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CAPITOLO 8 - QUADRO GENERALE DELLA GIUSTIZIA

AMMINISTRATIVA (CAPITOLO 5 DEL LIBRO DEL PROF.)


2. Le classificazioni generali: la giurisdizione di legittimità.
Cos’è la giurisdizione di legittimità? La giurisdizione di legittimità ha carattere generale
e conferisce al giudice il potere di verificare se l’atto amministrativo sia lesivo di interessi
legittimi per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere. La l. n. 205/2000 ha
introdotto alcune importanti novità, modificando l’impianto originario della giurisdizione di
legittimità, ampliando notevolmente i poteri del giudice con riferimento sia alla disponibilità
dei mezzi di prova che alla capacità decisionale. In merito a quest’ultimo profilo, il giudice,
oltre al potere di annullamento dell’atto lesivo di interessi legittimi, ha il potere di
valutazione sulla risarcibilità del danno provocato dall’atto illegittimo della pubblica
amministrazione e può, inoltre, condannare l’amministrazione a un obbligo di reintegrazione
in forma specifica. Nuovi e rilevanti poteri sono stati conferiti anche dall’art. 34 del codice
del processo che prevede il potere del giudice di condannare l’amministrazione all’adozione
di tutte le misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.
L'articolo 7 c.p.a. nel primo comma definisce l'ambito della giurisdizione amministrativa, con
formule generali che vanno lette alla luce dell'art. 103 costituzione. Lo stesso articolo, nel
co. 3, conferma comunque l'articolazione della giurisdizione amministrativa in giurisdizione
generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito.
Di conseguenza il riferimento nell'articolo 7, 4° co., c.p.a. alle vertenze (controversie)
relative ad atti e provvedimenti va ricondotto alla prospettiva della tutela degli interessi
legittimi anche in riferimento alle vertenze concernenti le "omissioni" attiene essenzialmente
alla tutela degli interessi legittimi, lesi dal "silenzio" dell'amministrazione.
L'imprecisione del dettato normativo va ricondotta innanzitutto alla circostanza che il codice
assegni in via generale al giudice amministrativo la giurisdizione per le vertenze
risarcitorie per lesione di interessi legittimi, anche quando esse siano proposte in via
autonoma. Le domande risarcitorie, anche quando sia stato leso un interesse legittimo,
hanno ad oggetto un diritto soggettivo, il diritto al risarcimento dei danni. Perciò il giudice
amministrativo può sempre pronunciarsi con forza di giudicato sul diritto al risarcimento dei
danni cagionati dall'amministrazione in violazione di interessi legittimi.
L'assegnazione di queste vertenze risarcitorie al giudice amministrativo è coerente con la
concezione secondo cui anche il risarcimento dei danni, attiene, su un piano generale, alla
garanzia degli interessi legittimi lesi. Inoltre consente di concentrare in un'unica giurisdizione
le vertenze derivanti dalla lesione di un interesse legittimo, indipendentemente dal tipo di
azione (impugnatoria o risarcitoria) concretamente esperita dal cittadino. Evitando la
necessità di due giudizi distinti. Nei casi di giurisdizione di legittimità la decisione degli
interessi legittimi può comportare la necessità di un esame e di una pronuncia anche
rispetto a diritti soggettivi.
Oggi l’art. 8, 1° comma, c.p.a. stabilisce che, quando non vi sia giurisdizione esclusiva, il
giudice amministrativo <conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni
pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare
sulla questione principale>
Pertanto in questi casi, anche se la questione concernente i diritti costituisce logico e
necessario antecedente rispetto alla decisione sugli interessi legittimi, sui diritti non si forma
giudicato:
Il giudice amministrativo può pronunciarsi su di essi solo in via incidentale. Si pensi al
diniego di un’autorizzazione per un'attività di impresa motivato dall'amministrazione con il
fatto che il richiedente non avrebbe la disponibilità dei locali necessari per svolgere
quell'attività. La sentenza del giudice amministrativo che annulli il diniego, non avendo
rilevato che il richiedente aveva la disponibilità di locali idonei in forza di un contratto di
locazione, non fa stato quanto all'accertamento del diritto del privato rispetto a quei locali.
Solo per la questione concernenti lo stato e la capacità delle persone (fatta eccezione per la
capacità di stare in giudizio, ciascun giudice può decidere in via principale) e per l'incidente
di falso, ogni decisione è riservata al giudice ordinario. Infatti, si tratta di questioni che
possono essere decise solo con efficacia di giudicato; perciò non possono essere oggetto di
cognizione, neppure soltanto in via incidentale, da parte di un giudice diverso da quello
istituzionalmente competente.
Rispetto all'incidente di falso, che assume più spesso rilevanza nel processo amministrativo,
la riserva al giudice ordinario comporta inconvenienti non indifferenti: il giudice
amministrativo, se ritiene che il documento sia rilevante, deve sospendere il giudizio, fino a
quando non passi in giudicato la sentenza del giudice ordinario sul falso.
Rispetto alla giurisdizione estesa al merito, la giurisdizione di legittimità appare invece
qualificata nel codice da un minore ampiezza di poteri decisori del giudice. Nei casi di
giurisdizione di legittimità il giudice amministrativo, che accolga un ricorso proposto contro
un provvedimento, di regola può annullare l'atto impugnato, se lo ritenga viziato per
incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere e in alcuni casi può ordinare
all'amministrazione di emanare un provvedimento, ma non può anche sostituire l'atto
impugnato con un proprio atto.

3. (segue) la giurisdizione esclusiva


Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcuni casi è assegnata al
giudice amministrativo una giurisdizione anche sui diritti soggettivi (cd. giurisdizione
esclusiva) in questi casi il cittadino può agire davanti al giudice amministrativo non solo per
tutelare interessi legittimi o per ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi,
ma anche più in generale per tutelare i diritti soggettivi che egli vanta nei confronti di
un'amministrazione.
Le materie di giurisdizione esclusiva oggi sono sempre più numerose e importanti. L’elenco
dell’art., 133 riproduce le previsioni di giurisdizione esclusiva contenute nelle leggi
precedenti successivamente al codice. Le ipotesi più significative di giurisdizione esclusiva
oggi concernono:
Le controversie già assegnate alla giurisdizione esclusiva della legge 7 luglio 1990 n° 241 e
succ. modifiche. Sono quelle in tema di risarcimento del danno per inosservanza del
termine; per la conclusione del procedimento ed indennità; per "mero ritardo"
nell'ultimazione del procedimento; in tema di accordi pubblici; in tema di segnalazione
certificata di inizio attività; o di dichiarazione di denuncia di inizio attività; in tema di
silenzio assenso; in tema di accesso ai documenti amministrativi.
In questi casi la giurisdizione esclusiva trova ragione nella correlazione fra le questioni su tali
diritti e gli atti o i procedimenti amministrativi, o, come è nel caso degli accordi pubblici, per
un'affinità di questioni, di caratteri e di effetti con provvedimenti amministrativi, etc. La
giurisdizione esclusiva, non si estende alle controversie concernenti indennità, canoni o
corrispettivi per le quali vale il criterio generale di riparto fondato sulla distinzione fra
situazioni soggettive; le controversie in materia di occupazione di urgenza o espropriazioni
per pubblica utilità, escluse le vertenze in tema di indennità di occupazione o di esproprio,
che sono sempre riservata al giudice ordinario. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva
anche le vertenze concernenti i <comportamenti dell'amministrazioni pubbliche> che sono
però riconducibili almeno in via “mediata” all' esercizio del potere amministrativo;
le controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime pubblicistico (c.d.
pubblico impiego). Oggi la loro rilevanza pratica è minore, per effetto della cosiddetta
privatizzazione attuata fra il 1993 e 1998. Infatti la disciplina del pubblico impiego ormai
riguarda solo i dipendenti (di enti pubblici) con rapporto di lavoro non contrattuale;
Le controversie concernenti provvedimenti adottati dalla Banca d'Italia, alcune autorità
indipendenti da alcuni organismi nel settore finanziario, ed alcune agenzie nazionali;
L'ampiezza raggiunta dalla giurisdizione esclusiva comporta con maggiore frequenza che il
giudizio amministrativo sia promosso non da soggetto privato contro l'amministrazione ma
da un'amministrazione contro un privato, o un soggetto privato contro un altro privato.
Questi casi meritano particolare attenzione, dato che la dottrina costituzionale assegna al
giudice amministrativo "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione". Di
conseguenza l'assegnazione al giudice amministrativo di vertenze promosse contro soggetti
privati può ammettersi solo in casi particolari, rispetto ai quali è indifferente che il rapporto
controverso intercorra con amministrazioni o invece con privati.
Per esempio, se le controversie in merito a certe obbligazioni nei confronti
dell'amministrazione sono devolute dalla legge alla giurisdizione esclusiva, è logico che il
giudice amministrativo sia competente indipendentemente dal fatto che la controversia sia
promossa dal cittadino o dall' amministrazione. La giurisdizione esclusiva in questi casi
comporta che spetti al giudice amministrativo conoscere tutte le vertenze concernenti quelle
obbligazioni: è solo un elemento contingente, e perciò non deve condizionare la
giurisdizione, la circostanza che a promuovere la controversia sia l’una con l'altra parte del
rapporto. In altri casi l'assegnazione al giudice amministrativo di vertenze promosse contro
privati è giustificata dal fatto che il privato svolge attività omogenee a quelle che può
svolgere tipicamente un'amministrazione. In questi casi l'attività del privato è soggetta a una
disciplina pubblicistica, spesso alla stessa disciplina propria dell'attività amministrativa;
perciò è ragionevole che sia assoggettata anche alla tutela giurisdizionale prevista nei
confronti degli atti amministrativi. La disciplina dell'attività dovrebbe indirizzare sempre
anche la tutela giurisdizionale. A tali casi si riferisce in via generale l' articolo 7, 2° co.,
c.p.a., che a questi fini assimila i soggetti privati alle pubbliche amministrazioni.

4. La giurisdizione esclusiva nel codice del processo amministrativo: problemi


aperti e nuove prospettive
La giurisdizione esclusiva fu introdotta dal legislatore perché in molte vertenze il criterio di
riparto fondato sulle situazioni soggettive risultava insoddisfacente sul piano pratico. In
questi casi interessi legittimi e diritti soggettivi risultavano strettamente correlati e un riparto
fondato sulla natura delle posizioni soggettive avrebbe potuto obbligare il cittadino a
promuovere una pluralità di giudizi, davanti al giudice amministrativo e davanti al giudice
ordinario, in relazione a una identica vicenda; l’assegnazione di una vertenza alla
giurisdizione esclusiva doveva invece rappresentare un elemento di semplificazione. Così,
per individuare il giudice competente non sarebbe stato più necessario procedere alla
notifica della natura delle posizioni soggettive e sarebbe stato sufficiente stabilire se nella
vertenza rientravo o meno nell'ambito devoluto dal legislatore al giudice amministrativo in
via esclusiva. Al criterio di riparto fondato sulla distinzione fra le posizioni soggettive
subentrava, nei soli casi di giurisdizione esclusiva, quello fondato sulla riconduzione della
vertenza alla "materia". Il riparto fra giudice amministrativo e giudice ordinario, nelle
materie di giurisdizione esclusiva, segue pertanto il criterio della <materia>. Le vertenze
riconducibili a quella certa materia vanno proposte davanti al giudice amministrativo, anche
se il cittadino faccia valere in giudizio un diritto soggettivo. Non è sempre agevole, però,
stabilire se la vertenza inerisca o meno a una "materia" devoluta alla giurisdizione esclusiva.
Le difficoltà nascono da varie circostanze.
Innanzitutto anche il codice delle disposizioni sulla giurisdizione esclusiva non sono
omogenee e rispecchiano una nozione di “materia” non uniforme.
Nell'art. 133 in alcuni casi la devoluzione al giudice amministrativo è prevista rispetto a una
generalità di controversie, definite semplicemente per l'inerzia a un istituto generale,
comprensivo di una serie di rapporti giuridici diversi (si pensi al pubblico impiego); in altri
casi è disposta rispetto a istituti specifici (si pensi alla tutela del diritto d'accesso) o rispetto
a singoli procedimenti o provvedimenti.
Molti dubbi riguardano in passato la giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi.
Di fronte a queste difficoltà in passato Cassazione e Consiglio di Stato avevano dibattuto
soprattutto sulla possibilità di adottare criteri estensivi o restrittivi per la lettura delle
previsioni di giurisdizione esclusiva. In realtà centrale fu l'intervento alla Corte costituzionale,
che con la sentenza 6 luglio del 2004 numero 204 sottolineo l'esigenza di una
interpretazione della giurisdizione esclusiva rispettosa dell' articolo 103 della Costituzione.
Secondo la Corte, l'assegnazione di materie da parte del legislatore alla giurisdizione
esclusiva deve avere una relazione fra l'ambito devoluto alla giurisdizione esclusiva e un
“potere amministrativo”.
In primo luogo la corte costituzionale non ha considerato come "potere amministrativo" (il
potere la cui rilevanza giustificherebbe la giurisdizione amministrativa, anche esclusiva) solo
quello che si esprime in via unilaterale, attraverso provvedimenti. La corte ha riconosciuto
espressamente che anche gli accordi pubblici sono riconducibili al potere amministrativo,
tanto e vero che la legge li considera nel contesto di un procedimento e li prevede in
alternativa a provvedimenti. In questi casi la previsione della giurisdizione esclusiva rispetta
senz'altro i parametri costituzionali.
In secondo luogo la corte non ha inteso limitare la giurisdizione esclusiva alle sole vertenze
che investano direttamente un potere amministrativo. Salvo che nel caso di accordi pubblici
o di altri istituti analoghi, il potere amministrativo si esprime normalmente attraverso atti
amministrativi rispetto ad essi la situazione soggettiva del cittadino e in genere di interesse
legittimo, non di diritto soggettivo. La possibilità di una giurisdizione amministrativa estesa ai
diritti è ammessa espressamente dalla Costituzione e della giurisdizione esclusiva è ormai
una componente naturale anche la tutela rispetto agli atti "paritetici", che non sono esercizio
di un potere. La Corte ha inteso colpire invece l'eccessiva estensione attribuita alla
giurisdizione esclusiva del legislatore ordinario. Fra l'altro, come si è già ricordato, ha
valutato positivamente l’assegnazione al giudice amministrativo delle vertenze risarcitorie,
per danni a interessi legittimi, anche se esse hanno sempre come oggetto un diritto, il diritto
al risarcimento dei danni.
I problemi maggiori in tema di giurisdizione esclusiva concernono però l'ampiezza e
l'effettività della tutela dei diritti soggettivi nella giurisdizione amministrativa. Il criterio della
materia, per la giurisdizione esclusiva, comporta che tutte le vertenze fra il cittadino e
l'amministrazione inerenti a quella materia siano devoluti al giudice amministrativo, senza
che sia determinante l'individuazione di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo.
Infatti se il cittadino leso in un suo interesse legittimo da un provvedimento, la sua
impugnazione secondo le regole generali non subisce deroga per il fatto che la vertenza
inibisca una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva. Inoltre il giudice amministrativo,
anche quando sussista la giurisdizione esclusiva e siano in gioco diritti, non è soggetto alle
limitazioni stabilite dagli articoli 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo, perché esse sono dettate per il giudice ordinario. Di conseguenza il giudice
amministrativo, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, se accoglie il ricorso contro un
provvedimento, annulla l'atto impugnato e non può procedere alla disapplicazione. Maggiori
problemi sono sorti nel caso in cui il cittadino sia leso non da un provvedimento, ma da
comportamenti non riconducibili alla titolarità di un potere: si pensi all'inadempimento di
un'obbligazione da parte dell'amministrazione. Ammettere una tutela di diritti senza che vi
fosse un provvedimento da impugnare comportava notevoli difficoltà. La disciplina del
processo amministrativo prevedeva sempre che il giudizio fosse introdotto con un ricorso
contro un provvedimento, da proporre entro un termine di decadenza, decorrente dalla
comunicazione o dalla conoscenza del provvedimento lesivo. Nessuna disposizione
considerava, invece, l'ipotesi di un diritto fatto valere senza che vi fosse un provvedimento
da impugnare.
Il Consiglio di Stato, alla fine degli anni 30, superò l’equivalenza fra ricorso al giudice
amministrativo e impugnazione di un provvedimento, elaborando la distinzione fra
provvedimenti ed "atti paritetici". Quando sia in discussione un diritto soggettivo del
cittadino è l'atto dell'amministrazione non costituisca l'esercizio di un potere, ma sia
meramente "ripetitivo" di un assetto già stabilito dalla norma, allora non è richiesta
l'impugnazione dell’atto, perché comunque la posizione soggettiva fatta valere in giudizio
non dipende da essa. Si pensi alla vertenza promossa dall'impiegato pubblico nei confronti
dell'amministrazione che si rifiuti di corrispondergli la retribuzione dovuta. Il rifiuto
dell'amministrazione, in questo caso, non è un provvedimento che esprima la posizione di
“potere" di un'autorità pubblica, ma è un atto paritetico, ossia un atto o un
comportamento posto in essere dall'amministrazione come avrebbe potuto porre in essere
un soggetto di diritto comune. Pertanto in presenza di un “atto paritetico" non vi è necessità
di impugnare l'atto dell'amministrazione e ricorso non è neppure soggetto a un termine di
decadenza.
La vicenda degli "atti paritetici" rifletteva la difficoltà di una tutela adeguata dei diritti
soggettivi nel processo amministrativo. Il Consiglio di Stato, con la sua innovazione pretoria,
attraverso la nozione di "atto paritetico" configurò un processo svincolato da un rigido
modello impugnatorio e superò, per le vertenze concernenti diritti soggettivi non pregiudicati
da provvedimenti, la necessità di proporre il ricorso entro termini di decadenza. Oggi la
tutela dei diritti è arricchita dall'ampiezza riconosciuta alle misure cautelari (oggi possono
avere contenuti "atipici" e possono consistere anche in ordine di pagamento di somme di
denaro) dal nuovo quadro dei mezzi istruttori (art 63 c.p.a.), dalla disciplina del
procedimento per ingiunzione, soprattutto dalla previsione generale di sentenze di
condanna.

5. Le classificazioni generali: la giurisdizione estesa al merito


Nel processo amministrativo la prima distinzione proposta riguardava due diverse modalità
di tutela degli interessi legittimi: accanto all'ipotesi generale, costituita dalla giurisdizione di
legittimità si considerava anche ipotesi particolari, nelle quali il giudice amministrativo decide
anche in merito. Dopo l’istituzione della giurisdizione esclusiva, in alcuni casi particolari
anche la giurisdizione sui diritti soggettivi fu associata alla giurisdizione di merito. Il codice
ha sensibilmente ridotto il numero delle ipotesi, i casi di giurisdizione esclusiva estesa al
merito hanno un evidente carattere di eccezionalità (art. 134).
Le ipotesi di giurisdizione di merito previste dal codice concernono:
- i ricorsi per l’attuazione delle pronunce giurisdizionali del giudice civile o del giudice
amministrativo, che introducono il giudizio di ottemperanza;
- i ricorsi contro gli atti e le operazioni in materia elettorale, quando il contenzioso sia
devoluto al giudice amministrativo;
- i ricorsi contro le sanzioni amministrative pecuniarie, nei casi particolari in cui la tutela
rispetto ad esse sia devoluta al giudice amministrativo;
- i ricorsi in materia di contestazioni sui confini degli enti territoriali;
- i ricorsi contro il diniego di nulla - osta per la censura cinematografica.
In passato la giurisdizione di merito si caratterizzava per l'attribuzione al giudice
amministrativo oltre ai normali poteri che gli sono attribuiti nella giurisdizione di legittimità,
anche alcuni poteri aggiuntivi per la cognizione e la decisione della controversia. In
particolare, il giudice amministrativo, nei casi di giurisdizione di merito, aveva una
cognizione più ampia dei fatti perché poteva disporre di mezzi istruttori ulteriori rispetto a
quelli ammessi dalla giurisdizione di legittimità. Inoltre, nel caso di accoglimento del ricorso,
oltre ad annullare l’atto impugnato, poteva anche riformarlo <o sostituirlo> e, quindi,
introdurre direttamente le modifiche necessarie per rendere il contenuto dell’atto immune
dai vizi riscontrati.
I caratteri della disciplina di merito, tuttavia, non erano particolarmente chiari e furono
oggetto di varie interpretazioni, riconducibili a due concezioni diverse.
- Una prima interpretazione riteneva che la giurisdizione di merito si caratterizzasse per il
fatto che l'impugnazione del provvedimento amministrativo sarebbe stata ammessa, oltre
che per i vizi di legittimità (es. violazione di legge), anche per vizi di merito (es.
inadeguatezza del criterio accolto nell'esercizio di un potere discrezionale);
- Una seconda interpretazione riteneva che anche nelle ipotesi di giurisdizione di merito il
giudice amministrativo non potesse conoscere e decidere sui vizi di merito. I poteri più ampi
a questo riconosciuti rispetto alla giurisdizione di legittimità non implicherebbero un
sindacato esteso, ma consentirebbero al giudice, oltre che annullare l'atto impugnato, anche
di introdurre lui stesso nell'atto le modifiche ritenute necessarie.
Nel c.p.a la giurisdizione di merito si caratterizza per l'ampiezza dei poteri decisori attribuiti
al giudice, il quale può sostituirsi all'amministrazione ( art. 7 co., 6) adottare un nuovo atto
oppure modificare o riformare quello impugnato ( art. 34 co., 1 lett., d ), secondo la dottrina
prevalente , quindi, il giudice amministrativo non accerta soltanto se un provvedimento sia
illegittimo, ma con la propria pronuncia stabilisce anche ciò che deve valere nel caso
concreto.

CAPITOLO 6 - IL PROCESSO DI PRIMO GRADO DAVANTI AL


GIUDICE AMMINISTRATIVO
2. Le parti del processo
Qualunque processo vede confrontarsi dinanzi ad un giudice almeno due parti due diversi
soggetti giuridici, i quali, contendendosi un “bene”, sono dall’ordinamento riconosciuti capaci
di costruire rapporti processuali. Anche quello amministrativo è un processo di parti, e per
parti si devono considerare le figure soggettive che si fronteggiano dinanzi al giudice al fine
di ottenere da questi una sentenza che soddisfi la loro pretesa.
La costruzione del processo amministrativo ha visto confermare le sue fondamenta sul
modello del processo impugnatorio è noto che esso nasce per consentire la tutela
giurisdizionale attraverso un atto amministrativo assunto dal ricorrente come
illegittimamente lesivo di una sua situazione giuridica, che viene impugnata al fine di
ottenere la caducazione. Individuare le parti del processo prendendo a modello il processo
impugnatorio è cosa ben diversa dal farlo avendo riguardo ad un processo – come si
presenta quello amministrativo – caratterizzato da una pluralità di riti, per ciascuno dei quali,
con ogni evidenza, le parti del giudizio vanno, di volta in volta diversamente identificate.
Lo stesso CPA lascia spazio d’interpretazione per la definizione delle parti. Queste, infatti,
non vengono definite, lasciando all’interprete il compito di farlo. La mancanza di chiarezza si
rileva in modo evidente dall’uso della locuzione “parte” nell’art. 28: al co. 1 si parla di “parti
nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata”; al co. 2, invece , si fa riferimento a
“chiunque non sia parte del giudizio”, con ciò manifestandosi una evidente incertezza e/o
ambiguità al linguaggio adoperato.
Un primo elenco della nozione da doversi segnalare è la differenza che si è soliti fare tra
parte in senso processuale e parte in senso sostanziale: col primo termine si indicano
tanto il soggetto ricorrente, quanto il soggetto resistente (la P.A. convenuta in giudizio e
talora i contro interessati); col secondo, invece, si indicano tanto il soggetto che lamenta la
lesione di una situazione giuridica, quanto il soggetto cui si impunta il fatto che l’ha causata
(la P.A.).
La nozione di parte in senso sostanziale richiede di spendere qualche ulteriore parola: è in
base ad essa , infatti, che è possibile individuare quella che in dottrina viene qualificata
come legitimatio ad causam, e cioè come legittimazione a proporre ricorso allo scopo di
tutelare la situazione giuridica soggettiva che si assume lesa, ovvero, in corrispondenza, si
parla di legitimatio ad processum, per intendere semplicemente la capacita di stare in
giudizio. Un secondo elemento che va segnalato è la distinzione delle parti del processo
amministrativo in principali ed accessorie distinzione che non può, né deve, esser confusa
con quella fra le parti necessarie ed eventuali.
Le parti possono essere principali a prescindere dall’essere necessarie od eventuali ;
viceversa, se una parte è accessoria non può che essere eventuale; ma non vale il
contrario, perché una parte eventuale può ben essere principale. Una parte si dice
necessaria perché senza la sua azione il processo non può nascere; si dice eventuale
perché il processo può nascere e svolgersi anche senza la sua azione. Una parte si dice
principale perché il processo non può giuridicamente prescindere da essa; si dice invece
accessoria perché il processo può anche giuridicamente prescindervi. Per potersi definire
necessaria una parte deve essere indispensabile per la instaurazione del giudizio: si qualifica
tale, cioè, perché senza di essa il processo non può instaurarsi. Nella sua ovvietà,
l’affermazione spiega pero efficacemente la stessa ragion d’essere di ogni processo: che v’è
qualcuno che si rivolge ad un giudice per ottenere giustizia.
Questo vuol dire che la mancanza della parte necessaria non genera alcuna conseguenza
giuridica di rilevanza processuale, giacchè è evidente che, senza la sua iniziativa il processo
non può proprio venire alla luce. La necessità, quindi, dipende da un dato fattuale (non
giuridico) se un soggetto legittimato a farlo non propone ricorso, che il processo non
s'instauri è un fatto. Se ne consegue, pertanto, che, in senso stretto parte necessaria è
soltanto il ricorrente, l’esistenza del quale è la sola di cui non si può fare a meno perché si
origini del processo amministrativo.
Posto allora che si convenga su quanto testé affermato, ciò non esclude, però, che, una
volta instaurato possano darsi cause di invalidità della sentenza: la sua instaurazione, invero,
ben può essere inficiata dal mancato, o non corretto, adempimento di quanto prescritto
dalle disposizioni normative sul processo; laddove, cioè, dette disposizioni prescrivano la
notificazione del ricorso ad alcuni soggetti la mancata, o non corretta, notificazione
costituisce causa di invalidità della sentenza (invalidità che potrà poi essere fatta valere in
sede di gravame).
La considerazione ci fa capire meglio la nozione di parte principale: una parte è
"principale" perché il processo non può prescindere da essa e dunque lo sono, non solo
quella dalla cui azione il processo prende vita, ma pure quelle che devono essere messe
giuridicamente in condizioni di prendervi parte. Se ne ricava che la parte necessaria è
sempre principale, ma non è l' inverso, giacché anche una parte eventuale può essere
principale. Le parti eventuali, in definitiva, possono essere tanto principali quanto accessorie.
La mancanza della parte necessaria non rileva sul piano del diritto processuale; ciò non di
meno, essa implica un effetto assai significativo sul piano del diritto sostanziale: la
inoppugnabilità del provvedimento per il decorso infruttuoso dei termini di decadenza. Ciò
vuol dire che sotto il profilo giuridico non è consentito discettare (controbattere le obiezioni)
la mancanza della parte necessaria, giacché questa inibisce in radice proprio la genesi del
processo; è però si può discutere della “validità” della instaurazione del processo, validità
che dipende dal conformarsi del ricorrente a quanto le disposizioni normative prescrivano
per la proposizione del ricorso. In altre parole, la “principalità” dipende da un dato giuridico:
che soggetti cui la legge riconosce la possibilità di prendere parte ad un giudizio devono
essere messi giuridicamente in condizione di farlo: sia ben chiaro, essi possono anche
decidere di non cogliere detta possibilità; che la colgano o no, però, restano comunque parti
principali del giudizio.
Diverse dalle parti principali sono le parti accessorie la cui connotazione consiste in ciò: che
sono certamente eventuali, è tuttavia, quand'anche, avendone i requisiti, scegliessero di
intervenire nel giudizio, ciò non le trasformerebbe in parti principali del processo. Sono
pertanto parti accessorie i soggetti terzi rispetto alla vicenda di amministrazione
attiva dedotta in giudizio, contro - o co - interessati che essi siano, nonché, fra i soggetti
interessati in senso formale dal provvedimento impugnato, i soli cointeressati per una
migliore intelligenza della differenza fra parti eventuali principali e parti eventuali
accessorie, è necessario fare un rapido cenno ad un tema che verrà trattato alla fine del
capitolo: quello dell'efficacia del giudicato.
Ed invero, occorre spiegare come esse si distinguono, in relazione alla efficacia del giudicato,
a seconda che si siano o no costituite in giudizio. In proposito si deve considerare il dettato
dell' articolo 28 C.P.A., che prescrive come possano "entrare " nel processo i soggetti che
non siano stati messi in condizione di partecipare ad esso. Ed infatti, per un verso, nel
disporre al co. 1 con riguardo alle “parti nei cui confronti la sentenza deve essere
pronunciata” (provvedendo, per il caso in cui il giudizio non sia stato “promosso contro
alcuna” di esse, che “ queste possono intervenirvi, senza pregiudizio del diritto alla difesa”)
la norma non può che riferirsi alle parti principali diverse dal ricorrente, e dunque ai contro-
interessati coinvolti in senso formale dalla vicenda procedimentale oggetto del giudizio che
siano stati pretermessi dalla notifica del ricorso; per altro verso, nel disporre il co. 2 con
“riguardo a chiunque non sia parte del giudizio”, la norma non può che riferirsi alle parti
accessorie, e dunque ai terzi rispetto alla vicenda procedimentale oggetto del giudizio, ed ai
cointeressati che siano interessati in senso formale.
In ambo i casi disciplinati dal dettato dell' articolo 28 sembrerebbe evincersi che l’efficacia
soggettiva della sentenza sia trascritta alle parti principali ed alle parti accessorie in giudizio.
Ciò vuol dire che, laddove queste ultime si siano costituite, non vi è alcuna differenza fra
parti principali e parti accessorie giacché soggettivamente il giudicato ha efficacia nei
confronti di entrambe. Laddove non si siano costituite, invece, il giudicato ha efficacia
soggettiva soltanto per le parti principali mentre per quelle accessorie dispiega efficacia
limitatamente ai sui effetti oggettivi.
A questo riguardo è opportuno riferire che in alcune particolari circostanze la giurisprudenza
ha riconosciuto l'efficacia del giudicato erga omnes, e dunque nei confronti anche di soggetti
che non si siano costituiti in giudizio.
Non è inutile precisare la ragione per cui cointeressati che siano interessati in senso formale
dal provvedimento impugnato debbano considerarsi parti accessorie, alla stessa stregua dei
terzi: la legge, invero, non configura come indispensabile la loro partecipazione al giudizio,
escludendoli perciò dal novero dei soggetti cui deve essere notificato il ricorso. E,
quand‘anche si costituiscano in giudizio, i cointeressati restano parti accessorie (non
diventano, cioè, parti principali): se è vero, infatti, che con la situazione vedrebbero estesa
anche ad essi l'efficacia soggettiva del giudicato, è vero altrettanto che il loro eventuale
"ritirarsi" dal processo li farebbe tornare nella condizione di non poter usufruire degli effetti
giuridici della sentenza; perché il loro eventuale ritirarsi dal processo le priverebbe della
possibilità di usufruire degli eventi in parola.
In definitiva possiamo dire che, se una parte è necessaria ciò implica ineluttabilmente
(inevitabile) che essa sia anche “principale”; nondimeno l'insieme delle parti principali e
più ampio di quello delle parti necessarie ben potendo essere principale anche una parte
“eventuale”. Ed invero, per parti principali si devono intendere tutte quelle che si
caratterizzano e qualificano per essere legittimi e “potenzialmente indispensabili”
contraddittori della parte principale necessaria. Rispetto alla parte accessoria, dunque, la
parte principale eventuale ha questa prerogativa: che essa deve essere messa
giuridicamente in condizione di partecipare al processo, anche se in concreto scelga poi di
non esercitare il relativo diritto.
Detto altrimenti anche in base all'assetto del diritto vigente (artt. 27 e 28, C.P.A.), pare
potersi affermare che parte necessaria in senso stretto è il solo ricorrente; che parte
principale, oltre ad esso, sono, invece, anche la P.A. ed i contro-interessati interessati in
senso formale; e che infine da quest’ultimi vanno tenuti distinti i co-interessati interessati in
senso formale, i quali, siccome sul piano del diritto processuale non devono essere
necessariamente destinatari della notifica del ricorso, sono parti accessorie, ciò comportando
che l’unico strumento processuale di cui si possono servire, sempre che abbiano scelto di
non proporre nei termini a loro volta, ricorso principale, è l’intervento.

2.1. Il ricorrente
Immaginiamo un'ipotetica fattispecie concreta in cui venga impugnato un provvedimento
della pubblica amministrazione, rispetto al quale possono aprirsi interessi di diversa natura e
direzione: proveremo a ricostruirli partendo appunto, dall' esempio.
Poniamo il caso, all'esito di una procedura concorsuale per due posti di professore a contratto dal bando
dall'università, risultino vincitore Tizio (al primo posto) e Caio (al secondo posto), ed invece di idonei non vincitori
Sempronio (al posto terzo) e Mevio (al posto quarto)
Il ricorrente (parte principale necessaria) è titolare di una situazione giuridica soggettiva
qualificata (interesse legittimo e, nel caso della giurisdizione esclusiva , anche il diritto
soggettivo): egli propone ricorso perché ritiene che questa sia stata lesa.
Nel nostro esempio, Sempronio, classificatosi terzo al concorso, impugna il provvedimento di approvazione della
relativa graduatoria, che assume essere illegittimo: il ricorrente quindi, è Sempronio , il quale, lamentandosi della
illegittimità del provvedimento, chiede al giudice amministrativo il suo annullamento.
Di regola il ricorrente è un soggetto privato, che generalmente può, a seconda dell'azione
proposta:
a) impugnare l'atto amministrativo illegittimo che lede la sua situazione al fine di ottenerne
l'annullamento;
b) chiedere la condanna della P.A. al risarcimento dei danni (causati da un atto o da un
comportamento di essa), ovvero ad uno specifico adempimento;
c) chiedere l'accertamento, ad esempio, della nullità di un atto amministrativo, ovvero della
illegittimità del silenzio - inadempimento;
d) chiedere l'esecuzione del giudicato.
La veste di ricorrente può essere assunta (oltre che dal soggetto privato leso, come è nella
tradizione e nella fisiologia del processo impugnatorio) anche da una P.A.; ciò accade in
presenza di alcune particolari circostanze:
a) ipotesi più fisiologica si presenta quando la controversia involga due diverse pubbliche
amministrazioni, una delle quali lamenta l’illegittimità di un atto dell'altra: si pensi ai casi in
cui insorgono conflitto di competenza, ad esempio, tra Regione ed enti territoriali locali sulla
titolarità di esercizio della funzione amministrativa in una determinata materia.
b) ipotesi meno fisiologica ma non meno frequente, capita nella fattispecie in cui la P.A. sia
ricorrente pur essendo essa stessa l'autrice dell' atto: è il caso nel quale, vantando un diritto
soggettivo nei confronti di un privato, è sempre che si tratti di una materia di giurisdizione
esclusiva, la P.A., rivolga al giudice amministrativo affinché questi ponga rimedio alla sua
relazione.
La ragione per cui la seconda ipotesi possa ricorrere soltanto nelle materie di giurisdizione
esclusiva sembra essere evidente: solo in questa sede (giurisdizione esclusiva) è possibile
rivendicare dinanzi al giudice amministrativo la tutela di un diritto soggettivo. D'altra parte,
in sede di giurisdizione generale di legittimità, la P.A. che ha emanato l'atto non può
assumere la veste di ricorrente per il semplice fatto che, per annullarlo, non ha bisogno di
rivolgersi al giudice: essa, infatti, è in grado di provvedere in tal senso autonomamente,
attraverso l' esercizio del potere.

2.1.1. I presupposti e le condizioni dell' azione del ricorrente


Per presentare ricorso al giudice amministrativo è necessario che sussistano determinati
requisiti (oggettivi e soggettivi), alcuni di carattere strettamente processuale, i c.d.
presupposti dell'azione, altri di carattere sostanziale le c.d. condizioni dell'azione.
I presupposti di ricevibilità del ricorso:
1) la sussistenza della giurisdizione e della competenza in capo al giudice adito;
2) che l'atto con cui viene proposto ricorso sia conforme alle prescrizioni legislative che
dettano le relative modalità procedurali, fra le quali, oltre alla tempestività della notificazione
o del deposito, la corretta effettuazione della prima a pena di nullità;
3) che l'atto con cui viene proposto ricorso sia conforme alle prescrizioni legislative che
definiscono quegli elementi del suo contenuto la cui non conformità al dettato normativo
determina la nullità del ricorso;
4) che il ricorrente affermi la sua legittimazione all'impugnazione, la quale consiste nella
capacità di compiere atti processuali;
5) che il ricorrente affermi il suo interesse alla impugnazione, per la sussistenza del quale è
sufficiente che egli asserisca di essere titolare di una situazione giuridica sostanziale di diritto
soggettivo o di interesse legittimo.

Analogamente, devono ritenersi presupposti di procedibilità del ricorso:


1) che nel corso del giudizio non sopravvengono cause che facciano venir meno la
legittimazione, o l'interesse , ad agire a questo riguardo dobbiamo anticipare che la
sopravvenuta carenza d'interesse va tenuta distinta dalla cessazione della materia del
contendere : sul piano processuale, le due figure pur costituendo entrambe cause di
estinzione del processo, esitano in un diverso tipo di sentenza, essendo quella riferita alla
prima collocata dal C.P.A. tra le "pronunce di ritiro" (art 35), è quella riferita alla seconda tra
le "sentenze di merito" sebbene permanga qualche perplessità il convenire che la
declaratoria di cessazione della materia del contendere costituisca ragionevolmente una
sentenza concernente il merito della vicenda dedotto in giudizio.
2) che il ricorrente compia degli adempimenti cui è tenuto per legge, a pena di decadenza,
unitamente o successivamente alla presentazione del ricorso: tra questi, oltre all'obbligo di
integrazione del contraddittorio nel termine assegnato stabilito dall'art. 35, co. 1, lett c , la
presentazione nei termini, dell'istanza di fissazione dell'udienza.
3) che nel corso del giudizio non sopravvenga "altre ragioni ostative ad una pronuncia sul
merito" ed in particolare la rinuncia del ricorrente alla decisione, ovvero la sopravvivenza
della perenzione.

