applicabile contenga una norma incriminatrice, cioè
una norma che sanzioni un fatto che nel nostro ordinamento non costituisce reato. E sulla base di
questa norma le forze di polizia procedono al fermo o all’arresto di un soggetto che ha tenuto il
comportamento incriminato dalla norma di diritto dell’UE. Si ha un conflitto tra fonti, la fonte
nazionale, la legge dello stato che ritiene lecito quel comportamento (con la riserva di legge
nazionale che sostiene che in materia penale l’unico organo che si esprime è il parlamento
nazionale), e dall’altra parte una istituzione straniera appartenente all’Ue facente parte di un
sistema normativo che l’Italia si è vincolata a rispettare (prima del diritto dell’UE) che introduce
una norma che restringe gli spazi di libertà. Quindi si restringono gli spazi di liberà.
Il giudice italiano non può che rilevare l’esistenza di un conflitto, allora ha 3 strumenti:
1) l’interpretazione conferme al diritto dell’UE, cioè può tentare di verificare se la norma di diritto
dell’UE possa essere interpretata alla luce delle disposizioni interne in modo da armonizzare la
norma dell’Ue con la norma nazionale. Ma è un’interpretazione difficile, di solito porta
all’insuccesso, se per l’appunto si tratta di introdurre un nuovo reato che non è stato ancora
previsto dalla legge nazionale.
Se il parlamento invece prende atto che nell’UE si vuole incriminare un fatto e si procede
automaticamente attraverso una legge parlamentare. Ma subire l’influenza diretta delle istituzioni
dell’UE in materia penale va in contrasto con il principio della riserva di legge. Allora il giudice può
usare lo strumento:
2) della disapplicazione, il giudice disapplica la norma dell’Ue perché contrasta con un principio
fondamentale dell’ordinamento, il principio della riserva di legge. Quindi impedisce che la norma
dell’UE trovi applicazione sul territorio nazionale.
3) oppure può usare lo strumento del rinvio della questione alla Corte costituzionale.
C’è anche un altro strumento che il giudice nazionale può azionare cioè il rinvio pregiudiziale alla
corte di giustizia dell’UE, che è l’organo deputato a esprimersi sull’interpretazione da dare alle
norme che costituiscono il diritto dell’Ue. Ma il giudice nazionale non sta chiedendo alla corte una
interpretazione della norma del diritto dell’UE, ma vuole sapere come interpretare la norma
nazionale, quindi il giudice nazionale si rivolge alla corte di giustizia dell’Ue per sapere se la norma
nazionale contrasta con la norma europea.
Sulla base di alcune sentenze della corte costituzionale, le c.d. sentenze gemelle, possiamo
ricostruire qual è l’assetto del rapporto fra il diritto dell’Ue e il diritto nazionale in ambito penale .
In una ipotetica gerarchia delle fonti al primo posto mettiamo la costituzione e le leggi
costituzionali, sono leggi costituzionali quelle leggi che sono adottate dal parlamento con
maggioranza qualificata e che modificano la costituzione o aggiungono delle previsioni di rango
costituzionale.
Al secondo gradino mettiamo il diritto dell’Ue, che assume un rango di fonte sub-costituzionale
che quindi deve rispettare i principi fondamentali della costituzione e delle leggi costituzionali.
Al terzo gradino mettiamo la legge ordinaria, anche il codice penale che quindi è fonte subordinata
rispetto al diritto dell’UE, che conserva un primato rispetto alla legge ordinaria.
Questa gerarchia comporta che la legge ordinaria non possa contrastare con il diritto dell’UE.
Nel caso opposto immaginiamo che l’Ue introduca una norma che non va ad incriminare un
comportamento ma lo rende lecito. In questo caso il giudice nazionale, che si trova di fronte ad
una direttiva self-executive, che accordi la liceità ad un certo comportamento è tenuto a far
prevalere il principio del primato del diritto dell’Ue. Quindi il giudice nazionale disapplicherà la
norma nazionale quindi interna, e nel corso del processo applicherà la causa di giustificazione
prevista dalla fonte sovranazionale. A condizione però che: 1) la norma di favore deve essere
immediatamente applicabile, quindi non occorre una legge applicabile; 2) deve essere scaduto il
termine per la trasposizione nel nostro ordinamento della direttiva; 3) l’atto normativo deve
essere un atto che ritaglia sfere di nuova libertà, un atto normativo a favore dei cittadini italiani,
non che riduce sfere di libertà. È il carattere favorevole della normativa che obbliga il giudice
nazionale a sottomettersi al principio del primato del diritto dell’UE.
Quindi se una norma comunitaria è favorevole prevale il primato dell’Ue, se è una norma
sfavorevole perché comprime le libertà del cittadino allora a prevalere deve essere il principio di
riserva di legge, principio fondamentale dello stato al cospetto del quale il diritto dell’UE deve
fermarsi ed arretrare.

Nel rapporto con l’Ue il fondamento del meccanismo di disapplicazione, cioè perché il giudice
nazione deve disapplicare una norma che sia in contrasto con il diritto dell’Ue quando la norma di
diritto dell’UE sia una norma favorevole al cittadino nazionale. Bisogna fare due considerazioni.
Prima considerazione, quando è nata l’unione europea la scelta che è stata fatta è stata quella di
valorizzare i giudici nazionali come giudici dell’Ue. Il giudice nazionale deve farsi carico di applicare
il diritto dell’UE.
Seconda considerazione, se c’è un conflitto fra norma nazionale e norma dell’UE, il giudice
nazionale qualora la norma dell’Ue sia favorevole disapplica la norma nazionale, la norma
nazionale rimane ma non trova applicazione all’interno di quel processo. Il giudice nazionale ha il
potere della disapplicazione perché (art 10, 11, 117 della costituzione), il nostro ordinamento nel
sottoscrivere il trattato di Lisbona ha deciso di cedere delle quote di sovranità, è una scelta rara
perché rinunciare alla sovranità nazionale è una scelta colma di conseguenze perché si riconosce
che su certe materie prevale una sovranità federale, sovranazionale, propria delle istituzioni
dell’UE.
Il primato del diritto dell’Ue si radica su questa cessione di quote di sovranità. Rispetto alla
convenzione europea, una norma nazionale che contrastasse una norma contenuta nella
convenzione europea, interpretata alla corte europea dei diritti dell’uomo non può mai essere
disapplicata, potrà costituire oggetto di un rinvio pregiudiziale alla corte europea, ma non potrà
mai essere disapplicata perché il nostro ordinamento non ha fatto mai nessuna cessione di
sovranità nei confronti di una organizzazione internazionale come il consiglio d’Europa.

Altro problema che rappresenta un possibile attentato alla riserva di legge è dato dal rapporto con
le fonti secondarie, che sono le fonti che non godono di quella legittimazione popolare propria del
parlamento. Sono gli atti normativi dei ministeri (i regolamenti), e sono atti normativi degli enti
locali. Quindi sono atti che hanno il potere di innovare l’ordinamento giuridico attraverso delle
norme che modificano l’esistente ma che non godono di una legittimazione esclusiva che vanta il
parlamento quando legifera, quindi hanno una portata ridotta ma ciò non significa che non incida
sui diritti umani e sulle libertà dei destinatari.
Distinguiamo tra atti emanati da fonti secondarie con carattere generale ed estratte e atti
normativi di fonti secondarie con carattere individuale e concreto cioè che si rivolgono a
disciplinare situazioni minute che riguardano poche persone o singole persone.

Nel nostro ordinamento assistiamo ad un fenomeno che prende il nome di norma penale in
bianco.
Una norma si compone di due aspetti, la posizione di un precetto, quindi di una regola di condotta
e la posizione di una sanzione cioè di una conseguenza negativa nel caso in cui il precetto o la
regola di condotta sia stata trasgredita, violata. Più severa è la sanzione e più importanza assume il
precetto. Nella norma incriminatrice possiamo isolare una parte, cioè la parte precettistica dalla
parte sanzionatoria.
Con la locuzione norma penale in bianco si intende dire che il legislatore nazionale introduca una
norma ma che apparentemente rispetta la riserva di legge perché viene approvata dalla camera,
dal senato, viene promulgata dal Presidente della Repubblica ed esce nella Gazzetta Ufficiale,
quindi dal punto di vista formale rispetta tutti i meccanismi che deve avere una norma penale per
essere legittima.
Però effettivamente vediamo che il parlamento si è limitato a prevedere la seconda parte della
norma incriminatrice, cioè la parte sanzionatoria e ha lasciato in bianco la parte del precetto
perché il parlamento certe materie preferisce delegarle alle fonti secondarie.
Il legislatore si è di fatto limitato a rispettare a metà la riserva di legge prevedendo la sanzione,
quindi il principio di legalità delle pene è rispettato, ma il principio di legalità dei reati no perché ha
conferito alle fonti secondarie (che non godono della legittimazione popolare) il potere di definire
il precetto, cioè la regola di condotta.
La scelta delle norme penali in bianco è una scelta che si candida ad essere oggetto di censura da
parte della corte costituzionale per violazione del principio di riserva di legge.
Quindi nel caso della c.d. norma penale in bianco la fonte normativa secondaria pone il precetto, il
parlamento fa un rinvio.
Ci troviamo ad un fenomeno di integrazione, cioè la norma parlamentare viene integrata, perché il
precetto viene inserito nella norma di fonte parlamentare attraverso un rinvio ad una fonte
secondaria.
Possiamo avere diversi schemi per la legittimità costituzionale di alcuni modelli o schemi di
integrazione della norma penale da parte di fonti secondarie alle quali la norma incriminatrice
faccia rinvio.
Il primo è che il precetto viene ottenuto attraverso il rinvio alla fonte secondaria. È vietata, questa
tecnica, quando il precetto formulato dalla fonte secondaria abbia carattere generale ed astratto,
perché in questo modo il rischio è che il potere esecutivo si sostituisce interamente al potere
legislativo, calpestando la riserva di legge. Quindi non è tollerabile che il comportamento venga
definito esclusivamente in termini generali ed astratti da una fonte secondaria. Se l’integrazione
porta alla posizione di un precetto generale ed astratto da parte di una fonte secondaria abbiamo
il fenomeno della norma penale in bianco, un fenomeno inaccettabile che va contrastato. Qui la
norma se viene portata all’attenzione della corte costituzionale verrà dichiarata illegittima per
violazione della riserva di legge, non dobbiamo commettere l’errore di considerare l’art 650 del
c.p. L’art. 650 c.p. è la norma di apertura del titolo del codice penale, titolo III, dedicato alle
contravvenzioni. “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato
dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene, è
punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con
l'ammenda fino a euro 206”. La legge demanda ad una fonte secondaria l’individuazione dei
provvedimenti e poi si limita a esprimere la sanzione in caso di ottemperanza. In realtà, l’art. 650,
non rappresenta una norma penale in bianco perché i provvedimenti dell’autorità non hanno
carattere generale ed astratto ma hanno carattere specifico e concreto.
Secondo requisito, il provvedimento deve rispettare i criteri che lo rendono legittimo agli occhi
della legge, non può essere frutto di un eccesso di potere, di un arbitrio. Deve essere formalmente
legittimo. Di fronte a situazioni gravi contrassegnati dall’urgenza non posso aspettare che il
parlamento si riunisca e tutta la procedura seguente, ma in una situazione d’urgenza il
provvedimento deve essere immediato. L’art. 650 detta le coordinate all’interno delle quali
l’autorità locale è autorizzata a prendere una decisione che se è inosservata porterà ad un
rimprovero di tipo penale.
Nel caso di fattispecie penali che prevedono sanzioni per inosservanza di atti normativi individuali
e concreti non riscontriamo il contrasto con la riserva di legge (a condizione però che la legge
individui con sufficiente precisione il provvedimento).
L’art. 650 c.p. non rappresenta una norma penale in bianco e quindi non viola la riserva di legge,
tutt’al più ci potrà essere una violazione del principio di precisione laddove non siano
sufficientemente precise le ragioni che autorizzano l’autorità ad adottare questo tipo di
provvedimento.

La sentenza pronunciata dalla corte costituzionale n. 168/1971, ha escluso che l’art. 650 c.p.
configurasse una norma penale in bianco perché è la legge che indica i presupposti, i caratteri, il
contenuto e i limiti del provvedimento legislativo.

Seconda integrazione della fattispecie penale lo registriamo quando la fonte secondaria si limiti a
disciplinare alcuni elementi che costituiscono il precetto. Una parte degli elementi che
costituiscono il precetto viene disciplinata direttamente dalla legge del parlamento, ma c’è un'altra
parte che viene demandata attraverso rinvio ad un diverso potere subordinato. Facciamo
l’esempio, l’art. 659 comma 2 c.p.: l’esercizio di un mestiere rumoroso contro le prescrizioni
dell’autorità. È demandata all’autorità la definizione di quali siano le prescrizioni che, in materia di
tutela della quiete pubblica, che se trasgredite danno vita all’illecito sanzionato dall’art. 659 c. 2.

Dal precetto deve essere ricavabile qual è la scelta fatta dal parlamento. Il rinvio alla fonte
secondaria è ammesso a patto che vengono rispettate le coordinate di fondo . In questo modo il
parlamento conserva un controllo sul comportamento che ritiene penalmente rilevante e rinvia
alla fonte secondaria solo per quanto riguarda la definizione di dettaglio, che non involgono le
scelte fondamentali su cosa punire, sul come punirlo e sul se punirlo.

Terzo modello di integrazione. Quando la riserva di legge rinvia ad una fonte secondaria in chiave
di esclusiva specificazione tecnica di alcuni elementi che sono stati posti nel precetto direttamente
dalla fonte primaria. L’esempio classico è quello delle sostanze stupefacenti, il parlamento non ha
né il tempo ne le competenze per comprendere quali siano le sostanze nocive per la salute, cioè
per le sostanze stupefacenti. Quindi il parlamento si limita ad emanare un precetto, ad esempio
non alimentare il traffico di sostanze stupefacenti per scopi economici, poi opera un rinvio al
sistema tabellare. Ogni 3 mesi, il ministero della salute, aggiorna le tabelle delle sostanze
stupefacenti.
Il secondo corollario del principio di legalità, cioè i sotto principi del principio di legalità. Il
principio di precisione. La norma incriminatrice per essere conforme al principio di legalità deve
essere una norma precisa. Per norma precisa intendiamo la necessità che la norma penale sia una
norma chiara, intellegibile, sia una norma perspicua, cioè una norma che ciascuno di noi legge e
immediatamente comprende nel suo significato precettivo. Il destinatario della norma (ciascuno di
noi) non deve arrovellarsi per cercare di comprendere qual è il messaggio della norma. Una norma
precisa è una norma comprensibile.
Il principio di precisione si rivolge a due tipologie di elementi che compongono la norma
incriminatrice: gli elementi normativi e gli elementi descrittivi, quindi si vincola il legislatore a
utilizzare elementi normativi ed elementi descrittivi precisi, intellegibili, cioè suscettibili di essere
immediatamente afferrati.
Gli elementi descrittivi sono quelli che percepiamo attraverso il ricorso alla nostra sensorialità,
l’uso dei sensi, come l’elemento della morte cioè l’omicidio volontario, la morte è un evento che
rappresenta un elemento costitutivo della norma incriminatrice dell’omicidio, un elemento
costitutivo che ha natura di un elemento descrittivo perché è possibile afferrare attraverso i sensi.
Ci sono elementi normativi invece il cui significato lo possiamo ricavare solo andando a vedere una
norma diversa da quella incriminatrice ma richiamata esplicitamente da quella incriminatrice per
formare la portata del significato di quell’elemento; pensiamo al delitto di furto che appunto si
sottrae una cosa mobile altrui, anche in questo caso assistiamo ad un rinvio ad una norma
giuridica diversa da una norma incriminatrice (ci riferiamo al codice civile per vedere il significato
di cosa altrui o di proprietà) per comprendere il significato quindi di un elemento costitutivo della
norma incriminatrice. Senza il rinvio a questa norma diversa (esterna) noi non possiamo
comprendere l’esatta portata applicativa incriminatrice.
Ad esempio con l’art. 575 c.p. noi ricaviamo immediatamente il divieto di omicidio, arriva un
messaggio inequivoco, non è fraintendibile. Poche parole ma che segnano in modo netto il
perimetro del divieto.
Però non tutte le norme penali hanno queste caratteristiche. Il problema che si pone è un
problema di intelligibilità del precetto, l’esatto significato di una norma incriminatrice risulta
difficile da capire. Solo ricostruendo l’esatto significato di un precetto noi possiamo comprendere
se un comportamento è rilevante oppure no. La chiarezza del precetto porta alla condanna o
all’assunzione di un soggetto.
L’importanza dell’interpretazione, ogni singola parola che compone il precetto penale è
suscettibile di essere interpretata. La responsabilità del legislatore è nello scrivere norme precise,
il più possibile precise, perché dobbiamo riconoscere come i vocaboli possano esprimere significati
diversi. Quindi possano fornire la base per interpretazioni diverse. Una parola può esprimere una
pluralità di significati, che possono essere attribuiti ad una singola parola, cioè può essere
polisemica, quindi può generare dubbi sull’esatta portata della volontà di chi ha scritto quel testo.
Quindi ci si domanda cosa intendeva dire il legislatore e ci si domanda l’esatto significato.
Da una parte abbiamo il dovere del legislatore, imposto dall’art. 25 comma 2, di scrivere testi di
legge penale che rispettano il dettame della precisione. Dall’altro però abbiamo una difficoltà
intrinseca del linguaggio, che per sua natura conosce dei coefficienti di equivocità. Nel mezzo ci
siamo noi, i destinatari di un precetto penale che ambisce ad essere preciso ma che produce dei
margini di incertezza interpretativa. I giudici sono chiamati ad interpretare la legge a ridurre i
margini di incertezza.
Richiamando anche Cesare Beccaria che sosteneva che rappresenta una garanzia fondamentale
del cittadino, un diritto fondamentale, conoscere e sapere prima di tenere un certo
comportamento se quel comportamento costituisce reato oppure no, se è lecito o illecito.
Questa garanzia è fondamentale perché richiamando la sentenza della corte costituzionale
sentenza n. 364/1988, solo se io conosco prima di tenere un certo comportamento se quel
comportamento configura un fatto penalmente rilevante o irrilevante, solo allora sono messo
nelle condizioni di compiere libere scelte d’azione.
Se la norma è imprecisa io vivo nell’incertezza, non sapendo prima se il mio comportamento è
penalmente rilevante oppure no, io vengo limitato nell’esercizio della mia libertà.
Quindi appartiene al principio di precisione il dovere del legislatore di formulare norme penali
precise, così da consentire ai cittadini di programmare la loro vita senza temere l’inflazione per un
comportamento che secondo loro non costituiva reato.
Il principio di precisione incarna una fondamentale garanzia, volta a far si che la volontà del
precetto possa far affidamento su quello che c’è scritto nel testo della norma incriminatrice. Il
destinatario del precetto deve sapere che tutto ciò che non c’è scritto nella norma incriminatrice è
lecito, si può fare.
La norma incriminatrice per essere precisa deve definire chiaramente il confine che passa tra ciò
che è consentito e ciò che è vietato.
La sentenza 364/1988 è importante perché si regge su un impianto di stampo contrattualistico. Da
un lato si riconosce un obbligo a carico dei cittadini, cioè che i cittadini hanno l’obbligo di
informarsi sulle norme penali in vigore. Il legislatore invece deve adempiere preventivamente
all’obbligo di rendere le norme penali riconoscibili. Quindi possiamo dire che è un patto che viene
siglato tra i destinatari della norma e i soggetti che quella norma producono. È un patto difficile da
mantenere perché i cittadini che si impegnano a rispettare la legge penale, ma il rispetto della
legge penale passa necessariamente attraverso la preventiva conoscenza dei precetti della legge
penale.
Nel nostro ordinamento penale ci sono più di 8000 fattispecie. Il cittadino sa che esistono dei
divieti fondamentali e poi che la conoscenza delle norme incriminatrici operi in rapporto al settore
di vita socio professionale, quindi se io sono un medico sono tenuto a conoscere le norme che
formano e che caratterizzano la mia disciplina.
Il dovere della Repubblica, dello stato, del legislatore, di fornire direttive di comportamento chiare
e riconoscibili si collega all’art. 3 della cost. La repubblica è impegnata alla rimozione di una serie
di ostacoli che possono frenare la realizzazione piena della propria personalità e possono anche
ostacolare il rispetto della legge penale. Il cittadino ha il dovere di informarsi, ma c’è il dovere dello
stato di fornire un supporto alla comprensione alle norme fondamentali per il vivere civile. Il
cittadino deve essere messo nelle condizioni di conoscere, perché solo la conoscenza gli consente
di organizzare la propria vita in modo tale da evitare illeciti penali.
Il fondamento del principio di precisione lo troviamo nell’art. 25 c. 2 della Cost. In realtà questa
norma è una norma che genericamente fissa la riserva di legge, cioè attribuisce al parlamento il
compito di legiferare in materia penale. Non sembra contenere un diretto riferimento che la
norma penale sia chiara.
Mentre un diretto riferimento lo troviamo nell’art 1 del c.p., dove c’è un avverbio
“espressamente” che traduciamo con chiaramente, intellegibilmente, precisamente.
Il principio di precisione può essere fondato anche su altri articoli della costituzione, art. 13 della
Cost. che sancisce il valore della libertà personale; e l’art. 27 c. 1 e 3 della Cost. che contiene il
principio di colpevolezza.
La sentenza 364/1988 dichiara la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5, nella parte in cui
dice “non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza, l’ignoranza inevitabile”. L’art 5 c.p. dice che
nessuno può invocare a proprie scuse l’errore o l’ignoranza del precetto penale.
La corte ci dice che l’atteggiamento del soggetto che si sia fatto carico di sciogliere l’incertezza e
non ci sia riuscito è un atteggiamento incolpevole, la colpa è del legislatore che non ha fatto
l’impossibile per mettere il soggetto nelle condizioni di esercitare libere scelte di azione, all’interno
delle norme incriminatrici.
Un'altra norma nella costituzione che ci aiuta a fondare il principio di precisione, l’art. 111 comma
6 cost., “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, nella motivazione dovrà
esserci una interpretazione del significato della norma incriminatrice. È evidente che il giudice può
andare a motivare se si trova dinanzi ad un testo riconoscibile e chiaro. Se invece deve ricostruire il
significato tra vari significati possibili si apre l’arbitrio. Ogni giudice attribuisce un significato
diverso che provocherà incertezza.
La precisione riguarda anche l’azione della pubblica accusa che per esercitare l’azione penale deve
poter contare sulla norma precisa che fornisca chiaramente gli elementi, cioè si devono svolgere
delle indagini che ambiscano ad arrivare ad una condanna dell’indagato.
Se questi elementi sono imprecisi in alcune procure si avrà una interpretazione e in altre procure
lo stesso comportamento potrà essere penalmente rilevante o irrilevante.
Il costo maggiore lo subisce la difesa, che all’art 24 c. 2 cost, è posta come diritto inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento. Ma se contro di me mi viene rivolta una accusa frutto di una
norma imprecisa faccio molta fatica a difendermi. Se un elemento non è chiaro e va a produrre
una varietà di interpretazioni, il difensore va ad allestire una difesa su una base mobile, e a sua
volta l’accusa si fonda su un testo di legge approssimativo. Quindi io rischio di essere condannato
senza aver potuto esercitare pienamente il mio diritto di difesa, in questo caso mi trovo di fronte
ad una accusa incerta, su concetti che possono essere variamente interpretati dal PM e dal giudice
di turno con ampi margini di varietà.
In questi casi la linea di confine tra illecito e lecito è una linea mobile, invece di essere una linea
fissa. Quindi può essere spostata a piacere degli interpreti, generando disparità di trattamento.
Quindi alcuni (fortunati) saranno salvati, altri saranno condannati su una base imprecisa.

5 casi in cui il principio di precisione ha trovato recente applicazione.


Il caso Taricco. CGUE GS – 8 settembre, Taricco causa C-105/14.
Innanzitutto il caso tocca una varietà di istituti, non solo il principio di precisione e il rapporto tra
diritto dell’Ue e diritto nazionale nella materia penale.
Il caso Taricco ha fatto molto discutere e c’è stato il rischio di arrivare addirittura ad azionare i c.d.
contro limini, cioè una sorta di scudo che viene elevato dallo stato nazionale, in questo caso
l’Italia, per evitare che il principio del primato del diritto dell’Ue viola dei principi fondamentali
dell’ordinamento.
Il giudice nazionale di Cuneo si è trovato di fronte a un caso di associazione a delinquere, art 416
del c.p., finalizzata alla commissione di reati tributari in frode agli interessi finalizzati dell’UE.
Questa associazione a delinquere era volta alla costituzione di c.d. società inesistenti disseminate
in vari paesi dell’UE e questo schema, c.d. frode carosello mirava a frodare l’UE sotto il profilo del
mancato pagamento dell’IVA comunitaria. L’IVA veniva trasferita da una società all’altra, quindi da
un paese ad un altro e l’IVA non veniva mai pagata.
Il giudice di Cuneo era un giudice delle indagini preliminari, e si rende conto che questo caso, per i
tempi della giustizia penale, da li a qualche mese lui per attenersi alla normativa sulla prescrizione
del reato dovrà pronunciare una declaratoria di estinzione del reato di associazione a delinquere
per intervenuta prescrizione perché è passato troppo tempo dal momento della commissione.
Il giudice però solleva un dubbio, cioè sostiene che la normativa sulla prescrizione, sulle cause di
interruzione della prescrizione prevista dal codice penale agli art. 161 e 162 c.p., sia in contrasto
con la normativa europea, cioè con l’art 325 TFUE che impone agli stati di tutelare gli interessi
finanziari dell’UE. Il giudice nazionale si domanda quindi se lo stato italiano predisponendo una
disciplina della prescrizione che costringe a dichiarare la prescrizione nel caso di una frode agli
interessi finanziari dell’UE, si domanda se sta tutelando gli interessi finanziari dell’UE.
La corte di giustizia, alla quale il giudice nazionale si rivolge con il rinvio pregiudiziale, afferma che
la disciplina italiana della prescrizione è incompatibile con la tutela nazionale degli interessi
nazionali dell’UE, perché determina la sistematica impunibilità delle frodi in materia di IVA.
Quindi viene autorizzato il giudice nazionale di Cuneo a disapplicare la disciplina nazionale
contrastante con il diritto dell’UE.
È una sentenza dirompente perché la soluzione della disapplicazione produce degli effetti diretti in
malam partem, nel senso che l’indagato sapeva di poter contare sulla prescrizione ma gli viene
disapplicata la prescrizione e quindi il procedimento continua senza un termine finale. La modifica,
che è rappresentata dall’autorizzazione alla disapplicazione della normativa interna, viene
applicata al caso in corso, quindi ha efficacia retroattiva perché non vale per il futuro e per altri
casi analoghi ma si applica retroattivamente al caso in corso.
Gli effetti vengono prodotti non da un regolamento, o da una direttiva, o da un atto normativo
dell’istituzione europea, ma da una pronuncia della corte di giustizia, cioè da quell’organo
chiamato ad assicurare la corretta applicazione del diritto dei trattati e del diritto dell’UE.
Assistiamo ad un attacco al diritto legislativo italiano, sferrato da una sentenza di un organo
straniero, esterno, che non ha nessuna legittimazione democratica, cioè la CGUE. Il filtro per far
penetrare questa sentenza è il giudice nazionale.
Di fronte alla pronuncia della corte di giustizia dell’Ue, la dottrina scaturisce numerosi commenti
che rilevano che sia in atto un attacco, cioè che c’è un affronto al principio di legalità perchè una
pronuncia della corte rischia di sovvertire quelli che sono i pilastri del sistema (la riserva di legge).
La prescrizione è una causa di estinzione di un reato che sanziona l’inutile decorso del tempo. I
fondamenti della prescrizioni sono diversi, ci sono fondamenti legati alla prevenzione generale
quando passa troppo tempo si placa l’allarme sociale, non si avverte più il bisogno di punire un
certo comportamento; poi c’è anche un fondamento real preventivo, cioè un soggetto che abbia
compiuto un reato molto tempo fa può essere una persona totalmente diversa, quindi non ha più
senso punire un soggetto che è diventato un fattore positivo di sviluppo della società; poi c’è
anche un principio che deriva dalla costituzione, cioè il principio della ragionevole durata del
processo, per cui non ha senso investire risorse economiche per procedimenti che nascono a
distanza di molto tempo e che sottopongono l’indagato all’incertezza, cioè un arco temporale più
o meno lungo passato con l’incertezza e che non lascia libero l’indagato, e che viene percepito
dall’opinione pubblica come un soggetto sospeso.
Al riguardo della prescrizione evidenziamo una profonda differenza tra l’ordinamento italiano e
altri ordinamenti che compongono l’UE. Nell’ordinamento penale italiano la disciplina della
prescrizione la troviamo nel codice penale negli art. 157 e seguenti. Questa scelta segnala ed
esprime la natura sostanziale della prescrizione, la prescrizione non ha natura processuale ma ha
una natura sostanziatale e come tale è soggettata al principio di legalità e i suoi corollari. Quando
un istituto ha natura processuale è retto dal principio “tempo regis act”, il tempo regge l’atto, cioè
si applica la legge che vige al momento della realizzazione dell’atto processuale. Vale la legge
vigente al tempo dell’atto.
Gli istituti che hanno natura sostanziale invece sono soggetti al principio di legalità, e tra i corollari
del principio di legalità troviamo il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.
Quindi non si applica una legge vigente al momento dell’atto ma si applica la legge più favorevole.
Quindi in questo caso se si riconosce natura sostanziale all’azione, la sentenza non può avere
effetti retroattivi perché continuerà ad applicarsi al signor Taricco la disciplina della prescrizione
vigente al momento del fatto previsto dalla legge come reato.
Se invece, come fa la corte, si riconosce natura processuale alla disciplina della prescrizione, la
corte non ritiene leso il principio di legalità e ritiene che la sua decisione possa provare
applicazione ai processi in corso anche se decisamente sfavorevole per gli interessi dell’indagato.
A questo punto si instaura un dialogo tra le corti. Alla corte di giustizia risponde la Corte
Costituzionale italiana con un’ordinanza con la quale chiede alla corte di giustizia un
ripensamento, in particolare chiede una sorta di interpretazione autentica rispetto al significato
dell’art. 325 del TFUE. In particolare il quesito rivolto alla corte è come l’art 325 deve essere
interpretato dal giudice penale.
La corte di giustizia, nel 2017, si pronuncia di nuovo per rispondere ai quesiti posti dalla corte
costituzionale. Dopo aver riconosciuto il valore della tutela da attribuire agli interessi finanziari
dell’UE si rende conto che forse si è spinta troppo in là e quindi introduce una precisazione.
Il giudice nazionale deve disapplicare la normativa sulla prescrizione se questa impedisce la
repressione in un numero considerevole di casi a meno che questa disapplicazione comporti la
violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, e questa violazione derivi dalla
insufficienza determinatezza della legge applicabile.
Abbiamo due violazione, la violazione del principio di precisione e la violazione del divieto di
retroattività di una norma sfavorevole. Se di fronte al giudice nazione si presentano questi due
rischi associati alla disapplicazione della normativa interna, il giudice nazionale non può e non
deve disapplicare la norma interna.
La corte costituzionale torna a pronunciarsi nel caso, fissa quali sono i principi da seguire per
regolare casi come quello Taricco e si auto riconosce un forte polo regolatore per evitare che corti
straniere, come la corte di giustizia, possano indebitamente invadere dei canoni che non sono loro
propri.
La regola Taricco quindi, può trovare applicazione solo se rispettosa del principio di legalità, nella
duplice veste dei suoi sotto corollari della precisione e del divieto di retroattività. Quindi è una
regola che non si estende ai fatti compiuti prima dell’8 settembre del 2015, data di pubblicazione
della sentenza della corte di giustizia. Ma varrà solo per il futuro, e avrà un valore molto
ridimensionato. Potrà valere solo a patto che non pregiudichi il principio di irretroattività e di
precisione.
Si auto riconosce un ruolo importante alla corte costituzionale, perché spetta a lei il compito di
accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e
in particolare con i diritti inalienabili della persona.
Il giudice comune non può applicare la regola Taricco indipendentemente dal fatto che la
controversia sia sorta prima o dopo l’8 settembre del 2015, perché la regola Taricco contrasta
frontalmente con il principio di precisione che troviamo nell’art. 25 c. 2 della costituzione.
Il principio di precisione assume una duplice direzione, non si limita a garantire nei riguardi del
giudice la conformità alla legge dell’attività giurisdizionale, il giudice è soggetto solo alla legge, ma
assicura a chiunque, a tutti i destinatari una percezione sufficientemente chiara e immediata delle
conseguenze dei nostri comportamenti, dei profili di liceità penale.

