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2.1. Il ricorrente
Immaginiamo un'ipotetica fattispecie concreta in cui venga impugnato un provvedimento
della pubblica amministrazione, rispetto al quale possono aprirsi interessi di diversa natura e
direzione: proveremo a ricostruirli partendo appunto, dall' esempio.
Poniamo il caso, all'esito di una procedura concorsuale per due posti di professore a contratto dal bando
dall'università, risultino vincitore Tizio (al primo posto) e Caio (al secondo posto), ed invece di idonei non vincitori
Sempronio (al posto terzo) e Mevio (al posto quarto)
Il ricorrente (parte principale necessaria) è titolare di una situazione giuridica soggettiva
qualificata (interesse legittimo e, nel caso della giurisdizione esclusiva , anche il diritto
soggettivo): egli propone ricorso perché ritiene che questa sia stata lesa.
Nel nostro esempio, Sempronio, classificatosi terzo al concorso, impugna il provvedimento di approvazione della
relativa graduatoria, che assume essere illegittimo: il ricorrente quindi, è Sempronio , il quale, lamentandosi della
illegittimità del provvedimento, chiede al giudice amministrativo il suo annullamento.
Di regola il ricorrente è un soggetto privato, che generalmente può, a seconda dell'azione
proposta:
a) impugnare l'atto amministrativo illegittimo che lede la sua situazione al fine di ottenerne
l'annullamento;
b) chiedere la condanna della P.A. al risarcimento dei danni (causati da un atto o da un
comportamento di essa), ovvero ad uno specifico adempimento;
c) chiedere l'accertamento, ad esempio, della nullità di un atto amministrativo, ovvero della
illegittimità del silenzio - inadempimento;
d) chiedere l'esecuzione del giudicato.
La veste di ricorrente può essere assunta (oltre che dal soggetto privato leso, come è nella
tradizione e nella fisiologia del processo impugnatorio) anche da una P.A.; ciò accade in
presenza di alcune particolari circostanze:
a) ipotesi più fisiologica si presenta quando la controversia involga due diverse pubbliche
amministrazioni, una delle quali lamenta l’illegittimità di un atto dell'altra: si pensi ai casi in
cui insorgono conflitto di competenza, ad esempio, tra Regione ed enti territoriali locali sulla
titolarità di esercizio della funzione amministrativa in una determinata materia.
b) ipotesi meno fisiologica ma non meno frequente, capita nella fattispecie in cui la P.A. sia
ricorrente pur essendo essa stessa l'autrice dell' atto: è il caso nel quale, vantando un diritto
soggettivo nei confronti di un privato, è sempre che si tratti di una materia di giurisdizione
esclusiva, la P.A., rivolga al giudice amministrativo affinché questi ponga rimedio alla sua
relazione.
La ragione per cui la seconda ipotesi possa ricorrere soltanto nelle materie di giurisdizione
esclusiva sembra essere evidente: solo in questa sede (giurisdizione esclusiva) è possibile
rivendicare dinanzi al giudice amministrativo la tutela di un diritto soggettivo. D'altra parte,
in sede di giurisdizione generale di legittimità, la P.A. che ha emanato l'atto non può
assumere la veste di ricorrente per il semplice fatto che, per annullarlo, non ha bisogno di
rivolgersi al giudice: essa, infatti, è in grado di provvedere in tal senso autonomamente,
attraverso l' esercizio del potere.
Per altro verso, invece, vanno identificate quali condizioni dell'azione e, quindi, quali
presupposti di ammissibilità del ricorso:
1) la sussistenza della legittimazione alla decisione, la quale deriva tanto dall'interesse
sostanziale giuridicamente protetto in capo al ricorrente, quanto dal pregiudizio, che il
provvedimento impugnato arreca a tale interesse (“legittimazione alla decisione” costituisce
l’altra, imprescindibile, “componente” della legittimazione ad agire);
2) la sussistenza dell'interesse alla decisione il quale consiste nel vantaggio che il ricorrente
ricaverebbe da una decisione che accolga il ricorso;
3) la insussistenza di altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito, fra le quali
dobbiamo includere:
a) la inesistenza dell'atto amministrativo impugnato;
b) la rinuncia alla proposizione del ricorso nei termini di impugnazione;
c) nei giudizi di impugnazione, la mancata opzione del ricorrente per l'impugnativa
attraverso il ricorso straordinario;
d) nei giudizi per l'esecuzione del giudicato il fatto che l'azione non si sia estinta (per
decorrenza del termine decennale)
Nel nostro esempio , Sempronio è dotato sia della legittimazione alla decisione, perché vanta effettivamente la
lesione dell'interesse legittimo (il quale come sappiamo, risulta dalla combinazione dell'interesse sostanziale al
bene della vita - la nomina professore a contratto - e della illegittimità del provvedimento che lo lede), sia dell'
interesse alla decisione, perché dall'accoglimento del ricorso riceverà il vantaggio di aggiudicarsi, appunto, la
nomina di professore a contratto.
2.2.2. I controinteressati
Ove siano interessati in senso formale del provvedimento impugnato, i controinteressati
sono anch'essi parti principali, perché imprescindibili per la validità della sentenza, ed
eventuali, perché possono pure non costituirsi in giudizio; ove siano terzi rispetto alla
vicenda procedimentale che hanno dato origine al provvedimento, invece, si configurano
quali parti accessori.
Come abbiamo visto, quando emana il provvedimento la P.A. deve comunicarlo a tutti i
soggetti interessati, siano essi da questo sostanzialmente avvantaggiati, ovvero svantaggiati.
Tra coloro che hanno ricevuto comunicazione del provvedimento uno di essi (o più) potrà
manifestare un interesse processuale ed ottenere l'annullamento, assumendo perciò la veste
di ricorrente.
L’art. 41 co. 2 Così recita: <qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve
essere notificato, a pena di decadenza alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto
impugnato e ad almeno uno dei controinteressati individuato nell'atto stesso entro il termine
previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza,
ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia
scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Occorre quindi capire chi sono in astratto, e come devono essere individuati in concreto, i
contrinteressati. Ciò è necessario per due distinti ordini di ragione: non solo perché occorre
che il ricorrente ne individui almeno uno al fine di adempiere all'obbligo di notifica che la
legge gli impone; ma anche perché bisogna capire di quali strumenti dispone il
controinteressato al fine di realizzare il suo interesse processuale, interesse che può
consistere nel richiedere tanto che il ricorso venga respinto cosi ché sia tenuto in vita l'atto
impugnato, tanto che l’atto venga annullato, ma per vizi diversi, e quindi per una diversa
causa petendi . Quindi, i controinteressati sono portatori di una causa petendi diversa ed
opposta, sempre, rispetto a quella del ricorrente, ma di un petitium che può coincidere, o
meno, con quello di quest'ultimo (a seconda che chiedano l’annullamento integrale o
parziale, dell’atto sebbene per vizi diversi, ovvero il suo mantenimento in vita).
Nel ricorso giurisdizionale amministrativo si dicono contro-interessati i soggetti che vantano
un interesse contrario a quello del ricorrente, perché il provvedimento che questi ha
impugnato reca loro un vantaggio: mentre il ricorrente assume che la illegittimità del
provvedimento procura una lesione della sua sfera giuridica, i contro-interessati viceversa
difendono il vantaggio che traggono dal provvedimento.
Nel novero di tali soggetti sostanzialmente controinteressati nei confronti del ricorso vanno
distinti, da un lato, i soggetti interessati in senso formale dal provvedimento impugnato e
dalla vicenda procedimentale che lo ha originato, e, dall'altro, i soggetti terzi rispetto tale
vicenda: mentre i primi sono direttamente coinvolti nella vicenda procedimentale, i secondi
invece sono estranei a questa e tuttavia ricevono un vantaggio, sia pure solo indirettamente,
dal provvedimento che lo conclude.
Nell'ambito dei controinteressati in senso sostanziale, quindi (che sono tali giacché
dall'eventuale accoglimento del ricorso vedrebbero messo in pericolo il loro bene della vita
conseguito con il provvedimento), dobbiamo distinguere quelli che lo sono anche in senso
formale, ossia quelli individuati o facilmente individuabili dal provvedimento impugnato, da
quelli che non lo sono, perché estranei rispetto alla vicenda procedimentale che ha dato vita
ad esso.
Non è difficile capire che questa distinzione è funzionale al primo soltanto dei due ordini di
ragioni poc'anzi riferiti: il ricorrente, invero, deve notificare ricorso ad almeno uno dei
controinteressati in senso formale, dal momento che il controinteressato in senso soltanto
sostanziale (quello cioè che è terzo rispetto alla vicenda procedimentale che ha generato il
provvedimento impugnato) non è titolare della legittimazione passiva, la sua posizione, non
essendo formalmente coinvolta nella materia del contendere. Quanto al secondo ordine di
ragione, invece la versione si presenta più complessa. Ed infatti, se è vero che i
controinteressati in senso soltanto sostanziale non possono essere considerati legittimati
passivi, perché ad essi non spetta ricevere la notifica del ricorso, ciò nondimeno anch’essi
dispongono di uno strumento processuale a tutela dei loro interessi.
Al riguardo dobbiamo chiarire da subito che l'ordinamento richiede il contemperamento del
diritto del ricorrente di agire in giudizio con il principio di contraddittorio. Ciò vuol dire che
se, da un canto, deve essere soddisfatta l’esigenza di non gravare il ricorrente di eccessivi
oneri processuali, dall'altro, si deve assicurare la possibilità di far partecipare al giudizio tutti
coloro che vantano un interesse sostanziale antitetico. L'ordinamento predispone un
“meccanismo” idoneo a rimediare al deficit di configurazione delle parti principali generato
dalla "facilitazione" riconosciuta al ricorrente di notificare soltanto ad uno dei
controinteressati: l'ordine che il giudice deve dare al ricorrente di integrare il contraddittorio
nei confronti di tutti i soggetti che egli considera titolari di un interesse qualificato a
contraddire il ricorso.
Sul versante del diritto processuale, dunque, il ricorrente deve notificare il ricorso ad uno dei
soggetti facenti parte di un sotto-insieme dell'insieme costituito da quelli cui la P.A.
dovrebbe comunicare il provvedimento. Tuttavia, le operazioni di identificazione in concreto
dei contro-interessati, stando alla non proprio unanime opinione di dottrine e
giurisprudenza, si presenta non del tutto semplice, scontrandosi una certa qual confusione
del lessico, dovuta essenzialmente al diverso modo di intendere per un interesse che il
soggetto vanta contro: se questo, cioè, debba riferirsi al suo essere posto rispetto a quello
del ricorrente sul piano del diritto sostanziale (volendo, perciò, conservare il vantaggio
derivategli dal provvedimento, quale che sia la conseguente domanda processuale), oppure
debba riferirsi alla domanda processuale che egli avanza (puntando, quindi, ad ottenere il
mero mantenimento in vita dell’atto impugnato).
Hanno definito come "controinteressati" coloro che ricevono un un'utilità dell'atto
impugnato, essendo perciò titolari, sul piano del diritto processuale, dell'interesse al suo
mantenimento in vita, ovvero anche, in subordine, al suo annullamento (laddove, beninteso,
ottenere questo comunque consenta di conservare la situazione di vantaggio conseguita).
Significa che il loro interesse è “contro”, non necessariamente per quel che si chiede nel
procedimento, bensì perché vanta un interesse diverso da quello del ricorrente sopra del
diritto sostanziale.
Per contro, non possiamo convenire con la distinzione tra controinteressato in senso formale
e contro interessato in senso sostanziale basata sull'aver ricevuto o meno la notifica del
ricorso, distinzione che sovente si ricava dalle locuzioni adoperate e dai ragionamenti svolti
da dottrina e giurisprudenza. Riprenderemo l'argomento più avanti, è tuttavia sembra
doversi ribadire che la distinzione si fonda piuttosto sul dover essere o meno destinatari
della notifica del ricorso: con ogni evidenza, il controinteressato non è tale perché ha
ricevuto la notifica; è vero piuttosto il contrario e cioè che, proprio perché tale, deve
riceverla. Come abbiamo detto poc'anzi, invero, al riguardo si scontra, anche in
giurisprudenza, una certa qual disomogeneità di lessico, che non facilita la individuazione in
concreto dei soggetti che compongono il sotto-insieme (dell’insieme costituito dai destinatari
della notifica del provvedimento impugnato) formato dagli aventi titolo a ricevere.
I controinteressati, insomma , si trovano in una posizione non dissimile da quella della P.A.,
resistente; al pari di questa, del resto, dovrebbero ricevere la notifica del ricorso (l’uso del
condizionale deriva dal fatto che il ricorrente obbligato a notificare soltanto "ad almeno uno”
di essi), così da esser messi in grado di potersi definire il giudizio.
La nozione appena riferita si fonda, sotto il profilo formale, sulle parole testuali ad operare
dall'art. 41 secondo cui il controinteressato deve essere "individuato nell' atto" impugnato.
Ciò significa che ai fini della sua identificazione in concreto potrebbe essere sufficiente il
coinvolgimento del suo interesse sostanziale nella fattispecie controversa risulti expressis
vebis dall'atto oggetto del giudizio, non essendo necessario, viceversa, prendere in
considerazione la “direzione”, a dir così, del suo interesse processuale (formalmente rivolto
al mantenimento in vita, ovvero anche all'annullamento del provvedimento impugnato).
Tuttavia, sul piano del diritto processuale, secondo quanto afferma pacificamente la
giurisprudenza controinteressato è chiunque presenti un interesse processuale
sostanzialmente contrario ed opposto a quello del ricorrente: un interesse, cioè, a che lo
stato delle cose generato dal provvedimento impugnato persista all'esito del giudizio.
In altre parole, il controinteressato, inteso come soggetto individuato facilmente
individuabile nell'atto impugnato che sia portatore dell'interesse di segno sostanziale
contrario a quello del ricorrente, sul piano processuale può, in ipotesi, vantare un interesse
formale, tanto di segno opposto, quanto il segno analogo , a quello del ricorrente
principale . Nel primo caso proporrà "controdeduzioni" al fine di ottenere il mantenimento in
vita dell'atto (così affiancando la P.A. resistente); Il secondo caso, invece, presenterà
"ricorso incidentale", al fine di ottenere anch'egli l'annullamento, integrale o parziale,
dell'atto, ma per una diversa causa pretendi.
Laddove non abbia ricevuto notifica del ricorso principale, il controinteressato in senso
sostanziale che sia interessato in senso formale può costituirsi in giudizio mediante un
intervento ad opponendum tanto che questo sia finalizzato al semplice dare ulteriore
sostegno alle ragioni della P.A. resistente tanto che sia rivolto a tutelare le proprie, potendo
conseguentemente proporre aggiunta anche un ricorso incidentale (con il quale introdurre
nel giudizio nuovi motivi di ricorso).
In definitiva, “la resistenza” dei controinteressati in senso formale si può manifestare
attraverso tre diversi strumenti processuali. Nel caso in cui abbiamo ricevuto notifica del
ricorso a) il controricorso (o controdeduzioni), con il quale essi semplicemente chiedono, alla
stessa stregua della P.A. dell' emanato, il mantenimento in vita dell'atto impugnato; b) il
ricorso incidentale, con il quale si chiedono invece l'annullamento parziale o integrale del
provvedimento impugnato, come ricorrente principale, ovvero l'annullamento di un atto
preparatorio un presupposto di quello impugnato, o comunque con questo almeno
connesso. Nel caso in cui, viceversa, non abbiano ricevuto notifica del ricorso: c) l'intervento
ad opponendum, con il quale è affiancano la P.A. e i controinteressati che abbia ricevuto
notifica, per sostenere le ragioni e salvo che poi non scelgano eventualmente, sul
presupposto della costituzione mediante atto di intervento, di proporre anche ricorso
incidentale.
Ed infatti, secondo l'opinione diffusa e consolidata, soprattutto in giurisprudenza, il solo
controinteressato che può costituirsi in giudizio mediante semplice intervento è quello al
quale, pur essendo interessato formale, non è stato notificato il ricorso: questi, però, dove si
costituisca, vanta gli stessi diritti del controinteressato intimato, tanto è vero, a seguire,
potrà eventualmente proporre anche ricorso incidentale.
La "resistenza" dei controinteressati terzi, invece, si può manifestare soltanto attraverso un
atto di intervento ad opponendum, ai sensi dell' articolo 28 co. 2, C.P.A.
Resta, infine, da precisare che, sebbene a prima vista possa apparire strano, sono
configurabili controinteressati anche nel giudizio non impugnatorio, e più precisamente
nell'azione autonoma di condanna. In questo caso, in vero, va considerato quale
controinteressato il soggetto che riceverebbe un pregiudizio dall'accoglimento della
domanda: come recita l'articolo 41 infatti "qualora sia proposto azione di condanna, anche in
via autonoma, il ricorso notificato altresì agli eventuali beneficiari dell' atto impugnato"
2.3. I cointeressati
Per completare la rassegna delle parti manca di riferire i cointeressati, cioè di quei soggetti
che, diversamente dai controinteressati sono sempre parti accessorie, tanto che siano
interessati in senso formale del provvedimento impugnato, tanto che siano terzi rispetto alla
vicenda procedimentale che lo ha originato.
I cointeressati si pongono dentro il processo in una posizione in un certo senso analogo a
quella del ricorrente principale, giacché, abbiano avuto un nuovo ruolo nella vicenda di
diritto sostanziale ora oggetto del processo, presentano, in relazione a questo, un interesse
simile a quello del ricorrente: quelli fra essi che siano interessati in senso formale del
provvedimento impugnato, non avendo ottenuto da esso il bene della vita, aspirano a
conseguirlo all'eventuale accoglimento del ricorso principale; quelli, invece, che siano terzi
rispetto alla vicenda procedimentale, avendo ricevuto indirettamente un pregiudizio dal
provvedimento, aspirano ad ottenere l’eliminazione, sia gli uni che gli altri perseguendo il
loro obiettivo mediante intervento ad adiuvandum.
Deve essere chiaro che i soggetti in parola, laddove impugnino l'atto autonomamente,
lamentando la visione di un loro situazione giuridica, sul piano del diritto processuale vanno
configurati come ulteriori ricorrenti principali e non come cointeressati.