Per altro verso, invece, vanno identificate quali condizioni dell'azione e, quindi, quali
presupposti di ammissibilità del ricorso:
1) la sussistenza della legittimazione alla decisione, la quale deriva tanto dall'interesse
sostanziale giuridicamente protetto in capo al ricorrente, quanto dal pregiudizio, che il
provvedimento impugnato arreca a tale interesse (“legittimazione alla decisione” costituisce
l’altra, imprescindibile, “componente” della legittimazione ad agire);
2) la sussistenza dell'interesse alla decisione il quale consiste nel vantaggio che il ricorrente
ricaverebbe da una decisione che accolga il ricorso;
3) la insussistenza di altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito, fra le quali
dobbiamo includere:
a) la inesistenza dell'atto amministrativo impugnato;
b) la rinuncia alla proposizione del ricorso nei termini di impugnazione;
c) nei giudizi di impugnazione, la mancata opzione del ricorrente per l'impugnativa
attraverso il ricorso straordinario;
d) nei giudizi per l'esecuzione del giudicato il fatto che l'azione non si sia estinta (per
decorrenza del termine decennale)
Nel nostro esempio , Sempronio è dotato sia della legittimazione alla decisione, perché vanta effettivamente la
lesione dell'interesse legittimo (il quale come sappiamo, risulta dalla combinazione dell'interesse sostanziale al
bene della vita - la nomina professore a contratto - e della illegittimità del provvedimento che lo lede), sia dell'
interesse alla decisione, perché dall'accoglimento del ricorso riceverà il vantaggio di aggiudicarsi, appunto, la
nomina di professore a contratto.

2.1.2. (Continua) La legittimazione ad agire e interesse ad agire


In definitiva alla luce di quel che abbiamo sin qui riferito, per potersi proporre ricorso al G.A.
occorre vantare tanto la legittimazione ad agire quanto l'interesse ad agire, o - come pure
viene denominato - l'interesse a ricorrere.
Stando alle disposizioni del codice di procedura amministrativa infatti, il ricorrente deve
essere titolare sia della legittimazione ad agire sia dell'interesse a ricorrere (art. 35, co. 1):
l'uno e l'altro costituiscono condizioni dell'azione, le quali, affinché il giudice possa decidere il
merito della domanda, debbano persistere per la intera durata del processo.
La legittimazione ad agire, è data dalla titolarità di una situazione soggettiva qualificata che
si assume lesa dall'azione della P.A., è “composta” tanto dalla “legittimazione
all'impugnazione” (presupposto di ricevibilità, che sta ad indicare la capacità di compiere
atti processuali), quanto dalla “legittimazione alla decisione”(condizione dell’azione, che
sta ad indicare, insieme, l’interesse sostanziale giuridicamente protetto in capo al ricorrente,
ed il pregiudizio che l’azione della P.A. arreca a tale interesse).
Anche, o interesse a ricorrere, è composto da due elementi. Per un verso da quello che va
sotto l'interesse ad agire il nome di interesse all'impugnazione, consiste nel fatto che il
ricorrente assume di essere stato leso in una situazione soggettiva qualificata: sono
pacificamente considerate situazioni soggettive legittimanti sia l'interesse legittimo sia il
diritto soggettivo.
Per altro verso, è composto da quello che va sotto il nome di interesse alla decisione,
consiste nel fatto che il ricorrente possa ricavare un risultato vantaggioso dalla decisione che
dovesse accogliere le sue doglianze, ossia che possa decidere una concreta utilità dalla
decisione di accoglimento del ricorso.
Va sottolineato che sia la legittimazione ad agire sia l'interesse ad agire, devono presentare
alcuni caratteri.
Anzitutto, quello della attualità: devono, cioè, non solo effettivamente sussistere al
momento della proposizione del ricorso, ma anche permanere fino al momento della
decisione. Ciò significa che qualsiasi vicenda che non consenta alla sentenza di accoglimento
di arrecare un vantaggio al ricorrente comporterà la dichiarazione di improcedibilità del
ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Come si intuisce facilmente, ben può essere, che sovente accade, che un interesse non duri
sub specie aeternitatis: alla stregua di qualunque altro interesse, quindi, anche l'interesse a
ricorrere può venire meno.
In secondo luogo, devono presentare il carattere della personalità, devono far capo ad una
posizione soggettiva differenziata (è qualificata), quantunque non necessariamente
individuale (si pensi ad un interesse collettivo), posizione la cui titolarità deve spettare al
ricorrente, cosicché gli effetti della pronuncia non riguarderanno direttamente.
A tali due caratteri devono aggiungersi quello della immediatezza della lesione lamentata,
il che significa che il pregiudizio subito dal ricorrente deve derivare direttamente dal
provvedimento impugnato.
Il rapporto fra legittimazione procedimentale e legittimazione processuale . Prima di
concludere con riguardo al ricorrente, dobbiamo affrontare brevemente la questione del
rapporto fra legittimazione procedimentale e legittimazione processuale.
Abbiamo chiarito che l'interesse ad agire in giudizio spetta a chi vanti una situazione
giuridica soggettiva legittimante, cioè un diritto soggettivo o un interesse legittimo.
Ebbene, stando alla giurisprudenza, non (sempre, o meglio non) tutti i soggetti che abbiano
partecipato al procedimento amministrativo vengono riconosciuti titolare dell'interesse
legittimo la cui lesione consenta loro di vantare un interesse a ricorrere.
In altre parole, si può essere legittimati a partecipare al procedimento pur vantando un
interesse semplice: la violazione di questo (secondo la giurisprudenza) non consente di agire
in giudizio, perché esso resta tale anche se il suo titolare abbia effettivamente partecipato al
procedimento.

2.2. I "resistenti" : La pubblica amministrazione e i controinteressati


Nella sostanza, possono qualificarsi come "resistenti" tanto la parte costituita dalla pubblica
amministrazione che ha emanato l'atto (ovvero ha assunto il comportamento) lesivo della
situazione giuridica soggettiva del ricorrente, quanto i contro-interessati , i quali sono
soggetti sul piano del diritto processuale che, come dice il termine, vantano un interesse
sostanziale “contrario " a quello del ricorrente, e cioè, diversamente da questi, hanno
sempre, per definizione, interesse alla conservazione dello stato delle cose generato dall'atto
impugnato, giacché da tale stato ricavano vantaggio sul piano del diritto sostanziale.
Ed invero, allo scopo di procedere alla loro identificazione, nell'ambito di quelli che vantano
un interesse sostanziale appena menzionato, occorre distinguere fra i soggetti individuati o
facilmente individuabili nel provvedimento impugnato con il ricorso principale, da un lato,
coloro che abbiano ricevuto notifica di quest'ultimo e, dall' altro, coloro che tale notifica non
hanno ricevuto: secondo un opinione diffusa, i primi vengono detti contro interessati in
senso formale e sostanziale i secondi controinteressati soltanto in senso sostanziale.
Ma non basta: ed infatti, a prescindere da questa prima distinzione, occorre altresì
distinguere, sul piano del diritto processuale, l'interesse formale che vanta il
controinteressato interesse al mantenimento in vita e interesse all'annullamento (parziale o
addirittura anche integrale) del provvedimento impugnato con ricorso principale.
Per meglio intendere la differenza che si fa sul punto di diritto processuale, fra interesse formale e interesse
sostanziale , possiamo riprendere il nostro esempio: Tizio e Caio se possono vantare un interesse formale tanto
al mantenimento, quanto all'annullamento, del provvedimento impugnato con il ricorso principale, d'altra parte,
vantano il medesimo interesse sostanziale, quello ad essere confermati vincitori del concorso. Anche in capo a
Sempronio (ricorrente, perché ha perso il concorso), del resto, si può distinguere, sempre sul piano del processo,
interesse formale, che l' annullamento del provvedimento, dall'interesse sostanziale, che consiste nell’essere
riconosciuto vincitore del concorso.
Ancora in sede introduttiva, va detto che, pur dovendo il ricorrente notificare il ricorso alla
P.A. ed ai controinteressati, queste parti sono libere di scegliere se costituirsi o meno in
giudizio, e cioè se prendere parte attivamente al processo: non sono infatti obbligate a farlo
potendo non presentarsi a risultare in un certo senso "Contumaci".

2.2.1 La pubblica amministrazione


Il processo davanti al G.A., può ben dirsi che, ontologicamente, è resistente la persona
giuridica pubblica dalla quale "proviene" l'atto amministrativo che si impugna, ovvero il
comportamento di cui comunque si lamenta l’illegittimità. Essa è parte principale eventuale:
principale, perché il processo non ne può prescindere, nel senso che ad essa il ricorso deve
essere notificato, e nei suoi confronti produrrà effetti la sentenza; eventuale, perché la P.A.
può anche non costituirsi in giudizio il processo ben potendo svolgersi e concludersi senza
che ciò avvenga.
Di regola la P.A. da chiamare in giudizio è quella cui si imputa il provvedimento conclusivo
del procedimento, ovvero il comportamento lesivo. Ciò nondimeno, talvolta la giurisprudenza
considera possibile convenire in giudizio anche l'altra P.A. autrice di un atto
endoprocedimentale che, in via eccezionale, sia direttamente lesivo della situazione
soggettiva del ricorrente. Ed inoltre alla P.A. chiamata in giudizio è consentito proporre
ricorso incidentale, al fine di impugnare proprio un atto emanato da altra P.A. che risulti
rilevante nella vicenda procedimentale esitata nel provvedimento impugnato con il ricorso
principale.

2.2.2. I controinteressati
Ove siano interessati in senso formale del provvedimento impugnato, i controinteressati
sono anch'essi parti principali, perché imprescindibili per la validità della sentenza, ed
eventuali, perché possono pure non costituirsi in giudizio; ove siano terzi rispetto alla
vicenda procedimentale che hanno dato origine al provvedimento, invece, si configurano
quali parti accessori.
Come abbiamo visto, quando emana il provvedimento la P.A. deve comunicarlo a tutti i
soggetti interessati, siano essi da questo sostanzialmente avvantaggiati, ovvero svantaggiati.
Tra coloro che hanno ricevuto comunicazione del provvedimento uno di essi (o più) potrà
manifestare un interesse processuale ed ottenere l'annullamento, assumendo perciò la veste
di ricorrente.
L’art. 41 co. 2 Così recita: <qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve
essere notificato, a pena di decadenza alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto
impugnato e ad almeno uno dei controinteressati individuato nell'atto stesso entro il termine
previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza,
ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia
scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Occorre quindi capire chi sono in astratto, e come devono essere individuati in concreto, i
contrinteressati. Ciò è necessario per due distinti ordini di ragione: non solo perché occorre
che il ricorrente ne individui almeno uno al fine di adempiere all'obbligo di notifica che la
legge gli impone; ma anche perché bisogna capire di quali strumenti dispone il
controinteressato al fine di realizzare il suo interesse processuale, interesse che può
consistere nel richiedere tanto che il ricorso venga respinto cosi ché sia tenuto in vita l'atto
impugnato, tanto che l’atto venga annullato, ma per vizi diversi, e quindi per una diversa
causa petendi . Quindi, i controinteressati sono portatori di una causa petendi diversa ed
opposta, sempre, rispetto a quella del ricorrente, ma di un petitium che può coincidere, o
meno, con quello di quest'ultimo (a seconda che chiedano l’annullamento integrale o
parziale, dell’atto sebbene per vizi diversi, ovvero il suo mantenimento in vita).
Nel ricorso giurisdizionale amministrativo si dicono contro-interessati i soggetti che vantano
un interesse contrario a quello del ricorrente, perché il provvedimento che questi ha
impugnato reca loro un vantaggio: mentre il ricorrente assume che la illegittimità del
provvedimento procura una lesione della sua sfera giuridica, i contro-interessati viceversa
difendono il vantaggio che traggono dal provvedimento.
Nel novero di tali soggetti sostanzialmente controinteressati nei confronti del ricorso vanno
distinti, da un lato, i soggetti interessati in senso formale dal provvedimento impugnato e
dalla vicenda procedimentale che lo ha originato, e, dall'altro, i soggetti terzi rispetto tale
vicenda: mentre i primi sono direttamente coinvolti nella vicenda procedimentale, i secondi
invece sono estranei a questa e tuttavia ricevono un vantaggio, sia pure solo indirettamente,
dal provvedimento che lo conclude.
Nell'ambito dei controinteressati in senso sostanziale, quindi (che sono tali giacché
dall'eventuale accoglimento del ricorso vedrebbero messo in pericolo il loro bene della vita
conseguito con il provvedimento), dobbiamo distinguere quelli che lo sono anche in senso
formale, ossia quelli individuati o facilmente individuabili dal provvedimento impugnato, da
quelli che non lo sono, perché estranei rispetto alla vicenda procedimentale che ha dato vita
ad esso.
Non è difficile capire che questa distinzione è funzionale al primo soltanto dei due ordini di
ragioni poc'anzi riferiti: il ricorrente, invero, deve notificare ricorso ad almeno uno dei
controinteressati in senso formale, dal momento che il controinteressato in senso soltanto
sostanziale (quello cioè che è terzo rispetto alla vicenda procedimentale che ha generato il
provvedimento impugnato) non è titolare della legittimazione passiva, la sua posizione, non
essendo formalmente coinvolta nella materia del contendere. Quanto al secondo ordine di
ragione, invece la versione si presenta più complessa. Ed infatti, se è vero che i
controinteressati in senso soltanto sostanziale non possono essere considerati legittimati
passivi, perché ad essi non spetta ricevere la notifica del ricorso, ciò nondimeno anch’essi
dispongono di uno strumento processuale a tutela dei loro interessi.
Al riguardo dobbiamo chiarire da subito che l'ordinamento richiede il contemperamento del
diritto del ricorrente di agire in giudizio con il principio di contraddittorio. Ciò vuol dire che
se, da un canto, deve essere soddisfatta l’esigenza di non gravare il ricorrente di eccessivi
oneri processuali, dall'altro, si deve assicurare la possibilità di far partecipare al giudizio tutti
coloro che vantano un interesse sostanziale antitetico. L'ordinamento predispone un
“meccanismo” idoneo a rimediare al deficit di configurazione delle parti principali generato
dalla "facilitazione" riconosciuta al ricorrente di notificare soltanto ad uno dei
controinteressati: l'ordine che il giudice deve dare al ricorrente di integrare il contraddittorio
nei confronti di tutti i soggetti che egli considera titolari di un interesse qualificato a
contraddire il ricorso.
Sul versante del diritto processuale, dunque, il ricorrente deve notificare il ricorso ad uno dei
soggetti facenti parte di un sotto-insieme dell'insieme costituito da quelli cui la P.A.
dovrebbe comunicare il provvedimento. Tuttavia, le operazioni di identificazione in concreto
dei contro-interessati, stando alla non proprio unanime opinione di dottrine e
giurisprudenza, si presenta non del tutto semplice, scontrandosi una certa qual confusione
del lessico, dovuta essenzialmente al diverso modo di intendere per un interesse che il
soggetto vanta contro: se questo, cioè, debba riferirsi al suo essere posto rispetto a quello
del ricorrente sul piano del diritto sostanziale (volendo, perciò, conservare il vantaggio
derivategli dal provvedimento, quale che sia la conseguente domanda processuale), oppure
debba riferirsi alla domanda processuale che egli avanza (puntando, quindi, ad ottenere il
mero mantenimento in vita dell’atto impugnato).
Hanno definito come "controinteressati" coloro che ricevono un un'utilità dell'atto
impugnato, essendo perciò titolari, sul piano del diritto processuale, dell'interesse al suo
mantenimento in vita, ovvero anche, in subordine, al suo annullamento (laddove, beninteso,
ottenere questo comunque consenta di conservare la situazione di vantaggio conseguita).
Significa che il loro interesse è “contro”, non necessariamente per quel che si chiede nel
procedimento, bensì perché vanta un interesse diverso da quello del ricorrente sopra del
diritto sostanziale.
Per contro, non possiamo convenire con la distinzione tra controinteressato in senso formale
e contro interessato in senso sostanziale basata sull'aver ricevuto o meno la notifica del
ricorso, distinzione che sovente si ricava dalle locuzioni adoperate e dai ragionamenti svolti
da dottrina e giurisprudenza. Riprenderemo l'argomento più avanti, è tuttavia sembra
doversi ribadire che la distinzione si fonda piuttosto sul dover essere o meno destinatari
della notifica del ricorso: con ogni evidenza, il controinteressato non è tale perché ha
ricevuto la notifica; è vero piuttosto il contrario e cioè che, proprio perché tale, deve
riceverla. Come abbiamo detto poc'anzi, invero, al riguardo si scontra, anche in
giurisprudenza, una certa qual disomogeneità di lessico, che non facilita la individuazione in
concreto dei soggetti che compongono il sotto-insieme (dell’insieme costituito dai destinatari
della notifica del provvedimento impugnato) formato dagli aventi titolo a ricevere.
I controinteressati, insomma , si trovano in una posizione non dissimile da quella della P.A.,
resistente; al pari di questa, del resto, dovrebbero ricevere la notifica del ricorso (l’uso del
condizionale deriva dal fatto che il ricorrente obbligato a notificare soltanto "ad almeno uno”
di essi), così da esser messi in grado di potersi definire il giudizio.
La nozione appena riferita si fonda, sotto il profilo formale, sulle parole testuali ad operare
dall'art. 41 secondo cui il controinteressato deve essere "individuato nell' atto" impugnato.
Ciò significa che ai fini della sua identificazione in concreto potrebbe essere sufficiente il
coinvolgimento del suo interesse sostanziale nella fattispecie controversa risulti expressis
vebis dall'atto oggetto del giudizio, non essendo necessario, viceversa, prendere in
considerazione la “direzione”, a dir così, del suo interesse processuale (formalmente rivolto
al mantenimento in vita, ovvero anche all'annullamento del provvedimento impugnato).
Tuttavia, sul piano del diritto processuale, secondo quanto afferma pacificamente la
giurisprudenza controinteressato è chiunque presenti un interesse processuale
sostanzialmente contrario ed opposto a quello del ricorrente: un interesse, cioè, a che lo
stato delle cose generato dal provvedimento impugnato persista all'esito del giudizio.
In altre parole, il controinteressato, inteso come soggetto individuato facilmente
individuabile nell'atto impugnato che sia portatore dell'interesse di segno sostanziale
contrario a quello del ricorrente, sul piano processuale può, in ipotesi, vantare un interesse
formale, tanto di segno opposto, quanto il segno analogo , a quello del ricorrente
principale . Nel primo caso proporrà "controdeduzioni" al fine di ottenere il mantenimento in
vita dell'atto (così affiancando la P.A. resistente); Il secondo caso, invece, presenterà
"ricorso incidentale", al fine di ottenere anch'egli l'annullamento, integrale o parziale,
dell'atto, ma per una diversa causa pretendi.
Laddove non abbia ricevuto notifica del ricorso principale, il controinteressato in senso
sostanziale che sia interessato in senso formale può costituirsi in giudizio mediante un
intervento ad opponendum tanto che questo sia finalizzato al semplice dare ulteriore
sostegno alle ragioni della P.A. resistente tanto che sia rivolto a tutelare le proprie, potendo
conseguentemente proporre aggiunta anche un ricorso incidentale (con il quale introdurre
nel giudizio nuovi motivi di ricorso).
In definitiva, “la resistenza” dei controinteressati in senso formale si può manifestare
attraverso tre diversi strumenti processuali. Nel caso in cui abbiamo ricevuto notifica del
ricorso a) il controricorso (o controdeduzioni), con il quale essi semplicemente chiedono, alla
stessa stregua della P.A. dell' emanato, il mantenimento in vita dell'atto impugnato; b) il
ricorso incidentale, con il quale si chiedono invece l'annullamento parziale o integrale del
provvedimento impugnato, come ricorrente principale, ovvero l'annullamento di un atto
preparatorio un presupposto di quello impugnato, o comunque con questo almeno
connesso. Nel caso in cui, viceversa, non abbiano ricevuto notifica del ricorso: c) l'intervento
ad opponendum, con il quale è affiancano la P.A. e i controinteressati che abbia ricevuto
notifica, per sostenere le ragioni e salvo che poi non scelgano eventualmente, sul
presupposto della costituzione mediante atto di intervento, di proporre anche ricorso
incidentale.
Ed infatti, secondo l'opinione diffusa e consolidata, soprattutto in giurisprudenza, il solo
controinteressato che può costituirsi in giudizio mediante semplice intervento è quello al
quale, pur essendo interessato formale, non è stato notificato il ricorso: questi, però, dove si
costituisca, vanta gli stessi diritti del controinteressato intimato, tanto è vero, a seguire,
potrà eventualmente proporre anche ricorso incidentale.
La "resistenza" dei controinteressati terzi, invece, si può manifestare soltanto attraverso un
atto di intervento ad opponendum, ai sensi dell' articolo 28 co. 2, C.P.A.
Resta, infine, da precisare che, sebbene a prima vista possa apparire strano, sono
configurabili controinteressati anche nel giudizio non impugnatorio, e più precisamente
nell'azione autonoma di condanna. In questo caso, in vero, va considerato quale
controinteressato il soggetto che riceverebbe un pregiudizio dall'accoglimento della
domanda: come recita l'articolo 41 infatti "qualora sia proposto azione di condanna, anche in
via autonoma, il ricorso notificato altresì agli eventuali beneficiari dell' atto impugnato"

2.3. I cointeressati
Per completare la rassegna delle parti manca di riferire i cointeressati, cioè di quei soggetti
che, diversamente dai controinteressati sono sempre parti accessorie, tanto che siano
interessati in senso formale del provvedimento impugnato, tanto che siano terzi rispetto alla
vicenda procedimentale che lo ha originato.
I cointeressati si pongono dentro il processo in una posizione in un certo senso analogo a
quella del ricorrente principale, giacché, abbiano avuto un nuovo ruolo nella vicenda di
diritto sostanziale ora oggetto del processo, presentano, in relazione a questo, un interesse
simile a quello del ricorrente: quelli fra essi che siano interessati in senso formale del
provvedimento impugnato, non avendo ottenuto da esso il bene della vita, aspirano a
conseguirlo all'eventuale accoglimento del ricorso principale; quelli, invece, che siano terzi
rispetto alla vicenda procedimentale, avendo ricevuto indirettamente un pregiudizio dal
provvedimento, aspirano ad ottenere l’eliminazione, sia gli uni che gli altri perseguendo il
loro obiettivo mediante intervento ad adiuvandum.
Deve essere chiaro che i soggetti in parola, laddove impugnino l'atto autonomamente,
lamentando la visione di un loro situazione giuridica, sul piano del diritto processuale vanno
configurati come ulteriori ricorrenti principali e non come cointeressati.
La ragione della scelta di costituirsi mediante intervento ad adiuvandum, anziché proporre a
sua volta ricorso, potrebbe spiegarsi così: che il cointeressato (interessanti in senso formale
o terzo che sia) lo farebbe al fine di ottenere la estensione soggettiva del giudicato nei suoi
confronti (dal momento che il CPA, in un certo senso, gli consente di “sfruttare” la
eventualmente migliore, di così qualità del difensore del ricorrente) - e non certo perché
l'interesse è sopravvenuto a seguito del ricorso principale.
La questione della loro identificazione va illustrata facendo riferendo all’opinione secondo la
quale vanno considerati "cointeressati" i soggetti che, come dice il termine vantano un
interesse processuale, almeno per certi versi, analogo a quello del ricorrente principale.
Le espressioni più frequentemente adoperate per definirle, invero, sono fra loro molto simili "soggetti che hanno
interesse identico analogo a quello del ricorrente” (Domenichelli); “soggetti titolari di un interesse legittimo
analogo a quello del ricorrente " (Travi); “soggetti che si trovano nella situazione del ricorrente "(Casetta).
Pur essendo portatori di un petitum del tutto similare, se non proprio identico, a quello del
ricorrente principale, i cointeressati sono titolari di una diversa causa petendi e dunque di
una situazione giuridica soggettiva contenutisticamente dissimile da quella del ricorrente
principale. L’ordinamento riconosce al cointeressato la possibilità di intervenire in giudizio, a
condizione che "non sia decaduto dall'esercizio delle relative azioni", per un verso, e che
accetti, per un altro, "lo stato è il grado in cui ci si trova". Ed è evidente che la norma si
riferisca ai cointeressati come loro che abbiano scelto di non impugnare il provvedimento in
via principale, in tale evenienza essi devono essere correttamente configurati sul piano
processuale come ulteriori ricorrenti.
Del resto, sul piano del diritto sostanziale, non parrebbe del tutto peregrino considerare
quale potenziale cointeressato chiunque sia stato coinvolto dall'azione amministrativa: in
pratica, tutti coloro che avrebbero dovuto ricevere notificazione o comunicazione del
provvedimento (ovvero, se trattasi di atto fonte, tutti coloro che sono da questo coinvolto
dal momento della sua pubblicazione).
Distinguere in concreto i controinteressato dai cointeressati è operazione non sempre
agevole, complicando lo svolgimento dell'onore di notificazione in capo al ricorrente.
Sebbene i cointeressati non vengono espressamente menzionati, la loro posizione è
completata dall'articolo 28, co 2, c.p.a. la norma consentendo di "intervenire" a tutti quei
soggetti che vantano un interesse coinvolto dal provvedimento impugnato (tanto se
interessati in senso formale da questo, tanto se terzi rispetto a questo): un interesse che,
sul piano del diritto sostanziale, è per definizione di segno dissimile da quello del ricorrente
principale, ma che, sul piano del diritto processuale, ben può essere di segno analogo ad
esso. Ad ogni modo, stando al diritto positivo vigente, l'ordinamento consente (così come ai
controinteressati, anche) ai cointeressati di intervenire nel giudizio.
La posizione processuale del cointeressato può dirsi, in un certo senso, speculare a quello in
cui versa il controinteressato. Tuttavia, diversamente da questi, il cointeressato può
costituirsi in giudizio soltanto mediante intervento ad adiuvandum: la sua posizione, dunque
pur essendo giuridicamente rilevante, si presenta comunque di minore "intensità" rispetto a
quella del controinteressato, giacché non può avvalersi di uno strumentario altrettanto
articolato; soprattutto, non può proporre ricorso incidentale.
In definitiva, stando alla disciplina vigente il cointeressato dispone di una sola strada
processuale: può costituirsi mediante intervento ad adiuvandum.

3. Le azioni
Il ricorrente può proporre al G.A. azioni di tre diverse specie, corrispondenti essenzialmente
alle domande che si possono rivolgere allo stesso: di annullare un provvedimento
amministrativo; di condannare la P.A. al pagamento di somme di denaro (che costituiscono
l'equivalente pecuniario del risarcimento danni), oppure ad un fare specifico; di accertare
meramente un fatto che in qualche modo e misura la riguardi. Con l'azione di
annullamento si chiede al giudice di eliminare dal mondo giuridico l'atto che si assume
illegittimo; con l'azione di condanna si chiede al giudice di ordinare alla P.A. di pagare o
di fare qualcosa, in via generalissima per rimediare ad una ingiustizia da essa compiuta, e
dunque, costringerla a pagare i danni o a compiere un dovere fino a quel momento omesso
da parte della stessa; con l'azione di mero accertamento infine, si chiede al giudice di
accertare un fatto che in qualche modo comunque riguardi le attività della P. A., e
segnatamente, per un verso, la nullità dell'atto amministrativo per mancanza di uno dei suoi
elementi essenziali. Il processo amministrativo venne concepito come processo
impugnatorio, volto essenzialmente ad ottenere l'annullamento di un atto illegittimo con una
vocazione cioè, precipuamente caducatoria. Non bisogna dimenticare che fino a poco tempo
fa l'azione caducatoria e l'azione risarcitoria, erano caratterizzate dall'impossibilità di poter
essere esperite contemporaneaemente dinanzi allo stesso giudice. Al G.A. poteva chiedersi
di condannare la P.A. soltanto al pagamento di somme di denaro dovute, e non al
risarcimento del danno; per conseguire quest'ultimo, era necessario adire il G.O., ma ciò
solo dopo aver ottenuto dal G.A. l'annullamento dell'atto illegittimo causativo del danno. Con
riferimento alla medesima vicenda sostanziale, le azioni esperibili dinanzi al G.A. possono
essere esperite anche cumulativamente. In merito ai termini per la proposizione, prima
dell'avvento del C.P.A., le azioni andavano intraprese, a pena di decadenza, entro 60 giorni.
Il C.P.A. detta per ciascuna di esse, anche termini diversi: 60 giorni per l'azione di
annullamento, 120 giorni per l'azione di condanna ed un anno per l'azione avverso il
silenzio; per quel che concerne l'azione di accertamento della nullità, infine, il
termine e' di 180 giorni, ma solo per il ricorrente, giacchè per chi resiste in giudizio la
nullità dell'atto può sempre essere opposta.

3.2.1. L’azione di annullamento


La tradizionale azione di annullamento, azione costitutiva e demolitoria, e' esperibile per
ottenere la caducazione dell’atto amministrativo impugnato. Sancisce che l'azione si
propone “per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere.” Questo
significa che, considerandosi il provvedimento illegittimo per uno dei detti vizi, l'azione da
proporsi e' quella di annullamento laddove si ritenga che la permanenza in vita dell'atto,
generi la lesione di una situazione giuridica soggettiva. Come sappiamo, l'annullamento in
parola non si differenzia da quello in sede di autotutela, sia quanto alla causa, sia quanto
agli effetti: in ambedue i casi l'atto viene “eliminato” perché e' affetto da uno o più vizi di
legittimità e perciò, almeno generalmente, con efficacia ex tunc. Ciò che distingue
l'annullamento giurisdizionale da quello in sede di esercizio del potere e' la non necessarietà
della esistenza di un interesse pubblico specifico ad eliminare l'atto: e' infatti sufficiente la
sua illegittimità, diversamente dall'annullamento in sede amministrativa, nel qual caso
occorre sempre che sussista anche una utilità pubblica. Pertanto la P.A. nell'annullare
esercita comunque un'attività discrezionale mentre al G.A. incombe il dovere di annullare
l'atto impugnato senza potere/dovere a tal fine da valutare la sussistenza di un interesse
pubblico. Naturalmente, per poter promuovere l'annullamento, e' necessario che l'atto in
questione sia esistente, giacché, laddove esso sia affetto da una delle cause di nullità e cioè
la mancanza degli elementi essenziali, il difetto assoluto di attribuzione, l'esser stato
adottato in violazione o elusione del giudicato, l'azione esperibile e' quella di accertamento
della nullità. Per l'azione di annullamento e' di 60 giorni decorrenti di regola dalla notifica del
provvedimento che si impugna. Per tradizione consolidata l'accoglimento della domanda di
annullamento comportava che il G.A. eliminasse il provvedimento impugnato con efficacia
retroattiva. Attualmente il Consiglio di Stato ha preso ad affermare che l'annullamento
giurisdizionale non necessariamente ha efficacia retroattiva. Non essendo prescritta ex lege
la efficacia caducatoria retroattiva, per ciascuna singola fattispecie concreta sottoposta alla
sua delibazione, il G.A. può stabilire se e' utile disporla, ed in caso affermativo
eventualmente fissare per la decorrenza degli effetti eliminatori, un momento diverso da
quello di genesi del provvedimento illegittimo. E' vero che l'art. 32 C.P.A., non vieta al
giudice una valutazione discrezionale sul momento a partire dal quale far decorrere gli effetti
dell'annullamento ed e' vero altrettanto che l'art 21 nonies L. 241/1990 , consente alla P.A.
di scegliere da quale momento l'annullamento d'ufficio inizi a produrre i suoi effetti. Laddove
non sia nell'evidente interesse del ricorrente, non pare ammissibile concludere che al G.A.
sia consentito decidere il momento dal quale dovranno decorrere gli effetti dell'annullamento
fatte salve le ipotesi in cui, al solo scopo di pregiudicare ulteriormente l'interesse sostanziale
del ricorrente, il principio della efficacia retroattiva dell'annullamento dell'atto impugnato
possa essere derogato, non sembra che il G.A. possa disporre esclusivamente l'effetto
conformativo della sentenza. Quest'ultimo effetto, si risolverà nell'obbligo in capo alla P.A. di
dare esecuzione al dispositivo di essa, resta in ogni caso inalterato. Un'altra azione
particolarmente rilevante, e' l'azione di condanna. Sino alla entrata in vigore del C.P.A.,
l'azione di annullamento presentava il carattere della necessarietà: la tutela dinanzi al G.A. di
una situazione giuridica soggettiva lesa da un provvedimento amministrativo illegittimo
richiedeva necessariamente, appunto, la proposizione dell'azione caducatoria, ciò pure nel
caso in cui il ricorrente avesse avuto interesse a spiegare soltanto l'azione risarcitoria. Il
C.P.A. stabilisce l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento.
Tuttavia esso può dirsi in qualche modo “sopravvivere” grazie alla previsione dell'art. 34, co
2, secondo cui il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente
avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento. Non può sottovalutarsi peraltro,
che la disposizione del co. 2 fa “salvo quanto previsto dal comma 3 e dell'art. 30, comma 3, i
quali rispettivamente dispongono che “ quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del
provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta
l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori; ”inoltre, nel determinare il
risarcimento il giudice comunque può escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero
potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di
tutela previsti.”

3.2. L’azione di condanna


L'azione di annullamento non e' la sola proponibile dinanzi al G.A., al quale ci si può
rivolgere per ottenere, oltre per la caducazione di un atto amministrativo che si reputi
illegittimo, anche la condanna della P.A. a risarcire i danni causati, al pagamento di somme
di denaro o anche ad un fare specifico. Non e' sempre stato così. Ad introdurre l'azione di
condanna dinanzi al G.A. fu la L. 1034/1971, che però la consentiva solo per il pagamento
di somme di denaro di cui la P.A. risultasse debitrice e soltanto in sede di giurisdizione
esclusiva e/o di merito. Fu con le riforme del biennio 1998/2000 che quella di condanna
assunse il rango di azione a contenuto generale, rango che ha trovato poi ancor più ampia
previsione nel C.P.A., il quale ha dato ad essa una regolazione ulteriormente definita, seppur
non priva di incertezze. Diversamente da quella di annullamento, l'azione di condanna e'
disciplinata in maniera articolata, il C.P.A. avendone significativamente ampliato l'ambito di
esperibilità. In primo luogo, essa e' esperibile non più solo in sede di giurisdizione esclusiva
e/o di merito. Inoltre, ma soltanto in sede di giurisdizione esclusiva, per un verso, può
essere proposta anche dalla P.A.; e, per un altro verso ancora, essa non e' più finalizzata
esclusivamente all'ottenimento di pronunce a contenuto pecuniario. Nel primo caso, a
differenza del passato nell'ambito delle materie di giurisdizione esclusiva, anche alla P.A. sia
consentito proporre l'azione di condanna al fine di conseguire l'adempimento delle
obbligazioni che un privato abbia nei suoi confronti. Sotto il secondo profilo, anche qui
rinnovato il quale ammetteva la condanna solo per l'adempimento di obbligazioni pecuniarie,
ove si versi nell'ambito della giurisdizione esclusiva nei confronti della P.A., il privato può
vantare anche obbligazioni che non abbiano contenuto pecuniario. Il legislatore del C.P.A ha
stabilito, dapprima, che siffatto tipo di azione può essere proposta contestualmente ad altra
azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e anche in via autonoma. Per ogni domanda
che faccia riferimento al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o in casi
particolari, di diritti soggettivi, conosce esclusivamente il giudice amministrativo. E' doveroso
precisare che l'art. 30, co. 1, nel disporre l'autonomia, si riferisce all'azione di condanna in
genere (restituzione di un immobile ad. es), e non solo a quella specifica al risarcimento dei
danni, che e' disciplinata ai commi successivi. Si può affermare senza incertezza che l'azione
di condanna ha acquistato con il C.P.A. piena autonomia rispetto alle altre azioni esperibili
davanti al G.A. Essa, tuttavia, non sempre e' esperibile in via autonoma. Difatti deve
ritenersi che tale autonomia non e' sempre sussistente, giacché, quando la fattispecie
concreta in cui si versi lo renda indispensabile, l'azione di condanna deve essere esperita
assieme a quella di annullamento: laddove il frontista della P.A. aspiri ad ottenere il bene
della vita che il provvedimento illegittimamente gli ha negato, non può vedersi soddisfatto
solo con l'azione risarcitoria, dovendosi affiancare ad essa l'azione caducatoria.
Per il risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in
conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento, il termine di 120 giorni non decorre fintanto che perdura l'inadempimento. Il
termine di 120 giorni inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine
per provvedere.
Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere
formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in
giudicato della relativa sentenza.