Il caso de Tommaso.
La protagonista è una corte internazionale, cioè la corte europea dei diritti dell’uomo con sede a
Strasburgo. Il caso ha ad oggetto la legittimità rispetto alla convenzione europea dei diritti
dell’uomo della normativa italiana in materia di misure di prevenzione. Le misure di prevenzione
sono delle espressioni che alludono ad istituti simili, identici ma che in realtà non sono ne simili ne
identici, parliamo di misure cautelari, misure di sicurezza, misure di prevenzione. Le misure
cautelari le troviamo nel codice di procedura penale, e sono misure che vengono adottate dal
giudice delle indagini preliminari, dietro richiesta del PM, per soddisfare quelle che vengono
definite esigenze cautelari.
Le esigenze cautelari sono 3: il pericolo di fuga, il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo
di reiterazione del reato. Se sussiste anche solo una di queste tre esigenze il PM è autorizzato a
chiedere al giudice delle indagini preliminari l’adozione, l’assunzione di una misura cautelare che
scongiuri uno di questi tre pericoli. A quel punto il giudice delle indagini preliminari valuta la
sussistenza effettiva del pericolo ma anche quale sia la misura più adeguata e proporzionata alla
gravità del pericolo.
Ci sono anche le misure di sicurezza, possono essere sia personali e sia reali, sono misure che si
applicano qualora venga accertata la pericolosità sociale del soggetto. Queste le troviamo nel
codice penale.
Abbiamo anche le misure di prevenzione, le troviamo nel testo unico di pubblica sicurezza e nel
c.d. codice di anti mafia. Le misure di prevenzione sono le misure di polizia, vengono impartite dal
prefetto o dal questore e vengono considerate misure preter delictum, cioè misure che vengono
assunte indipendentemente dalla commissione di un delitto e indipendentemente dall’apertura
del codice penale. Sono misure molto problematiche, perché assistiamo a delle compressioni della
libertà personale che nascono sulla base del mero sospetto. Il mero sospetto che il soggetto che
poi diventa il destinatario di questa misura, abbia commesso degli illeciti. Sulla base di questo
sospetto, in via amministrativa vengono applicato delle restrizioni della libertà personale dettate
da motivi di ordine pubblico.
De Tommaso, dopo aver esaurito i rimedi interni, si rivolge alla Corte Europea lamentando che pur
avendo dei precedenti penali alle spalle era stato colpito dalla misura di prevenzione personale
della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel proprio comune di residenza. Perché il
tribunale di Bari aveva ritenuto che il signor De Tommaso fosse abitualmente dedito a traffici
delittuosi e che vivesse dei proventi di questi traffici. Tutto era fondato sulla base delle precedenti
condanne passate in giudicato dal signor De Tommaso.
La corte europea ritiene che la legge che disciplina le misure di prevenzione, pecchi di precisione
perché non contiene previsioni sufficientemente dettagliatamente sul tipo di condotta espressiva
di una pericolosità sociale tale da giustificare l’applicazione di una misura di prevenzione.
I presupposti sulla base dei quali l’ordinamento autorizza l’applicazione di una misura di
prevenzione, ad esempio li troviamo all’art. 8 del codice antimafia, vivere onestamente e
rispettare le leggi, ciò significa tutto e niente. Altra espressione è “non dare ragione alcuna di
sospetto in ordine alla propria condotta”.
La cassazione a sezioni unite, nel 2017, forte di una pronuncia autorevole come quella della corte
europea, ritiene che il delitto che va a sanzionare con la pena della reclusione la violazione delle
misure di prevenzione, sia una disposizione inapplicabile. Perché fondata per rinvio su elementi
imprecisi, vaghi e generici.
Anche la corte costituzionale si pronuncia e dichiara illegittima l’applicazione della misura di
prevenzione personale della sorveglianza speciale e lo fa con due sentenze, la n. 24/2019 e la n.
25/2019 che per l’appunto censurano espressioni vaghe, eccessivamente ampie ed imprecise con
l’abitualità nel traffico delittuoso e soprattutto l’onesto vivere e il rispettare le leggi imposte con la
misura personale della sorveglianza speciale.
Il principio di precisione conduce ad una interpretazione costituzionalmente orientata, c.d.
tassativizzante, al fine di conferire maggiore precisione e vincolatezza alla fattispecie di
pericolosità generica.

Caso Contrada.
Bruno Contrada è un alto dirigente della polizia di stato. Viene accusato per concorso esterno per
associazione mafiosa. Era accaduto che a Contrada viene contestato un comportamento di
ostacolo all’amministrazione della giustizia, cioè l’accusa nei confronti di Contrada è che era in
possesso di informazioni privilegiate che riguardavano l’imminente arresto di un boss mafioso e le
abbia trasmesse al boss mafioso impedendo la cattura. Questa condotta porta a contestare a
Contrada una accusa pesante, cioè il concorso esterno che troviamo nell’art. 416 bis nel codice
penale.
L’art. 416 bis dal punto di vista della collocazione lo troviamo dopo l’art. 416 che punisce
l’associazione a delinquere; invece il 416 bis punisce l’associazione a delinquere di stampo
mafioso. Entrambi i delitti sono delitti c.d. associativi cioè puniscono il fatto solo di associarsi, un
fatto che normalmente è pienamente lecito, ma quando questa libertà di associazione è usata
male, viene impiegata per realizzare degli scopi delittuosi, assistiamo alla punizione di condotte
associative.
La principale differenza tra associazione semplice e associazione mafiosa noi la troviamo nel terzo
comma che rappresenta il cuore della norma, perché segnala come elemento da approvare il c.d.
metodo mafioso. È il metodo mafioso che differenzia l’associazione semplice dall’associazione
mafiosa. Il metodo mafioso consiste principalmente nel ricorso ad una intimidazione, fatto quindi
di manacce, estorsioni, volta ad ottenere una condizione di assoggettamento e di omertà per
commettere una serie di delitti.
A Contrada non viene contestato l’art. 416 bis ma viene contestato il concorso c.d. esterno o
eventuale nell’art. 416 bis.
Viene elaborata una teoria del concorso esterno o eventuale nel reato associativo. Il reato
associativo è un reato a concorso necessario, cioè presenta una struttura tale per cui si può parlare
di associazione in quando ci siano almeno tre persone che concorrono tra di loro nell’associazione.
È la legge che prevede la presenza di più persone, almeno tre.
In riferimento al concorso esterno o eventuale c’è un riferimento all’art. 110 che nel nostro
ordinamento disciplina il concorso di persone nel reato. Abbiamo la combinazione di due norme,
la norma di parte generale, l’art. 110, che disciplina il concorso di persona con una norma di parte
speciale, art. 416 bis, che disciplina l’ipotesi di concorso necessario.
Quindi a Contrada gli si imputa il fatto che non faceva parte dell’associazione, era un estraneo,
però ha dato un contributo fondamentale alle sorti delle associazioni.
Contrada viene arrestato, processato e condannato a distanza di molti anni dal fatto che gli viene
contestato. Il tutto si conclude con una sentenza di condanna passata in giudicato, cioè che la
corte di cassazione lo ritiene colpevole oltre ogni ragionevole dubbio di concorso esterno per
associazione mafiosa, e Contrada sconterà in carcere la pena detentiva per intero.
Però nel frattempo non si da per vinto e con i suoi avvocati fa ricorso alla Corte europea dei diritti
dell’uomo di Strasburgo dopo aver esaurito i rimedi interni, perché ritiene che sono stati lesi i suoi
diritti e si rivolge alla corte europea dei diritti dell’uomo lamentando in particolare la violazione
dell’art 7 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, nulla poena sine lege, cioè nessuna
pena può essere inflitta se non prevista da una legge anteriore al fatto commesso; dentro questa
previsione sta dentro il principio di legalità delle pene e il principio di legalità dei reati.
Il primo comma dell’art. 7 “nessuno può essere condannato per un’azione o una omissione che, al
momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale.
E non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato
commesso”.
Innanzitutto notiamo una soluzione terminologica adottata dagli estensori della convenzione
europeo dei diritti dell’uomo, il termine “legge” non viene riproposto nel primo comma, al posto
della parola legge si introduce il vocabolo “diritto”. Questo perché la convenzione europea dei
diritti dell’uomo è espressione del consiglio d’Europa che è un organismo internazionale al quale
hanno aderito oltre 60 stati. Ogni stato presenta un suo ordinamento caratteristico, è molto
difficile quindi trovare una grammatica comune che vada bene per tutti gli ordinamenti giuridici,
perché ci sono ordinamenti che fanno parte del common law e altri del civil law, quindi il principio
di legalità che è tipico degli ordinamenti di civil law, è pressoché sconosciuto agli ordinamenti di
common law. Quindi c’è l’esigenza di individuare un concetto che andasse bene per entrambi i
sistemi e la soluzione è stata trovata sul concetto di diritto. Quindi il principio di legalità si rivolge a
tutti gli ordinamenti in modo trasversale.
Contrada, che fa parte di un ordinamento di civil law, quindi un ordinamento il cui diritto penale è
emanazione di una fonte legislativa, sostiene che la sua posizione sia stata lesa non da una scelta
parlamentare ma da una decisione giurisprudenziale.
È stata fatta la scelta di costruire dinanzi alla giurisprudenza della corte europea un concetto di
materia penale che si caratterizza per tenere dentro il diritto di origine legislativa e
giurisprudenziale e entrambe le fonti del diritto devono, per essere conformi alla convenzione
europea, presentare due requisiti fondamentali, l’accessibilità e la prevedibilità.
Accessibilità: è un sinonimo del principio di precisione, cioè una fonte o norma è accessibile solo se
è chiara, se è precisa, se riesco a trarre una regola di condotta. Il requisito dell’accessibilità si
riferisce al diritto di fonte legislativa che deve immediatamente essere percepibile del suo esatto
significato da parte del destinatario del precetto.
La corte europea parla di prevedibilità si rivolge in particolare agli ordinamenti di common law,
quegli ordinamenti nella quale la giurisprudenza è fonte di diritto, e gli chiede di emanare decisioni
prevedibili. In caso di mutamento giurisprudenziale, se questo mutamento è imprevedibile, la
corte europea ci dice non può essere messo a carico dell’imputato, potrà valere per il futuro ma
non può riguardare il processo in cui si trova l’imputato che subisce il cambiamento.
Come nel caso Taricco, c’è un mutamento della corte di giustizia e Taricco subisce gli effetti di quel
mutamento durante il processo in corso, questo non è ammissibile.
Inoltre torna in gioco il principio di irretroattività degli effetti malam parte, la prevedibilità si
associa a decisioni giurisprudenziali, abbiamo un caso in cui il principio di irretroattività non vale
solo per i divieti contenuti in provvedimenti legislativi ma si estende anche a comandi o divieti
contenuti in decisioni giurisprudenziali, quindi è un principio che negli ordinamenti di common law
si applica sia al versante legislativo e sia al versante giurisprudenziale.
Contrada si lamenta perché i fatti contestati cioè il favoreggiamento di un boss del crimine
organizzato sono avvenuti in un arco temporale ben preciso. Sono avvenuti dopo il 1982, cioè
dopo l’entrata in vigore della riforma del codice penale che ha portato all’art 416 bis, ma in un
periodo in cui la giurisprudenza della cassazione non aveva ancora maturato un convincimento
pieno sulla legittimità della contestazione della figura del concorso esterno in associazione
mafiosa.
Solo nel 1994, con la pronuncia a sezioni unite Demitri, per la prima volta la cassazione pone un
punto fermo nel dibattito sulla configurabilità o meno del concorso esterno in associazione
mafiosa.
Contrada ritiene di essere stato condannato dalla cassazione per un fatto che al momento della
sua commissione non poteva dirsi punito a titolo di concorso esterno perché non era prevedibile
che il dibattito giurisprudenziale avrebbe portato a configurarne la legittimità della contestazione.
Mentre dopo il 1994 non ci sono più dubbi su questo schema di configurazione, prima del 1994 era
difficile prevedere che tipo di sviluppo avrebbe avuto questa dialettica fra le varie sezioni della
corte di cassazione.
Il principio di prevedibilità della decisione giurisprudenziale, della prevedibilità del mutamento
giurisprudenziale, si salda al principio di precisione perché la chiarezza della disposizione si
alimenta dell’interpretazione giurisprudenziale che viene data a quella previsione normativa.
Contrada ritiene che questa situazione interpretativa nel contestare l’art 110 agganciandolo all’art.
416 bis, avesse determinato una situazione per cui la norma ricavabile dall’interpretazione
giurisprudenziale era una norma imprecisa perché non consentiva di prevedere quale sarebbe
stato lo sviluppo del dibattito giurisprudenziale.
Il concorso esterno è di origine giurisprudenziale, non c’è nel codice il delitto di concorso esterno,
ma lo ha elaborato la giurisprudenza.
La corte europea da ragione a Contrada, ritiene che al momento della condotta non esistesse in
giurisprudenza un orientamento sufficientemente consolidato che potesse far prevedere a
Contrada che la sua condotta se scoperta sarebbe sfociata in una condanna a titolo di concorso
esterno, perché al tempo della condotta non esisteva un consolidato trend giurisprudenziale che
sanzionasse espressamente il concorso esterno come autonoma figura di reato.
Il tema della prevedibilità si collega al tema dell’affidamento nelle decisioni legislative e nelle
soluzioni giurisprudenziali e quindi al tema della certezza del diritto.
Il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per Contrada, il ricorrente non
poteva conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale dagli atti da
lui compiuti.
Contrada, avendo però già scontato gli anni, ha potuto ottenere il risarcimento dei danni ed è
stato poi rimesso nei ruoli della polizia di stato.

Il caso della nuova responsabilità penale degli esercenti delle professioni sanitarie.
Art 590 sexies c.p., troviamo una causa di non punibilità per l’esercente delle professioni sanitarie
nel caso in cui venga contestato il delitto di lesioni colpose o il delitto di omicidio colposo, di cui
agli articoli 589 e 590 c.p. Qualora l’evento si sia verificato in caso di imperizia la punibilità è
esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni prevista dalle linee guida ovvero definite e
pubblicate ai sensi di legge.
Il Decreto legge Balduzzi, (Ministro della Salute), nel 2012, all’art 3 del decreto Balduzzi, introduce
una norma di favore con la quale si esonera da responsabilità penale gli esercenti delle professioni
sanitarie che pur essendosi attenutesi alle linee guida e alle buone pratiche accreditate presso la
comunità scientifica, fossero incorsi in un caso di colpa lieve.
Balduzzi riconosceva la non punibilità ai medici che avessero violato qualche regola cautelare
durante il loro operato a patto che fosse una violazione lieve e che il loro operato si fosse
conformato a un sapere scientifico contenuto in autorevoli raccomandazioni di comportamento
clinico previste dalle linee guida e dalle buone pratiche. Le linee guida sono dei documenti
elaborati dalle società scientifiche che contengono delle raccomandazioni costruite sulla base delle
evidenze disponibili cioè sulla base di una raccolta di dati derivanti dalla ricerca.
Nel 2012 e poi nel 2017 il legislatore verte l’esigenza di mettere mano ad una riforma del regime
responsabilità medica, la ragione fondamentale è la medicina difensiva. La medicina difensiva si
deve ad un mutamento culturale radicale nei rapporti tra paziente e curante dall’altro. Sia la
maggiore disponibilità di dati, sia le esigenze del consenso informato hanno alterato
profondamente il rapporto tra medico e paziente. Il paziente può fare causa al medico, anche una
causa penale se determinano che il medico abbia provocato un elemento avverso, come la morte.
Le pratiche di medicina difensiva sono di due tipi: medicina difensiva positiva e medicina difensiva
negativa.
Quella positiva consiste nel sottoporre il paziente ad un numero esagerato di esami, per
dimostrare che sia stato fatto di tutto, anche esami inutili; quindi è l’iper prescrizione di esami o
medicine come misura cautelativa contro il rischio di contenziosi.
La medicina difensiva negativa invece, che è più pericolosa perché il medico invece di prendere in
carico il paziente (la maggior parte delle volte un paziente complesso), questo medico può essere
tentato dal percorrere delle piste di evasione dall’impegno deontologico (es. quando ci dicono che
in questo ospedale non sono attrezzati e ci si deve rivolgere altrove).
Il legislatore quindi ha voluto dare un messaggio di tranquillità per non far ricorre i medici alle
tecniche di medicina difensiva e ha deciso di accordare e riconoscere la non punibilità ai medici,
(comma 2 art 597), che abbiano rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida. Per
contrastare la medicina difensiva si promette al medico di non essere punito se ha rispettato le
linee guida.
Tutto ciò centra con il principio di precisione perché il comma 2 non è una norma chiara e precisa,
ma è una norma che in pochi mesi ha dato vita ad un contrasto interpretativo all’interno della
quarta sezione di cassazione con due sentenze che attribuivano a questa norma un significato
opposto.
Tant’è che si sono pronunciate le sezioni unite che si premurano di assicurare la certezza
nell’applicazione del diritto gestendo i contrasti che generano incertezza e disorientamento.
Le sezioni unite, c.d. sezioni unite Mariotti, dal nome dell’imputato, del 22 febbraio 2018. Le
sezioni unite esordiscono richiamando l’art. 12 delle preleggi, che è il caposaldo della
interpretazione letterale. E solo quando, utilizzando questo strumento, non si riuscisse a pervenire
ad un risultato ermeneutico interpretativo certo allora l’interprete è autorizzato a ricorrere ad
altre forme di interpretazione, come quella storica, sistematica.
L’interpretazione letterale è un’interpretazione sulla lettera della norma. Art. 12 “Nell'applicare la
legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.”
Quindi il Primo tipo di interpretazione è testuale, letterale. Il secondo tipo di interpretazione è
teleologica, cioè si cerca di capire la ratio che ha mosso il legislatore nell’introdurre questa norma.
Terzo tipo di interpretazione, interpretazione sistematica, secondo comma art. 12 “Se una
controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni
che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i
principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
Per conferire precisione alla norma, la corte di cassazione assume un atteggiamento problematico,
perché ritiene che il contrasto possa essere superato solo attraverso una interpretazione che vada
oltre la lettera del testo normativo. La corte di cassazione dice che è vietata una interpretazione
contraria al testo normativo, cioè quando un interprete vuole far dire alla norma ciò che la norma
non vuole dire. Mentre è permessa una interpretazione che vada oltre la lettera del testo. Con ciò
la corte sta andando oltre la riserva di legge, cioè dicono che al dì la di ciò che scrive il legislatore, il
significato di una disposizione può essere ricavato al di fuori del testo. In questo modo la
giurisprudenza diventa fonte del diritto, scrive lei la norma andando oltre il testo del legislatore.
La cassazione a sezione unite si sostituisce al legislatore ma lo fa in nome del principio di ultra
letteralità, della possibilità di andare oltre la lettera della pronuncia. La corte di cassazione a
sezioni unite ha introdotto con quella sentenza un requisito che non è presente nel testo della
legge, ed è il requisito della colpa lieve. Però all’interno dell’art. 590 sexies c.p. non si parla di
colpa lieve però la corte di cassazione per rendere operativa una norma che finora ha avuto
scarsissima applicazione introduce un limite, quello della colpa lieve, che non c’è scritto nel testo
di legge.
Il caso dello Stalking.
Art. 612 bis c.p., atti persecutori. Per contrastare il fenomeno dello stalking il legislatore ha
introdotto dopo la norma del delitto di manaccia (art. 612), l’art. 612 bis che regola il delitto di atti
persecutori, è una norma che mira a punire l’autore di atti persecutori.
Primo comma “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi
a cinque anni chiunque minaccia o molesta qualcuno in modo da cagionare un perdurante e grave
stato di ansia o di paura o di timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di
persona al medesimo legata da relazione affettiva o da costringere lo stesso ad alterare le proprie
abitudini di vita”.
Abbiamo un reato abituale, non basta un unico episodio di minaccia o di molestie, ce ne vogliono
almeno due. Si tratta di un reato di evento non di un reato di condotta perché la condotta di
molestie o minacce reiterate deve essere seguita dalla produzione di un evento.
Qui abbiamo 3 eventi, “cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura” o
“da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di
persona al medesimo legata da relazione affettiva” o
“da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Questi eventi sono eventi diversi da quelli nei reati classici di omicidio, questi eventi hanno natura
psichica. Ciascuno di questi eventi risente della soggettività che ciascuno di noi ha del
comportamento del prossimo.
La corte costituzionale si è pronunciata con una sentenza del 2014 sulla legittimità costituzionale
dello stalking, del delitto di stalking. Il giudice ritiene che la norma non definisca in modo
determinato il minimo della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché
possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante.
La corte ritiene la questione non fondata e spiega le ragioni. Per quanto riguarda la condotta
ritiene che il delitto graviti intorno ai concetti di molestia o minaccia che sono concetti già noti al
penalista perché fanno parte l’uno di una contravvenzione (art. 660) e l’altro la minaccia di un
delitto (art. 612).
Quanto all’elemento soggettivo è presente il dolo generico ma la parte più importante è che la
giurisprudenza della corte costituzionale riconosce espressamente la funzione integratrice del
diritto vivente. Cioè se la norma è poco chiara, prima di liquidarla come incostituzionale, andiamo
a vedere cosa dice la giurisprudenza, cioè andiamo a vedere se ha fatto una interpretazione
correttiva, integratrice capace di conferire precisione a quella norma.
Se questo diritto vivente non c’è allora la corte costituzionale può dichiarare illegittima la norma,
ma laddove il diritto vivente esista ed effettivamente fornisca una chiave interpretativa che rende
l’enunciato preciso, la norma non va dichiarata illegittima.
Il Principio di determinatezza (precisione) non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche,
alle quali frequentemente il legislatore deve ricorrere dato che c’è “l’impossibilità pratica di
elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a giustificare l’inosservanza del
precetto”.

Principio di determinatezza. Per definire norma determinata richiamiamo l’art. 603 del c.p., diritto
di plagio, questa norma è una norma che rispetta il principio di precisione ma non rispetta il
principio di determinatezza. Nel senso che è una norma chiara perché descrive in modo
intellegibile una situazione che tutti noi possiamo agilmente individuare. Per plagio ci riferiamo ad
uno stato di succubanza psicologica, sei succube, ti lasci condizionare.
Facciamo un esempio, Caso Braibanti, uno psichiatra che veniva accusato di plagiare i propri
pazienti. La corte dichiara illegittima la norma 603 c.p. anche se era norma che rispettava il
dettame della precisione. Questa norma viene accusata di essere indeterminata. Art 25 cost,
mette un altro dovere, quello di fare riferimento nella descrizione del fatto che si intende punire a
fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle
attuali conoscenze appaiono verificabili. In altre parole il legislatore deve configurare la fattispecie
penale in modo che sia processualmente accettabile.
La norma penale, per rispettare il principio di legalità nel corollario della determinatezza, deve
essere una norma determinata in quanto sia una norma dimostrabile. Gli elementi costituitivi della
norma devono essere oggetto di prova all’interno del processo penale, e quindi devono
documentare dei fenomeni suscettibili di essere provati all’interno del processo sulla base della
conoscenza disponibili in quel momento.
Quindi l’art. 25 impone al legislatore di formulare norme precise sotto il profilo della chiarezza e
dell’intellegibilità ma è formulato anche un onere cioè quello di formulare ipotesi che esprimono
fattispecie corrispondenti alla realtà. E sono corrispondenti alla realtà solo quelle fattispecie che
possono formare oggetto di prova all’interno del processo penale.

Penultimo corollario. Principio di tassatività.