La ragione della scelta di costituirsi mediante intervento ad adiuvandum, anziché proporre a
sua volta ricorso, potrebbe spiegarsi così: che il cointeressato (interessanti in senso formale
o terzo che sia) lo farebbe al fine di ottenere la estensione soggettiva del giudicato nei suoi
confronti (dal momento che il CPA, in un certo senso, gli consente di “sfruttare” la
eventualmente migliore, di così qualità del difensore del ricorrente) - e non certo perché
l'interesse è sopravvenuto a seguito del ricorso principale.
La questione della loro identificazione va illustrata facendo riferendo all’opinione secondo la
quale vanno considerati "cointeressati" i soggetti che, come dice il termine vantano un
interesse processuale, almeno per certi versi, analogo a quello del ricorrente principale.
Le espressioni più frequentemente adoperate per definirle, invero, sono fra loro molto simili "soggetti che hanno
interesse identico analogo a quello del ricorrente” (Domenichelli); “soggetti titolari di un interesse legittimo
analogo a quello del ricorrente " (Travi); “soggetti che si trovano nella situazione del ricorrente "(Casetta).
Pur essendo portatori di un petitum del tutto similare, se non proprio identico, a quello del
ricorrente principale, i cointeressati sono titolari di una diversa causa petendi e dunque di
una situazione giuridica soggettiva contenutisticamente dissimile da quella del ricorrente
principale. L’ordinamento riconosce al cointeressato la possibilità di intervenire in giudizio, a
condizione che "non sia decaduto dall'esercizio delle relative azioni", per un verso, e che
accetti, per un altro, "lo stato è il grado in cui ci si trova". Ed è evidente che la norma si
riferisca ai cointeressati come loro che abbiano scelto di non impugnare il provvedimento in
via principale, in tale evenienza essi devono essere correttamente configurati sul piano
processuale come ulteriori ricorrenti.
Del resto, sul piano del diritto sostanziale, non parrebbe del tutto peregrino considerare
quale potenziale cointeressato chiunque sia stato coinvolto dall'azione amministrativa: in
pratica, tutti coloro che avrebbero dovuto ricevere notificazione o comunicazione del
provvedimento (ovvero, se trattasi di atto fonte, tutti coloro che sono da questo coinvolto
dal momento della sua pubblicazione).
Distinguere in concreto i controinteressato dai cointeressati è operazione non sempre
agevole, complicando lo svolgimento dell'onore di notificazione in capo al ricorrente.
Sebbene i cointeressati non vengono espressamente menzionati, la loro posizione è
completata dall'articolo 28, co 2, c.p.a. la norma consentendo di "intervenire" a tutti quei
soggetti che vantano un interesse coinvolto dal provvedimento impugnato (tanto se
interessati in senso formale da questo, tanto se terzi rispetto a questo): un interesse che,
sul piano del diritto sostanziale, è per definizione di segno dissimile da quello del ricorrente
principale, ma che, sul piano del diritto processuale, ben può essere di segno analogo ad
esso. Ad ogni modo, stando al diritto positivo vigente, l'ordinamento consente (così come ai
controinteressati, anche) ai cointeressati di intervenire nel giudizio.
La posizione processuale del cointeressato può dirsi, in un certo senso, speculare a quello in
cui versa il controinteressato. Tuttavia, diversamente da questi, il cointeressato può
costituirsi in giudizio soltanto mediante intervento ad adiuvandum: la sua posizione, dunque
pur essendo giuridicamente rilevante, si presenta comunque di minore "intensità" rispetto a
quella del controinteressato, giacché non può avvalersi di uno strumentario altrettanto
articolato; soprattutto, non può proporre ricorso incidentale.
In definitiva, stando alla disciplina vigente il cointeressato dispone di una sola strada
processuale: può costituirsi mediante intervento ad adiuvandum.
3. Le azioni
Il ricorrente può proporre al G.A. azioni di tre diverse specie, corrispondenti essenzialmente
alle domande che si possono rivolgere allo stesso: di annullare un provvedimento
amministrativo; di condannare la P.A. al pagamento di somme di denaro (che costituiscono
l'equivalente pecuniario del risarcimento danni), oppure ad un fare specifico; di accertare
meramente un fatto che in qualche modo e misura la riguardi. Con l'azione di
annullamento si chiede al giudice di eliminare dal mondo giuridico l'atto che si assume
illegittimo; con l'azione di condanna si chiede al giudice di ordinare alla P.A. di pagare o
di fare qualcosa, in via generalissima per rimediare ad una ingiustizia da essa compiuta, e
dunque, costringerla a pagare i danni o a compiere un dovere fino a quel momento omesso
da parte della stessa; con l'azione di mero accertamento infine, si chiede al giudice di
accertare un fatto che in qualche modo comunque riguardi le attività della P. A., e
segnatamente, per un verso, la nullità dell'atto amministrativo per mancanza di uno dei suoi
elementi essenziali. Il processo amministrativo venne concepito come processo
impugnatorio, volto essenzialmente ad ottenere l'annullamento di un atto illegittimo con una
vocazione cioè, precipuamente caducatoria. Non bisogna dimenticare che fino a poco tempo
fa l'azione caducatoria e l'azione risarcitoria, erano caratterizzate dall'impossibilità di poter
essere esperite contemporaneaemente dinanzi allo stesso giudice. Al G.A. poteva chiedersi
di condannare la P.A. soltanto al pagamento di somme di denaro dovute, e non al
risarcimento del danno; per conseguire quest'ultimo, era necessario adire il G.O., ma ciò
solo dopo aver ottenuto dal G.A. l'annullamento dell'atto illegittimo causativo del danno. Con
riferimento alla medesima vicenda sostanziale, le azioni esperibili dinanzi al G.A. possono
essere esperite anche cumulativamente. In merito ai termini per la proposizione, prima
dell'avvento del C.P.A., le azioni andavano intraprese, a pena di decadenza, entro 60 giorni.
Il C.P.A. detta per ciascuna di esse, anche termini diversi: 60 giorni per l'azione di
annullamento, 120 giorni per l'azione di condanna ed un anno per l'azione avverso il
silenzio; per quel che concerne l'azione di accertamento della nullità, infine, il
termine e' di 180 giorni, ma solo per il ricorrente, giacchè per chi resiste in giudizio la
nullità dell'atto può sempre essere opposta.
L'azione di condanna al risarcimento dei danni per equivalente pecuniario, e' una
tipica azione a contenuto pecuniario. Essa può essere proposta per le seguenti motivazioni:
a) per lesione di interessi legittimi qualunque sia la giurisdizione (art 30, commi 3 e 6); b)
per lesione di diritti soggettivi solo in sede di giurisdizione esclusiva ( art. 30 co. 2 e 6).
Essa può essere esperita: a) “contestualmente ad altra azione” ; b) “anche in via
autonoma”, per la lesione di interessi legittimi – nei casi di giurisdizione esclusiva , di
illegittimo esercizio dell'attività amministrativa e di mancato esercizio dell'attività
amministrativa obbligatoria- e di diritti soggettivi- solo nei casi di giurisdizione esclusiva.
L'art. 30 al co. 2, individua la fonte del danno ingiusto che e' risarcibile rivolgendosi al G.A.
nell'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa, oppure nel mancato esercizio di quella
obbligatoria. In entrambe le ipotesi, l'azione risarcitoria e' proponibile laddove l'attività
amministrativa abbia provocato la lesione di un interesse legittimo; ciò nondimeno, essa e'
proponibile anche laddove abbia determinato la lesione di un diritto soggettivo, sempre che,
però, si versi nelle materie di giurisdizione esclusiva. Il risarcimento del danno può essere
richiesto, non solo per equivalente pecuniario, ma anche “in forma specifica”, beninteso
soltanto ove sussistano i presupposti previsti dall'articolo 2058 del codice civile. Il legislatore
individua anche uno specifico criterio per la determinazione ad opera del G.A. della
sussistenza del danno, “autorizzandolo” ad indagare il rapporto controverso: il co. 3 dell'art.
30, stabilisce che “nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di
fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei
danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso
l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”. E' necessario però, in primis, affrontare il
problema della “pregiudizialità amministrativa”. Sotto il profilo semantico,
“pregiudiziale” e' qualcosa che deve essere esaminato prima: e dunque, la mancata
proposizione della domanda di annullamento pregiudica la possibilità di proporre quella di
risarcimento; l'eventuale accoglimento della domanda risarcitoria e' subordinata
all'accoglimento di quella di annullamento. Il giudice deve decidere prima sulla illegittimità
dell'atto, accertata, l'accertata sussistenza della quale e' fonte del danno ingiusto, che
costituisce l'indefettibile presupposto della condanna al risarcimento. Insomma, qualora il
G.A. riscontri la illegittimità dell'atto, prima lo annulla, e poi può decidere con riguardo al
profilo risarcitorio; per poter chiedere il risarcimento dei danni cagionati dall'atto
amministrativo illegittimo, e' necessario previamente impugnarlo ed ottenere il
suo annullamento. Questa e' la pregiudizialità amministrativa. Oggi, con l'entrata in vigore
del C.P.A., si ritiene che la questione della pregiudizialità sia stata risolta, almeno sotto il
profilo sostanziale. Riassumendo in estrema sintesi i due supremi consessi giurisdizionali
possiamo dire che, secondo la tesi sostenuta dal Consiglio di Stato era evidente che, una
volta introdotta nell'ordinamento l'azione risarcitoria davanti al G.A., al fine di ottenere il
risarcimento da parte di questi, fosse comunque necessario conseguire l'annullamento
dell'atto illegittimo: per poter condannare al risarcimento dei danni ingiustamente patiti per
la sua illegittimità, era necessario che il G.A. eliminasse previamente l'atto illegittimo fonte di
essi. Per conseguenza, andava considerata inammissibile un'azione di condanna autonoma:
solo a seguito dell'impugnazione del provvedimento che si assume illegittimo, il G.A.,
verificatane la illegittimità e perciò annullatolo, potrebbe procedere alla condanna ex art.
2043 c.c. Riconoscendo la ingiustizia del danno subito nel nesso di causalità fra quest'ultimo
e la illegittimità dell'atto. Fu ribattuto dalla Corte di Cassazione, la quale riaffermava
l'autonomia della tutela risarcitoria rispetto a quella caducatoria. Tale autonomia, secondo la
Corte, rinverrebbe il proprio fondamento anzitutto nei precetti costituzionali stabiliti dagli
art. 24. e 113., co. 1 e 2; nonché nella disciplina dettata dalla L. 205/2000, nella quale
sarebbe stata recepita la riflessione secondo cui, “se l'ordinamento protegge una situazione
di interesse sostanziale, in presenza di condotte che ne impediscono o mancano di
consentirne la realizzazione, non può esser negato al suo titolare almeno il risarcimento del
danno, posto che ciò costituisca misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse,
indipendentemente dal fatto che la protezione assicurata dall'ordinamento in vista della sua
soddisfazione, sia quella propria del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo. Rilevando
che manca una norma che subordini la tutela risarcitoria alla proposizione dell'azione
caducatoria, le SS.UU. concludono che la parte, titolare d'una situazione di interesse
legittimo, se pretende che questa sia rimasta sacrificata da un esercizio illegittimo della
funzione amministrativa, ha diritto di scegliere tra fare ricorso alla tutela risarcitoria anziché
a quella demolitoria e che tra i presupposti di tale forma di tutela giurisdizionale davanti al
giudice amministrativo, non e' quello che l'atto in cui la funzione si e' concretata sia stato
previamente annullato in sede giurisdizionale o amministrativa. Per evitare il doppio giudizio,
prima davanti al G.A. poi davanti al G.O., la Corte decise nel senso che il G.O. fosse
dall'ordinamento riconosciuto il potere di indagare sulla illegittimità della fonte del danno
nell'ambito del giudizio risarcitorio, senza che prima fosse esperito quello caducatorio
davanti al G.A. Secondo le S.S.UU. l'azione risarcitoria avente ad oggetto la tutela di un
diritto soggettivo poteva essere proposta autonomamente rispetto all'azione di
annullamento, il G.O. essendo in grado di valutare la illegittimità del provvedimento, non
diversamente da come verifica qualsiasi altra fonte del danno: e' irrilevante se la fonte del
danno sia di natura “privatistica” o “pubblicistica”, quel che conta e' il disposto dell'art. 2043
c.c., il quale prevede che chi subisce un danno ingiusto, perché causato da un
provvedimento amministrativo assunto come illegittimo, può proporre l'azione risarcitoria
autonomamente e al giudice adito spetta il compito di accertare, indipendentemente dalla
sua natura, se la fonte del danno di cui si pretende il risarcimento, sia ingiusta. Secondo il
Supremo Collegio amministrativo occorre tener presente che l'azione risarcitoria per la
lesione di un diritto si prescrive in cinque anni e non può lasciarsi nella incertezza per un
così lungo periodo di tempo, la definizione di una fattispecie che involge la cura di un
interesse pubblico: pertanto l'azione risarcitoria e' possibile soltanto se viene esperita, nei
termini di decadenza, quella di annullamento. La questione viene risolta dal C.P.A. con un
compromesso: l'azione di condanna al risarcimento acquista autonomia, ma non soggiace
più alla prescrizione, bensì ad un raddoppiato termine di decadenza. In buona sostanza, il
legislatore decide di risolvere la disputa fra le due giurisdizioni nel senso salomonico, di non
premiare una sola di esse, individuando nel seguente il punto di equilibrio: se, per un verso
assume la tesi della Cassazione, stabilendo la possibile autonomia dell'azione di condanna,
per altro verso, raccoglie la principale preoccupazione del Consiglio di Stato sottraendola alla
prescrizione e sottoponendo la sua esperibilità ad un termine di decadenza doppio, rispetto
a quello tradizionale (da 60 a 120 giorni).Tra l'azione di annullamento e l'azione di
condanna, la seconda e' sì esperibile anche a prescindere dalla prima e tuttavia essa
difficilmente potrà risolversi nel senso favorevole al ricorrente senza che questi abbia agito
per l'annullamento del provvedimento illegittimo, solo questa strada consentendogli di
dimostrare di aver fatto tutto ciò che fosse nelle sue possibilità per evitare di sopportare il
danno ingiusto.
LA DISCIPLINA DEL SILENZIO DELLA P.A. (secondo G. Clemente di San Luca, in una
frase: “ Il silenzio della P.A. (verso il cittadino frontista richiedente) è il significato giuridico
che la legge ha voluto dare all’inerzia ed alla immobilità della Pubblica Amministrazione,
fregandoci tutti”):
L'espressione "silenzio della pubblica amministrazione" indica genericamente una omissione,
che può essere poi specificamente riferita: alla mancata emanazione di un atto, alla mancata
decisione su un ricorso gerarchico, al mancato esercizio del potere di sorveglianza, al rifiuto
tacito di provvedere. Con essa si intende quindi un comportamento inerte, mantenuto in
tutti quei casi nei quali (al contrario) la legge prescrive di compiere una certa attività.
Questo comportamento, che di per sé è totalmente "neutro" (cioè non ha valore né negativo
né positivo), è in antitesi con il nostro sistema di diritto amministrativo, che si caratterizza
per essere centrato sull'atto amministrativo: per costituire, modificare o estinguere i rapporti
di diritto amministrativo, occorre un atto dell'autorità amministrativa, ed anzi deve trattarsi
di un atto esplicito, formale e tipico. Un comportamento inerte è evidentemente inidoneo a
questo scopo , salvo i casi in cui la legge ricolleghi espressamente al fatto del "silenzio"
dell'amministrazione su un'istanza dei privati, il significato legale di atto "implicito" di
assenso (silenzio assenso), o rigetto (silenzio diniego), della domanda. Ed è proprio questo
che noi dobbiamo studiare: il significato giuridico che la legge dà, in taluni casi, al silenzio
della Pubblica Amministrazione:
Ci sono casi in cui la legge riconosce particolare significato giuridico al silenzio della PA,
equiparandolo ad un vero e proprio atto amministrativo (e quindi impugnabile, come
qualsiasi altro atto amministrativo), in questo caso parliamo di SILENZIO SIGNIFICATIVO
che va tenuto distinto dal SILENZIO INADEMPIMENTO. Andiamo, allor quindi, ad analizzare
a livello contenutistico cosa è il silenzio significativo, la macro categoria concettuale più
consistente della disciplina / materia del silenzio della PA:
- IL SILENZIO SIGNIFICATIVO (assenso, rigetto, rifiuto) : Nell’ambito del Silenzio
significativo, sotto il profilo del contenuto, distinguiamo 3 ramificazioni concettuali :
Silenzio-assenso: Ricorre quando la legge attribuisce all’inerzia della PA il significato di
accoglimento dell’istanza. “Silenzio assenso” inteso, quindi, come “conferma” ; come a dire
“chi tace acconsente”. Quindi, per quanto detto, quello che dobbiamo capire è che il silenzio
è considerato alla stregua di un atto e perciò impugnabile per attenere l’annullamento del
silenzio-assenso da parte del GA (giudice amministrativo);
Silenzio-rigetto: Si forma e viene a nascere, generalmente, su ricorso amministrativo e
ricorre, specificatamente, quando la legge stabilisce che l’inerzia della PA debba essere
intesa come rigetto del ricorso. Quindi è la legge che disciplina, scrupolosamente, quando il
silenzio della PA deve intendersi come rigetto. Anche in questo caso, quindi, si deve capire
che il silenzio può essere impugnato perché considerato alla stregua di un atto (quindi si
impugna, praticamente, la decisione di rigetto del ricorso). Il silenzio rigetto è la tipologia di
silenzio da non confondere con quella di diniego (che a breve vedremo), in quanto il rigetto
è un “no al ricorso che il privato propone” , mentre il diniego, il rifiuto è un “no all’istanza
che il privato propone” ;
Silenzio-rifiuto (o c.d. diniego): ricorre quando la legge attribuisce all’inerzia della PA il
significato di rifiuto dell’istanza. Anche in questo caso può essere impugnato dinnanzi al GA.