AZIONE DI CONDANNA ----> Al pagamento -----> 1. Danni per equivalente pecuniario; 2: di


somme dovute; 3: delle spese di lite.
AZIONE DI CONDANNA AD UN FARE SPECIFICO ---> 1. A titolo di risarcimento; 2. a titolo di
adempimento

L'azione di condanna al risarcimento dei danni per equivalente pecuniario, e' una
tipica azione a contenuto pecuniario. Essa può essere proposta per le seguenti motivazioni:
a) per lesione di interessi legittimi qualunque sia la giurisdizione (art 30, commi 3 e 6); b)
per lesione di diritti soggettivi solo in sede di giurisdizione esclusiva ( art. 30 co. 2 e 6).
Essa può essere esperita: a) “contestualmente ad altra azione” ; b) “anche in via
autonoma”, per la lesione di interessi legittimi – nei casi di giurisdizione esclusiva , di
illegittimo esercizio dell'attività amministrativa e di mancato esercizio dell'attività
amministrativa obbligatoria- e di diritti soggettivi- solo nei casi di giurisdizione esclusiva.
L'art. 30 al co. 2, individua la fonte del danno ingiusto che e' risarcibile rivolgendosi al G.A.
nell'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa, oppure nel mancato esercizio di quella
obbligatoria. In entrambe le ipotesi, l'azione risarcitoria e' proponibile laddove l'attività
amministrativa abbia provocato la lesione di un interesse legittimo; ciò nondimeno, essa e'
proponibile anche laddove abbia determinato la lesione di un diritto soggettivo, sempre che,
però, si versi nelle materie di giurisdizione esclusiva. Il risarcimento del danno può essere
richiesto, non solo per equivalente pecuniario, ma anche “in forma specifica”, beninteso
soltanto ove sussistano i presupposti previsti dall'articolo 2058 del codice civile. Il legislatore
individua anche uno specifico criterio per la determinazione ad opera del G.A. della
sussistenza del danno, “autorizzandolo” ad indagare il rapporto controverso: il co. 3 dell'art.
30, stabilisce che “nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di
fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei
danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso
l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”. E' necessario però, in primis, affrontare il
problema della “pregiudizialità amministrativa”. Sotto il profilo semantico,
“pregiudiziale” e' qualcosa che deve essere esaminato prima: e dunque, la mancata
proposizione della domanda di annullamento pregiudica la possibilità di proporre quella di
risarcimento; l'eventuale accoglimento della domanda risarcitoria e' subordinata
all'accoglimento di quella di annullamento. Il giudice deve decidere prima sulla illegittimità
dell'atto, accertata, l'accertata sussistenza della quale e' fonte del danno ingiusto, che
costituisce l'indefettibile presupposto della condanna al risarcimento. Insomma, qualora il
G.A. riscontri la illegittimità dell'atto, prima lo annulla, e poi può decidere con riguardo al
profilo risarcitorio; per poter chiedere il risarcimento dei danni cagionati dall'atto
amministrativo illegittimo, e' necessario previamente impugnarlo ed ottenere il
suo annullamento. Questa e' la pregiudizialità amministrativa. Oggi, con l'entrata in vigore
del C.P.A., si ritiene che la questione della pregiudizialità sia stata risolta, almeno sotto il
profilo sostanziale. Riassumendo in estrema sintesi i due supremi consessi giurisdizionali
possiamo dire che, secondo la tesi sostenuta dal Consiglio di Stato era evidente che, una
volta introdotta nell'ordinamento l'azione risarcitoria davanti al G.A., al fine di ottenere il
risarcimento da parte di questi, fosse comunque necessario conseguire l'annullamento
dell'atto illegittimo: per poter condannare al risarcimento dei danni ingiustamente patiti per
la sua illegittimità, era necessario che il G.A. eliminasse previamente l'atto illegittimo fonte di
essi. Per conseguenza, andava considerata inammissibile un'azione di condanna autonoma:
solo a seguito dell'impugnazione del provvedimento che si assume illegittimo, il G.A.,
verificatane la illegittimità e perciò annullatolo, potrebbe procedere alla condanna ex art.
2043 c.c. Riconoscendo la ingiustizia del danno subito nel nesso di causalità fra quest'ultimo
e la illegittimità dell'atto. Fu ribattuto dalla Corte di Cassazione, la quale riaffermava
l'autonomia della tutela risarcitoria rispetto a quella caducatoria. Tale autonomia, secondo la
Corte, rinverrebbe il proprio fondamento anzitutto nei precetti costituzionali stabiliti dagli
art. 24. e 113., co. 1 e 2; nonché nella disciplina dettata dalla L. 205/2000, nella quale
sarebbe stata recepita la riflessione secondo cui, “se l'ordinamento protegge una situazione
di interesse sostanziale, in presenza di condotte che ne impediscono o mancano di
consentirne la realizzazione, non può esser negato al suo titolare almeno il risarcimento del
danno, posto che ciò costituisca misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse,
indipendentemente dal fatto che la protezione assicurata dall'ordinamento in vista della sua
soddisfazione, sia quella propria del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo. Rilevando
che manca una norma che subordini la tutela risarcitoria alla proposizione dell'azione
caducatoria, le SS.UU. concludono che la parte, titolare d'una situazione di interesse
legittimo, se pretende che questa sia rimasta sacrificata da un esercizio illegittimo della
funzione amministrativa, ha diritto di scegliere tra fare ricorso alla tutela risarcitoria anziché
a quella demolitoria e che tra i presupposti di tale forma di tutela giurisdizionale davanti al
giudice amministrativo, non e' quello che l'atto in cui la funzione si e' concretata sia stato
previamente annullato in sede giurisdizionale o amministrativa. Per evitare il doppio giudizio,
prima davanti al G.A. poi davanti al G.O., la Corte decise nel senso che il G.O. fosse
dall'ordinamento riconosciuto il potere di indagare sulla illegittimità della fonte del danno
nell'ambito del giudizio risarcitorio, senza che prima fosse esperito quello caducatorio
davanti al G.A. Secondo le S.S.UU. l'azione risarcitoria avente ad oggetto la tutela di un
diritto soggettivo poteva essere proposta autonomamente rispetto all'azione di
annullamento, il G.O. essendo in grado di valutare la illegittimità del provvedimento, non
diversamente da come verifica qualsiasi altra fonte del danno: e' irrilevante se la fonte del
danno sia di natura “privatistica” o “pubblicistica”, quel che conta e' il disposto dell'art. 2043
c.c., il quale prevede che chi subisce un danno ingiusto, perché causato da un
provvedimento amministrativo assunto come illegittimo, può proporre l'azione risarcitoria
autonomamente e al giudice adito spetta il compito di accertare, indipendentemente dalla
sua natura, se la fonte del danno di cui si pretende il risarcimento, sia ingiusta. Secondo il
Supremo Collegio amministrativo occorre tener presente che l'azione risarcitoria per la
lesione di un diritto si prescrive in cinque anni e non può lasciarsi nella incertezza per un
così lungo periodo di tempo, la definizione di una fattispecie che involge la cura di un
interesse pubblico: pertanto l'azione risarcitoria e' possibile soltanto se viene esperita, nei
termini di decadenza, quella di annullamento. La questione viene risolta dal C.P.A. con un
compromesso: l'azione di condanna al risarcimento acquista autonomia, ma non soggiace
più alla prescrizione, bensì ad un raddoppiato termine di decadenza. In buona sostanza, il
legislatore decide di risolvere la disputa fra le due giurisdizioni nel senso salomonico, di non
premiare una sola di esse, individuando nel seguente il punto di equilibrio: se, per un verso
assume la tesi della Cassazione, stabilendo la possibile autonomia dell'azione di condanna,
per altro verso, raccoglie la principale preoccupazione del Consiglio di Stato sottraendola alla
prescrizione e sottoponendo la sua esperibilità ad un termine di decadenza doppio, rispetto
a quello tradizionale (da 60 a 120 giorni).Tra l'azione di annullamento e l'azione di
condanna, la seconda e' sì esperibile anche a prescindere dalla prima e tuttavia essa
difficilmente potrà risolversi nel senso favorevole al ricorrente senza che questi abbia agito
per l'annullamento del provvedimento illegittimo, solo questa strada consentendogli di
dimostrare di aver fatto tutto ciò che fosse nelle sue possibilità per evitare di sopportare il
danno ingiusto.

3.2.2 L'azione di condanna al pagamento delle somme dovute


Secondo il C.P.A., laddove accolga il ricorso, il G.A., nei limiti della domanda, può
condannare la P.A. al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del
danno. Il giudice, quindi, può condannare al pagamento non solo a titolo di risarcimento,
bensì anche al pagamento di somme di denaro di cui la P.A. risulti debitrice.

3.2.3. L'azione di condanna al pagamento delle spese di lite


Fra le azioni di condanna a contenuto pecuniario dobbiamo annoverare anche quella
concernente il pagamento delle spese di lite, che, pur conseguendo alla conclusione di una
lite giudiziaria, va intrapresa autonomamente con apposita domanda. Nel corso del tempo si
e' andata progressivamente registrando la tendenza del G.A. a compensare le spese di
giudizio. Siffatta tendenza, non può suscitare qualche perplessità perché, in tal modo, si
finisce per castigare irragionevolmente chi e' stato costretto a costituirsi in giudizio per
difendere la sua posizione giuridica soggettiva. E' per questo che, l'orientamento sembra
essersi invertito, tanto che il C.P.A., nel richiamare espressamente l'art. 92 c.p.c., di fatto
prevede che la compensazione sia possibile soltanto per gravi ed eccezionali ragioni,
esplicitamente indicate nella motivazione.

3.2.4. L'azione di condanna ad un fare specifico a titolo di risarcimento .


La condanna ad un fare specifico può essere causata, oltre che dal dover risarcire un danno,
pure dalla necessità di ottenere l'adempimento di un dovere della P.A. La fonte del danno
ingiusto può essere sia un provvedimento amministrativo illegittimo, sia la legittima inerzia
della P.A., cioè un silenzio inadempimento. Una volta accertato il danno illecito procurato ad
un privato, il G.A. può condannare la P.A. che ne e' responsabile a risarcirlo, secondo cui il
giudice oltre a poter condannare all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione
giuridica soggettiva dedotta in giudizio, può anche disporre misure di risarcimento in forma
specifica ai sensi dell'articolo 2058 del codice civile. Quest'azione resta pur sempre
un'azione di condanna al risarcimento per fatto illecito, il che significa che il giudice e' messo
nelle condizioni di prendere in considerazione, ai fini della delibazione della fattispecie,
anche elementi che non siano formalmente emersi nella vicenda procedimentale.

LA DISCIPLINA DEL SILENZIO DELLA P.A. (secondo G. Clemente di San Luca, in una
frase: “ Il silenzio della P.A. (verso il cittadino frontista richiedente) è il significato giuridico
che la legge ha voluto dare all’inerzia ed alla immobilità della Pubblica Amministrazione,
fregandoci tutti”):
L'espressione "silenzio della pubblica amministrazione" indica genericamente una omissione,
che può essere poi specificamente riferita: alla mancata emanazione di un atto, alla mancata
decisione su un ricorso gerarchico, al mancato esercizio del potere di sorveglianza, al rifiuto
tacito di provvedere. Con essa si intende quindi un comportamento inerte, mantenuto in
tutti quei casi nei quali (al contrario) la legge prescrive di compiere una certa attività.
Questo comportamento, che di per sé è totalmente "neutro" (cioè non ha valore né negativo
né positivo), è in antitesi con il nostro sistema di diritto amministrativo, che si caratterizza
per essere centrato sull'atto amministrativo: per costituire, modificare o estinguere i rapporti
di diritto amministrativo, occorre un atto dell'autorità amministrativa, ed anzi deve trattarsi
di un atto esplicito, formale e tipico. Un comportamento inerte è evidentemente inidoneo a
questo scopo , salvo i casi in cui la legge ricolleghi espressamente al fatto del "silenzio"
dell'amministrazione su un'istanza dei privati, il significato legale di atto "implicito" di
assenso (silenzio assenso), o rigetto (silenzio diniego), della domanda. Ed è proprio questo
che noi dobbiamo studiare: il significato giuridico che la legge dà, in taluni casi, al silenzio
della Pubblica Amministrazione:
Ci sono casi in cui la legge riconosce particolare significato giuridico al silenzio della PA,
equiparandolo ad un vero e proprio atto amministrativo (e quindi impugnabile, come
qualsiasi altro atto amministrativo), in questo caso parliamo di SILENZIO SIGNIFICATIVO
che va tenuto distinto dal SILENZIO INADEMPIMENTO. Andiamo, allor quindi, ad analizzare
a livello contenutistico cosa è il silenzio significativo, la macro categoria concettuale più
consistente della disciplina / materia del silenzio della PA:
- IL SILENZIO SIGNIFICATIVO (assenso, rigetto, rifiuto) : Nell’ambito del Silenzio
significativo, sotto il profilo del contenuto, distinguiamo 3 ramificazioni concettuali :
Silenzio-assenso: Ricorre quando la legge attribuisce all’inerzia della PA il significato di
accoglimento dell’istanza. “Silenzio assenso” inteso, quindi, come “conferma” ; come a dire
“chi tace acconsente”. Quindi, per quanto detto, quello che dobbiamo capire è che il silenzio
è considerato alla stregua di un atto e perciò impugnabile per attenere l’annullamento del
silenzio-assenso da parte del GA (giudice amministrativo);
Silenzio-rigetto: Si forma e viene a nascere, generalmente, su ricorso amministrativo e
ricorre, specificatamente, quando la legge stabilisce che l’inerzia della PA debba essere
intesa come rigetto del ricorso. Quindi è la legge che disciplina, scrupolosamente, quando il
silenzio della PA deve intendersi come rigetto. Anche in questo caso, quindi, si deve capire
che il silenzio può essere impugnato perché considerato alla stregua di un atto (quindi si
impugna, praticamente, la decisione di rigetto del ricorso). Il silenzio rigetto è la tipologia di
silenzio da non confondere con quella di diniego (che a breve vedremo), in quanto il rigetto
è un “no al ricorso che il privato propone” , mentre il diniego, il rifiuto è un “no all’istanza
che il privato propone” ;
Silenzio-rifiuto (o c.d. diniego): ricorre quando la legge attribuisce all’inerzia della PA il
significato di rifiuto dell’istanza. Anche in questo caso può essere impugnato dinnanzi al GA.
- IL SILENZIO INADEMPIMENTO : Il Silenzio inadempimento, invece, si ha quando
sussiste comunque inerzia della PA, ma la legge NON attribuisce significato giuridico al
silenzio. In questo caso il semplice inadempimento, che si qualifica quindi come semplice
immobilità, inerzia, della PA e non ha quindi un significato giuridico, può costituire oggetto di
giudizio davanti al GA, al quale il ricorrente chiede (al giudice) di ordinare alla PA di
esprimersi. Inoltre il GA può, con la sentenza che decide il ricorso avverso il silenzio-
inadempimento, nominare un commissario ad acta capace di operare in luogo della PA
quando questa resti inadempiente malgrado l’ordine del giudice (qui ricorre il giudizio di
ottemperanza, che in questa sede non ci compete ancora). /
Dopo questa analisi analitica / schematica sintetica, si ripropone di seguito una corposa
ricapitolazione della importantissima disciplina del silenzio dell’amministrazione pubblica:
Il silenzio della pubblica amministrazione è un comportamento omissivo dell’amministrazione
di fronte a un dovere di provvedere, di emanare un atto e di concludere il procedimento con
l’adozione di un provvedimento entro un termine prestabilito. L’ordinamento distingue il
silenzio in ipotesi legislativamente qualificate in senso positivo (silenzio assenso), in senso
negativo (silenzio diniego e silenzio rigetto) e ipotesi non giuridicamente qualificate (silenzio
inadempimento, quarta ipotesi particolarissima di cui non abbiamo prima menzionato la
disciplina per poca preponderanza teorica).
Il silenzio assenso. - L’art. 20 della l. n. 241/1990 (modificato dall’art. 3 d.l. n. 35/2005)
include il silenzio assenso tra gli istituti di semplificazione amministrativa . La norma
stabilisce che nei procedimenti a istanza di parte, esclusi quelli disciplinati dall’art. 19
(Segnalazione certificata di inizio attività), per il rilascio di provvedimenti amministrativi, «il
silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della
domanda», se la stessa amministrazione non comunica all’interessato, nel termine indicato
dalla legge, il provvedimento di diniego ovvero se, entro 30 giorni dalla presentazione
dall’istanza, non indice una conferenza di servizi. Il silenzio assenso in alcuni casi è
espressamente escluso dalla legge (per es., per procedimenti e gli atti riguardanti il
patrimonio culturale e paesaggistico, nei casi in cui la legge qualifica il silenzio come rigetto
ecc.). In ogni caso l’art. 20, co. 3, prevede che l’amministrazione possa, in via di autotutela
annullare (Annullamento d’ufficio) o revocare (con la revoca che rivisita, come sappiamo, il
merito) l’atto implicito di assenso (art. 21 quinquies e nonies).
Il silenzio diniego (rifiuto) ed il silenzio rigetto. - Il silenzio diniego e il silenzio rigetto
sono due ipotesi in cui le norme attribuiscono espressamente all’inerzia dell’amministrazione
una qualificazione giuridica negativa. Nel primo caso, decorso inutilmente un determinato
periodo di tempo, il silenzio equivale a un provvedimento di diniego. Così, per es., in materia
di diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il silenzio rigetto, invece, si ha in caso di
mancata pronuncia sul ricorso gerarchico decorsi 90 giorni dalla sua presentazione, senza
che l’organo adito abbia comunicato la decisione, in questo caso esso si intende respinto.
Il silenzio inadempimento. - Nei casi in cui la legge non qualifica espressamente il
silenzio, ovvero nelle numerose materie in cui il silenzio assenso non trova applicazione per
espressa diposizione di legge (si tratta delle materie indicate al comma 4 dell’art. 20 della l.
n. 241/1990 che, per la loro rilevanza, necessitano di un’istruttoria e di una manifestazione
espressa del potere: ad es., ambiente, difesa nazionale, patrimonio culturale, immigrazione,
cittadinanza), il silenzio dell’amministrazione equivale a un ‘inadempimento’, quindi, come
surriferito, il silenzio non ha valenza giuridica, non significa nulla, e quindi è un vero e
proprio inadempimento della P.A. Pertanto un soggetto che abbia richiesto l’adozione di un
provvedimento, decorsi inutilmente i termini entro cui avrebbe dovuto pronunciarsi la
pubblica amministrazione può presentare ricorso al giudice amministrativo fintanto che
perdura l’inadempimento. La disciplina concernente la tutela avverso il silenzio
inadempimento è ora contenuta nel Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010)
all’art. 31 (che prevede l’azione avverso il silenzio) e all’art. 117 (che disciplina invece il
regime processuale di tale azione).
Tutela giurisdizionale avverso l’inerzia della P.A. (par . 14.2, Capitolo 8, pag. 825 manuale):
L’art 31 del c.p.a. disciplina la tutela giurisdizionale avverso il SILENZIO - INADEMPIMENTO
della P.A. Presupposto per tale tutela è che ci sia in capo alla PA un obbligo di provvedere
ad una determinata richiesta, al quale quest’ultima è venuta meno. L’azione avverso il
silenzio-inadempimento è un’AZIONE DI CONDANNA esperibile fintanto che perdura
l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione
del procedimento (come già riferito antecedentemente). Competente è il G.A. L’art 117
stabilisce che, quando il giudice accoglie l’impugnazione, ordina alla P.A. di provvedere entro
un termine non superiore a 30 giorni. Se la P.A. anche in questo caso non provvede il G.A.
può nominare un commissario ad acta che provvede in luogo alla P.A.
Dovrebbe essere già chiaro al lettore più acuto che nelle ipotesi di SILENZIO-
SIGNIFICATIVO non è esperibile il rimedio dell’articolo 31 e 117. Difatti l’oggetto di tale
giudizio deve essere l’inerzia della PA e non il silenzio della PA che ha, come stradetto, nei
casi che non sono di silenzio inadempimento, un significato giuridico alla stregua di un vero
e proprio atto amministrativo, e non l’obbligo di provvedere, che viene solitamente
demandato dal GA alla PA quando vi è un silenzio inadempimento di questa ultima e quando
vi è una azione di ricorso esperita in base agli artt. 31 e 117 . Concludiamo dicendo che
l’azione processuale riconosciuta è l’AZIONE DI ANNULLAMENTO.

Profili problematici circa l’impugnabilità del silenzio, come fosse un atto amministrativo =
motivazioni mancanti, ergo difficoltà da parte del ricorrente di trovare vizi nell’ “atto”, in
quanto, come detto, la motivazione è il miglior luogo giuridico dove si possono trovare vizi
dell’atto per poi quindi adire un giudice: A ben riflettere, il silenzio assenso può dipendere da
una SCELTA della stessa PA per ragioni che, non solo contrastano con l’esigenza di garanzia
dei controinteressati (la PA rimanendo silente pregiudica l’interesse dei controinteressati
giacché resterebbero privi di un esplicito provvedimento, sugli eventuali vizi del quale
costruire il ricorso) ma anche per ragioni di economia dei mezzi. Infatti in questo modo
risulta assai difficile sindacare la legittimità dell’uso del potere, questo difettando di una
manifestazione formale. La PA quando risponde espressamente deve motivare la sua scelta,
laddove invece manifesti il proprio assenso in maniera silente evita di esplicitare la
motivazione, quindi i controinteressati, pur potendo impugnare il silenzio come se fosse un
provvedimento, sarebbero comunque privati della effettiva possibilità di costruire il ricorso
non essendovi i relativi motivi.

3.2.5. L'azione di condanna ad un fare specifico a titolo di adempimento: l'azione


avverso il silenzio e l'azione di condanna a titolo di adempimento nel caso di
provvedimento illegittimo (negativo o positivo)
Il G.A. può condannare la P.A., non solo dove abbia rilevato un illecito aquiliano, ma anche
laddove abbia rilevato l'inadempimento di una sua obbligazione. La condanna ad un fare
specifico, può conseguire anche al semplice accertamento di un non ottemperato obbligo
della P.A. cui il G.A. pone rimedio ordinando ad essa di adempiere. Le ipotesi in cui il G.A.
può condannare ad un fare specifico a titolo di adempimento, sono essenzialmente le
seguenti: a) il caso in cui, sulla istanza di un privato, si sia formato un silenzio-
inadempimento; b) il caso in cui l’istanza di un privato abbia ricevuto un provvedimento di
diniego del quale il G.A. abbia accertato la illegittimità; c) il caso in cui la P.A. abbia
emanato un provvedimento illegittimo il cui annullamento giurisdizionale e' inidoneo in sè a
soddisfare la pretesa del ricorrente.
L'azione avverso il silenzio. Secondo il C.P.A., una volta decorsi i termini per la
conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha
interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere. E'
evidente che la disposizione faccia riferimento all'istituto del silenzio inadempimento. La
fattispecie che disegna il Legislatore e' questa: se e' trascorso infruttuosamente il termine
entro il quale la P.A. ha l'obbligo di provvedere in maniera espressa, chi vi ha interesse può
adire il G.A. e chiedere che, accertato l'inadempimento, condanni la P.A. a provvedere.
L'azione può essere proposta fintanto che perdura l'inadempimento e, comunque,
non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. Il
decorso di tale termine senza l'esperimento del ricorso, sembrerebbe precludere
l'azione giurisdizionale, nonostante sia previsto che e' fatta salva la
riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i
presupposti. In questo caso, per un verso, non occorre il passaggio in giudicato di una
sentenza per proporre l'azione; per un altro verso, non valgono i termini di 60 e 120 giorni:
e' dal momento in cui si determina l'inadempimento che si può esperire l'azione affinché il
giudice accerti che sia stato violato l'art. 2 L. 241/1990. Tale azione può essere intrapresa
fino a che perduri l'inadempimento, ma comunque nel limite di un anno da quando esso si e'
formato per la prima volta. Il giudice, inoltre, può pronunciare sulla fondatezza della pretesa
dedotta in giudizio, sebbene possa farlo solo quando si tratta di attività vincolata o quando
risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono
necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. Il C.P.A.
ha definitivamente chiarito i dubbi precedenti, affermando che al giudice non e' dato di
esprimere valutazioni di merito, anche solo tecniche discrezionali. Laddove l'attività
amministrativa si configura come vincolata, il G.A., può spingersi fino ad ordinare alla P.A. di
emanare il provvedimento richiesto dal soggetto istante. La domanda volta all'accertamento
delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta
giorni. La nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata
d'ufficio dal giudice
L'azione di condanna a titolo di adempimento nel caso di provvedimento
illegittimo (negativo o positivo). L'art. 34 co.1, lett. c) stabilisce chiaramente che e'
attribuito al G.A. il potere di condannare la P.A. ad adottare le misure idonee a tutelare la
situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. L'assunto trova conferma nella
modificazione operata dal D.lgs, 160/2012, il quale ha aggiunto al testo della disposizione
che "l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto e' esercitata
contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso
il silenzio. L'azione volta ad ottenere che il G.A. ordini alla P.A. la emanazione di un
determinato provvedimento deve ritenersi non più limitata alle ipotesi di silenzio, essa ben
potendo essere affiancata da un'azione di annullamento. In altre parole, se appare
inopinabile tale estensione ai provvedimenti "negativi", visto l'esplicito riferimento della
norma all'azione di annullamento del provvedimento di diniego, quella ai provvedimenti
positivi può predicarsi soltanto in via interpretativa. Restando sempre nei limiti dell'art. 31
comma 3, non sembra doversi escludere che l'azione di condanna ad un fare specifico a
titolo di adempimento, possa esperirsi anche nel caso in cui il ricorrente abbia conseguito
l'annullamento di un provvedimento positivo illegittimo. Tutto ciò (può escludersi) può
avvenire soltanto ove non residuino alla P.A. margini anche minimi di discrezionalità
nell'adempiere al disposto della sentenza di annullamento. E' necessario dover chiarire, che
non può sussistere alcuno spazio per interpretazioni fino ad immaginare che al G.A. sia
consentito di compiere scelte discrezionali in luogo della P.A. Va tenuto conto però, che
all'interno del C.P.A., non ha trovato posto una espressa disciplina dell'azione di
adempimento. Quella in esame, quindi, pare configurarsi come un'azione di condanna, che
naturalmente presuppone un accertamento, e che e' funzionalizzata a conseguire
l'adempimento della P.A. La conclusione si ricava anche dal disposto della lett c) dell'art. 34,
co 1, il quale autorizza ad estendere la qualificazione come di condanna a titolo di
adempimento anche all'azione volta ad ottenere il provvedimento legittimo dopo
l'annullamento giurisdizionale di quello illegittimo. E trova conferma ulteriore nella
successiva lettera e), che assegna al G.A. il potere di disporre le misure idonee ad assicurare
l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, fra le quali è espressamente
compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di
cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza.

3.2.6. L'azione di condanna all'accesso ai documenti amministrativi


Una ipotesi peculiare di azione di condanna a titolo di adempimento e' quella dell'azione per
l'accesso ai documenti amministrativi. Nel caso in cui ad una istanza di accesso per prendere
visione o estrarre copia di un documento amministrativo, la P.A. che e' tenuta a consentirlo
lo neghi, ovvero rimanga inerte, il soggetto istante può esperire un'apposita azione, al fine
di poter proporre la quale devono essere trascorsi 30 giorni dalla presentazione dell'istanza.
Con l'azione il ricorrente chiede al G.A. di ordinare alla P.A. la esibizione del documento
richiesto: il giudice, pertanto, laddove riscontri la fondatezza della domanda, e' dotato di un
potere particolarmente pregnante, consistente nell'ordinare la esibizione e, ove previsto, la
pubblicazione in un termine breve, non superiore di norma a trenta giorni, degli specifici
documenti richiesti, essendo capace di dettare anche, ove occorra, le relative modalità. Alla
luce della disciplina appena richiamata, appare chiaramente che questo tipo di azione, fa
parte della categoria di quelle di "condanna" ad un fare specifico a titolo di adempimento.
3.3. L'azione di accertamento
Il potere di pronunciare sentenze di mero accertamento oggi riconosciuto al G.A. mai può
avere ad oggetto la sussistenza di un interesse legittimo, giacché, quando si tratti della
lesione di questo, per soddisfare la pretesa del ricorrente, il giudice e' dotato del potere di
annullamento dell'atto che l'ha leso. Come abbiamo avuto modo di vedere, l'azione avverso
il silenzio e quella per l'accesso ai documenti amministrativi, pur presentando evidenti profili
di accertamento, vanno catalogate fra le azioni di condanna ad un fare specifico a titolo di
adempimento, non potendo qualificarsi come di mero accertamento perché il loro fine
ultimo, tipizzato dalla legge, consiste nel condannare la P.A. ad adempiere. Tuttavia, si deve
ritenere che il C.P.A. consideri ammissibile un'azione di mero accertamento, sia quando si
tratti di accertare la sussistenza di diritti, sia quando si tratti di accertare la veridicità della
asseverazioni del privato che la legge prevede quali 'sostitutive' di certificazioni
amministrative (le cc.dd. Segnalazione certificata di inizio attività -SCIA- e dichiarazione di
inizio attività - D.I.A.).

3.3.1. L'azione di accertamento della nullità


L'unica azione di mero accertamento espressamente prevista dal C.P.A. e' quella di
accertamento della nullità, secondo cui e' possibile proporre domanda volta all'accertamento
delle nullità previste dalla legge. Le appena menzionate nullità previste dalla legge, sono
quelle riportate dall'art. 21 septies, L. 241/1990 che così testualmente recita: "E' nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che e' viziato
da difetto assoluto di attribuzione, che e' stato adottato in violazione o elusione
del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge." Al
riguardo occorre anzitutto rilevare la evidente imprecisione concernente le prime due ipotesi
del dettato normativo: la seconda e' una chiara specificazione della prima, il difetto assoluto
di attribuzione consistendo nella mancanza del soggetto, il quale integra il primo,
indefettibile, elemento essenziale dell'atto amministrativo. L'azione si propone in un termine
triplicato rispetto a quello tradizionale: dice la norma infatti, che la si può esperire entro il
termine di decadenza di 180 giorni. Non sembra diverso, invece, il momento iniziale della
sua decorrenza e cioè, la notificazione, la comunicazione, la eventuale pubblicazione, o
comunque la piena conoscenza del provvedimento. Dubbi e perplessità persistono in dottrina
in relazione alla stessa ragion d'essere dell'azione di nullità, ed anzi la questione si pone
prima ancora sul piano del diritto sostanziale. Su tale piano, si discute sulla fondatezza della
categoria "nullità" come distinta, da un canto, da quella della annullabilità, e, dall'altro, da
quella della inesistenza. A dire il vero, non appare peregrino domandarsi a cosa serva
ottenere la dichiarazione di nullità di un atto che, in quanto nullo, non dovrebbe produrre
effetti. In realtà, secondo la diffusa legislazione vigente, la nullità non costituirebbe più uno
stato versando nel quale l'atto sarebbe incapace di produrre effetti radicalmente, ma una
forma di invalidità particolarmente grave: più grande dell'annullabilità, ma non tanto quanto
lo e' la inesistenza. La strada per pervenire ad una siffatta conclusione dalla Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, nelle quali, metteva la configurabilità dell'atto amministrativo
nullo, considerando sì quest'ultimo "improduttivo" di qualsiasi effetto giuridico, ma
riconoscendo che il ricorrente potesse invocare la costituzione di un rapporto lavorativo di
fatto con le conseguenze favorevoli di cui all'art. 2126 c.c. In tal modo il Supremo Giudice
amministrativo, tratteggia la diversità concettuale tra le figure dell'inesistenza e della nullità,
per certo verso avvicinando quest'ultima, anche se sotto il profilo degli effetti,
all'annullabilità. A suo avviso, l'atto affetto da nullità, sarebbe in grado di generare un
rapporto, alcune conseguenze giuridiche del quale possono essere "sopportate"
dall'ordinamento; in secondo luogo, fintanto che la nullità non viene accertata e dichiarata,
l'atto sarebbe capace di produrre effetti così come lo e' quello annullabile.
Una volta entrato in vigore il C.P.A., questa conclusione giurisprudenziale viene,
generalizzata da una parte della giurisprudenza amministrativa. Ciò accade con la sentenza
del Consiglio di Stato sostenne chiaramente che la rilevabilità d'ufficio della nullità sia
demandata solo al giudice ed escluderebbe che la stessa possa essere rilevata dai
destinatari dell'atto nullo, i quali non possono sottrarsi agli effetti dell'atto, ovvero agire
come se l'atto non esistesse e/o fosse improduttivo di effetti, opponendo la nullità dello
stesso; questo perché essi, onde tutelare le proprie posizioni giuridiche, hanno il potere di
agire in giudizio al fine di ottenerne la declaratoria di nullità. Tale osservazione porta la IV
sezione ad affermare che il provvedimento amministrativo, ancorché nullo, ha, tuttavia, una
propria efficacia interinale, la quale rende possibile la stessa definizione dell'atto come
provvedimento amministrativo dotato di imperatività. Il Consiglio di Stato arriva alla
conclusione secondo cui l'atto nullo e' idoneo a modificare la realtà che ne e' oggetto. Ne
discende, che la coincidenza della nullità con la inesistenza venga messa fortemente in
dubbio; e, per altro, che l'atto amministrativo nullo, sotto il profilo della sua idoneità a
produrre effetti, sembra non dissimile dall'atto annullabile, sebbene le due forme di invalidità
continuino a mantenere un regime giuridico in parte differente. In definitiva, sembra potersi
ritenere che la declaratoria di nullità sia in grado di conseguire il risultato di bloccare quegli
effetti che l'atto nullo sarebbe comunque in grado di produrre. A ben riflettere, appare più
convincente ritenere che sia proprio questo il risultato conseguibile con l'azione di nullità, e
non che sia stata concepita come funzionalizzata al mero scopo di conseguire
semplicemente una maggiore certezza nelle situazioni giuridiche.

4. I termini decadenziali per la proposizione del ricorso: la notificazione


Per la proposizione di tutte le azioni, l'ordinamento stabilisce dei termini entro i quali il
relativo ricorso va notificato. Prima dell'avvento del C.P.A., come anticipato, ogni azione
andava intrapresa, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla notificazione, comunicazione o
pubblicazione del provvedimento impugnando, ovvero almeno della sua conoscenza. Oggi,
per ciascuna azione diversa da quella di annullamento, per la quale e' ancora di 60 giorni, il
C.P.A. detta termini diversi. Per quella di annullamento il termine per notificare il ricorso e'
tuttora di 60 giorni, a decorrere dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza del
provvedimento impugnato, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione
individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista
dalla legge o in base alla legge. Il fatto di disporre di uno stretto termine decadenziale, si
spiega con l'esigenza di scongiurare la incertezza, sia della definizione in concreto
dell'interesse pubblico specifico, sia dell'assetto degli interessi dei soggetti coinvolti
dall'azione amministrativa, assetto che e' proprio tale definizione in concreto a determinare.
Laddove si faccia questione della lesione di diritti soggettivi e non si impugni un
provvedimento amministrativo, non si applica il termine di decadenza, bensì quello di
prescrizione dei diritti di cui si lamenta la lesione. Va detto, peraltro, che l'affermazione
viene mitigata da alcune significative eccezioni: si pensi, ad esempio, ai casi dell'azione
avverso il silenzio, dell'azione di condanna, o ancora dell'azione a tutela dell'accesso civico.
Per l'azione di condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di interessi
legittimi, invece, il termine di 120 giorni decorre da un momento diverso "dal passaggio in
giudicato della sentenza con cui si conclude il giudizio di annullamento". Quanto all'azione
di accertamento della nullità, il termine e' di 180 giorni, ma solo per il ricorrente,
giacché per chi resiste in giudizio la nullità dell'atto può sempre essere opposta, così come
può essere rilevata d'ufficio dal giudice. Diverso, e del tutto peculiare, e' il caso dell'azione
avverso il silenzio, che può essere proposta fintanto che perdura l'inadempimento, e per
la quale comunque il termine per notificare il ricorso e' di un anno a decorrere dalla
scadenza del termine di conclusione del procedimento. Il disposto del Codice ha risolto il
notevole dibattito apertosi in dottrina e in Giurisprudenza per il fatto che, nel caso di
silenzio, oggetto del giudizio non sia un atto, bensì l'inerzia della P.A., così determinandosi
una singolare circostanza: che la lesione di un interesse legittimo sia causata dalla
illegittimità di un comportamento (omissivo), e non di un atto amministrativo. Ne derivó il
dubbio se dovesse comunque operare il termine decadenziale dei 60 giorni, visto che si
verte sulla lesione di un interesse legittimo, oppure no, trattandosi di un giudizio non
impugnatorio. In via generale, tutti i termini del processo amministrativo sono perentori,
sebbene l'istituto dell'errore scusabile temperi la rigidità della disciplina. E' necessario
analizzare, peraltro, la decorrenza del termine per notificare il ricorso. L'art. 41 co. 2
dispone che esso decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza dell'atto
che si impugna, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal
giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in
base alla legge. Inoltre, l'art. 40 chiaramente fa riferimento alla necessaria introduzione per
iscritto, della data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza.
Il C.P.A., allo scopo di garantire la possibilità della sua eventuale impugnazione, prevede
diversi strumenti di conoscenza legale dell'atto amministrativo. Il primo e più diffuso
e' la notificazione, mediante la quale la pubblica amministrazione che ha emanato il
provvedimento lo porta a conoscenza del suo destinatario e degli altri soggetti sui quali esso
produce effetti giuridici attraverso un formale procedimento di consegna della copia
dell'originale. Simile alla notificazione e’ la comunicazione, che però reca solo notizia agli
interessati dell'esistenza del provvedimento emanato. Dal giorno successivo a quello in cui la
pubblica amministrazione ha notificato o comunicato l'atto che ha emanato, comincerà a
decorrere il termine per la proposizione del ricorso. Tanto l'articolo 40 quanto l'articolo 41
C.P.A. fanno riferimento ad un altro modo di conoscenza legale del provvedimento: il primo
prescrive che nel ricorso si faccia menzione nella data della sua conoscenza, il secondo che il
termine per notificare il ricorso può decorrere anche dalla piena conoscenza dell'atto
impugnando. L'istituto della piena conoscenza, consiste in questo: l'interessato non
riceve notificazione o comunicazione del provvedimento e tuttavia può acquisire comunque
legale conoscenza della sua esistenza, ad esempio attraverso un altro provvedimento nel
quale dietro si faccia menzione. E, ciò e’ sufficiente a determinare il termine a quo per
impugnare, o per effetto dell'accesso richiesto dal ricorrente. Infine, nell'ipotesi in cui non è
prescritta la sua notificazione individuale, di chiedere, la pubblicazione dell'atto emanato: il
termine per notificare il ricorso comincia a decorrere dal giorno successivo alla scadenza
della pubblicazione del provvedimento. (Sulla raccolta ufficiale relativa: Gazzetta della
Repubblica, bollettino della regione, e così via) da parte della pubblica amministrazione che
lo ha emanato.

4.1 L'errore scusabile


Come sopra accennato, la perentorietà del termine per la notificazione del ricorso è mitigata
dall'istituto dell'errore scusabile. Il C.P.A. prevede che il giudice possa disporre, anche
d'ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile, così consentendosi la impugnazione
del provvedimento lesivo anche laddove il termine decadenziale sia ormai decorso, sempre
che, però, sia sempre senza oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi
impedimenti di fatto. L'errore scusabile trovava regolamentazione già nella disciplina
previgente. Di questo istituto si è fatto un largo uso nella giurisprudenza, e sempre per
ragioni che non fossero imputabili al ricorrente, quali, soprattutto, la obiettiva incertezza
nella interpretazione ed applicazione delle norme, ovvero la esistenza di contrastanti, o non
pacifici, orientamenti giurisprudenziali.

5. IL DEPOSITO DEL RICORSO


Una volta che abbia notificato il ricorso, al fine della controversia dinanzi al giudice
amministrativo adito, il ricorrente ha 30 giorni per provvedere al suo deposito presso la
segreteria di questi: il comma 1 dell'articolo 45 prescrive che il ricorso va depositato nel
termine perentorio di 30 giorni, decorrente dal momento in cui l'ultima notificazione dell'atto
stesso si è perfezionata anche per il destinatario. Unitamente al ricorso, il ricorrente ha
facoltà di produrre copia del provvedimento impugnato e della documentazione a sostegno
del ricorso: proprio perché si tratta di una facoltà, il comma 4 dell'articolo 45 prevede che la
mancata allegazione della copia di tali atti non implica decadenza.

6. LA COSTITUZIONE delle ALTRE PARTI


Il ricorrente si costituisce in giudizio mediante il deposito del ricorso. La relativa disciplina nel
C.P.A. è contemplata in diverse disposizioni, le quali, peraltro, fissano tutte lo stesso
termine: 60 giorni dalla notificazione o effettiva conoscenza del ricorso. Come appena detto,
gli strumenti processuali di cui dispongono le parti diverse dal ricorrente sono il
controricorso, il ricorso incidentale, intervento. Quale strumento scegliere fra questi?
Dipende essenzialmente da tre distinti ordini di considerazioni: per un verso, dal fatto che la
parte diversa dal ricorrente sia la parte resistente, ovvero che essa sia un contro interessato
oppure un cointeressato. Per altro verso, dal fatto di aver ricevuto o meno la notifica del
ricorso principale. E, per altro verso ancora, dal tipo di azione intrapresa dal ricorrente, se si
tratti di azione di annullamento ovvero di azioni di condanna, di adempimento o di
accertamento. È necessario innanzitutto comprendere in che modo si configura il suo
interesse sotto il profilo sostanziale, cioè se sia tale da qualificarlo effettivamente come
contro ovvero cointeressato. Anche laddove non riceva notifica del ricorso attraverso il quale
è stata intrapresa azione di annullamento, il soggetto interessato in senso formale, così
come il terzo rispetto alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, può intervenire nel
processo: se si tratta di un contro interessato, dopo essersi costituito mediante atto di
intervento, potrà anche presentare ricorso incidentale; se, invece, si tratta di un
cointeressato, oppure di un terzo, potrà proporre soltanto un intervento.