Segnala la presenza di un divieto, il divieto di interpretazione analogica in materia penale.
L’interpretazione analogica la troviamo all’art. 12 d.p.c.c. (preleggi). Il divieto di analogia in
materia penale (art. 14 d.p.c.c.).
È un procedimento riconosciuto all’articolo 12 comma 2 delle disposizioni preliminari del c.c. ed è
un procedimento ordinario che vale in tutti i campi dell’ordinamento.
Quindi si da la possibilità di sottoporre il caso non regolato ad una interpretazione analogica
applicando una norma che non disciplina espressamente il caso ma che si lega ad esso da una
medesima ratio.
L’analogia è un meccanismo interpretativo fondamentale per garantire la vita all’ordinamento, e in
materia penale invece è vietata come ci dice l’art. 14 d.p.c.c. Non è ammessa una analogia della
legge penale perché compete solo al parlamento decidere cosa deve essere punito e cosa no, è il
parlamento che contempla espressamente la possibilità che esistano dei vuoti di tutela, delle
lacune.
La questione del divieto di analogia si gioca tutta sul rapporto tra interpretazione analogica e
interpretazione estensiva. In materia penale infatti è vietata l’interpretazione analogica ma è
consentita l’interpretazione estensiva.
La giurisprudenza introduce questa distinzione, i significati legittimamente attribuibili alla norma è
una interpretazione estensiva e come tale è ammessa; qualora invece il significato
dell’interpretazione vada fuori dai significati contenuti nel vocabolario ecco che diventa una
interpretazione analogica.
Ad esempio l’art. 660 c.p. molestie recate col mezzo del telefono, si punisce un comportamento di
disturbo, la condotta viene incentrata fra gli altri sull’elemento del mezzo del telefono. Se parliamo
di messaggio intendiamo una interpretazione estensiva. Invece se parliamo di email diventa una
interpretazione analogica.
Altro esempio è l’art. 674 c.p., getto pericoloso di cose, nella norma si parla di emissione di gas, di
vapori, di fumo, questa fattispecie all’interno di una interpretazione evolutiva è stata contestata ai
dirigenti di una radio, che sono stati accusati per getto pericolo di cosa, sono stati condannati per
la propagazione di onde elettromagnetiche ritenute pericolose, non consentite dalla legge.
I limiti che incontra il divieto di analogia in materia penale. Non c’è alcun dubbio sulla portata di
questo divieto quando l’interpretazione sia in malam parte, cioè una interpretazione che coltiva
l’obiettivo di estendere il raggio applicativo della norma incriminatrice al di là del significato
letterale con la conseguenza di rendere tipici, incriminabili, punibili tutta una serie di atti e di
condotte che sono fuori dal testo letterale della norma e che a causa dell’interpretazione analogica
sono fatti rientrare violentemente nella fattispecie incriminatrice.
L’utente della giustizia si vede ridotto il margine di manovra da una norma che non è più quella
prevista dal legislatore ma quella è frutto di una interpretazione giudiziale.
Il divieto di analogia in malam partem rappresenta delle garanzie per le libertà del cittadino ,
perché il cittadino sa che verrà punito solo e soltanto se commette comportamenti espressamente
tipizzati, positivizzati, previsti dal legislatore. Alla base di questo ragionamento c’è il concetto
unitario della ratio politica del principio di legalità. Solo al legislatore spetta dire quali sono i fatti
che costituiscono reato, solo il legislatore è munito di una legittimazione popolare così ampia da
rappresentare tutte le persone che compongono la popolazione

È inammissibile una analogia in bonam parte? cioè una analogia che migliora la situazione del
reo, che gli attribuisca delle libertà, dei vantaggi alla persona che commette un reato?
L’ammissibilità di una analogia in bonam parte nell’ordinamento penale è discussa. È certo il
divieto di analogia per le norme incriminatrici, cioè norme sfavorevoli, norme afflittive che
peggiorano la situazione del destinatario, è incerto se si possa predicare nel nostro ordinamento la
legittimità ad una analogia favorevole all’interno del campo penale.
Prendendo in considerazione gli art. 25 c. 2 cost. e art. 14 delle disposizioni preliminari del c.c. (c.d.
preleggi), possiamo sostenere che non esiste un divieto espresso di analogia in bonam parte.
Questi due articoli quando fanno riferimento alle leggi penali, fanno riferimento alle leggi
peggiorative della situazione personale dell’individuo a cui vanno applicate. Proprio nell’art. 14
troviamo che il divieto di analogia vige per due categorie di leggi, le leggi penali peggiorative, che
contengono norme incriminatrici o norme che aggravano la responsabilità penale dell’individuo
(es. le circostanze aggravanti), e l’altra tipologia di leggi sono le leggi eccezionali, che fanno
eccezioni a regole generali.
Ci sono tre limiti all’analogia in bonam partem.
- Il primo è che la norma non deve ricomprendere il caso in esame, neppure se interpretata
estensivamente. Il caso in esame deve esorbitare completamente dalla norma, non deve essere
ricompreso.
- Una seconda ipotesi che rappresenta un secondo limite all’analogia in bonam parte, è che la
lacuna che l’analogia in bonam partem andrebbe a colmare non deve essere intenzionale, cioè non
deve essere il frutto di una precisa scelta del legislatore, che non regolando quella materia ha
inteso lasciare quella materia senza regolazione, ha inteso che quella materia non venisse regolata
nemmeno attraverso l’analogia in bonam parte.
- Terzo limite, riguarda il fatto che la norma favorevole non deve essere contenuta all’interno di
una legge eccezionale. Se prendiamo l’art. 14 delle preleggi, il procedimento analogico non vale ne
per le leggi penali, ne per le leggi civili, e quindi laddove la norma favorevole fosse contenuta
all’interno di una legge eccezionale e si provasse ad estenderla analogicamente in bonam partem
ad un fatto che non sia espressamente contemplato all’interno di una legge eccezionale ecco che
questa sarebbe un’operazione illegittima che non potrebbe avere diritto di cittadinanza all’interno
del nostro ordinamento.
Ad esempio l’art. 649 c.p., (norma favorevole ma ha un carattere eccezionale), contiene una causa
di non punibilità, “Non è punibile chi ha commesso dei fatti in danno:
1. del coniuge non legalmente separato;
2. di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, o dell’adottante o dell’adottato;
3. di un fratello o di una sorella che con lui convive.
I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a danno
del coniuge legalmente separato, o del fratello o della sorella che non convivano con l’autore del
fatto, o dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi.”.
Questo articolo chiude la parte speciale del codice penale che raggruppa i delitti contro il
patrimonio. Rappresenta una sorta di norma di chiusura che promette la non punibilità laddove
ciascuno dei diritti commessi contro il patrimonio sia stato commesso contro il patrimonio di un
soggetto legato all’autore del fatto da vincoli di parentela, affinità, unioni di fatto.
Ad es. se sottrai il portafoglio ad un tuo genitore, secondo questa legge non vieni punito.
Abbiamo una norma favorevole in quanto regola la non punibilità nonostante sia stato commesso
un fatto di furto, considerato dalla legge come reato.
Il divieto di estensione analogica di una norma favorevole, quindi il divieto di analogia in bonam
partem deriva dal fatto che l’art. 649 configura una causa di non punibilità. E tutte le cause di non
punibilità sono norme eccezionali, cioè sono norme che fanno eccezioni a leggi generali.
Quindi essendo una norma eccezionale essa trova applicazione solo in rapporto ai fatti, ai tempi e
ai soggetti ad essa descritti. È insuscettibile di estensione analogica. Perché è il frutto di una scelta
intenzionale del legislatore.
Quindi l’analogia in bonam parte non vale per le leggi eccezionali.
Altro esempio di un'altra norma di favore. Art. 52 difesa legittima, “non è punibile chi ha
commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui
contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta.”
Nella giurisprudenza nazionale e internazionale è noto il caso della c.d. sindrome della donna
maltrattata. Cioè il caso di una donna che viene percossa dal marito costantemente, ma ad un
certo punto la moglie per paura per sé e per i propri figli sente la necessità di difendere i propri
figli e sé stessa. La donna approfittando del sonno del marito lo uccide.
Sembra essersi avverati tutti i requisiti che compongono la struttura della legittima difesa, ne
manca però uno, quando la donna uccide il marito nel sonno il pericolo di un’offesa ingiusta non è
attuale ma è un pericolo futuro, non è imminente, non è presente nel momento in cui la donna
uccide il coniuge. In quel momento il coniuge sta dormendo e non è una minaccia. Si tratta di una
norma di favore e quindi sarebbe un’analogia in bonam partem perché volta ad evitare una
punizione, a tenere libera quella donna.
Bisogna quindi fare un test che si deve basare su quello che ci dice l’art. 14, che prevede la prova
di due aspetti: l’interpretazione analogica in bonam partem se riguarda leggi penali afflittive e se
riguarda leggi eccezionali favorevoli. La legittima difesa esprime un principio generale
dell’ordinamento che è quello dell’autotutela. La legittima difesa la troviamo, oltre nel che nel
codice penale, nel codice civile, nelle leggi amministrative. Quindi è una fattispecie scriminante la
responsabilità, giustificante la responsabilità, che attraversa trasversalmente tutto l’ordinamento
riconoscendo l’importanza fondamentale del diritto ad autodifendersi quando si è vittima di una
aggressione ingiusta sempre che vi sia proporzione, sempre che sia stati costretti dalla necessità.

Principio di legalità, ultimo corollario.


Principio di irretroattività o divieto di retroattività.
Questo principio di irretroattività cerca di governare gli effetti della legge penale nel tempo. Il
rapporto fra diritto penale e tempo è un rapporto complesso, come ad esempio la discussione
sulla prescrizione.
Il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta una delle garanzie più
importanti che compongono la materia penale. Durante il periodo nazista in Germania valeva il
principio opposto, cioè il principio di retroattività della norma sfavorevole, succedeva che il
legislatore nazista introduceva una nuova fattispecie penale, una nuova norma incriminatrice e
questa norma si applicava anche a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della nuova
legislazione. Il cittadino quindi non poteva fare scelte liberamente.
Art 25 comma 2 della costituzione, stabilisce che, la legge penale sfavorevole si applica solo ed
esclusivamente a fatti successivi la sua entrata in vigore, non può mai dispiegare una efficacia
retroattiva. “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del fatto commesso”.
Solo una legge che si proponga di punire fatti realizzati dopo la sua entrata in vigore può ambire ad
orientare il comportamento dei consociati, dei destinatari del precetto o dei cittadini.
Questo principio è così importante che lo troviamo anche all’art. 7 CEDU, nulla poena sine lege,
“nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata
commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può
essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato
commesso”.
La costituzionalizzazione di questo principio la ricaviamo anche da altre norme, come dall’art. 3 e
13 cost., il bene della libertà personale è così importante che esso può essere sacrificato solo ed
esclusivamente per fatti gravi costituenti reato a patto che però questa libertà personale sia stata
messa in palio dalla sanzione penale attraverso una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso, perché il destinatario deve sapere a cosa va in contro se commette un reato.

Principio di irretroattività e Misure di sicurezza.


Accanto alle pene figurano anche le misure di sicurezza che sono figlie dell’orientamento
dottrinale della scuola positiva. Il presupposto nel caso delle misure di sicurezza è l’accertamento
della pericolosità sociale, cioè l’accertamento della probabilità che un soggetto accusato di aver
commesso un reato possa reiterare, replicare quella condotta in futuro. Un soggetto è
pericolosamente pericoloso quando è incline a commettere in futuro reati della medesima specie
di quello per cui è sotto processo.
La nostra costituzione, al comma 3 dell’art. 25, dedica una disciplina ad hoc alle misure di
sicurezza. L’art. 25 c. 3 ribadisce il valore del principio di legalità anche per le misure di sicurezza
ma non troviamo l’inciso, e da qui sorge la domanda che se anche per le misure di sicurezza valga
il principio di retroattività della norma penale sfavorevole oppure per le misure di sicurezza questo
principio non debba trovare applicazione e siano altre le regole alla quale bisogna fare riferimento.
Non ci aiuto nemmeno il codice penale, perché nell’art. 199, si ripete quanto previsto dall’art. 25
c.3 con altre parole. Nell’art. 200 c. 1 e 2, si stabilisce un diverso principio, quello che vale per la
materia processuale, cioè il tempus regis actus, si applica la legge in vigore al momento dell’atto
processuale.
La disparità di trattamento tra reati e pena da una parte, e misure di sicurezza dall’altra, pone dei
problemi di rispetto e di tutela di garanzie del destinatario del precetto. E rispetto a questi
problemi, sia la dottrina, sia la stessa giurisprudenza hanno cercato di introdurre dei correttivi per
mitigare l’impatto di un principio alternativo a quello della irretroattività della norma penale
sfavorevole per certi versi opposti che è fortemente penalizzante per il reo.
Gli accorgimenti sono stati: la dottrina ha cercato di fare leva sulla ratio di garanzia dell’art. 25 c. 2,
sdrammatizzando e minimizzando il fatto che nel 25 comma 3 non fosse menzionato l’avverbio
prima, non è una buona ragione per evitare di applicare anche alle misure di sicurezza della
irretroattività della legislazione sfavorevole. Quindi da questo presupposto sono stati fatti
discendere alcuni corollari, non può applicarsi una misura di sicurezza per un fatto che al momento
della sua commissione non costituiva reato, non può applicarsi una misura di sicurezza non
prevista al tempo di una commissione di un fatto di reato e la legge successiva può limitarsi a
disciplinare esclusivamente le modalità esecutive di una misura già prevista.
La corte europea e poi la corte costituzionale, invitano ad andare oltre la forma, ad andare oltre il
nome che viene affibbiato dal legislatore ad una sanzione. Andare oltre alla sostanza della
sanzione, alla sua natura, indipendentemente dalla nomenclatura, dalla classificazione. Se questa
sanzione presente, manifesta, una sostanza afflittiva, cioè consiste in una sofferenza inflitta
deliberatamente ad una persona, rileva la denominazione, la definizione in termini di pena o
misura di sicurezza, si deve andare a guardare l’effetto, la natura, la sostanza di questa misura.
Se non c’è dubbio che le pene presentano una sostanza afflittiva, (ad es. la compressione della
libertà personale) ci si deve domandare se le misure di sicurezza presentano analoga natura al di là
del nome.
Questo principio si sta diffondendo anche per le sanzioni amministrative, perché anche esse
possono avere dei connotati di afflittività. Quindi anche per le sanzioni amministrative si deve
tener conto delle garanzie del principio di irretroattività.

Art. 2 c.p., successione di leggi penali nel tempo, si compone di 6 commi e ognuno regolamenta
fenomeni distinti.
- Il Primo comma riproduce l’art. 25 comma 2, “Nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”, si ribadisce quindi la
garanzia dell’irretroattività della norma penale sfavorevole. Questo primo comma viene a
configurare una situazione chiamata come divieto di nuova incriminazione, cioè l’impossibilità per
una nuova applicazione di applicarsi a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Se non ci
fosse l’art. 25 comma 2, il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole sancito dal
comma 1 dell’art. 2 del c.p., potrebbe essere messo nel nulla da una legge successiva, quindi è
fondamentale che questo principio si trovi nel codice penale ma abbia rango costituzionale,
perché una legge successiva che andasse a contraddire il comma 1 dell’art. 2 c.p. promettendo di
dispiegare effetti sfavorevoli anche a fatti commessi prima dell’entrata in vigore andrebbe contro
l’art. 25 c. 2 cost. quindi dovrebbe essere dichiarata costituzionalmente illegittima.
- Comma 2 dell’art. 2 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge
posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti
penali”, nel primo comma il rapporto tra tempo e diritto penale si declina attraverso una legge che
introduce una previsione incriminatrice che non può essere applicata retroattivamente. Nel caso
del secondo comma invece esisteva una legge penale ma successivamente è entrata in vigore una
nuova legge che ha abolito la legge precedente con il risultato che quel fatto che prima era
previsto dalla legge come rilevante, adesso è pienamente lecito, non costituisce più reato. Si tratta
quindi di una situazione opposta. Nel comma uno il comportamento prima non era reato poi lo
diventa e vige il divieto di irretroattività della nuova norma penale, nel secondo comma il
comportamento prima era reato e successivamente smette di esserlo.
Questo secondo comma sta fissando il principio di retroattività della norma penale favorevole,
cioè la norma penale favorevole in questo caso la norma successiva, retroagisce. Retroagisce a
fatti per i quali è stata pronunciata una sentenza di condanna passata in giudicato.
Questo principio di retroattività della norma penale favorevole è costituzionalizzato nell’art. 3, che
fissa il principio di uguaglianza.
- Quarto comma, “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile”, anche in questo caso siamo di fronte ad una possibile retroattività di una
norma penale favorevole. Ma ci sono due differenze con i casi disciplinati al comma 2: la prima è
che mentre nel comma 2 si ha di fronte un’ipotesi limite, cioè quel fatto che era reato e oggi non
lo è più, è un fatto perfettamente lecito, nel comma 4 invece il fatto rimane penalmente rilevante,
rimane penalmente illecito, quello che cambia è la disciplina (es. la legge precedente puniva il
fatto da 2 a 8 anni di reclusione, la legge successiva invece punisce quel fatto con una pena da 1 a
3 anni di reclusione);
la seconda differenza è che se il fatto mantiene natura di illecito penale, intanto si potrà applicare
la norma più favorevole in quanto non sia stata pronunciata una sentenza passata in giudicato
perché se è stata pronunciata una sentenza di condanna il giudicato resta intangibile anche se la
legge successiva riduceva la pena.
- comma Tre, assistiamo ad una legge posteriore che va a modificare la disciplina, ciò che cambia è
la disciplina. Il comma tre ci dice che solo in caso di modifica della disciplina trova applicazione il
principio sancito dal comma 2, cioè il giudice rompe il giudicato e va a ricalcolare la pena. Si
procede ad una conversione ai sensi dell’art. 135 che definisce i criteri di ragguaglio, trasforma
ogni giorno di carcere in una entità economica. Solo nel caso in cui la modifica della disciplina
riguarda il passaggio da una pena detentiva ad una pena pecuniaria trova applicazione il comma 3
dell’art. 2 che comporta la trasformazione della pena detentiva in pena pecuniaria anche per quei
soggetti che siano gravati da una sentenza di condanna passata in giudicata.
La distinzione tra secondo e quarto comma . Nel secondo comma abbiamo una abolizio criminis,
nel quarto comma abbiamo quella che viene definita una abrogatio sine abolizione, cioè che se il
legislatore abroga delle leggi penali ma l’abrogazione è un fenomeno distinto dal fenomeno
abolitivo. L’abrogazione potrebbe lasciare vivo l’illecito penale. Nel quarto comma abbiamo un
fenomeno di successione modificatrice di una disciplina che può essere o favorevole o sfavorevole,
quindi toccherà all’interprete verificare quale sia la norma più favorevole, se quella precedente o
quella successiva. Noi possiamo distinguere due fenomeni, il fenomeno della abolizio cum
abrogazione, il provvedimento legislativo non si limita ad abrogare un precedente provvedimento
legislativo ma sancisce proprio a tutti i livelli la liceità del comportamento, quindi abbiamo il
fenomeno abolitivo. Possiamo avere però anche un fenomeno diverso, che è quello di un
provvedimento di abrogazione che però lascia sopravvivere l’illeceità penale del comportamento
che era punito all’interno della legge che è stata abrogata.
Ad esempio dell’infanticidio per causa d’onore, era un vecchio reato presente nella versione
originaria del codice Rocco, succedeva che in ipotesi di uccisione del feto per causa ad onore cioè il
marito che avesse scoperto che il figlio era figlio di una relazione extra coniugale, non veniva
punito di omicidio volontario, veniva punito con una fattispecie molto mite, con pene poco severe.
Questa norma viene abrogata ma troviamo una diversa fattispecie che è l’infanticidio in condizioni
di abbandono materiale e morale, che descrive e disciplina una ipotesi diversa. Il nuovo testo, art.
578, infanticidio in condizioni di abbandono materiale o morale, dice che la madre che cagiona la
morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o durante il parto, è punita con la
reclusione da quattro a dodici anni.
Quindi da una parte abbiamo la causa d’onore e dall’altra le condizioni di abbandono materiale e
morale.
La corte suprema di cassazione ci esplica l’abbandono morale e materiale, quando:
- la madre è lasciata in balia di se stessa senza nessuna assistenza, quindi si trova in uno stato di
isolamento che non lascia prevedere l’intervento di terzi né un qualsiasi soccorso materiale o
morale per cui non può assicurare la sopravvivenza del neonato;
- quando la madre è con palesi manifestazioni di completo disinteresse, sicché la persona è resa
certa di trovarsi in uno stato di isolamento che non lascia prevedere aiuto o soccorso;
- quando la madre è in una condizione depressa e turbamento costante.
Abbiamo quindi due fattispecie, il vecchio e il nuovo 578, si tratta di due fattispecie di omicidio
attenuato. Assistiamo ad un fenomeno di ultra attività di una norma abrogata, il vecchio 578, solo
ai fini del trattamento sanzionatorio. Alla condizione che il fatto di infanticidio sia stato commesso
quando era ancora vigente la vecchia disciplina, cioè se oggi commetto un fatto di infanticidio per
c.d. causa d’onore prendo una pena di 25 anni per via dell’art. 575 c.p. (omicidio volontario), ma
se invece il fatto è stato commesso prima della modifica legislativa che ha portato a riscrivere il
578, è così che allora posso porre in rapporto il 575 con il vecchio 578 e stabilire qual è la legge più
favorevole applicata poi al reo.
La valutazione per la legge più favorevole deve essere fatta in concreto, cioè bisogna mettere a
raffronto le due discipline, una contenuta in una legge precedente, l’altra contenuta in una legge
successiva e l’esito non è scontato, l’esito lo sapremo solo sulla base di un raffronto analitico che si
basa su una comparazione delle cornici edittali.
- Quinto comma, “Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei
capoversi precedenti”.
- Ci sono delle ipotesi particolari che vanno ricomprese nel comma Sei, “Le disposizioni di questo
articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel
caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti”,
si fa riferimento all’istituto del decreto legge, nel caso in cui un decreto legge introduce una norma
incriminatrice o aggrava la disciplina e poi non venga convertito dal parlamento, però nel
frattempo ha porto all’arresto di persone, per questi casi vale la garanzia dell’irretroattività e il
principio di retroattività della norma penale favorevole.

Principio di colpevolezza, o anche detto della responsabilità penale.


Il principio di colpevolezza è tra i più recenti in materia penale e lo troviamo all’art. 27 comma 1
della costituzione, non parla esplicitamente di colpevolezza però ci dice che “la responsabilità
penale è personale”. Il primo nucleo fondante del principio di personalità della responsabilità
penale consiste nel divieto di responsabilità per fatto altrui, quindi ciascuno risponde per il fatto
proprio, non per un fatto commesso da terzi, commesso da altri, ad esempio non posso punire
Tizio per un fatto commesso da Caio, perché si risponde personalmente.
Il divieto di responsabilità penale per fatto altrui è una caratteristica dell’ordinamento penale,
nell’ordinamento civile noi assistiamo all’ipotesi di responsabilità per fatto altrui, pensiamo ai
genitori che rispondono dei danni provocati dai figli in termini di risarcimento del danno o dei
datori di lavoro del danno provocato dai dipendenti. Ma il sistema penale ripugna una
responsabilità per fatto altrui, perché la responsabilità personale riguarda la persona, è personale.
All’inizio il principio di colpevolezza era il divieto per fatto altrui, ma negli anni ha subito delle
evoluzioni che lo ha portato a quello che è oggi e cioè il principio di colpevolezza.
Questa evoluzione è nata dal fatto che nel nostro codice penale alloggiano delle ipotesi di
responsabilità c.d. oggettiva. La responsabilità oggettiva collega la sanzione al mero fatto
ascrivibile al soggetto che lo ha realizzato, è un mero rapporto materiale, oggettivo, che lega un
fatto di reato al suo autore. Ad esempio all’art 5 troviamo: “nessuno può invocare a propria scusa
l’ignoranza della legge penale”, questa è una responsabilità oggettiva, cioè dal momento in cui hai
commesso un fatto che viola una legge penale che ti proibiva di compiere quel comportamento ne
rispondi penalmente. La responsabilità quindi è del soggetto, di quel soggetto che ha trasgredito la
legge penale.
Richiamiamo la legge della corte costituzionale n. 364/88 che corregge l’art. 5 “nessuno può
invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale a meno che questa ignoranza sia
incolpevole”, l’ignoranza è incolpevole se è inevitabile cioè che non poteva essere superata con la
normale diligenza (mi sono informato ma non sono riuscito a conoscere la legge panale, perché
magari la legge è oscura). La corte costituzionale quindi dice che non si può punire un soggetto che
ha violato la legge penale perché incolpevolmente non la conosceva. Quindi si cerca di superare le
ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nel nostro ordinamento, cioè per condannare alla
sanzione più grave del nostro ordinamento, che è la sanzione penale, non ci si può accontentare di
provare un mero rapporto oggettivo, materiale, che lega il fatto al suo autore ma occorre che
accanto al rapporto oggettivo si dia dimostrazione di un rapporto soggettivo tra fatto e autore, il
fatto deve essere colpevole, quindi bisognerà fornire la prova della colpevolezza del fatto. Occorre
dimostrare che quel fatto è imputabile, è ascrivibile, è rimproverabile al suo autore quanto meno a
titolo di colpa, ci vuole la prova di un coefficiente soggettivo, psicologico.
I coefficienti soggettivi sono due: il dolo o la colpa. Per poter condannare un individuo occorre che
sia provata la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, e la sua colpevolezza sta nella
misura in cui si prova quanto meno l’esistenza della colpa. Se non c’è colpa non c’è colpevolezza, il
fatto quindi è incolpevole.
La corte costituzionale con la sentenza, 364/88, si rivolge al legislatore, invitandolo ad espellere
dal codice penale per via legislativa tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva, tutte le ipotesi di
responsabilità senza colpevolezza. Si rivolge anche al giudice, suggerendogli che se ravvisa la colpa
allora potrà condannare ma se nell’accertamento non dovesse rilevare nemmeno la colpa dovrà
assolvere.
L’evoluzione di questo principio ci dice che esso nasce come divieto di responsabilità altrui e
diventa principio di responsabilità per fatto proprio (non di altri) e diventa poi ad essere principio
di responsabilità per fatto proprio colpevole intendendo il divieto di responsabilità oggettiva.
Accanto al principio di colpevolezza esiste una teoria generale del reato che si chiama colpevolezza
e che tiene dentro tutta una serie di elementi che vanno tutti provati perché si possa dire che quel
fatto è pienamente colpevole.
Per far si che ci sia un rimprovero autenticamente personale e rispettoso del principio di
colpevolezza non basta aver violato la legge ma occorre dimostrare che la violazione della legge è
stata una violazione colpevole. Quindi serve anche il c.d. aliud agere, che significa agire altrimenti,
cioè ti rimprovero non perché hai violato la legge penale ma perché hai violato la legge penale pur
avendo la possibilità di agire altrimenti da come hai agito cioè pur avendo la possibilità di
osservare la legge penale.
Si dovrà verificare se poteva agire altrimenti da come ha agito, se non aveva alternative è
incolpevole.
La legge penale quindi va rispettata ma se viene violata, prima di arrivare ad un verdetto di
colpevolezza deve essere sottoposto ad uno scrutinio molto attento, si dovrà verificare se il
soggetto che l’ha trasgredita è colpevole, se aveva delle chances, se aveva la possibilità di
osservarla.

Nel 2001 assistiamo all’entrata in vigore del decreto legislativo 231/2001 che sancisce la
responsabilità c.d. amministrativa delle persone giuridiche. Fino al 2001 vigeva un principio che
sembrava non scalfibile, societaes delinquere et punire non potest, le persone giuridiche (le
società, gli enti) non possono delinquere e non possono nemmeno essere punite. Ad essere punito
era solo la persona fisica non la persona giuridica.
Ma agli inizi del 2000 ci si è resi conto che le persone giuridiche in realtà fossero capaci di essere
autrici di reati e soprattutto ci si è resi conto che non fosse sufficiente perseguire, condannare la
persona fisica che in nome e per conto di una società aveva commesso un reato per prevenire la
criminalità d’impresa. Ad esempio: posso arrestare l’amministratore della società ma nel mentre la
società con quel falso in bilancio si è arricchita rispetto ad altri concorrenti che non hanno
falsificato i bilanci.
Con il decreto legislativo 231/2001, nel momento in cui si registra l’esistenza di una notizia di reato
a carico di una persona fisica che faccia parte di un ente, attribuisce al pubblico ministero la
possibilità di far partire un procedimento penale non solo nei confronti della persona fisica ma
anche nei confronti della persona giuridica. Alle condizioni però che deve trattarsi di un reato
previsto dal legislatore all’interno di un catalogo di c.d. illeciti presupposto della responsabilità
degli enti, perché non tutti gli illeciti presenti nel c.p. possono automaticamente, se commessi,
fondare la responsabilità dell’ente. Ad esempio ci sono degli illeciti tipici come la corruzione, che
troviamo in questo elenco.
Bisognerà dimostrare la c.d. colpevolezza di organizzazione, o colpa organizzativa. Cioè bisognerà
dimostrare che l’impresa poteva agire altrimenti da come ha agito, bisognerà dimostrare che c’era
un deficit di auto controllo interno, in sostanza bisognerà dimostrare che l’impresa non si è
sufficientemente organizzata per prevenire reati del tipo di quelli che sono stati commessi. Se
invece dimostro che il reato è stato commesso per trarre vantaggio ma l’impresa si è dotata di un
modello di organizzazione, gestione e controllo finalizzato a scongiurare la configurazione di reati
ecco che il rimprovero a titolo di colpa di organizzazione viene meno e quindi che l’impresa non
sarà condannata.

Che cos’è il fatto penalmente rilevante, che cos’è il reato.


Definizione formale: il reato è un fatto al quale l’ordinamento penale ricollega la pena
dell’ergastolo, della reclusione, della multa se è delitto; dell’arresto o dell’ammenda se è
contravvenzione.
Definizione sostanziale: il reato contiene un’offesa ad un bene giuridico che il legislatore decide di
sanzionare con la pena.
La struttura di un reato, di un fatto penalmente rilevante, di un illecito penale.
Analisi strutturale: secondo l’opinione della maggioranza degli specialisti del diritto penale si snoda
lungo tre segmenti, e viene definita teoria tripartitica. A ciascuno di queste tre categorie
corrisponde una singola funzione.
La tripartizione vede il reato composto da Tipicità, Antigiuridicità e Colpevolezza. Questa
tripartizione ha una conseguenza precisa anche sul piano definitorio perché potremo affermare
che il reato è un fatto umano, anti giuridico e colpevole cioè un fatto umano tipico, anti giuridico e
colpevole, sommando dunque come in una catena la presenza e il valore di questi tre elementi.
Se seguiamo una concezione tripartita occorrerà fornire la prova di tutti questi tre elementi, sono
tutti elementi necessari e servono perché si possa arrivare ad un verdetto di condanna.
Questa analisi è un’analisi gradualista, perché si procede per gradi, cioè si scompone il fatto di
reato in una pluralità di elementi. L’esame non deve essere confuso ma deve seguire un ordine,
una scansione logica e cronologica.
Il primo degli elementi da analizzare è l’elemento del fatto tipico, la tipicità, il tipo, è una scelta
che rimanda al dibattito fra diritto penale del fatto e diritto penale dell’autore, è una scelta che
esprime la posizione assunta negli ordinamenti liberali per un diritto penale ad impostazione
oggettivistica e non soggettivistica che decide di guardare innanzitutto al comportamento, al fatto,
e in secondo momento si interroga sull’atteggiamento personale del reo. Non ci si lascia
condizionare da atteggiamenti soggettivistici, da note personali, caratteristiche personologiche che
possono inquinare e influenzare il giudizio ma vuole tenere fede ad un orientamento fondato sul
principio di offensività. Il principio di offensività è un principio oggettivistico che predica l’esistenza
del reato solo a fronte della prova di un’offesa al bene giuridico, tutelato dalla norma
incriminatrice. L’offesa che può assumere le forme della lesione e dell’esposizione al pericolo. È
un’offesa che documenta un’aggressione tangibile, afferrabile ad un oggetto, un’oggettività
giuridica, il bene giuridico, un’offesa palpabile che può essere oggetto di prova e che attesta il
sacrificio o la messa al repentaglio di un interesse meritevole da parte dell’ordinamento penale.
Quindi l’attenzione al fatto come primo gradino della costruzione giuridica del reato esprime e
comunica una scelta precisa del nostro ordinamento penale ispirato dalla tradizione liberale
classica che non vuole farsi condizionare nell’esame degli illeciti penali da caratteristiche
soggettive che non dicono nulla sulla lesione o sull’esposizione a pericolo del bene tutelato.
L’ordine logico che poi porta alla punibilità trova un riscontro preciso a livello processuale.
Nell’art. 129 del c.p.p. troviamo in esso ricomprese delle formule di proscioglimento, cioè delle
formule che il giudice pronuncia quando uscito dalla camera di consiglio all’esito del dibattimento
ritiene che l’imputato non debba essere condannato, ma debba essere prosciolto perché nel
dibattimento non si è formata la prova oltre ogni ragionevole dubbio o sulla tipicità o sulla
antigiuridicità, o sulla colpevolezza.
Ad esempio il giudice dirà “tizio deve essere prosciolto perché il fatto non sussiste”, oppure “tizio
deve essere prosciolto perché il fatto non costituisce reato”. La formula più favorevole è quella che
comunica la mancanza del primo gradino della sistematica tripartita. Quando il giudice dice “il
fatto non sussiste” significa che il processo penale non è riuscito a fornire la prova nemmeno
dell’esistenza del fatto che si contestava all’imputato. Laddove invece la prova sia stata fornita,
quindi il fatto sussiste, quindi si è fornita la prova della tipicità ma successivamente non si è riusciti
a fornire la prova ne dell’antigiuridicità e ne della colpevolezza, ecco che si imporrà un
proscioglimento con la formula perché il fatto non costituisce reato.
Noi sostanzialmente possiamo avere 3 ipotesi:
- il fatto tipico non viene provato e quindi manca la base per procedere oltre, il fatto tipico non
sussiste;
- oppure il fatto tipico sussiste ma non è antigiuridico quindi è del tutto lecito;
- e terzo, potremmo avere un fatto tipico antigiuridico quindi illecito ma incolpevole, non
colpevole.
Quindi le formule di proscioglimento dell’art. 129 c.p.p. che sono simmetriche rispetto alla prova
degli elementi che costituiscono il reato. Invece si arriverà ad una pronuncia di condanna, quindi il
fatto sarà punibile solo qualora sarà data la prova in sequenza della tipicità, antigiuridicità e della
colpevolezza.
Le fondamenta del reato sono date dalla categoria del fatto tipico, cioè la Tipicità. I tipi di fatto, i
tipi criminosi, le fattispecie incriminatrici, sono delle figure di reato che alloggiano all’interno della
parte speciale del codice penale.