- IL SILENZIO INADEMPIMENTO : Il Silenzio inadempimento, invece, si ha quando
sussiste comunque inerzia della PA, ma la legge NON attribuisce significato giuridico al
silenzio. In questo caso il semplice inadempimento, che si qualifica quindi come semplice
immobilità, inerzia, della PA e non ha quindi un significato giuridico, può costituire oggetto di
giudizio davanti al GA, al quale il ricorrente chiede (al giudice) di ordinare alla PA di
esprimersi. Inoltre il GA può, con la sentenza che decide il ricorso avverso il silenzio-
inadempimento, nominare un commissario ad acta capace di operare in luogo della PA
quando questa resti inadempiente malgrado l’ordine del giudice (qui ricorre il giudizio di
ottemperanza, che in questa sede non ci compete ancora). /
Dopo questa analisi analitica / schematica sintetica, si ripropone di seguito una corposa
ricapitolazione della importantissima disciplina del silenzio dell’amministrazione pubblica:
Il silenzio della pubblica amministrazione è un comportamento omissivo dell’amministrazione
di fronte a un dovere di provvedere, di emanare un atto e di concludere il procedimento con
l’adozione di un provvedimento entro un termine prestabilito. L’ordinamento distingue il
silenzio in ipotesi legislativamente qualificate in senso positivo (silenzio assenso), in senso
negativo (silenzio diniego e silenzio rigetto) e ipotesi non giuridicamente qualificate (silenzio
inadempimento, quarta ipotesi particolarissima di cui non abbiamo prima menzionato la
disciplina per poca preponderanza teorica).
Il silenzio assenso. - L’art. 20 della l. n. 241/1990 (modificato dall’art. 3 d.l. n. 35/2005)
include il silenzio assenso tra gli istituti di semplificazione amministrativa . La norma
stabilisce che nei procedimenti a istanza di parte, esclusi quelli disciplinati dall’art. 19
(Segnalazione certificata di inizio attività), per il rilascio di provvedimenti amministrativi, «il
silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della
domanda», se la stessa amministrazione non comunica all’interessato, nel termine indicato
dalla legge, il provvedimento di diniego ovvero se, entro 30 giorni dalla presentazione
dall’istanza, non indice una conferenza di servizi. Il silenzio assenso in alcuni casi è
espressamente escluso dalla legge (per es., per procedimenti e gli atti riguardanti il
patrimonio culturale e paesaggistico, nei casi in cui la legge qualifica il silenzio come rigetto
ecc.). In ogni caso l’art. 20, co. 3, prevede che l’amministrazione possa, in via di autotutela
annullare (Annullamento d’ufficio) o revocare (con la revoca che rivisita, come sappiamo, il
merito) l’atto implicito di assenso (art. 21 quinquies e nonies).
Il silenzio diniego (rifiuto) ed il silenzio rigetto. - Il silenzio diniego e il silenzio rigetto
sono due ipotesi in cui le norme attribuiscono espressamente all’inerzia dell’amministrazione
una qualificazione giuridica negativa. Nel primo caso, decorso inutilmente un determinato
periodo di tempo, il silenzio equivale a un provvedimento di diniego. Così, per es., in materia
di diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il silenzio rigetto, invece, si ha in caso di
mancata pronuncia sul ricorso gerarchico decorsi 90 giorni dalla sua presentazione, senza
che l’organo adito abbia comunicato la decisione, in questo caso esso si intende respinto.
Il silenzio inadempimento. - Nei casi in cui la legge non qualifica espressamente il
silenzio, ovvero nelle numerose materie in cui il silenzio assenso non trova applicazione per
espressa diposizione di legge (si tratta delle materie indicate al comma 4 dell’art. 20 della l.
n. 241/1990 che, per la loro rilevanza, necessitano di un’istruttoria e di una manifestazione
espressa del potere: ad es., ambiente, difesa nazionale, patrimonio culturale, immigrazione,
cittadinanza), il silenzio dell’amministrazione equivale a un ‘inadempimento’, quindi, come
surriferito, il silenzio non ha valenza giuridica, non significa nulla, e quindi è un vero e
proprio inadempimento della P.A. Pertanto un soggetto che abbia richiesto l’adozione di un
provvedimento, decorsi inutilmente i termini entro cui avrebbe dovuto pronunciarsi la
pubblica amministrazione può presentare ricorso al giudice amministrativo fintanto che
perdura l’inadempimento. La disciplina concernente la tutela avverso il silenzio
inadempimento è ora contenuta nel Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010)
all’art. 31 (che prevede l’azione avverso il silenzio) e all’art. 117 (che disciplina invece il
regime processuale di tale azione).
Tutela giurisdizionale avverso l’inerzia della P.A. (par . 14.2, Capitolo 8, pag. 825 manuale):
L’art 31 del c.p.a. disciplina la tutela giurisdizionale avverso il SILENZIO - INADEMPIMENTO
della P.A. Presupposto per tale tutela è che ci sia in capo alla PA un obbligo di provvedere
ad una determinata richiesta, al quale quest’ultima è venuta meno. L’azione avverso il
silenzio-inadempimento è un’AZIONE DI CONDANNA esperibile fintanto che perdura
l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione
del procedimento (come già riferito antecedentemente). Competente è il G.A. L’art 117
stabilisce che, quando il giudice accoglie l’impugnazione, ordina alla P.A. di provvedere entro
un termine non superiore a 30 giorni. Se la P.A. anche in questo caso non provvede il G.A.
può nominare un commissario ad acta che provvede in luogo alla P.A.
Dovrebbe essere già chiaro al lettore più acuto che nelle ipotesi di SILENZIO-
SIGNIFICATIVO non è esperibile il rimedio dell’articolo 31 e 117. Difatti l’oggetto di tale
giudizio deve essere l’inerzia della PA e non il silenzio della PA che ha, come stradetto, nei
casi che non sono di silenzio inadempimento, un significato giuridico alla stregua di un vero
e proprio atto amministrativo, e non l’obbligo di provvedere, che viene solitamente
demandato dal GA alla PA quando vi è un silenzio inadempimento di questa ultima e quando
vi è una azione di ricorso esperita in base agli artt. 31 e 117 . Concludiamo dicendo che
l’azione processuale riconosciuta è l’AZIONE DI ANNULLAMENTO.
Profili problematici circa l’impugnabilità del silenzio, come fosse un atto amministrativo =
motivazioni mancanti, ergo difficoltà da parte del ricorrente di trovare vizi nell’ “atto”, in
quanto, come detto, la motivazione è il miglior luogo giuridico dove si possono trovare vizi
dell’atto per poi quindi adire un giudice: A ben riflettere, il silenzio assenso può dipendere da
una SCELTA della stessa PA per ragioni che, non solo contrastano con l’esigenza di garanzia
dei controinteressati (la PA rimanendo silente pregiudica l’interesse dei controinteressati
giacché resterebbero privi di un esplicito provvedimento, sugli eventuali vizi del quale
costruire il ricorso) ma anche per ragioni di economia dei mezzi. Infatti in questo modo
risulta assai difficile sindacare la legittimità dell’uso del potere, questo difettando di una
manifestazione formale. La PA quando risponde espressamente deve motivare la sua scelta,
laddove invece manifesti il proprio assenso in maniera silente evita di esplicitare la
motivazione, quindi i controinteressati, pur potendo impugnare il silenzio come se fosse un
provvedimento, sarebbero comunque privati della effettiva possibilità di costruire il ricorso
non essendovi i relativi motivi.
6.1. CONTRORICORSO
Si dice controricorso l'atto processuale mediante il quale si chiede il mantenimento in vita del
provvedimento impugnato con il ricorso principale, sostenendosene la legittimità: con esso,
le parti diverse dal ricorrente si oppongono al ricorso, ma senza proporre a loro volta
l'impugnazione del provvedimento già impugnato, né di un altro atto adesso connesso o
comunque collegato. Possono costituirsi in giudizio presentando un controricorso tanto la
P.A. convenuta, quanto il controinteressato in senso formale cui sia stato notificato il ricorso,
il quale, evidentemente, vanta una causa petendi diversa ed opposta rispetto a quella del
ricorrente. Secondo quanto dispone l'articolo 46, comma 1, C.P.A., le parti intimate che
scelgono di costituirsi mediante controricorso devono farlo entro il termine di 60 giorni dal
perfezionamento, nei propri confronti, della notificazione del ricorso, e su di essi non
incombe alcun onere di notifica. Quanto alle modalità formali della costituzione, va detto che
la norma in parola non fa esplicita menzione del controricorso, ed anzi riconosce in capo alle
parti intimate la facoltà di presentare memorie, fare istanze, indicare i mezzi di prova di cui
intendono valersi e produrre documenti. Dobbiamo sottolineare, inoltre, che il termine entro
il quale esse devono compiere i detti adempimenti non è perentorio: difatti lo stesso C.P.A.,
all'articolo 73, comma 1, prevede che le parti possono produrre documenti fino a 40 giorni liberi prima
dell'udienza, memorie fino a 30 giorni liberi e presentare repliche fino ai 20 giorni liberi.
LA DOMANDA RICONVENZIONALE
Essa estende il thema decidendum, in quanto il convenuto va oltre alla mera richiesta di
rigetto della domanda attrice, ma esercita un'autonoma azione che richiede una pronuncia
del giudice con effetto di giudicato.
Nel caso in cui il ricorso al giudice amministrativo abbia ad oggetto questioni concernenti
diritti soggettivi, si garantisce la parità tra le parti consentendo che nella forma del ricorso
incidentale possa prender vita l’istituto della domanda riconvenzionale, tipico del processo
civile. Secondo il disposto dell’art. 42 comma 5, infatti, nei termini e con le modalità propri
del ricorso incidentale, nelle controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi
possono essere altresì proposte domande riconvenzionali dipendenti da titoli già dedotti in
giudizio. A dire il vero, già prima dell'approvazione del C.P.A., il Consiglio di Stato, sezione
quinta, n. 1498 del 2010, ha affermato che la domanda riconvenzionale è un congegno
processuale che risulta compatibile con la struttura del processo amministrativo,
ammettendone la posizione con le forme e i termini incidentali.
6.3. L’intervento
L'intervento è l'atto processuale con il quale un soggetto interessato in senso formale dal
provvedimento impugnato possa diventare parte del processo, allo scopo di tutelare, in
questa sede, un suo interesse sostanziale che, quando si tratti di un terzo, almeno stando
alla giurisprudenza, andrebbe identificato come un interesse di fatto. Secondo il C.P.A., una
volta instaurato il giudizio è possibile intervenirvi, sia volontariamente, sia per ordine del
giudice. / - Soggetti che possono esperire intervento: alla luce delle norme richiamate,
dunque, possono intervenire nel processo: a) i controinteressati interessati in senso formale
dal provvedimento impugnato che non abbiano ricevuto la notifica del ricorso; b) i
cointeressati interessati in senso formale dal provvedimento impugnato; c) i terzi rispetto
alla vicenda procedimentale che ha dato vita al provvedimento impugnato, che siano co
oppure controinteressati. / - Tipologie e categorie di interventi (ammissibilità o meno degli
stessi nel processo amministrativo): nel processo civile, si può intervenire per far valere un
diritto autonomo connesso, ma incompatibile, con il diritto fatto valere da entrambe le
parti in giudizio: questo intervento si definisce principale; si può intervenire, peraltro,
anche per far valere un diritto autonomo connesso e compatibile con il diritto fatto valere da
una soltanto delle parti in giudizio, segnatamente quella che ha proposto la domanda
principale: questo intervento si definisce litisconsortile, o adesivo autonomo; è possibile,
infine, un terzo tipo di intervento, quello adesivo dipendente, nel caso in cui il terzo faccia
valere un diritto che non è autonomo, poiché dipende dalla esistenza di quello vantato da
una delle parti. Orbene, tali categorie vengono assunte anche per il processo
amministrativo, sebbene ciò si faccia, per un verso, attribuendo a ciascuna di esse significati
non proprio uguali e, per un altro verso, non pervenendo alle stesse conclusioni circa la loro
ammissibilità: con riguardo all'intervento principale, infatti, esso viene considerato
inammissibile, sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza; quanto all'intervento adesivo,
mentre la giurisprudenza prevalente ritiene ammissibile soltanto quello dipendente, parte
della dottrina non esclude la proponibilità anche di un intervento adesivo autonomo. E'
necessario, inoltre, ribadire che nel processo amministrativo sono previsti due generi di
intervento: quello volontario e quello iussu iudicis, a seconda che esso venga proposto dal
soggetto legittimato, ovvero ordinato dal giudice. L'intervento volontario, a sua volta, può
essere di due specie: l'una, pacificamente ammessa, si definisce intervento adesivo
dipendente, ed è proponibile tanto dal controinteressato interessato in senso formale
pretermesso dalla notifica, tanto dal cointeressato interessato in senso formale, tanto dal
terzo; della cui ammissibilità, per contro, si discute, si definisce intervento adesivo
autonomo, ed è proponibile soltanto dal terzo. E' sicuramente escluso (come già riferito più
volte) il c.d. "Intervento principale", diversamente da quanto accade nel processo civile. /
- Schematizzando all’osso il concetto di intervento/i, non si può prescindere da questo
schema:
INTERVENTO. 1) volontario -> adesivo dipendente: del controinteressato interessato in
senso formale pretermesso, del cointeressato interessato in senso formale, del terzo;
adesivo autonomo: del terzo rispetto alla vicenda procedimentale dedotta in giudizio.
2) iussu iudicis.
*** Bisogna dire, inoltre, che tanto l'intervento adesivo dipendente, quanto quello
autonomo, vanno distinti, con riguardo al petitum (oggetto), in due diversi tipi: l'intervento
ad adiuvandum e l'intervento ad opponendum. La differenza relativa al contenuto del
petitum si basa sul fatto che con l'intervento si rappresenta un interesse omologo a quello
del ricorrente, ovvero a quello delle parti resistenti. Con il primo, l’interessato in senso
formale, o il terzo che siano co interessati, sostengono le ragioni del ricorrente; con il
secondo, invece, il controinteressato interessato in senso formale pretermesso, o il terzo che
sia contro-interessato, sostengono le ragioni della P.A. convenuta e dei controinteressati
costituiti, così rafforzandosi il contrasto al ricorso principale.
Tipi di intervento in relazione al loro contenuto: INTERVENTO
1) ad adiuvandum (dell'interessato in senso formale e del terzo che siano co-interessati);
2) ad opponendum (del controinteressato interessato in senso formale pretermesso; del
terzo contro-interessato).
L'intervento si definisce dipendente quando non introduce nuove cause petendi e dunque
non modifica il thema decidendum, potendosi, proprio per ciò, proporre anche oltre il
termine di decadenza. Si definisce, invece, autonomo quando modifica il thema decidendum,
potendosi per ciò proporre solo entro il termine di decadenza. L’intervento, infine,
dipendente o autonomo che sia, può essere ad adiuvandum oppure ad opponendum. Se si
tratta di intervento dipendente, quello ad adiuvandum è proposto dall’interessato in senso
formale e/o dal terzo che siano co-interessati, mentre quello ad opponendum è proposto dal
controinteressato interessato in senso formale pretermesso e/o dal terzo controinteressati.
Viceversa, se si tratta di intervento autonomo, quello ad adiuvandum è proposto dal terzo
controinteressato, mentre quello ad opponendum dal terzo controinteressato.
Veniamo ora ad esaminare le cc.dd. "criticità" che sono state manifestate sul tema da
dottrina e giurisprudenza, già prima dell’entrata in vigore del C.P.A., e perciò a prescindere
dalla ricostruzione sistematica che abbiamo testé presentato. Quest'ultime possono
sintetizzarsi come segue a) la qualificazione dell'interesse sostanziale in capo
all'interventore; b) l'ammissibilità dell'intervento adesivo autonomo e la consistenza di
siffatta autonomia; c) la possibilità di variare il thema decidendum ed il rapporto con la
perentorietà del termine decadenziale; d) gli intrecci fra intervento dipendente o autonomo,
da un lato, ed intervento ad adiuvandum o ad opponendum, dall'altro.
A) La qualificazione dell'interesse sostanziale in capo all'interventore. La questione
viene risolta in maniera non unanime in dottrina e in giurisprudenza. Stando alla
giurisprudenza, per quel che concerne l'intervento adesivo dipendente sussiste una
differenza tra quello possibile nel processo civile e quello possibile nel processo
amministrativo: con riferimento ai presupposti che essa ritiene necessari per la proponibilità
di siffatto intervento, nel processo civile occorre che l'interveniente vanti un interesse di
mero fatto, sia pur limitatamente al caso in cui l'interveniente sia un soggetto terzo rispetto
alla vicenda procedimentale che ha originato il giudizio. Volendo dar adito alla varietà di
posizioni, bisogna dire, che esse si diversificano a seconda che si ritenga sufficiente un
interesse semplice o di fatto, ovvero si consideri necessario un interesse giuridicamente
qualificato. Occorre riferire, poi, che, ai fini della qualificazione dell'interesse che dà il titolo
ad intervenire, si è solito distinguere tra quello che deve far capo all'interessato in senso
formale e quello che deve far capo al terzo. Quando ad intervenire sia appunto un terzo,
viene richiesta la titolarità di un interesse di fatto, diversamente del caso che si tratti di un
interessato in senso formale, controinteressato pretermesso o cointeressato che sia. A
seguire, almeno secondo una parte della giurisprudenza amministrativa, dovrebbe
addirittura ritenersi che, laddove il contro interessato pretermesso sia detentore di un
interesse legittimo suscettibile di ricevere una lesione dell'esito del giudizio già instaurato,
lesione che intende far valere ampliando il thema decidendum, egli non potrebbe tutelarlo
attraverso il solo intervento dipendente, dovendo bensì successivamente integrarlo
presentando un ricorso incidentale. Ad una più attenta riflessione, questa posizione della
giurisprudenza sembra dipendere dall'assumere una definizione di interesse di fatto diversa
da quella prevalente, secondo cui si tratta di un interesse giuridicamente irrilevante che,
pertanto, sarebbe insuscettibile di tutela giurisdizionale. In realtà, ciò che la giurisprudenza
pare voler intendere è che l'interesse in parola non può essere legittimo perché sarebbero
qualificabili come tali solo quelli che si riferiscono direttamente alla vicenda procedimentale
dedotta in giudizio: esso, dunque, perciò sarebbe di fatto, perché si riferisce solo
indirettamente a detta vicenda.
B) L'ammissibilità dell'intervento adesivo autonomo e la consistenza di siffatta autonomia.