6.1. CONTRORICORSO
Si dice controricorso l'atto processuale mediante il quale si chiede il mantenimento in vita del
provvedimento impugnato con il ricorso principale, sostenendosene la legittimità: con esso,
le parti diverse dal ricorrente si oppongono al ricorso, ma senza proporre a loro volta
l'impugnazione del provvedimento già impugnato, né di un altro atto adesso connesso o
comunque collegato. Possono costituirsi in giudizio presentando un controricorso tanto la
P.A. convenuta, quanto il controinteressato in senso formale cui sia stato notificato il ricorso,
il quale, evidentemente, vanta una causa petendi diversa ed opposta rispetto a quella del
ricorrente. Secondo quanto dispone l'articolo 46, comma 1, C.P.A., le parti intimate che
scelgono di costituirsi mediante controricorso devono farlo entro il termine di 60 giorni dal
perfezionamento, nei propri confronti, della notificazione del ricorso, e su di essi non
incombe alcun onere di notifica. Quanto alle modalità formali della costituzione, va detto che
la norma in parola non fa esplicita menzione del controricorso, ed anzi riconosce in capo alle
parti intimate la facoltà di presentare memorie, fare istanze, indicare i mezzi di prova di cui
intendono valersi e produrre documenti. Dobbiamo sottolineare, inoltre, che il termine entro
il quale esse devono compiere i detti adempimenti non è perentorio: difatti lo stesso C.P.A.,
all'articolo 73, comma 1, prevede che le parti possono produrre documenti fino a 40 giorni liberi prima
dell'udienza, memorie fino a 30 giorni liberi e presentare repliche fino ai 20 giorni liberi.

6.2. RICORSO INCIDENTALE


Il ricorso incidentale è l'atto processuale mediante il quale, di regola, si chiede
l'annullamento parziale o integrale del provvedimento impugnato con il ricorso principale,
ovvero di un altro atto connesso o comunque collegato con il provvedimento impugnato.
Possono costituirsi in giudizio presentando ricorso incidentale, tanto un controinteressato
interessato in senso formale cui è stato notificato il ricorso principale, quanto la P.A.
resistente; il ricorso incidentale, peraltro, può essere presentato anche dal controinteressato
pretermesso dalla notifica, ma solo dopo che si sia costituito in giudizio con atto di
intervento. Con il ricorso incidentale il controinteressato può impugnare: lo stesso
provvedimento impugnato con il ricorso principale, sempre che vanti una causa petendi
differente ed opposta rispetto a quella del ricorrente, lamentandosi dunque per vizi diversi
da quelli denunciati nel ricorso principale, ovvero lamentando la illegittimità di una parte del
provvedimento diversa da quella rivendicata come illegittima del ricorso principale. La P.A.
resistente, invece, può costituirsi in giudizio mediante proposizione di un ricorso incidentale
soltanto al fine di impugnare un atto che provenga da un'altra P.A., collegato con il
provvedimento impugnato in via principale. / - Disciplina e contenutistica dell'istituto: si
rinviene, oggi, nell'articolo 42, comma 1, C.P.A., il quale espressamente dispone che,
laddove dovesse insorgere un interesse “in dipendenza della domanda proposta in via
principale”, a loro volta, “le parti resistenti e i controinteressati possono proporre un ricorso
incidentale”: il che ci fa capire perché questo strumento processuale vede la sua esistenza
indissolubilmente legata a quella del ricorso principale. Com’è risaputo, il ricorso incidentale
nasce per consentire al controinteressato di difendere la posizione che gli deriva dallo stato
delle cose generato dal provvedimento impugnato in via principale; con esso il
controinteressato, di regola, lamenta la illegittimità del provvedimento e, dunque, si lamenta
per vizi diversi da quelli rilevati dal ricorso principale; dobbiamo allora chiederci perché lo fa,
e la risposta sta in ciò: avvertendo la non fondatezza delle ragioni alla base del ricorso
principale, egli vuole ottenere, nel caso l’atto venga annullato, di potersi giovare poi, in sede
di riesercizio del potere amministrativo che seguirà all’annullamento giurisdizionale,
dell'accoglimento delle ragioni della sua domanda; in definitiva, quindi, il provvedimento può
essere impugnato, oltre che dal ricorrente principale, anche dal controinteressato, al quale,
perciò, laddove rinvenga anch'egli la illegittimità del provvedimento impugnato,
l’ordinamento consente di difendere la posizione acquisita anche impugnandolo a sua volta
con ricorso incidentale. La peculiarità dell'istituto sta nel successivo insorgere dell'interesse
ad impugnare in capo al contro interessato, interesse che si configura soltanto a seguito del
ricorso principale; “detta male” succede che, prima di quest'ultimo, prima del ricorso
principale, il controinteressato era soddisfatto; ove il bene della vita che ha conseguito con il
provvedimento dovesse essere messo in pericolo dal ricorso principale, egli dispone di uno
strumento che gli consente di ricorrere a sua volta avverso il provvedimento, contestandolo,
però, nella parte che favorisce il ricorrente. / - Soggetti ammessi alla proposizione del
ricorso incidentale ed estensione soggettiva per l’applicazione dell’istituto: sennonché
l’articolo 42, comma 1, C.P.A., dispone che il ricorso incidentale può essere proposto, oltre
che dal controinteressato, anche dalle parti resistenti. Al fine di spiegare come mai il
legislatore sia pervenuto a scegliere una siffatta estensione soggettiva dell'istituto, dobbiamo
riferire della evoluzione della giurisprudenza che ha progressivamente riconosciuto la sua
estensione oggettiva. Il primo passo è stato proprio l'allargamento, operato del Consiglio
di Stato, dell’oggetto del ricorso incidentale ad atti diversi dal provvedimento impugnato, pur
se con esso connessi o collegati: il controinteressato ricorrente incidentale viene ritenuto
capace di impugnare anche un atto diverso da quello che è stato tradotto in giudizio dal
ricorrente principale; una volta ritenuto ammissibile il ricorso incidentale del
controinteressato, avente ad oggetto anche un atto diverso da quello impugnato, il passo
successivo è consistito nella estensione soggettiva alla pubblica amministrazione della
medesima logica: ben può darsi che anche per la pubblica amministrazione si renda
necessario, nell'ambito di un giudizio, impugnare un atto amministrativo emanato da un'altra
pubblica amministrazione, che risulti in qualche modo coinvolto nel procedimento per la
emanazione del provvedimento. Come abbiamo accennato inizialmente, il ricorso incidentale
può essere proposto pure dal controinteressato interessato in senso formale pretermesso
solo dalla notifica del ricorso principale; diversamente dal passato, questo è oggi previsto dal
C.P.A.: l'ultima frase del comma 1 dell'articolo 42 dispone che “per i soggetti intervenuti il
termine decorre dall'effettiva conoscenza della proposizione del ricorso principale”; ebbene,
per come formulata, la disposizione si riferisce inequivocabilmente ai soggetti cui il ricorso
non sia stato notificato: ciò significa che possono proporre ricorso incidentale anche soggetti
che non abbiano ricevuto la notifica del ricorso principale; tali soggetti vanno identificati
senz'altro nei controinteressati interessati in senso formale pretermessi, che però si siano
costituiti mediante atto di intervento, ai sensi dell'articolo 28, comma 1, C.P.A. Resta infine
da stabilire se il ricorso incidentale può essere proposto dal controinteressato terzo, e cioè
dal soggetto che vanta, sì, un interesse processuale contrario a quello del ricorrente
principale, ma che non è individuato, né individuabile, dal provvedimento impugnato, perché
estraneo, terzo appunto, rispetto alla vicenda procedimentale richiamata in detto
provvedimento; in questi casi si deve concludere per l'impossibilità della cosa: al terzo è
consentito costituirsi in giudizio soltanto mediante intervento, perché difetta della
legittimazione ad agire. / - Modalità formali per la presentazione del ricorso incidentale:
quanto alle prescrizioni formali per la sua presentazione, il ricorso incidentale, secondo
quanto disposto dall'articolo 42, comma 1, si propone nel termine di 60 giorni decorrenti
dalla ricevuta notificazione del ricorso principale, attraverso la notifica alle controparti
personalmente o, se queste sono costituite, presso il domicilio eletto dal procuratore. La
disciplina è identica per la pubblica amministrazione. Bisogna inoltre accertarsi in merito ai
contenuti del ricorso incidentale, i quali devono coincidere con i medesimi contenuti del
ricorso principale, ed essere depositati entro i termini e secondo le stesse modalità, ma va
aggiunto che, come dispone il comma 3, le altre parti possono presentare memorie e
produrre documenti nei termini e secondo le modalità previsti per il ricorso principale.
Proprio in virtù del legame esistenziale con il ricorso principale, la cognizione del ricorso
incidentale è attribuita al giudice competente per quello principale, salvo che la domanda
introdotta con il ricorso incidentale sia devoluta alla competenza del tribunale amministrativo
regionale del Lazio, sito a Roma, ovvero alla competenza funzionale di un tribunale amministrativo
regionale; in tal caso la competenza a conoscere l'intero giudizio spetta al tribunale amministrativo
regionale del Lazio, sede di Roma.

LA DOMANDA RICONVENZIONALE
Essa estende il thema decidendum, in quanto il convenuto va oltre alla mera richiesta di
rigetto della domanda attrice, ma esercita un'autonoma azione che richiede una pronuncia
del giudice con effetto di giudicato.
Nel caso in cui il ricorso al giudice amministrativo abbia ad oggetto questioni concernenti
diritti soggettivi, si garantisce la parità tra le parti consentendo che nella forma del ricorso
incidentale possa prender vita l’istituto della domanda riconvenzionale, tipico del processo
civile. Secondo il disposto dell’art. 42 comma 5, infatti, nei termini e con le modalità propri
del ricorso incidentale, nelle controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi
possono essere altresì proposte domande riconvenzionali dipendenti da titoli già dedotti in
giudizio. A dire il vero, già prima dell'approvazione del C.P.A., il Consiglio di Stato, sezione
quinta, n. 1498 del 2010, ha affermato che la domanda riconvenzionale è un congegno
processuale che risulta compatibile con la struttura del processo amministrativo,
ammettendone la posizione con le forme e i termini incidentali.

6.3. L’intervento
L'intervento è l'atto processuale con il quale un soggetto interessato in senso formale dal
provvedimento impugnato possa diventare parte del processo, allo scopo di tutelare, in
questa sede, un suo interesse sostanziale che, quando si tratti di un terzo, almeno stando
alla giurisprudenza, andrebbe identificato come un interesse di fatto. Secondo il C.P.A., una
volta instaurato il giudizio è possibile intervenirvi, sia volontariamente, sia per ordine del
giudice. / - Soggetti che possono esperire intervento: alla luce delle norme richiamate,
dunque, possono intervenire nel processo: a) i controinteressati interessati in senso formale
dal provvedimento impugnato che non abbiano ricevuto la notifica del ricorso; b) i
cointeressati interessati in senso formale dal provvedimento impugnato; c) i terzi rispetto
alla vicenda procedimentale che ha dato vita al provvedimento impugnato, che siano co
oppure controinteressati. / - Tipologie e categorie di interventi (ammissibilità o meno degli
stessi nel processo amministrativo): nel processo civile, si può intervenire per far valere un
diritto autonomo connesso, ma incompatibile, con il diritto fatto valere da entrambe le
parti in giudizio: questo intervento si definisce principale; si può intervenire, peraltro,
anche per far valere un diritto autonomo connesso e compatibile con il diritto fatto valere da
una soltanto delle parti in giudizio, segnatamente quella che ha proposto la domanda
principale: questo intervento si definisce litisconsortile, o adesivo autonomo; è possibile,
infine, un terzo tipo di intervento, quello adesivo dipendente, nel caso in cui il terzo faccia
valere un diritto che non è autonomo, poiché dipende dalla esistenza di quello vantato da
una delle parti. Orbene, tali categorie vengono assunte anche per il processo
amministrativo, sebbene ciò si faccia, per un verso, attribuendo a ciascuna di esse significati
non proprio uguali e, per un altro verso, non pervenendo alle stesse conclusioni circa la loro
ammissibilità: con riguardo all'intervento principale, infatti, esso viene considerato
inammissibile, sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza; quanto all'intervento adesivo,
mentre la giurisprudenza prevalente ritiene ammissibile soltanto quello dipendente, parte
della dottrina non esclude la proponibilità anche di un intervento adesivo autonomo. E'
necessario, inoltre, ribadire che nel processo amministrativo sono previsti due generi di
intervento: quello volontario e quello iussu iudicis, a seconda che esso venga proposto dal
soggetto legittimato, ovvero ordinato dal giudice. L'intervento volontario, a sua volta, può
essere di due specie: l'una, pacificamente ammessa, si definisce intervento adesivo
dipendente, ed è proponibile tanto dal controinteressato interessato in senso formale
pretermesso dalla notifica, tanto dal cointeressato interessato in senso formale, tanto dal
terzo; della cui ammissibilità, per contro, si discute, si definisce intervento adesivo
autonomo, ed è proponibile soltanto dal terzo. E' sicuramente escluso (come già riferito più
volte) il c.d. "Intervento principale", diversamente da quanto accade nel processo civile. /
- Schematizzando all’osso il concetto di intervento/i, non si può prescindere da questo
schema:
INTERVENTO. 1) volontario -> adesivo dipendente: del controinteressato interessato in
senso formale pretermesso, del cointeressato interessato in senso formale, del terzo;
adesivo autonomo: del terzo rispetto alla vicenda procedimentale dedotta in giudizio.
2) iussu iudicis.
*** Bisogna dire, inoltre, che tanto l'intervento adesivo dipendente, quanto quello
autonomo, vanno distinti, con riguardo al petitum (oggetto), in due diversi tipi: l'intervento
ad adiuvandum e l'intervento ad opponendum. La differenza relativa al contenuto del
petitum si basa sul fatto che con l'intervento si rappresenta un interesse omologo a quello
del ricorrente, ovvero a quello delle parti resistenti. Con il primo, l’interessato in senso
formale, o il terzo che siano co interessati, sostengono le ragioni del ricorrente; con il
secondo, invece, il controinteressato interessato in senso formale pretermesso, o il terzo che
sia contro-interessato, sostengono le ragioni della P.A. convenuta e dei controinteressati
costituiti, così rafforzandosi il contrasto al ricorso principale.
Tipi di intervento in relazione al loro contenuto: INTERVENTO
1) ad adiuvandum (dell'interessato in senso formale e del terzo che siano co-interessati);
2) ad opponendum (del controinteressato interessato in senso formale pretermesso; del
terzo contro-interessato).
L'intervento si definisce dipendente quando non introduce nuove cause petendi e dunque
non modifica il thema decidendum, potendosi, proprio per ciò, proporre anche oltre il
termine di decadenza. Si definisce, invece, autonomo quando modifica il thema decidendum,
potendosi per ciò proporre solo entro il termine di decadenza. L’intervento, infine,
dipendente o autonomo che sia, può essere ad adiuvandum oppure ad opponendum. Se si
tratta di intervento dipendente, quello ad adiuvandum è proposto dall’interessato in senso
formale e/o dal terzo che siano co-interessati, mentre quello ad opponendum è proposto dal
controinteressato interessato in senso formale pretermesso e/o dal terzo controinteressati.
Viceversa, se si tratta di intervento autonomo, quello ad adiuvandum è proposto dal terzo
controinteressato, mentre quello ad opponendum dal terzo controinteressato.
Veniamo ora ad esaminare le cc.dd. "criticità" che sono state manifestate sul tema da
dottrina e giurisprudenza, già prima dell’entrata in vigore del C.P.A., e perciò a prescindere
dalla ricostruzione sistematica che abbiamo testé presentato. Quest'ultime possono
sintetizzarsi come segue a) la qualificazione dell'interesse sostanziale in capo
all'interventore; b) l'ammissibilità dell'intervento adesivo autonomo e la consistenza di
siffatta autonomia; c) la possibilità di variare il thema decidendum ed il rapporto con la
perentorietà del termine decadenziale; d) gli intrecci fra intervento dipendente o autonomo,
da un lato, ed intervento ad adiuvandum o ad opponendum, dall'altro.
A) La qualificazione dell'interesse sostanziale in capo all'interventore. La questione
viene risolta in maniera non unanime in dottrina e in giurisprudenza. Stando alla
giurisprudenza, per quel che concerne l'intervento adesivo dipendente sussiste una
differenza tra quello possibile nel processo civile e quello possibile nel processo
amministrativo: con riferimento ai presupposti che essa ritiene necessari per la proponibilità
di siffatto intervento, nel processo civile occorre che l'interveniente vanti un interesse di
mero fatto, sia pur limitatamente al caso in cui l'interveniente sia un soggetto terzo rispetto
alla vicenda procedimentale che ha originato il giudizio. Volendo dar adito alla varietà di
posizioni, bisogna dire, che esse si diversificano a seconda che si ritenga sufficiente un
interesse semplice o di fatto, ovvero si consideri necessario un interesse giuridicamente
qualificato. Occorre riferire, poi, che, ai fini della qualificazione dell'interesse che dà il titolo
ad intervenire, si è solito distinguere tra quello che deve far capo all'interessato in senso
formale e quello che deve far capo al terzo. Quando ad intervenire sia appunto un terzo,
viene richiesta la titolarità di un interesse di fatto, diversamente del caso che si tratti di un
interessato in senso formale, controinteressato pretermesso o cointeressato che sia. A
seguire, almeno secondo una parte della giurisprudenza amministrativa, dovrebbe
addirittura ritenersi che, laddove il contro interessato pretermesso sia detentore di un
interesse legittimo suscettibile di ricevere una lesione dell'esito del giudizio già instaurato,
lesione che intende far valere ampliando il thema decidendum, egli non potrebbe tutelarlo
attraverso il solo intervento dipendente, dovendo bensì successivamente integrarlo
presentando un ricorso incidentale. Ad una più attenta riflessione, questa posizione della
giurisprudenza sembra dipendere dall'assumere una definizione di interesse di fatto diversa
da quella prevalente, secondo cui si tratta di un interesse giuridicamente irrilevante che,
pertanto, sarebbe insuscettibile di tutela giurisdizionale. In realtà, ciò che la giurisprudenza
pare voler intendere è che l'interesse in parola non può essere legittimo perché sarebbero
qualificabili come tali solo quelli che si riferiscono direttamente alla vicenda procedimentale
dedotta in giudizio: esso, dunque, perciò sarebbe di fatto, perché si riferisce solo
indirettamente a detta vicenda.
B) L'ammissibilità dell'intervento adesivo autonomo e la consistenza di siffatta autonomia.
Come noto, prima dell’avvento del C.P.A. era possibile che i titolari di qualsivoglia interesse
implicato nella vicenda processuale accedessero al giudizio, affiancando una delle parti
contendenti. Naturalmente, doveva trattarsi di un interesse in qualche modo dipendente da
quello di una delle parti, giacché, se così non fosse stato, sarebbe versato nell'ipotesi
dell'intervento adesivo autonomo, la proponibilità del quale è invece esclusa. Anche secondo
una giurisprudenza recente, nel processo amministrativo sarebbe ammissibile soltanto
l'intervento adesivo dipendente. L'esclusione in parola, tuttavia, sembra non può dirsi così
rigorosamente predicare, soprattutto dopo l'entrata in vigore del C.P.A. Posto che per
adesivo autonomo si intenda l'intervento che modifica il thema decidendum, volto a tutelare
un interesse non direttamente coinvolto nella vicenda procedimentale dedotta in giudizio, in
quanto tale, perciò, spettante solo al terzo; va riferito di un'altra giurisprudenza secondo la
quale l'intervento adesivo autonomo è possibile anche nel processo amministrativo, purché
venga proposto nel medesimo termine perentorio previsto per l'impugnazione principale. In
realtà, la giurisprudenza richiamata prende in considerazione il rischio di elusione del
termine per presentare ricorso che si correrebbe ove si ritenesse proponibile un intervento
adesivo autonomo oltre tale termine. Al riguardo dobbiamo tener presente, per un verso,
che il contro interessato pretermesso, se vuole ampliare il thema decidendum, non può
proporre intervento adesivo autonomo, bensì un intervento che prelude ad un ricorso
incidentale; e, per altro verso, se vuole proporre intervento adesivo autonomo, così da
variare il thema decidendum, può farlo solo entro i termini. In definitiva, sembra si possa
affermare che il C.P.A. distingua l'intervento dell'interessato in senso formale, che sia contro
interessato pretermesso ovvero cointeressato, da quello del soggetto terzo, il quale, pur non
assumendo la veste di interessato in senso formale, vanta comunque un interesse che
potrebbe ricevere un beneficio, o un pregiudizio, indiretto e riflesso dall'accoglimento, o dal
rigetto, del ricorso principale. Ciò significa che, mentre al contro interessato pretermesso
l'intervento è consentito per recuperare la tutela che la mancata notifica del ricorso gli ha
precluso, egli potrebbe proporre a seguire ricorso incidentale; Al terzo, l'intervento è
consentito purché proposto entro i termini di decadenza: diversamente, scaduti i termini,
dovrà limitarsi alla proposizione di un intervento adesivo dipendente, ad opponendum o ad
adiuvandum nei confronti della domanda principale.
C) La possibilità di variare il Thema decidendum ed il rapporto con la perentorietà del
termine decadenziale. Gli interventori, almeno di regola, sono gravati da una significativa
limitazione, concernente la impossibilità di variare il thema decidendum. In altre parole,
considerando che l'intervento pacificamente ammesso nel processo amministrativo è quello
adesivo dipendente, gli interventori normalmente entrando nel giudizio soltanto per
sostenere la parte di cui condividono la posizione, si capisce perché il loro atto non dovrebbe
consentire di introdurre nuove censure. A dire il vero, una volta che si consideri ammissibile
l'intervento adesivo autonomo non sembrano esservi ostacoli nel ritenere ampliabile il thema
decidendum, purché ciò si faccia entro il termine decadenziale.
D) Gli intrecci fra intervento dipendente o autonomo, da un lato, ed intervento ad
adiuvandum o ad opponendum, dall'altro. Orbene, sembra evidente che l'intervento adesivo
dipendente, siccome con esso non si varia il thema decidendum, potrebbe essere, quanto al
contenuto, sia quando ad adiuvandum sia ad opponendum. Anche l'intervento adesivo
autonomo, sebbene comporti il mutamento del thema decidendum, potrebbe essere, quanto
al contenuto, sia ad adiuvandum sia ad opponendum. Ciò significa che quello ad
adiuvandum, ove proposto dal cointeressato interessato in senso formale, potrebbe essere
soltanto un intervento dipendente, perché, ove l'Interventore lamenti la lesione di un
interesse legittimo, dovrebbe proporre un autonomo ricorso entro il termine di decadenza.
Anche l'intervento ad opponendum potrebbe essere soltanto dipendente, perché il contro
interessato pretermesso, ove intenda far valere la visione di un interesse legittimo, dovrebbe
integrare l'intervento con ricorso incidentale. Viceversa ove proposto dal terzo, sia quello ad
adiuvandum, sia quello ad opponendum, potrebbero essere interventi, non solo dipendenti,
ma anche autonomi, giacché l'interventore, purché entro i termini, può ampliare il thema
decidendum. /
- Riepilogazione, del concetto di intervento, in punti concettuali: ecco qui un breve riepilogo
di quanto suddetto: A) Per costituirsi in giudizio, i contro interessati in senso formale
dispongono, a seconda delle circostanze, oltre che del controricorso e del ricorso incidentale,
anche di un altro strumento: possono entrare nel giudizio mediante un atto di intervento. In
tal caso lo scopo che si è perseguito può consistere nel semplice dare ulteriore sostegno alle
ragioni della parte resistente ed i contro interessati costituiti, oppure nel tutelare le proprie
ragioni attraverso la successiva, conseguente, presentazione di ricorso incidentale.
L'intervento del contro interessato pretermesso dalla notifica, quindi, sarà ad opponendum
perché spiegato per appoggiare la posizione della P. A. resistente e dei contro interessati
costituiti. Questo, vuol dire che il contro interessato pretermesso, il quale intervenga ad
opponendum limitandosi a chiedere il rigetto del ricorso principale, sia in qualche modo
assimilabile al contro interessato destinatario della notifica che presenta controricorso.
B) Per costituirsi in giudizio, i cointeressati interessati in senso formale dispongono di un
unico strumento: l'intervento adesivo dipendente ad adiuvandum, che intende perciò
appoggiare la posizione del ricorrente.
C) D'altra parte, anche i terzi possono entrare nel giudizio mediante un atto di intervento: il
loro scopo può consistere, non diversamente dagli interessati in senso formale, il semplice
dare sostegno alle ragioni del ricorrente o dei resistenti, nel qual caso presenteranno un
intervento adesivo dipendente, rispettivamente ad adiuvandum o ad opponendum; oppure
nel tutelare il proprio ulteriori ragioni, nel qual caso potranno presentare, ma solo entro i
termini decadenziali, un intervento adesivo autonomo. Come il controinteressato
pretermesso, anche il terzo che intervenga ad opponendum limitandosi a chiedere il rigetto
del ricorso principale sembra doversi assimilare al contro interessato destinatario della
notifica che presenta controricorso. Per contro, il terzo che intervenga ad adiuvandum si
potrà assimilare, per un verso, nel caso di intervento dipendente, al ricorrente principale,
ovvero al cointeressato interessato in senso formale che si sia costituito; per altro verso, nel
caso di intervento autonomo, si potrà assimilare al controinteressato destinatario della
notifica che presenta ricorso incidentale./- Modalità formali:per quel che concerne le
modalità formali, l'intervento volontario è proposto con atto diretto al giudice adito, recante
l'indicazione delle generalità dell'interveniente, atto che deve contenere le ragioni su cui si
fonda, con la produzione di documenti giustificativi. Esso deve essere notificato alle parti e
depositato nei termini previsti per il ricorso./ - Intervento per ordine del giudice: va
sottolineato anzitutto che il suo scopo principale sta indubbiamente nel doversi garantire la
piena partecipazione degli interessi al giudizio. Il giudice amministrativo, laddove lo ritenga a
tal fine necessario, può ordinare di intervenire anche ai terzi interessati ad esso: come
abbiamo già riferito, infatti, il comma 3 dell'articolo 28, C.P.A., prevede espressamente che il
giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei
confronti di un terzo, ne ordina l'intervento. Intervento di cui all'articolo 28, il giudice altresì
ordina alla parte di chiamare il terzo in giudizio, indicando gli atti da notificare e il termine
della notificazione. L'interventore deve accettare lo Stato e il grado in cui il giudizio si trova.
Egli deve costituirsi secondo le modalità di cui all'articolo 46, il primo comma del quale
stabilisce che le parti intimate possono costituirsi, presentare memorie, fare istanze, indicare
i mezzi di prova di cui intendono valersi nonché di produrre documenti nel termine di 60
giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso. Quanto al
deposito, va ribadito che quello dell'atto di intervento del terzo è ammesso fino a 30 giorni
prima dell'udienza. Da quanto abbiamo appena riferito emerge abbastanza nitidamente il
collegamento fra l'istituto dell'intervento iussu iudicis e quello della integrazione del
contraddittorio: v'è fra essi una evidente identità di scopo, essendo indiscutibile che anche
per l'integrazione del contraddittorio vale quanto abbiamo affermato poc'anzi circa la
tendenza dell'ordinamento a voler garantire la più piena possibile partecipazione degli
interessi al giudizio. Il C.P.A. qualifica come intervento per ordine del giudice soltanto la
fattispecie di cui all'articolo 28, comma 3. Viceversa, nelle ipotesi di cui all'articolo 27,
comma 2, il giudice ordina soltanto la integrazione del contraddittorio, con ciò lasciando la
scelta di intervenire o meno alla parte nei cui confronti si realizza l'integrazione: quello
sollecitato dall'ordine di integrazione del contraddittorio, pertanto, può essere considerato
comunque con un intervento volontario. / - Integrazione del contraddittorio: il ricorso deve
essere notificato ad almeno uno dei contro interessati in senso formale perché individuati
nell'atto impugnato, ovvero da questo facilmente desumibili. Ove esistano altri interessati
non evocati in giudizio, il presidente o il collegio ordina l'integrazione del contraddittorio nei
loro confronti, fissando il relativo termine e indicando le parti cui il ricorso deve essere
notificato, anche per pubblici proclami. L’integrazione del contraddittorio, quindi, può
riguardare sia i contro interessati in senso formale che non abbiano ricevuto la notifica del
ricorso, sia i contro interessati in senso soltanto sostanziale, ossia i terzi che meritano tale
qualificazione in ragione della utilità che traggono dall'atto impugnato. Essendo stati
implicati nella vicenda procedimentale che ha dato vita ad esso, è data la possibilità a questi
ultimi di utilizzare uno solo degli strumenti di tutela che sono nella disponibilità dei contro
interessati in senso formale ai quali non è stato notificato il ricorso: l'intervento appunto. Se
l'obiettivo che l'ordinamento persegue con questo istituto è lo stesso che si prefigge con
l'intervento iussu iudicis, differenti sono le modalità di accesso al processo: con
l'integrazione del contraddittorio il giudice amministrativo ordina al ricorrente di notificare il
ricorso ad altri contro interessati in senso formale, o anche a soggetti terzi, non inducendo
questi ultimi a costituirsi, ma bensì li si mette nella condizione di farlo se ritengono di volerlo
fare. E’ evidente che il giudice non ordinerà l’integrazione del contraddittorio allorché il
ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato. Nel qual
caso procede con sentenza in forma semplificata, ex articolo 74. Laddove l'atto di
integrazione del contraddittorio non è tempestivamente notificato e depositato, il giudice
deve dichiarare il ricorso irricevibile. Al fine di rendere effettiva la tutela, il legislatore
prevede espressamente che i soggetti nei cui confronti è integrato il contraddittorio non
sono pregiudicati degli atti processuali anteriormente compiuti.

7. La tutela cautelare
Anche per il processo dinanzi al giudice amministrativo è prevista un'azione cautelare, allo
scopo di offrire al ricorrente la possibilità di impedire che l’eventuale utilità conseguibile con
una sentenza favorevole possa essere resa vana dagli effetti prodottisi nelle more dello
svolgimento del giudizio, in attesa della sentenza che lo concluderà. La tutela cautelare, nel
processo amministrativo, ha sempre il carattere della strumentalità: realizza, infatti,
l’interesse ad evitare che la durata del giudizio possa rendere praticamente inutile, per il
ricorrente, la decisione finale. L’esecuzione di un provvedimento amministrativo può
compromettere in modo molto grave, talvolta irreversibile, la posizione del destinatario del
provvedimento; si pensi ad un provvedimento di esproprio, dal quale può derivare la
trasformazione dell’area, tale da precludere la stessa possibilità di restituzione al privato.
Dove il provvedimento fosse illegittimo, e venisse annullato in un secondo momento, la
sentenza di annullamento non soddisferebbe comunque l’interesse leso del cittadino; la
tutela cautelare previene al danno, previene al “materiale danno in capo al ricorrente” che
può facilmente scaturire da queste non rare situazioni. / La legge Crispi del 1889
prevedeva che l’impugnazione del provvedimento non avesse “effetto sospensivo”; il ricorso
al giudice amministrativo non incideva sull’efficacia e l’esecuzione del provvedimento
impugnato; già subito dopo l’entrata in vigore della legge che istituì la 4 sez. del Consiglio di
Stato, fu ammesso che il ricorso a tale organo sospendesse l’efficacia del provvedimento
impugnato. / Il c.p.a. si attiene alla regola per cui nel giudizio promosso per l’annullamento
di un provvedimento, tale ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato;
è onere della parte ricorrente per l’annullamento richiedere una misura cautelare del giudice
amministrativo per evitare che le sue ragioni possano essere compromesse durante il tempo
necessario per la decisione del ricorso (art. 55). /Il c.p.a. prevede tre categorie di misure
cautelari: - collegiali; -monocratiche; -ante causam; dai principi generali si ricava la
definizione dei presupposti per la misura cautelare, presupposti che sono“fumus bonis iuris”
e “periculum in mora” (A) fumus bonis iuris – deve esserci “parvenza” che il ricorso sia
fondato; il giudice deve verificare che ipoteticamente il ricorso sia fondato, che l’attore sia
legittimo, e che l’azione non sia manifestamente infondata e tardiva (ragionevole previsione
dell’esito del ricorso). (B) periculum in mora – l’art 55 identifica tale elemento nella
possibilità di “subire un pregiudizio grave ed irreparabile” dal provvedimento impugnato
“durante il tempo necessario a giungere alla decisione del ricorso”. Tale pregiudizio va
specificato dal ricorrente nella istanza. Abbiamo detto deve essere pregiudizio grave e
irreparabile; grave: il giudice deve valutare se quel pregiudizio possa essere difficilmente
sopportabile per il ricorrente; irreparabile: il giudice deve valutare se, non concedendo la
tutela cautelare, dal provvedimento il ricorrente potrebbe avere un pregiudizio tale da
perdere per sempre quella utilità./
In passato si discuteva del fatto che la tutela cautelare nel processo amministrativo avesse
un suo volto tipico: la sospensione del provvedimento. Vista la sua natura interinale rispetto
alla impugnazione del provvedimento, si pensava che ovviamente il fine ultimo della
impugnazione (la tutela caducatoria) fosse coincidente con il fine temporaneamente
garantito dalla tutela cautelare (una tutela caducatoria temporanea, con la sospensione degli
effetti). Oggi la giurisprudenza è orientata per una tutela cautelare dal contenuto atipico,
modellata sul caso concreto, di volta in volta idonea ad assicurare interinalmente gli effetti
della decisione del ricorso. Il limite che ovviamente incontra il giudice, nel prevenire
attraverso la tutela cautelare, è di non poter mai DETERMINARE LA DEFINIZIONE DEL
GIUDIZIO. /
Sulla misura cautelare provvede generalmente il collegio in camera di consiglio. L’art 56
prevede che nei casi di estrema urgenza ed estrema gravità, tali da non consentire neppure
la dilatazione fino alla camera di consiglio, la misura cautelare può essere richiesta al
Presidente del Tar, o della sezione cui il ricorso principale sia stato assegnato, previa notifica
della istanza alle parti.
Quand'anche il ricorrente veda accolta la domanda cautelare, ciò non significa che ciò farà
conseguire anche l'accoglimento del ricorso: il giudice in sede cautelare, valutando che il
ricorso non sia del tutto infondato, deve stabilire soprattutto se, nel tempo necessario per
pervenire alla sentenza di merito, al ricorrente potrebbe derivare un grave pregiudizio e che
neanche una sua eventuale sentenza favorevole non sarebbe in grado di riparare. D'altro
canto, i provvedimenti cautelari possono distinguersi in relazione alla forma dell'atto con cui
sono assumibili, E cioè a ) La ordinanza collegiale ex articolo 55; b) il decreto monocratico,
sia quello pronunciabile in causa ex articolo 56, sia quello pronunciabile ante causam ex
articolo 61, sia, infine, quello pronunciabile nelle more dell'integrazione del contraddittorio.
Da ultimo, il c.p.a. ha esteso la possibilità di una tutela cautelare ante causam, in caso di
eccezionale gravità e urgenza tale da non consentire neppure la previa notifica del ricorso.
Chi sia legittimato a presentare ricorso può fare istanza al presidente del TAR e chiedere
l’adozione delle misure interinali (cautelari) necessarie per assicurare la tutela fino a quando
non possa essere proposto ricorso e non possa essere trattata l’istanza cautelare nelle forme
ordinarie (art. 61). La misura cautelare è destinata a valere fino alla pronuncia cautelare
collegiale, successiva alla notifica del ricorso.

7.1. La sospensione della esecuzione del provvedimento impugnato


Di regola, l'atto amministrativo, in modo particolare il provvedimento, per il carattere della
esecutività, comincia a produrre effetti nel momento stesso in cui viene in vita; in continuità
con la disciplina esistente, il C.P.A. non prevede che l'impugnazione di esso implichi
automaticamente la sospensione dei suoi effetti, i quali, quindi, continuerebbero a prodursi
ove il ricorrente non chieda in modo espresso, ed ottenga, che vengano bloccati
interinalmente, e cioè temporaneamente, provvisoriamente. Sicché il ricorrente, al fine di
evitare di subire un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere
alla decisione sul ricorso, può chiedere l'emanazione di misure cautelari che appaiano,
secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul
ricorso: e non vi è dubbio che, laddove si impugna un provvedimento, la misura cautelare
propria sia la sospensione della sua esecuzione fino a che il giudice amministrativo non
emana la sentenza di merito. [Se ne ricava che sebbene il C.P.A. abbia scelto l’atipicità del
contenuto delle misure cautelari, la sospensiva del provvedimento impugnato conserva una
specifica rilevanza, e ciò persino laddove si tratti di provvedimenti a contenuto negativo,
ovvero di comportamenti considerati dalla legge quali surrogati di atti a contenuto negativo,
e cioè di un silenzio cui una norma giuridica assume il significato di rifiuto; quando
l'interessato impugna un provvedimento di contenuto negativo, e cioè un provvedimento di
diniego dell'istanza che ha avanzato la P.A., ovvero un silenzio sulla istanza avanzata alla
pubblica amministrazione cui la legge attribuisce il significato di rifiuto, la sospensione
cautelare in sé non offre alcuna utilità concreta: ciò che l’interessato ha chiesto alla pubblica
amministrazione continuerebbe a non essergli conferito fintanto che la eventuale sentenza di
accoglimento del ricorso, nell'annullare il provvedimento di diniego rifiuto, non imponga alla
P.A. di assumere quello richiesto.]