La norma incriminatrice si compone di una parte precettiva e di una parte sanzionatoria.


La parte del precetto, sottende l’offesa al bene giuridico ma non qualunque tipo di offesa, l’offesa
punibile è solo l’offesa tipica, cioè l’offesa descritta nella norma incriminatrice.
Definizione di tipicità, cioè di fatto tipico, “il fatto è l’insieme degli elementi oggettivi che
caratterizzano ogni reato come specifica forma di offesa a uno o più beni giuridici”, quindi
ricaviamo l’offesa al bene giuridico dallo studio degli elementi costitutivi della norma
incriminatrice. Ma non qualunque tipo di offesa ma un’offesa specifica che rispetta il principio di
frammentarietà, perché la tutela penale è una tutela frammentaria, non difende un bene giuridico
da qualunque forma di offesa ma seleziona solo le forme di offesa più gravi, più nocive, più
pericolose, per le altre forme c’è l’illecito civile.
Tutti i singoli elementi che compongono la categoria della tipicità.
Primo elemento è dato dalla c.d. condotta, per aversi fatto di reato, fatto tipico, il primo elemento
da valutare è l’esistenza di una condotta di un comportamento. La condotta può consistere in un
fare e in un non fare, cioè un atteggiamento negativo che si sostanzia nello stare fermi, in una
inerzia. Avremo la possibilità di verificare l’esistenza di una condotta attiva come anche l’esistenza
di una condotta omissiva, entrambe sono riguardate all’interno del fatto tipico come elementi
sanzionabili penalmente laddove accanto ad essi si fornisca la prova di tutti gli altri elementi
previsti dal tipo e si fornisca la prova dell’antigiuridicità e della colpevolezza. A seconda che la
condotta unita dalla norma incriminatrice presenti una forma libera o una forma vincolata avremo
un diverso tipo di prova all’interno del processo. Perché mentre nei reati a forma libera qualunque
tipo di condotta (attiva o omissiva) può essere sanzionata se produce un’offesa ad un bene
giuridico di rango superiore, nei reati a forma vincolata si potrà punire una determinata condotta
solo se sia stata fornita la prova di tutti quegli elementi che compongono la forma vincolata
selezionata dal legislatore come la più insidiosa e quindi meritevole di essere sanzionata.
Quindi solitamente più è elevato il rango del bene giuridico più il legislatore decide di optare come
tecnica di incriminazione per reati a forma libera, meno importante è il rango del bene giuridico
tutelato e più si vira verso la tecnica dei reati a forma vincolata, con la conseguenza che i reati a
forma vincolata presentano un carico probatorio superiore per la pubblica accusa perché
bisognerà provare tutti gli elementi descritti dal legislatore.
Quindi assistiamo ad un rapporto di proporzione nella costruzione degli illeciti, più alto è il bene
giuridico e più la tutela diventa ampia; meno elevato è il rango del bene giuridico più la tutela
diventa frammentaria, quindi viene impostata solo sulle modalità di aggressione del bene ritenute
dal legislatore particolarmente pericolose.
Accanto alla condotta, talvolta e non sempre, possiamo scoprire degli ulteriori elementi, i c.d.
Presupposti della condotta. Si tratta di elementi che dal punto di vista logico precedono la
condotta, si tratta di situazioni di fatto o di diritto che devono pre-esistere all’azione o
all’omissione della condotta oppure ne debbono accompagnare l’esecuzione.
Es. il delitto di bigamia, regolato dall’art. 556 c.p., si punisce chi contragga matrimonio dopo
averne contratto uno precedentemente, la condotta che viene punita è la condotta del secondo
matrimonio, ma ci potrà essere un secondo matrimonio solo se ce ne è stato uno prima che non
sia stato dichiarato nullo o invalido. Il precedente matrimonio, nel fatto tipico, è un presupposto
della condotta di bigamia, cioè un presupposto dell’azione che porta al secondo matrimonio. Il
presupposto sta nella condotta, è il secondo matrimonio che viene sanzionato ma per aver il
secondo matrimonio io devo comunque fornire la prova del presupposto.
La condotta può essere, a seconda dei casi, attiva o omissiva.
Il diritto penale non punisce qualunque omissione, il diritto penale sanziona il mancato
compimento di una azione che si aveva l’obbligo giuridico di compiere, non un mero obbligo
morale. Il diritto penale dell’omissione è un diritto penale costruito su un concetto di omissione
tipica ed esclusiva del diritto penale, cioè si richiede la prova dell’esistenza di un obbligo che ha
natura giuridica, cioè c’è una norma che prescrive di tenere una determinata azione e si registra
che quell’azione obbligatoria (perché è prevista da una norma) non è stata tenuta. L’omissione
penalmente rilevante non è una mera omissione, non è la mera trasgressione di un obbligo di
agire moralmente connotato, ma è l’inadempimento di un obbligo giuridico, perché previsto da
una norma, di tenere un comportamento che poi il soggetto obbligato nella realtà non ha
compiuto, quindi è il non facere quod debetur.
In alcuni delitti può capitare che ad essere sanzionata non è solo la condotta ma è anche l’effetto,
la conseguenza prodotta, cagionata da quella condotta. Questa conseguenza prendere il nome di
Evento, che è un altro elemento caratteristico della tipicità. L’evento è un accadimento, che è
possibile isolare perché si caratterizza in forma autonoma rispetto alla condotta. Però deve essere
possibile dimostrare che l’evento è conseguenza di quella condotta, cioè che quella condotta ha
causato quell’evento si deve fornire la prova della causalità. Si tratta di una operazione logica che
svolgiamo in continuazione cioè di raccordare eventi a condotte che li hanno preceduti e che li
hanno determinati.
Bisogna però fare un’ulteriore distinzione dell’evento. Evento c.d. naturalistico, cioè una
modificazione della realtà circostante a seguito di una condotta umana. Ma c’è anche l’evento in
senso giuridico o l’evento giuridico, che è l’offesa al bene giuridico, e secondo taluni autori deve
costituire oggetto di prova.
Secondo il professore non c’è il bisogno di affiancare all’evento naturalistico anche il bene
giuridico, perché è una prova che va di pari passo con la prova degli elementi costitutivi del reato e
tra questi anche la prova dell’evento in senso naturalistico. Invece c’è una corrente di pensiero che
isola la prova dell’evento in senso naturalistico dalla prova dall’evento in senso giuridico perché si
ritiene che ci possano essere dei fatti inoffensivi conformi al tipo. Cioè fatti tipici che rispecchiano il
modello di incriminazione utilizzato dal legislatore per quel tipo di comportamento che però non
sono produttivi di un’offesa al bene giuridico. Secondo gli autori di questa teoria si può assistere
ad una dissociazione tra tipicità e offensività, (ad es. il furto di un acino d’uva, in questo caso
abbiamo un fatto tipico ma inoffensivo, cioè da un lato si integrano tutti gli elementi del tipo
criminoso cioè sottrazione di una cosa mobile altrui, dall’altra parte il bene giuridico patrimonio
del titolare dell’esercizio di ortofrutta non è stato danneggiato, quindi è inoffensivo perché il bene
patrimonio non è stato leso).
La presenza dell’evento nella struttura del fatto tipico non è un requisito immanente ad ogni
norma incriminatrice, cioè l’evento caratterizza solo determinate tipologie di illeciti penali che
prendono il nome di reati di evento. Non tutte fattispecie penali presentano come elemento della
struttura del fatto tipico l’evento.
Le fattispecie che si compongono esclusivamente della condotta prendono il nome di reato di
mera condotta. Ad esempio, art. 385 c.p., delitto di evasione, si punisce la mera condotta
dell’evasione. Viceversa l’omicidio volontario dell’agente della polizia penitenziaria è un reato di
evento perché postula prova di una condotta (hai esploso dei colpi di pistola) questa condotta è
seguita da un evento, la morte dell’agente che fa parte della struttura del diletto di omicidio
volontario ed è quindi ricompreso negli elementi costitutivi previsti dal legislatore, art. 575 c.p.
Nei reati di evento noi abbiamo l’elemento della condotta che può assumere forma attiva e forma
omissiva e poi l’elemento dell’evento.
I reati di evento presentano una struttura che si compone di tre elementi, non basta la condotta,
non basta l’evento, occorrerà fornire la prova di un terzo elemento che è data dal rapporto di
casualità che lega la condotta all’evento in modo tale che si possa dire che quella condotta è causa
dell’evento e che quell’evento è conseguenza di quella condotta.
Inoltre, si distingue tra elementi positivi ed elementi negativi del fatto . Gli elementi positivi sono
elementi necessari per configurare la condotta contestata al soggetto attivo. Questi elementi
positivi sono gli stessi presupposti della condotta o possono consistere negli elementi della
condotta. Per quanto riguarda gli elementi negativi, cioè elementi di fatto o di diritto che devono
mancare perché sussista il fatto tipico. Esempio, la violazione di omicidio, art. 614 c.p., io vado a
trovare Tizio perché mi ha invitato a cena e nel momento in cui entro nella sua abitazione io non
commetto una violazione di domicilio, perché Tizio mi ha invitato ed ha manifestato la volontà del
diritto di abitazione ad accogliermi ed accettarmi all’interno della sua dimora; laddove questa
disponibilità manchi quindi non c’è la volontà del titolare dell’abitazione ad accogliermi, in questo
caso manca una presupposto della condotta della violazione del domicilio. Quindi anche gli
elementi negativi si traducono in presupposti della condotta o elementi che devono accompagnare
la condotta e che sono necessari per la configurazione del fatto tipico. Si tratta di situazione di
fatto ma anche di diritto perché possono consistere, questi elementi negativi, anche nella
mancanza di autorizzazione.
Altra distinzione importante è quella tra elementi descrittivi, che sono quegli elementi che
compongono il testo della norma incriminatrice e fanno riferimento a situazione percepibili nella
realtà naturalistica circostante attraverso il ricorso alla sensorialità;
ed elementi normativi sono quegli elementi previsti dalla norma incriminatrice che possono
essere pensati solo sotto logica presupposizione di una norma giuridica, o extra giuridica, o sociale.
Laddove l’errore commesso dal soggetto attivo cada su uno degli elementi normativi scatta la
disciplina dell’errore su legge extra penale di cui all’art. 47 c. 3 c.p. cioè a determinate condizioni
l’errore può essere scusato.

Elemento di maggiore interesse dei reati di evento è l’elemento del nesso di causalità, che oggi
rappresenta l’elemento decisivo per definire numerosi processi penali. La prova del nesso di
casualità è oggi la prova regina.
La parola nesso ci porta all’esistenza di un rapporto, collegamento tra la condotta, abbia essa
natura attiva o omissiva, e l’evento che consegue a quella condotta. Una prima acquisizione è
l’accertamento del nesso di casualità che implica la soluzione di un problema di imputazione, di
imputazione causale. Cioè a determinate condizioni, nel diritto penale, è possibile affermare oltre
ogni ragionevole dubbio che quell’evento è imputabile a quella condotta, che quell’evento è
conseguenza diretta di quella condotta, che quella condotta è causa di quell’evento. Si tratta di
una questione imputativa, di ascrizione sul piano oggettivo di un fatto che si è materializzato nella
realtà modificandola. L’art. 25 comma 2 della costituzione e l’art. 1 del c.p., questo elemento deve
essere definito espressamente per rispettare il principio di legalità all’interno delle fattispecie
incriminatrici. Intorno a questo elemento ci sono numerose teorie per aiutare gli interpreti a
verificare quando il nesso casualità cioè quando l’imputazione oggettiva si è materializzata nei
confronti dell’indagato, dell’accusato, di aver commesso quel fatto.
Il punto di partenza è l’art. 40 c.p., si compone di 2 commi. Primo comma “Nessuno può essere
punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui
dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”
Sarà possibile, ritenere che sia una diretta emanazione della condotta in quanto sarà possibile
fornire una prova che quell’evento è dirittamente riconducibile, imputabile al soggetto che lo ha
cagionato.
La nozione di causa è una nozione che nella prova del processo fa riferimento alla responsabilità di
un soggetto, cioè di un essere umano.
Prima teoria della causalità adeguata, questa teoria si fonda su due pilastri, il primo è dato dalla
prova che l’evento non si sarebbe verificato se non ci fosse stata quella condotta, ed è quello che
dice l’art. 40 comma 2, questa teoria si fonda su un procedimento di eliminazione mentale, cioè
per poter dire che l’evento è conseguenza di una condotta si prova ad eliminare mentalmente la
condotta oggetto di imputazione per verificare se una volta eliminato l’evento di sarebbe verificato
lo stesso. Perché se si sarebbe verificato lo stesso allora non potremmo dire che quella condotta è
causa di quell’evento. Se invece venendo meno quella condotta, viene meno quell’evento allora si
potrà affermare la sussistenza di un nesso di causalità. Il procedimento di eliminazione mentale è
un procedimento controfattuale perché per arrivare alla prova del nesso di casualità si deve
sperimentare una falsificazione, si deve immaginare come “non verificati” degli accadimenti che
invece in concreto si sono verificati.
La casualità adeguata aggiunge un altro pilastro, si incarica di un altro test, cioè che l’evento è una
conseguenza normale di quella conseguenza.
Questa teoria vuole introdurre una limitazione, andando a stabilire che è nesso di causalità quel
rapporto che lega l’evento alla condotta a patto che quell’evento sia una conseguenza normale,
diffusa, molto probabile e quindi adeguata rispetto a quella condotta.
L’accertamento della casualità è un accertamento ex post, a posteriori cioè è un accertamento in
forza del quale il giudice si pone di fronte all’evento una volta che l’evento è stato realizzato. Sulla
base delle conoscenze disponibili al tempo dell’evento se la condotta che si ipotizza causa
dell’evento sia stata effettivamente la ragione scatenante di quell’evento. Se il giudice rispetta una
stretta logica casuale dovrà esprimere un giudizio riportandosi al momento dell’evento, non al
momento della condotta; e utilizzerà le conoscenze disponibili al momento dell’evento non al
momento della condotta.
Dopo aver sviluppato un test a posteriori che porta il giudice a definire ex post il nesso di causalità
sulla base delle conoscenze disponibili al momento dell’evento, si aggiunge anche un giudizio ex
ante, cioè si chiede al giudice una diagnosi prognostica. Il momento prognostico implica che il
giudice si porta idealmente e mentalmente al momento della condotta per comprendere se sulla
base delle conoscenze disponibili al momento della condotta, quella condotta fosse adeguata
rispetto alla produzione di quell’evento. Cioè si dovrà chiedere se quella condotta poteva produrre
quell’evento, era normale che determinasse quell’evento. Quindi secondo la teoria della causalità
adeguata il giudice è chiamato a mettere a raffronto il decorso causale effettivo, logica ex post, con
il giudizio sulla prevedibilità dell’evento che è un giudizio ex ante di tipo prognostico fatto a monte
attraverso un viaggio nel passato.
Se questo secondo test, giudizio di idoneità ex ante si dovesse concludere con una valutazione di
anormalità, di improbabilità, inidoneità, cioè che da quella condotta sarebbe disceso quell’evento,
ecco che secondo i sostenitori della causalità adeguata non si potrà affermare l’esistenza del nesso
di causalità. Se viceversa, già ai tempi della condotta era possibile stabilire che quella condotta era
adeguata, ed era probabile che da quella condotta discendesse quell’evento, che quell’evento
sarebbe stato conseguenza di quella condotta, ecco che sarà possibile anche in una prospettiva ex
ante affermare l’esistenza del nesso di causalità. Quindi due test, uno ex post ed uno ex ante.
Questo test ulteriore e aggiuntivo serve per restringere la prova del nesso di causalità, ma non è
richiesto dall’art. 40 comma 2, che appunto richiede la prova oggettiva.

Ci sono molte critiche sul secondo test di adeguatezza. Per un verso confligge con una stretta
logica causale, che è una logica ex post. La prospettiva ex ante, della prevedibilità è una
prospettiva che rischia di confondere le cose, perché è una prospettiva che attiene più
precisamente alla fase della colpevolezza. Quando si dovrà stabilire se esiste la colpa del soggetto
ecco che la logica che andrà osservata è una logica a priori, ex ante, non una logica ex post. La
causalità si accerta ex post, la colpevolezza e in particolar modo la colpa si accertano ex ante, cioè
ci si riporta al momento della condotta per verificare se quella condotta possa dirsi colposa. Ma
bisogna tenere distinti il piano della colpa che appartiene alla categoria della colpevolezza, dal
piano della causalità che appartiene alla categoria della tipicità e si accerta ex post, rapportandosi
e riferendo tutte le considerazioni al momento dell’evento.

Un'altra teoria, anche questa si fonda su due pilatri. Il primo è il procedimento di eliminazione
mentale, senza l’azione A l’evento non si sarebbe verificato. Il secondo pilatro, test, va ad
escludere l’esistenza del nesso di causalità laddove si dimostra che l’evento sia il frutto di fattori
eccezionali. Cioè che non dipenda esclusivamente dalla condotta ascritta alla persona fisica ma sia
il prodotto di altri fattori causali che hanno concorso alla sua verificazione.

Il concetto di causa penalmente rilevante, art. 40 comma 1 coincide con il concetto di condizione
necessaria e con il concetto di contingentemente necessaria. Cioè sempre per delimitare il tipo di
situazioni di condotte, comportamenti, che possono rivestire un ruolo causale rispetto ad un
determinato tipo di evento occorre per procedere una selezione delle condotte rilevanti, avere
ben presente il contesto in cui si svolge la dinamica causale che porta all’evento. Da qui si può
ricavare che se il giudice adotta un approccio di valutazione concreto che tiene conto delle
condizioni, del contesto in cui è maturato l’evento, già questo approccio consente di escludere un
regresso all’infinito, consente di escludere l’attribuzione di una responsabilità causale alla madre
dell’autore del reato, a meno che la madre dell’autore del reato non abbia avuto un ruolo nelle
contingenze. Quindi nell’art. 40 comma 1 troviamo “condizione contingentemente necessaria”
cioè necessaria solo nell’ambito di un determinato contesto di condizioni.
Esempio: Tizio da uno schiaffo a Caio, e Caio muore. Questo fatto è disciplinato dall’art 584 del c.p.
che sancisce la responsabilità penale a titolo di omicidio preterintenzionale. Tizio non voleva
ucciderlo però è morto. Solitamente non si muore per uno schiaffo però con l’autopsia si scopre
che Caio era affetto da un vizio cardiaco che è esploso a seguito della condotta di Tizio. Cioè lo
schiaffo ha innescato una condizione cardiaca che ha determinato un infarto nella vittima.
Possiamo ritenere sul piano meramente causale la tipicità oggettiva che senza quello schiaffo Caio
non sarebbe morto. L’autopsia ci dice anche che la causa della morte è una causa complessa
perché comprende la condotta dello schiaffo e l’innesto del vizio cardiaco che ha portato
all’infarto e quindi alla morte. Quindi la responsabilità della morte di Caio è direttamente
attribuibile a Tizio? L’intenzione era di percuotere Caio e non di ucciderlo ma l’evento morte,
derivante dal vizio cardiaco innescato dallo schiaffo di Tizio, viene comunque imputato a Tizio però
sul piano del rispetto del principio di colpevolezza occorrerà dimostrare almeno la colpa. Qui la
colpa consiste che, Tizio potrà essere condannato a titolo di omicidio preterintenzionale solo se
poteva prevedere che come conseguenza dello schiaffo Caio si sarebbe sentito male, quindi in
quanto Tizio sarà condannato per omicidio preterintenzionale in quanto lui fosse a conoscenza che
la vittima avesse un vizio cardiaco, ma se non c’era modo di conoscere potrò rispondere
penalmente del diritto di percosse, del delitto di lesioni ma non posso rispondere del delitto
preterintenzionale.

La causa però deve essere anche una condizione sufficiente, cioè può bastare solo quella condotta
a spiegare l’evento. La spiegazione causale è una spiegazione che richiede una base nomologica
funzionale, ciò richiama all’esistenza di leggi causali in grado di spiegare perché all’antecedente A
abbia fatto seguito l’evento B. Quindi causa in senso nomologico funzionale è l’insieme delle
condizioni contingentemente necessaire, quindi espressione di un determinato contesto da
analizzare in concreto, condizioni dalle quali deriva l’evento la cui produzione può essere spiegata
attingendo ad una regolarità enunciata all’interno di una legge universale, o di una legge statistica.
Innanzitutto abbiamo una integrazione della teoria condicio sine qua non perché la teoria della
condicio sine qua non è una teoria che ci aiuta a spiegare quei casi in cui sia manifesto il rapporto
di causalità sulla base di una regolarità causale che viene osservata attraverso l’esperienza. Il
problema però nasce quando nel caso io non dispongo prima dell’evento una spiegazione causale.
La teoria della condizione necessaria (condicio sine qua non) ha bisogno di essere integrata dal
modello di sussunzione sotto leggi scientifiche. Cioè io devo individuare una legge scientifica che
mi aiuti a comprendere se l’evento è conseguenza della condotta che io suppongo essere causa
dell’evento.

Art. 41 c.p. disciplina il fenomeno delle concause, dei fattori preesistenti simultanei o
sopravvenuti. Dei fattori che prima durante e dopo la condotta della persona fisica possono
affiancarsi a questa condotta.
Al primo comma ci dice come trattare questi fattori e ci dice che questi fattori di per sé non
escludono il rapporto di causalità fra la condotta umana ascritta alla persona fisica e l’evento. È
possibile che ci siano ma ciò non toglie che la condotta umana rimanga ferma e si porti dietro la
responsabilità del suo autore. La logica dell’imputazione causale esige un giudizio di tipo
controfattuale e ipotetico, un viaggio nel passato secondo una prospettiva ex post che ci porta a
sviluppare un ragionamento di eliminazione mentale. Solo attraverso questo procedimento di
eliminazione mentale sarà possibile affermare la causalità di una determinata condotta rispetto ad
un determinato evento. Nel processo penale bisognerà fornire la prova oltre ogni ragionevole
dubbio che la condotta umana imputata al soggetto è condizione necessaria. Condizione
indispensabile senza la quale l’evento non si sarebbe verificato per come si è verificato. La
condotta può avere sia natura attiva, sia natura omissiva. Abbiamo reati di evento che prevedono
una condotta attiva e reati di evento che prevedono anche o solo una condotta omissiva.
Il requisito della natura della condotta rimbalza nel nesso di causalità perché nel procedimento di
eliminazione mentale abbiamo ipotizzato una eliminazione di una condotta attiva. Quando il reato
esibisce una condotta omissiva, negativa, il procedimento non è di eliminazione mentale ma di
aggiunta mentale, immaginiamo la morte di un neonato a causa della scelta della madre di non
allattarlo, si traduce in una condotta negativa, in un non facere, e per dimostrare l’esistenza del
nesso di causalità devo sviluppare un ragionamento ipotetico che porta all’aggiunta della condotta
positiva. Quindi quando ci rapportiamo di fronte ad un evento dobbiamo risalire alla causa,
bisogna sempre discernere la natura della condotta che si intende imputare al soggetto. Se la
condotta ha natura attiva si verificherà il test del ragionamento di eliminazione mentale, se invece
la condotta ha natura negativa, omissiva, il test consiste nell’aggiunta ipotetica della condotta
doverosa.
Sentenza della cassazione nella materia del nesso di causalità, sentenza a S.U. Franzese n.
30328/2002, troviamo un accertamento sul nesso di causalità, “il nesso causale può essere
ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una legge
scientifica universale o statistica , si accerti che questo evento non si sarebbe verificato, oppure si
sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”. Quindi
ragionamento controfattuale, ragionamento ipotetico, integrato dalla base nomologica,
esperienze scientifiche di natura universale o statistica, che fonda una riflessione sulla presenza
delle regolarità causale in grado di spiegare se la condotta ipotizzata come causa sia
effettivamente in concreto stata la condizione necessaria per la produzione di quell’evento hic et
nunc.
Se dimostro che comunque l’evento si sarebbe verificato, indipendentemente dalla condotta, non
è possibile accertare il nesso di causalità. Se invece l’accusa dimostrerà che senza quella condotta
l’evento hic et nunc non si sarebbe verificato, oppure si sarebbe verificato ma in epoca posteriore
e con minore intensità lesiva ecco che avrà l’accusa accertata il nesso di causalità.
La corte si è espressa a sezioni unite perché a sezioni semplici c’erano due filoni opposti, un filone
interpretativo che si accontentava di fondare la sussistenza del nesso di causalità sulla base di leggi
statistiche a basso coefficiente probabilistico; un altro filone che richiedeva la certezza, quindi si
fidava solo di leggi universali, cioè su una legge scientifica che a seguito di una condotta si
verificasse sempre e comunque un determinato tipo di evento.

La casistica giudiziaria, per renderci conto come la giurisprudenza maneggi le leggi scientifiche.
Oggi i principali processi sono caratterizzati dall’ingresso della prova scientifica, cioè quella prova
che per essere raccolta ha bisogno dell’immissione all’interno del processo di cognizioni
scientifiche e di esperti. Fino a qualche anno fa la prova scientifica era una rarità, i processi
facevano a meno delle consulenze tecniche, delle perizie. Oggi invece, si assiste ad un
ribaltamento di prospettiva, al punto che secondo alcuni osservatori sono i periti e i consulenti
tecnici i veri attori di questi processi, sono loro che avendo una disponibilità di informazioni sulle
materie di competenza superiore a quelle che può avere il giudice poi decidono la sorte di questi
processi, quindi ci si pone il problema del ruolo che il giudice deve assumere nei confronti di
quesiti esperti.
La sentenza, redatta dal giudice Blaiotta, si poneva l’obiettivo di risolvere la questione che, il
processo era nato dall’accusa di omicidio colposo rivolta a carico di imprenditori, titolari di
aziende, anche aziende pubbliche, si trattava della malattia contratta da operari alle dipendenze di
una società ferroviaria. All’interno del processo penale, nella fase del dibattimento, si
riscontravano due ricostruzioni scientifiche. Queste vittime erano decedute perché avevano
contratto una patologia tumorale, il mesotelioma pleurico, a causa della esposizione a fibre di
amianto durante le lavorazioni connesse alle lavorazioni espletate quotidianamente nelle attività
della ferrovia. Le due tesi nella comunità scientifica erano: secondo una prima tesi la c.d. tesi della
dose indipendente, basterebbe per l’innesco della malattia un unico contatto con la sostanza
nociva, quindi sarebbe sufficiente respirare solo una volta delle fibre di amianto per esporsi al
rischio di contrarre una grave patologia che può determinare la morte del soggetto; secondo
un'altra teoria quella della c.d. dose dipendente, segue la logica dell’accumulo, cioè tante più
occasioni hai avuto di contatto con l’amianto, tanto più aumenta il rischio che tu abbia contratto la
patologia.
Il giudice non è uno scienziato, non ha le competenze per decidere. Però il giudice esamina le
diverse teorie, e distinguono tra buona scienza e scienza spazzatura. La pronuncia, c.d. Cozzini, il
merito di questa pronuncia sta nell’aver definito un metodo, un approccio, un percorso che un
giudice che non è uno scienziato deve seguire senza sostituirsi agli scienziati per definire qual è tra
le varie leggi scientifiche, tra le varie teorie circolanti, quella più affidabile che nel caso concreto
può essere posta a base di un eventuale accertamento di responsabilità. Il rischio di porre alla base
di questo accertamento una legge scientifica che è stata superata da altre scoperte.
Il problema non si pone se esiste un'unica legge scientifica, un unico pensiero (primo caso); nel
secondo caso invece si dispone di più leggi scientifiche e in questo caso bisognerà valutare la forza
di questi leggi, solo una è valida, forte, fondata, e le altre sono intrise di supposizioni che non le
rendono competitive; terzo caso è che tutte le leggi scientifiche sono plausibili e meritevoli di
essere prese in considerazione.
Con riferimento al primo caso, sulla base di un esame della letteratura presente all’interno della
comunità scientifica ha ritenuto la sentenza che l’amianto deve essere considerato un possibile
fattore di rischio del mesotelioma, quindi ha favoreggiato la teoria dell’accumulo, quindi la teoria
della dose indipendente. Invece la teoria della dose indipendente non è stata ritenuta
sufficientemente comprovata da evidenza anche perché è fondata sulla distorsione del pensiero di
un autorevole scienziato.
Si avrebbe la terza ipotesi invece, cioè più teorie tutte plausibili, in questo caso si deve procedere
ad una selezione e la selezione potrà avvenire sulla base della preponderanza del consenso
scientifico all’interno della comunità scientifica di riferimento.

Quindi, se una determinata condotta è causa di un determinato evento si risponde seguendo il


percorso delineato dalla teoria della condicio sine qua non, che postula un procedimento contro
fattuale che si sostanzia in un ragionamento di eliminazione mentale della condotta per verificare
mentalmente se l’evento resta fermo. Questo ragionamento deve alimentarsi di leggi scientifiche
di copertura che ci aiutano a comprendere alla luce dei dati scientifici e delle teorie che sono state
elaborate se è vero che quella condotta è causa di quell’evento e se quell’evento è conseguenza di
quella condotta. Questo modello deve rapportarsi ad una prova in concreto da sviluppare
all’interno del processo penale, una prova scientifica che prevede l’irruzione nel processo penale
di esperti che devono essere governati dall’organo giudicante. Organo giudicante che deve seguire
un determinato metodo che per eliminare dal processo la scienza spazzatura ed individuare la
legge scientifica di copertura e di porre alla base della spiegazione del nesso causale.
La catena causale, l’evento è conseguenza di fattori concatenati l’uno all’altro. Per coprire la parte,
gli anelli causali che rimangono ignoti dobbiamo dotarci di alcune assunzioni nomologiche tacite,
la c.d. clausola coeteris paribus, cioè a parità di condizioni.

Sentenza “Franzese” a Sezioni Unite n. 30328/2002.