Come noto, prima dell’avvento del C.P.A. era possibile che i titolari di qualsivoglia interesse
implicato nella vicenda processuale accedessero al giudizio, affiancando una delle parti
contendenti. Naturalmente, doveva trattarsi di un interesse in qualche modo dipendente da
quello di una delle parti, giacché, se così non fosse stato, sarebbe versato nell'ipotesi
dell'intervento adesivo autonomo, la proponibilità del quale è invece esclusa. Anche secondo
una giurisprudenza recente, nel processo amministrativo sarebbe ammissibile soltanto
l'intervento adesivo dipendente. L'esclusione in parola, tuttavia, sembra non può dirsi così
rigorosamente predicare, soprattutto dopo l'entrata in vigore del C.P.A. Posto che per
adesivo autonomo si intenda l'intervento che modifica il thema decidendum, volto a tutelare
un interesse non direttamente coinvolto nella vicenda procedimentale dedotta in giudizio, in
quanto tale, perciò, spettante solo al terzo; va riferito di un'altra giurisprudenza secondo la
quale l'intervento adesivo autonomo è possibile anche nel processo amministrativo, purché
venga proposto nel medesimo termine perentorio previsto per l'impugnazione principale. In
realtà, la giurisprudenza richiamata prende in considerazione il rischio di elusione del
termine per presentare ricorso che si correrebbe ove si ritenesse proponibile un intervento
adesivo autonomo oltre tale termine. Al riguardo dobbiamo tener presente, per un verso,
che il contro interessato pretermesso, se vuole ampliare il thema decidendum, non può
proporre intervento adesivo autonomo, bensì un intervento che prelude ad un ricorso
incidentale; e, per altro verso, se vuole proporre intervento adesivo autonomo, così da
variare il thema decidendum, può farlo solo entro i termini. In definitiva, sembra si possa
affermare che il C.P.A. distingua l'intervento dell'interessato in senso formale, che sia contro
interessato pretermesso ovvero cointeressato, da quello del soggetto terzo, il quale, pur non
assumendo la veste di interessato in senso formale, vanta comunque un interesse che
potrebbe ricevere un beneficio, o un pregiudizio, indiretto e riflesso dall'accoglimento, o dal
rigetto, del ricorso principale. Ciò significa che, mentre al contro interessato pretermesso
l'intervento è consentito per recuperare la tutela che la mancata notifica del ricorso gli ha
precluso, egli potrebbe proporre a seguire ricorso incidentale; Al terzo, l'intervento è
consentito purché proposto entro i termini di decadenza: diversamente, scaduti i termini,
dovrà limitarsi alla proposizione di un intervento adesivo dipendente, ad opponendum o ad
adiuvandum nei confronti della domanda principale.
C) La possibilità di variare il Thema decidendum ed il rapporto con la perentorietà del
termine decadenziale. Gli interventori, almeno di regola, sono gravati da una significativa
limitazione, concernente la impossibilità di variare il thema decidendum. In altre parole,
considerando che l'intervento pacificamente ammesso nel processo amministrativo è quello
adesivo dipendente, gli interventori normalmente entrando nel giudizio soltanto per
sostenere la parte di cui condividono la posizione, si capisce perché il loro atto non dovrebbe
consentire di introdurre nuove censure. A dire il vero, una volta che si consideri ammissibile
l'intervento adesivo autonomo non sembrano esservi ostacoli nel ritenere ampliabile il thema
decidendum, purché ciò si faccia entro il termine decadenziale.
D) Gli intrecci fra intervento dipendente o autonomo, da un lato, ed intervento ad
adiuvandum o ad opponendum, dall'altro. Orbene, sembra evidente che l'intervento adesivo
dipendente, siccome con esso non si varia il thema decidendum, potrebbe essere, quanto al
contenuto, sia quando ad adiuvandum sia ad opponendum. Anche l'intervento adesivo
autonomo, sebbene comporti il mutamento del thema decidendum, potrebbe essere, quanto
al contenuto, sia ad adiuvandum sia ad opponendum. Ciò significa che quello ad
adiuvandum, ove proposto dal cointeressato interessato in senso formale, potrebbe essere
soltanto un intervento dipendente, perché, ove l'Interventore lamenti la lesione di un
interesse legittimo, dovrebbe proporre un autonomo ricorso entro il termine di decadenza.
Anche l'intervento ad opponendum potrebbe essere soltanto dipendente, perché il contro
interessato pretermesso, ove intenda far valere la visione di un interesse legittimo, dovrebbe
integrare l'intervento con ricorso incidentale. Viceversa ove proposto dal terzo, sia quello ad
adiuvandum, sia quello ad opponendum, potrebbero essere interventi, non solo dipendenti,
ma anche autonomi, giacché l'interventore, purché entro i termini, può ampliare il thema
decidendum. /
- Riepilogazione, del concetto di intervento, in punti concettuali: ecco qui un breve riepilogo
di quanto suddetto: A) Per costituirsi in giudizio, i contro interessati in senso formale
dispongono, a seconda delle circostanze, oltre che del controricorso e del ricorso incidentale,
anche di un altro strumento: possono entrare nel giudizio mediante un atto di intervento. In
tal caso lo scopo che si è perseguito può consistere nel semplice dare ulteriore sostegno alle
ragioni della parte resistente ed i contro interessati costituiti, oppure nel tutelare le proprie
ragioni attraverso la successiva, conseguente, presentazione di ricorso incidentale.
L'intervento del contro interessato pretermesso dalla notifica, quindi, sarà ad opponendum
perché spiegato per appoggiare la posizione della P. A. resistente e dei contro interessati
costituiti. Questo, vuol dire che il contro interessato pretermesso, il quale intervenga ad
opponendum limitandosi a chiedere il rigetto del ricorso principale, sia in qualche modo
assimilabile al contro interessato destinatario della notifica che presenta controricorso.
B) Per costituirsi in giudizio, i cointeressati interessati in senso formale dispongono di un
unico strumento: l'intervento adesivo dipendente ad adiuvandum, che intende perciò
appoggiare la posizione del ricorrente.
C) D'altra parte, anche i terzi possono entrare nel giudizio mediante un atto di intervento: il
loro scopo può consistere, non diversamente dagli interessati in senso formale, il semplice
dare sostegno alle ragioni del ricorrente o dei resistenti, nel qual caso presenteranno un
intervento adesivo dipendente, rispettivamente ad adiuvandum o ad opponendum; oppure
nel tutelare il proprio ulteriori ragioni, nel qual caso potranno presentare, ma solo entro i
termini decadenziali, un intervento adesivo autonomo. Come il controinteressato
pretermesso, anche il terzo che intervenga ad opponendum limitandosi a chiedere il rigetto
del ricorso principale sembra doversi assimilare al contro interessato destinatario della
notifica che presenta controricorso. Per contro, il terzo che intervenga ad adiuvandum si
potrà assimilare, per un verso, nel caso di intervento dipendente, al ricorrente principale,
ovvero al cointeressato interessato in senso formale che si sia costituito; per altro verso, nel
caso di intervento autonomo, si potrà assimilare al controinteressato destinatario della
notifica che presenta ricorso incidentale./- Modalità formali:per quel che concerne le
modalità formali, l'intervento volontario è proposto con atto diretto al giudice adito, recante
l'indicazione delle generalità dell'interveniente, atto che deve contenere le ragioni su cui si
fonda, con la produzione di documenti giustificativi. Esso deve essere notificato alle parti e
depositato nei termini previsti per il ricorso./ - Intervento per ordine del giudice: va
sottolineato anzitutto che il suo scopo principale sta indubbiamente nel doversi garantire la
piena partecipazione degli interessi al giudizio. Il giudice amministrativo, laddove lo ritenga a
tal fine necessario, può ordinare di intervenire anche ai terzi interessati ad esso: come
abbiamo già riferito, infatti, il comma 3 dell'articolo 28, C.P.A., prevede espressamente che il
giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei
confronti di un terzo, ne ordina l'intervento. Intervento di cui all'articolo 28, il giudice altresì
ordina alla parte di chiamare il terzo in giudizio, indicando gli atti da notificare e il termine
della notificazione. L'interventore deve accettare lo Stato e il grado in cui il giudizio si trova.
Egli deve costituirsi secondo le modalità di cui all'articolo 46, il primo comma del quale
stabilisce che le parti intimate possono costituirsi, presentare memorie, fare istanze, indicare
i mezzi di prova di cui intendono valersi nonché di produrre documenti nel termine di 60
giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso. Quanto al
deposito, va ribadito che quello dell'atto di intervento del terzo è ammesso fino a 30 giorni
prima dell'udienza. Da quanto abbiamo appena riferito emerge abbastanza nitidamente il
collegamento fra l'istituto dell'intervento iussu iudicis e quello della integrazione del
contraddittorio: v'è fra essi una evidente identità di scopo, essendo indiscutibile che anche
per l'integrazione del contraddittorio vale quanto abbiamo affermato poc'anzi circa la
tendenza dell'ordinamento a voler garantire la più piena possibile partecipazione degli
interessi al giudizio. Il C.P.A. qualifica come intervento per ordine del giudice soltanto la
fattispecie di cui all'articolo 28, comma 3. Viceversa, nelle ipotesi di cui all'articolo 27,
comma 2, il giudice ordina soltanto la integrazione del contraddittorio, con ciò lasciando la
scelta di intervenire o meno alla parte nei cui confronti si realizza l'integrazione: quello
sollecitato dall'ordine di integrazione del contraddittorio, pertanto, può essere considerato
comunque con un intervento volontario. / - Integrazione del contraddittorio: il ricorso deve
essere notificato ad almeno uno dei contro interessati in senso formale perché individuati
nell'atto impugnato, ovvero da questo facilmente desumibili. Ove esistano altri interessati
non evocati in giudizio, il presidente o il collegio ordina l'integrazione del contraddittorio nei
loro confronti, fissando il relativo termine e indicando le parti cui il ricorso deve essere
notificato, anche per pubblici proclami. L’integrazione del contraddittorio, quindi, può
riguardare sia i contro interessati in senso formale che non abbiano ricevuto la notifica del
ricorso, sia i contro interessati in senso soltanto sostanziale, ossia i terzi che meritano tale
qualificazione in ragione della utilità che traggono dall'atto impugnato. Essendo stati
implicati nella vicenda procedimentale che ha dato vita ad esso, è data la possibilità a questi
ultimi di utilizzare uno solo degli strumenti di tutela che sono nella disponibilità dei contro
interessati in senso formale ai quali non è stato notificato il ricorso: l'intervento appunto. Se
l'obiettivo che l'ordinamento persegue con questo istituto è lo stesso che si prefigge con
l'intervento iussu iudicis, differenti sono le modalità di accesso al processo: con
l'integrazione del contraddittorio il giudice amministrativo ordina al ricorrente di notificare il
ricorso ad altri contro interessati in senso formale, o anche a soggetti terzi, non inducendo
questi ultimi a costituirsi, ma bensì li si mette nella condizione di farlo se ritengono di volerlo
fare. E’ evidente che il giudice non ordinerà l’integrazione del contraddittorio allorché il
ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato. Nel qual
caso procede con sentenza in forma semplificata, ex articolo 74. Laddove l'atto di
integrazione del contraddittorio non è tempestivamente notificato e depositato, il giudice
deve dichiarare il ricorso irricevibile. Al fine di rendere effettiva la tutela, il legislatore
prevede espressamente che i soggetti nei cui confronti è integrato il contraddittorio non
sono pregiudicati degli atti processuali anteriormente compiuti.
7. La tutela cautelare
Anche per il processo dinanzi al giudice amministrativo è prevista un'azione cautelare, allo
scopo di offrire al ricorrente la possibilità di impedire che l’eventuale utilità conseguibile con
una sentenza favorevole possa essere resa vana dagli effetti prodottisi nelle more dello
svolgimento del giudizio, in attesa della sentenza che lo concluderà. La tutela cautelare, nel
processo amministrativo, ha sempre il carattere della strumentalità: realizza, infatti,
l’interesse ad evitare che la durata del giudizio possa rendere praticamente inutile, per il
ricorrente, la decisione finale. L’esecuzione di un provvedimento amministrativo può
compromettere in modo molto grave, talvolta irreversibile, la posizione del destinatario del
provvedimento; si pensi ad un provvedimento di esproprio, dal quale può derivare la
trasformazione dell’area, tale da precludere la stessa possibilità di restituzione al privato.
Dove il provvedimento fosse illegittimo, e venisse annullato in un secondo momento, la
sentenza di annullamento non soddisferebbe comunque l’interesse leso del cittadino; la
tutela cautelare previene al danno, previene al “materiale danno in capo al ricorrente” che
può facilmente scaturire da queste non rare situazioni. / La legge Crispi del 1889
prevedeva che l’impugnazione del provvedimento non avesse “effetto sospensivo”; il ricorso
al giudice amministrativo non incideva sull’efficacia e l’esecuzione del provvedimento
impugnato; già subito dopo l’entrata in vigore della legge che istituì la 4 sez. del Consiglio di
Stato, fu ammesso che il ricorso a tale organo sospendesse l’efficacia del provvedimento
impugnato. / Il c.p.a. si attiene alla regola per cui nel giudizio promosso per l’annullamento
di un provvedimento, tale ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato;
è onere della parte ricorrente per l’annullamento richiedere una misura cautelare del giudice
amministrativo per evitare che le sue ragioni possano essere compromesse durante il tempo
necessario per la decisione del ricorso (art. 55). /Il c.p.a. prevede tre categorie di misure
cautelari: - collegiali; -monocratiche; -ante causam; dai principi generali si ricava la
definizione dei presupposti per la misura cautelare, presupposti che sono“fumus bonis iuris”
e “periculum in mora” (A) fumus bonis iuris – deve esserci “parvenza” che il ricorso sia
fondato; il giudice deve verificare che ipoteticamente il ricorso sia fondato, che l’attore sia
legittimo, e che l’azione non sia manifestamente infondata e tardiva (ragionevole previsione
dell’esito del ricorso). (B) periculum in mora – l’art 55 identifica tale elemento nella
possibilità di “subire un pregiudizio grave ed irreparabile” dal provvedimento impugnato
“durante il tempo necessario a giungere alla decisione del ricorso”. Tale pregiudizio va
specificato dal ricorrente nella istanza. Abbiamo detto deve essere pregiudizio grave e
irreparabile; grave: il giudice deve valutare se quel pregiudizio possa essere difficilmente
sopportabile per il ricorrente; irreparabile: il giudice deve valutare se, non concedendo la
tutela cautelare, dal provvedimento il ricorrente potrebbe avere un pregiudizio tale da
perdere per sempre quella utilità./
In passato si discuteva del fatto che la tutela cautelare nel processo amministrativo avesse
un suo volto tipico: la sospensione del provvedimento. Vista la sua natura interinale rispetto
alla impugnazione del provvedimento, si pensava che ovviamente il fine ultimo della
impugnazione (la tutela caducatoria) fosse coincidente con il fine temporaneamente
garantito dalla tutela cautelare (una tutela caducatoria temporanea, con la sospensione degli
effetti). Oggi la giurisprudenza è orientata per una tutela cautelare dal contenuto atipico,
modellata sul caso concreto, di volta in volta idonea ad assicurare interinalmente gli effetti
della decisione del ricorso. Il limite che ovviamente incontra il giudice, nel prevenire
attraverso la tutela cautelare, è di non poter mai DETERMINARE LA DEFINIZIONE DEL
GIUDIZIO. /
Sulla misura cautelare provvede generalmente il collegio in camera di consiglio. L’art 56
prevede che nei casi di estrema urgenza ed estrema gravità, tali da non consentire neppure
la dilatazione fino alla camera di consiglio, la misura cautelare può essere richiesta al
Presidente del Tar, o della sezione cui il ricorso principale sia stato assegnato, previa notifica
della istanza alle parti.
Quand'anche il ricorrente veda accolta la domanda cautelare, ciò non significa che ciò farà
conseguire anche l'accoglimento del ricorso: il giudice in sede cautelare, valutando che il
ricorso non sia del tutto infondato, deve stabilire soprattutto se, nel tempo necessario per
pervenire alla sentenza di merito, al ricorrente potrebbe derivare un grave pregiudizio e che
neanche una sua eventuale sentenza favorevole non sarebbe in grado di riparare. D'altro
canto, i provvedimenti cautelari possono distinguersi in relazione alla forma dell'atto con cui
sono assumibili, E cioè a ) La ordinanza collegiale ex articolo 55; b) il decreto monocratico,
sia quello pronunciabile in causa ex articolo 56, sia quello pronunciabile ante causam ex
articolo 61, sia, infine, quello pronunciabile nelle more dell'integrazione del contraddittorio.
Da ultimo, il c.p.a. ha esteso la possibilità di una tutela cautelare ante causam, in caso di
eccezionale gravità e urgenza tale da non consentire neppure la previa notifica del ricorso.
Chi sia legittimato a presentare ricorso può fare istanza al presidente del TAR e chiedere
l’adozione delle misure interinali (cautelari) necessarie per assicurare la tutela fino a quando
non possa essere proposto ricorso e non possa essere trattata l’istanza cautelare nelle forme
ordinarie (art. 61). La misura cautelare è destinata a valere fino alla pronuncia cautelare
collegiale, successiva alla notifica del ricorso.