7.2. Le altre possibili misure cautelari


Al G.A. e’ assegnato il potere di disporre anche altre misure cautelari in aggiunta a quelle
tradizionali. La ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria include tra le misure
cautelari richiedibili dal ricorrente. La ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria
sembra un provvedimento finalizzato ad anticipare in parte e comunque in maniera
provvisoria, gli effetti della probabile decisione del giudizio di merito. A ben riflettere, la
misura in parola non si presenta immune da rilievi critici, giacché per il suo contenuto non
pare rispondere appieno alla ragion d'essere, che resta quello di impedire che la eventuale
utilità conseguibile con una pronuncia favorevole possa essere resa vana degli effetti
prodottisi nelle more dello svolgimento del giudizio, in attesa della sentenza che lo
concluderà. Ed invero, il suo effetto anticipatorio, non può sottacersi che la ingiunzione di
pagamento, pur indiscutibilmente garantendo il ricorrente nel senso appena richiamato, non
fa altrettanto nei confronti del convenuto resistente: quest'ultimo, infatti, ove una sentenza
di merito dovesse dargli ragione, si troverebbe titolare di una obbligazione pecuniaria che
ben potrebbe essere divenuta di fatto non esigibile per la sopravvenuta insolvenza del
ricorrente debitore. In altre parole, e’ vero che in queste ipotesi la tutela cautelare e’
invocata dal ricorrente e dunque non dovrebbe suscitare dubbi il fatto che soddisfi il suo
proprio interesse: ma ciò non sembra dover necessariamente implicare una misura già
satisfattiva, soprattutto se la misura e’ tale da mettere a rischio la cautela del convenuto: e
d'altra parte, la cautela di ricorrente ben potrebbe conseguirsi anche con un ordine di
accantonamento delle somme necessarie, oppure con il loro versamento a mero titolo di
cauzione. Dunque, diversamente dalla ingiunzione al pagamento di una somma di
denaro, che ha lo scopo di assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso a
tutela degli interessi del ricorrente, la cauzione e’ misura volta ad evitare la eventuale
irreversibilità degli effetti connessi all'accoglimento o al rigetto della istanza cautelare, tanto
a tutela del ricorrente quanto a tutela dei resistenti. La ratio della cauzione e’ da rinvenirsi
nella necessità di contenere la eccessiva disinvoltura nel chiedere misure cautelari, tendenza
avente non di rado obiettivi meramente defatigatori, e la sua natura sembra essere diversa
a seconda che essa sia disposta a carico del ricorrente, ovvero, nel caso di diniego, a carico
della pubblica amministrazione. Invero, mentre nella prima ipotesi si tratterebbe di una sorta
di misura cautelare sotto condizione, ipotesi, invece, la cauzione, essendo disposta per
evitare gli effetti irreversibili derivanti dal diniego della misura cautelare, parrebbe rivestire
una diversa natura, finendo per configurarsi quella vera e propria misura cautelare
alternativa alla sospensione.

7.7. La esecuzione delle misure cautelari.


I provvedimenti cautelari del G.A., al pari delle sentenze, sono immediatamente esecutivi.
Ciò nondimeno, laddove la P.A. debba compiere un'azione allo scopo di portare ad
esecuzione la pronuncia cautelare, non sempre la compie, ovvero, se la compie, non sempre
lo fa in modo corretto. In presenza di tali circostanze, il ricorrente, prima dell'entrata in
vigore del Codice, non disponeva di alcun rimedio. Oggi, L'articolo 59 CP avendo introdotto
l'azione di ottemperanza anche per le misure cautelari: il caso in cui i provvedimenti
cautelari non siano eseguiti, in tutto o in parte, interessato, con istanza motivata e notificata
alle altre parti, Può chiedere al tribunale amministrativo regionale opportune misure
attuative. In realtà, l'esecuzione delle misure cautelari deve essere richiesta allo stesso
giudice che ha emesso l’ordinanza. L'articolo 59 prevede altresì che il giudice amministrativo
dispone anche sulle spese, la cui liquidazione prescinde da quella conseguente al giudizio di
merito, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza. Quanto la disciplina, la norma fa
espressamente rinvio al titolo primo.

8. I MOTIVI AGGIUNTI
Come abbiamo visto, il termine di decadenza per ogni azione proponibile dinanzi al giudice
amministrativo, a cominciare da quella caducatoria, è perentorio, e decorre dal momento
della notificazione, comunicazione o pubblicazione del provvedimento impugnato, ovvero
almeno della sua conoscenza. L’istituto dei motivi aggiunti nasce per attutire la rigidità
assoluta del principio della perentorietà dei termini di decadenza, consentendo di integrare,
scaduti i termini, in presenza di determinate circostanze ed a certe condizioni, la domanda
proposta dal ricorrente entro i termini. E’ del tutto evidente che, ove fosse stato possibile
inserire motivi aggiunti nelle more del giudizio, il principio della perentorietà dei termini di
impugnazione sarebbe venuto meno; questo istituto, quindi, esiste perché, nel caso in cui la
conoscenza del provvedimento al momento della sua impugnazione non fosse stata idonea
ad individuare tutti gli elementi residui, per evitare che si determinasse la scadenza del
termine, occorreva agire in giudizio, facendo valere i vizi ricavabili dalla conoscenza parziale
dell'atto impugnato, questa perfezionandosi, di regola, solo quando la pubblica
amministrazione intimata lo avesse depositato in giudizio; naturalmente, permanendo il
principio della perentorietà dei termini, quello per proporre le integrazioni sarebbe
comunque decorso dal momento in cui il ricorrente avesse acquisito la piena conoscenza
dell'atto impugnato. L’istituto fu introdotto nell'ordinamento ad opera della giurisprudenza, la
quale ha progressivamente provveduto ad estendere la sua applicazione anche ai casi di
acquisizione della conoscenza, successiva alla presentazione del ricorso, di altri atti dei quali
si ricavavano ulteriori elementi della illegittimità del provvedimento impugnato. In origine,
quindi, esso consentiva che il ricorrente principale ampliasse la causa petendi contenuta nel
ricorso, facendo valere vizi del provvedimento già impugnati di cui era venuto a conoscenza
dopo lo spirare del termine decadenziale. Prima della sua introduzione, allo scopo di evitare
la decadenza, si era in un certo senso costretti ad inserire nel ricorso ogni possibile genere
di motivi, dovendo fare esercizio, per così dire, di una certa qual “fantasia difensiva”. / -
Disciplina sul piano del diritto positivo: una volta codificato l’istituto, la sua disciplina ha
conosciuto, nel tempo, significative modificazioni. Recependo l’orientamento di parte della
giurisprudenza, già la legge 205 del 2000 aveva introdotto l'onere per il ricorrente di
impugnare con motivi aggiunti anche gli atti diversi dal provvedimento già gravato che
fossero con questo connessi. Il C.P.A. non solo ribadisce tale possibilità, ma consente,
altresì, al ricorrente di aggiungere nuove domande a quelle già proposte. Ed infatti, la
disposizione oggi vigente, articolo 43 C.P.A., al comma 1 così recita: "i ricorrenti, principale e
incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande
già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte”. Ai motivi
aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, compresa quella relativa ai termini: i
motivi aggiunti, quindi, sottostanno allo stesso regime giuridico del ricorso, dovendo perciò
essere notificati alla pubblica amministrazione e ad almeno uno dei contro interessati. [* ES.
Oggi, laddove con ricorso sia stata proposta, ad esempio, l'azione di annullamento
deducendo solo una violazione di legge, ma, in seguito ad una successiva presa visione del
provvedimento, ci si è scoperto che questo è viziato anche da un eccesso di potere non
conoscibile alla luce degli elementi a disposizione al momento della presentazione del
ricorso, è possibile addurre tale vizio in aggiunta ed integrazione dei motivi di ricorso. Il
ricorrente inoltre può anche proporre domande nuove purché connesse a quelle già
proposte, e cioè, esaminato il provvedimento del quale chiesto soltanto l'annullamento,
scoprendo solo ora, ad esempio, che esso manca della sottoscrizione, ovvero che, alla luce
di nuovi elementi emersi, è configurabile la sussistenza di un danno risarcibile, può
promuovere anche, rispettivamente, l'azione di nullità oppure l'azione di condanna.] La ratio
legis della disciplina vigente, dunque, si rivela più ampia di quella originaria; lo si ricava
facilmente dall'esplicito disposto del 3 ° comma dell'articolo 43, secondo cui "se la domanda
nuova di cui al comma 1 è stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso tribunale,
il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai sensi dell'articolo 70"; è evidente che il
legislatore, con ciò, intende soddisfare una ulteriore esigenza: favorire la concentrazione
delle azioni e, così, la celerità nel rendere giustizia. Va rimarcato, comunque, che,
nonostante l'ampliamento del loro oggetto, gli aggiunti non possono intendersi come uno
strumento utile per giustificare la eventuale inadempienza e negligenza dell'avvocato.
Inoltre, è doveroso dover ricordare che i motivi aggiunti possono essere presentati anche nel
giudizio di appello dinanzi al Consiglio di Stato. / - Ricapitolando l’istituto dei motivi
aggiunti: sono quelle doglianze del ricorrente aggiunte in un momento successivo alla
proposizione del ricorso iniziale. In passato si riteneva che una volta decorso il termine
perentorio per presentare l’azione di annullamento non era possibile presentare nuove
censure; questa rigidità, però, esponeva il diritto d’azione all’annichilimento, perché spesso il
cittadino viene a conoscenza di un vizio solo in un momento successivo; per rimediare a
questo gap di tutela giurisdizionale, la giurisprudenza ha introdotto la possibilità, per il
ricorrente, che abbia previamente impugnato il provvedimento, e solo successivamente
conosciuto di ulteriori vizi, di integrare il ricorso con i motivi aggiunti. Con essi ci si riferisce
non solo a vizi dell’atto già impugnato, ma anche vizi di altri provvedimenti, purché connessi
con quello impugnato. L’impugnazione con motivi aggiunti, anziché con ricorsi separati,
realizza esigenze di economia processuale; tali esigenze individuate dalla giurisprudenza
sono state poi accolte dalla legge 205/2000 e riportate nel C.P.A.
I motivi aggiunti vanno notificati alle altre parti del giudizio entro il termine perentorio di 60
giorni dalla conoscenza dei nuovi documenti.

CAP XI (TRAVI) - GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.


1. Introduzione/premessa concettuale (in generale) del giudizio di primo grado:
La disciplina del giudizio di primo grado (libro III) ha carattere generale: per tutto quanto
non diversamente disposto, vale anche per i giudizi di impugnazione, per i riti speciali e per
il giudizio di ottemperanza. Il giudizio davanti al Tar introdotto con ricorso (art 41, co. 1)
costituisce semplicemente l'atto processuale che introduce il giudice amministrativo; il
ricorso viene notificato prima alle parti e solo successivamente viene depositato.
I contenuti necessari del ricorso, descritti nell'art. 40, sono: - Le generalità del ricorrente, del
suo difensore e delle altre parti necessarie; - La sottoscrizione del ricorrente o del difensore.
Parallelamente, l'art 44, co. 1, stabilisce che il ricorso è nullo in caso di difetto di
sottoscrizione e di incertezza assoluta sulle persone o sull'oggetto della domanda. Quanto
all'oggetto della domanda (art. 40, co. 1 lett. b), nell'azione di annullamento questa è
identificata dalla richiesta di annullare un atto in base alle censure proposte, costituite
dall'enunciazione dei vizi che sono dedotti rispetto all'atto impugnato, in base ai quali è
richiesto l'annullamento; il vizio dell'atto impugnato rileva per stabilire quando la domanda
sia stata validamente proposta e per valutare se si sia in presenza di una domanda nuova;
occorre, quindi, stabilire che cosa si debba intendere a questi fini con “vizio dell'atto
impugnato”, e quale sia il contenuto minimo dell'onere di allegazione che il ricorrente deve
soddisfare con la domanda. Per vizio di un atto amministrativo si intende uno dei tre ordini
di vizi di legittimità che comportano l'annullabilità (incompetenza, violazione di legge e
eccesso di potere). A fini dell'identificazione dell'azione, tuttavia, per vizio dell'atto è inteso il
profilo specifico con cui si sia storicamente concretato il contrasto tra l'atto impugnato e
l'ordinamento giuridico e non la categoria di illegittimità. L’individuazione dell'oggetto della
domanda e dei motivi specifici su cui essa si fonda, tuttavia, deve essere adattata dall'azione
concretamente esperita; nel giudizio sul silenzio, ad esempio, non è proposta alcuna
impugnazione e di conseguenza non sono neppure qualificabili censure per giudizi di
legittimità.
Il ricorso per l'annullamento di un provvedimento deve essere notificato, all’amministrazione
che ha emanato il provvedimento impugnato e ad almeno uno dei controinteressati, entro
60 giorni dalla notificazione, dalla comunicazione (diretti interessati), dalla pubblicazione
(non diretti interessati) o dalla piena conoscenza del provvedimento stesso (art. 41, co. 2).
Per i giudizi proposti a tutela di diritti soggettivi che non comportino l'impugnazione di
provvedimenti non opera un termine di decadenza per il ricorso: non essendo impugnato un
provvedimento, infatti, non valgono le esigenze che hanno determinato l'assoggettamento
del ricorso ad un termine decadenziale. Si è a lungo discusso se la stessa logica potesse
valere anche per il ricorso nel caso di silenzio dell'amministrazione; il codice ha
definitivamente risolto la questione stabilendo che nel caso di silenzio il ricorso può essere
proposto fintanto che dura l'inadempimento, ma comunque non oltre un anno dalla
scadenza del termine di conclusione del termine del procedimento (art. 31, co. 2). L'originale
del ricorso, con la prova della notifica, deve essere depositato a pena di irricevibilità entro 30
giorni dal perfezionamento dell'ultima modifica, presso la segreteria del Tar adito (art. 45);
con tale deposito si attua la costituzione in giudizio del ricorrente; esso, peraltro, determina
la pendenza del giudizio. Quando l'inosservanza del termine è stata determinata da un
errore scusabile, il giudice può concedere alla parte la remissione in termini per consentirle
di procedere a una nuova notifica; l'istituto della rimessione in termini per errore scusabile
era stato previsto originariamente solo per ipotesi particolari; il codice, tuttavia, cogliendo le
esigenze della giurisprudenza, ha assoggettato all'istituto una portata generale (art. 37);
l'istituto della rimessione in termini per errore scusabile appare coerente con la convinzione
che, in presenza di scriminanti oggettivi e irregolarità minori, il rigore della regola
processuale non debba sacrificare il diritto della parte ad una decisione.

2. MOTIVI AGGIUNTIVI al provvedimento già impugnato


Per evitare di compromettere lo stesso diritto all'azione, la giurisprudenza ha riconosciuto al
ricorrente, che abbia già impugnato un provvedimento, di integrarlo con motivi aggiuntivi,
qualora venga a conoscenza di un ulteriore vizio una volta scaduto il termine per
l'impugnazione. Originariamente, i motivi aggiuntivi erano l'atto processuale con il quale il
ricorrente modificava la domanda facendo valere anche vizi del provvedimento impugnato se
fosse venuto conoscenza solo dopo la notifica del ricorso; una parte della giurisprudenza ha
ritenuto che il ricorrente, con i motivi aggiuntivi, potesse introdurre nel giudizio, non solo vizi
ulteriori dell’atto impugnato, ma anche vizi di altri provvedimenti, purché ad esso connessi.
L'impugnazione con motivi aggiuntivi, in questo caso, realizzerebbe esigenze di economia
processuale e consentirebbe al giudice di decidere la vertenza sulla base di una conoscenza
più completa dei fatti. Questa soluzione appena riferita è stata accolta dall' articolo 43, co. 1,
il quale, oltre ad ammettere che con i motivi aggiunti possono essere proposte nuove
domande a sostegno delle domande già proposte, stabilisce che con le stesse modalità
possono essere proposte domande nuove purché connesse a quelle proposte. I motivi
aggiuntivi rispecchiando caratteri comuni al ricorso, presentando una disciplina modellata su
quella di quest'ultimo (esempio: stessi termini perentori per notifica, deposito); in
particolare, i motivi aggiuntivi devono essere notificati alle altre parti del giudizio entro 60
giorni dalla conoscenza dei nuovi documenti.

3. COSTITUZIONE delle ALTRE PARTI e RICORSO INCIDENTALE


L'amministrazione resistente e le altre parti intimate possono costituirsi in giudizio entro 60
giorni dalla notifica del ricorso, depositando una memoria difensiva con le loro difese, le
istanze istruttorie (controricorso) e i relativi documenti (art. 46, co 1). Se il ricorso non è
stato notificato a tutti i controinteressati, ma è stato notificato ad almeno uno di essi, il
giudice amministrativo ordina l'integrazione del contraddittorio. A tal fine, fissa il termine
perentorio ed eventualmente le modalità per la notifica del ricorso da parte del ricorrente
alle altre parti (art. 49, co 1). Il ricorrente non è più tenuto a depositare in giudizio il
provvedimento impugnato (art. 46, della legge n. 205 del 2000). Al contrario, la legge pone
tale onere a carico dell'amministrazione, come conferma l’art. 46, co 2; se l'amministrazione
non provvede spontaneamente al deposito, il giudice ordina di procedere all'adempimento.
Le parti resistenti e dei controinteressati possono proporre ricorso incidentale entro 60 giorni
dalla notifica del ricorso (art. 42); anche tale ricorso incidentale deve essere notificato alle
altre parti entro 60 giorni e depositato nei successivi 30 giorni.
A differenza dei termini previsti per il ricorso, quelli stabiliti per la costituzione delle parti
diverse dal ricorrente non vengono tradizionalmente ritenuti perentori: la costituzione può
intervenire fino all'udienza di discussione del ricorso, fermo restando i termini di legge per la
presentazione di documenti o di difese scritte. Una volta instaurato il giudizio, chi ha
interesse può intervenire; l’intervento deve essere proposto con apposito atto, che deve
essere notificato alle parti e poi depositato presso il Tar, avanti al quale prende il giudizio
almeno 30 giorni prima dell'udienza di discussione.

4. LA DISCIPLINA della ISTRUTTORIA


L'istruzione è l'attività del giudice diretta a conoscere i fatti rilevanti per il giudizio. L'attività
giurisdizionale non ha per oggetto la soluzione di quesiti astratti, ma per oggetto la
soluzione di controversie reali, che attengono a vicende e a situazioni della vita che si
presentano con carattere di concretezza; di conseguenza, l'attività del giudice comporta,
normalmente, oltre alla valutazione dei termini di diritto della controversia, anche la
conoscenza della vicenda o della situazione in termini di fatto, che è essenziale per stabilire
quali norme siano effettivamente attinenti a quella vicenda o a quella situazione; la
circostanza che normalmente all'attività di interpretazione delle norme si accompagni
un'attività, del giudice, di conoscenza e di valutazione dei fatti non significa che si debba
sempre svolgere una particolare indagine sui fatti; la necessità di un'indagine particolare è
esclusa, per esempio, quando i fatti non siano controversi, perché le parti ne forniscono una
rappresentazione coincidente./
Il tema dell’istruzione probatoria ruota nel processo amministrativo intorno a tre profili
fondamentali: 1) il rapporto fra allegazione di fatti riservati alle parti e poteri di cognizione
del giudice; 2) i vincoli e gli effetti che comportano, per i poteri istruttori del giudice, le
istanze istruttorie delle parti; 3) i vincoli che comportano, per la decisione, le risultanze
dell'istruttoria. Concettualizziamo i 3 profili appena riferiti:
1) Il primo profilo di rilievo concerne l'individuazione dei fatti che possono essere allegati
solo dalle parti. L'individuazione di questi fatti è importante perché alle manchevolezze delle
parti non può supplire un intervento d'ufficio del giudice. A questo proposito, molto spesso si
ricorre alla distinzione tra fatti principali (o primari) e fatti secondari: i fatti principali sono
descritti come quei fatti materiali che identificano la pretesa fatta valere concretamente in
giudizio; essi perciò inibiscono strettamente alla domanda e, in un processo che si basi sul
principio della domanda, a loro volta possono essere introdotti solo dalla parte; l’allegazione
dei fatti principali non attiene, quindi, propriamente al tema dell'istruttoria, ma attiene
piuttosto al tema della domanda. I fatti secondari sono costituiti dai fatti materiali la cui
dimostrazione consente di verificare o meno la sussistenza o meno dei fatti principali (si
pensi alle circostanze dell'accordo fra due parti, alla sua espressione in un certo
documento). Anche nel processo amministrativo si tende ad raccogliere la distinzione fra
fatti principali e fatti secondari, però il criterio per la distinzione fra questi ordini di fatti non
è pacifico. È pacifico che, nel processo amministrativo, i fatti principali possono essere
introdotti solo dalle parti, altrimenti sarebbe messa in discussione la vigenza del c.d.
principio della domanda ed opererebbe un principio inquisitorio. Si discute, invece, se i fatti
secondari possono essere introdotti anche dal giudice, e possiamo dire che nella
giurisprudenza e nella dottrina prevale l'orientamento negativo.
2) Il secondo profilo di rilievo attiene invece alla prova dei fatti; una cosa è allegare un
fatto, e cioè enunciarlo come sussistente, introdurlo nel processo attraverso gli atti difensivi
e invocarlo a sostegno delle proprie conclusioni, altra cosa è dimostrare la realtà storica di
quel fatto. Nel processo amministrativo vale il principio generale, sancito dall'art. 2697
codice civile, sull'onere della prova: esso comporta che la parte che contesta la legittimità di
un provvedimento deve fornire la prova dei fatti posti a fondamento della sua contestazione,
e comporta che la regola di giudizio, nel caso di incertezza su un fatto, è contraria alla parte
che avrebbe dovuto fornire la prova di quel fatto. La mancanza della prova determinava
soccombenza.
A tale proposito, ora, dobbiamo sottolineare che l'istruttoria nel processo amministrativo si
ispira al “metodo acquisitivo”, ed in generale vale sempre il principio della ufficiosità
dell'iniziativa istruttoria del giudice. D'altra parte, i poteri d'ufficio del giudice trovano una
giustificazione sostanziale anche nell'esigenza di riequilibrare, nel processo, le posizioni delle
parti e di porre rimedio a una sperequazione che si verifica comunemente nel giudizio
promosso: in genere, è, infatti, l'amministrazione che dispone della prova dei fatti rilevanti,
mentre, conformemente ai principi generali, l'onere della prova dei fatti, su cui si fonda il
ricorso, grava sul ricorrente. In più a quanto ciò detto, sentenziamo che l'art. 64, 4 co.,
c.p.a., riconosce espressamente anche al giudice amministrativo di <desumere argomenti di
prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo>. In conclusione, la
previsione di poteri d'ufficio è coerente con l'assetto complessivo del processo
amministrativo ed è riconducibile, oggi, anche al principio costituzionale della parità delle
parti. Le parti sono pienamente legittimate, quindi, chiudendo definitivamente il discorso, a
formulare istanze istruttorie; su di esse il giudice è tenuto a provvedere; il giudice, però, non
è vincolato ad esse, perché può disporre di mezzi istruttori anche in assenza di una specifica
istanza delle parti.
3) Per quanto riguarda il terzo profilo fondamentale, accennato sopra, relativo al vincolo che
comporta il risultato dell'istruttoria per la decisione del giudice, va tenuto presente che il
processo amministrativo si basa sul principio del libero apprezzamento del giudice: le prove
raccolte nel giudizio sono rimesse, quanto alla loro valutazione, al prudente apprezzamento
del giudice (art 64, 3 co., c.p.a.). Questo principio comporta l'esclusione delle prove legali,
come il giuramento e la confessione, che si caratterizzano invece per vincolare il giudice alla
verità di un certo fatto, precludendogli di assumere una decisione difforme (art. 63, 5 co.,
c.p.a.). All'esclusione delle prove legali, fa eccezione la disciplina dell’atto pubblico, che
anche nel processo amministrativo ha l'efficacia prevista dall'articolo 2700 codice civile. /

5. (segue): i provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori:


La disciplina precedente si fondava sulla distinzione fra tre ambiti di giurisdizione
amministrativa (giudizio di legittimità, di merito ed esclusiva) e, rispetto ciascuno di essi,
articolava diversamente i mezzi istruttori. Gli strumenti a disposizione del giudice erano
molto limitati nella giurisdizione di legittimità (erano ammesse solo la richiesta di documenti,
richieste di chiarimenti e le verificazione; solo la legge n. 205\2000 aveva dato accesso
anche alla consulenza tecnica) e più ampi nella giurisdizione di merito (erano ammessi tutti i
mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, esclusi sempre, ovviamente,
l'interrogatorio formale e il giuramento). È utile segnalare subito che, oggi, sono confermati,
nel codice, i mezzi istruttori tradizionalmente contemplati dalle leggi sul processo
amministrativo: richiesta di chiarimenti all'amministrazione, richiesta di documenti e le
verificazione. La richiesta di chiarimenti consiste nella richiesta all'amministrazione di
informazioni su fatti rilevanti per il giudizio. La richiesta di documenti può avere per
oggetto qualsiasi documento inerente alla materia del contendere che risulti nella
disponibilità dell'amministrazione.- - Verificazioni e consulenze tecniche: le verificazioni
possono avere contenuti molto ampi e, in particolare, secondo la giurisprudenza, possono
riguardare anche l'accertamento di fatti o situazioni complesse (il giudice può acquisire in
questo modo anche gli elementi tecnici che sono necessari per un apprezzamento dei fatti,
analogamente a quanto si verifica con la consulenza tecnica); il codice ha valorizzato la
figura del funzionario o del tecnico incaricato di seguirla, il c.d. verificatore, dandogli
specifico rilievo ed estendendo nei suoi confronti le cause di incompatibilità e di ricusazione
previste dal codice di procedura civile per il consulente tecnico. La verificazione, in
particolare modo, presenta numerosi limiti semantici e pratici, e sarebbe logico assegnare
uno spazio più ampio alla consulenza tecnica. La consulenza, infatti, è affidata ad un perito
che deve essere in condizioni di terzietà rispetto alle parti, proprio come richiesto nel
processo civile.La consulenza tecnica non è normalmente un mezzo di prova, non
dovrebbe servire a dimostrare la verità di un fatto storico, ma dovrebbe consentire di
acquisire gli elementi tecnici necessari per comprendere il significato e il valore di quel fatto
(per esempio, la consulenza tecnica non dovrebbe essere utilizzata per stabilire chi abbia
realizzato una determinata costruzione, ma potrebbe essere utilizzata per capire se quella
costruzione rispetti o meno certi parametri tecnici richiesti per la stabilità degli edifici). Ciò
quanto detto non significa, però, che tutte le valutazioni tecniche effettuate
dall'amministrazione possono essere esaminate dal giudice attraverso una consulenza o una
verificazione: la giurisprudenza, successiva alla legge n. 205/2000, ha insistito sul fatto che
alcuni apprezzamenti di ordine tecnico dell'amministrazione manterrebbero un certo grado di
insindacabilità: attraverso la verificazione, o la consulenza, il giudice può verificarne
l'attendibilità, o la coerenza con criteri essenziali, ma non può spingersi fino al punto di
verificare la loro intrinseca esattezza o la loro condivisibilità. - - Il codice contempla in via
generale anche vari altri mezzi istruttori: su istanza di parte, il giudice amministrativo può
ammettere la prova testimoniale; l'introduzione in via generalizzata di questa prova è
accompagnata però da una significativa riserva: la prova testimoniale, infatti, è ammessa
solo in forma scritta, e, per tale motivo, la sua disciplina risulta inadeguata. Il giudice
amministrativo può disporre anche l'ispezione e più in generale tutti gli altri mezzi di prova
previsti dal codice di procedura civile. /
- Altro da riferire sulla disciplina della istruttoria: alcuni studi hanno dimostrato che il nostro
processo amministrativo si ispira a un modello diverso: l’istruttoria nel nostro giudizio ha
come obiettivo, non la revisione o la correzione del procedimento amministrativo, ma
l'acquisizione di tutti gli elementi di fatto utili per la decisione giurisdizionale; tant’è vero che
se il giudice amministrativo ravvisa una inadeguatezza nell'istruttoria svolta
dall'amministrazione nel procedimento, non restituisce gli atti all'amministrazione perché
provveda ad integrare l'istruttoria, ma assume, egli stesso, le conseguenti decisioni in ordine
alla legittimità dell'atto impugnato. Nella giurisprudenza amministrativa, e nella stessa
giurisprudenza costituzionale, è emersa più volte anche una concezione che indirizza
l'istruttoria del giudice amministrativo a una verifica della coerenza e della completezza
dell'istruttoria svolta nel procedimento amministrativo, più che a una valutazione diretta dei
fatti. In particolare, alla stregua della giurisprudenza in esame, se il giudice non ravvisa
particolari lacune dell'istruttoria amministrativa, non è neppure necessario che egli proceda a
una verifica dei fatti in essa rappresentati, e i mezzi istruttori, nel processo amministrativo,
dovrebbero essere orientati, più che a un accertamento dei fatti invocati a fondamento del
provvedimento impugnato, a una verifica della congruenza e della sufficienza dell'istruttoria
procedimentale. /

*RICAPITOLAZIONE SCHEMATICA sulla disciplina della ISTRUTTORIA: In ciascun


ordinamento processuale, l’istruzione è l’attività del giudice diretta a conoscere i fatti
rilevanti per il giudizio. Accanto alla generale attività interpretativa delle norme, il giudice
accompagna una accurata attività di conoscenza e valutazione dei fatti. Più propriamente,
l’istruzione consiste nell’attività volta ad acquisire le prove e gli elementi necessari a
costruire i fatti di un processo./
Il fatto che, in concreto, spesso i giudici non ravvisino la necessità di disporre mezzi
istruttori, non legittima a pensare che il processo amministrativo sia pertanto un processo ad
istruttoria eventuale, infatti, anche nel processo amministrativo, il GA ha dei poteri di
cognizione, che di volta in volta si pongono sul piano dottrinale in particolari rapporti con
altrettanti importanti principi. /
In particolare è importante capire che relazione esiste tra le allegazioni riservate alle parti e i
poteri di cognizione del giudice; l’onere probatorio delle parti rispetto ai poteri istruttori del
giudice; che vincolo abbia il risultato dell’istruttoria sulla decisione.
A- Innanzitutto, nel processo amministrativo, vige il principio dispositivo, che impone
alle sole parti l’individuazione dei fatti che possano essere introdotti nel processo;
non rileva nemmeno la distinzione tra fatti principali (ossia quelli che descrivono la
pretesa) e fatti secondari (ossia quelli che verificano i fatti primari); sul punto,
dottrina e giurisprudenza sono all’unisono, nel senso che solo le parti possano
introdurli.
B- Secondo profilo attiene alla prova dei fatti: nel processo amministrativo, insiste
l’onere probatorio a carico delle parti, per cui è la parte a dover suffragare di
certezza la propria doglianza; a differenza, però, che, nell’allegazione dei fatti, il
principio dispositivo, in merito alla prova dei fatti, è più flessibile, per cui il giudice
può d’ufficio disporre di mezzi di prova; questo principio, il cd. metodo acquisitivo,
affianca il classico principio dispositivo, e sembra esser suffragato di legittimità
dall’esigenza che le parti siano equilibrate all’interno del processo, evitando la più
classica sudditanza di posizione tra ricorrente e amministrazione resistente.
C- Ultimo profilo concerne l’incidenza dell’istruttoria sulla decisione finale: in verità, nel
processo amministrativo, vige il libero apprezzamento del giudice, per cui le prove
raccolte nel giudizio sono rimesse al suo apprezzamento libero, ad esclusione delle
prove legali (confessione) che vincolano il giudice a quella verità fattuale. /

Oggi, i poteri d’intervento del giudice, come detto, consistono per lo più nel riequilibrio di
quel distacco di posizioni che inevitabilmente esiste tra ricorrente e amministrazione
resistente, che ovviamente è in possesso di materiale probatorio legato al procedimento
relativo al provvedimento impugnato; per questa ragione, l’attività istruttoria del giudice si
traduce spesso nell’ordine alla PA a consegnare i documenti delle quali è in possesso.
In particolare gli articoli 64,3 e l’art 66 c.p.a. sanciscono i tre principali mezzi istruttori:
(1) richiesta di chiarimenti : consiste nella richiesta alla PA di informazioni sui fatti rilevanti
per il giudizio; (2) richiesta di documenti : richiesta a che la PA consegni i documenti
rilevanti in suo possesso; (3) verificazioni : possono avere contenuti molto ampi. Il giudice
con esse può acquistare anche elementi tecnici che siano necessari all’apprezzamento dei
fatti. Prima la verificazione era demandata esclusivamente alla PA: molto spesso era la
stessa amministrazione resistente, e ciò metteva in forte dubbio la coerenza di un tale
istituto alla stregua della uguaglianza delle parti, posto che in tal modo la PA veniva investita
di un ruolo preminente nell’istruttoria; tale gravità era poi sugellata dal fatto che era
preclusa la classica consulenza tecnica, il che vincolava il giudice a richiedere alla PA tutti gli
accertamenti di carattere tecnico. Il codice ha cercato di bilanciare l’imperfezione dell’istituto
della verificazione, prevedendo che il giudice possa ordinare di eseguire la verificazione ad
un “organismo”, il che apre la possibilità di richiesta anche a soggetti che non siano soggetti
pubblici e che siano esterni al processo; ma, pur prevedendo la possibilità di nomina di un
soggetto esterno, ciò non impedisce che possa essere deputata dal giudice la stessa
amministrazione resistente, il che quindi non sfugge a critiche; sarebbe stato più opportuno
valorizzare la consulenza tecnica, introdotta con la 205/2000 e cristallizzata nel codice, ma
che resta comunque strumento successivo alla verificazione e soprattutto strumento
eccezionale. /
Comunque, oltre ai 3 classici strumenti che tradizionalmente possono essere esperiti in sede
istruttoria dal giudice, merita attenzione anche
la testimonianza : che è ammessa solo su istanza di parte, e avviene in forma scritta; per
essa non può che non esprimersi una critica relativamente al modo in cui essa è introdotta
nel procedimento amministrativo: mentre infatti nel processo civile la prova scritta richiede il
consenso delle parti, e dove questo manchi può essere assunta direttamente dal giudice ;
nel processo amministrativo la prova può essere solo scritta. Inoltre nel processo civile la
prova è oggetto di libero apprezzamento da parte del giudice, nel processo amministrativo
nulla di tutto ciò. Questo comporta degli inconvenienti sulla ragionevolezza dell’istituto,
perché sacrifica la celerità processuale ad una plausibile necessità del giudice di chiedere
l’audizione di un teste.

6. Gli incidenti del giudizio


Per quanto concerne la sospensione necessaria per ragioni di pregiudizialità, vanno
considerate le questioni inerenti allo stato e alla capacità delle persone e l'incidente di falso:
la decisione su queste questioni è riservata al giudice civile è il giudice amministrativo non
può provvedere su di esse neppure in via incidentale.
Il processo amministrativo deve essere sospeso quando il collegio abbia sollevato una
questione di legittimità costituzionale, o abbia deferito alla corte di giustizia una questione
pregiudiziale, di interpretazione di una norma comunitaria. In tali ipotesi e in ogni altra
ipotesi di sospensione necessaria del giudizio, la sospensione viene disposta con ordinanza
appellabile e non preclude comunque la possibilità di richiedere al giudice amministrativo
pronunce cautelari.
Anche nel processo amministrativo è ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione,
secondo quanto previsto dall'articolo 41 c.p.c.: il regolamento è proposto dalle parti, con
istanza diretta alla corte di cassazione, finché sul ricorso non sia intervenuto una decisione
del Tar. La proposizione del regolamento non comporta però automaticamente la
sospensione del giudizio: la sospensione è disposta dal Tar, solo dopo aver verificato che
l'istanza di regolamento non sia manifestamente inammissibile o infondata.
Il codice non contempla espressamente la sospensione su richiesta delle parti (c.d.
sospensione facoltativa), disciplinata, per il processo civile, dall'articolo 296 c.p.c oggi, il
richiamo ampio nel codice alla disciplina della sospensione del processo civile consente di
dare spazio alla soluzione affermativa.
La sospensione è disposta dal Tar con ordinanza. Il codice di procedura civile, nei confronti
dell'ordinanza di sospensione del processo pronunciate ai sensi dell'articolo 295 c.p.c.,
ammette oggi un gravame, utilizzando anche a questi fini il regolamento di competenza.
Infine, nel codice del processo amministrativo è richiamato l'istituto dell'interruzione del
processo, per il quale è fatto rinvio alla disciplina del processo civile.
Quando sia cessata la causa di sospensione del giudizio si sia prodotta l'interruzione, per la
prosecuzione del giudizio è necessario un nuovo atto di impulso. Nel processo
amministrativo tale atto si identifica normalmente con un'istanza di discussione del ricorso,
da presentare in un termine breve. Un vero è proprio atto di riassunzione, che deve essere
notificato alle altre parti, è richiesto soltanto nel caso di interruzione, se la parte nei cui
confronti si è verificato l'evento interruttivo non abbia già presentato una nuova istanza di
fissazione d’udienza

7. La decisione
Affinché il ricorso possa essere deciso, è necessario che sia richiesta, con una apposita
istanza, la fissazione di una udienza di discussione. In caso di urgenza, la parte può chiedere
di anticipare la data di udienza al presidente del TAR con un istanza che si definisce “istanza
di prelievo”; una volta presentata l’istanza, il Presidente del TAR fissa l’udienza di
discussione, dandone comunicazione alle parti, con un preavviso di almeno 60 giorni.
Le parti costituite possono depositare: documenti fino a 40 giorni prima dell’udienza,
memorie conclusionali fino a 30 giorni prima, memorie di replica fino a 20 giorni prima.
Nell’udienza, che è pubblica, ciascuna parte può illustrare le proprie ragioni, e una volta
terminata la discussione, il TAR procede alla decisione del ricorso e quindi alla sentenza.
Un’ipotesi particolare è quella della sentenza in forma semplificata, che la si ha nei casi in cui
il ricorso sia manifestamente fondato o manifestamente infondato, o inammissibile o
improcedibile. Si caratterizza per una motivazione sintetica sui soli profili decisivi della
vertenza. Altra ipotesi particolare è quella in cui il giudice definisce il giudizio con decreto
presidenziale, nei casi di estinzione o improcedibilità del ricorso.

8. Il rito camerale
Nel quarto libro del codice sono contemplati anche vari riti speciali, che presentano profili di
peculiarità anche quanto a svolgimento del giudizio, e che attengono alle vertenze di
specifiche materie. Più in generale, il codice del processo amministrativo prevede
svolgimento più celere, che viene designato nella prassi come "rito camerale", per alcune
controversie. Si tratta del giudizio di ottemperanza, del giudizio sul silenzio, del giudizio in
materia di accesso, delle opposizione ai decreti presidenziali di estinzione o improcedibilità
del giudizio, oltre che di alcune ulteriori controversie in grado d'appello. Queste controversie,
in relazione al progetto, richiedono, o ammettono, una decisione in tempi ravvicinati,
pertanto anche gli adempimenti delle parti sono assoggettati a tempi abbreviati: tutti i
termini processuali sono ridotti a metà, salvo quelli per la notifica del ricorso principale, del
ricorso incidentale e dei motivi aggiunti nel giudizio di primo grado. Nei giudizi in esame, per
la decisione dei ricorsi non è necessaria un'istanza di fissazione di udienza e la trattazione è
fissata d'ufficio, con particolare celerità: di regola il ricorso è trattato nella prima camera del
consiglio utile, decorsi 30 giorni dalla termine dalla scadenza del termine per la costituzione
delle parti intimate. Il giudice amministrativo decide il ricorso senza necessità di un'udienza
pubblica, ma semplicemente in camera di consiglio.