La tipologia di leggi scientifiche. Abbiamo leggi scientifiche universali e leggi scientifiche
statistiche che affermano che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro
evento in una certa percentuale di casi. Le leggi universali si caratterizzano per fornire una
copertura del 100%, una regolarità statistica nel 100% dei casi. Mentre le leggi statistiche hanno
una componente probabilistica. La domanda che si pone la sentenza a sezioni unite è quali sono le
condizioni di utilizzabilità delle leggi statistiche. Si pone questa domanda perché noi potremmo
avere una legge statistica a basso coefficiente probabilistico che stabilisce una regolarità causale
tra quella condotta e quell’evento nel 30% dei casi, ci domandiamo se la possiamo utilizzare. Il
rischio di utilizzare una legge statistica è quello di condannare un innocente. Il problema si è posto
anche a livello di giurisprudenza della suprema corte degli Statti Uniti, soprattutto nel caso
Daubert del 1993, che ha posto una serie di requisiti che poi sono stati presi e valorizzati dalla
sentenza Cozzino. Come ad esempio che la legge scientifica deve essere dotata di alto grado di
conferma secondo il metodo induttivo; o la legge deve aver superato tutti i tentativi di
falsificazione secondo il metodo falsificazionista; o la legge deve essere generalmente accettata
nell’ambito della comunità scientifica; o deve essere noto il tasso di errore delle tecniche utilizzate
nell’indagine causale (generale e specifica). Quindi una serie di cautele metodologiche che il
giudice deve seguire per ammettere all’interno del processo una legge scientifica considerandola
valida. Quindi il giudice è un fruitore della legge scientifica che preesiste ma può essere posta alla
base di una sentenza se si sappia i casi di errore di questa legge.
Secondo i sostenitori della teoria dell’aumento del rischio è possibile mettere al fondamento di
una sentenza di condanna una legge a coefficiente medio basso, perché ci si accontenta che la
legge abbia segnalato che al verificarsi di quella condotta aumenti il rischio del 30% di verificazione
di quell’evento. Questo aumento del rischio ci dice che quella condotta è idonea e adeguata al
30% dei casi a produrre un certo tipo di evento. Queste leggi statistiche si basano su indagini di
tipo epidemiologico, cioè prende dei soggetti (un campione) e li pongo ad un esperimento.
C’è però anche un’altra posizione che critica i sostenitori della tesi dell’aumento del rischio, perché
nel diritto penale non è la causalità speciale ma la causalità specifica. La causalità di tipo
individuale, interessa quella persona e quell’evento. Invece l’analisi epidemiologica è fatta su
persone che non si conosce niente.
La tesi che si è sostenuta è che la teoria dell’aumento del rischio, quindi una teoria che ammette il
ricorso ad una legge statistica a coefficiente medio basso possa essere autorizzata solo nei casi di
accertamento di reati con evento di pericolo. I reati di evento sono caratterizzati da un evento
naturalistico, questo evento naturalistico può essere distinto in evento di danno (la morte di Tizio)
e in evento di pericolo (es. art. 434 c.p. pericolo della pubblica utilità, quindi ancora qua nessuno si
è fatto male). Se da questi fatti diretti a cagionare un disastro, come ad esempio il crollo di una
costruzione deriva un evento di pericolo ecco che l’autore può essere punito a titolo di disastro
pericoloso. La giurisprudenza e parte della dottrina ci dicono che per la prova e solo per la prova
dell’evento di pericolo possono tornare utili le indagini epidemiologiche, cioè io devo provare se
quella condotta è una condotta pericolosa, cioè se da quella condotta può derivare un evento
lesivo. Per valutare la pericolosità della condotta rispetto all’evento posso fare riferiamo a leggi
statistiche a coefficiente medio basso.
La sentenza Franzese ricapitola tutto sulla materia della causalità, ma cerca di fissare un punto di
equilibrio sulle due tesi, cioè tra la tesi dell’aumento del rischio, e dall’altra la teoria opposta,
cioè per accertare la responsabilità penale di un soggetto oltre ogni ragionevole dubbio io ho
bisogno e posso fare ricorso a leggi universali. Ma queste leggi universali sono molte poche.
La cassazione a sezioni unite, con la sentenza Franzese, esordisce con una critica molto serrata nei
confronti della teoria dell’aumento del rischio perché il rischio della condanna dell’innocenza è un
rischio tangibile. Però da una stoccata anche alla teoria delle leggi universali, sapendo che sono
molte poche.
Il punto di mediazione, la soluzione escogitata è che la cassazione ribadisce che la colpevolezza
deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio e ammette la possibilità di fare ricorso a leggi
statistiche a contenuto probabilistico ma queste leggi statistiche devono mettere il giudice nella
condizione di arrivare ad affermare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio.
Il giudice arriva a questo risultato se la legge scientifica a contenuto probabilistico favorisce il
raggiungimento di un grado di alta o elevata credibilità razionale con riferimento alla tesi proposta
dalla legge scientifica, cioè alla tesi per cui a quella condotta segue il 30/40% dei casi quell’evento.
Quindi si può utilizzare anche una legge che dica che nel 10% dei casi c’è quella correlazione
statistica a patto però che quella legge favorisca una certezza di tipo logico processuale.
Dobbiamo fare due osservazioni. Prima osservazione, per poter mettere a fondamento di una
condanna oltre ogni ragionevole dubbio una legge statistica a contenuto probabilistico il giudice
deve confrontarsi con il contesto, deve valutare in termini di ragionevolezza come si sono svolte le
cose, quindi deve motivare sulla base degli elementi a disposizione emersi nell’istruttoria con
riferimento al contesto in cui è maturato il reato, un’analisi in concreto. Questa analisi in concreto,
Seconda osservazione deve portare il giudice a motivare perché le cose sono andate come
suggerisce la legge scientifica e non come suggeriscono altri ragionamenti alternativi che si basano
su altre leggi scientifica ma che sul caso concreto sulla base degli elementi a disposizione non sono
ritenuti plausibili, esplicativi.
Es. esposizione all’amianto, nel caso concreto emerge che la vittima era un grande fumatore, la
difesa dell’imputato sicuramente insinuerà il dubbio sulla tesi formulata dall’accusa, cioè che la
vittima è morta perché fumava molto. Il fattore causale che ha causato la morte quindi, secondo la
difesa è perché fumava. La logica della ragionevolezza sulla base degli elementi a disposizione mi
deve mettere in guardia perché se si adotta una prospettiva di aumento del rischio allora
l’imputato verrà condannato. Ma se si adotta una prospettiva di certezza orientata oltre ogni
ragionevole dubbio le cose cambiano, perché in coscienza non posso dire che la morte della
vittima è dipesa solo dall’esposizione all’amianto.
Quindi occorre maturare la certezza ma questa certezza non è di tipo matematico, altrimenti
dovrei far riferimento solo a leggi di tipo universali, ma è una certezza di tipo logico processuale
che ci porta ad un giudizio di ragionevolezza su come sono andate le cose e che spinge il giudice a
motivare perché non accoglie delle ricostruzioni alternative del fatto, basate su altre leggi
scientifiche che però il giudice non ritiene plausibile.

La sentenza Franseze presenta anche dei limiti che rendono la prova sull’esclusione dei decorsi
alternativi una probatio difficile da ottenere, però c’è un procedimento bifasico. Da un lato
l’adozione di una legge scientifica che possono contenere anche un contenuto probabilistico
medio basse; e dall’altra l’esclusione di decorsi alternativi reali.

Art. 41 c.p. disciplina l’istituto delle concause. La presenza di cause simultanee e sopravvenuto,
cioè il concorso di altri fattori, di per sé non esclude il rapporto di causalità fra la condotta e
l’evento. Secondo comma “Solo le causa sopravvenute, cioè quelle successive alla condotta
contestata all’imputato escludono il rapporto di causalità a patto che siano state da sole sufficienti
a determinare l’evento, cioè si potrà dire che è subentrata una causa successiva che ha interrotto il
nesso causalità tra la condotta contestata all’imputato e l’evento in quanto si può dimostrare che
questa causa successiva sopravvenuta dopo la condotta dell’imputato sia autonoma,
indipendente, sufficiente perché abbia allestito un rapporto diretto con l’evento che ha di fatto
scalzato il rapporto tra quell’evento e la condotta contestata all’imputato. Questa successiva
trama causale, successivo decorso causale si sostituisce al decorso causale contestato all’imputato.
Terzo comma ci dice che il primo e secondo comma valgono anche quando la causa preesistente,
simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. Bisogna vedere se questo illecito
penale concorre alla condotta dell’imputato e se ha le potenzialità a sostituirsi alla condotta
dell’imputato a patto che però sia un fatto successivo, sopravvenuto.
Si parla di equivalenza delle cause, e secondo la dottrina maggioritaria, l’art. 41 c.p. conferma la
teoria della condicio sine qua non enunciata nell’art. 40. Per cui è sufficiente ma necessaria una
causa sopravvenuta solo quando questa causa sopravvenuta abbia innescato una trama causale
completamente autonoma rispetto alla trama causale innescata dalla condotta incriminata.
Cosa si intende per “cause da sole sufficienti” è che si tratti di serie causali autonome o
indipendenti.

Tema della condotta. Il termine condotta è un termine di genere che tiene dentro la species
dell’azione e la species dell’omissione. All’interno di reati omissivi propri, di mera omissione quindi
di reati di mera condotta dove la condotta è data dall’omissione e questo costituisce il disvalore
che viene colpito dalla sanzione penale; e reati omissivi impropri che sarebbero i reati di evento
caratterizzati da una condotta omissiva, chiamati anche reati caratterizzati da una condotta
omissiva che determina l’evento, chiamati anche reati omissivi mediante ommissione, dove
assistiamo ad un disvalore della condotta e anche un disvalore dato dall’evento omissivo. Quindi
questa suddivisione ci introduce ad una riflessione sul rapporto fra accertamento del nesso di
causalità e reati omissivi impropri, cioè i reati caratterizzati dalla presenza di un evento che è
conseguenza di una condotta omissiva. I reati omissivi impropri che alla pari degli altri reati di
evento sono caratterizzati dall’intervento di un nesso di causalità tra l’omissione e l’evento.
L’omissione penalmente rilevante è l’omissione di un’azione (il mancato compimento di una
azione) che si aveva l’obbligo giuridico di compiere. Mentre i reati omissivi propri sono reati
tipizzati espressamente dal legislatore, come l’omissione di soccorso e questo non facere viene
sanzionato (art. 593 c.p. omissione di soccorso). Inoltre, prescindono dal realizzarsi di un evento
come conseguenza dell’omissione.
La struttura dell’art. 593 c.p. (omissione di soccorso), abbiamo la situazione tipica, cioè l’insieme
delle circostanze di fatto e di diritto che devono far scattare un segnale di allarme, cioè se trovo un
corpo inanimato in strada devo adempiere alla solidarietà sociale. Nel primo comma ci viene detto
di dare avviso all’autorità, nel secondo comma ci viene detto di prestare assistenza. Quindi
l’inadempimento è un inadempimento specifico, e se io non presto soccorso o non avviso
l’autorità scatta la responsabilità penale.
Accanto alla situazione tipica, al dovere che devo realizzare se voglio escludere un’accusa, cioè la
possibilità di agire del soggetto obbligato. Per poter adempiere il dovere io devo essere nelle
condizioni di farlo, devo avere il potere di adempiere il dovere, io devo solo ciò che posso. Se non
ho il potere, la possibilità di avvertire l’autorità o di prestare il soccorso diventa difficile imputarmi
l’inadempimento del dovere.

Reato omissivi. C’è da fare una bipartizione: reati omissivi propri, quindi di mera condotta e reati
omissivi impropri cioè reati commissivi mediante omissione cioè reati di evento nella quale
l’evento è scaturito da una condotta omissiva, da un non facere quod debetur, cioè
dall’inadempimento di un obbligo giuridico di impedire un evento. Ma può essere realizzato anche
da una condotta attiva e avremo un reato commissivo, un reato di azione, ma può essere
realizzato anche attraverso una condotta omissiva.
Delitto di omissione di soccorso, art. 593 c.p. Esempio, un bagnante annega ma il bagnino e il suo
amico stanno facendo una chiacchierata quindi non si accorgono del bagnante che annega.
Entrambi rischiano un’accusa. Nei confronti del bagnino la contestazione sarà di omicidio colposo,
mentre nei confronti dell’amico sarà di omissione si soccorso aggravata dall’evento morte. La
diversità di trattamento, i reati omissivi propri si caratterizzano per essere reati di mera condotta
omissiva, quindi reati che prescindono dalla verificazione di un evento come conseguenza di
questa condotta, art. 593 c.p., l’evento può assumere una diversa configurazione quale circostanza
aggravante, ma la circostanza aggravante è esterna rispetto alla struttura del reato di omissione di
soccorso che rimane un reato di mera condotta. Si viene puniti per il solo fatto di aver omesso il
soccorso. Questo evento non fa parte della struttura del reato, ma viene imputato al soggetto che
ha omesso il soccorso a titolo di circostanza aggravante. Ad esempio se ricade nella disciplina delle
circostanze aggravanti laddove ci fossero delle circostanze attenuanti, queste possono entrare in
una sorte di bilanciamento con l’aggravante della morte del soccorrendo ed essere compensate,
cioè il giudice può ritenere l’aggravante della morte del soccorrendo e l’eventuale attenuante
generica (cioè il non avere precedenti penali) circostanze di eguale intensità che si vanno ad
annullare, quindi alla fine evitare di aggravare la pena del soggetto che ha omesso il soccorso.
La caratteristica di questi reati omissivi propri non è solo quella di essere reati di mera condotta
omissiva, la caratteristica principale è che questi reati vengono espressamente tipizzati dal
legislatore, cioè il tipo criminoso viene fissato in modo preciso all’interno di una norma
incriminatrice. Quindi i reati omissivi propri, noi li apprezziamo immediatamente perché sono
espressamente descritti, tipizzati, formalizzati all’interno di una norma incriminatrice. I reati
omissivi impropri o commissivi mediante omissione, noi non li troviamo tipizzati nel codice penale.
Il nostro legislatore ha fatto una scelta di fondo, ha preferito introdurre un’unica norma di parte
generale fondamentale che consente di estendere l’incriminazione prevista espressamente per
reati di evento realizzati attraverso condotte attive anche a reati di evento realizzati attraverso
condotte omissive. Permette di incriminare delle condotte omissive che se non ci fosse questa
norma resterebbero atipiche e come tali non possono essere punite perché non sono previste da
alcuna norma incriminatrice.
Art. 40 secondo comma, svolge una funzione importante perché contiene una clausola di
equivalenza grazie alla quale il legislatore svolge una funzione incriminatrice di atti omissivi che
senza una clausola di equivalenza che equipara atti attivi ad atti omissivi non sarebbero punibili
perché resterebbero completamente atipici, sottratti a qualunque previsione e sarebbe una
violazione palese del principio di legalità e del principio di riserva di legge.
Il reato omissivo improprio nasce come frutto di una combinazione tra norme. Queste norme che
entrano nel gioco della combinazione sono date dall’art. 40 comma 2 c.p. (norma della parte
generale del codice penale) che sancisce la clausola di equivalenza, “non impedire un evento, che
si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”; e una norma di parte speciale che può
essere l’art. 575 c.p. che indica il reato di evento. Oppure art. 110, altra ipotesi di causa generale,
che disciplina il concorso di persone nel reato, una forma di manifestazione del reato, il legislatore
ha costruito le norme della parte speciale secondo una configurazione mono soggettiva, ma se più
soggetti concorrono a cagionare la morte di un uomo io ho bisogno di una norma della parte
generale (come l’art. 110) per estendere la punibilità del 575 (omicidio volontario) anche ai
contribuiti atipici dei soggetti che hanno collaborato all’uccisione.
Ma non tutte le fattispecie commissive sono convertibili in altri reati omissivi impropri. Per la loro
natura e struttura non si prestano a questa trasformazione in tipi criminosi fondati su una
condotta omissiva, pensiamo ai delitti di mano propria, cioè delitti che possono essere commessi
solo attraverso un facere che ha natura strettamente personalistica, pensiamo al delitto di incesto.
L’incesto non può essere commesso da un soggetto che si trova in una relazione stretta con il
soggetto con il quale pratica l’incesto, ma è evidente che la pratica dell’incesto implica che ci deve
essere il vincolo familiare e al tempo stesso natura attiva.
Le caratteristiche dei reati omissivi impropri sono da un lato che non sono previsti dal legislatore e
dall’altro che si caratterizzano per la presenza di un evento come conseguenza diretta
dell’omissione. Secondo la tesi che passa come maggioritaria sono suscettibili di conversione solo i
reati causali puri cioè i reati per l’appunto che vengono configurati dal legislatore attraverso la
tecnica dei reati a forma libera, come per esempio l’omicidio volontario dove il disvalore maggiore
si concentra sull’evento. Invece la giurisprudenza adotta un approccio più estensivo, quindi
aumento il raggio della punibilità perché consente in alcuni casi che ad essere puniti siano anche
dei reati a forma vincolata.

Gli elementi che compongono la struttura del reato omissivo improprio.


Un primo elemento è dato dalla situazione tipica, cioè il contesto che deve convincere il soggetto
circa la necessità di attivarsi per impedire l’evento che il soggetto ha l’obbligo giuridico di
impedire. La situazione tipica è l’insieme degli elementi che danno vita nel caso concreto ad un
pericolo corso dal bene giuridico, ed è questo pericolo che nel caso concreto che rende attuale
l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
Un altro elemento fondamentale del reato omissivo improprio è dato dalla condotta omissiva,
cioè l’assenza di una condotta, il non facere. Non un qualunque non facere, il non fare qualcosa
che si aveva l’obbligo giuridico di fare.
Il terzo elemento della struttura è l’elemento più importante. Il reato omissivo improprio ha due
facce, da un lato troviamo il dovere di impedire l’evento che si aveva l’obbligo giuridico di
impedire (art. 40 comma 2), dall’altra faccia troviamo il potere di impedire l’evento.
Rispetto al questo terzo elemento ci sono una serie di approcci sia in dottrina che in
giurisprudenza relativi alla presenza di una serie di condizioni e di capacità che devono sussistere
perché scatti l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Per quanto riguarda la giurisprudenza si
accontenta a verificare la presenza nel soggetto attivo dei poteri, sia di fatto, sia giuridici e
l’esistenza di questi poteri di fatto o giuridici fonda il quarto elemento della struttura del reato
omissivo improprio, la c.d. posizione di garanzia.
La posizione di garanzia è una caratteristica molto controversa ma che oggi può dirsi assodata, il
garante è il soggetto chiamato dall’ordinamento a gestire un rischio, ed è questa qualifica che
favorisce l’imputazione a titolo di omicidio colposo nei confronti del bagnino, perché il bagnino a
differenza dell’amico è garante, è un soggetto che riveste una posizione di garanzia nei confronti
del bene vita del bagnante in difficoltà. La posizione di garanzia si ricopre di doveri e poteri grazie
al quale il garante può adempiere all’obbligo giuridico di impedire l’evento.
Quindi riprendendo l’esempio del mancato soccorso del bagnino, l’amico del bagnino non è un
garante, invece il bagnino riveste una posizione di garanzia e si muove come soggetto attivo di un
reato di evento realizzato attraverso una condotta omissiva. Nel reato di evento, l’evento è un
elemento costitutivo della struttura che si compone di una condotta, di un evento e di un nesso di
casualità che lega l’evento alla condotta.
Quindi tutti i reati omissivi impropri sono reati propri. Ciò perché un conto è la distinzione tra reati
omissivi propri e impropri che fa leva sulle due caratteristiche, cioè espressa previsione legislativa
e mancanza di previsione legislazione; e seconda caratteristica è la presenza o meno dell’elemento
dell’evento nella struttura della fattispecie. Un altro conto è la distinzione tra reati comuni e reati
propri. Questa distinzione poggia su basi diverse, il reato comune è il reato che può essere
commesso da chiunque. Il reato proprio è un reato che può essere commesso solo da un soggetto
qualificato cioè un soggetto che presenta delle specifiche qualifiche o qualità.
La posizione di garanzia implica la titolarità in capo ad un preciso soggetto di un insieme di poteri e
doveri. Un problema rilevante che pone nella pratica per verificare se Tizio era effettivamente un
garante, cioè se era destinatario di obblighi giuridici di impedire l’evento, è dato
dall’individuazione della fonte dell’obbligo giuridico di impedire l’evento.
Quindi riscontriamo il problema della fonte dell’obbligo. Abbiamo due teorie, secondo una prima
teoria, la c.d. teoria formale la posizione di garanzia in omaggio al principio di riserva di legge
sono solo quelle che sono espressamente previste all’interno dell’ordinamento da atti qualificati,
codificati, atti scritti che espressamente attribuiscono poteri e doveri ad un soggetto il quale viene
investito della responsabilità di gestire un rischio in modo tale da evitare che questo rischio si
trasformi in un elemento lesivo. Questo approccio ha riscontrato molte critiche perché da un lato
si è detto che non ogni obbligo previsto dalla legge o da una fonte scritta si traduce
automaticamente nell’esistenza di una posizione di garanzia avente rilievo penale, e sia perché
sembra riduttivo vincolare l’esistenza di una posizione di garanzia solo ad atti avente fonte
qualificata perché esistono una serie di altre fonti che anche se non sono state codificate possono
comunque far sorgere degli obblighi giuridici di impedire l’evento. La teoria formale attende per
potersi esprimere sull’esistenza o meno di un obbligo giuridico di impedire l’evento di verificare la
presenza di una traccia scritta. Sempre nella teoria formale è stata poi introdotta come correttivo
la figura della precedente azione pericolosa che farebbe scattare l’obbligo giuridico di impedire
l’evento. Ma anche questa soluzione non è andata a buon fine perché si contraddicono i
presupposti della teoria formale che vuole che le fonti, per via del principio della riserva di legge,
siano solo fonti scritte e codificate e per altro verso si rischia di allargare troppo il numero delle
fonti e quindi di individuare un numero esorbitante di posizioni di garanzia sulla base della mera
sussistenza di una posizione pericolosa.
Accanto alla teoria formale si è formata un'altra teoria di pensiero, la teoria c.d. funzionale,
materiale e sostanziale che non guarda molto all’esistenza di un traccia documentale, di una base
scritta attraverso la quale si conferiscono poteri e doveri ma si accontenta dell’assunzione
materiale di una posizione di garanzia nei confronti del bene, cioè sulla base di un esame concreto
della vicenda, l’individuazione di una prossimità rispetto al bene tutelato e l’esistenza dei poteri in
grado di mettere il soggetto nelle condizioni di intervenire per tutelare il bene, quando il bene
corre un pericolo. C’è una situazione di dominio del rischio indipendentemente al fatto che sia
stata codificata, e trasmette al soggetto la codifica sulla base di fatto della posizione di garanzia.
Questo rapporto di fatto nasce da una serie di situazioni che possono benissimo prescindere da un
inquadramento giuridico, dall’esistenza di un contratto o da una legge che quindi attribuisca
espressamente poteri e doveri, e fondamentalmente si basano sull’esistenza di una relazione
fattuale tra soggetto garante e soggetto titolare del bene in difficoltà. Questa teoria consente di
annoverare fra le fonti dell’obbligo giuridico di impedire l’evento anche la precedente azione
pericolosa proprio perché non necessita di essere formalizzata come fonte dell’obbligo.
Gli sviluppi di questa teoria hanno portato ad isolare almeno due categorie di posizioni di garanzia.
Ci sono delle posizioni Originarie cioè posizioni che nascono in capo a specifici soggetti sulla fiducia
del ruolo della posizione occupata.
E ci sono posizioni di garanzia c.d. derivate, cioè che si trasmettono da un soggetto garante
originario ad un soggetto che diventa a seguito di quest’atto di trasferimento un garante derivato
che viene però investito dei poteri e dei doveri di impedire l’evento.
Un’altra distinzione riguarda il contenuto degli obblighi di impedire l’evento che
contraddistinguono la posizione di garanzia. Una prima distinzione è data dai c.d. obblighi di
protezione che sono obblighi di proteggere un bene contro una serie indeterminata di pericoli; poi
ci sono gli obblighi di controllo che invece consistono nel dovere di prevenire pericoli che derivano
da una determinata fonte di rischio. Nella teoria funzionale troviamo delle critiche, anche essa si
espone a delle obiezioni, come la mancanza di una fonte scritta rappresenta un serio problema
perché rappresenta una violazione del principio di legalità; e da adito anche alla difficoltà di
individuare con precisione i contorni della posizione di garanzia e quindi il perimetro, il diametro
degli obblighi impeditivi, cioè a cosa sono realmente tenuto cioè dove comincia e dove finisce il
mio potere e il mio dovere.
In dottrina si è prodotta una teoria intermedia per cui si è arrivati alla conclusione secondo la
quale occorre tanto una codificazione scritta dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, che è una
teoria formale che rispetta il principio di legalità, quanto poi in aggiunta l’assunzione materiale di
una posizione di garanzia, e quindi la verifica che effettivamente in concreto il soggetto fosse
effettivamente (principio di effettività) titolare del potere di impedire l’evento, perché si trovava in
una relazione di prossimità con la fonte del pericolo, oppure con il bene da tutelare (obblighi di
protezione), che lo rendeva il soggetto in grado effettivamente di prevenire l’evento lesivo.
Nonostante questa combinazione dell’art. 40 comma 2 e norma di parte speciale tutta la materia
dei reati omissivi impropri sia attraversata dalla crisi della riserva di legge, perché non essendo
espressamente previsti questi reati si consegna all’interprete un margine di discrezionalità
nell’individuazione della fonte dell’obbligo che nemmeno la teoria eclettica riesce a circoscrivere
sufficientemente. Quindi tutti i reati omissivi impropri sono sospettati di illegittimità costituzionale
per violazione dell’art. 25 comma 2 della costituzione perché si estende l’incriminazione a fatti
omissivi non espressamente previsti dalla norma incriminatrice della parte speciale.

Delega di funzione. La delega di per sé è uno strumento di ripartizione delle responsabilità che
viene impiegato all’interno delle società. Tra queste deleghe troviamo la delega di salute e
sicurezza sul lavoro, che sulla base de Testo Unico 81/2008, è una delega che prevede un
trasferimento di funzioni dal soggetto originariamente investito dalla posizione di garanzia, cioè il
datore di lavoro, ad un altro soggetto individuato dal datore di lavoro come competente ad
occuparsi dei rischi in materia di sicurezza sul lavoro. La delega per essere valida e quindi conduca
a perfezionare una traslazione della posizione di garanzia in capo ad un soggetto diverso dal
datore di lavoro deve presentare una serie di requisiti, sia di natura formale, che di natura
sostanziale.
L’art. 16 d.lgs n. 81/2008 stabilisce le condizioni di validità del trasferimento: deve risultare da atto
scritto recante data certa; il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed
esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; deve attribuire al delegato tutti i
poteri di organizzazione e gestione al controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni
delegate; deve attribuire al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle
funzioni delegate; deve essere accettata dal delegato per iscritto; e alla delega deve essere data
adeguata e tempestiva pubblicità. Quindi requisiti formali come l’atto scritto per data certa,
l’accettazione per atto iscritto e la pubblicità. Abbiamo anche dei requisiti sostanziali come la
competenza del delegato nel settore della sicurezza sul lavoro e l’attribuzione di poteri di gestione
e organizzazione del controllo.

Il penultimo elemento della struttura del reato omissivo improprio è dato dall’Evento. È l’unico
elemento che è stato previsto espressamente dalla fattispecie di parte speciale, quindi è l’unico
elemento che è stato descritto.
C’è un altro elemento che invece non è stato tipitizzato, che è quindi implicito. Questo evento è
conseguenza di una condotta omissiva che è legata all’evento dall’intervento di un rapporto di
causalità (nesso di causalità, art. 40 comma 1). La soluzione con maggior consenso sia in dottrina
che in giurisprudenza è che non vi sia una radicale differenza tra la causalità omissiva e la causalità
attiva, entrambe poggiamo sul ragionamento che hanno natura ipotetica, quindi ipotizzo su come
sono andate le cose. Quindi ipotizzo se il garante avesse tenuto il comportamento previsto dalla
fonte che innescava, sulla base della situazione tipica, e attualizzava il dovere di agire.