8. I MOTIVI AGGIUNTI
Come abbiamo visto, il termine di decadenza per ogni azione proponibile dinanzi al giudice
amministrativo, a cominciare da quella caducatoria, è perentorio, e decorre dal momento
della notificazione, comunicazione o pubblicazione del provvedimento impugnato, ovvero
almeno della sua conoscenza. L’istituto dei motivi aggiunti nasce per attutire la rigidità
assoluta del principio della perentorietà dei termini di decadenza, consentendo di integrare,
scaduti i termini, in presenza di determinate circostanze ed a certe condizioni, la domanda
proposta dal ricorrente entro i termini. E’ del tutto evidente che, ove fosse stato possibile
inserire motivi aggiunti nelle more del giudizio, il principio della perentorietà dei termini di
impugnazione sarebbe venuto meno; questo istituto, quindi, esiste perché, nel caso in cui la
conoscenza del provvedimento al momento della sua impugnazione non fosse stata idonea
ad individuare tutti gli elementi residui, per evitare che si determinasse la scadenza del
termine, occorreva agire in giudizio, facendo valere i vizi ricavabili dalla conoscenza parziale
dell'atto impugnato, questa perfezionandosi, di regola, solo quando la pubblica
amministrazione intimata lo avesse depositato in giudizio; naturalmente, permanendo il
principio della perentorietà dei termini, quello per proporre le integrazioni sarebbe
comunque decorso dal momento in cui il ricorrente avesse acquisito la piena conoscenza
dell'atto impugnato. L’istituto fu introdotto nell'ordinamento ad opera della giurisprudenza, la
quale ha progressivamente provveduto ad estendere la sua applicazione anche ai casi di
acquisizione della conoscenza, successiva alla presentazione del ricorso, di altri atti dei quali
si ricavavano ulteriori elementi della illegittimità del provvedimento impugnato. In origine,
quindi, esso consentiva che il ricorrente principale ampliasse la causa petendi contenuta nel
ricorso, facendo valere vizi del provvedimento già impugnati di cui era venuto a conoscenza
dopo lo spirare del termine decadenziale. Prima della sua introduzione, allo scopo di evitare
la decadenza, si era in un certo senso costretti ad inserire nel ricorso ogni possibile genere
di motivi, dovendo fare esercizio, per così dire, di una certa qual “fantasia difensiva”. / -
Disciplina sul piano del diritto positivo: una volta codificato l’istituto, la sua disciplina ha
conosciuto, nel tempo, significative modificazioni. Recependo l’orientamento di parte della
giurisprudenza, già la legge 205 del 2000 aveva introdotto l'onere per il ricorrente di
impugnare con motivi aggiunti anche gli atti diversi dal provvedimento già gravato che
fossero con questo connessi. Il C.P.A. non solo ribadisce tale possibilità, ma consente,
altresì, al ricorrente di aggiungere nuove domande a quelle già proposte. Ed infatti, la
disposizione oggi vigente, articolo 43 C.P.A., al comma 1 così recita: "i ricorrenti, principale e
incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande
già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte”. Ai motivi
aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, compresa quella relativa ai termini: i
motivi aggiunti, quindi, sottostanno allo stesso regime giuridico del ricorso, dovendo perciò
essere notificati alla pubblica amministrazione e ad almeno uno dei contro interessati. [* ES.
Oggi, laddove con ricorso sia stata proposta, ad esempio, l'azione di annullamento
deducendo solo una violazione di legge, ma, in seguito ad una successiva presa visione del
provvedimento, ci si è scoperto che questo è viziato anche da un eccesso di potere non
conoscibile alla luce degli elementi a disposizione al momento della presentazione del
ricorso, è possibile addurre tale vizio in aggiunta ed integrazione dei motivi di ricorso. Il
ricorrente inoltre può anche proporre domande nuove purché connesse a quelle già
proposte, e cioè, esaminato il provvedimento del quale chiesto soltanto l'annullamento,
scoprendo solo ora, ad esempio, che esso manca della sottoscrizione, ovvero che, alla luce
di nuovi elementi emersi, è configurabile la sussistenza di un danno risarcibile, può
promuovere anche, rispettivamente, l'azione di nullità oppure l'azione di condanna.] La ratio
legis della disciplina vigente, dunque, si rivela più ampia di quella originaria; lo si ricava
facilmente dall'esplicito disposto del 3 ° comma dell'articolo 43, secondo cui "se la domanda
nuova di cui al comma 1 è stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso tribunale,
il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai sensi dell'articolo 70"; è evidente che il
legislatore, con ciò, intende soddisfare una ulteriore esigenza: favorire la concentrazione
delle azioni e, così, la celerità nel rendere giustizia. Va rimarcato, comunque, che,
nonostante l'ampliamento del loro oggetto, gli aggiunti non possono intendersi come uno
strumento utile per giustificare la eventuale inadempienza e negligenza dell'avvocato.
Inoltre, è doveroso dover ricordare che i motivi aggiunti possono essere presentati anche nel
giudizio di appello dinanzi al Consiglio di Stato. / - Ricapitolando l’istituto dei motivi
aggiunti: sono quelle doglianze del ricorrente aggiunte in un momento successivo alla
proposizione del ricorso iniziale. In passato si riteneva che una volta decorso il termine
perentorio per presentare l’azione di annullamento non era possibile presentare nuove
censure; questa rigidità, però, esponeva il diritto d’azione all’annichilimento, perché spesso il
cittadino viene a conoscenza di un vizio solo in un momento successivo; per rimediare a
questo gap di tutela giurisdizionale, la giurisprudenza ha introdotto la possibilità, per il
ricorrente, che abbia previamente impugnato il provvedimento, e solo successivamente
conosciuto di ulteriori vizi, di integrare il ricorso con i motivi aggiunti. Con essi ci si riferisce
non solo a vizi dell’atto già impugnato, ma anche vizi di altri provvedimenti, purché connessi
con quello impugnato. L’impugnazione con motivi aggiunti, anziché con ricorsi separati,
realizza esigenze di economia processuale; tali esigenze individuate dalla giurisprudenza
sono state poi accolte dalla legge 205/2000 e riportate nel C.P.A.
I motivi aggiunti vanno notificati alle altre parti del giudizio entro il termine perentorio di 60
giorni dalla conoscenza dei nuovi documenti.
Oggi, i poteri d’intervento del giudice, come detto, consistono per lo più nel riequilibrio di
quel distacco di posizioni che inevitabilmente esiste tra ricorrente e amministrazione
resistente, che ovviamente è in possesso di materiale probatorio legato al procedimento
relativo al provvedimento impugnato; per questa ragione, l’attività istruttoria del giudice si
traduce spesso nell’ordine alla PA a consegnare i documenti delle quali è in possesso.
In particolare gli articoli 64,3 e l’art 66 c.p.a. sanciscono i tre principali mezzi istruttori:
(1) richiesta di chiarimenti : consiste nella richiesta alla PA di informazioni sui fatti rilevanti
per il giudizio; (2) richiesta di documenti : richiesta a che la PA consegni i documenti
rilevanti in suo possesso; (3) verificazioni : possono avere contenuti molto ampi. Il giudice
con esse può acquistare anche elementi tecnici che siano necessari all’apprezzamento dei
fatti. Prima la verificazione era demandata esclusivamente alla PA: molto spesso era la
stessa amministrazione resistente, e ciò metteva in forte dubbio la coerenza di un tale
istituto alla stregua della uguaglianza delle parti, posto che in tal modo la PA veniva investita
di un ruolo preminente nell’istruttoria; tale gravità era poi sugellata dal fatto che era
preclusa la classica consulenza tecnica, il che vincolava il giudice a richiedere alla PA tutti gli
accertamenti di carattere tecnico. Il codice ha cercato di bilanciare l’imperfezione dell’istituto
della verificazione, prevedendo che il giudice possa ordinare di eseguire la verificazione ad
un “organismo”, il che apre la possibilità di richiesta anche a soggetti che non siano soggetti
pubblici e che siano esterni al processo; ma, pur prevedendo la possibilità di nomina di un
soggetto esterno, ciò non impedisce che possa essere deputata dal giudice la stessa
amministrazione resistente, il che quindi non sfugge a critiche; sarebbe stato più opportuno
valorizzare la consulenza tecnica, introdotta con la 205/2000 e cristallizzata nel codice, ma
che resta comunque strumento successivo alla verificazione e soprattutto strumento
eccezionale. /
Comunque, oltre ai 3 classici strumenti che tradizionalmente possono essere esperiti in sede
istruttoria dal giudice, merita attenzione anche
la testimonianza : che è ammessa solo su istanza di parte, e avviene in forma scritta; per
essa non può che non esprimersi una critica relativamente al modo in cui essa è introdotta
nel procedimento amministrativo: mentre infatti nel processo civile la prova scritta richiede il
consenso delle parti, e dove questo manchi può essere assunta direttamente dal giudice ;
nel processo amministrativo la prova può essere solo scritta. Inoltre nel processo civile la
prova è oggetto di libero apprezzamento da parte del giudice, nel processo amministrativo
nulla di tutto ciò. Questo comporta degli inconvenienti sulla ragionevolezza dell’istituto,
perché sacrifica la celerità processuale ad una plausibile necessità del giudice di chiedere
l’audizione di un teste.
7. La decisione
Affinché il ricorso possa essere deciso, è necessario che sia richiesta, con una apposita
istanza, la fissazione di una udienza di discussione. In caso di urgenza, la parte può chiedere
di anticipare la data di udienza al presidente del TAR con un istanza che si definisce “istanza
di prelievo”; una volta presentata l’istanza, il Presidente del TAR fissa l’udienza di
discussione, dandone comunicazione alle parti, con un preavviso di almeno 60 giorni.
Le parti costituite possono depositare: documenti fino a 40 giorni prima dell’udienza,
memorie conclusionali fino a 30 giorni prima, memorie di replica fino a 20 giorni prima.
Nell’udienza, che è pubblica, ciascuna parte può illustrare le proprie ragioni, e una volta
terminata la discussione, il TAR procede alla decisione del ricorso e quindi alla sentenza.
Un’ipotesi particolare è quella della sentenza in forma semplificata, che la si ha nei casi in cui
il ricorso sia manifestamente fondato o manifestamente infondato, o inammissibile o
improcedibile. Si caratterizza per una motivazione sintetica sui soli profili decisivi della
vertenza. Altra ipotesi particolare è quella in cui il giudice definisce il giudizio con decreto
presidenziale, nei casi di estinzione o improcedibilità del ricorso.
8. Il rito camerale
Nel quarto libro del codice sono contemplati anche vari riti speciali, che presentano profili di
peculiarità anche quanto a svolgimento del giudizio, e che attengono alle vertenze di
specifiche materie. Più in generale, il codice del processo amministrativo prevede
svolgimento più celere, che viene designato nella prassi come "rito camerale", per alcune
controversie. Si tratta del giudizio di ottemperanza, del giudizio sul silenzio, del giudizio in
materia di accesso, delle opposizione ai decreti presidenziali di estinzione o improcedibilità
del giudizio, oltre che di alcune ulteriori controversie in grado d'appello. Queste controversie,
in relazione al progetto, richiedono, o ammettono, una decisione in tempi ravvicinati,
pertanto anche gli adempimenti delle parti sono assoggettati a tempi abbreviati: tutti i
termini processuali sono ridotti a metà, salvo quelli per la notifica del ricorso principale, del
ricorso incidentale e dei motivi aggiunti nel giudizio di primo grado. Nei giudizi in esame, per
la decisione dei ricorsi non è necessaria un'istanza di fissazione di udienza e la trattazione è
fissata d'ufficio, con particolare celerità: di regola il ricorso è trattato nella prima camera del
consiglio utile, decorsi 30 giorni dalla termine dalla scadenza del termine per la costituzione
delle parti intimate. Il giudice amministrativo decide il ricorso senza necessità di un'udienza
pubblica, ma semplicemente in camera di consiglio.
LE IMPUGNAZIONI in generale (da pag. 312 a pag. 321): Il libro terzo del c.p.a detta la
disciplina generale delle impugnazioni delle sentenze dei GA, alla voce “impugnazioni in
generale”, artt. 91-99 ; premettiamo il tema dicendo che prima della venuta in essere del
c.p.a la disciplina delle impugnazioni era estremamente lacunosa, soprattutto per quanto
concerne le impugnazioni incidentali, la disciplina del contraddittorio e così via dicendo; il
c.p.a ha introdotto una puntuale disciplina delle impugnazioni, ma rimangono, ciò
nonostante, aperti ed irrisolti alcuni interrogativi, che vengono normalmente risolti allor
quando si fa rinvio alla disciplina processuale civilistica del c.p.c ; anzitutto, passando alla
descrizione concreta di ciò che più ci interessa, diciamo che sono previsti vari mezzi di
impugnazioni: nei confronti delle sentenze del TAR è ammesso l’appello al Consiglio di Stato,
nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per cassazione per
motivi di giurisdizione, nei confronti delle sentenze del TAR e del Consiglio di Stato sono
ammessi revocazione e l’opposizione di terzo (ogni mezzo di impugnazione ha un
regolamento di competenza). / – Primi articoli della disciplina: I primi articoli di questa
disciplina regolano profili di ordine essenzialmente formale, come quello dei termini entro cui
vanno notificate le impugnazioni, il luogo in cui vanno eseguite le notifiche ed il termine per
il deposito dopo la notifica: per quanto concerne il termine per proporre la impugnazioni,
abbiamo 2 termini perentori, e cioè il “breve” di 60 gg dalla ricezione della notifica della
sentenza ed il “lungo” di 6 mesi dalla pubblicazione delle sentenza (ciò che avviene quando
non vien disposta notifica); per quanto concerne il luogo in cui vanno eseguite le notifiche,
diciamo che la notifica va effettuata alla controparte presso la residenza dichiarata nella
causa; per quanto concerne il deposito dopo la notifica, diciamo che il deposito va effettuato
presso la cancelleria del giudice adito e va effettuato entro 30 gg dalla ultima notifica. /-
Altri artt. della disciplina (alcuni temi importanti per l’assetto dei mezzi di impugnazione)
(artt. 95 – 98): A) il CONTRADDITTORIO: è disciplinato da due profili nodali e cioè la
individuazione delle parti necessarie e le modalità per evocarle in giudizio rispetto al
secondo profilo il codice ripropone le soluzioni accolte dalla giurisprudenza precedente (si
veda Consiglio di Stato), mentre, rispetto al primo profilo, il codice identifica come parti
necessarie del giudizio di impugnazione “tutte le parti in causa” nelle impugnazioni di
sentenze pronunciate “in causa inscindibile o in causa tra loro dipendenti”, nonché “le parti
che hanno interesse a contraddire” e “negli altri casi, nei confronti delle sole parti che hanno
interesse a contraddire” (in ogni modo, anche questa disciplina va valutata alla luce della
giurisprudenza precedente, ad esempio prendendo come riferimento l’adunanza plenaria che
stabilisce che è esclusa la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei c.d.
soccombenti, cioè coloro che risultano soccombenti nel giudizio di primo grado). B) le
IMPUGNAZIONI INCIDENTALI: tema che rappresenta uno dei profili cruciali nella
disciplina della impugnazione delle sentenze; profilo, questo, che si verifica spesso
soprattutto quando si ha a che fare con una causa in cui vi sono una molteplicità di soggetti
oppure quando si ha a che fare con situazioni intermedie di accoglimento parziale, dove, per
l’appunto, la impugnazione della sentenza (in queste 2 ipotesi esemplificative) coinvolge
interessi variegati di soggetti diversi, ed ecco perché viene a nascere la netta esigenza di
una disciplina che assicuri un certo ordine nelle impugnazioni che si riferiscono ad una
identica sentenza; in proposito, analogamente a quanto accade nel processo civile, il c.p.a
sancisce l’obiettivo della concentrazione delle impugnazioni in una medesima sentenza al
fine di realizzare una pulita economia processuale, tanto è vero che viene richiamato
esplicitamente l’art. 333 c.p.c che impone a chi abbia ricevuto la notifica della impugnazione
di una sentenza di proporre le proprie doglianze nei confronti della stessa sentenza
mediante una impugnazione incidentale nel medesimo processo di conseguenza anche
nel processo amministrativo vige la regola secondo cui tutte le impugnazioni successive alla
prima devono essere proposte dalle altre parti con un’impugnazione incidentale, nel giudizio
promosso per effetto della prima impugnazione, anche se rispetto a questa soluzione,
comune al processo civilistico, il c.p.a presenta alcune particolarità di rilievo, difatti, per
consentire alle altre parti di proporre una impugnazione nel nuovo grado di giudizio, il c.p.c
considera due situazioni distinte (in questo modo si intende attuare la esigenza di porre a
conoscenza delle altri parti la circostanza che sia stata impugnata una sentenza ai fini delle
loro eventuali impugnazioni incidentali): la prima situazione concerne la sentenze civile
pronunciata fra più parti in una causa “inscindibile o in causa tra loro dipendenti”, dove, se
l’impugnazione non sia stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina la integrazione
del contraddittorio nei confronti delle altre parti; la seconda situazione concerne invece di
sentenza pronunciata fra più parti in cause “scindibili”, dove,4 se l’impugnazione non sia
stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina la integrazione del contraddittorio nei
confronti delle altre parti, per consentire anche a loro di proporre impugnazione nel
medesimo giudizio (risulta chiaro che, in tale caso, la integrazione del contraddittorio ha lo
scopo di portare a conoscenza delle altre parti l’esistenza dell’impugnazione, al fine che esse
possano proporre a loro volta una impugnazione incidentale); l’ipotesi dell’impugnazione in
cause “scindibili” fra più parti è rilevante nel processo amministrativo, soprattutto perché
parliamo di situazioni che si verificano con grande frequenza; abbiamo quindi, possiamo dire
in conclusione, capito che appare maggiore il rischio che nei confronti di una identica
sentenza sia proposta una pluralità di impugnazioni separate (rischio, questo, accertato ed
accettato dallo stesso codice che regola situazioni fattuali del genere). C) TERMINE delle
impugnazioni incidentali: l’impugnazione incidentale di regola deve essere notificata alle altre
parti nel termine di 60 giorni dalla notifica della prima impugnazione; l’impugnazione
incidentale proposta entro questo termine è tempestiva e può investire qualsiasi capo della
sentenza impugnata; esiste, inoltre, anche una impugnazione incidentale tardiva, ipotesi di
proposizione tardiva che si verifica allor quando passa il termine ordinario di cui surriferito di
60 giorni e le parti in cause “inscindibili” a cui sia stata ordinata la integrazione del
contraddittorio propongono la loro impugnazione incidentale (tardiva), impugnazione,
questa, che, quindi, può esser proposta solo da determinati soggetti e in determinate
situazioni particolari. D) nozione di CAPO della SENTENZA concernente il tema delle
impugnazioni incidentali: l’impugnazione di una sentenza non deve necessariamente
riguardare l’intera sentenza impugnata, ma può riguardare anche solo una parte di essa ; è
chiaro che chi propone la impugnazione critica generalmente la sentenza con riferimento alle
parti della sentenza stessa che risultano in qualche modo contrarie ai propri interessi; a
questo stesso fine, seguendo questo fine ragionamento, è essenziale capire quale parte di
una sentenza sia passibile di autonoma contestazione: per questa ragione, si suole
identificare una entità minima della sentenza , il c.d. capo di sentenza; la nozione di capo di
sentenza, dibattuta nel processo civile, risulta controversa ancor di più nel processo
amministrativo , soprattutto con riferimento all’azione di annullamento, dove si aggiungono
problemi specifici, connessi particolarmente alla rilevanza dei motivi della impugnazione e
quindi all’assunzione del motivo come elemento caratterizzante per l’azione; risultato di
queste incertezze è, in dottrina, la presenza di interpretazioni che, con riferimento sempre
all’azione di annullamento, spaziano dalla tesi che identifica il capo della sentenza in base al
petitum del ricorso, e che quindi delimita un ambito più ampio per la nozione di capo di
sentenza, a quella che invece identifica il capo con il singolo determinato profilo di
illegittimità fatto valere nel ricorso; su una posizione intermedia si colloca la tesi di NIGRO,
secondo cui la nozione di capo della sentenza dovrebbe essere conformata alle utilità che
l’accoglimento di una censura comporta per il ricorrente, tenendo conto di tutti gli effetti
della sentenza di annullamento in questo modo, il capo della sentenza non
corrisponderebbe al singolo motivo di ricorso, né alla domanda complessiva di annullamento
di un atto amministrativo, ma si identificherebbe in base a una qualità degli effetti della
sentenza; nella giurisprudenza amministrativa prevale la tendenza che identifica come unità
minima della sentenza qualsiasi pronuncia espressa su una questione sollevata dalle parti o
rilevata di ufficio nel giudizio di primo grado (capo della sentenza finisce così col risultare
non solo la pronuncia sul singolo vizio, ma anche il rigetto di ogni eccezione pregiudiziale o
preliminare). E) l’INTERVENTO: si capisca che nel giudizio di impugnazione può intervenire
solo “chi ha interesse”; interventi che deve essere proposto con un atto da notificare alle
parti altre. F) SOSPENSIONE della ESECUZIONE: nel giudizio promosso in seguito
all’impugnazione della sentenza può essere richiesta la sospensione dell’esecuzione della
sentenza stessa.