CAPITOLO XIII (TRAVI) - LA SENTENZA E LE IMPUGNAZIONI (I


MEZZI DI GRAVAME).
LA SENTENZA (da pag. 299 a pag. 312): - Circa la domanda e le questioni del ricorso: In
coerenza con il principio della domanda, il GA è tenuto a pronunciarsi su tutta la domanda e
non oltre i limiti di essa, e quindi, a tal fine, vanno considerati, oltre al ricorso principale,
anche i motivi aggiunti ed il ricorso incidentale; sempre a tale proposito concettuale, il
giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto
dalle parti (si tenga presente che nel processo amministrativo si dubita della configurabilità
di eccezioni processuali riservate alle parti), ma esso (il GA) può sempre e comunque
accertare d’ufficio la nullità di un provvedimento. Nell’esame della domanda, il collegio
procede secondo ordine logico: decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle
parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa; esamina, allorché, le questioni di rito
(per esempio se il ricorso proposto può esser proposto o è nullo), le questioni relative ai
presupposti dell’azione, le questioni relative alla competenza e alla giurisdizione ed, in
ultimissimo luogo, le questioni di merito. Una vivace discussione ha riguardato l’ordine
dell’esame delle questioni per la decisione del giudizio amministrativo: in base ad un primo
orientamento, il collegio esamina primariamente l’impugnazione incidentale, se il suo
accoglimento può comportare l’inammissibilità del ricorso principale per mancanza di un
presupposto processuale; in base ad un secondo orientamento, il GA deve decidere sia il
ricorso incidentale che il ricorso principale, altrimenti, secondo questa dottrina, si
attribuirebbe ingiustamente al ricorrente incidentale una posizione di vantaggio rispetto al
ricorrente ordinario (e ciò è in contrasto con il principio di parità delle parti nel processo),
anche se in realtà questa ultima critica non sembra convincente, e ciò significa dire che
vanno esaminate prima le questioni concernenti l’ammissibilità del ricorso e il ricorso
incidentale, e poi, in secondo luogo, le questioni concernenti il ricorso principale  TRAVI
aderisce, allorché, alla prima delle due dottrine esplicate. - - c.d. assorbimento: nel processo
amministrativo, ai fini della decisione assume rilevanza il concetto di assorbimento delle
questioni: si verifica, esso, quando le questioni sollevate, pur non essendo collegate
tecnicamente fra loro secondo una relazione di pregiudizialità, seguono un preciso ordine
logico che il giudice deve seguire ai fini della decisione; il giudice è solito disporre
frequentemente l’assorbimento dei motivi di ricorso anche senza che sia identificabile un
preciso ordine logico fra le questioni sollevate (per esempio, in presenza di più censure,
spesso si limita ad esaminare quella più facilmente verificabile, se da essa consegue
l’annullamento del provvedimento impugnato (c.d. assorbimento improprio, tra l’altro molto
criticato)). /- LA SENTENZA (intro, definizione e tipologie): Il giudizio amministrativo è
definito da una sentenza deliberata dal collegio giudicante, e, solo in casi estremi, quando si
verifica una causa di estinzione del giudizio, dal Presidente con un decreto presidenziale. La
sentenza definisce in tutto o in parte il giudizio; il suo termine etimologico è utilizzato nel
c.p.a con una portata analoga a quella riscontrabile nel c.p.c, ed ecco perché quando si
parla di sentenza ci si riferisce anche a questioni pregiudiziali ed a questioni preliminari di
merito. Sentenza può essere sia quella del TAR, sia quella del Consiglio di Stato. Per le
sentenze, si è soliti distinguere fra la sentenza di rito e la sentenza di merito, concetti che
andremo ad analizzare, in questa stessa sede, separatamente: * SENTENZA di RITO: l’art.
35 c.p.a considera fra le sentenze di rito quelle che dichiarano l’irricevibilità , l’inammissibilità
o l’improcedibilità del ricorso, nonché quelle che dichiarino l’estinzione del giudizio
(situazioni, queste appena riferite, che nascono allorquando ci sia una tardività della notifica
del ricorso, una proposizione della domanda erroneamente posta, una rinuncia del ricorrente
e così via dicendo); lo stesso codice, a tale proposito, considera sentenze di merito (e non
sentenze di rito) quelle che dichiarino la cessazione della materia del contendere, che si
verifica, generalmente, quando la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta. * * il
caso di declinatoria della giurisdizione: nel caso di declinatoria della giurisdizione, dovuta al
fatto che la vertenza inerisce alla giurisdizione di altro giudice nazionale, il TAR deve indicare
nella sua sentenza anche quale sia il giudice dotato di giurisdizione; in tale caso, secondo
alcuni autori, il secondo giudizio sarebbe una mera prosecuzione del primo, anche se la
giurisprudenza non è uniforme a tale riguardo dottrinale, e sembra essere più cauta; in ogni
modo, il “secondo” giudice, indicato nella “prima sentenza” del TAR, non è assolutamente
vincolato ad occuparsi della vicenda giudiziaria ad esso posta, ed anzi, se lo ritenga
opportuno, non ritenendosi a sua volta competente circa la questione a lui sottoposta, può
sollevare di ufficio un conflitto di giurisdizione, sul quale si pronuncerà poi la Corte di
Cassazione. * SENTENZA di MERITO: le sentenze di merito intervengono sul contenuto della
domanda, accogliendola o dichiarandola infondata, ed a questi fini non importa se il GA si
pronunci sull’intero contenuto della domanda, o su una parte di essa; in particolare modo,
nel caso di accoglimento del ricorso, le sentenze (qui sotto esame) possono avere un
contenuto dispositivo differente, e ciò lo si vede in relazione alle domande proposte (quindi
tutto dipende dalla domanda proposta dal ricorrente): le sentenze possono, quindi, ad
esempio, disporre l’annullamento del provvedimento impugnato, o disporre la sua riforma e
sostituzione, od, ancora, ordinare alla PA di provvedere in un certo termine nel caso di un
giudizio sul silenzio – rifiuto, o dichiarare la nullità di un atto amministrativo, e così via
dicendo. * * peculiarità di una particolare tipologia di sentenza di condanna (i casi della
vertenza risarcitoria): l’art 34 co.4 c.p.a prevede una particolare sentenza di condanna per le
controversie relative ad obbligazioni pecuniarie (si parlava, a tal proposito, in passato di
vertenze risarcitorie): se nessuna delle parti in causa richiede espressamente al giudice di
provvedere direttamente alla liquidazione del danno (in maniera specifica), lo stesso (il GA),
accogliendo la domanda di condanna, si limita a fissare i “criteri” per liquidare l’importo
dovuto; il GA fa largo uso della facoltà attribuitagli dalla disciplina in esame e, specie nelle
già citate vertenze risarcitorie, preferisce pronunciare sentenze limitate ai criteri di
liquidazione piuttosto che pronunciare sentenze di concreta e specifica liquidazione di
risarcimento, soprattutto perché la decisione diventa, evidentemente, più semplice./-
EFFETTI della SENTENZA di ANNULLAMENTO: Lo studio sulla sentenza del GA si è
concentrato particolarmente sugli effetti della sentenza di annullamento, soprattutto perché
la sentenza che accoglie il ricorso e annulla, allor quindi, il provvedimento impugnato è stata
considerata a lungo come l’espressione tipica della funzione giurisdizionale; il nucleo della
sentenza di annullamento è stato identificato con l’accertamento della illegittimità del
provvedimento impugnato dal ricorrente, in relazione a determinati vizi enunciati nel ricorso:
la eventuale illegittimità del provvedimento impugnato viene accertata ed è tale poiché c’è
un vizio specifico, e non viene di certo accertata in modo generico; a tale riguardo
concettuale, sottolineiamo la presenza di una dottrina che ha esplicato che, durante
l’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato, ci si debba concentrare
anche, particolarmente e soprattutto, sulla situazione giuridica soggettiva lesa dal
provvedimento stesso, nel senso che, per dire ancora meglio, è indispensabile,
fondamentale, che sia presa sotto esame la situazione giuridica del soggetto leso, tanto che
l’oggetto principale del giudizio (e della sentenza di annullamento) più che la verifica della
legittimità o meno del provvedimento debba essere la situazione soggettiva (spesso
interesse legittimo); non si discute in ogni modo (a prescindere dalla prevalenza di
qualsivoglia dottrina), a conclusione del discorso introduttivo circa questa
concettualizzazione, che la situazione giuridica soggettiva debba avere, ai fini di una corretta
economia processuale amministrativistica, una considerazione non marginale. - - Relazione
concettuale tra sentenza di annullamento e potere amministrativo: la sentenza interviene in
una vicenda del potere amministrativo, eliminando un atto che costituiva espressione di tale
potere, ma senza, è chiaro, privare la amministrazione del potere stesso per il solo effetto
della sentenza che accolga un eventuale ricorso (risulta ovvio che, difatti, il potere
amministrativo non si esaurisce per effetto della sentenza che accolga un ricorso): quindi, in
linea di principio, rimane fermo il fatto indiscutibile che il potere della PA può essere
esercitato nuovamente dopo la sentenza di annullamento, MA, si badi bene, per
salvaguardare il contenuto della sentenza di annullamento, entra in gioco la cd. “azione di
adempimento” che il giudice pone in essere e “mette di fronte” alla PA condannata: con
questa particolare azione il GA “impone” alla PA di adottare, successivamente alla sentenza
di annullamento del provvedimento impugnato dal ricorrente, una condotta specifica, di
emanare, quindi, un certo provvedimento (che non sia, ovviamente, una copia di quello che
il GA stesso aveva annullato ex ante, perché, contrariamente, sarebbe una illogicità palese
del sistema) è chiaro che, in questi casi, la sentenza esaurisce in qualche modo il potere
amministrativo e lo ridimensiona drasticamente sul piano sostanziale, poiché la PA è tenuta
a procedere nel modo stabilito dalla sentenza. - - effetti ulteriori rispetto alla
eliminazione del provvedimento impugnato: dottrina e giurisprudenza identificano
effetti della sentenza di annullamento ulteriori rispetto alla eliminazione del provvedimento
impugnato: si tratta di effetti che non hanno un carattere “reale” come invece la
caducazione dell’atto impugnato, ma hanno un carattere “obbligatorio”, nel senso che
costituiscono a carico della PA doveri di condotta; vediamoli in maniera sistematica: 1 –
effetto eliminatorio = la sentenza di annullamento comporta la eliminazione dalla c.d. realtà
giuridica del provvedimento annullato, annullamento che determina il venir meno degli
effetti prodotti dal provvedimento stesso (es. l’annullamento di un decreto di esproprio
comporta, come effetto, il venir meno del titolo giuridico in forza del quale il destinatario
dell’esproprio è divenuto proprietario del bene: titolare del diritto sul bene, in seguito alla
sentenza, è nuovamente il proprietario del bene espropriato). 2 – effetto ripristinatorio = la
sentenza di annullamento opera ex tunc: essa non solo elimina dalla realtà giuridica attuale
il titolo che determinava un certo assetto di interessi, ma impone che quell’assetto di
interessi sia eliminato fin dall’origine, di modo che questo assetto di interessi deve risultare,
dopo la sentenza di annullamento, come se non fosse mai stato posto in essere. (es. nel
nostro precedente esempio, l’annullamento del decreto di esproprio obbliga la PA a restituire
al proprietario espropriato i frutti percepiti dopo l’emanazione del decreto di esproprio). 3 -
effetto conformativo = l’accertamento contenuto nella sentenza non può essere disatteso
dalla PA: la PA stessa è vincolata anche nella fase successiva alla sentenza di annullamento,
anche nella fase di c.d. riesercizio del potere, di ottemperare al giudicato, nel senso, quindi,
che deve conformarsi logicamente e giuridicamente al giudicato stesso, a ciò che è stato
deciso ex ante, e cioè, nella nostra casistica, nella sentenza di annullamento del
provvedimento impugnato dal ricorrente e poi annullato dal GA; risulta un chiaro gioco forza
logico che, nella rinnovazione del procedimento, la PA non può riprodurre il vizio già
accertato nella sentenza di annullamento.
***Con riguardo ai primi 2 effetti surriferiti, si può ben notare come l’utilità offerta
dall’azione di annullamento è offerta primariamente dalla eliminazione dell’atto impugnato
con effetto retroattivo, con effetto ex tunc (in alcuni ordinamenti stranieri il giudice,
accertata la illegittimità del provvedimento ed annullatolo, può modulare nel tempo la
decorrenza degli effetti della sentenza: cosa, sia chiaro, non ammessa nel nostro
ordinamento); con riferimento al terzo ordine di effetti (il conformativo), va osservato che la
regola enunciata nella sentenza di annullamento è identificata “in negativo”, nel senso che il
GA dichiara che la PA non avrebbe dovuto provvedere in quel certo modo, anche se non
mancano contenutistiche (delle sentenze) “in positivo”, specie riguardo alle sentenze sul
silenzio (es. il GA esplica anche in che modo deve agire la PA, dopo aver annullato il suo
provvedimento “di silenzio – rifiuto”, dato che sappiamo benissimo, da Amministrativo 1, che
anche il silenzio della PA è un provvedimento), e, in qualsiasi casistica, ciò che è scritto nella
sentenza resta sempre e comunque una regola vincolante per la PA, nel senso che questa
ultima (come ripetuto già prima) non può agire disattendendo ciò che è esplicato nella
stessa sentenza di annullamento (es. se il GA annulla il licenziamento di Fabio, un
dipendente pubblico, perché carente di motivazione (questo licenziamento), la PA non può
licenziare nuovamente Fabio, ex post sentenza, adducendo le stesse motivazioni ex ante
sentenza). - - Utilità conseguibili attraverso la sentenza di annullamento: la dottrina di Nigro
aveva proposto una classificazione delle utilità conseguibili attraverso una sentenza di
annullamento di un provvedimento impugnato dal ricorrente: se l’annullamento è stato
disposto per un vizio di legittimità sostanziale, ossia un vizio concernente la contenutistica
stessa del provvedimento, il vantaggio che ottiene il ricorrente è maggiore, poiché
l’annullamento per i vizi di legittimità sostanziale impediscono, è chiaro, la emanazione di un
nuovo provvedimento con quel contenuto; se, invero, l’annullamento è disposto per un vizio
di legittimità formale, ossia un vizio inerente ad un errato procedimento d’emanazione,
forma errata dell’atto, motivazione mancante o non corretta, il vantaggio che ottiene il
ricorrente è minore, poiché l’annullamento non impedisce di per sé l’emanazione di un
nuovo atto con lo stesso contenuto, “corretto” dai vizi formali accertati nella sentenza.

LE IMPUGNAZIONI in generale (da pag. 312 a pag. 321): Il libro terzo del c.p.a detta la
disciplina generale delle impugnazioni delle sentenze dei GA, alla voce “impugnazioni in
generale”, artt. 91-99 ; premettiamo il tema dicendo che prima della venuta in essere del
c.p.a la disciplina delle impugnazioni era estremamente lacunosa, soprattutto per quanto
concerne le impugnazioni incidentali, la disciplina del contraddittorio e così via dicendo; il
c.p.a ha introdotto una puntuale disciplina delle impugnazioni, ma rimangono, ciò
nonostante, aperti ed irrisolti alcuni interrogativi, che vengono normalmente risolti allor
quando si fa rinvio alla disciplina processuale civilistica del c.p.c ; anzitutto, passando alla
descrizione concreta di ciò che più ci interessa, diciamo che sono previsti vari mezzi di
impugnazioni: nei confronti delle sentenze del TAR è ammesso l’appello al Consiglio di Stato,
nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per cassazione per
motivi di giurisdizione, nei confronti delle sentenze del TAR e del Consiglio di Stato sono
ammessi revocazione e l’opposizione di terzo (ogni mezzo di impugnazione ha un
regolamento di competenza). / – Primi articoli della disciplina: I primi articoli di questa
disciplina regolano profili di ordine essenzialmente formale, come quello dei termini entro cui
vanno notificate le impugnazioni, il luogo in cui vanno eseguite le notifiche ed il termine per
il deposito dopo la notifica: per quanto concerne il termine per proporre la impugnazioni,
abbiamo 2 termini perentori, e cioè il “breve” di 60 gg dalla ricezione della notifica della
sentenza ed il “lungo” di 6 mesi dalla pubblicazione delle sentenza (ciò che avviene quando
non vien disposta notifica); per quanto concerne il luogo in cui vanno eseguite le notifiche,
diciamo che la notifica va effettuata alla controparte presso la residenza dichiarata nella
causa; per quanto concerne il deposito dopo la notifica, diciamo che il deposito va effettuato
presso la cancelleria del giudice adito e va effettuato entro 30 gg dalla ultima notifica. /-
Altri artt. della disciplina (alcuni temi importanti per l’assetto dei mezzi di impugnazione)
(artt. 95 – 98): A) il CONTRADDITTORIO: è disciplinato da due profili nodali e cioè la
individuazione delle parti necessarie e le modalità per evocarle in giudizio  rispetto al
secondo profilo il codice ripropone le soluzioni accolte dalla giurisprudenza precedente (si
veda Consiglio di Stato), mentre, rispetto al primo profilo, il codice identifica come parti
necessarie del giudizio di impugnazione “tutte le parti in causa” nelle impugnazioni di
sentenze pronunciate “in causa inscindibile o in causa tra loro dipendenti”, nonché “le parti
che hanno interesse a contraddire” e “negli altri casi, nei confronti delle sole parti che hanno
interesse a contraddire” (in ogni modo, anche questa disciplina va valutata alla luce della
giurisprudenza precedente, ad esempio prendendo come riferimento l’adunanza plenaria che
stabilisce che è esclusa la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei c.d.
soccombenti, cioè coloro che risultano soccombenti nel giudizio di primo grado). B) le
IMPUGNAZIONI INCIDENTALI: tema che rappresenta uno dei profili cruciali nella
disciplina della impugnazione delle sentenze; profilo, questo, che si verifica spesso
soprattutto quando si ha a che fare con una causa in cui vi sono una molteplicità di soggetti
oppure quando si ha a che fare con situazioni intermedie di accoglimento parziale, dove, per
l’appunto, la impugnazione della sentenza (in queste 2 ipotesi esemplificative) coinvolge
interessi variegati di soggetti diversi, ed ecco perché viene a nascere la netta esigenza di
una disciplina che assicuri un certo ordine nelle impugnazioni che si riferiscono ad una
identica sentenza; in proposito, analogamente a quanto accade nel processo civile, il c.p.a
sancisce l’obiettivo della concentrazione delle impugnazioni in una medesima sentenza al
fine di realizzare una pulita economia processuale, tanto è vero che viene richiamato
esplicitamente l’art. 333 c.p.c che impone a chi abbia ricevuto la notifica della impugnazione
di una sentenza di proporre le proprie doglianze nei confronti della stessa sentenza
mediante una impugnazione incidentale nel medesimo processo  di conseguenza anche
nel processo amministrativo vige la regola secondo cui tutte le impugnazioni successive alla
prima devono essere proposte dalle altre parti con un’impugnazione incidentale, nel giudizio
promosso per effetto della prima impugnazione, anche se rispetto a questa soluzione,
comune al processo civilistico, il c.p.a presenta alcune particolarità di rilievo, difatti, per
consentire alle altre parti di proporre una impugnazione nel nuovo grado di giudizio, il c.p.c
considera due situazioni distinte (in questo modo si intende attuare la esigenza di porre a
conoscenza delle altri parti la circostanza che sia stata impugnata una sentenza ai fini delle
loro eventuali impugnazioni incidentali): la prima situazione concerne la sentenze civile
pronunciata fra più parti in una causa “inscindibile o in causa tra loro dipendenti”, dove, se
l’impugnazione non sia stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina la integrazione
del contraddittorio nei confronti delle altre parti; la seconda situazione concerne invece di
sentenza pronunciata fra più parti in cause “scindibili”, dove,4 se l’impugnazione non sia
stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina la integrazione del contraddittorio nei
confronti delle altre parti, per consentire anche a loro di proporre impugnazione nel
medesimo giudizio (risulta chiaro che, in tale caso, la integrazione del contraddittorio ha lo
scopo di portare a conoscenza delle altre parti l’esistenza dell’impugnazione, al fine che esse
possano proporre a loro volta una impugnazione incidentale); l’ipotesi dell’impugnazione in
cause “scindibili” fra più parti è rilevante nel processo amministrativo, soprattutto perché
parliamo di situazioni che si verificano con grande frequenza; abbiamo quindi, possiamo dire
in conclusione, capito che appare maggiore il rischio che nei confronti di una identica
sentenza sia proposta una pluralità di impugnazioni separate (rischio, questo, accertato ed
accettato dallo stesso codice che regola situazioni fattuali del genere). C) TERMINE delle
impugnazioni incidentali: l’impugnazione incidentale di regola deve essere notificata alle altre
parti nel termine di 60 giorni dalla notifica della prima impugnazione; l’impugnazione
incidentale proposta entro questo termine è tempestiva e può investire qualsiasi capo della
sentenza impugnata; esiste, inoltre, anche una impugnazione incidentale tardiva, ipotesi di
proposizione tardiva che si verifica allor quando passa il termine ordinario di cui surriferito di
60 giorni e le parti in cause “inscindibili” a cui sia stata ordinata la integrazione del
contraddittorio propongono la loro impugnazione incidentale (tardiva), impugnazione,
questa, che, quindi, può esser proposta solo da determinati soggetti e in determinate
situazioni particolari. D) nozione di CAPO della SENTENZA concernente il tema delle
impugnazioni incidentali: l’impugnazione di una sentenza non deve necessariamente
riguardare l’intera sentenza impugnata, ma può riguardare anche solo una parte di essa ; è
chiaro che chi propone la impugnazione critica generalmente la sentenza con riferimento alle
parti della sentenza stessa che risultano in qualche modo contrarie ai propri interessi; a
questo stesso fine, seguendo questo fine ragionamento, è essenziale capire quale parte di
una sentenza sia passibile di autonoma contestazione: per questa ragione, si suole
identificare una entità minima della sentenza , il c.d. capo di sentenza; la nozione di capo di
sentenza, dibattuta nel processo civile, risulta controversa ancor di più nel processo
amministrativo , soprattutto con riferimento all’azione di annullamento, dove si aggiungono
problemi specifici, connessi particolarmente alla rilevanza dei motivi della impugnazione e
quindi all’assunzione del motivo come elemento caratterizzante per l’azione; risultato di
queste incertezze è, in dottrina, la presenza di interpretazioni che, con riferimento sempre
all’azione di annullamento, spaziano dalla tesi che identifica il capo della sentenza in base al
petitum del ricorso, e che quindi delimita un ambito più ampio per la nozione di capo di
sentenza, a quella che invece identifica il capo con il singolo determinato profilo di
illegittimità fatto valere nel ricorso; su una posizione intermedia si colloca la tesi di NIGRO,
secondo cui la nozione di capo della sentenza dovrebbe essere conformata alle utilità che
l’accoglimento di una censura comporta per il ricorrente, tenendo conto di tutti gli effetti
della sentenza di annullamento  in questo modo, il capo della sentenza non
corrisponderebbe al singolo motivo di ricorso, né alla domanda complessiva di annullamento
di un atto amministrativo, ma si identificherebbe in base a una qualità degli effetti della
sentenza; nella giurisprudenza amministrativa prevale la tendenza che identifica come unità
minima della sentenza qualsiasi pronuncia espressa su una questione sollevata dalle parti o
rilevata di ufficio nel giudizio di primo grado (capo della sentenza finisce così col risultare
non solo la pronuncia sul singolo vizio, ma anche il rigetto di ogni eccezione pregiudiziale o
preliminare). E) l’INTERVENTO: si capisca che nel giudizio di impugnazione può intervenire
solo “chi ha interesse”; interventi che deve essere proposto con un atto da notificare alle
parti altre. F) SOSPENSIONE della ESECUZIONE: nel giudizio promosso in seguito
all’impugnazione della sentenza può essere richiesta la sospensione dell’esecuzione della
sentenza stessa.

4. L’APPELLO AL CONSIGLIO DI STATO:


L’appello si presenta, anche nel processo amministrativo, come rimedio a critica libera,
concesso alla parte soccombente per far valere, oltre agli errori e ai vizi, anche la semplice
ingiustizia della sentenza di primo grado. Ha carattere rinnovatorio, perché, di regola, la
decisione del Consiglio di Stato che accolga l’appello si sostituisce a quella del TAR,
pronunciando direttamente sul ricorso (questa regola è confermata, altresì, nel codice del
processo amministrativo). La disciplina dell’appello nel codice del processo amministrativo è
limitata a pochi articoli, che vanno, però, letti alla luce degli articoli precedenti, dedicati alle
impugnazioni in generale (art. 91-99). / - Chi può proporlo: legittimate a proporre l’appello
sono le parti necessarie nel giudizio di primo grado; questa regola in precedenza era stata
posta in dubbio dalla giurisprudenza amministrativa, che tendeva ad ammettere anche
legittimazioni più estese, ma è stata sancita poi dal codice (art 102, 1° comma). La
legittimazione a proporre l’appello è riconosciuta dal codice anche all’interventore ad
opponendum nel giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione
giuridica autonoma rispetto alle altre parti: l’autonomia della sua posizione soggettiva
comportava la legittimazione all’appello. La presentazione dell’appello presuppone che il
soggetto legittimato abbia interesse ad appellare, in coerenza con i principi sull’esercizio
dell’azione nel processo; tale interesse va valutato in una prospettiva tipicamente
processuale: è l’interesse a impugnare una sentenza che produce effetti sfavorevoli per la
parte; l’interesse ad appellare viene, allor quindi, evidentemente, riconnesso alla nozione di
soccombenza: ha interesse ad impugnare la sentenza di primo grado chi sia risultato
soccombente in quel grado di giudizio. Rispetto all’azione di annullamento, la configurabilità
di una soccombenza risulta evidente in alcune ipotesi: si pensi al caso del ricorrente, rispetto
alla sentenza che dichiara infondato il suo ricorso, oppure al caso del controinteressato,
rispetto alla sentenza di accoglimento del ricorso avversario./ - Come si propone: la riserva
d’appello è proposta con un atto che va notificato alle altre parti entro il termine fissato per
l’appello, e va depositato presso il Tar nei successivi 30 giorni (art. 103 c.p.a.). L’appello al
Consiglio di Stato deve essere proposto con un ricorso, con i contenuti elencati dall’art. 101
c.p.a.: richiede, innanzitutto, che siano identificati il ricorrente e il suo difensore, le parti nei
cui confronti è proposto l’appello e la sentenza di primo grado, che siano esposti
sommariamente i fatti, ecc. Bisogna tener presente, inoltre, che nei giudizi d’impugnazione è
obbligatorio il patrocinio di un avvocato e che avanti al Consiglio di Stato può esercitare
soltanto un avvocato abilitato al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori. Il codice
richiede anche alcuni elementi ulteriori, che sono particolarmente significativi per valutare i
caratteri dell’appello nel processo amministrativo: infatti, nel ricorso, non solo devono essere
identificati i capi di sentenza gravati d’appello, ma anche devono essere enunciate “ le
specifiche censure” contro la relativa pronuncia del giudice di primo grado; è necessario,
pertanto, che l’appello, oltre a identificare esattamente l’oggetto della domanda, e cioè a
definire l’ambito della sentenza di primo grado di cui si invoca il riesame, enunci, anche, la
critica ai capi di sentenza appellati. L’appellante non può limitarsi a riproporre le sue ragioni,
già disattese dal giudice di primo grado, ma deve formulare una critica specifica alla
sentenza di primo grado, e ciò deve farlo a pena di inammissibilità, e, quindi deve enunciare
le ragioni per le quali ritiene che la sentenza non sia corretta o condivisibile. /
- Giudice d’appello ed effetto devolutivo: l’appello si caratterizza, tradizionalmente, fra i
mezzi di impugnazione, per essere diretto ad ottenere dal giudice di secondo grado il
riesame della vertenza decisa dal giudice di primo grado. Pertanto, il giudice d’appello deve
poter conoscere e decidere la vertenza con la stessa pienezza del giudice di primo grado. A
questo proposito si parla di un effetto devolutivo dell’appello: si designa, così, la riemersione
“automatica” delle questioni già sollevate nel giudizio di primo grado e, conseguentemente,
del relativo materiale di cognizione probatorio; ciò che contraddistinguerebbe l’effetto
devolutivo, secondo l’interpretazione più rigorosa, sarebbe appunto l’automaticità della
riemersione, ossia il fatto che l’esame delle relative questioni proposte nel giudizio di primo
grado non richiederebbe nessuna iniziativa della parte: la riemersione delle questioni si
produrrebbe di diritto, solo in forza dell’appello stesso. Per valutarne la rilevanza, in senso
proprio, dell’effetto devolutivo nel processo amministrativo di secondo grado è opportuno
ricordare che un effetto devolutivo si può produrre solo nei limiti dell’impugnazione
proposta: pertanto può riguardare solo questioni risolte nei capi di sentenza che siano
impugnati.- - Effetto devolutivo e “capo di sentenza”: l’ampiezza dell’effetto devolutivo
risulta, quindi, condizionata, innanzitutto, dalla nozione di capo di sentenza: le relative
soluzioni accolte per definire la nozione di capo di sentenza condizionano, pertanto, anche
l’ampiezza dell’effetto devolutivo. Nel processo amministrativo, l’effetto devolutivo
dell’appello avrebbe una portata molto limitata: consentirebbe al giudice di secondo grado di
conoscere d’ufficio i meri argomenti, di diritto e di fatto, esposti dalle parti in ordine alle
questioni esaminate e decise, di valutare gli elementi di prova inerenti a tali questioni
acquisiti nel giudizio di primo grado e così via. Prima del codice, la giurisprudenza
ammetteva un limitato effetto devolutivo rispetto alle “questioni assorbite”; oggi, il codice
dispone che l’appellante ha l’onere di riproporre nel suo appello anche le questioni assorbite
e comunque non esaminate nella sentenza, precisando che altrimenti devono intendersi
“rinunciate”. /
- La disciplina dei “nova” (e dei motivi aggiunti): Uno dei profili qualificanti, per
valutare in generale il modello di un appello, è rappresentato dalla disciplina dei “nova”, in
particolare dalla possibilità, per la parte, di porre rimedio alle manchevolezze delle sue difese
nel precedente grado di giudizio, proponendo censure, eccezioni o mezzi di prova, che, pur
potendo, non aveva proposto in primo grado. Il codice conferma che con l’appello al
Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione di nuovi motivi di ricorso contro il
provvedimento impugnato in primo grado, né di altre domande nuove. La ragione di questa
esclusione è rappresentata, oltre che dall’adozione di un certo modello di appello, comune
all’appello civile, dalla incidenza delle logiche specifiche dell’azione di annullamento, che
comportano la vigenza di un termine generale di decadenza per l’impugnazione del
provvedimento amministrativo. Si comprende perché siano ammessi, invece, anche in grado
di appello, i c.d. motivi aggiunti: la possibilità di proporli in appello, pur costituendo una
deroga al principio del doppio grado, si giustifica per il fatto che essi concernono vizi che
emergono da documenti conosciuti per la prima volta in quel grado di giudizio, e la loro
previsione costituisce quindi un corollario della garanzia del diritto d’azione; i motivi aggiunti
non costituiscono, pertanto, un rimedio a carenze e manchevolezze della difesa nel
precedente grado di giudizio (come, invece, abbiam visto, erano i “nova”), ma si configurano
come strumento integrativo della domanda, in seguito alla acquisizione al processo di fatti
nuovi, prima non noti al ricorrente; di conseguenza, concludendo nozionisticamente, la
possibilità di proporre in appello motivi aggiunti rispecchia logiche ben diverse da quelle
tipiche degli altri “nova” in appello. /
- Altro da riferire circa l’appello e conclusioni: nell’appello al Consiglio di Stato possono
essere richiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza di primo grado , nonché
il risarcimento dei danni subiti dopo tale sentenza e, a maggior ragione, la restituzione di
quanto corrisposto in base alla sentenza di primo grado. Si deve invece escludere la
possibilità che sia richiesto, per la prima volta in grado d’appello, il risarcimento dei danni
provocati dal provvedimento amministrativo impugnato avanti al Tar o da altra circostanza.
Per quanto riguarda invece le eccezioni nuove, il codice, confermando la giurisprudenza
amministrativa più recente, ammette in grado d’appello solo quelle rilevabili d’ufficio. Infine
il codice ha esteso al processo amministrativo il divieto, per le parti, di dedurre nuovi mezzi
di prova e di produrre nuovi documenti. In conclusione, nel codice, la possibilità di introdurre
“nova” nel giudizio d’appello risulta assolutamente limitata. L’appello al Consiglio di Stato si
configura oggi più come un rimedio agli errori del giudice di primo grado, che come mezzo
per ottenere un nuovo esame della controversia da parte del giudice di grado superiore./
5. (segue): lo svolgimento del giudizio e la decisione:
- - Svolgimento concreto e pratico del giudizio d’appello: lo svolgimento del giudizio
d’appello avanti al Consiglio di Stato è regolato dalle disposizioni sul giudizio di primo grado,
che sono espressamente richiamate anche per i giudizi d’impugnazione. In estrema sintesi,
possiamo dire che l’appello contro una sentenza del Tar va proposto con ricorso al Consiglio
di Stato in sede giurisdizionale. La notifica dell’appello deve essere richiesta, di regola, entro
60 giorni dalla notifica della sentenza, o entro 6 mesi dalla data di pubblicazione della
sentenza, se non sia stata notificata; l’appello deve essere notificato alle parti del giudizio di
primo grado; se l’atto non è notificato a tutte le parti, l’appello non è inammissibile, ma il
Consiglio di Stato ordina l’integrazione del contraddittorio. Il ricorso deve essere depositato
presso la segreteria del Consiglio di Stato; col deposito si determina la costituzione in
giudizio dell’appellante e la pendenza del giudizio. Dopo il deposito, l’appello viene
assegnato d’ufficio a una sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato. L’appello non
comporta, di per sé, la sospensione dell’esecutività della sentenza: la sospensione può
essere disposta dal Consiglio di Stato, in seguito ad istanza dell’appellante contenuta
nell’appello. Gli appellati possono costituirsi in giudizio, depositando una memoria di
costituzione, entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’appello. Nel giudizio d’appello, in
coerenza con la disciplina generale dettata dal codice per le impugnazioni, è ammesso,
inoltre, l’intervento di quanti avrebbero potuto intervenire ad adiuvandum o ad opponendum
nel giudizio di primo grado. /- - Deferimento di questione all’Adunanza Plenaria: per quanto
riguarda l’assetto dell’appello nel processo amministrativo, invece, assume rilievo l’art. 99
c.p.a., inserito fra le disposizioni generali sulle impugnazioni.  L’art. 99 disciplina il
deferimento di questioni all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato; l’Adunanza Plenaria si
pronuncia su giudizi che le sono demandati o dalla sezione del consiglio di stato
oppure al Presidente del consiglio di stato; la rimessione, nel primo caso, è determinata
dalla circostanza che in discussione sia un punto di diritto che abbia dato luogo o che possa
dar luogo a contrasti giurisprudenziali; in seguito alla rimessione, l’Adunanza Plenaria si
pronuncia sul punto di diritto segnalato nell’ordinanza di rimessione; inoltre, può provvedere
sull’intera controversia, oppure limitarsi ad enunciare il “principio di diritto” rispetto al punto
oggetto di rimessione, e restituire gli atti alla singola selezione per la decisione sulla
controversia; infine se ritiene che la questione è di particolare importanza, l'adunanza
plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge anche
quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l'estinzione del
giudizio. In tali casi, la pronuncia dell'adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento
impugnato /
- - Ultimi riferimenti utili: l’appello, nel processo amministrativo, ha (come stra - riferito)
carattere rinnovatorio: di conseguenza il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, di regola
decide anche sulla controversia; ciò comporta che il giudice d’appello si pronuncia anche
sulla impugnazione del provvedimento amministrativo, nel rispetto dei limiti dell’appello; in
coerenza con il carattere rinnovatorio dell’appello, il Consiglio di Stato non è vincolato dalla
regola enunciata nella sentenza impugnata; inoltre, può acquisire anche nuovi elementi di
prova.
Il carattere rinnovatorio del giudizio d’appello consente di richiamare per le sentenze del
Consiglio di Stato quanto è stato già presentato a proposito della sentenza del TAR, con
alcune precisazioni che riguardano i vizi della sentenza appellata rilevabili d’ufficio dal
giudice d’appello e i casi in cui la sentenza del Consiglio di Stato ha un contenuto solo
demolitorio della sentenza del Tar e non si risolve, quindi, in una decisione sulla controversia
già affrontata dal giudice in primo grado.
L’art. 105 c.p.a. prevede, altresì, a tale riguardo concettuale, alcune ipotesi di decisioni del
Consiglio di Stato di annullamento della sentenza appellata, con rinvio degli atti al giudice di
primo grado. Su questo punto si confrontano tradizionalmente due concezioni: la prima è
favorevole ad estendere le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado, per
realizzare nei termini più ampi il doppio grado di giurisdizione; la seconda è favorevole a
limitare le ipotesi di annullamento con rinvio, perché l’assunzione diretta della decisione da
parte del giudice d’appello assicura meglio le esigenze di economia e di speditezza del
giudizio. Il codice del processo amministrativo, come il codice di procedura civile, aderisce
alla seconda concezione. Di conseguenza l’annullamento con rimessione degli atti al giudice
di primo grado è disposto in ipotesi tassative, derogatorie rispetto al principio generale
confermato nello stesso art. 105, 1° comma, e rappresentato dal carattere rinnovatorio
dell’appello al Consiglio di Stato.
Il codice non considera invece l’ipotesi di annullamento senza rinvio. Il Consiglio di
Stato, se però accerta che il Tar si e’ pronunciato sul merito del ricorso nonostante si sia
trattato di un vizio insanabile dell’atto introduttivo , si limita ad annullare la sentenza di
primo grado senza un rinvio. In questo caso il processo amministrativo si conclude senza la
rimessione degli atti ad altro giudice.