Rapporto tra concorso di norme e concorso di reato. Talvolta possono convergere su uno stesso
fatto una pluralità di norme di cui si sospetta la violazione e quindi a quel punto si pone il
problema di comprendere quali violazioni di quali norme debbano essere imputate all’autore del
reato, all’autore del fatto, quindi si pone il problema di sezionare solo quelle che possono essere
ritenute le norme pertinenti rispetto al fatto. L’esigenza di individuare le sole norme pertinenti
nasce dalla necessità di evitare il c.d. bis in idem sostanziale, quindi scaturisce dalla necessità di
giustizia materiale di scongiurare eccessive punizioni che derivano dall’applicazione di più norme
laddove sarebbe sufficiente contestare la violazione di un’unica norma. Più norme si contestano e
più il carico di sanzioni aumenta. Meno norme si contestano e minore sarà il tasso di afflittività che
si riversa sull’indagato, imputato e condannato. La questione verte sulla possibilità di affermare
l’esistenza di un concorso di norme reale o meramente apparente. Se si accerta la realtà e
l’effettività del concorso di norme, ad ogni norma violata corrisponde una sanzione e quindi ci
troveremo di fronte ad una perfetta corrispondenza tra concorso di norme violate e concorso di
reati, concorso di pene. Laddove invece si accerti che il concorso non è reale, non è effettivo, ma è
solo apparente, ecco che residuerà un’unica norma e si applicherà un’unica sanzione.
Disponiamo di alcuni criteri che aiutano l’interprete nella soluzione del problema. Il criterio più
importante, ed è l’unico espressamente codificato nella parte generale del codice penale, è il
criterio della c.d. specialità. Altri criteri sono quello della sussidiarietà e quella della consunzione.
Il criterio/principio di specialità, sancito dall’art. 15 c.p., quando più leggi penali o più disposizioni
della medesima legge regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga
alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito. Con il “salvo che
sia altrimenti stabilito” sappiamo che viene posta una regola generale, l’applicazione della norma
speciale in luogo della norma generale, a meno che con una disposizione ad hoc il legislatore non
intervenga per derogare a questo criterio generale e stabilisca il c.d. concorso formale tra una
fattispecie generale e una speciale, cioè stabilisce che debbano trovare applicazione in concorso
tra loro sia la norma generale e sia la norma speciale. Ma la regola generale stabilisce che una
sostituzione in luogo della norma generale si applica la norma speciale. La norma speciale è una
norma che si pone in rapporto di genere e aspecie con una norma generale. La norma speciale
contiene tutti gli elementi della norma generale e a tutti gli elementi della norma generale si
aggiungono degli ulteriori elementi c.d. specializzandi, cioè che rendono speciale quella norma.
Questa specializzazione può assumere due dimensioni, può essere declinata tanto con l’aggiunta
di nuovi elementi rispetto agli elementi che sono contemplati dalla legge generale e allora avremo
una specialità per aggiunta, o può essere caratterizzata dalla specificazione di elementi presenti
nella norma generale. La norma speciale in questo caso presenta un maggior dettaglio di elementi
già presenti nella norma generale.
Ad esempio: il rapporto tra l’art. 575 c.p. che punisce l’omicidio volontario e l’art. 578 che punisce
in forma meno severa l’infanticidio per cause per condizioni di abbandono materiali e morali
connesse al parto. La seconda norma presenta degli elementi di specialità, cioè una serie di
connotazione, caratteristiche e condizioni che non figurano espressamente nella prima norma e
che si aggiungono o approfondiscono gli elementi contenuti nella norma generale. L’art. 578
quindi è una norma speciale rispetto alla norma genere che punisce l’omicidio volontario. Tra l’art.
575 e l’art. 578 sussiste un rapporto di genere e aspecie che ha natura di rapporto strutturale, cioè
la comparazione per comprendere se una norma è speciale rispetto ad un altro è una
comparazione tra strutture di elementi delle singole fattispecie. Quindi questo confronto tra
strutture implica un’analisi non del fatto concreto, del fatto verificatosi in natura ma un confronto
che si mantiene ad un livello astratto prendendo in esame il testo letterale delle singole
disposizioni. Solo da questo raffronto noi possiamo ricavare in via interpretativa se una norma è
speciale rispetto ad un'altra.
Altro esempio, art. 640 punisce la truffa, l’art. 642 punisce una particolare ipotesi di truffa, la c.d.
truffa all’assicurazione che presenta degli elementi diversi, specifici che si aggiungono agli
elementi che scolpiscono la struttura dell’art. 640. Anche in questo caso, confrontando i due testi
letterali ci rendiamo conto della maggiore specialità della seconda norma rispetto alla prima.
La scelta del legislatore di privilegiare la norma speciale rispetto alla norma generale non dipende
solo dal soddisfacimento di un’esigenza e giustizia materiale, cioè evitare di punire due volte un
soggetto che può essere punito una volta sola, questa esigenza risponde sia al principio di
proporzione ma anche al principio di extrema ratio del ricorso alla pena. Ma la scelta del
legislatore dipende anche dal fatto che la norma speciale è una norma che si mostra più vicina al
fatto per come si è realmente svolto. Quindi consente una migliore aderenza alla descrizione del
fatto concreto.

Il problema del rapporto tra norme si pone anche qualora ci si trovi di fronte ad una norma penale
ed a una norma amministrativa che descrivano la stessa fattispecie. Allora ci si chiede quale delle
due norme debba trovare applicazione.
Ci sono diversi orientamenti:
- secondo un primo orientamento il principio di specialità sancito dall’art. 15 c.p. dovrebbe trovare
applicazione solo quando entrambe le norme hanno natura penale, quindi secondo questo
orientamento nel caso in cui una delle due norme in concorso avesse natura amministrativa
dovrebbero trovare applicazione entrambe le norme, sia quella avente natura amministrativa e sia
quella penale. Quindi ci sarebbe in questo caso un concorso effettivo di norme, un concorso reale
che darebbe vita anche ad un concorso di sanzioni, una amministrativa e una penale e quindi ad
un carico sanzionatorio complessivo particolarmente afflittivo. Questo orientamento fa leva su
l’art. 9 della Legge n. 689/1981 sul procedimento amministrativo che ripetere quello che
stabilisce l’art. 15 precisando però che quando il fatto è punito tanto da una disposizione penale e
tanto da una disposizione amministrativa si applica la disposizione speciale. Quindi anche nel caso
di concorso tra norma penale e norma amministrativa deve trovare applicazione il principio di
specialità, cioè la norma che si caratterizza speciale rispetto alla norma generale.
- Un altro orientamento, secondo delle pronunce della Cassazione a Sezioni Unite, per cui
riprendendo sempre l’art. 9, anche in questo caso deve trovare spazio un confronto, una
comparazione a livello strutturale fra le due norme tale per cui alla fine deve trovare riscontro solo
la norma speciale. Può capitare che la norma speciale è amministrativa, quindi non sempre fra le
due si applica la norma penale.
- un’altra declinazione è data da un’altra norma di parte generale che troviamo all’art. 84 c.p. che
disciplina il reato complesso. Il reato complesso contempla i casi di c.d. unificazione legislativa e
cioè i casi in cui il legislatore è intervenuto direttamente stabilendo la punibilità di certi
comportamenti attraverso la configurazione di una struttura della fattispecie che comprende più
fattispecie incriminatrici. Ad esempio: art. 628 c.p., delitto contro il patrimonio che punisce il reato
di rapina. Questa fattispecie rileviamo che essa si compone a sua volta di due delitti, un primo
delitto è quello di violenza privata art. 610 c.p., e un secondo delitto è quello di furto, art. 624 c.p.
cioè la rapina come espressione di una combinazione tra norme di un mix di furto e violenza. La
regola sancita dall’art. 15 è che non si applica il 610, il 624 e il 628 ma trovi applicazione solo la
norma che risulta speciale rispetto alle altre, inglobando gli elementi delle altre e rispondendo alla
disciplina dell’art. 84 che prevede la figura del reato complesso, complesso perché scaturisce dalla
composizione e combinazione di più norme.
La giurisprudenza accoglie la categoria del reato complesso in senso lato, che indica le ipotesi in
cui un reato più grave contiene gli elementi strutturali di un reato meno grave e in aggiunta
contiene gli elementi ulteriori non costituenti reato. Spesso si riconduce al reato complesso in
senso lato il reato progressivo, che è un reato che si presenta nella dinamica degli eventi come una
condotta che aggrava l’offesa nel mentre in cui viene realizzata.
Ad esempio, un soggetto che decide di recare delle lesioni ad un soggetto e nel mentre della
colluttazione muta la sua decisione e progressivamente si assiste ad una serie di violenze che porta
all’omicidio. Quindi c’è un approfondimento dell’offesa, c’è un aggravamento, per cui ci pone il
dubbio se l’autore del reato dovrà essere condannato per lesioni in concorso per omicidio oppure
si applicherà una norma unica, cioè la norma più grave, in questo caso la norma dell’omicidio. E in
questo caso ad essere applicata è la norma sull’omicidio.
Il reato progressista deve essere distinto dalla c.d. progressione criminosa, che è un'altra variante.
Nel caso in cui Tizio colpisce Caio con dei pugni. Dopo qualche ora torna sul luogo del delitto e
decide di uccidere Caio. Anche in questo caso assistiamo ad una progressione ma qui è
caratterizzata per un intervallo tra le lesioni e l’omicidio. Questo intervallo manca nel reato
progressivo perché in questo reato c’è una progressione continua, senza interruzioni. Nel caso in
cui c’è un intervallo di evento avremo il concorso di reato fra lesioni e omicidio. Il concorso di
reato non lo troviamo nel caso del reato progressivo.
Ma il criterio di specialità, l’unico ad essere codificato nel codice penale, in realtà è un criterio che
aiuta a risolvere solo i casi caratterizzati dalla presenza di un rapporto di genere e aspecie. È un
criterio strutturale perché implica un raffronto in astratto fra il testo di più norme per capire
appunto da una comparazione visiva dei testi letterali questo rapporto di genere ad especie.

La dottrina e una parte minoritaria della giurisprudenza hanno elaborato degli altri criteri, che non
sono dei criteri strutturali, ma prendono il nome di criteri di valore.
Un primo criterio è il criterio della c.d. sussidiarietà, questo criterio si bi-parte in un orientamento
che riconosce valore alla c.d. sussidiarietà espressa e un altro orientamento che riconosce valore
alla sussidiarietà tacita.
La norma è sussidiaria quando dichiara la propria disponibilità ad entrare in azione, cioè si rende
disponibile, si candida ad essere applicata salvo che non sussista un’altra norma che sia applicabile
al suo posto perché risulta più severa.
Il criterio della sussidiarietà espressa si traduce in alcune clausole di esordio della norma
incriminatrici. La clausola più famosa è “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”, art.
323 c.p., che definisce l’abuso di ufficio, ed è una norma di chiusura perché all’interno veicola il
messaggio che l’interprete, il giudice o l’avvocato deve verificare se è possibile l’applicazione delle
norme contenute in questo titolo dei reati della pubblica amministrazione (come ad esempio
corruzione per gli atti giudiziari), e se nessuna di queste norme trova applicazione bisogna vedere
se non trova applicazione il 323 cioè l’abuso di ufficio, che è una norma residuale e si candida ad
essere applicata a condizione che le altre norme più severe non sono applicabili. In questo non
possiamo utilizzare il criterio della specialità perché tra abuso di ufficio e corruzione, o
appropriazione indebita, non esiste un rapporto di genere ed aspecie, perché i testi delle norme
sono testi inconciliabili.
Il criterio di sussidiarietà invece è un criterio di valore che pone un raffronto fra le norme astratte
per appurare che non esiste un rapporto di genere ed aspecie ma poi va a verificare l’esatta
dinamica dei fatti per valutare se i fatti possono essere sussunti all’interno della norma
incriminatrice.
Tutta la materia di concorso di norme e concorsi di reati si basa sul principio del divieto di bis in
iden sostanziale, cioè che nell’ordinamento penale sussiste un insopprimibile esigenza di
proporzione per cui non si deve punire un soggetto più severamente di quando meriti, e il rischio
di punire un soggetto di più di quando meriti si affaccia ogni volta che si prospetti l’orizzonte del
concorso di norme e allora tocca all’interprete verificare rigorosamente e scrupolosamente se non
sia possibile attuare un'unica norma in luogo di più norme, perché l’applicazione di più norme
penali comporta l’applicazione di più pene; mentre l’applicazione di un’unica norma comporterà
l’applicazione di un’unica pena.
Esiste anche il criterio della sussidiarietà tacita, cioè tutte le volte in cui due o più norme tutelano
lo stesso bene da gradi diversi di offesa si applica solo norma più grave, perché tiene dentro anche
il disvalore delle norme meno gravi.

Infine abbiamo il criterio della consunzione o assorbimento. Si esclude il concorso di norme e


quindi si esclude il concorso dei reati tutte le volte in cui in assenza di un rapporto di genere e
aspecie, sia possibile affermare che un reato più grave assorbe un reato meno grave. Le condizioni
attraverso le quali si possa affermare che un reato più grave assorbe un reato meno grave e quindi
trovi applicazione solo la fattispecie più grave. Queste condizioni devono essere ricavate solo sulla
base di alcuni criteri elaborati dalla dottrina, altrimenti si corre il rischio di applicare solo la norma
più grave, quando però in realtà dovrebbero essere applicate più norme e quindi dovrebbe
affermarsi l’esistenza di un concorso reale.
Il criterio dell’assunzione non si limita a dire che deve trovare applicazione le norma più grave in
quanto esprime ed esaurisce sul piano oggettivo e soggettivo il disvalore connesso anche alla
violazione delle norme meno gravi, ma dice che una norma più grave consuma una norma meno
grave in quanto sia possibile affermare che secondo l’id quod plerumque accidit cioè secondo ciò
che succede solitamente in rerum natura, la realizzazione di un reato comporta necessariamente
anche la realizzazione di un altro reato. Ad esempio, ci sono delle dinamiche criminose tali per cui
non è possibile commettere un reato senza commetterne un altro.
Ad esempio per il furto di un’automobile, quando si ruba automobile si commettono anche altri
furti perché ad esempio nel mentre rubiamo anche la benzina contenuta nell’automobile. Però
non si viene puniti di concorso tra furti, cioè di imputare oltre al furto dell’auto anche al furto della
benzina, ma si attuerà un’unica norma. Questo accade perché sono reati che per come vanno
solitamente le cose non possono non essere commessi se si vogliono commettere dei reati più
gravi, c’è un nesso funzionale per cui diventano reati impliciti.
Il criterio di consunzione è un criterio di valore ispirato dall’esigenza di impedire punizioni inutili e
ingiuste e comporta come effetto l’applicazione della sola norma che prevede il trattamento
sanzionatorio più severo, ma solo nei casi caratterizzati da uno stretto rapporto funzionale tra i
due reati, l’uno assorbito e l’altro che assorbe.
Questo criterio di consunzione trova applicazione in una serie di casi. Ad esempio nella
progressione criminosa che è da distinguere dal reato progressivo. Nella progressione criminosa
riscontriamo una dinamica simile ma diversa perché tra il momento delle lesioni personali e il
momento dell’omicidio interviene una cesura, cioè l’autore torna a casa dopo aver percosso e leso
la vittima, poi ritorna sulla scena del delitto e uccide la vittima. In questo caso noi abbiamo due
reati distinti, cioè il reato di lesioni e poi il reato di omicidio, quindi se applicassimo i principi
generali noi avremo un concorso di reato, lesioni e omicidio. Se però applichiamo il criterio di
sussunzione, ritenendo che la norma di omicidio volontario esaurisca il disvalore della condotta di
lesioni anche se è isolata e distinta rispetto al reato di omicidio, ecco che troviamo nella
progressione criminosa un’affermazione di un criterio di assunzione, così come la troviamo
nell’ipotesi del fatto tipico contestuale e dell’antefatto non punibile e del post fatto non punibile.
Cioè nella concreta dinamica criminosa noi possiamo arrivare all’assorbimento di fattispecie meno
gravi che si situino da un punto di vista temporale prima del fatto più grave, in modo concomitante
al fatto più grave, o successivamente al fatto più grave.

Dato che il criterio della specialità è molto limitante perché non consente di trovare delle
soluzioni ispirate a giustizia materiale ed equità in tanti casi che non presentano rapporti di genere
ed aspecie. Quindi cerca delle soluzioni andando ad estendere il criterio della specialità oltre
quello che è il suo campus di materie definito.
Si è creato il criterio della specialità in concreto che tradisce l’originalità del criterio della
specialità che dovrebbe operare solo in astratto fra le norme. Crea anche il criterio della specialità
bilaterale o reciproca che si ha quando ci sono più norme che presentano un nucleo comune e poi
ciascuna di queste degli elementi specializzanti che però non sono previste dall’altra norma
speciale.

Se dall’uso di questi criteri (della sussidiarietà, della consunzione e della specialità in concreto) non
si riesce ad evitare un concorso di reati, quindi abbiamo più violazione di norme penali alle quali
corrispondono più reati e quindi più pene. Quando dunque il concorso è reale il codice penale
presenta una disciplina ad hoc.
Questa disciplina esordisce all’art. 81 primo comma del c.p. con una regolamentazione del
fenomeno c.d. concorso formale di reati. Il concorso formale di reati si ha quando con un'unica
condotta, il soggetto attivo, l’autore, viola più disposizione di legge e avremo un concorso
eterogeneo; ma possiamo avere un concorso formale anche omogeneo quando invece di violare
più disposizione di legge, con un’unica condotta violo più volte la stessa disposizione di legge. Sia
in un concorso omogeneo o in un concorso eterogeneo, la disciplina del concorso formale, che è
una disciplina che si regge sulla realizzazione di un’unica condotta dalla quale derivano o più
violazioni della medesima legge o violazioni di più disposizione di legge presenta un’unica
soluzione, e cioè la soluzione del c.d. cumulo giuridico. Il cumolo giuridico si distingue dal cumolo
materiale, cioè invece di colpire l’autore del concorso di norme del concorso di reato realizzato
con un’unica condotta attraverso la condanna ad una somma delle pene previste per ciascuna
singola posizione violata, quindi cumulo c.d. materiale, si applica la soluzione più conveniente del
cumolo giuridico. Cioè si individua qual è la violazione più grave e poi la si aumenta fino al triplo,
ad esempio violazione più grave tra omicidio e rapina è omicidio.
Una volta individuata la pena per la violazione più grave il giudice ha la possibilità di praticare un
aumento che non vada oltre il triplo, che stia dentro questa misura, una misura che esprimere la
considerazione del disvalore associato ed espresso anche dalle altre violazioni commesse
all’interno di un unico contesto, di un’unica condotta.
Per tutti gli altri effetti diversi dal trattamento sanzionatorio, il concorso formale rimane una
pluralità di violazioni distinte, solo ai fini del trattamento sanzionatorio si assiste ad una
unificazione legislativa che passa attraverso la previsione di un criterio di calcolo diverso dalla
sommatoria delle pene previste per le singole violazione, c.d. cumulo materiale. Nel concorso
formale, al primo comma art. 81 trova applicazione il cumulo giuridico.
Al secondo comma dell’art. 81 c.p. troviamo invece il criterio del cumulo giuridico, quindi lo stesso
criterio previsto dal primo comma per regolamentare la distribuzione del trattamento
sanzionatorio, ma questo criterio del cumolo giuridico viene applicato ad un fenomeno diverso,
non al concorso formale ma la c.d. continuazione tra reati o reato continuato.
Il concorso formale si caratterizza per la presenza di un’unica condotta dalla quale sprigionano più
violazioni della medesima norma o violazioni di più disposizione di legge; nel caso del reato
continuato abbiamo una pluralità di condotte distinte sotto l’aspetto spazio temporale alle quali
corrispondono più violazioni di norme.
Con la previsione dedicata al reato continuato il legislatore introduce una via di mezzo tra
concorso formale e concorso materiale. Il reato continuato differisce dal concorso formale perché
registriamo più condotte, ma differisce anche dal concorso materiale perché le condotte sono
unite dalla presenza di un medesimo disegno criminoso, cioè se si vuole applicare la disciplina più
favorevole dell’art. 82 c. 2 e quindi il cumulo giuridico bisognerà dimostrare che quella serie di
reati commessi in tempi e spazi diversi sono legati tra di loro da un programma criminoso che è
presente nella mente del soggetto attivo a cominciare dalla realizzazione della prima condotta.
Se si vuole applicare il cumulo giuridico e riscontrare e dimostrare l’esistenza di un certo disegno
criminoso, che è: per un primo orientamento sarebbe sufficiente una semplice rappresentazione
mentale anticipata dei singoli reati, quindi precedente alla realizzazione del primo reato; invece
secondo un secondo orientamento il soggetto non solo dovrebbe limitarsi ad essersi
rappresentato mentalmente ma deve anche esprimere un obiettivo che accomuni i reati posti in
essere.
La disciplina della continuazione per quanto riguarda gli effetti sanzionatori il reato continuato
viene guardato come una sorta di unico reato quindi trova applicazione il cumulo giuridico.
La disciplina del reato continuato del concorso formale continua ai commi 3 e 4 dell’art. 81. Al
comma 3 troviamo che la pena che scaturisce dall’applicazione del cumulo giuridico (violazione più
grave aumentata fino al triplo), non può mai essere superiore a quella che sarebbe applicabile a
norma degli articoli precedenti. Cioè se in concreto succede che la pena che scaturisce dal cumulo
giuridico è superiore alla pena che scaturisce dal cumulo materiale, cioè dalla sommatoria delle
pene previste dai singoli reati, non potrà trovare applicazione il cumulo giuridico ma in questi casi
eccezionali troverà applicazione del cumulo materiale. Perché talvolta l’aumento fino al triplo
potrebbe portare ad una pena superiore a quella che dipende dalla mera sommatoria delle pene
previste per i singoli eventi. In questi casi allora trova applicazione non il cumulo giuridico ma il
cumulo materiale.
Il concorso materiale con cumolo materiale si distingue dal reato continuato per l’assenza di un
medesimo congegno criminoso.

Il secondo elemento della teoria generale del reato, cioè l’Antigiuridicità.


Innanzitutto c’è da dire che sarà possibile passare ad esaminare questa seconda categoria in
quanto il test sulla prima categoria, quello sulla tipicità, sia stato condotto con un esito positivo.
Cioè l’interprete abbia raggiunto il risultato per cui possa affermare che il fatto tipico risulta
integrato in tutti i suoi aspetti, cioè la condotta, il nesso di causalità dell’evento, i presupposti della
condotta. Una volta che la valutazione dell’interprete lo conduca a dire che siamo in presenza di
un fatto tipico, solo a questo punto si può passare al secondo quesito. Cioè ci si domanda se il fatto
tipico è anche anti giuridico.
Il concetto di Antigiuridicità, definiamo l’antigiuridicità alla stregua di un rapporto di
contraddizione tra il fatto tipico, acclarato in tutti i suoi elementi, e l’intero ordinamento giuridico.
Quindi il fatto tipico è antigiuridico quando è contrario al diritto. Questo contrasto, per dare vita
alla categoria dell’antigiuridicità deve essere tale per cui il fatto contrasta con tutto l’ordinamento
giuridico, ciò significa che è sufficiente l’esistenza anche di una sola norma all’interno di tutto
l’ordinamento giuridico, di una sola norma che autorizzi, e imponga la realizzazione del fatto tipico
perché quel fatto resti tipico ma perda il carattere dell’antigiuridicità. Questa norma che rende
giuridico il fatto tipico, cioè lo rende lecito, prende il nome di causa di giustificazione o
scriminante.
Quindi, l’antigiuridicità esprime il contrasto fra il fatto tipico e l’ordinamento giuridico, ma se
nell’intero ordinamento giuridico esiste una norma che autorizza e impone il fatto tipico, ecco che
l’antigiuridicità viene meno e il fatto tipico resta tipico ma è perfettamente lecito in tutto
l’ordinamento. Invece laddove non si rilevasse l’esistenza di una norma che imponga il fatto tipico,
ecco che la conclusione sarebbe che il fatto tipico è anche antigiuridico, che il fatto tipico è anche
illecito; e quindi rimarrebbe solo la terza categoria della colpevolezza.
Quando parliamo di antigiuridicità facciamo riferimento anche alle cause di giustificazione. La
presenza delle cause di giustificazione elimina l’antigiuridicità.
Riferimenti normativi. All’interno del codice penale troviamo una serie di cause di giustificazione
agli articoli 50, 51, 52, 53 e 54; e poi una disciplina molto importante agli articoli 55, 59 e 119.
Le cause di giustificazione regolate agli articoli 50 e 54 non sono le uniche presenti nel nostro
ordinamento, ma ci sono anche cause di giustificazione regolate al di fuori del sistema penale.
Le cause di giustificazione non sono norme penali in senso stretto, ed infatti le troviamo anche nel
codice civile, nella legge sul procedimento amministrativo, o in brani normativi che non hanno a
che vedere con la disciplina penalistica. La norma che rende lecito un comportamento è una
norma che in natura non ha una connotazione penalistica perché è una norma che non minaccia
alcuna pena, ma anzi aumenta lo spazio di libertà.
Ad esempio: la causa di giustificazione per eccellenza è la c.d. legittima difesa, regolata dall’art. 52
c.p. quindi io subisco un’aggressione e reagisco per salvaguardare la mia incolumità, cioè mi
difendo. Se mi difendo l’art. 52 mi dice che non sarò punito. Quindi, come conseguenza giuridica
della legittima difesa, io ottengo non solo la non punibilità all’interno del sistema penale, ma
siccome il comportamento scriminato dalla legittima difesa risulta lecito in ogni ramo
dell’ordinamento, allora l’aggressore non avrà titolo per chiedere il risarcimento dei danni patiti a
seguito della mia reazione delle lesioni che ho inferto come difesa da un’aggressione ingiusta. Il
fatto è lecito in tutto l’ordinamento, quindi assenza di pena, assenza di sanzione civile e assenza di
qualunque tipo di sanzione.
L’esistenza della causa di giustificazione non fa cedere la tipicità del fatto ma fa venire meno
l’antigiuridicità di un fatto che resta tipico. Il giudice penale sarà tenuto a prosciogliere l’indagato o
l’imputato perché il fatto non costituisce reato. Se viene meno la tipicità la formula di
proscioglimento sarà perché il fatto non sussiste, ma se manca l’antigiuridicità la formula
deliberatoria sarà perché il fatto sussiste ma non costituisce reato perché manca un elemento
della sistematica tripartitica.
Le cause di giustificazione non sono sottoposte alla riserva di legge (art. 25 comma 2 Cost.), le
cause di giustificazione esprimono la logica di tutela di un soggetto che si trova al centro di una
vicenda nella quale l’ordinamento è chiamato a svolgere un bilanciamento tra beni giuridici in
competizione tra loro.
Le fonti dunque, se si sottrae le cause di giustificazione alla riserva di legge, possono essere varie
perché possiamo trovare queste fonti anche altrove. Secondo un orientamento restrittivo anche le
cause di giustificazione sarebbero soggette alla riserva di legge perché vanno a comprimere degli
altri diritti e allora essendo dei diritti che vanno a toccare altri diritti, sarebbe necessario che anche
le cause di giustificazione fossero previste dalla legge.

Abbiamo due fenomeni peculiari di questa materia, il fenomeno della c.d. antigiuridicità espressa
e il fenomeno della c.d. antigiuridicità speciale.
Con riferimento al fenomeno dell’antigiuridicità espressa esso emerge quando all’interno di una
fattispecie incriminatrice, noi troviamo che il legislatore ha adottato una tecnica di formulazione
della fattispecie che valeva sulla presenza di alcuni aggettivi o di alcuni avverbi che richiedono
all’interprete un particolare onere di verifica. Quindi l’interprete dovrà verificare se quella
condotta sia contraria al diritto perché arbitraria oppure se invece sia lecita perché rappresenta
l’espressione di un diritto, l’esercizio di un diritto, una facoltà che compete al soggetto che realizza
la condotta.
Abbiamo anche l’esistenza di clausole di antigiuridicità speciale che fanno riferimento diretto
all’esistenza di norme, di regole di condotta, cioè ad esempio il caso dell’abuso di ufficio.
L’interprete qui è chiamato ad andare alla ricerca di una normativa che la stessa norma suppone
possa esistere, che deve essere riscontrata senza la violazione di queste regole di condotta
espressamente previste dalla legge, non c’è l’antigiuridicità dell’abuso di ufficio, la condotta non è
abusiva. Quindi l’antigiuridicità speciale in questo caso conferisce sostanza all’abuso, in tanto c’è
abuso in quanto c’è violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge.
Senza questa violazione non c’è abuso di ufficio, viene meno l’elemento portante dell’art. 323 cioè
l’abuso e quindi la violazione di legge deve essere oggetto di prova se si vuole procedere per abuso
di uffici.
Quindi mentre nel caso dell’antigiuridicità espressa si va alla ricerca di cause di giustificazione, nel
caso dell’antigiuridicità speciale si va alla ricerca di violazione di legge che risultino indici
sintomatici dell’antigiuridicità (in base all’art. 323 alla ricerca dell’abuso).
Quindi nell’antigiuridicità speciale si va alla ricerca di norme extra penali la cui inosservanza da vita
all’elemento dell’abusività richiesto dalla fattispecie incriminatrice. L’antigiuridicità speciale finisce
per rilevare l’esistenza di un altro elemento del fatto tipico, cioè per esserci abuso di ufficio
bisogna dimostrare l’esistenza dell’antigiuridicità, e l’esistenza dell’antigiuridicità è dato dal
contrasto tra la condotta e delle norme esterne alla fattispecie penale la cui violazione viene
ritenuta sintomatica dell’illiceità del comportamento. Mentre nel caso dell’antigiuridicità espressa,
il legislatore esprime un appello all’interprete, prima di affermare l’esistenza di un fatto tipico
antigiuridico deve verificare che non sussistono delle norme che rendono lecito quel
comportamento.