6. LA REVOCAZIONE
L’art. 106 c.p.a. ammette, nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato, il
rimedio della revocazione. Le previsioni del codice sono molto scarne: per quanto riguarda i
casi di revocazione, possiamo dire che non è dettata una disciplina specifica per il processo
amministrativo, ma è fatto rinvio al codice di procedura civile (art. 395 c.p.c.), mentre, per
quanto riguarda lo svolgimento del giudizio, opera il rinvio generale alla disciplina del
giudizio di primo grado (art. 38 c.p.a.). / I casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c.
riguardano:
1. la sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra.
2. la sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la
sentenza o che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate
false prima della sentenza.
3. il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la parte
non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto
dell’avversario. La revocazione presuppone in questo caso che il ritardo nella
scoperta del documento non sia imputabile a colpa della parte e che il documento
non fosse disponibile neppure nel giudizio di appello.
4. la sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti della
causa. Si tratta dell’ipotesi di revocazione più importante o discussa: l’errore di fatto
che consente la revocazione deve essere stato, ovviamente, determinante per la
sentenza, e non deve concernere le valutazioni dei fatti compiute dal giudice, ma
deve consistere in una errata od omessa percezione del contenuto materiale degli
atti o dei documenti prodotti nel giudizio.
5. la sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché non
abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Questa ipotesi di revocazione presuppone
l’identità degli elementi di identificazione dell’azione nei due diversi giudizi: pertanto
è stato escluso che la revocazione per contraddittorietà fra giudicati potesse essere
proposta da chi fosse rimasto estraneo ad uno dei due giudizi.
6. la sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in
giudicato. /
In tutti questi casi surriferiti si configurano vizi che, per la loro particolare gravità, hanno
giustificato la previsione di un rimedio eccezionale ad hoc. Nel processo amministrativo la
presentazione di ricorsi per revocazione si verifica con una certa frequenza, probabilmente
anche perché nei confronti delle sentenze pronunciate in grado d’appello non sono ammesse
altre ipotesi di impugnazione. / - Rapporto concettuale fra appello e revocazione: il c.p.a.
chiarisce il rapporto fra appello e revocazione, che era rimasto indefinito nella legge istitutiva
dei Tar. La revocazione nei confronti delle sentenze dei Tar è ammessa se i motivi non
possono essere dedotti con l’appello; dato che tutti i motivi di revocazione sono
astrattamente deducibili nell’appello, questa disposizione va interpretata nel senso che la
revocazione delle sentenze dei Tar è ammessa solo nei casi e alle condizioni indicati dall’art.
396 c.p.c. Si tratta dei casi di revocazione c.d. straordinaria, corrispondenti alle situazioni
elencate dall’art. 395 c.p.c., purché il fatto che determina la revocazione sia stato scoperto,
o sia stato accertato, solo dopo la scadenza del termine per l’appello. / - Termini
procedurali per la revocazione: il ricorso per revocazione si propone avanti al medesimo
giudice che ha emesso la sentenza. Nei casi di revocazione previsti dall’art. 395 nm. 1, 2, 3,
6, il termine di 60 giorni per il ricorso decorre rispettivamente dal giorno in cui è stato
scoperto il dolo o la falsità o la collusione, o è stato recuperato il documento o addirittura è
passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice. In tutti i casi la
revocazione può essere richiesta anche se la sentenza impugnata sia già passata in
giudicato. Inoltre, è opportuno specificare che, in tutti questi casi, il giudice procede
all’accertamento delle condizioni per la revocazione.
7. L’OPPOSIZIONE DI TERZO
Nel processo amministrativo, il rimedio dell’opposizione di terzo, introdotto da un intervento
della Corte Costituzionale, è stato disciplinato per la prima volta dal codice solo dopo questo
intervento della Corte. La Corte costituzionale aveva introdotto nel processo amministrativo
l’opposizione di terzo c.d. ordinaria, attraverso la quale un terzo può porre in discussione
una sentenza passata in giudicato, o comunque esecutiva, che pregiudichi i suoi diritti e sia
stata pronunciata in un giudizio cui sia rimasto estraneo. Il codice conferma l’istituto e detta
alcune norme, essenzialmente per superare incertezze precedenti; inoltre, introduce
un’opposizione, “revocatoria”, per i creditori o gli aventi causa di una delle parti nei confronti
della sentenza che sia il risultato di collusione o di dolo a loro danno. / - Chi può proporla:
il testo originario dell’art. 108, 1° comma, c.p.a., menzionava, come legittimato a proporre
l’opposizione, soltanto il terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile. La
previsione è stata ritenuta incompleta ed è stata modificata dal d.lgs. n. 195/2011, col
risultato che oggi il codice non menziona più i soggetti legittimati a proporre l’opposizione.
Per la loro identificazione sono utili il riferimento ai criteri precedenti e il confronto con il
processo civile. L’opposizione, in definitiva, può essere senz’altro proposta dal soggetto
che era contemplato in origine nel codice, ossia dal terzo titolare di una posizione autonoma
e incompatibile; terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile è il soggetto al
quale non sia opponibile la sentenza, e che sia titolare di una posizione giuridica “non
dipendente” da quella delle parti in causa, e non passibile di essere soddisfatta unitamente a
quella della parte vittoriosa (si pensi al terzo che pretenda di aver titolo a un determinato
ufficio pubblico che la sentenza abbia assegnato ad altri, e che possa essere ricoperto da un
soggetto soltanto; questo soggetto può proporre opposizione e far valere anche soltanto
l’ingiustizia della sentenza). Sempre al proposito dei soggetti legittimati a proporre questo
tipo di “ricorso”, dobbiamo sentenziare che questo mezzo di gravame presenta non pochi
problemi tecnico – giuridici e concettuali: in particolare, mentre il codice civile detta regole
certe per risolvere i conflitti fra i terzi che vantino diritti incompatibili su un identico bene,
nel diritto amministrativo regole analoghe non sono previste o non sono di agevole
identificazione; unico criterio pacifico sembra essere la preferenza per le pretese che trovino
fondamento in situazioni di legittimità amministrativa. Inoltre, in addizione a quanto già fin
qui riferito, la giurisprudenza amministrativa aveva sostenuto che la legittimazione a
proporre l’opposizione di terzo dovesse riconoscersi anche a un’altra categoria di soggetti: il
controinteressato pretermesso. Questa soluzione rimane ferma. / - Termini procedurali per
proporla: il codice non contempla disposizioni sui termini per proporre l’opposizione
ordinaria: in mancanza di norme particolari, dovrebbero valere le norme generali, che però
assoggettano le impugnazioni a un termine di decadenza decorrente dalla notifica o dalla
pubblicazione della sentenza; questa soluzione appare inaccettabile, perché il terzo potrebbe
avere notizia della sentenza anche molto tempo dopo il passaggio in giudicato della stessa.
In passato una giurisprudenza aveva applicato il termine di 60 giorni dalla conoscenza della
sentenza, applicando in via analogica il termine per l’azione di annullamento; va osservato
che il codice non ha disposto nulla del genere e che la soluzione accolta dalla giurisprudenza
richiamata non si adatta. / - Rapporto concettuale fra opposizione di terzo ed appello: il
codice ha disciplinato il rapporto fra opposizione di terzo e appello. In base al codice, nei
confronti della sentenza, il terzo può proporre soltanto l’opposizione; essa va diretta al
giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Pertanto ogni confusione con l’appello è
superata. La soluzione accolta nel codice comporta però la possibilità che una sentenza di un
Tar sia oggetto, insieme, di appello al Consiglio di Stato proposto da una delle parti
originarie e di opposizione proposta da un terzo; per evitare la pendenza di due gravami
diversi, il codice assegna la prevalenza al gravame ordinario; pertanto, se sia già stato
proposto appello, il terzo deve introdurre la sua domanda intervenendo nel giudizio
d’appello. / *** Opposizione revocatoria: il codice ha introdotto nel processo amministrativo
anche l’opposizione di terzo revocatoria. Legittimati a proporla sono i creditori e gli aventi
causa di una parte: sono tutelati così i titolari di una posizione dipendente che in quanto tali
non possono proporre un’opposizione di terzo ordinaria. Essi possono proporre opposizione
soltanto nei confronti della sentenza che sia effetto di dolo o collusione a loro danno.
*
ORA SI PROCEDERA’ AD UNA VELOCE RICAPITOLAZIONE SCHEMATICA E SINTETICA DEL
CAPITOLO IN PAROLA, E CIOE’ AD UNA RICAPITOLAZIONE, GENERALISSIMA, SUGLI
IMPORTANTI CONCETTI CONCERNENTI I MEZZI DI GRAVAME:
*La decisione del ricorso e la sentenza: In coerenza con il principio della domanda, il
giudice amministrativo è tenuto a pronunciarsi sulla domanda proposta dalle parti e non
oltre essa. In linea di massima, all’esame della domanda, il collegio procede secondo un
ordine logico, che vede prima lo scrutinio delle questioni pregiudiziali, e, in un secondo
momento, le questioni di merito, perché ovviamente le questioni pregiudiziali potrebbero di
per sé definire il giudizio. L’ordine logico della causa vuole, inoltre, che il primo ad essere
oggetto d’analisi sia il ricorso principale, e, in un secondo momento, quello incidentale,
essendo esso subordinato al primo. Ai fini della decisione, il collegio, per motivi di celerità ed
economia, adotta il cd. assorbimento delle questioni, che avviene laddove le questioni, pur
non essendo collegate tra loro, seguono un preciso ordine logico; a volte i giudici applicano
questo assorbimento anche quando le questioni non presentano quel collegamento logico
richiesto, ed è la mera opportunità a farne ragione: in tal caso si definisce un assorbimento
improprio. /
Ad ogni modo, il giudicato amministrativo è definito da una sentenza. In alcuni casi può
definirsi con un decreto, e ciò accade nei casi di ricorso improcedibile. Il termine “sentenza”
è adoperato per quelle pronunce che definiscono in tutto o in parte il giudizio (art 33,1).
Questa definizione non lascia scampo ad equivoci, per cui le pronunce che non definiscono il
giudizio, ma curano situazioni inter procedimentali, non sono sentenze, ma ordinanze. Tra le
sentenze bisogna distinguere quelle di rito e di merito
Di rito: che sono quelle che dichiarano l’irricevibilità, l’inammissibilità, l’improcedibilità. Sono
quindi quelle sentenze in cui non viene esaminato il merito del ricorso.
Di merito: sono quelle in cui viene analizzato il contenuto della domanda, accogliendola o
dichiarandola infondata.
In caso di accoglimento avremo una sentenza di annullamento, una sentenza che dispone la
sua riforma e sostituzione, sentenze che ordinano di provvedere, sentenze che dispongono
una condanna ad un adempimento pecuniario.
La sentenza va sottoscritta dal presidente del Collegio giudicante, e va depositata: il
deposito vale come pubblicazione della sentenza.
*Le impugnazioni: Il libro III del CPA è dedicato alle impugnazioni delle sentenze. Nei
confronti delle sentenza del GA sono previsti vari mezzi d’impugnazione:
- nei confronti delle sentenze del TAR è previsto l’appello al Consiglio di stato
- nei confronti delle sentenze del CDS è proponibile appello in Cassazione per le questioni di
giurisdizione
- nei confronti delle sentenze del TAR e del CDS sono ammessi revocazione e opposizione di
terzo.
Lo svolgimento del giudizio d’appello è regolato in modo omologo al giudizio dinanzi al TAR
in primo grado. L’appello va proposto con ricorso da notificarsi entro 60 giorni dalla notifica
della sentenza, o 6 mesi dalla sua pubblicazione (in caso di mancata notificazione). L’appello
va notificato alle parti in causa, e a quelle con interesse a contraddire. Quando l’atto non è
notificato a tutte le parti, ma almeno ad una, il CDS ne ordina il contraddittorio.
L’appello non comporta la sospensione dell’esecutività della sentenza. Tale sospensione può
essere disposta dal CDS in seguito ad un’istanza dell’appellante.
Gli appellanti, che vogliono costituirsi in giudizio, possono farlo depositando un controricorso
entro 60 giorni dalla notifica dell’appello. Nello stesso termine di 60 giorni si può proporre
appello incidentale, cioè l’appello della parte che vittoriosa in primo grado, che decide di
appellare perché soccombente in alcuni punti della sentenza.
Le decisioni del CDS possono essere:
Accoglimento con rinvio: se in appello si è accolto il ricorso per un vizio di forma o per un
difetto di procedura. In questo caso il processo verrà ricelebrato dinanzi al giudice
competente di 1°grado.
Accoglimento senza rinvio: quando si tratti di difetto di giurisdizione o di competenza o
l’esistenza di cause impeditive del giudicato
Rigetto nel merito: quando viene confermata la sentenza del TAR /
In caso di appello al Consiglio di Stato, il CPA prevede che la questione possa essere deferita
alla competenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Ciò avviene quando deve
essere esaminata una questione che ha dato luogo, o può dar luogo, ad un contrasto
giurisprudenziale, oppure quando la questione da risolvere assume una certa importanza.
All’adunanza plenaria è riconosciuta la funzione nomofilattica, omologa a quella riconosciuta
alla Cassazione a sezioni unite.
*La revocazione: L’art 106 cpa ammette contro le sentenze del Tar e del CdS il rimedio
della revocazione. I casi sono tassativamente previsti dalla legge, e la disciplina del cpa si
appoggia a quella del cpc con esplicito rinvio di cui all’art 395 cpc. /
La revocazione si distingue in
Ordinaria : ammessa contro le sentenze non ancora passate in giudicato
Straordinaria : ammessa contro le sentenze passate in giudicato , ammissibile solo nelle
ipotesi previste dall’ art 395 cpc. Esse sono:
Sentenza affetta da dolo di una delle parti a danno dell’altra,
Sentenze pronunciate su prove false,
Ritrovamento di documenti decisori che la parte non aveva potuto esibire per forza
maggiore,
Sentenza affetta da errore di fatto risultante da atti o documenti,
Sentenza contraria ad altre precedentemente passate in giudicato,
Sentenza affetta da dolo del giudice accertato,
Il ricorso per revocazione si propone innanzi al medesimo giudice che ha emanato la
sentenza impugnata. /
La richiesta deve contenere
Richiesta di annullamento della sentenza impugnata,
Richiesta di rinnovazione del giudizio,
Il giudice si pronuncia con un’unica sentenza, contro la quale sono ammesse le impugnazioni
eccetto che per una nuova revocazione.
*Ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione: Nei confronti delle sentenze del
Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per motivi di giurisdizione. Questo è ammesso per
denunciare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, ovvero il ricorso
è possibile sia
nel caso in cui il GA abbia deciso una questione riservata alla PA o devoluta al GO o altro
giudice speciale;
nel caso in cui il GA abbia declinato la propria giurisdizione in una questione che sarebbe
stata di sua competenza.
Il ricorso va proposto entro 60 giorni dalla notifica della decisione del CdS o entro 6 mesi
dalla pubblicazione della sentenza in caso di mancata notificazione, alle SSUU della Corte di
Cassazione.
Il cpa ha introdotto la possibilità di una sospensione dell’esecuzione della sentenza del CdS,
in pendenza del ricorso. La sospensione è disposta dallo stesso CdS in casi eccezionali di
gravità e urgenza.
Ove la Cassazione accolga il ricorso:
cassa la sentenza senza rinvio, quando neghi la giurisdizione;
cassa con rinvio, se afferma la giurisdizione negata dal GA. In caso di rinvio il giudizio
prosegue innanzi al TAR con fissazione dell’udienza.
CAP. XV (TRAVI) - IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E
L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA.