6. LA REVOCAZIONE
L’art. 106 c.p.a. ammette, nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato, il
rimedio della revocazione. Le previsioni del codice sono molto scarne: per quanto riguarda i
casi di revocazione, possiamo dire che non è dettata una disciplina specifica per il processo
amministrativo, ma è fatto rinvio al codice di procedura civile (art. 395 c.p.c.), mentre, per
quanto riguarda lo svolgimento del giudizio, opera il rinvio generale alla disciplina del
giudizio di primo grado (art. 38 c.p.a.). / I casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c.
riguardano:
1. la sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra.
2. la sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la
sentenza o che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate
false prima della sentenza.
3. il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la parte
non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto
dell’avversario. La revocazione presuppone in questo caso che il ritardo nella
scoperta del documento non sia imputabile a colpa della parte e che il documento
non fosse disponibile neppure nel giudizio di appello.
4. la sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti della
causa. Si tratta dell’ipotesi di revocazione più importante o discussa: l’errore di fatto
che consente la revocazione deve essere stato, ovviamente, determinante per la
sentenza, e non deve concernere le valutazioni dei fatti compiute dal giudice, ma
deve consistere in una errata od omessa percezione del contenuto materiale degli
atti o dei documenti prodotti nel giudizio.
5. la sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché non
abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Questa ipotesi di revocazione presuppone
l’identità degli elementi di identificazione dell’azione nei due diversi giudizi: pertanto
è stato escluso che la revocazione per contraddittorietà fra giudicati potesse essere
proposta da chi fosse rimasto estraneo ad uno dei due giudizi.
6. la sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in
giudicato. /

In tutti questi casi surriferiti si configurano vizi che, per la loro particolare gravità, hanno
giustificato la previsione di un rimedio eccezionale ad hoc. Nel processo amministrativo la
presentazione di ricorsi per revocazione si verifica con una certa frequenza, probabilmente
anche perché nei confronti delle sentenze pronunciate in grado d’appello non sono ammesse
altre ipotesi di impugnazione. / - Rapporto concettuale fra appello e revocazione: il c.p.a.
chiarisce il rapporto fra appello e revocazione, che era rimasto indefinito nella legge istitutiva
dei Tar. La revocazione nei confronti delle sentenze dei Tar è ammessa se i motivi non
possono essere dedotti con l’appello; dato che tutti i motivi di revocazione sono
astrattamente deducibili nell’appello, questa disposizione va interpretata nel senso che la
revocazione delle sentenze dei Tar è ammessa solo nei casi e alle condizioni indicati dall’art.
396 c.p.c. Si tratta dei casi di revocazione c.d. straordinaria, corrispondenti alle situazioni
elencate dall’art. 395 c.p.c., purché il fatto che determina la revocazione sia stato scoperto,
o sia stato accertato, solo dopo la scadenza del termine per l’appello. / - Termini
procedurali per la revocazione: il ricorso per revocazione si propone avanti al medesimo
giudice che ha emesso la sentenza. Nei casi di revocazione previsti dall’art. 395 nm. 1, 2, 3,
6, il termine di 60 giorni per il ricorso decorre rispettivamente dal giorno in cui è stato
scoperto il dolo o la falsità o la collusione, o è stato recuperato il documento o addirittura è
passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice. In tutti i casi la
revocazione può essere richiesta anche se la sentenza impugnata sia già passata in
giudicato. Inoltre, è opportuno specificare che, in tutti questi casi, il giudice procede
all’accertamento delle condizioni per la revocazione.

7. L’OPPOSIZIONE DI TERZO
Nel processo amministrativo, il rimedio dell’opposizione di terzo, introdotto da un intervento
della Corte Costituzionale, è stato disciplinato per la prima volta dal codice solo dopo questo
intervento della Corte. La Corte costituzionale aveva introdotto nel processo amministrativo
l’opposizione di terzo c.d. ordinaria, attraverso la quale un terzo può porre in discussione
una sentenza passata in giudicato, o comunque esecutiva, che pregiudichi i suoi diritti e sia
stata pronunciata in un giudizio cui sia rimasto estraneo. Il codice conferma l’istituto e detta
alcune norme, essenzialmente per superare incertezze precedenti; inoltre, introduce
un’opposizione, “revocatoria”, per i creditori o gli aventi causa di una delle parti nei confronti
della sentenza che sia il risultato di collusione o di dolo a loro danno. / - Chi può proporla:
il testo originario dell’art. 108, 1° comma, c.p.a., menzionava, come legittimato a proporre
l’opposizione, soltanto il terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile. La
previsione è stata ritenuta incompleta ed è stata modificata dal d.lgs. n. 195/2011, col
risultato che oggi il codice non menziona più i soggetti legittimati a proporre l’opposizione.
Per la loro identificazione sono utili il riferimento ai criteri precedenti e il confronto con il
processo civile.  L’opposizione, in definitiva, può essere senz’altro proposta dal soggetto
che era contemplato in origine nel codice, ossia dal terzo titolare di una posizione autonoma
e incompatibile; terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile è il soggetto al
quale non sia opponibile la sentenza, e che sia titolare di una posizione giuridica “non
dipendente” da quella delle parti in causa, e non passibile di essere soddisfatta unitamente a
quella della parte vittoriosa (si pensi al terzo che pretenda di aver titolo a un determinato
ufficio pubblico che la sentenza abbia assegnato ad altri, e che possa essere ricoperto da un
soggetto soltanto; questo soggetto può proporre opposizione e far valere anche soltanto
l’ingiustizia della sentenza). Sempre al proposito dei soggetti legittimati a proporre questo
tipo di “ricorso”, dobbiamo sentenziare che questo mezzo di gravame presenta non pochi
problemi tecnico – giuridici e concettuali: in particolare, mentre il codice civile detta regole
certe per risolvere i conflitti fra i terzi che vantino diritti incompatibili su un identico bene,
nel diritto amministrativo regole analoghe non sono previste o non sono di agevole
identificazione; unico criterio pacifico sembra essere la preferenza per le pretese che trovino
fondamento in situazioni di legittimità amministrativa. Inoltre, in addizione a quanto già fin
qui riferito, la giurisprudenza amministrativa aveva sostenuto che la legittimazione a
proporre l’opposizione di terzo dovesse riconoscersi anche a un’altra categoria di soggetti: il
controinteressato pretermesso. Questa soluzione rimane ferma. / - Termini procedurali per
proporla: il codice non contempla disposizioni sui termini per proporre l’opposizione
ordinaria: in mancanza di norme particolari, dovrebbero valere le norme generali, che però
assoggettano le impugnazioni a un termine di decadenza decorrente dalla notifica o dalla
pubblicazione della sentenza; questa soluzione appare inaccettabile, perché il terzo potrebbe
avere notizia della sentenza anche molto tempo dopo il passaggio in giudicato della stessa.
In passato una giurisprudenza aveva applicato il termine di 60 giorni dalla conoscenza della
sentenza, applicando in via analogica il termine per l’azione di annullamento; va osservato
che il codice non ha disposto nulla del genere e che la soluzione accolta dalla giurisprudenza
richiamata non si adatta. / - Rapporto concettuale fra opposizione di terzo ed appello: il
codice ha disciplinato il rapporto fra opposizione di terzo e appello. In base al codice, nei
confronti della sentenza, il terzo può proporre soltanto l’opposizione; essa va diretta al
giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Pertanto ogni confusione con l’appello è
superata. La soluzione accolta nel codice comporta però la possibilità che una sentenza di un
Tar sia oggetto, insieme, di appello al Consiglio di Stato proposto da una delle parti
originarie e di opposizione proposta da un terzo; per evitare la pendenza di due gravami
diversi, il codice assegna la prevalenza al gravame ordinario; pertanto, se sia già stato
proposto appello, il terzo deve introdurre la sua domanda intervenendo nel giudizio
d’appello. / *** Opposizione revocatoria: il codice ha introdotto nel processo amministrativo
anche l’opposizione di terzo revocatoria. Legittimati a proporla sono i creditori e gli aventi
causa di una parte: sono tutelati così i titolari di una posizione dipendente che in quanto tali
non possono proporre un’opposizione di terzo ordinaria. Essi possono proporre opposizione
soltanto nei confronti della sentenza che sia effetto di dolo o collusione a loro danno.

8. IL RICORSO PER CASSAZIONE PER MOTIVI DI GIURISDIZIONE


Nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso alla Corte di
Cassazione per motivi di giurisdizione (art. 111, 8° comma Cost., art. 110 c.p.a.). Il ricorso
alla Corte di Cassazione è ammesso per denunciare la violazione dei limiti esterni della
giurisdizione amministrativa. Il ricorso è possibile sia nel caso che il giudice amministrativo
abbia deciso una questione riservata all’amministrazione, o devoluta al giudice ordinario o ad
un altro giudice speciale, sia nel caso che abbia declinato la propria giurisdizione in ipotesi in
cui invece la questione sarebbe stata di sua competenza. La Cassazione ha proposto
un’interpretazione estensiva della condizione rappresentata dai motivi inerenti alla
giurisdizione, per il ricorso contro le decisioni del consiglio di Stato; negli ultimi anni si è
affermato un indirizzo della Cassazione favorevole ad estendere, ulteriormente, il sindacato
per motivi di giurisdizione sulle sentenze del Consiglio di Stato; la Cassazione ha confermato
un indirizzo analogo anche più di recente, esercitando un sindacato più ampio su pronunce
del Consiglio di Stato alle quali imputava il c.d. “eccesso di potere giurisdizionale”, ossia uno
sconfinamento del giudice amministrativo nell’ambito del merito riservato
all’amministrazione. Nella stessa logica la Cassazione ha ritenuto di poter definire i limiti del
sindacato del giudice amministrativo sulle sanzioni amministrative e questo indirizzo, a tratti
esagerato, ha suscitato un dibattito vivace. Alcune critiche hanno riguardato il tenore delle
pronunce della Cassazione, altre critiche hanno tratto spunto dalla circostanza che il
sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato è definito dalla Costituzione,
all’art. 111 Cost. , che ne identifica l’ambito in via tassativa; a fondamento della norma
costituzionale vi è l’esigenza di assicurare un equilibrio nel ruolo delle due giurisdizioni;
questa esigenza induce anche a privilegiare una lettura “conservatrice” della norma
costituzionale e a ritenere che il punto di equilibrio fra le due giurisdizioni non possa essere
modificato da interpretazioni “pretorie” della Cassazione. /
- Disciplina processuale del mezzo di gravame in esame: la disciplina processuale del ricorso
contro le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione è dettata dal codice di
procedura civile (362 c.p.c.). Il ricorso va proposto nei termini previsti per il ricorso per
cassazione (art. 325 c.p.c.), ossia nel termine di 60 giorni dalla notifica della decisione del
Consiglio di Stato, ovvero di 6 mesi dal deposito della decisione, nel caso che essa non sia
stata notificata. Quando sia impugnata una sentenza del Consiglio di Stato, sulla questione
di giurisdizione si pronunciano, di regola, le sezioni unite della Cassazione. Il c.p.a. ha
introdotto la possibilità di una sospensione dell’esecuzione della sentenza del Consiglio di
Stato, in pendenza del ricorso per cassazione. La sospensione è disposta dallo stesso
Consiglio di Stato, in caso di eccezionale gravità ed urgenza.  

*
ORA SI PROCEDERA’ AD UNA VELOCE RICAPITOLAZIONE SCHEMATICA E SINTETICA DEL
CAPITOLO IN PAROLA, E CIOE’ AD UNA RICAPITOLAZIONE, GENERALISSIMA, SUGLI
IMPORTANTI CONCETTI CONCERNENTI I MEZZI DI GRAVAME:

*La decisione del ricorso e la sentenza: In coerenza con il principio della domanda, il
giudice amministrativo è tenuto a pronunciarsi sulla domanda proposta dalle parti e non
oltre essa. In linea di massima, all’esame della domanda, il collegio procede secondo un
ordine logico, che vede prima lo scrutinio delle questioni pregiudiziali, e, in un secondo
momento, le questioni di merito, perché ovviamente le questioni pregiudiziali potrebbero di
per sé definire il giudizio. L’ordine logico della causa vuole, inoltre, che il primo ad essere
oggetto d’analisi sia il ricorso principale, e, in un secondo momento, quello incidentale,
essendo esso subordinato al primo. Ai fini della decisione, il collegio, per motivi di celerità ed
economia, adotta il cd. assorbimento delle questioni, che avviene laddove le questioni, pur
non essendo collegate tra loro, seguono un preciso ordine logico; a volte i giudici applicano
questo assorbimento anche quando le questioni non presentano quel collegamento logico
richiesto, ed è la mera opportunità a farne ragione: in tal caso si definisce un assorbimento
improprio. /
Ad ogni modo, il giudicato amministrativo è definito da una sentenza. In alcuni casi può
definirsi con un decreto, e ciò accade nei casi di ricorso improcedibile. Il termine “sentenza”
è adoperato per quelle pronunce che definiscono in tutto o in parte il giudizio (art 33,1).
Questa definizione non lascia scampo ad equivoci, per cui le pronunce che non definiscono il
giudizio, ma curano situazioni inter procedimentali, non sono sentenze, ma ordinanze. Tra le
sentenze bisogna distinguere quelle di rito e di merito
Di rito: che sono quelle che dichiarano l’irricevibilità, l’inammissibilità, l’improcedibilità. Sono
quindi quelle sentenze in cui non viene esaminato il merito del ricorso.
Di merito: sono quelle in cui viene analizzato il contenuto della domanda, accogliendola o
dichiarandola infondata.
In caso di accoglimento avremo una sentenza di annullamento, una sentenza che dispone la
sua riforma e sostituzione, sentenze che ordinano di provvedere, sentenze che dispongono
una condanna ad un adempimento pecuniario.
La sentenza va sottoscritta dal presidente del Collegio giudicante, e va depositata: il
deposito vale come pubblicazione della sentenza.

*Le impugnazioni: Il libro III del CPA è dedicato alle impugnazioni delle sentenze. Nei
confronti delle sentenza del GA sono previsti vari mezzi d’impugnazione:
- nei confronti delle sentenze del TAR è previsto l’appello al Consiglio di stato
- nei confronti delle sentenze del CDS è proponibile appello in Cassazione per le questioni di
giurisdizione
- nei confronti delle sentenze del TAR e del CDS sono ammessi revocazione e opposizione di
terzo.

I termini per proporre le impugnazioni sono di due ordini:


- termini brevi: in 60 giorni dalla notifica della sentenza
- termini lunghi: in 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza in caso di mancata
notificazione della stessa

Le impugnazioni si propongono con ricorso, notificato alla controparte, e successivamente


depositato presso la cancelleria del giudice adito entro 30 giorni dall’ultima notifica.
*Appello al Consiglio di Stato: Le sentenze del TAR possono essere impugnate dinanzi al
CDS. Questo appello ha carattere rinnovatorio (sostitutivo) perché di regola la decisione del
CDS si sostituisce a quella del TAR. L’appello però potrebbe avere anche carattere
devolutivo, in quanto il giudice d’appello deve poter conoscere la materia con la stessa
pienezza del giudice di primo grado (si parla perciò di grado di riesame della vertenza). /
Legittimati a proporre l’appello sono le parti necessarie, entro 60 giorni dalla notifica della
sentenza di 1° grado. Legittimato ad appellare è anche l’interventore ad opponendum. La
presentazione dell’appello presuppone che il soggetto appellante abbia l’interesse ad
appellare, in coerenza con i principi sull’azione processuale. Tale interesse va valutato in una
prospettiva processuale: è l’interesse a impugnare una sentenza a lui sfavorevole. Pertanto
si definisce quale interesse del soccombente nel primo grado di giudizio. La ricostruzione del
soggetto soccombente, come tale legittimato ad appellare, non è sempre pacifica (es. un
soggetto che abbia promosso azione di annullamento e che in primo grado abbia ottenuto
l’annullamento del provvedimento impugnato ma solo per alcune delle censure proposte).
Per questi inconvenienti, la giurisprudenza ha concesso l’appello anche alla parte vittoriosa
in 1° grado, a condizione però che tale parte possa ottenere un risultato utile rispetto alla
definizione di primo grado a lui già favorevole. /
L’articolo 101 c.p.a. sancisce che l’appello va proposto con ricorso, contenente:
Ricorrente e il suo difensore
Le controparti
La sentenza di 1° grado
Le censure contro la sentenza di 1° grado
Ad essi poi si aggiunga che per poter impugnare è obbligatorio il patrocinio di un avvocato
abilitato dinanzi alle giurisdizioni superiori. /

[ **Elemento caratterizzante l’appello è il divieto di ius novorum.


Partendo dal presupposto che la funzione dell’appello è riesaminare la stessa controversia
già decisa, la parte appellante non può porre rimedio alle manchevolezze delle sue difese del
primo grado di giudizio, proponendo censure, eccezioni, o mezzi di prova nuovi. L’oggetto
del contendere deve essere quello originario. Ad esso fa eccezione però la disciplina degli
eventuali motivi aggiunti, che ne giustifica l’eventuale introduzione in appello, ma solo per il
fatto che essi concernono vizi che emergono da documento conosciuti per la prima volta,
non conoscibili prima, nel precedente grado di giudizio.] /

Lo svolgimento del giudizio d’appello è regolato in modo omologo al giudizio dinanzi al TAR
in primo grado. L’appello va proposto con ricorso da notificarsi entro 60 giorni dalla notifica
della sentenza, o 6 mesi dalla sua pubblicazione (in caso di mancata notificazione). L’appello
va notificato alle parti in causa, e a quelle con interesse a contraddire. Quando l’atto non è
notificato a tutte le parti, ma almeno ad una, il CDS ne ordina il contraddittorio.
L’appello non comporta la sospensione dell’esecutività della sentenza. Tale sospensione può
essere disposta dal CDS in seguito ad un’istanza dell’appellante.
Gli appellanti, che vogliono costituirsi in giudizio, possono farlo depositando un controricorso
entro 60 giorni dalla notifica dell’appello. Nello stesso termine di 60 giorni si può proporre
appello incidentale, cioè l’appello della parte che vittoriosa in primo grado, che decide di
appellare perché soccombente in alcuni punti della sentenza.
Le decisioni del CDS possono essere:
Accoglimento con rinvio: se in appello si è accolto il ricorso per un vizio di forma o per un
difetto di procedura. In questo caso il processo verrà ricelebrato dinanzi al giudice
competente di 1°grado.
Accoglimento senza rinvio: quando si tratti di difetto di giurisdizione o di competenza o
l’esistenza di cause impeditive del giudicato
Rigetto nel merito: quando viene confermata la sentenza del TAR /

In caso di appello al Consiglio di Stato, il CPA prevede che la questione possa essere deferita
alla competenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Ciò avviene quando deve
essere esaminata una questione che ha dato luogo, o può dar luogo, ad un contrasto
giurisprudenziale, oppure quando la questione da risolvere assume una certa importanza.
All’adunanza plenaria è riconosciuta la funzione nomofilattica, omologa a quella riconosciuta
alla Cassazione a sezioni unite.

*La revocazione: L’art 106 cpa ammette contro le sentenze del Tar e del CdS il rimedio
della revocazione. I casi sono tassativamente previsti dalla legge, e la disciplina del cpa si
appoggia a quella del cpc con esplicito rinvio di cui all’art 395 cpc. /
La revocazione si distingue in
Ordinaria : ammessa contro le sentenze non ancora passate in giudicato
Straordinaria : ammessa contro le sentenze passate in giudicato , ammissibile solo nelle
ipotesi previste dall’ art 395 cpc. Esse sono:
Sentenza affetta da dolo di una delle parti a danno dell’altra,
Sentenze pronunciate su prove false,
Ritrovamento di documenti decisori che la parte non aveva potuto esibire per forza
maggiore,
Sentenza affetta da errore di fatto risultante da atti o documenti,
Sentenza contraria ad altre precedentemente passate in giudicato,
Sentenza affetta da dolo del giudice accertato,
Il ricorso per revocazione si propone innanzi al medesimo giudice che ha emanato la
sentenza impugnata. /
La richiesta deve contenere
Richiesta di annullamento della sentenza impugnata,
Richiesta di rinnovazione del giudizio,
Il giudice si pronuncia con un’unica sentenza, contro la quale sono ammesse le impugnazioni
eccetto che per una nuova revocazione.

*Opposizione di terzo: Nel processo amministrativo l’opposizione di terzo è entrata in


virtù della sentenza 177/1995 della Corte Costituzionale. Oggi l’opposizione di terzo è
contemplata all’articolo 108 del c.p.a.
Con la pronuncia della Corte Costituzionale era stata definita la sola opposizione di terzo
ordinaria, attraverso la quale un terzo avrebbe potuto mettere in discussione una sentenza
passata in giudicato o comunque esecutiva che pregiudicasse i sui diritti e che fosse stata
pronunciata in un giudizio in cui egli era rimasto estraneo. Il c.p.a. ha introdotto invece
l’opposizione revocatoria, per i creditori e gli aventi causa delle parti nei confronti della
sentenza che sia il risultato di dolo nei loro confronti. / Il testo originario del cpa
menzionava come legittimati a proporre l’opposizione soltanto il terzo titolare di una
posizione autonoma e incompatibile. Tale previsione fu però ritenuta incompleta e, pertanto,
integrata con la previsione del rinvio al c.p.c. per la identificazione degli stessi legittimati. /
In maniera molto critica, è stato osservato come questa opposizione di terzo possa
compromettere la certezza del giudicato amministrativo, in quanto esperibile anche contro le
sentenza passate in giudicato. È pur vero, però, che essa è l’unica tutela concessa a soggetti
i cui interessi legittimi risultino compromessi da un giudizio che non li ha visti parti in
giudizio. /
Oggi il cpa ha anche posto fine alla confusione che prima c’era tra opposizione di terzo e
appello, visto che in passato era concesso al terzo di proporre appello. Oggi, in base al
codice, nei confronti della sentenza, il terzo può proporre solo opposizione, dinanzi al giudice
che ha pronunciato la sentenza impugnata. Questa soluzione, però, comporta che una
sentenza del Tar possa essere al contempo oggetti di appello (da parte di una parte
legittimata) e di opposizione da parte del terzo. Per evitare ciò, il codice assegna prevalenza
all’appello, tale per cui, ove già fosse proposto appello, il terzo deve introdurre la propria
domanda intervenendo nell’appello.

*Ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione: Nei confronti delle sentenze del
Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per motivi di giurisdizione. Questo è ammesso per
denunciare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, ovvero il ricorso
è possibile sia
nel caso in cui il GA abbia deciso una questione riservata alla PA o devoluta al GO o altro
giudice speciale;
nel caso in cui il GA abbia declinato la propria giurisdizione in una questione che sarebbe
stata di sua competenza.
Il ricorso va proposto entro 60 giorni dalla notifica della decisione del CdS o entro 6 mesi
dalla pubblicazione della sentenza in caso di mancata notificazione, alle SSUU della Corte di
Cassazione.
Il cpa ha introdotto la possibilità di una sospensione dell’esecuzione della sentenza del CdS,
in pendenza del ricorso. La sospensione è disposta dallo stesso CdS in casi eccezionali di
gravità e urgenza.
Ove la Cassazione accolga il ricorso:
cassa la sentenza senza rinvio, quando neghi la giurisdizione;
cassa con rinvio, se afferma la giurisdizione negata dal GA. In caso di rinvio il giudizio
prosegue innanzi al TAR con fissazione dell’udienza.
CAP. XV (TRAVI) - IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E
L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA.
1. Il giudicato amministrativo e 2. L’esecuzione della sentenza
Si ha passaggio in giudicato di una sentenza del giudice amministrativo quando nei suoi
confronti non è ammessa più alcuna impugnazione ordinaria (come, ad esempio, appello al
CdS e ricorso per Cassazione). Nei confronti delle sentenze passate in giudicato, pertanto, è
possibile solo la revocazione e l’opposizione del terzo (come già anticipato ex ante). /
Bisogna distinguere tra: A) Giudicato solo interno: la sentenza comporta un vincolo soltanto
alle ulteriori fasi del giudizio; B) Giudicato anche esterno: la sentenza comporta vincoli anche
rispetto a giudizi diversi che possono istaurarsi tra le stesse parti nei quali assume rilevanza
la questione. Le sentenze di rito hanno tipicamente il solo vincolo interno. Le sentenze di
merito hanno ovviamente, invece, anche vincoli esterni. /
Per ciò che concerne i cd limiti soggettivi del giudicato, una parte della giurisprudenza
amministrativa ritiene che il giudicato amministrativo, di regola, valga solo tra le parti, i loro
successori e gli aventi causa, eccetto se si tratta di annullamento dell’atto con contenuto
“indivisibile”, per esempio un atto normativo, regolamento, per cui gli effetti del giudicato
valgono erga omnes. Contro questa dottrina si oppone, però, quella di chi fa distinzione tra
effetti della sentenza e autorità del giudicato: è vero che la sentenza d’annullamento di un
provvedimento inscindibile coinvolge tutti i soggetti, ma il giudicato “fa stato” in modo
autoritativo solo tra le parti processuali; per cui a quanti non siano stati parte del giudizio
non potrebbe essere opposto il giudicato. /
La sentenza del TAR è immediatamente esecutiva: ciò significa che la PA è tenuta a dare
esecuzione alla sentenza, adottando tutti i comportamenti opportuni per darne esecuzione.
Il dovere di dare esecuzione si scontra, talvolta, con la modifica del quadro normativo che
disciplina la materia oggetto di sentenza, le cd. sopravvenienze. Ragioni d’effettività
porterebbero a sostenere che la PA dovrebbe provvedere “ora per allora”. La giurisprudenza,
invece, invocando il principio del “tempus regit actum”, ritiene che la PA non possa
prescindere dall’applicazione della disciplina sopravvenuta. (es. impugnazione di un diniego
illegittimo di autorizzazione, quando dopo la sentenza muti la disciplina per l’autorizzazione,
con la conseguenza che essa non potrebbe più essere rilasciata).
Se la sentenza non è eseguita spontaneamente è previsto il giudizio d’esecuzione dinanzi al
GA: il giudizio di ottemperanza.

3. IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
Rispetto alle sentenze del giudice civile, l'esecuzione da parte dell'amministrazione comporta
in genere l’adozione di meri atti che concretino i comportamenti materiali necessari per
l'esecuzione della sentenza (il pagamento di una somma di denaro, ad esempio); quindi,
ridicendo, rispetto a sentenze del giudice amministrativo, l'esecuzione richiede spesso
l'adozione di provvedimenti amministrativi, quindi succede, semanticamente e logicamente,
che la sentenza di un GA coinvolge direttamente il potere amministrativo di una PA: a titolo
esemplificativo, la sentenza di annullamento di un provvedimento negativo impone
l'adozione di un nuovo provvedimento; la sentenza di annullamento di un provvedimento
positivo comporta che il nuovo provvedimento da adottare non riproduca certi vizi e così via
dicendo.
Per il caso di inesecuzione della PA, dopo una sentenza del GA che imponeva, per l’appunto,
alla PA di concretare un comportamento, di eseguire qualcosa, è esperibile il ricorso per
l'ottemperanza al giudice amministrativo. Si è già accennato al fatto che tale rimedio,
previsto dalla legge Crispi per il caso di inesecuzione di una sentenza civile, sia stato esteso,
dalla giurisprudenza, all'ipotesi di inesecuzione di una sentenza del giudice amministrativo.
Nel codice del processo amministrativo, il giudizio di ottemperanza è confermato, e
disciplinato più puntualmente, nelle prime disposizioni del libro quarto con alcune novità di
indubbio rilievo.  Il giudizio di ottemperanza non riguarda solo i casi di inesecuzione della
sentenza del giudice amministrativo o delle altre pronunce ad essa assimilate, ma assume
contenuti più variegati, che sono modellati sulle evenienze concrete che possano riguardare
l'esecuzione di una sentenza; in particolare, a tale proposito, è ammesso il ricorso al giudice
dell'ottemperanza anche soltanto per <ottenere chiarimenti> in merito alle modalità
dell'esecuzione (art. 112, 5 co. e 114, 7 co.), giusto per fare un esempio. /
* ottemperanza applicabile sia per sentenze passate in giudicato, sia per sentenze
meramente esecutive: per l'esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, il ricorso
per l'ottemperanza è esperibile indipendentemente dal fatto che siano esse passate in
giudicato o solamente esecutive; inoltre, ai fini dell’esperibilità del ricorso, non rileva che,
rispetto a queste sentenze, inadempiente sia l'amministrazione o una parte privata. Il codice
(come appena detto) equipara la sentenza esecutiva alla sentenza passata in giudicato, ai
fini dell'ammissibilità del giudizio di ottemperanza, e precisa anche che il giudice
dell'ottemperanza, se la sentenza non sia passata in giudicato, <determina le modalità di
esecuzione>. /
* ottemperanza esegue i suoi effetti anche per interessi pecuniari, maturati nel tempo, a
causa della sentenza ineseguita: il giudizio di ottemperanza verte, essenzialmente,
sull'esecuzione di una pronuncia giurisdizionale, come riferito più volte. Il codice ha
introdotto, però, alcuni contenuti ulteriori ed, in particolare, col ricorso per l'ottemperanza
possono essere richiesti anche gli interessi maturati successivamente alla sentenza rimasta
ineseguita(il codice attribuisce al giudice dell'ottemperanza, quindi, anche il potere di
imporre alla parte inadempiente il versamento, al ricorrente, di somme di denaro che
maturano periodicamente in seguito al ritardo dell'adempimento. Tali misure di esecuzione
indiretta sono disposte dal giudice, su richiesta del ricorrente, sulla base di una valutazione
puntuale dei caratteri della situazione). /
* giudizio di ottemperanza = giurisdizione estesa al merito (il GA, nell’ottemperanza,
esercita una giurisdizione estesa al merito): l'articolo 134, 1 co., c.p.a., conferma, cosa
importantissima, che il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una
giurisdizione estesa al merito; la previsione della giurisdizione di merito comporta che il
giudice amministrativo possa sostituirsi, direttamente o attraverso un commissario da esso
eventualmente nominato (ad acta, come vedremo a breve), all'amministrazione
inadempiente. La possibilità di sostituzione identifica anche il “perimetro dei poteri” del
giudice dell'ottemperanza, e comporta che, nel giudizio di ottemperanza, non può porsi al
giudice alcuna riserva di potere dell'amministrazione. /
- Altri poteri del GA all’ottemperanza: (1) prima del codice del processo amministrativo, al
giudice dell'ottemperanza era riconosciuta la capacità di adottare anche misure ordinatorie
nei confronti dell'amministrazione, dirette all'esecuzione, come la fissazione di termini per
provvedere, la precisazione di modalità esecutive e così via dicendo; questa possibilità è,
oggi, contemplata espressamente anche dal codice (art. 114, 4 co., lett. a) e quindi
cristallizzata sul piano del diritto positivo. (2) Il codice riconosce espressamente al giudice
dell'ottemperanza anche il potere di dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione o in
elusione del giudicato.  La nullità è sancita sia per gli atti adottati in violazione della
sentenza, sia per gli atti "in elusione" della sentenza. / - Altro da dire sul giudizio di
ottemperanza: (1) l’inottemperanza non si esprime, però, solo attraverso comportamenti del
tutto omissivi (es. la PA non concreta una stretta e netta ordinanza del GA, non la esegue),
ma può configurarsi anche nell'adozione di atti diretti in realtà a rinviare, o ad eludere
l'esecuzione del giudicato (es. la PA, furbamente, rinvia continuamente una esecuzione
ordinata dal GA, in seguito ad una sentenza). (2) In tutte le vertenze che comportino una
condanna pecuniaria, se le parti non si oppongono, il giudice amministrativo può limitarsi a
fissare, nella sentenza, criteri per la liquidazione dell'importo dovuto, demandando alla parte
debitrice di proporre, sulla base di tali criteri, un'offerta alla parte vittoriosa. Se l'offerta non
viene accolta, o se una volta accolta non viene eseguita, la determinazione dell'importo può
essere richiesta dalla parte interessata al giudice, con il ricorso per l'ottemperanza. (3) In
deroga al principio che impone al giudice di pronunciarsi su tutte le domande, al ricorrente
che ha richiesto una condanna al pagamento di un somma di denaro, il giudice, nel processo
di cognizione, si limita a pronunciare una sentenza circoscritta alla fissazione di "criteri". Il
rinvio a giudizio di ottemperanza, che sottende l'intervento del commissario "ad acta",
rischia di indebolire le garanzie processuali, che sono rappresentate anche dal fatto che sia
un giudice a dover istituire la vertenza e a provvedere sulla domanda. Queste obiezioni sono
in parte superare dal codice. Infatti il codice ha riconosciuto espressamente a ciascuna delle
parti il potere di richiedere al giudice di provvedere direttamente alla liquidazione
dell'importo dovuto./
- 4. Il commissario “ad acta”: il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita
la giurisdizione estesa al merito e, pertanto, può sostituirsi all'amministrazione che non abbia
dato esecuzione alla sentenza. L’intervento sostitutivo del giudice può avvenire in forma
diretta o in forma indiretta, attraverso la nomina del c.d. commissario “ad acta” che si
sostituisce, a sua volta, all'amministrazione. Il giudice dell'ottemperanza non è esautorato
dalla questione: esercita poteri di vigilanza, anche d'ufficio, sull'operato del commissario, e
al giudice vanno rivolte eventuali contestazioni circa tale operato. Molto opportunamente
alcuni giudici amministrativi, quando il commissario comunica di aver completato la sua
attività, fissano comunque un’udienza per verificare, con l'intervento del ricorrente, che la
sentenza sia stata correttamente eseguita.
Secondo alcuni, il commissario "ad acta" sarebbe dovuto essere considerato come un organo
straordinario dell'amministrazione: la sua nomina avrebbe comportato la sua sostituzione
agli organi amministrativi, come organo straordinario competente solo per l'esecuzione di
quella sentenza; tuttavia, proprio perché organo straordinario dell'amministrazione, il
commissario sarebbe dovuto essere considerato come un'autorità amministrativa, con la
conseguenza, fra l'altro, che i suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, sarebbero
dovuti essere impugnati davanti al giudice amministrativo, secondo le regole generali
previste per l'azione di annullamento. Nella giurisprudenza precedente al codice, sembrava
prevalere la tesi che il commissario operasse come ausiliare del giudice, in un ruolo non
molto diverso da quello del consulente o dall'esperto nel processo civile; i suoi atti non
potevano essere atti giurisdizionali (perché il commissario non è un organo giurisdizionale),
ma dovevano comunque essere inquadrati nelle vicende del giudice di esecuzione; di
conseguenza, nei confronti di tali atti, la tutela si sarebbe dovuta attuare nell'ambito dello
stesso giudizio di esecuzione, ed eventuali contestazioni si sarebbero dovute indirizzare al
giudice dell'ottemperanza. Il codice del processo amministrativo ha preso posizione su alcuni
punti concreti, che sono significativi però anche su un piano più generale, ed infatti: - ha
considerato che il commissario "ad acta" è un ausiliare del giudice, tanto è vero che lo
colloca schematicamente nel capo del primo libro dedicato agli ausiliari del giudice (art. 31);
- ha assegnato al giudice dell'ottemperanza la competenza a pronunciarsi su tutte le
questioni insorte fra le parti concernenti <l'esatta ottemperanza> della sentenza, precisando
espressamente che fra esse sono comprese <quelle inerenti agli atti del commissario>,
definendo la relativa procedura. /
- 5. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza: il ricorso per l'ottemperanza va proposto
nelle forme ordinarie, e perciò va notificato all'amministrazione e a tutte le altre parti del
giudizio di merito. Col ricorso per l'ottemperanza, il ricorrente deve depositare una copia
autentica della sentenza di cui chiede l'esecuzione, con l'eventuale prova del passaggio in
giudicato. Il ricorso non è soggetto a termini di decadenza, anche in coerenza con la
circostanza che non ha carattere impugnatorio. Può essere proposto fino a quando non sia
prescritto il diritto all'esecuzione della sentenza: tale diritto, conformemente ai principi
civilistici, è assoggettato alla prescrizione ordinaria di 10 anni, decorrenti dalla data del
passaggio in giudicato della sentenza.
Competente, se si tratta dell’esecuzione di una sentenza amministrativa, è il giudice che ha
pronunciato la sentenza: pertanto il Consiglio di Stato può essere competente anche in unico
grado; tuttavia, se la sentenza del Tar è stata confermata in appello, la competenza spetta
ugualmente al Tar; invece, se si tratta dell'esecuzione della sentenza di un giudice ordinario
o di un altro giudice speciale, diverso dal giudice amministrativo, la competenza spetta
sempre al Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza da
eseguire.
Il processo si svolge secondo le regole generali stabilite per il giudizio di cognizione, con la
peculiarità prevista per il rito camerale, qualora ci fosse. Anche le eventuali richieste delle
parti per ottenere chiarimenti del giudice amministrativo in merito alle modalità di
esecuzione della sentenza vanno proposte secondo la disciplina appena richiamata. Nei
confronti delle decisioni assunte dal Tar in sede di ottemperanza, sono ammessi l'appello al
Consiglio di Stato e gli altri gravami previsti dall'articolo 91 c.p.a. La decisione del Consiglio
di Stato, assunta in sede di ottemperanza, come ogni altra decisione del Consiglio di Stato, è
impugnabile davanti alla Corte di Cassazione, per violazione dei limiti esterni della
giurisdizione amministrativa./

*
Si procederà, ora, ad una più schematica e veloce ricapitolazione concettuale dell’importante
argomento concernente il giudizio d’ottemperanza:

Rispetto alle sentenze del giudice amministrativo, l’esecuzione (cioè l‘ attuazione di una
norma, in questo caso: di una sentenza) richiede l’adozione di provvedimenti: la sentenza di
annullamento di un provvedimento negativo impone l’adozione di un provvedimento nuovo,
ad esempio.
L’esecuzione della sentenza coinvolge la funzione amministrativa (svolgimento dinamico del
potere).
Nel caso di inesecuzione è esperibile il ricorso per ottemperanza al G.A., che trova disciplina
nel c.p.a. all’articolo 112.

l’articolo 112 prevede che tale giudizio possa essere esperito sia
Per i casi di inesecuzione della sentenza del Per ottenere chiarimenti sulle modalità di
G.A ottemperanza. In questo caso, il ricorso, non
presuppone un’inottemperanza, ma
presuppone incertezze sugli effetti della
sentenza da eseguire, sugli adempimenti
necessari per l’esecuzione. Per tal ragione il
ricorso può essere esperito anche dalla PA , il
soggetto che deve ottemperare.

Inoltre l’art 112 prevede una serie articolata di casi nei quali può essere ammesso il ricorso.

In merito alla esecuzione delle sentenze del Il ricorso per l’ottemperanza è esperibile
G.A., il ricorso è esperibile anche per l’esecuzione delle sentenze
indipendentemente che siano passate in passate in giudicato del giudice ordinario e
giudicato o siano solamente esecutive, e non dei giudici speciali avanti ai quali non sia
rileva se inadempiente sia l’amministrazione previsto un giudizio di ottemperanza. In tal
o una parte privata. caso, però, il codice precisa che parte
resistente possa essere solo la PA (“per
ottenere l’adempimento dell’obbligo della PA
a conformarsi”)

Alla luce di quanto letto, il giudizio di ottemperanza verte essenzialmente


sull’esecuzione di una pronuncia giurisdizionale; il legislatore ha previsto, altresì, la
possibilità per la parte ricorrente di richiedere il risarcimento degli interessi maturati
successivamente alla sentenza rimasta ineseguita.
L’art 134 c.p.a. conferma che nel giudizio di ottemperanza il GA esercita una
giurisdizione estesa al merito, e quindi che possa sostituirsi direttamente, o
attraverso un commissario, all’amministrazione inadempiente (il GA,
praticamente, si SOTITUISCE TOUT COURT ALLA PA INADEMPIENTE).
Il giudice della ottemperanza può anche annullare gli atti adottati in violazione o elusione del
giudicato, senza doversi avviare nuovo giudizio di cognizione, tale giudizio può maturarsi
direttamente in seno al giudice per l’ottemperanza. /
Ricordando che si tratta di giurisdizione estesa al merito , il GA può sostituirsi
all’amministrazione inadempiente, direttamente o indirettamente attraverso la nomina di un
commissario ad acta, che si sostituisce a sua volta all’amministrazione  Secondo alcuni, il
commissario è organo straordinario dell’amministrazione e, come tale, i suoi atti sarebbero
atti di pura autorità amministrativa, impugnabili davanti al giudice amministrativo (“questa
soluzione appagava in quanti volessero preservare la cupola di cristallo della PA” – cit. Guido
Clemente di San Luca). Altra parte della giurisprudenza sembrava, invece, propendere per
l’identificazione dello stesso commissario quale ausiliare del giudice, i cui atti quindi erano
giurisdizionali. Il codice, in realtà, disciplina in alcuni tratti una necessaria
GIURISDIZIONALITA’ DEL COMMISSARIO AD ACTA, dal momento che se ne prevede un
controllo di vigilanza del giudice dell’ottemperanza, e la sua figura è inserita nel libro
dedicato agli ausiliari del giudice. /

L’art 114 disciplina il procedimento in ottemperanza: A) il ricorso si propone con ricorso


notificato alla PA e a tutte le parti del giudizio definito dalla sentenza; B) il termine di
prescrizione di tale azione è legato al regime di prescrizione della sentenza, quindi in 10
anni.
Competente è il giudice che abbia pronunciato la sentenza: pertanto sarà il consiglio di stato
(in unico grado) o il Tar, al quale spetta anche la competenza per l’inottemperanza a
sentenze del giudice ordinario o di altro giudice diverso da quello amministrativo.