La c.d. disciplina generale delle cause di azione, cioè valida per qualunque causa di giustificazione.
L’articolo fondamentale è l’art. 59 c.p. perché sancisce un principio di estrema rilevanza che è
quello della rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione. La rilevanza oggettiva delle cause di
giustificazione consente il comportamento che hai tenuto e ti evita la punizione e rende lecito quel
comportamento in tutto l’ordinamento. Si tratta di una interpretazione onnicomprensiva perché
tiene dentro due istituti, da un lato le circostanze che attenuano la pena e queste sono le
circostanze attenuanti (qui la pena non viene esclusa ma viene ridotta); e poi le circostanze che
escludono la pena.
La locuzione cause di giustificazione non la troviamo nel codice penale ma la troviamo nel codice
di procedura penale ed è frutto di una elaborazione dottrina e giurisprudenziale che però non
trova riscontro nel codice penale.
Tutta la vicenda delle cause di giustificazione è contrassegnata dalla possibilità di errore
sull’esistenza della causa di giustificazione, cioè io sono convinto della inesistenza della causa di
giustificazione.
Quindi ci sono due errori speculari, il primo è che ritengo inesistente una causa di giustificazione
esistente, art. 59 comma 1 c.p.; secondo errore ritengo e suppongo l’esistenza di una causa di
giustificazione che in realtà non esiste, in questo caso la disciplina mi viene data dall’art. 59
comma 4.
Anche in questo caso notiamo che il trattamento è benevolo e favorevole. Le cause di
giustificazione sono sempre valutate a suo favore, quindi nel caso di rilevanza solo soggettiva, della
causa di giustificazione, il legislatore prende atto di questo errore ma non carica al soggetto
agente, a meno che l’errore di supporre esistente una causa di giustificazione che in realtà non
esiste sia dipeso da una condotta colposa, da una valutazione colposa e questo fatto è preveduto
dalla legge come delitto colposo.
Quindi riscontriamo una diversità di trattamento tra il primo comma e il quarto comma dell’art.
59, perché il primo comma disciplina di estremo favore come espressione del principio della
rilevanza oggettiva della causa di giustificazione. Nel caso del quarto comma si tiene conto della
causa di giustificazione putativa, cioè suppongo l’esistenza di una causa di giustificazione che non
esiste, ma se la condotta è colposa ed è prevista dalla legge come colposa vado incontro alle
conseguenze sanzionatorie disposte dalla previsione di legge. Però l’art. 59 comma 4 non vale per
le c.d. cause di esclusione delle punibilità, come ad esempio art. 649 del c.p. in materia di reato
contro il patrimonio.
L’errore può cadere sia sui presupposti di fatto e sui presupposti di diritto della legittima difesa.
Questa supposizione può avere diversi oggetti, ritengo esistente una causa di giustificazione
prevista dall’ordinamento (ad esempio ritengo esistente una legittima difesa ma non sono presenti
i requisiti dell’ordinamento), oppure ritengo esistente una causa di giustificazione che
l’ordinamento non ha previsto, che è frutto della mia fantasia.
Esempio: Caso Re Cecconi, giocatore della Lazio, una sera fece uno scherzo, cioè entrò in una
gioielleria con il viso coperto e con le mani in tasca che simulavano la presenza di una pistola,
quindi voleva simulare una rapina. Il gioielliere non capì che era uno scherzo e sparò un colpo e
uccise Re Cecconi. Il gioielliere suppone l’esistenza di una rapina, quindi reagisce a questo
tentativo di rapina, non percepisce l’inoffensività di Re Cecconi. La Cassazione ci dice che in questi
casi chi decide di attivare la causa di giustificazione della legittima difesa deve farlo sapendo quali
sono le conseguenze. La cautela alla quale invita la Corte è una cautela che deriva da una precisa
consapevolezza, la reazione dell’aggredito può determinare delle conseguenze irreversibili. Quindi
c’è la difficoltà di trovare un equilibrio, una misura, tra il bene dell’aggredito e il bene
dell’aggressore, e negli anni la giurisprudenza si è sforzata di trovare i requisiti della disciplina della
legittima difesa per mandare un messaggio volto a rendere la legittima difesa l’extrema ratio.
Art. 55 c.p. istituisce un rapporto molto stretto con l’art. 52 (legittima difesa), e l’art. 55 disciplina
l’istituto dell’eccesso colposo. Quando io eccedo colposamente i limiti che delimitano il perimetro
della causa di giustificazione, succede che se la condotta è colposa e il fatto è previsto da una
norma come delitto colposo si va incontro alle conseguenze previste per quel delitto. Ma l’errore
disciplinato dall’articolo 55 è un errore diverso dall’errore dell’art. 59, nell’art. 55 non sto
sbagliando nel supporre esistente una causa di giustificazione che non esiste. Qui la causa di
giustificazione esiste ma sbaglio nell’esecuzione della causa di giustificazione, nella realizzazione
della causa di giustificazione, nell’esercizio delle mie facoltà. L’errore consiste in una fuoriuscita, in
un eccesso che non è consentito dall’ordinamento.
Es: io vengo aggredito da un bambino, o potrei allontanarmi o potrei immobilizzarlo, invece
mentre cerco di difendermi sbaglio nel dosare la forza e lo ferisco in modo mortale. Questo è
l’eccesso colposo. Che non è da confondere con l’eccesso incolpevole, cioè vengo aggredito e
reagisco con una risposta proporzionata, ma mentre reco l’offensione fa un movimento inavvertito
e invece di colpirlo ad un braccio lo colpisco alla testa e lo uccido. Questo errore nell’esecuzione
della legittima difesa è un errore che non è colposo ma è incolpevole perché non potevo
prevedere il suo movimento improvviso, quindi non ricade nella disciplina dell’errore che attiva il
meccanismo dell’eccesso colposo.
Quindi abbiamo sostanzialmente tre tipologie di errore, l’errore incolpevole, l’errore colposo, ma
possiamo anche avere un errore colpevole volontario.
L’Eccesso colposo comporta un errore sull’esecuzione ma può anche darsi che ci sia un errore di
percezione di valutazione del fatto. E si presenta quando il soggetto travalica i limiti del perimetro
di liceità della condotta, manca il dolo ma è presente la colpa. La disciplina fondamentale della
legittima difesa si compone di una serie di elementi che devono essere tutti acclarati, cioè essere
stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di
una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.
Occorre dunque l’aggressione, l’attualità del pericolo, occorre la necessità della reazione difensiva,
cioè l’impossibilità di evitare altrimenti l’offesa, ma occorre soprattutto che la difesa sia
proporzionata all’offesa.
Il requisito della necessità implica una riflessione sulla possibilità di agire altrimenti, se vengo
aggredito e posso sottrarmi all’aggressione dandomi alla fuga, secondo una parte della dottrina,
verrebbe meno il requisito della necessità, della difesa e quindi verrebbe meno la legittima difesa.
Altri invece sostengono che anche se c’è la possibilità di fuga questa non debba essere un
elemento che faccia venir meno la legittima difesa.
Il c.d. commodus discessus, cioè la possibilità di fuga salvo che questa non comprometta l’onore, la
dignità, la reputazione del soggetto aggredito.
Ci sono stati anche degli interventi, un primo intervento lo rileviamo nel 2006 con l’aggiunta di un
secondo e terzo comma, i quali nel caso del fatto tipico previsto dall’art. 614 (violazione di
domicilio) introducono una presunzione, cioè presumono l’esistenza di un rapporto di proporzione
tra la difesa e l’offesa quando si registri l’intrusione nel domicilio e la vittima dell’intrusione
detenga legittimamente un arma o un altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o l’altrui
incolumità, i beni propri o altrui quando non vi sia desistenza e non vi sia pericolo di aggressione.
Quindi se Tizio entra in casa mia, io detengo un’arma legittimamente, e per difendere i miei beni e
della famiglia, potrò esplodere un colpo di pistola se Tizio non si sia nel frattempo dato alla fuga.
Quindi se scappa viene meno il pericolo di aggressione.
Il comma 3 invece, il mio domicilio ricomprende anche dove esercito la mia attività commerciale, il
negozio, sono altri domicili.
Ci sono varie interpretazioni per cercare di portare al rispetto della costituzione che ha stilato una
graduatoria dell’importanza dei beni, che quindi implica una valutazione di proporzionalità che
non ampli oltre modo i confini della legittima difesa, ma nel 2019 assistiamo ad una modifica del 3
comma e all’introduzione di un 4 comma; perché non si è ritenuta sufficiente la presunzione del 2
comma e se ne è introdotta un'altra.
Il 4 comma dice “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere
l'intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica,
da parte di una o più persone”.
L’introduzione del 4 comma ribadisce un concetto già espresso dalla disciplina modificata nel
2006, ma vera novità che ha portato la legge del 2019 è in riferimento alla disciplina dell’eccesso
colposo. Aggiunge “nei casi di cui a commi secondo, terzo e quarto dell’art. 52, la punibilità è
esclusa se chi ha commesso il fatto per salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle
condizioni di cui all’art. 61 primo comma, n. 5, o in uno stato di grave turbamento, derivante dalla
situazione di pericolo in atto”.
Cioè la vera novità della riforma del 2019 è stara andare a toccare la disciplina dell’eccesso
colposo, perché si esclude l’eccesso colposo qualora il soggetto abbia agito in una situazione che
ha alterato il proprio equilibrio psichico. L’elemento fondamentale rimane nella disponibilità
dell’aggredito, cioè un turbamento di un soggetto non è un turbamento per un altro.
Un'altra causa di giustificazione è lo stato di necessità, art. 54 c.p. Qui il problema centrale è dato
dalla natura dello stato di necessità, cioè se si ha una causa di giustificazione che esclude
l’antigiuridicità e rende lecito il fatto. Cioè una causa che esclude la colpevolezza. Il fatto è tipico e
antigiuridico ma non è colpevole perché interviene una scusante che non lo rende lecito, il fatto
resta illecito, ma lo rende incolpevole. Nello stato di necessità non c’è l’offesa ingiusta.
Gli elementi che compongono la disciplina che compongono lo stato di necessità sono l’attualità
del pericolo, l’involontarietà del pericolo, evitabilità altrimenti, il danno grave, la proporzionalità.

La struttura del reato.


Terzo elemento della sistematica tripartita è la colpevolezza come categoria che compone al pari
di antigiuridicità e tipicità la struttura dell’illecito penale. Per arrivare alla colpevolezza dobbiamo
presupporre che gli elementi precedenti siano già stati esaminati e acclarati in tutti i loro aspetti.
Solo il fatto tipico e antigiuridico può essere colpevole. Ci occupiamo solo di quei fatti che abbiano
già superato la verifica della tipicità e dell’illiceità o antigiuridicità. Il fatto tipico è l’insieme di
quegli aspetti e di quei requisiti ed elementi che configurano il volto della fattispecie di parte
speciale.
La caratteristica della colpevolezza, la ratio, è di rimproverabilità. La colpevolezza è l’insieme di
requisiti dai quali dipende la possibilità di muovere un rimprovero al soggetto attivo, all’agente per
aver realizzato un fatto tipico e antigiuridico. Questa rimproverabilità consiste in un giudizio di
disvalore etico sociale espresso dalla colpevolezza quindi è la possibilità di agire altrimenti da
come si è agito. Se manca la possibilità di agire diversamente da come si è agito, se manca la
possibilità di evitare di compiere un fatto tipico antigiuridico, ecco che viene meno la colpevolezza.
Tutto sta dunque a valutare quali siano, se esistano nel caso concreto, dei margini di libertà in
capo al soggetto agente che potevano condurla ad evitare di violare il diritto penale. Se avevi
questa possibilità ecco che scatta il rimprovero, la teoria dell’audio agere, dell’agire diversamente.
Se invece non avevi alternativa e non potevi agire diversamente ecco che non posso rimproverare,
non c’era alternativa e libertà. Quindi hai tenuto un comportamento antigiuridico ma incolpevole.
Quindi la colpevolezza si apprezza se la si costruisce sul concetto di evitabilità. Se non avevi
alternativi sei incolpevole.
C’è da precisare che una cosa è il principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 comma 1 della
costituzionale e dalla sentenza della corte costituzionale n. 364/1988 e un’altra cosa è la categoria
della colpevolezza come elemento portante della struttura del reato. Non si deve confondere il
principio dalla categoria, sono due istituti distinti.
Art. 27 c. 1 cost. la responsabilità penale è personale in quanto si appuri l’elemento della
colpevolezza.

I quattro pilastri su cui si regge la teoria della colpevolezza come categoria della struttura del
reato: - dolo e colpa;
- assenza di scusanti;
- conoscenza o conoscibilità della norma penale violata;
- capacità di intendere e di volere.
Il primo elemento, l’esistenza del dolo e della colpa. Il DOLO, art. 42 e 43 del c.p.
Art. 42 “Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato,
se non l'ha commessa con coscienza e volontà.”
Il concetto di coscienza e volontà della condotta non deve essere mai confuso con il concetto di
dolo. Quando si parla di azione cosciente e volontaria si parla di c.d. suitas, che è un presupposto
del reato cioè è una categoria che precede la possibilità stessa di avviare una riflessione sulla
tipicità, è esterna al reato, è preliminare. La suitas viene prima, è una precondizione. Posso parlare
di tipicità se prima sussiste una condotta cosciente e volontaria che è un fatto che possa definirsi
umano.
Per fatto umano deve intendersi un fatto che possieda delle note minime, essenziali di umanità,
senza le quali è inutile avviare qualunque tipo di ragionamento. I casi classici che ci dice che non
esiste nemmeno la suitas, che quindi è inutile far partire il processo, sono dei fatti o esterni o
interni al soggetto agente che impediscono di attribuire a quella condotta i requisiti della coscienza
e della volontà.
In dottrina le ipotesi di assenza di coscienza e volontà sono: la forza maggiore (art. 45 c.p.);
costringimento fisico (art. 46 c.p.); movimenti corporei o inerzie in stato di piena incoscienza,
come ad esempio il sonnambulismo; puri movimenti riflessi.
Nel secondo comma dell’art. 42, troviamo un principio generale. Il nostro sistema ha individuato
nel dolo il criterio generale di imputazione soggettiva per i delitti, ad esempio se noi prendiamo
l’art 575 c.p. che punisce l’omicidio volontario noi non troveremo nella norma che l’omicidio deve
essere doloso, ma troveremo scritto “chiunque cagioni la morte di un uomo” non c’è nessun
riferimento quindi all’aspetto soggettivo, al dolo. Il secondo comma quindi dice “Nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo,
salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.”
Quindi tutti i delitti vengono scritti come se implicassero il dolo. Se il legislatore vuole punire un
delitto a titolo di preterintenzione o a titolo di colpa lo deve specificare espressamente e solo
questa specifica previsione consente la punibilità dell’omicidio a titolo di colpa. Quindi la colpa è
punibile se gode di una previsione espressa, il dolo ne fa a meno perché è criterio di imputazione
generale. Questo vale solo per i delitti non per le contravvenzioni.
Nelle contravvenzioni la distinzione tra dolo e colpa, quarto comma “nelle contravvenzioni
ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o
colposa” non troviamo quindi nessun riferimento al dolo o alla colpa. Le contravvenzioni possono
essere unite indistintamente, tanto a titolo di dolo quando a titolo di colpa.

Art. 43 comma 2 c.p. “La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo
per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni volta che la legge penale faccia dipendere
da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.
Ci sono delle contravvenzioni che si presentano dolose e altre contravvenzioni che si presentano
come colpose.
L’art. 43 ci fornisce al primo comma le definizioni di che cosa deve intendersi per delitto doloso,
colposo e preterintenzionale.
“Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente
preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; (si deve trattare di
funzioni psichiche effettive cioè reali, cioè la rappresentazione e le volizioni devono essere
presenti effettivamente al momento della condotta.)
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento
dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente;
è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e
si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini o discipline.”
La rappresentazione nel dolo può presentare uno stato di dubbio. Il dolo è compatibile con lo stato
di dubbio. Ci possono essere delle situazioni in cui lo stato di dubbio non è compatibile con il
momento rappresentativo e con il momento volitivo. Dipende da come è scritta la norma
incriminatrice. Ci sono dei casi però in cui la norma introduce degli avverbi che sono incompatibili
con lo stato di dubbio. Pensiamo alla calunnia, reato contro l’amministrazione alla giustizia, art.
368 c. 1 c.p., viene usato il verbo “sapere” ed è inconciliabile con lo stato di dubbio. Io non ho dei
dubbi che Tizio è innocente perché se avessi dei dubbi non ci sarebbe calunnia.
Es. io accuso Tizio che ha ucciso Caio però sono stato io ad ucciderlo, so per certo che non è stato
Tizio ma lo accuso perché voglio evitare di essere accusato. Lo stato di dubbio non è ammissibile,
se c’è dubbio manca una rappresentazione ferrea come quella richiesta dall’art. 368.
La volizione, anche questa deve essere presente al momento in cui si agisce e durare, fino
all’ultimo atto della condotta. Quindi rappresentazione e volizione.
In caso di errore, perché l’errore esclude il dolo, se il soggetto ritiene con una prima parte della
sua condotta di aver realizzato il fatto di reato ma questa assunzione è un’assunzione errata
perché in realtà lui non ha realizzato il fatto di reato che voleva compiere e lo realizza solo in una
seconda fase. Es. dolus generalis, Tizio vuole uccidere Caio con un colpo alla testa, però Caio non è
morto. Tizio prende il “cadavere” che non è morto e lo sotterra e quindi muore di asfissia. L’autore
di fronte a questi fatti risponde di omicidio volontario secondo la giurisprudenza risalente, ma si
tratta di una soluzione errata. Perché ci sono due parti della condotta, la prima parte quella
caratterizzata dall’errore di Tizio che pensa di aver ucciso Caio, e una secondo parte caratterizzata
dall’effettiva morte di Caio. Abbiamo una composizione di due condotte, una prima condotta sarà
qualificabile come tentato omicidio perché non è ancora morto. La seconda condotta sarà
qualificabile come omicidio colposo perché non ti rendi conto che colposamente stai uccidendo un
essere umano ancora in vita.

L’oggetto del dolo. Il dolo è rappresentazione e volizione del fatto di reato. Questa
rappresentazione e volizione deve cadere sul fatto di reato. Questo è l’oggetto del dolo. È una
formula a-tecnica ma ci consente di comprendere come la rappresentazione e la volizione devono
cadere su tutti gli elementi che compongono il fatto tipico, nessuno escluso. Qualora intervenga un
errore nella rappresentazione degli elementi che compongono il fatto tipico, il dolo cade.
Art. 47 c.p. “L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno,
se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto
dalla legge come delitto colposo”.
Dolo ed errore. Dolo come rappresentazione non erronea e volizione di tutti gli elementi del fatto
che costituisce il reato. Tutti gli elementi, sia quelli descrittivi, sia quelli normativi. L’offesa al bene
giuridico deve anch’essa come oggetto del dolo, la corte costituzionale ci dice che dal 1988 l’offesa
non è più da considerare come elemento del fatto tipico, ma come elemento a sé della
colpevolezza cioè uno dei quattro elementi della colpevolezza. Questa consapevolezza non è il
dolo ma un elemento della colpevolezza distinto dal dolo. Non fa parte dell’oggetto del dolo ma
possiede una sua autonomia all’interno della categoria della colpevolezza.
Successivamente dovrò verificare se il soggetto è a conoscenza dell’antigiuridicità del suo
comportamento, del suo contrasto della norma penale.

Le forme o gradi del dolo. Ci sono tre forme, dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale.
Più il dolo è intenso e più la pena sarà severa.
Dolo intenzionale, anche detto dolo diretto di primo grado, qui la rappresentazione e soprattutto
la volizione sono all’apice, raggiungono la vetta dell’intensità. Il soggetto attivo prende di mira
espressamente la realizzazione del fatto illecito, si rappresenta e vuole proprio la realizzazione
della condotta criminosa o la causa dell’evento. La caratteristica di questo dolo intenzionale, già a
livello di fatto tipico il legislatore lascia le tracce della presenza del dolo intenzionale. Es. art. 323
c.p., abuso di ufficio, troviamo l’avverbio “intenzionalmente”, la presenza e la necessità di
accertare che il soggetto abbia agito con il dolo intenzionale restringe la punibilità di abusi di
ufficio perché si esclude la punibilità degli abusi di ufficio commessi a titolo di dolo diretto e di dolo
eventuale, si punisce solo il dolo intenzionale.
Dolo diretto. Il soggetto non prende di mira specificatamente la realizzazione del fatto illecito, che
costituisce soltanto mezzo necessario, che dovrà certamente o quasi certamente essere realizzato,
per raggiungere lo scopo perseguito. Il soggetto quindi vuole il fatto di reato ma il fatto di reato
non rappresenta il vero obiettivo della sua condotta.
Es. il proprietario di una nave che è in una crisi e vuole truffare l’assicurazione mettendo un
ordigno all’interno della nave. La nave esplode e uccide una parte dell’equipaggio. Abbiamo due
fatti di reato, la truffa all’assicurazione e la morte dell’equipaggio. Un fatto caratterizzato dal dolo
intenzionale e un fatto caratterizzato dal dolo diretto. Con la morte dell’equipaggio noi avremo il
dolo diretto, il dolo intenzionale rispetto al vero obiettivo preso di mira dell’armatore che è la
truffa all’assicurazione.
Dolo eventuale. Nell’accezione attualmente dominante è inteso come accettazione del rischio del
verificarsi dell’evento, o dell’integrazione del fatto tipico, che l’agente si è previamente
rappresentato come concretamente possibile. La formula per comprendere il contenuto del dolo
eventuale era la formula del c.d. accettazione del rischio. Cioè io mi rappresento la possibilità che
dalla mia condotta derivi un’offesa al bene giuridico o un evento lesivo, attraverso uno stato di
dubbio, può succedere ma può anche non succedere. Con la decisione di agire sciolgo lo stato di
dubbio e accetto il rischio che l’evento si verifichi. Questa formula è molto problematica perché si
rischia di trasformare dei reati di evento in dei reati di pericolo, quindi c’è la violazione del
principio di legalità.
Il confine tra dolo e colpa. Alcuni sostengono che si avrà colpa aggravata dalla previsione
dell’evento quando il soggetto si sia rappresentato l’evento e però lo abbia escluso, es: sei alla
guida di un’auto e azzardi un sorpasso pericoloso. Quindi io mi rappresento il possibile scontro
però nella mia mente lo escludo perché faccio appello alle mie abilità di guidatore. Poi però,
nonostante io ho escluso lo sconto e non volendo minimamente andare a scontrarmi, vado a
sbattere. Tutti questi ragionamenti sono fatti a posteriori. Il dolo quindi è non solo
rappresentazione ma soprattutto volizione, altrimenti scompare la distinzione con la colpa e si va a
violare il principio di colpevolezza, di legalità e di proporzione. Dolo e colpa vanno tenuti distinti.
Per cui il dolo eventuale rappresenta una categoria difficile ed è oggetto di dibattito e fonte di
ricorrenti incertezze.
Il dolo eventuale non è previsto da nessuna norma del codice, è tutto una elaborazione dottrinale
e giurisprudenziale per cercare di comprendere come declinare il parametro dell’intensità del
dolo. Invece la colpa con previsione la troviamo all’art. 61 n. 3 c.p. dove c’è la consistenza di una
circostanza aggravante.
Ci sono due aspetti, il primo è che la colpa può condividere un elemento della struttura del dolo, la
previsione, la rappresentazione, cioè noi possiamo avere rappresentazione senza volizione ed
avremo colpa con previsione, avremo una circostanza aggravante; secondo aspetto, la colpa può
essere senza previsione, la colpa incosciente, la previsione quindi può mancare nella colpa, se è
presente aggrava, se manca non aggrava. L’ordinamento però considera più grave il
comportamento colposo di chi abbia previsto l’evento, ma comunque si attribuisce un disvalore a
chi si è rappresentato rispetto a chi non si è nemmeno rappresentato. Si tratta di una scelta
discutibile perché si potrebbe obiettare che sia più riprovevole il comportamento di chi nemmeno
se lo era rappresentato l’evento, ostentando un’indifferenza verso il bene giuridico.
Ci sono varie teorie per cercare di capire quando c’è dolo eventuale e quando c’è dolo con
previsione.
Il primo orientamento è quello della Teoria della possibilità che incorpora anche la teoria della
probabilità e sono orientamenti che fanno leva sull’elemento della rappresentazione, “ti sei
rappresentato allora hai voluto”. Cioè concreta possibilità o il soggetto si rappresenta la
probabilità. Però tutto si basa sulla presunzione e proprio per via della presunzione risultano molto
problematici. Il dolo non si può presumere ma deve essere accertata l’esistenza reale ed effettiva
al momento del fatto.
C’è anche la Teoria del Consenso, che ci dice che il soggetto approva interiormente l’eventuale
realizzazione del fatto che si è rappresentato come possibile. Il dolo è dolo in quanto sia volontà,
bisogna accertare la volizione come elemento caratterizzante e che lo distingue dalla colpa.
La volizione la accertiamo con la Formula di Frank, che ci dice che si ha dolo eventuale se si
accerta che il soggetto avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza della realizzazione del
fatto; es. il lanciatore di coltelli, sbaglia un colpo e uccide la donna, che è anche partner nella vita.
In questo caso si ha omicidio volontario a titolo di dolo eventuale o omicidio colposo con gravante
di previsione dell’evento? La formula di Frank ci dice di andare a verificare se Tizio avrebbe
lanciato quel coltello se avesse avuto la certezza se con quel lancio avrebbe ucciso la sua partner.
Se avrebbe agito lo stesso avremo dolo eventuale, se non avrebbe agito avremo omicidio colposo.
Questa formula suggerisce di andare a cercare nelle note oggettive, ad esempio se nei giorni
precedenti avevano litigato, se c’erano state delle liti o se era una coppia serena. La formula di
Frank si basa su ragionamenti ipotetici, non su ragionamenti reali.

Altre classificazioni proposte in dottrina che cercano di registrare e catalogare tutte le possibili
manifestazioni del dolo.
Si parla del Dolo alternativo, quando un soggetto si rappresenti (rappresentazione) due possibili
esiti della sua condotta, dalla sua condotta possono derivare indifferentemente due conseguenze
in alternativa fra di loro. È certo che si verifichi l’evento ma non sa se si verifica l’evento A, l’evento
B, o entrambi. In ogni caso lui non sa quale si verifica. Questa modalità alternativa ammette che
entrambi gli eventi sono in competizione fra di loro, quindi c’è certezza che almeno uno si verifica
ma non c’è certezza su quale si verifichi. Questa modalità alternativa ammette sia il dolo diretto
che il dolo eventuale. Es. Tizio desidera vendicarsi di Caio e lo aggredisce, per lui è indifferente se
Caio riporti solo delle lesioni o venga ucciso. Il dolo delle lesioni e il dolo dell’omicidio, hanno
natura diretta. Tizio viole realizzare o il reato di lesioni o il reato di omicidio, non si cura delle
conseguenze del suo agire.

Altra importante distinzione è tra il dolo generico o dolo c.d. specifico.


Il dolo generico è la forma normale di dolo, è il dolo standard, ogni delitto presenta un coefficiente
di dolo generico. Noi possiamo ricavare l’esistenza del dolo generico in negativo. Ricaviamo
l’esistenza del dolo generico ogni volta che il legislatore non introduca all’interno della norma
incriminatrice alcun segnale o sintomo che dimostri la presenza di un dolo diverso da quello
generico.
Es. art. 575 c.p. omicidio volontario, noi non rileviamo nessun indice della presenza del dolo
generico perché sappiamo che il dolo generico è il criterio di imputazione generale, ordinario dei
delitti dolosi e come tale può essere integrato nelle sue varie forme; potremmo avere un omicidio
volontario di dolo eventuale, dolo diretto, e dolo intenzionale.
Il dolo specifico si caratterizza per la previsione espressa nella struttura della norma incriminatrice,
quindi ha una rilevanza quasi oggettiva nonostante sia un elemento soggettivo, per la previsione
espressa di una finalità ulteriore specifica che si caratterizza perché il reato a dolo specifico viene
integrato anche quando questa finalità, ulteriore e specifica, presa di mira dal soggettivo attivo
non viene realizzata.
Ad esempio la presenza del dolo specifico si evince dall’inserimento di locuzioni “al fine di”, “allo
scopo di”, “per”, che esprimono una finalità aggiuntiva e specifica rispetto alla parte restante del
testo normativo, come ad esempio il furto.
Quindi noi abbiamo in alcune fattispecie che accanto al dolo generico, che copra la parte restante
della norma, si aggiunge una finalità specifica, che non necessariamente deve essere soddisfatta,
esaudita perché scatti la punibilità della fattispecie caratterizzata della presenza del dolo specifico.
Quindi ordinario dolo generico del fatto + dolo specifico. Però per via del principio di inoffensività
bisogna accertare l’idoneità della condotta a realizzare lo scopo che rappresenta gli estremi del
dolo specifico. Quindi se la condotta dei sequestratori viene ritenuta adeguata, idonea, atta a
realizzare lo scopo dell’estorsione, costoro saranno condannati a titolo di sequestro di persona a
scopo di estorsione anche se poi l’estorsione non si realizza; laddove invece la condotta sia del
tutto inadeguata, quindi mancano le note tipiche dell’adeguatezza della condotta per realizzare lo
scopo ulteriore che connota la nota a dolo specifico, qui la punibilità non è esclusa ma i soggetti in
questione, se manca l’idoneità della condotta, risponderanno a titolo di sequestro semplice.
Quindi il dolo specifico esiste solo se e in quanto previsto dal legislatore come elemento della
fattispecie.
All’interno della categoria dei reati a dolo specifico si distinguono due tipologie, la prima si
contraddistingue perché lo scopo ulteriore preso di mira in realtà non è uno scopo illecito,
pericoloso o dannoso, ma manifesta una finalità neutra.
Invece ci sono altre finalità dove la natura illecita è coessenziale all’obiettivo preso di mira dal
soggetto agente, anzi l’obiettivo finisce per permeare anche la condotta di antigiuridicità.
Occorre dimostrare una oggettiva idoneità a realizzare lo scopo, a cagionare l’evento dannoso,
pericoloso preso di mira.
Non bisogna confondere il dolo specifico con il dolo intensionale che è una delle forme del dolo
generico, la forma più grave. Il dolo intenzionale lo si ricava perché anche in questo caso il
legislatore introduce nella norma incriminatrice degli avverbi che hanno l’obiettivo di convincere
l’interprete, o i giudici o gli avvocati, che quel tipo di reati può essere commesso solo a titolo di
dolo intenzionale, quindi avremo una restrizione dell’area della punibilità perché lo stesso fatto
preveduto dalla legge come reato se commesso a titolo di dolo eventuale o di dolo diretto non
potrà essere punito. Perché la presenza del dolo intenzionale non può essere punita a titolo di
dolo eventuale o a titolo diretto. Si può punire questa condotta solo se da essa scaturiscono degli
eventi, come ad esempio il danno ingiusto, coperti dal dolo intenzionale. Quindi avremo una prima
parte della condotta (dolo generico) che può essere commessa anche a titolo di dolo diretto o di
dolo eventuale e una seconda parte della norma (dolo intenzionale) che è quella che ricomprende
gli eventi che potrà essere imputata al soggetto solo se questi eventi sono coperti esclusivamente
dal dolo intenzionale.

Come si accerta il dolo. L’accertamento.