1. Il giudicato amministrativo e 2. L’esecuzione della sentenza
Si ha passaggio in giudicato di una sentenza del giudice amministrativo quando nei suoi
confronti non è ammessa più alcuna impugnazione ordinaria (come, ad esempio, appello al
CdS e ricorso per Cassazione). Nei confronti delle sentenze passate in giudicato, pertanto, è
possibile solo la revocazione e l’opposizione del terzo (come già anticipato ex ante). /
Bisogna distinguere tra: A) Giudicato solo interno: la sentenza comporta un vincolo soltanto
alle ulteriori fasi del giudizio; B) Giudicato anche esterno: la sentenza comporta vincoli anche
rispetto a giudizi diversi che possono istaurarsi tra le stesse parti nei quali assume rilevanza
la questione. Le sentenze di rito hanno tipicamente il solo vincolo interno. Le sentenze di
merito hanno ovviamente, invece, anche vincoli esterni. /
Per ciò che concerne i cd limiti soggettivi del giudicato, una parte della giurisprudenza
amministrativa ritiene che il giudicato amministrativo, di regola, valga solo tra le parti, i loro
successori e gli aventi causa, eccetto se si tratta di annullamento dell’atto con contenuto
“indivisibile”, per esempio un atto normativo, regolamento, per cui gli effetti del giudicato
valgono erga omnes. Contro questa dottrina si oppone, però, quella di chi fa distinzione tra
effetti della sentenza e autorità del giudicato: è vero che la sentenza d’annullamento di un
provvedimento inscindibile coinvolge tutti i soggetti, ma il giudicato “fa stato” in modo
autoritativo solo tra le parti processuali; per cui a quanti non siano stati parte del giudizio
non potrebbe essere opposto il giudicato. /
La sentenza del TAR è immediatamente esecutiva: ciò significa che la PA è tenuta a dare
esecuzione alla sentenza, adottando tutti i comportamenti opportuni per darne esecuzione.
Il dovere di dare esecuzione si scontra, talvolta, con la modifica del quadro normativo che
disciplina la materia oggetto di sentenza, le cd. sopravvenienze. Ragioni d’effettività
porterebbero a sostenere che la PA dovrebbe provvedere “ora per allora”. La giurisprudenza,
invece, invocando il principio del “tempus regit actum”, ritiene che la PA non possa
prescindere dall’applicazione della disciplina sopravvenuta. (es. impugnazione di un diniego
illegittimo di autorizzazione, quando dopo la sentenza muti la disciplina per l’autorizzazione,
con la conseguenza che essa non potrebbe più essere rilasciata).
Se la sentenza non è eseguita spontaneamente è previsto il giudizio d’esecuzione dinanzi al
GA: il giudizio di ottemperanza.
3. IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
Rispetto alle sentenze del giudice civile, l'esecuzione da parte dell'amministrazione comporta
in genere l’adozione di meri atti che concretino i comportamenti materiali necessari per
l'esecuzione della sentenza (il pagamento di una somma di denaro, ad esempio); quindi,
ridicendo, rispetto a sentenze del giudice amministrativo, l'esecuzione richiede spesso
l'adozione di provvedimenti amministrativi, quindi succede, semanticamente e logicamente,
che la sentenza di un GA coinvolge direttamente il potere amministrativo di una PA: a titolo
esemplificativo, la sentenza di annullamento di un provvedimento negativo impone
l'adozione di un nuovo provvedimento; la sentenza di annullamento di un provvedimento
positivo comporta che il nuovo provvedimento da adottare non riproduca certi vizi e così via
dicendo.
Per il caso di inesecuzione della PA, dopo una sentenza del GA che imponeva, per l’appunto,
alla PA di concretare un comportamento, di eseguire qualcosa, è esperibile il ricorso per
l'ottemperanza al giudice amministrativo. Si è già accennato al fatto che tale rimedio,
previsto dalla legge Crispi per il caso di inesecuzione di una sentenza civile, sia stato esteso,
dalla giurisprudenza, all'ipotesi di inesecuzione di una sentenza del giudice amministrativo.
Nel codice del processo amministrativo, il giudizio di ottemperanza è confermato, e
disciplinato più puntualmente, nelle prime disposizioni del libro quarto con alcune novità di
indubbio rilievo. Il giudizio di ottemperanza non riguarda solo i casi di inesecuzione della
sentenza del giudice amministrativo o delle altre pronunce ad essa assimilate, ma assume
contenuti più variegati, che sono modellati sulle evenienze concrete che possano riguardare
l'esecuzione di una sentenza; in particolare, a tale proposito, è ammesso il ricorso al giudice
dell'ottemperanza anche soltanto per <ottenere chiarimenti> in merito alle modalità
dell'esecuzione (art. 112, 5 co. e 114, 7 co.), giusto per fare un esempio. /
* ottemperanza applicabile sia per sentenze passate in giudicato, sia per sentenze
meramente esecutive: per l'esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, il ricorso
per l'ottemperanza è esperibile indipendentemente dal fatto che siano esse passate in
giudicato o solamente esecutive; inoltre, ai fini dell’esperibilità del ricorso, non rileva che,
rispetto a queste sentenze, inadempiente sia l'amministrazione o una parte privata. Il codice
(come appena detto) equipara la sentenza esecutiva alla sentenza passata in giudicato, ai
fini dell'ammissibilità del giudizio di ottemperanza, e precisa anche che il giudice
dell'ottemperanza, se la sentenza non sia passata in giudicato, <determina le modalità di
esecuzione>. /
* ottemperanza esegue i suoi effetti anche per interessi pecuniari, maturati nel tempo, a
causa della sentenza ineseguita: il giudizio di ottemperanza verte, essenzialmente,
sull'esecuzione di una pronuncia giurisdizionale, come riferito più volte. Il codice ha
introdotto, però, alcuni contenuti ulteriori ed, in particolare, col ricorso per l'ottemperanza
possono essere richiesti anche gli interessi maturati successivamente alla sentenza rimasta
ineseguita(il codice attribuisce al giudice dell'ottemperanza, quindi, anche il potere di
imporre alla parte inadempiente il versamento, al ricorrente, di somme di denaro che
maturano periodicamente in seguito al ritardo dell'adempimento. Tali misure di esecuzione
indiretta sono disposte dal giudice, su richiesta del ricorrente, sulla base di una valutazione
puntuale dei caratteri della situazione). /
* giudizio di ottemperanza = giurisdizione estesa al merito (il GA, nell’ottemperanza,
esercita una giurisdizione estesa al merito): l'articolo 134, 1 co., c.p.a., conferma, cosa
importantissima, che il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una
giurisdizione estesa al merito; la previsione della giurisdizione di merito comporta che il
giudice amministrativo possa sostituirsi, direttamente o attraverso un commissario da esso
eventualmente nominato (ad acta, come vedremo a breve), all'amministrazione
inadempiente. La possibilità di sostituzione identifica anche il “perimetro dei poteri” del
giudice dell'ottemperanza, e comporta che, nel giudizio di ottemperanza, non può porsi al
giudice alcuna riserva di potere dell'amministrazione. /
- Altri poteri del GA all’ottemperanza: (1) prima del codice del processo amministrativo, al
giudice dell'ottemperanza era riconosciuta la capacità di adottare anche misure ordinatorie
nei confronti dell'amministrazione, dirette all'esecuzione, come la fissazione di termini per
provvedere, la precisazione di modalità esecutive e così via dicendo; questa possibilità è,
oggi, contemplata espressamente anche dal codice (art. 114, 4 co., lett. a) e quindi
cristallizzata sul piano del diritto positivo. (2) Il codice riconosce espressamente al giudice
dell'ottemperanza anche il potere di dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione o in
elusione del giudicato. La nullità è sancita sia per gli atti adottati in violazione della
sentenza, sia per gli atti "in elusione" della sentenza. / - Altro da dire sul giudizio di
ottemperanza: (1) l’inottemperanza non si esprime, però, solo attraverso comportamenti del
tutto omissivi (es. la PA non concreta una stretta e netta ordinanza del GA, non la esegue),
ma può configurarsi anche nell'adozione di atti diretti in realtà a rinviare, o ad eludere
l'esecuzione del giudicato (es. la PA, furbamente, rinvia continuamente una esecuzione
ordinata dal GA, in seguito ad una sentenza). (2) In tutte le vertenze che comportino una
condanna pecuniaria, se le parti non si oppongono, il giudice amministrativo può limitarsi a
fissare, nella sentenza, criteri per la liquidazione dell'importo dovuto, demandando alla parte
debitrice di proporre, sulla base di tali criteri, un'offerta alla parte vittoriosa. Se l'offerta non
viene accolta, o se una volta accolta non viene eseguita, la determinazione dell'importo può
essere richiesta dalla parte interessata al giudice, con il ricorso per l'ottemperanza. (3) In
deroga al principio che impone al giudice di pronunciarsi su tutte le domande, al ricorrente
che ha richiesto una condanna al pagamento di un somma di denaro, il giudice, nel processo
di cognizione, si limita a pronunciare una sentenza circoscritta alla fissazione di "criteri". Il
rinvio a giudizio di ottemperanza, che sottende l'intervento del commissario "ad acta",
rischia di indebolire le garanzie processuali, che sono rappresentate anche dal fatto che sia
un giudice a dover istituire la vertenza e a provvedere sulla domanda. Queste obiezioni sono
in parte superare dal codice. Infatti il codice ha riconosciuto espressamente a ciascuna delle
parti il potere di richiedere al giudice di provvedere direttamente alla liquidazione
dell'importo dovuto./
- 4. Il commissario “ad acta”: il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita
la giurisdizione estesa al merito e, pertanto, può sostituirsi all'amministrazione che non abbia
dato esecuzione alla sentenza. L’intervento sostitutivo del giudice può avvenire in forma
diretta o in forma indiretta, attraverso la nomina del c.d. commissario “ad acta” che si
sostituisce, a sua volta, all'amministrazione. Il giudice dell'ottemperanza non è esautorato
dalla questione: esercita poteri di vigilanza, anche d'ufficio, sull'operato del commissario, e
al giudice vanno rivolte eventuali contestazioni circa tale operato. Molto opportunamente
alcuni giudici amministrativi, quando il commissario comunica di aver completato la sua
attività, fissano comunque un’udienza per verificare, con l'intervento del ricorrente, che la
sentenza sia stata correttamente eseguita.
Secondo alcuni, il commissario "ad acta" sarebbe dovuto essere considerato come un organo
straordinario dell'amministrazione: la sua nomina avrebbe comportato la sua sostituzione
agli organi amministrativi, come organo straordinario competente solo per l'esecuzione di
quella sentenza; tuttavia, proprio perché organo straordinario dell'amministrazione, il
commissario sarebbe dovuto essere considerato come un'autorità amministrativa, con la
conseguenza, fra l'altro, che i suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, sarebbero
dovuti essere impugnati davanti al giudice amministrativo, secondo le regole generali
previste per l'azione di annullamento. Nella giurisprudenza precedente al codice, sembrava
prevalere la tesi che il commissario operasse come ausiliare del giudice, in un ruolo non
molto diverso da quello del consulente o dall'esperto nel processo civile; i suoi atti non
potevano essere atti giurisdizionali (perché il commissario non è un organo giurisdizionale),
ma dovevano comunque essere inquadrati nelle vicende del giudice di esecuzione; di
conseguenza, nei confronti di tali atti, la tutela si sarebbe dovuta attuare nell'ambito dello
stesso giudizio di esecuzione, ed eventuali contestazioni si sarebbero dovute indirizzare al
giudice dell'ottemperanza. Il codice del processo amministrativo ha preso posizione su alcuni
punti concreti, che sono significativi però anche su un piano più generale, ed infatti: - ha
considerato che il commissario "ad acta" è un ausiliare del giudice, tanto è vero che lo
colloca schematicamente nel capo del primo libro dedicato agli ausiliari del giudice (art. 31);
- ha assegnato al giudice dell'ottemperanza la competenza a pronunciarsi su tutte le
questioni insorte fra le parti concernenti <l'esatta ottemperanza> della sentenza, precisando
espressamente che fra esse sono comprese <quelle inerenti agli atti del commissario>,
definendo la relativa procedura. /
- 5. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza: il ricorso per l'ottemperanza va proposto
nelle forme ordinarie, e perciò va notificato all'amministrazione e a tutte le altre parti del
giudizio di merito. Col ricorso per l'ottemperanza, il ricorrente deve depositare una copia
autentica della sentenza di cui chiede l'esecuzione, con l'eventuale prova del passaggio in
giudicato. Il ricorso non è soggetto a termini di decadenza, anche in coerenza con la
circostanza che non ha carattere impugnatorio. Può essere proposto fino a quando non sia
prescritto il diritto all'esecuzione della sentenza: tale diritto, conformemente ai principi
civilistici, è assoggettato alla prescrizione ordinaria di 10 anni, decorrenti dalla data del
passaggio in giudicato della sentenza.
Competente, se si tratta dell’esecuzione di una sentenza amministrativa, è il giudice che ha
pronunciato la sentenza: pertanto il Consiglio di Stato può essere competente anche in unico
grado; tuttavia, se la sentenza del Tar è stata confermata in appello, la competenza spetta
ugualmente al Tar; invece, se si tratta dell'esecuzione della sentenza di un giudice ordinario
o di un altro giudice speciale, diverso dal giudice amministrativo, la competenza spetta
sempre al Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza da
eseguire.
Il processo si svolge secondo le regole generali stabilite per il giudizio di cognizione, con la
peculiarità prevista per il rito camerale, qualora ci fosse. Anche le eventuali richieste delle
parti per ottenere chiarimenti del giudice amministrativo in merito alle modalità di
esecuzione della sentenza vanno proposte secondo la disciplina appena richiamata. Nei
confronti delle decisioni assunte dal Tar in sede di ottemperanza, sono ammessi l'appello al
Consiglio di Stato e gli altri gravami previsti dall'articolo 91 c.p.a. La decisione del Consiglio
di Stato, assunta in sede di ottemperanza, come ogni altra decisione del Consiglio di Stato, è
impugnabile davanti alla Corte di Cassazione, per violazione dei limiti esterni della
giurisdizione amministrativa./
*
Si procederà, ora, ad una più schematica e veloce ricapitolazione concettuale dell’importante
argomento concernente il giudizio d’ottemperanza:
Rispetto alle sentenze del giudice amministrativo, l’esecuzione (cioè l‘ attuazione di una
norma, in questo caso: di una sentenza) richiede l’adozione di provvedimenti: la sentenza di
annullamento di un provvedimento negativo impone l’adozione di un provvedimento nuovo,
ad esempio.
L’esecuzione della sentenza coinvolge la funzione amministrativa (svolgimento dinamico del
potere).
Nel caso di inesecuzione è esperibile il ricorso per ottemperanza al G.A., che trova disciplina
nel c.p.a. all’articolo 112.
l’articolo 112 prevede che tale giudizio possa essere esperito sia
Per i casi di inesecuzione della sentenza del Per ottenere chiarimenti sulle modalità di
G.A ottemperanza. In questo caso, il ricorso, non
presuppone un’inottemperanza, ma
presuppone incertezze sugli effetti della
sentenza da eseguire, sugli adempimenti
necessari per l’esecuzione. Per tal ragione il
ricorso può essere esperito anche dalla PA , il
soggetto che deve ottemperare.
Inoltre l’art 112 prevede una serie articolata di casi nei quali può essere ammesso il ricorso.
In merito alla esecuzione delle sentenze del Il ricorso per l’ottemperanza è esperibile
G.A., il ricorso è esperibile anche per l’esecuzione delle sentenze
indipendentemente che siano passate in passate in giudicato del giudice ordinario e
giudicato o siano solamente esecutive, e non dei giudici speciali avanti ai quali non sia
rileva se inadempiente sia l’amministrazione previsto un giudizio di ottemperanza. In tal
o una parte privata. caso, però, il codice precisa che parte
resistente possa essere solo la PA (“per
ottenere l’adempimento dell’obbligo della PA
a conformarsi”)
4. Il decreto ingiuntivo
Il codice di procedura civile, all’art. 633 ss., disciplina il procedimento d’ingiunzione. Il
decreto ingiuntivo è il provvedimento attraverso il quale il giudice competente, su richiesta
del titolare di un credito certo, liquido ed esigibile, fondato su prova scritta, ingiunge al
debitore di adempiere l'obbligazione (pagare una determinata somma o consegnare una
determinata quantità di cose, ecc.), entro il termine di quaranta giorni dalla notifica,
avvertendolo che entro lo stesso termine potrà proporre opposizione e che, in mancanza, si
procederà ad esecuzione forzata. Chi è creditore di una somma liquida di denaro, o di una
determinata quantità di cose fungibili, può avvalersi di questo provvedimento monitorio. Il
codice all’art. 118 ha confermato l’istituto del decreto ingiuntivo, ammettendolo nel processo
amministrativo nei casi previsti dall’art. 633 ss. c.p.c.
5. IL RITO ABBREVIATO
L’art. 119 del codice disciplina una serie cospicua di ricorsi che investono atti di particolare
importanza amministrativa, o economica e sociale; in questi casi, il legislatore ha voluto
prevenire il pericolo che l’attività amministrativa possa essere rallentata o sospesa a lungo
per la pendenza del giudizio, in attesa di una decisione del giudice, con danni gravi sia per
gli interessi patrimoniali dell’amministrazione, sia per l’intera collettività. In alcuni casi, come
in materia di espropriazioni e di opere pubbliche, le ragioni di celerità del giudizio avevano
già comportato da tempo l’adozione di discipline peculiari; in altri casi, le ragioni di celerità si
sono affermate più di recente, in relazione a processi di privatizzazione o di liberalizzazione
di settori economici, o anche solo per circostanze del tutto contingenti. Il rito abbreviato
previsto dall’art. 119 c.p.a. riguarda, innanzitutto, i ricorsi proposti contro provvedimenti in
tema di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture;l’art. 119 c.p.a. concerne, inoltre, i
ricorsi al giudice amministrativo contro gli atti delle autorità amministrative indipendenti, i
ricorsi contro gli atti di alcune Agenzie Nazionali, i ricorsi concernenti provvedimenti di
privatizzazione o dismissione di imprese o beni pubblici e di costituzione, soppressione o
modificazione di società, aziende o istituzioni degli enti locali, i ricorsi concernenti procedure
espropriative o di occupazione d’urgenza ecc. In tutti questi casi,l’obiettivo di accelerare il
giudizio è perseguito, per queste controversie, innanzitutto, con la riduzione, a metà, di tutti
i termini processuali, ad eccezione di quelli stabiliti per la notifica del ricorso principale, del
ricorso incidentale e dei motivi aggiunti; l’obiettivo di celerità è perseguito , inoltre, nella
fase cautelare del giudizio, per evitare che una misura cautelare possa determinare una
paralisi per l’attività amministrativa, e così pregiudicare interessi pubblici primari. Il
dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dopo che il collegio abbia maturato
la decisione del ricorso, purché almeno una parte ne abbia fatto richiesta nel corso
dell’udienza; la pubblicazione del dispositivo della sentenza produce tutti gli effetti
caducatori e ripristinatori propri della pubblicazione della sentenza. E’ consentito, inoltre, alla
parte interessata di proporre l'appello al Consiglio di Stato direttamente nei confronti del
dispositivo della sentenza, entro 30 giorni dalla sua pubblicazione, al fine di ottenerne la
sospensione.
IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE:
Con l’allegato E della legge sul contenzioso amministrativo vennero aboliti i tribunali del
contenzioso amministrativo, e venivano così lasciate prive di tutela giurisdizionale le
situazioni giuridiche soggettive diverse dai diritti soggettivi, ascrivibili alla categoria
dell’“interesse legittimo”. Venne così istituita la 4 SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO, con
la legge Crispi del 1889, con l’intento di stabilire regole certe per il riparto della competenza
tra giudice ordinario e quarta sezione (giudice amministrativo). /
Originariamente, si faceva leva sul criterio del “petitum”, secondo il quale il dato
caratterizzante la giurisdizione amministrativa era il potere di annullamento degli atti
impugnati, e allora qualunque provvedimento avesse leso un diritto soggettivo doveva poter
essere ricorso dinanzi al giudice amministrativo, che poteva annullarlo; in realtà, essendo
diritto soggettivo, il ricorrente poteva pur sempre ricorrere dinanzi al GO, determinandosi
cosi una doppia tutela. La giurisprudenza rigetto la tesi del petitum, avvalorando, invece,
una tesi funzionalizzata sul criterio della “causa petendi”; tale criterio voleva valida la “teoria
della prospettazione” , secondo la quale la posizione giuridica da tutelare era quella che il
cittadino aveva “prospettato” nella sua domanda giudiziale; quindi ove avesse fatto valere
un interesse legittimo sarebbe stata competenza del giudice amministrativo; competenza del
giudice ordinario dove avesse fatto valere un diritto soggettivo. Ovviamente, fu respinta tale
tesi, a pro, invece, di una tesi basata sul “petitum sostanziale”: ciò che rileva ai fini
del riparto di giurisdizione è l’effettiva natura della posizione fatta valere in
giudizio, e la sua oggettiva qualificazione come dir. Soggettivo o int. Legittimo.
GIURISDIZIONE DI LEGITTIMITA:
L’ART 7, c4 c.p.a. “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice
amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle PA ,
comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e
(relative) agli altri diritti patrimoniali consequenziali , pure se introdotti in via autonoma”
La norma trascura di menzionare l’elemento storicamente determinante che definisce tuttora
la giurisdizione di legittimità , cioè la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi. È dato,
comunque, per scontato che la mancanza di riferimento agli “interessi legittimi” sia
riconducibile al fatto che il codice assegna in via generale al giudice amministrativo la
giurisdizione per le controversie relative ad interessi legittimi.
Nei casi di giurisdizione di legittimità (controversie su interessi legittimi), la decisione sugli
interessi legittimi può comportare la necessità di un esame e di una pronuncia anche
rispetto a diritti soggettivi. In passato tali questioni erano riservate al GO , poi la
giurisprudenza si orientò per la risoluzione di esse in via incidentale da parte del GA, quando
tale questione pregiudiziale sia necessaria ai fini di una pronuncia principale di interesse
legittimo ; unica eccezione costituiscono quelle questioni relative allo stato e alla capacita
delle persone , che sono riservate al GO.
GIURISDIZIONE ESCLUSIVA:
L’ART 7, c5 c.p.a “nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo
133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle
quali si faccia questione di diritti soggettivi”.
In alcuni casi è assegnata al GA una giurisdizione anche sui diritti soggettivi. In questi
casi il cittadino può agire davanti al GA non solo per tutelare i suoi interessi legittimi, o per
ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più in generale per
tutelare i diritti soggettivi che vanti contro la PA.
La nascita dell’istituto della giurisdizione esclusiva è legata a quelle ipotesi in cui il Diritto
Soggettivo e l’ Interesse Legittimo coesistono.
Tale giurisdizione è Tipica , perché tassativamente previsti i casi nel 133 c.p.a., e la parola
“esclusiva” è da interpretare come “escluso”. CHI? Il giudice ordinario ovviamente.
La giurisdizione esclusiva, introdotta con la riforma del 1923, nasce con l’intento di far
giudicare in via principale il GA in materie in cui la materia era “confusa” perché
coesistevano interessi legittimi e diritti soggettivi.
Quindi a quella originaria ripartizione fondata sulla distinzione tra le posizioni soggettive -> [
(GIUDICE ORDINARIO = DIRITTI SOGGETTIVI ) - (GIUDICE AMMINISTRATIVO =
INTERESSI LEGITTIMI) ] subentrava, nei casi di giurisdizione esclusiva, il criterio della
materia, di cui all’art 7. C5. /
Un profilo problematico lo desta ovviamente il 133 c.p.a. perché in alcuni casi devolve istituti
generali, in tal altri casi istituti molto specifici. Non stupisce che in molti casi tali materie
siano incerte.
La sentenza 204/2004 ha sottolineato l’esigenza di una interpretazione della giurisdizione
esclusiva rispettosa dell’art 103 Cost. Secondo la Corte Costituzionale, l’assegnazione delle
materie, da parte del legislatore, deve comunque presupporre un coinvolgimento di un
potere amministrativo. Ciò significa che questo criterio della materia, per la giurisdizione
esclusiva, non vuole più, ai fini della assegnazione al giudice amministrativo, la
individuazione dell’interesse legittimo; senza dimenticare che in tali ipotesi di giurisdizione
esclusiva, il giudice amministrativo utilizza i poteri ad esso conferiti in generale, quale anche
la possibilità di annullare (e non disapplicare) il provvedimento amministrativo.
LA TIPOLOGIA DI AZIONI :
Il c.p.a disciplina le Azioni nel Processo Amministrativo agli articoli
29 = azione di annullamento
da proporre entro 60 gg nei casi di violazione di legge , incompetenza ed eccesso di potere
30 = azione di condanna
può essere proposta contestualmente ad altra azione o , nei singoli casi previsti dallo stesso
articolo , anche in via autonoma
31 = azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità
decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti
dalla legge: chi vi abbia interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere.
Prima del codice, La Corte di Cassazione e il Consiglio di stato sostenevano soluzioni diverse
anche in merito alla possibilità che la domanda di risarcimento dei danni per lesione di
interesse legittimo potesse essere accolta solo se il provvedimento fosse stato impugnato e
annullato: per il Consiglio di Stato, l’azione risarcitoria veniva esclusa in mancanza di una
previa domanda di annullamento e diceva, inoltre, di non poter risolvere la questione di
annullamento in via incidentale; per la Cassazione, invece, le due azioni erano autonome. La
discussione fu superata con l’art 30 del c.p.a il quale ammette in via di principio l’autonomia
della domanda risarcitoria. In realtà l’art 30 vede due possibili strade : - azione di condanna
contestuale alla azione di annullamento; -azione , in casi indicati , in via autonoma , entro
120 giorni dal momento del fatto o della conoscenza. Come si legge , viene meno la
pregiudizialità, dal momento che la azione di condanna è proponibile in via autonoma ; e
però la condanna , che sul piano “processuale” non può essere respinta , può essere elusa
sul piano “sostanziale “ , dal momento che viene utilizzato il principio civilistico della
liquidazione del danno , e del buon creditore ( ricorrente); laddove il giudice, nel valutare il
risarcimento, rinvenga che una previa azione di annullamento del provvedimento avrebbe
ridotto il danno , può ridurre il danno anche fino a negarlo del tutto.
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Il Processo Amministrativo
LE PARTI: Anche nel processo amministrativo dobbiamo distinguere tra parti necessarie e
parti non necessarie. Affinché la sentenza sia valida occorrerà che sia rispettata la
garanzia del contraddittorio nei confronti delle sole prime, e non anche nei confronti delle
seconde.
Le parti necessarie sono:
Il Ricorrente: è colui che fa valere in giudizio una propria sit. Giur. Sogg. Il ricorrente è
colui che dà avvio al procedimento tramite un atto di sua iniziativa: il Ricorso. Il ricorrente
ha piena disponibilità dell’azione proposta, pertanto potrà decidere della eventuale rinuncia.
Nel caso di ricorso presentato congiuntamente da più persone avremo un cd. ricorso
collettivo. Per il ricorrente si parla di un interesse individuale.
L’amministrazione resistente: è la PA che ha emanato l’atto impugnato e nei confronti
della quale viene fatto valere un diritto soggettivo. Il c.p.a espressamente stabilisce che ad
essere convocato sia l’ente, non l’organo. La PA resistente è parte nel processo, e non
autorità, soggetta in tutto e per tutto alle regole del processo, su tutte la parità delle parti in
giudizio. Del resto la PA, al pari del ricorrente, ha un interesse, quello a mantenere l’atto
impugnato.
I controinteressati: sono i soggetti a cui l’atto amministrativo conferisce un’utilità
specifica. Quindi essi hanno un interesse alla conservazione dell’atto ( es. il vincitore di un
concorso la cui graduatoria è impugnata dal ricorrente). Ad essi deve essere notificato il
ricorso, almeno ad uno (dove i controinteressati siano più di uno), ma in questo caso sarà
necessaria la successiva integrazione del contraddittorio. In dottrina si dice che il
controinteressato abbia una posizione speculare rispetto al ricorrente: mentre infatti il
ricorrente trae una lesione a un suo interesse legittimo da parte di un atto, il
controinteressato trae il suo interesse legittimo dall’atto impugnato; è per questo che la
specularità di posizioni merita parità di trattamento , suffragata di certezza dall’art 24 Cost
che impone una garanzia di tutela giurisdizionale per chi abbia un interesse legittimo , e
quindi come tale sia per il ricorrente che per il controinteressato. Per individuare i
controinteressati, oltre all’utilità specifica, è necessario anche un requisito formale, ossia che
sia individuabile dall’atto. /
Le parti non necessarie
Stando al cpa sono parti non necessarie tutte quelle che abbiano un interesse, come tali
legittimate ad intervenire in giudizio. Pertanto, il loro ingresso è vincolato ad un intervento
in giudizio, ma la norma non individua chi possa intervenire. Per essi quindi esiste una
varietà discendente da una varietà di situazioni sostanziali e di posizioni processuali.
Sicuramente sembra possano intervenire coloro che hanno un cd. interesse dipendente,
ossia coloro che patiscono indirettamente gli effetti del provvedimento impugnato perché
hanno una relazione giuridica con una parte necessaria (la PA vs. un proprietario di un
appartamento. L’inquilino del proprietario ha un interesse dipendente). In dottrina però è
necessario sottolineare la diversità del suo interesse rispetto a quello della parte necessaria:
se infatti il titolare dell’interesse in questione avesse pari dignità processuale della parte
necessaria vuol dire che l’interventore in questione parteciperebbe al processo con un mero
interesse semplice o di fatto, perché di questo si tratta (ha differenziazione fattuale, ma il
provvedimento non lo lede direttamente). In realtà bisogna invece intendere l’intervento
semplicemente adesivo, ad adiuvandum nel caso l’interventore intervenga a favore del
ricorrente, ad opponendum nel caso intervenga a favore della parte resistente o di un
controinteressato. Per entrambi sono comunque molto discussi i poteri processuali, posto
che i primi possono solo introdurre argomenti aggiuntivi a quelli del ricorrenti, ma non
hanno poteri processuali veri, mentre i secondi non sembrano avere grandi limitazioni.
Oltre ai titolari di un interesse dipendente, possono intervenire anche i titolari di un
interesse giuridico autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, pur non
essendo controinteressati, perché non ottengono utilità dall’atto stesso (il vicino di un
soggetto che abbia impugnato il provvedimento di annullamento del suo permesso di
costruire).
1- IL RICORSO:Il giudizio avanti al Tar è introdotto con un Ricorso (art 41,1 cpa).
Storicamente il Ricorso era l’atto con il quale chi sostiene di essere stato leso in un proprio
interesse, da un provvedimento della PA, impugna tale provvedimento, chiedendone
l’annullamento. Era quindi storicamente uno strumento processuale di reazione ad un atto
lesivo della PA. Oggi, in virtù della giurisdizione esclusiva, il ricorso ha perso la sua
peculiare ontologia di reazione ad un atto lesivo, visto che nel caso di giurisdizione esclusiva,
conoscendo di diritti soggettivi (che sono situazioni autonome) non è necessaria
l’impugnazione del provvedimento. Ad ogni modo il ricorso conserva quella peculiarità di
primo atto processuale che introduce il giudizio amministrativo. A differenza che
nel processo civile, nel proc. Amministrativo il ricorso viene prima notificato alle parti
necessarie e poi depositato. /
Esso deve contenere quegli elementi tipicidel ricorso, sanciti all’articolo 40 c.p.a:
Il giudice adito
Generalità del ricorrente e delle altri parti
L’oggetto della domanda, e, nel caso di azione di annullamento, il provvedimento
impugnato
Esposizione sommaria dei fatti e i motivi su cui fonda il ricorso
Indicazione dei mezzi di prova
Provvedimenti che si chiedono al giudice (annullamento, modifica, riforma)
Sottoscrizione /
Specificamente, nell’azione di annullamento è necessaria l’indicazione dell’atto impugnato e
dei vizi dedotti rispetto all’atto stesso. Per vizio si intende uno dei tre ordini di legittimità
che comportano l’annullabilità dell’atto: incompetenza, violazione di legge,
eccesso di potere: inteso come sviamento di potere, disparita di trattamento,
ingiustizia manifesta.
Per l’individuazione del vizio fatto valere col ricorso, non sono richieste formule sacramentali.
Ciò che rileva, a pena di inammissibilità, è che l’oggetto della domanda e dei motivi sia
coerente con l’azione esperita.
Il ricorso è sempre nullo quando manchino gli elementi essenziali della controversia. Nel
caso di irregolarità il giudice può ordinare la rinnovazione entro un termine stabilito.
/
Ancora riguardo il ricorso per l’annullamento di un provvedimento, esso deve essere
notificato all’amministrazione che ha emanato il provvedimento ed almeno ad uno dei
controinteressati entro 60 giorni dalla comunicazione o pubblicazione o piena conoscenza del
provvedimento.
Ciò che stupisce è che un ricorso proposto contro l’illegittimità di un atto amministrativo sia
soggetto ad un termine perentorio, di 60 giorni. Tale previsione evidentemente è
risultato di una contemperazione tra l’esigenza del ricorrente alla tutela del suo interesse
legittimo, e le ragioni di certezza delle altre situazioni giuridiche. /
Per i giudizi proposti a tutela di diritti soggettivi, che non comportino l’impugnazione di
provvedimenti, non opera un termine di decadenza perché non viene impugnato un
provvedimento. E si è discusso in questi termini anche riguardo al giudizio sul silenzio: in
effetti nemmeno qui il giudizio verte su un provvedimento e il ricorso quindi non ha
carattere impugnatorio. Il CDS in passato esigeva comunque la perentorietà dei 60 gg per
proporre il ricorso, sebbene il legislatore si è poi orientato diversamente prevedendo che il
ricorso, in caso di silenzio, può essere proposto fintanto che dura l’inadempimento. /
L’originale del ricorso, notificato, deve essere depositato entro 30 giorni dall’ ultima notifica
al TAR competente, e con il deposito si attua la costituzione in giudizio della parte ricorrente.
3- La Costituzione delle altre parti (art 46) e il Ricorso Incidentale (art 42):
Entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, l’amministrazione resistente e i
controinteressati possono costituirsi in giudizio presentando memorie e documenti. Se il
ricorso principale non è stato notificato a tutti i controinteressati, ma è stato notificato ad
almeno uno di essi, il GA ordina l’integrazione del contraddittorio. /
Entro gli stessi 60 giorni dalla notifica del ricorso, le parti resistenti e i controinteressati
possono proporre ricorso incidentale. In passato esso era concesso solo al
controinteressato, il quale poteva impugnare lo stesso provvedimento già impugnato dal
ricorrente facendo valere vizi diversi, dai quali egli avrebbe potuto ottenere un risultato a lui
favorevole. (Tizio, ricorrente, impugna la graduatoria dalla quale risulta che egli è arrivato
2o perché non gli son stati riconosciuti dei punti; Caio, controinteressato, fa ricorso
incidentale adducendo mancata attribuzione di ulteriori punti che lo qualificherebbero
comunque al di sopra di Tizio). La giurisprudenza oggi riconosce al controinteressato la
possibilità di impugnare con ricorso incidentale anche un atto diverso da quello impugnato
dal ricorrente con il ricorso principale, ammesso che però tale atto diverso sia funzionale allo
stesso risultato utile. L’art 42 del C.p.a riconosce queste facoltà, e rispetto alla disciplina
vigente prima del codice ha aperto la possibilità del ricorso incidentale anche alla
amministrazione resistente. In verità, in passato, non era riconosciuto tale potere alla
PA, perché si diceva che laddove la PA avesse riconosciuto una illegittimità dell’atto da essa
emanato, impugnato dal ricorrente, avrebbe potuto annullarlo, in sede di autotutela. E in
effetti se il ricorso incidentale ha ad oggetto ulteriori vizi, ossia altri elementi di illegittimità,
la PA nel riconoscere l’illegittimità di un proprio atto può annullarlo in virtù del proprio potere
illimitato. Oggi comunque il codice, quando all’art 42 fa menzione delle “parti resistenti”,
quali quelle “legittimate a proporre ricorso incidentale”, fa inevitabilmente riferimento anche
alla PA.
Il ricorso incidentale, inoltre, oltre ad avere la stessa scadenza temporale del ricorso
principale ( 60 gg dalla notifica) , si assimila ad essa anche per ciò che concerne l’onere di
notifica alle altre parti, in altrettanti 60gg.
Una volta instaurato il giudizio, ossia una volta che le parti necessarie si siano costituite con
le eventuali memorie e ricorsi incidentali, possono fare intervento le parti non necessarie.