È molto difficile, soprattutto a distanza di tempo, risalire alla psicologia presente nell’animo del
soggetto al momento del fatto preveduto dalla legge del reato. La difficoltà deriva dal fatto che noi
fatichiamo attraverso i sensi a percepire l’animus di un terzo. La soluzione che si è trovata è una
soluzione che fa leva sulle c.d. massime di esperienza, cioè il dolo può essere ricostruito
attingendo a delle credenze, a dei saperi, a delle consapevolezze generali che orbitano all’interno
dell’opinione delle persone fin tanto che non vengano smentite. Queste massime di esperienza
vengono attivate da un esame di elementi esteriori, non da un esame di elementi interni all’animo
del soggetto. È un esame delle caratteristiche esteriori, della condotta, del fatto, del contesto, che
porta ad alimentare e a ricorrere alle massime di esperienza.
Ad esempio: se io mi reco sulla scena di un omicidio, e dall’autopsia, dai racconti dei testimoni,
ricavo il dato per cui la vittima è stata uccisa da l’esplosione di 10 colpi da arma da fuoco sparati a
distanza ravvicinata e tutti diretti alle tempie della persona offesa, e si scopre che il soggetto
fermato aveva uno o più motivi di risentimento e partecipava a corsi di tiro al poligono; ecco che
metto insieme una serie di fattori oggettivi che caratterizzano il contesto in cui è maturato
l’omicidio e mi portano a dire che sulla base di una massima di esperienza, un soggetto che ha un
risentimento nei confronti di un altro, che gli si avvicina e spara senza esitazioni e senza il rischio di
errori nella mira, ricavo che l’indagato voleva uccidere la vittima e la voleva uccidere con un dolo
intenzionale. Sulla base dell’esperienza ricaviamo l’opinione che quando un soggetto spara alle
tempie di un altro soggetto è perché lo vuole uccidere.
Ma più il caso presenta elementi contrastanti e contraddittori e meno potremo fondare il nostro
giudizio su massime di esperienza condivise.
La struttura del dolo si compone di rappresentazione e volizione ed entrambi questi elementi
vanno provati. La rappresentazione può essere anche un elemento della colpa, la colpa cosciente,
la colpa con previsione dell’evento rappresenta una circostanza aggravante. La colpa ammette
anche la rappresentabilità cioè la possibilità di rappresentarsi l’evento lesivo. Qui c’è una
differenza rispetto al dolo perché il dolo impone che la rappresentazione e la volizione siano
effettivi, non potenziali, la rappresentabilità è una rappresentazione in potenza che ben può
essere rimproverata all’interno di un delitto colposo. Ti rimprovero perché non hai adempiuto al
dovere di rappresentazione pur potendo adempiere. Invece nel caso del dolo non ci si accontenta
della possibilità di conoscere, si pretende una rappresentazione piena, reale, effettiva che deve
essere provata come tale. È l’esame del contesto, delle circostanze del caso concreto che possono
soccorrere nell’attivazione di una massima esperienza e quindi nella prova del dolo. Se il soggetto
è un pluripregiudicato questo elemento che appartiene al vissuto personale non può essere
ignorato, ma non può essere l’unico elemento sulla quale basare la prova del dolo ma sicuramente
se ne deve tenere conto. Ma non bisogna trasformare le massime di esperienza in presunzioni, il
dolo non ammette presunzioni. Il dolo va provato volta per volta senza presunzioni, non si può
dare il dolo per scontato ma deve essere provato oltre ogni ragionevole dubbio. Le presunzioni
sono contrarie al principio di colpevolezza.
Es. art. 476 comma 1 c.p. falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, qui in
riferimento al falso impongo una prova che non può essere data per scontato, cioè la
consapevolezza di formare in tutto e in parte il falso. Non posso desumere dalla falsità di un atto
che automaticamente il dolo del falso materiale. Il risultato dell’atto falso non deve precipitare il
giudizio sull’elemento soggettivo.

La cassazione a sezioni unite si è espressa in una sentenza riguardante la Thyssen group,


un’acciaieria nella quale morirono 7 operai, e il processo vedeva al centro delle questioni da
accertare il tema dell’elemento soggettivo. In primo grado il tribunale ritenne che i manager e in
particolare l’amministrazione delegato volevano uccidere i 7 operai, sostenendo che avevano
accettato il rischio della morte degli operai e quindi era da condannare a titolo di omicidio
volontario con dolo eventuale perché aveva deciso di ridurre gli investimenti nella manutenzione
nei dispositivi anti incendio e in tal modo aveva accertato il rischio che all’ottenimento di questi
risparmi di spesa corrispondesse una maggiore probabilità della verificazione degli incendi e quindi
la morte degli operai. Sia la corte di appello che la corte di cassazione però sono state contrarie a
questa decisione del tribunale di primo grado. E la diversità di approccio e soluzione, che poi
l’amministratore è stato condannato in sentenza definitiva per omicidio colposo aggravato dalla
previsione dell’evento, a questo risultato sia la corte d’appello che la corte di cassazione sono
pervenute sulla base di due osservazioni, una di fatto e una di diritto. Quella di diritto è che il dolo
è volontà, quindi dire che l’amministratore voleva uccidere gli operai è un’affermazione troppo
forte per essere analiticamente dimostrata. Sotto il profilo del fatto emerge che effettivamente
questi manager volevano realizzare un risparmio di spesa e lo stabilimento sarebbe stato chiuso
dopo pochi mesi e quindi non aveva senso investire nuove risorse in quello stabilimento e costoro
volevano realizzare un premio per i risparmi di spesa fatti ottenere alla società. Per cui non
avevano motivo di spendere nuove risorse per la manutenzione per la linea anti incendio, ma la
scelta di non investire risorse economiche si doveva anche al fatto che su quella stessa linea di
lavoro sulla quale è divampato l’incendio, in passato c’erano stati altri incendi che erano stati
sempre domati da operai. Quindi si era creata una certezza che qualora ci fosse stato un nuovo
incendio lo avrebbe domato il personale. Proprio la memoria di questi precedenti aveva portato a
prevedere la possibilità di nuovi incendi ma aveva condotto ad escludere che questi incendi si
sarebbero tradotti nella morte degli operari perché gli stessi operai si erano comportati in modo
tale da domare questi incendi e che nessuno si sarebbe fatto male.
Interviene al riguardo la corte di cassazione, che conferma la sentenza della corte d’appello e fissa
una serie di paletti sulle tecniche, sulle modalità attraverso le quali accertare l’esistenza del dolo
eventuale anziché della colpa.
Gli indicatori del dolo, così chiamati dalla corte, e gli indicatori del dolo eventuale, sono: la
formula di Frank, il più importante di questi indicatori, il giudice deve verificare per primo questo
indicatore, e si configura il dolo eventuale quando è possibile ritenere sulla base del contesto dei
fatti di causa che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse
contezza della sicura verificazione dell’evento. Ma non sempre la formula di Frank può risultare
risolutiva, non sempre possiamo giungere a dare una risposta definitiva. Quindi la cassazione ci
suggerisce che in alternativa alla formula di Frank, possono soccorrere degli altri indicatori sempre
riferiti alle circostanze esteriori, come: la modalità della condotta; il grado di scostamento dallo
standard negli ambiti governati da regole cautelari; personalità, storia e precedenti esperienze del
reo; durata e ripetizione della condotta; condotta successiva al fatto; finalità perseguita con la
condotta; grado di probabilità di verificazione dell’evento; eventuali conseguenze lesive per
l’agente; contesto di base lecito o illecito.

La COLPA nel diritto penale.


Art. 43 “il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è
voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, o per inosservanza
di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Abbiamo tre caratteristiche che rendono tipico il delitto colposo.
Una prima caratteristica è all’interno dell’art. 42, il delitto reclama una previsione espressa, la
colpa deve essere espressamente menzionata all’interno della norma incriminatrice perché la
colpa non è criterio generale e ordinario di imputazione soggettiva. Quindi una prima differenza
tra dolo e colpa è che la colpa esige di essere espressamente prevista.
Un secondo elemento è che la colpa è tale se e solo se manca la volizione dell’agente, se esiste la
volizione non è più colpa ma dolo.
Nell’art. 43 troviamo anche una parte positiva, cioè l’evento non solo deve essere voluto ma deve
essere conseguenza di negligenza o imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi,
regolamenti o discipline.
Quindi primo elemento previsione espressa del delitto colposo, secondo elemento assenza di
volizione;
terzo elemento violazione di una regola che si concretizzi nell’inosservanza di leggi, regolamenti o
discipline o nell’imprudenza o nella negligenza o nell’imperizia.
La differenza tra colpa generica e colpa specifica sotto due profili. Il primo profilo è la fonte della
regola, la cui violazione fa sorgere un rimprovero a titolo di colpa. Se la fonte è scritta, come leggi,
regolamenti o discipline, in caso di violazione avremo un’ipotesi di colpa specifica. Se la fonte non
è scritta allora il rimprovero cadrà nella categoria della c.d. colpa generica. Quindi un primo profilo
di differenza è dato dalla codificazione, dalla positivizzazione di una regola che se è scritta fa
nascere un rimprovero a titolo di forma specifica, se non è scritta fa nascere in caso di violazione
un rimprovero a titolo di colpa generica.
Secondo profilo è quello dell’accertamento della violazione della regola. Se la regola è scritta
l’accertamento sarà molto semplice, vado a rilevare la violazione di una norma scritta e verifico se
la condotta tenuta dal soggetto è conforme o è difforme. Se è conforme non ci sarà colpa se è
difforme avremo colpa specifica. Ma laddove invece la regola non sia stata scritta, non sia scritta, si
pone un problema di ricostruzione della esistenza della regola, dei limiti della regola e quindi un
problema anche di certezza del diritto. Quindi l’accertamento della colpa generica è più
impegnativo della colpa specifica, proprio perché non dispongo di un punto di riferimento.
L’inosservanza di regole preventivo cautelari può fondare un giudizio di colpa penalmente
rilevante. Per regola cautelare intendiamo una regola che si caratterizza perché coltiva l’obiettivo
di cautela, un obiettivo di prevenzione, di salvaguardia di un bene giuridico. La regola cautelare
esaurisce un giudizio su un rischio, prevede il rischio di incidente ma non si limita a inglobare il
giudizio sul rischio, fornisce una misura di gestione del rischio, fornisce una cautela, una regola di
condotta. La regola cautelare ha lo scopo di evitare eventi dannosi, non ogni regola se violata
attiva l’imputazione colposa, ma solo la violazione di regole cautelari cioè di regole che hanno di
mira lo scopo di scongiurare, l’impedire e l’evitare l’evento dannoso che compone la norma
incriminatrice.
Ad esempio il settore medico chirurgo rappresenta il regno della colpa generica. La colpa generica
si basa su regole che si tramandano, come fossero degli usi sociali, senza essere scritte.
Ma c’è la necessità di evitare degli errori. La regola che abilita ad un rimprovero di colpa è solo
cautelare, cioè la regola che ha di mira evitare la verificazione dell’evento lesivo scolpito
all’interno della norma incriminatrice. È importante che nel capo d’imputazione quando il pubblico
ministero definisce la contestazione, cioè che cosa rimprovera all’indagato, scriva qual è la regola
che contesta, che sia stata violata dall’indagato e a seguito di quella violazione abbia realizzato
l’evento che imputa all’indagato. Non qualunque regola se violata fonda un rimprovero a titolo di
colpa, l’evento che si verifica deve essere proprio, deve appartenere ad una serie di eventi che la
regola cautelare violata mirava a prevenire, ad evitare.
Quindi la regola cautelare si compone di due momenti, la previsione di un evento lesivo e
l’indicazione di una modalità della condotta, di una regola di condotta volta a prevenire la
verificazione di quell’evento lesivo.

L’accertamento relativo all’esistenza e alla violazione di una regola cautelare, in caso di colpa
specifica è abbastanza semplice andare a verificare se è stata tradita e inosservata la regola
cautelare. Ma nel caso della colpa generica noi non disponendo di una regola cautelare abbiamo il
dovere di enucleare e ricostruire la norma, e dobbiamo fare attenzione ad un aspetto
fondamentale, cioè che questa regola deve essere preesistente al giudizio penale. È necessario che
questa regola fosse nella disponibilità del soggetto attivo prima del fatto perché solo se è
disponibile, solo se è conosciuta prima del fatto il soggetto attivo è nelle condizioni di poterla
rispettare. Ma se la ignora, se non esiste e se non è nelle condizioni di conoscerla, nessun
rimprovero può essere mosso. La logica della colpa, e in ciò la colpa si discosta dall’accertamento
dal nesso di causalità, impone che l’accertamento venga condotto ex ante, no ex post. Cioè
l’interprete e il giudice devono chiedersi qual era la regola cautelare da osservare al momento
della condotta, non al momento dell’evento. Posso muovere un rimprovero ad un soggetto per
colpa in quanto quel soggetto abbia violato una regola cautelare che preesisteva alla condotta e
poteva orientare la condotta in modo tale da evitare la verificazione dell’offesa al bene giuridico.
La colpa quindi esige un accertamento ex ante, mai ex post.

L’accertamento della colpa generica.


Il criterio usualmente impiegato dalla dottrina e dalla giurisprudenza è quello del c.d. agente
modello. L’agente modello è una sorta di finzione che fornisce al giudice un parametro di
raffronto, ed è un parametro necessario senza il quale diventa difficile individuare una colpa da
rimproverare all’indagato o all’imputato. L’agente modello è un uomo della stessa professione e
che si trova nella stessa condizione dell’agente reale, dell’indagato, sia un soggetto che appartiene
al circuito socio professionale il quale orbita il soggetto attivo.
Es. se il giudice si trova a discutere un caso di responsabilità medico chirurgica, per cui deve
decidere su un’accusa di omicidio o lesioni colpose durante un intervento chirurgico, se non
dispone di regole cautelari scritte visto che nel campo della colpa medica non sempre ci sono,
allora ha bisogno di ricostruire la regola cautelare che doveva informare il comportamento del
medico nel caso concreto. La ricostruisce chiedendosi come si comporterà il medico modello in un
contesto analogo. Quindi da un lato bisogna verificare se il soggetto ideale avrebbe tenuto la
medesima condotta del soggetto agente e in questo caso non c’è colpa oppure se avrebbe tenuto
una condotta diversa e allora in questo caso rileviamo un indizio di comportamento colposo. Più la
condotta dell’agente modello si discosta dall’agente concreto e più si apre la porta del rimprovero
a titolo di colpa. Nel caso in cui non esiste una regola cautelare codificata, questa regola viene
ricavata attraverso il raffronto la condotta ritenuta in concreto dall’imputato e la condotta che
avrebbe tenuto un soggetto che possieda le stesse note professionali del soggetto agente ma che
rappresenti anche il meglio che la comunità professionale di riferimento riesce ad esprimere in
quel dato momento storico. Si tiene conto anche del contesto in cui si muove l’agente concreto.
Quindi emerge la condotta doverosa. La regola cautelare, sia nel caso della colpa generica e sia nel
caso della colpa specifica, è espressione di una generalizzazione di giudizi in termini di prevedibilità
ed evitabilità dell’evento. Cioè dice al soggetto cosa deve fare ed evitare l’evento lesivo.
La condotta doverosa può consistere nell’adozione di cautele che accompagnino l’esercizio della
condotta pericolosa. Il contenuto pregnante della regola cautela è un contenuto che ha natura
modale, la regola cautelare mi dice il modo in cui fare le cose per evitare di determinare gli eventi
lesivi. L’accertamento della colpa generica può richiedere l’esistenza di una regola cautelare che
abbia anche un contenuto diverso, che passa dall’acquisizione delle conoscenze necessarie per il
controllo dei rischi. Tanto più è pericolosa l’attività e tanto più ci si avvicina ad un contenuto
estremo della regola cautelare che talvolta può atteggiarsi anche nei termini di astensione totale
dell’attività pericolosa.
Talvolta la regola cautelare può esprimere un messaggio di stop, di divieto di proseguire l’attività.
Perché l’unica cautela in grado di sventare l’evento lesivo consiste in un arresto tempestivo,
immediato. Quindi un altro contenuto della regola cautelare può essere dato dalla astensione
totale dall’attività pericolosa; questo succede quando non esistono alternative cautelari che
possano dispiegare il medesimo effetto a tutela dei beni giuridici.
L’astensione può verificarsi anche in un altro caso, cioè nel caso in cui l’agente modello si sarebbe
reso conto che sulla base delle informazioni e conoscenze disponibili, non era in grado di dominare
il rischio.
Es. in tema di responsabilità medico chirurgica, la colpa dello specializzando, cioè quella figura di
medico che si è laureato e ha iniziato un percorso di specializzazione, quindi un soggetto molto
giovane, non ancora formato e senza esperienza ma che sta facendo un’attività di training. Può
succedere che lo specializzando si trovi in un contesto nella quale capisce che non ha ancora
l’esperienza di affrontare certe sfide terapeutiche. In questo caso lui si dovrebbe astenere. Se non
si astiene mette in campo un atteggiamento imprudente perché mette a rischio la vita del
paziente. Questa assunzione di rischio passa come colpa per assunzione, cioè in questi casi la colpa
consiste nell’essersi assunto un compito che non si hanno le capacità e le competenze di portare a
termine. La regola cautelare qui riporta il divieto di assumere dei compiti rischiosi che non sia nelle
condizioni di dominare.
La colpa generica comporta la violazione di una regola cautelare che imponeva di prevedere ed
evitare un determinato tipo di evento, sempre che quella condotta di previsione e di impedimento
di quell’evento sia la stessa che avrebbe tenuto il c.d. agente modello. Quindi la violazione della
cautela può riguardare il momento della previsione, quanto il momento dell’impedimento.
La colpa può consistere anche nella incapacità di prevedere qualcosa che si aveva il dovere di
prevedere.
La verifica dell’esistenza e della violazione di una regola cautelare, nel caso della colpa generica,
non si ha la prova definitiva, cioè dell’esistenza di tutti gli elementi della colpa. Dobbiamo
innanzitutto aggiungere alla violazione della regola cautelare la prova di un nesso tra la violazione
di una regola cautelare e la verificazione dell’evento lesivo. Cioè dobbiamo dimostrare che
l’evento è esattamente la conseguenza della violazione della regola cautelare. Cioè che senza la
violazione della regola cautelare quell’evento non si sarebbe verificato. Quindi per provare il
rapporto tra la violazione della regola cautelare ed evento della norma incriminatrice dall’altra, noi
dobbiamo esaurire una serie di test, di cui: l’evento deve soddisfare il requisito della realizzazione
del rischio specifico che proprio la regola cautelare, la cui violazione si imputa al soggetto agente,
si prefiggeva di evitare. La realizzazione del rischio deve essere una realizzazione specifica, non
generica, cioè la regola cautelare doveva avere come scopo preventivo proprio la mancata
verificazione di quel tipo di evento.
Successivamente dovremo chiederci se la regola cautelare, ove osservata avrebbe eliminato del
tutto il rischio di verificarsi dell’evento o si sarebbe limitata a ridurlo. Perché in natura non
disponiamo di regole che sempre e comunque abbiano un’efficacia tale da neutralizzare
completamente il rischio, talvolta ci sono delle regole che lo mitigano, lo riducono. Nella verifica
del nesso tra condotta colposa ed evento dobbiamo tener presente che l’evento morte potrebbe
essere derivato da un fattore diverso dalla condotta che ha violato la regola cautelare, cioè noi
nell’accertamento dobbiamo coltivare una particolare attenzione per quello che viene definito il
c.d. comportamento alternativo lecito o comportamento alternativo doveroso.
Il comportamento alternativo lecito o il comportamento alternativo doveroso è quello che
avrebbe tenuto l’agente modello, cioè come si sarebbe comportato e quindi qual era la regola
cautelare che avrebbe seguito. In ipotesi noi non possiamo escludere che l’evento si sarebbe
verificato ugualmente anche qual ora il soggetto agente avesse ispirato la propria condotta a
quella del soggetto modello. Ci sono dei casi in cui la condotta doverosa non previene l’evento
lesivo, cioè l’evento si sarebbe verificato anche qualora si sarebbe rispettata la regola cautelare.
Noi potremmo avere un caso in cui abbiamo la prova che il soggetto agente ha violato la regola
cautelare quindi siamo portati a dire che il soggetto è in colpa; ma se la difesa riesce a dimostrare
che c’è stata la violazione della regola cautelare ma che essa non è decisiva perché l’evento lesivo
si sarebbe ugualmente verificato anche qualora il soggetto agente non avesse violato la regola
cautelare ma l’avesse osservata alla stregua dell’agente modello, ecco che dobbiamo prosciogliere
perché manca la colpa. L’osservanza della regola cautelare, in questo caso, non è risolutiva per
evitare la verificazione dell’evento lesivo.
In tema della responsabilità medica troviamo il principio dell’affidamento che viene in rilievo
qualora si lavori in team, si faccia parte di una equipe, quindi ci sono più soggetti che cooperano
insieme in nome del miglior interesse di cura del paziente. Però se ad esempio il paziente muore
sorge il problema nel diritto penale delle ripartizioni delle responsabilità improntata nel rispetto
del principio della personalità della responsabilità penale. Si deve andare a verificare il
comportamento di ciascuno dei componenti dell’equipe per cercare di capire se a ciascuno di essi,
ad alcuni o a nessuno sia rimproverabile la violazione di una regola cautelare.
Nel caso di una pluralità di soggetti che cooperano o collaborano, la regola che disciplina
l’individuazione delle responsabilità è data dal c.d. principio di affidamento. Cioè ciascuno di questi
soggetti deve potersi fidare dei colleghi. Deve potersi fidare del rispetto da parte dei colleghi delle
regole cautelari che colleghino il loro ambito disciplinare.
Il principio di affidamento è importante perché se trovasse applicazione il principio contrario, cioè
di una sfiducia generalizzata il rischio sarebbe che l’operatore non potendo fidarsi dei colleghi
smetterebbe di concentrarsi su ciò che sa fare meglio, sul rispetto delle regole cautelari che
informano il proprio operato, e invece di guardare il paziente guarderebbe ciò che farebbe gli altri
colleghi disinteressando il paziente e aumentando quindi il rischio di errori a danno del paziente. Il
primo compito è quello di rispettare le regole cautelari che contrassegnano l’ambito di operatività.
Il principio di affidamento però incontra dei limiti: il primo limite è dato dalle circostanze del caso
concreto, cioè se un collega sta violando una regola cautelare non posso essere indifferente,
quindi qui nasce una nuova regola cautelare, che nasce dall’interazione di più soggetti nello
svolgimento di un’attività pericolosa. Se farò l’indifferente ci sarà una violazione di una regola
cautelare diretta, materiale e imputabile al soggetto che ha contravvenuto ad un dovere ma ci sarà
un’altra regola cautelare a me addebitabile consistente nel non aver impedito un’operazione da
parte di un collega che non era nelle condizioni di operare.
Secondo limite, non può invocare il principio di affidamento il soggetto che abbia una posizione di
garanzia, il cui contenuto sia quello di vigilare sull’operato altrui.
Terzo limite, non può invocare l’affidamento chi sia in colpa, cioè se io per primo violo una regola
cautelare non posso fare affidamento nel fatto che il collega metta rimedio all’errore che ho
causato.
Quindi il principio di affidamento è un principio importante per evitare imputazioni a titolo di
responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma non è un principio assoluto.

Il problema della responsabilità oggettiva.


Ci sono delle ipotesi: responsabilità oggettiva in relazione all’evento, di cui i delitti aggravati
dall’evento come ad esempio la calunnia che troviamo all’ex art. 368; il delitto preterintenzionale
che troviamo all’art. 43 comma 1 e 584 c.p., cioè l’evento non voluto come conseguenza di una
condotta a base di percosse o lesioni e per poter essere imputato al soggetto deve essere coperto
dalla colpa, altrimenti il soggetto risponderà solo di percosse o lesioni.
Nel caso del delitto preterintenzionale possiamo avere una differenziazione ove intervenga un
elemento soggettivo diverso a coprire l’evento più grave.
Ci sono altre ipotesi che riguardano la responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto
diversi dall’evento, come i reati contro la libertà sessuale in danno di un minore con 14 anni che
troviamo all’art. 609 sexiex, al riguardo è intervenuta un’importante sentenza della corte
costituzionale nel 2007 che ha ricondotto questa ipotesi alla necessità di essere letta con il
principio di colpevolezza. C’è anche l’ipotesi del concorso anomalo, art. 117 c.p., cioè quando il
soggetto cooperi nella condotta illecita con un altro soggetto munito di una qualifica pubblicistica,
ad esempio quando un poliziotto cooperi con un altro soggetto per prendere possesso di cose
altrui in un concorso. Il principio di colpevolezza centra con tutto ciò perché l’art. 117 si incarica di
dirci che in caso di concorso di persone anche il soggetto estraneo, cioè il soggetto sprovvisto della
qualifica soggettiva del pubblico ufficiale ma che abbia concorso con il pubblico ufficiale alla
realizzazione del peculato, questo soggetto risponde di peculato anziché di appropriazione
indebita. Quindi risponde di un titolo di reato più grave nonostante non sia titolare di una qualifica
pubblicistica.
Infine, sul rapporto tra colpa e responsabilità oggettiva, ci sono due figure che sono: aberratio
ictus mono lesiva, art. 82 comma 1 c.p., e pluri lesiva, art. 82 comma 2 c.p. ad esempio se io tiro
una pietra volendo colpire Tizio ma invece colpisco Caio, oppure li colpisco tutti e due. In questi
casi solo la prova della colpa rende lecita la punizione del soggetto agente anche per l’evento non
voluto. Diverso è il caso sull’errore sulla persona dell’offesa, cioè io voglio colpire Caio, tiro la
pietra addosso a Caio ma poi scopro che non ho sbagliato nel tirare la pietra ma ho confuso Caio
con un'altra persona.
Terza categoria di ipotesi di responsabilità oggettiva riguarda una responsabilità che non è solo
sull’evento o sulla fattispecie ma attiene in particolare ad una ipotesi di concorso c.d. anomalo
data dall’art. 116, reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti nel concorso di
persone nel reato.
Ad esempio, nel caso in cui ci si organizza per commettere una rapina, l’obiettivo è quello di
portare a casa i soldi nel cavò. Ma il mio compagno inizia a sparare ed uccide delle persone. L’art.
116 ci dice che tutti i concorrenti nel reato di rapina rispondono anche degli eventi non voluti.
L’ordinamento per scoraggiare le rapine minaccia una pena più grave anche per quei fatti non
voluti ma comunque connessi alla rapina. Se ci sono degli indici che alimentano la prevedibilità di
un evento non voluto ma possibile ecco allora che torna l’esistenza della colpa e il soggetto
risponderà anche a titolo di omicidio. Qualora invece la condotta del concorrente sia del tutto
anomala, improvvisa, imprevedibile e quindi non ci sia alcuna traccia di colpa, l’interpretazione
costituzionalmente orientata porterà a condannare il soggetto agente che voleva solo la rapina.
Sull’art. 116 è intervenuta anche una sentenza della corte costituzionale del 1965 che invitava i
giudici a verificare l’esistenza di un requisito soggettivo minimo di prevedibilità ma si trattava di
una sentenza ambigua perché il concetto della corte in quell’occasione non era il concetto della
prevedibilità in concreto ma di una prevedibilità in astratto.

Altre questioni che riguardano la categoria della colpevolezza, soprattutto sulla capacità di
intendere e di volere.
L’imputabilità cioè la capacità di intendere e di volere, art. 85 e 98 c.p.
Art. 85 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al
momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.”
Comma 2 “È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere.”
Ad esempio una delle cause più note dell’assenza della capacità di intendere e di volere è nel caso
dell’infermità mentale, quindi c’è assenza di imputabilità, cioè un soggetto infermo di mente che
realizzi un fatto tipico e antigiuridico. Bisogna comprendere se al momento della condotta, i
soggetti fossero pienamente capaci di intendere e di volere o se invece proprio in conseguenza
dell’assunzione di sostanze stupefacenti o di alcol, la capacità di intendere e di volere in quel
momento fosse scemata o inesistente.
La disciplina del codice costruisce una serie di finzioni tali per cui ammette la possibilità di punire
soggetti che al momento della condotta non erano capaci di intendere e di volere. Quindi ammette
la possibilità di punire in spregio al principio di colpevolezza che invece impone che la capacità di
intendere e di volere sia esistente e presente al momento della condotta.
Richiamiamo la sentenza delle sezioni unite del 2005, sezioni unite “Raso”, che per la prima volta
ammisero a determinate condizioni la possibilità di escludere la capacità di intendere e di volere in
presenza di disturbi della personalità. Prima di questa sentenza si riteneva che i disturbi della
personalità di per sé non potessero eliminare la capacità di intendere e di volere. Molto
importante è che non bisogna confondere la capacità di intendere e di volere con la coscienza e
volontà dell’azione. Quindi rappresenta un requisito che rappresenta la condotta tipica mentre
quando parliamo di capacità di intendere e di volere ci troviamo all’interno della colpevolezza e
questo istituto dell’imputabilità lo si legittima anche nella prospettiva della funzione della pena. La
prevenzione generale, cioè l’ambizione ad orientare i comportamenti dei destinatari dei precetti
attraverso la minaccia di pena, smette di funzionare di fronte ad un soggetto incapace di intendere
e di volere che proprio perché è incapace non è capace di percepire le conseguenze sanzionatorie
alle quali si espone alla propria condotta. Mentre è possibile recuperare uno spazio di azione alla
prevenzione speciale che punta a affilare gli strumenti di risocializzazione, di terapia, di
contenimento della pericolosità di un soggetto allo scopo di evitare che il medesimo soggetto in
futuro torni a delinquere. Ma tutto passa dalla capacità di auto determinarsi, di controllarsi, di
esprimere un orientamento alle conseguenze delle proprie azioni di dominare i nostri impulsi.
L’imputabilità è concetto complesso perché è composto di componenti empiriche che vengono
tratte dalle scienze sociali, dalle neuro scienze, ma anche di componenti normative che troviamo
nelle definizioni del codice penale.
Il vizio di mente può essere anche parziale, art. 89 c.p., e in questo caso avremo una circostanza
attenuante, mentre nel caso in cui sia totale, art. 88 c.p., viene meno la colpevolezza e venendo
meno la colpevolezza viene meno la possibilità di punire un soggetto. Laddove però questo
soggetto risulti pericoloso non si applicherà una pena perché non c’è colpevolezza ma potrà essere
applicata una misura di sicurezza che presuppone l’accertamento della pericolosità sociale, cioè il
pericolo che quel soggetto ripeta quel comportamento pericoloso.
Abbiamo anche una serie di definizioni di infermità. L’approccio che viene più seguito è l’approccio
medico, cioè una definizione clinica, non psicologica di malattia mentale come sinonimo di
infermità mentale.
Abbiamo anche una serie di presunzioni di incapacità di intendere e di volere. Sotto i 14 anni c’è
una presunzione assoluta di incapacità di intendere e di volere. Il soggetto infra 14enne che ponga
in essere un fatto tipico e antigiuridico non viene punito, ma gli si attribuirà una misura di
sicurezza. Il soggetto tra i 14 e i 18 anni c’è un accertamento concreto demandato al giudice sulla
presenza effettiva e in concreto della capacità di intendere e di volere.
Incapacità di intendere e di volere la riscontriamo nei soggetti sordomuti, soggetti che assumono
alcol o intossicazioni accidentali o che assumono droghe. In questi casi l’elemento psicologico
diventa oggetto di prova autonoma che non viene rapportata al momento della condotta ma viene
rapportata al momento della scelta di assumere sostanze stupefacenti o l’alcol.

Potrebbero piacerti anche