Capitolo XIV (TRAVI) - I RITI SPECIALI


1. I riti speciali nel processo amministrativo
Per quasi un secolo, fino alla legge istitutiva dei Tar, lo svolgimento del processo
amministrativo fu assoggettato a una disciplina uniforme. La circostanza che il ricorrente
agisse in giudizio per interessi di particolare importanza, o il fatto che il giudicato potesse
incidere su atti di particolare consistenza dal punto di vista sociale o economico, risultava
tendenzialmente irrilevante. La legge istitutiva dei Tar introdusse un primo rito speciale,
stabilendo che le controversie per le operazioni elettorali fossero assoggettate alla
particolare disciplina stabilita precedentemente per i giudizi avanti alle Sezioni per il
contenzioso elettorale. Soprattutto a partire dagli anni ‘90 del Novecento, questo assetto
subì modifiche sostanziali; l’assegnazione al giudice amministrativo di compiti nuovi e
l’affinamento delle modalità di tutela favorirono l’introduzione di una serie di discipline
speciali, che si discostarono in diversi modi dalla disciplina processuale ordinaria. / Le
ragioni che determinarono la previsione di riti speciali furono varie: in alcuni casi, la
specialità della disciplina processuale rifletteva il particolare rilievo riconosciuto ad alcune
procedure amministrative; in altri casi, rispecchiava la peculiarità di certe situazioni
sostanziali, rispetto alle quali si avvertiva l’esigenza di una disciplina tipica anche del
processo: così è stato per la tutela in materia d’accesso, funzionale al diritto del cittadino di
conoscere un documento che lo riguardasse, ed è stato per la tutela nei confronti del
silenzio, vicenda caratterizzata dalla inosservanza da parte dell’amministrazione del proprio
dovere primario di provvedere, dove, in questi giudizi, sembrava che anche il valore
riconosciuto alla pretesa del ricorrente (ed il tenore della controversia) giustificassero uno
svolgimento più rapido del processo; in altri casi ancora, l’introduzione di una disciplina
speciale trovava ragione essenzialmente nell’esigenza di accelerare la decisione, per la
particolare importanza di ordine economico, e per evitare che la pendenza del giudizio
potesse compromettere interessi importanti, anche solo di ordine finanziario,
dell’amministrazione o della collettività. / Il codice ha dedicato ai riti speciali il libro quarto,
oltre ad alcune disposizioni sparse nei libri precedenti; nel libro quarto è inserita anche la
disciplina del giudizio di ottemperanza; v’è da specificare, inoltre, che le disposizioni sui riti
speciali hanno carattere derogatorio rispetto alla disciplina generale del processo
amministrativo.

2. IL GIUDIZIO IN MATERIA DI ACCESSO


L’art. 116 del codice prevede una disciplina speciale per il giudizio a tutela del diritto
d’accesso ai documenti amministrativi. La legge 7 Agosto 1990, n. 241, ha riconosciuto, nel
nostro ordinamento, il diritto all’accesso ai documenti amministrativi, assegnandogli un
rilievo particolare anche quale strumento per affermare un nuovo modello di attività
amministrativa e di rapporti fra l’amministrazione e i cittadini; il diritto è stato riconosciuto ai
cittadini che siano titolari di un interesse qualificato, per la cui realizzazione, o tutela, sia
utile la conoscenza di un documento amministrativo. A garanzia di tale diritto è stata
prevista un’azione speciale, devoluta al giudice amministrativo. Tra il 2000 e il 2005 veniva
inoltre introdotta una forma di tutela alternativa a quella giurisdizionale, per evitare un
aggravio eccessivo di ricorsi in capo ai Tar: Il cittadino, in base alla riforma del 2005, può
presentare un’istanza amministrativa indirizzata alla Commissione per l’accesso, o al
difensore civico, e diretta ad ottenere il riesame della richiesta di accesso non accolta
dall’amministrazione. La disciplina del processo in materia di accesso è caratterizzata da vari
elementi di semplificazione: si segue il rito camerale, il ricorrente può stare in giudizio
personalmente, senza l’assistenza di un avvocato, e anche l’amministrazione può farsi
rappresentare e assistere in giudizio da un proprio dipendente, anziché da un legale. E’
chiaro l’obiettivo di rendere più agevole la tutela giurisdizionale, in coerenza con le ragioni di
fondo che avevano portato a riconoscere il diritto d’accesso nella legge. / Il ricorso al Tar
deve essere proposto entro 30 giorni dalla comunicazione del rifiuto all’accesso, ovvero dalla
formazione del silenzio dell’amministrazione; entro il suddetto termine di trenta giorni, il
ricorso deve essere notificato all’amministrazione ed ad almeno uno dei controinteressati.
Dato che il giudizio si svolge secondo il rito camerale, il ricorso deve essere depositato
presso il Tar competente nei 15 giorni successivi all’ultima notifica. Il Tar decide, dopo tutta
questa serie di adempimenti procedurali, in camera di consiglio, pronunciandosi sempre con
una sentenza “in forma semplificata”; se accoglie il ricorso, il Tar ordina all’amministrazione
l’esibizione dei documenti richiesti; il Tar, pertanto, si pronuncia sulla fondatezza della
pretesa del ricorrente all’accesso al documento; il rigetto dell’istanza di accesso, o il silenzio
mantenuto dall’amministrazione sull’istanza stessa, non identificano l’oggetto del giudizio,
ma costituiscono piuttosto un presupposto processuale, ed il giudizio verte sulla pretesa del
ricorrente all’accesso. Di conseguenza, la sentenza di accoglimento in questo caso non lascia
spazio a nuove valutazioni dell’amministrazione circa l’accesso del ricorrente a quel
documento, e, dopo la sentenza, l’amministrazione non riesercita il potere e non può
rinnovare il procedimento. Il giudizio d’appello si svolge con le modalità appena descritte per
il giudizio di primo grado, fermo restando il dimezzamento dei termini processuali, previsto
per i giudizi soggetti al rito camerale. Questa disciplina riguarda l’acquisizione di documenti
solo connessi alla vertenza in corso fra le parti: si tratta pertanto di documenti utili al
ricorrente per conoscere atti non noti e consentirgli così di proporre eventualmente una
nuova impugnazione.

3. IL GIUDIZIO NEI CONFRONTI DEL SILENZIO


L’art. 117 del codice disciplina il giudizio nei confronti del silenzio dell’amministrazione. Si e’
già visto, come nel caso di accoglimento del ricorso, il giudice ordini all’amministrazione di
provvedere. Inoltre, se sia stata accertata la fondatezza della pretesa del ricorrente a un
provvedimento favorevole, il giudice, su domanda del ricorrente, può ordinare
all’amministrazione di provvedere in un modo determinato, e cioè può anche imporre
all’amministrazione di provvedere comunque in quella certa situazione, ma senza nulla
disporre sull’esito finale del procedimento amministrativo. Se vi e’ stata una domanda
specifica del ricorrente e se ne sussistono le condizioni, e’ ammessa però anche una
sentenza più incisiva, che definisce le modalità concrete secondo cui l’amministrazione deve
rinnovare il procedimento ed inoltre stabilisce quale debba esserne l’esito. In questo caso, il
giudizio verte non tanto sul silenzio come tale, quanto sulla pretesa del cittadino ad
ottenerne un provvedimento favorevole. La possibilità di una sentenza del genere comporta
una conseguenza importante anche per lo svolgimento del giudizio. La sentenza che ordini
all’amministrazione di provvedere in un certo modo, può incidere anche sulla situazione
giuridica di soggetti terzi. In questi casi si possono configurare soggetti controinteressati
rispetto al ricorso sul silenzio, anche se il giudizio per definizione, non verte in alcun modo
su un provvedimento che attribuisca benefici a terzi. Per l’azione di annullamento, come si e’
già visto, il ricorso deve essere notificato anche ai controinteressati, che vanno identificati
sulla base degli effetti prodotti dall’atto impugnato. Anche nel giudizio sul silenzio deve
essere notificato, a pena di inammissibilità, entro il termine annuale di decadenza, oltre che
all’amministrazione rimasta inerte, anche ed almeno uno degli eventuali controinteressati
(art. 117, 1° comma, c.p.a.). Anche il giudizio sul silenzio si svolge secondo le forme del rito
camerale ed il giudice si pronuncia sempre con sentenza in forma semplificata. La
specialità si riflette anche sullo svolgimento del processo, per evitare che la sua durata
possa andare a maggior danno di chi già lamenta un comportamento inerte
dell’amministrazione. Se accoglie il ricorso, il giudice ordina all’amministrazione di
provvedere entro un termine congruo, di regola non superiore a 30 giorni, con la possibilità
di nominare già nella sentenza un commissario che si sostituisca all’amministrazione se
essa continui a rimanere inerte; in alternativa il commissario e’ nominato dal giudice in un
secondo tempo, su richiesta della parte che lamenti che l’amministrazione abbia continuato
a restare inerte. La sentenza di merito e’ perciò orientata particolarmente all’esecuzione. Il
codice assegna al giudice che ha accolto il ricorso ed ha ordinato all’amministrazione di
provvedere, anche la competenza ad affrontare tutte le questioni relative all’adozione del
provvedimento prescritto, ivi comprese quelle concernenti gli atti adottati dal commissario.
La specialità della procedura conferma la peculiarità dell’intervento del commissario nel caso
del silenzio: non si applicano le norme sullo svolgimento del giudizio di ottemperanza e la
giurisprudenza precedente al codice sottolineava che la nomina del commissario non
interveniva in un giudizio di esecuzione, ma interveniva nella seconda fase di un giudizio
unitario sul silenzio. La peculiarità invece trova conferma nel fatto che la nomina del
commissario non e’ in alternativa ad un intervento diretto del giudice: nel caso del silenzio il
giudice non può sostituirsi all’amministrazione, ma deve sempre procedere alla nomina del
commissario. Il rito speciale sul silenzio fu introdotto, per la prima volta, dalla legge n.
205/2000. Nella vigenza di tale legge rimase controversa la disciplina della connessione
del ricorso sul silenzio con altre azioni. In particolare si verifica tuttora con frequenza che
l’amministrazione resistente, dopo la presentazione del ricorso sul silenzio, comunichi un
provvedimento formale di rigetto dell’istanza del cittadino, magari anche soltanto per
prevenire una sentenza sfavorevole del giudice amministrativo. In passato, in questi casi era
la giurisprudenza prevalente a sostenere che il giudizio sul silenzio si estinguesse, perché la
sua ragione era venuta meno per effetto del provvedimento sopravvenuto, e che nello
stesso tempo, proprio per il carattere speciale del rito sul silenzio, il cittadino non potesse
innestare in quel giudizio l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto, ma dovesse
promuovere un giudizio nuovo. Il codice, ha ammesso che in questi stessi casi, il ricorrente
possa scegliere se impugnare l’atto sopravvenuto con un ricorso autonomo, o se
impugnarlo, con motivi aggiunti nel medesimo giudizio già in corso sul silenzio: se il
ricorrente si orienta nel secondo modo, l’intero giudizio prosegue con il rito ordinario.
Inoltre, se il silenzio comporti per il cittadino anche un danno patrimoniale, il codice
ammette che la domanda risarcitoria possa essere proposta nello stesso ricorso sul
silenzio. In questo caso, in base al principio di prevalenza del rito ordinario, il giudice può
pronunciarsi secondo le regole del rito ordinario sia sulla domanda concernente il silenzio
che su quella concernente il risarcimento dei danni. In alternativa, e’ consentito al giudice di
decidere le due domande in modo distinto, seguendo i rispettivi riti, e perciò scindendo il
giudizio. Questa seconda possibilità, prevista dall’art. 117 6° comma, c.p.a., appare utile sul
piano pratico soprattutto nell’ipotesi che la vertenza sul silenzio risulti di più celere
definizione. Un ulteriore appunto da dover e poter fare, e’ un indennizzo da ritardo nella
conclusione del procedimento, dando la possibilità che col ricorso nei confronti del
silenzio dell’amministrazione può proporsi anche la domanda per tale indennizzo. In questo
caso, però, entrambe le domande sono trattate con il rito camerale e la decisione e’ assunta
comunque con sentenza in forma semplificata.

4. Il decreto ingiuntivo
Il codice di procedura civile, all’art. 633 ss., disciplina il procedimento d’ingiunzione. Il
decreto ingiuntivo è il provvedimento attraverso il quale il giudice competente, su richiesta
del titolare di un credito certo, liquido ed esigibile, fondato su prova scritta, ingiunge al
debitore di adempiere l'obbligazione (pagare una determinata somma o consegnare una
determinata quantità di cose, ecc.), entro il termine di quaranta giorni dalla notifica,
avvertendolo che entro lo stesso termine potrà proporre opposizione e che, in mancanza, si
procederà ad esecuzione forzata. Chi è creditore di una somma liquida di denaro, o di una
determinata quantità di cose fungibili, può avvalersi di questo provvedimento monitorio. Il
codice all’art. 118 ha confermato l’istituto del decreto ingiuntivo, ammettendolo nel processo
amministrativo nei casi previsti dall’art. 633 ss. c.p.c.

5. IL RITO ABBREVIATO
L’art. 119 del codice disciplina una serie cospicua di ricorsi che investono atti di particolare
importanza amministrativa, o economica e sociale; in questi casi, il legislatore ha voluto
prevenire il pericolo che l’attività amministrativa possa essere rallentata o sospesa a lungo
per la pendenza del giudizio, in attesa di una decisione del giudice, con danni gravi sia per
gli interessi patrimoniali dell’amministrazione, sia per l’intera collettività. In alcuni casi, come
in materia di espropriazioni e di opere pubbliche, le ragioni di celerità del giudizio avevano
già comportato da tempo l’adozione di discipline peculiari; in altri casi, le ragioni di celerità si
sono affermate più di recente, in relazione a processi di privatizzazione o di liberalizzazione
di settori economici, o anche solo per circostanze del tutto contingenti. Il rito abbreviato
previsto dall’art. 119 c.p.a. riguarda, innanzitutto, i ricorsi proposti contro provvedimenti in
tema di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture;l’art. 119 c.p.a. concerne, inoltre, i
ricorsi al giudice amministrativo contro gli atti delle autorità amministrative indipendenti, i
ricorsi contro gli atti di alcune Agenzie Nazionali, i ricorsi concernenti provvedimenti di
privatizzazione o dismissione di imprese o beni pubblici e di costituzione, soppressione o
modificazione di società, aziende o istituzioni degli enti locali, i ricorsi concernenti procedure
espropriative o di occupazione d’urgenza ecc. In tutti questi casi,l’obiettivo di accelerare il
giudizio è perseguito, per queste controversie, innanzitutto, con la riduzione, a metà, di tutti
i termini processuali, ad eccezione di quelli stabiliti per la notifica del ricorso principale, del
ricorso incidentale e dei motivi aggiunti; l’obiettivo di celerità è perseguito , inoltre, nella
fase cautelare del giudizio, per evitare che una misura cautelare possa determinare una
paralisi per l’attività amministrativa, e così pregiudicare interessi pubblici primari. Il
dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dopo che il collegio abbia maturato
la decisione del ricorso, purché almeno una parte ne abbia fatto richiesta nel corso
dell’udienza; la pubblicazione del dispositivo della sentenza produce tutti gli effetti
caducatori e ripristinatori propri della pubblicazione della sentenza. E’ consentito, inoltre, alla
parte interessata di proporre l'appello al Consiglio di Stato direttamente nei confronti del
dispositivo della sentenza, entro 30 giorni dalla sua pubblicazione, al fine di ottenerne la
sospensione.

*Ricapitolazioni significative di alcuni importanti argomenti; *Altri argomenti


preponderanti (si procederà, adesso, a veloci e schematiche concettualizzazioni
ricapitolative di argomenti già sopra riferiti (a pro di una utile ripetizione) o di argomenti non
concettualizzati antecedentemente, che, per quanto concerne la giustizia amministrativa,
potrebbero essere potenziale oggetto di domanda in sede esaminativa).

* I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE DEL CITTADINO NEI


CONFRONTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: Per valutare i caratteri fondamentali del
diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dell’amministrazione è essenziale
riferirsi alla Costituzione. La Costituzione indirizza verso una amministrazione ispirata ai
principi democratici che tendono a superare l’originaria OSTILITA’ e CONTRAPPOSIZIONE
del cittadino rispetto alla amministrazione.
Gli istituti costituzionali che attengono alla tutela del cittadino nei confronti della
amministrazione sono articolati tra
DISPOSIZIONI SUL GIUDICE
A. 102-111
DISPOSIZIONI SULL’ AZIONE
A. 24-113
DISPOSIZIONI SULL’ ASSETTO DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA
A. 103
Vediamo questi 3 argomenti, uno ad uno:
**DISPOSIZIONI SUL GIUDICE:
- ART 102 COST: “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme sull’ ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici
straordinari o giudici speciali”.
- ART 111 COST: “la Costituzione considera valori essenziali indipendenza, imparzialità e
terzietà del giudice”. Sono infatti prerogative componenti del c.d. giusto processo. Per
imparzialità si intende che il giudice deve decidere senza essere condizionato dalle parti; per
terzietà invece intendiamo che il giudice deve decidere in una situazione di indifferenza e
equidistanza rispetto alle parti.
Riguardo alla indipendenza, si intende la relazione dell‘organo giurisdizionale con i soggetti
estranei al rapporto processuale , quindi con il governo e il potere politico in generale. L’
indipendenza è caratteristica sia del G.O sia del G.A. Per il GO la garanzia dell’autonomia è
data dal CSM. Per il GA vale la stessa autonomia: il fatto che l’uno sia ordinario, e l'altro sia
speciale, non è preclusivo di indipendenza, non a caso i compiti svolti dal CSM sono svolti
per i giudici amministrativi dal CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA GIUSTIZIA
AMMINISTRATIVA. /
**DISPOSIZIONI SULL AZIONE:
- Art 24 cost: “TUTTI possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi e
interessi legittimi”. Con questa disposizione viene garantita la tutela giurisdizionale di tutte le
situazioni giuridiche soggettive, e la collocazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi sullo
stesso piano, che ha fatto sorgere la convinzione che la Costituzione abbia sancito una
interpretazione qualificata di carattere sostanziale dell‘interesse legittimo, che a questo
punto non è più una posizione processuale.
- Art 113 cost: definisce il rapporto tra la garanzia della tutela giurisdizionale e la posizione
della PA. La tutela giurisdizionale è sempre ammessa contro gli atti della PA. Testuali parole
dell’articolo: “contro gli atti della PA è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e
degli interessi legittimi dinanzi agli organi della giurisdizione ordinaria o amministrativa”. Il
termine “sempre” garantisce il carattere assoluto della tutela che non conosce restrizioni. La
tutela vale sia per i Diritti Soggettivi, sia per gli Interessi Legittimi.
113, co. 2, cost: impedisce di circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale in ragione di
tipi di atti o vizi di atti, con la prerogativa pero che la tutela si estende ai soli vizi di
legittimità: rimangono escluse, da ogni protezione costituzionale, le possibilità di
sindacato per vizio di merito, quindi opportunità e convenienza della scelta della
PA. Sulla base di tale ovvietà, sono escluse le tutele nei confronti degli atti politici, cioè gli
atti espressione di un potere politico.
113, co.3, cost: “la legge determina quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti
della PA indicando i casi”. Nel rinviare alla legge la determinazione di tali organi, la
Costituzione delegittima ogni tipo di riserva a favore del GA del potere di annullare gli atti
amministrativi.
Rileggendo, quindi, il 113 c1 , e 113 c3 , ricaviamo che il giudice può sempre sindacare la
legittimità dell’ atto , ma non sempre può annullarlo. /
**DISPOSIZIONI SULL ASSETTO DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA
La Costituzione ha sancito la regola del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e
giudice amministrativo.
- ART 103 cost. “il consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativo hanno
giurisdizione per la tutela nei confronti della PA degli interessi legittimi e , in particolari
materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.”
Ricaviamo innanzitutto il carattere generale della tutela degli interessi legittimi, e il carattere
tassativo della giurisdizione esclusiva.
La norma inoltre contribuisce a definire il Consiglio di Stato e i Tar quali giudici “naturali”
degli interessi legittimi. Con tale istituto è stato costituzionalizzato l’assetto dualistico che
caratterizzava l’Italia prima della Costituzione, e lo stesso art 103 ha risposto alla necessita
di dare rilievo costituzionale a una giurisdizione che, in quanto speciale, doveva essere
definita.
Tale definizione trova corpo nella distinzione tra giurisdizione civile e amministrativa
sulla base del criterio ripartitivo tra diritti soggettivi e interessi legittimi (salve
ovviamente le ipotesi in cui LA LEGGE individui giurisdizione esclusiva).
L’art 103 contribuisce inoltre a costituzionalizzare il doppio grado di giurisdizione del
giudice amministrativo, riconoscendo quindi il Tar quale primo grado e il Consiglio di
Stato quale secondo grado. /

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE:
Con l’allegato E della legge sul contenzioso amministrativo vennero aboliti i tribunali del
contenzioso amministrativo, e venivano così lasciate prive di tutela giurisdizionale le
situazioni giuridiche soggettive diverse dai diritti soggettivi, ascrivibili alla categoria
dell’“interesse legittimo”. Venne così istituita la 4 SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO, con
la legge Crispi del 1889, con l’intento di stabilire regole certe per il riparto della competenza
tra giudice ordinario e quarta sezione (giudice amministrativo). /
Originariamente, si faceva leva sul criterio del “petitum”, secondo il quale il dato
caratterizzante la giurisdizione amministrativa era il potere di annullamento degli atti
impugnati, e allora qualunque provvedimento avesse leso un diritto soggettivo doveva poter
essere ricorso dinanzi al giudice amministrativo, che poteva annullarlo; in realtà, essendo
diritto soggettivo, il ricorrente poteva pur sempre ricorrere dinanzi al GO, determinandosi
cosi una doppia tutela. La giurisprudenza rigetto la tesi del petitum, avvalorando, invece,
una tesi funzionalizzata sul criterio della “causa petendi”; tale criterio voleva valida la “teoria
della prospettazione” , secondo la quale la posizione giuridica da tutelare era quella che il
cittadino aveva “prospettato” nella sua domanda giudiziale; quindi ove avesse fatto valere
un interesse legittimo sarebbe stata competenza del giudice amministrativo; competenza del
giudice ordinario dove avesse fatto valere un diritto soggettivo. Ovviamente, fu respinta tale
tesi, a pro, invece, di una tesi basata sul “petitum sostanziale”: ciò che rileva ai fini
del riparto di giurisdizione è l’effettiva natura della posizione fatta valere in
giudizio, e la sua oggettiva qualificazione come dir. Soggettivo o int. Legittimo.

*LIMITI INTERNI DELLA GIURISDIZIONE ORDINARIA:L’art 4 della legge di abolizione sul


contenzioso amministrativo vieta al giudice ordinario di “revocare o modificare l’atto
amministrativo”; tale disposizione è stata interpretata in modo estensivo, fino a considerare
oggetto di protezione qualunque espressione di attività amministrativa che non fosse
riconducibile al diritto privato; ciò significa che il divieto per il GO di revocare o modificare
l’atto amministrativo si traduce in impossibilità, per il GO, di assumere una qualunque
decisione che possa incidere sulla Attività Amministrativa.
Problema è innanzitutto rileggere il concetto di “atto amministrativo”: una prima
interpretazione voleva che tale atto fosse qualsiasi atto della amministrazione posto in
essere nell’interesse pubblico; ciò comportava la naturale comparazione tra atti,
provvedimenti e anche comportamenti materiali della PA.
Con l’entrata in vigore della Costituzione tale interpretazione non ha più sostegno, dal
momento che il principio di legalità impone la conformità della PA al potere ad essa
riconosciuto; ciò significa che rientrano tra gli atti amministrativi (e quindi il limite della
giurisdizione ordinaria) solo quelli espressione del potere conferito dalla legge.
In conclusione, il limite interno della giurisdizione civile non va esteso a tutto ciò
che non sia diritto privato , ma va circoscritto a tutto ciò che costituisca, in base
alla legge, espressione di un potere pubblico. /
La legge di abolizione del contenzioso amministrativo assegnò al giudice ordinario, quasi a
compensare l‘esclusione di un potere di annullamento degli atti amministrativi, la capacita di
procedere alla disapplicazione degli atti amministrativi. Infatti, l’art 4 aveva sancito
l’impossibilità di revoca e modifica dell’atto amministrativo per il giudice ordinario, e che
esso dovesse limitarsi a “conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto
dedotto in giudizio”.
L’art 5 della l 2248/1864 continua disponendo che “in questo, come in ogni altro caso, le
autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in
quanto siano conformi alle leggi”. L’art 5 sancisce quindi un potere di disapplicazione del
GO rispetto agli atti amministrativi, - dove si tratti di una controversia inerente a un diritto
soggettivo, - limitatamente a un sindacato di legittimità (quindi non merito, opportunità e
convenienza), - anche d’ ufficio per il fatto che l’atto è rilevante per la decisione. In realtà
tale potere va circoscritto a quelle controversie in cui una parte abbia fondato la sua
pretesa su un atto amministrativo, e quindi tale disposizione si applicherebbe quando,
per stabilire la fondatezza della pretesa, sia essenziale valutare la conformità dell’atto alla
legge.

QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA:


Il ricorso alla 4a Sezione fu introdotto per estendere la tutela del cittadino nei confronti
dell‘amministrazione, offrendogli la possibilità di ottenere dal CONSIGLIO DI STATO una
pronuncia costitutiva, di annullamento di un atto amministrativo illegittimo.
Il ricorso al G.A. fu configurato innanzitutto come mezzo di Impugnazione dell’atto
amministrativo. Ma accanto a questo primo obiettivo, il Consiglio di Stato ha assicurato un
obiettivo ulteriore: la garanzia dell’interesse legittimo.  La ragione essenziale della
giurisdizione amministrativa non è tanto l’impugnazione dei provvedimenti, quanto la tutela
degli interessi legittimi. La configurabilità di un interesse legittimo è criterio fondamentale e
incardina la giurisdizione amministrativa rispetto ad una data controversia. L’art 103 cost.
che identificala competenza generale del giudice amministrativo con la tutela degli interessi
legittimi nei confronti della PA, e che permette oggi di definire TAR e CONSIGLIO DI STATO
quali giudici “ordinari” degli interessi legittimi, ha chiarificato una cosa importante: la tutela
degli interessi legittimi è devoluta non solo in ragione di una impugnazione di un
provvedimento.

L’art 7 c3 c.p.a. (dlgs 104/2010) definisce l’ambito della giurisdizione


amministrativa, articolandola in
-giurisdizione generale di legittimità;
-esclusiva;
-estesa al merito;

GIURISDIZIONE DI LEGITTIMITA:
L’ART 7, c4 c.p.a. “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice
amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle PA ,
comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e
(relative) agli altri diritti patrimoniali consequenziali , pure se introdotti in via autonoma”
La norma trascura di menzionare l’elemento storicamente determinante che definisce tuttora
la giurisdizione di legittimità , cioè la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi. È dato,
comunque, per scontato che la mancanza di riferimento agli “interessi legittimi” sia
riconducibile al fatto che il codice assegna in via generale al giudice amministrativo la
giurisdizione per le controversie relative ad interessi legittimi.
Nei casi di giurisdizione di legittimità (controversie su interessi legittimi), la decisione sugli
interessi legittimi può comportare la necessità di un esame e di una pronuncia anche
rispetto a diritti soggettivi. In passato tali questioni erano riservate al GO , poi la
giurisprudenza si orientò per la risoluzione di esse in via incidentale da parte del GA, quando
tale questione pregiudiziale sia necessaria ai fini di una pronuncia principale di interesse
legittimo ; unica eccezione costituiscono quelle questioni relative allo stato e alla capacita
delle persone , che sono riservate al GO.

GIURISDIZIONE ESCLUSIVA:
L’ART 7, c5 c.p.a “nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo
133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle
quali si faccia questione di diritti soggettivi”.
In alcuni casi è assegnata al GA una giurisdizione anche sui diritti soggettivi. In questi
casi il cittadino può agire davanti al GA non solo per tutelare i suoi interessi legittimi, o per
ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più in generale per
tutelare i diritti soggettivi che vanti contro la PA.
La nascita dell’istituto della giurisdizione esclusiva è legata a quelle ipotesi in cui il Diritto
Soggettivo e l’ Interesse Legittimo coesistono.
Tale giurisdizione è Tipica , perché tassativamente previsti i casi nel 133 c.p.a., e la parola
“esclusiva” è da interpretare come “escluso”. CHI? Il giudice ordinario ovviamente.
La giurisdizione esclusiva, introdotta con la riforma del 1923, nasce con l’intento di far
giudicare in via principale il GA in materie in cui la materia era “confusa” perché
coesistevano interessi legittimi e diritti soggettivi.
Quindi a quella originaria ripartizione fondata sulla distinzione tra le posizioni soggettive -> [
(GIUDICE ORDINARIO = DIRITTI SOGGETTIVI ) - (GIUDICE AMMINISTRATIVO =
INTERESSI LEGITTIMI) ] subentrava, nei casi di giurisdizione esclusiva, il criterio della
materia, di cui all’art 7. C5. /
Un profilo problematico lo desta ovviamente il 133 c.p.a. perché in alcuni casi devolve istituti
generali, in tal altri casi istituti molto specifici. Non stupisce che in molti casi tali materie
siano incerte.
La sentenza 204/2004 ha sottolineato l’esigenza di una interpretazione della giurisdizione
esclusiva rispettosa dell’art 103 Cost. Secondo la Corte Costituzionale, l’assegnazione delle
materie, da parte del legislatore, deve comunque presupporre un coinvolgimento di un
potere amministrativo. Ciò significa che questo criterio della materia, per la giurisdizione
esclusiva, non vuole più, ai fini della assegnazione al giudice amministrativo, la
individuazione dell’interesse legittimo; senza dimenticare che in tali ipotesi di giurisdizione
esclusiva, il giudice amministrativo utilizza i poteri ad esso conferiti in generale, quale anche
la possibilità di annullare (e non disapplicare) il provvedimento amministrativo.

LA GIURISDIZIONE ESTESA AL MERITO:


ART 7, c6 c.p.a. “ il giudice esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle
controversie indicate dalla legge e dall’articolo 134. Nell’esercizio di tale giurisdizione il
giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”.
L’estensione riguarda ipotesi particolari , corrispondenti alla c.d. giurisdizione di merito,
rappresentate da alcune controversie inerenti spesso diritti soggettivi. Sono racchiuse nell’art
134 c.p.a.
In passato la giurisdizione di merito si caratterizzava per l’estensione al GA di alcuni poteri
per la decisione e cognizione della controversia; in particolare in casi di giurisdizione di
merito poteva disporre di mezzi istruttori ulteriori rispetto al giudizio di legittimità (dove
rileva solo la illegittimità ) e poteva , oltre ad annullare l’atto impugnato , “riformarlo” o
“sostituirlo”. /
Il carattere del “merito” però non era chiaro. In una prima interpretazione, si diceva che
fosse caratterizzata per il fatto che il provvedimento potesse essere impugnato, oltre che per
vizi di legittimità (incompetenza – eccesso di potere – violazione di legge), anche per vizi di
merito, quali per esempio l’inadeguatezza della scelta discrezionale, l’incongruità del criterio
tecnico, ecc. Cosi facendo il giudice amministrativo era pienamente legittimato a sovrapporsi
alla P.A.
In una seconda interpretazione, invece, si precludeva al giudice amministrativo la possibilità
di conoscere vizi diversi da quelli di legittimità. I poteri più ampi non gli permettevano
comunque un sindacato nel merito, ma poteva, una volta riscontrata l’illegittimità, modificare
l’atto.
In realtà il problema è che il concetto di merito è molto vago.
MERITO FATTO O MERITO DIRITTO??
Il merito diritto ci porrebbe infatti dinanzi a un problema, perché noi sappiamo che
opportunità e convenienza non sono sindacabili. Dovrebbe pertanto trattarsi di merito fatto,
anche perché la norma dice “cognizione estesa al merito” , ciò significa che mentre nel
giudizio di legittimità il giudice si ferma alla conformità ad un paradigma normativo , nei casi
di giurisdizione di merito può conoscere anche del merito , cioè del merito fatto. Cioè il
giudice non estende il proprio potere indagando sulla opportunità e convenienza della scelta,
ma potrà conoscere anche del profilo logico della scelta della P.A. /
Ciò che probabilmente contraddistingue tale giurisdizione è che, sul piano cognitivo, il
giudice può utilizzare testimonianze, perizie, mezzi istruttori. E conoscere, ove il
provvedimento impugnato costituisca esercizio di potestà amministrativa
discrezionale, alla convenienza, opportunità ed equità delle determinazioni
adottate.
Nel c.p.a. la giurisdizione di merito prevede una ampiezza dei poteri decisori del giudice, il
quale “può sostituirsi all’amministrazione , adottare un nuovo atto , o modificare
quello impugnato”. /
In conclusione, la giurisdizione di merito è contraddistinta dalla capacità del GA
di adottare pronunce sostitutive del contenuto dell’atto impugnato.
Ciò perché in realtà le materie identificate dal 134 sono quasi tutte materie in cui non vi è
quasi per nulla attività discrezionale, non vi è potere amministrativo.

CONDIZIONI GENERALI PER L’AZIONE NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO:Le


condizioni generali per l’azione sono: - legittimazione a ricorrere, - interesse a ricorrere.
-La legittimazione a ricorrere sorge in capo a chi vanti una situazione giuridica
soggettiva qualificata (interesse legittimo o anche diritto soggettivo nei casi di giurisdizione
esclusiva) lesa dall’azione della P.A. Se il giudice accerta che il ricorrente non è titolare di
tale posizione qualificata dichiara il ricorso inammissibile. In talune ipotesi la legittimazione a
ricorrere è costituita da una condizione formale del ricorrente, e non dalla affermazione o
dalla titolarità di un interesse qualificato: ciò si verifica nelle ipotesi di azioni popolari, dove
la legittimazione a ricorrere si identifica con la qualità generica di cittadino; sul modello delle
azioni popolari oggi trovano tutela anche gli interessi diffusi costituiti in associazioni o
comitati che possono definirsi come interessi “collettivi”. L’interesse diffuso , in linea
teorica, è un interesse semplice, perché manchevole di qualificazione soggettiva;La
legittimazione per essi , talvolta , è attribuita nei casi in cui essi siano rappresentati da
associazioni previamente identificate , per le quali la “collettività” di riferimento
rappresentativa dell’interesse diviene il soggetto interessato , qualificato perché quella
collettività non è tutta la collettività, ma parte di essa.
-L’interesse a ricorrere può definirsi come l’interesse del ricorrente a conseguire
un’utilità, o vantaggio, attraverso il processo amministrativo. L’ interesse a ricorrere deve
essere: - personale = il vantaggio deve riguardare il ricorrente, - attuale = l’interesse deve
esistere al momento del ricorso, - concreto = deve esserci stato reale pregiudizio. Inoltre
l’interesse deve insistere fino al momento successivo al ricorso, altrimenti verrebbe
dichiarata improcedibilità.

LA TIPOLOGIA DI AZIONI :
Il c.p.a disciplina le Azioni nel Processo Amministrativo agli articoli
29 = azione di annullamento
da proporre entro 60 gg nei casi di violazione di legge , incompetenza ed eccesso di potere
30 = azione di condanna
può essere proposta contestualmente ad altra azione o , nei singoli casi previsti dallo stesso
articolo , anche in via autonoma
31 = azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità
decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti
dalla legge: chi vi abbia interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere.

AZIONE DI ANNULLAMENTO: Il ricorso al giudice amministrativo nasce storicamente


come strumento per impugnare un atto amministrativo al fine di ottenere l’annullamento. Ai
sensi dell’art 29 cpa, essa deve proporsi in 60 gg. Ovviamente prima dell’annullamento ci
sarà esercizio di un potere di accertamento finalizzato alla sussistenza dei presupposti di
incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge, che, ovviamente, sono necessari che ci
siano per far sì che quell’atto impugnato venga annullato. /
L’azione di annullamento presenta il carattere della
generalità: è sempre ammessa purché vi sia un atto lesivo di una situazione giuridica
qualificata
necessità: la contestazione della legittimità è ammessa solo se sia stata proposta azione di
annullamento. /
L’azione di annullamento comporta due effetti tipici
un effetto ripristinatorio e uno confermativo:
EFFETTO RIPRISTINATORIO: O eliminatorio, non fa altro che ripristinare quo ante gli
interessi precedenti l’emanazione del provvedimento. Ciò non è sempre possibile in quanto
talvolta certi effetti sono consolidati. In questo caso la sentenza avrà efficacia EX nunc, il
che è ovviamente una deroga alla regola generale che vuole gli effetti ex tunc della tutela
d’annullamento. EFFETTO CONFORMATIVO: La P.A. dovrà conformarsi al dictum della
sentenza; la PA nel riesercitare il potere deve tenere necessariamente conto del paradigma
della sentenza affinché il nuovo provvedimento sia esente da vizi.

AZIONE DI CONDANNA: Fu introdotta nel processo amministrativo con la legge TAR


1034/71 con riferimento alla giurisdizione esclusiva ed esclusivamente per il pagamento
di somme di denaro dovute dalla P.A.
Oggi nel c.p.a. l’art 30 disciplina l’azione di condanna con caratteri più generali: “nella
giurisdizione di legittimità , la condanna può essere solo al risarcimento dei danni per lesioni
di interessi legittimi ; nelle materie di giurisdizione esclusiva, può riguardare anche
l’adempimento di qualsiasi altra obbligazione”. /

Differenza tra legge tar e cpa


LEGGE TAR: C.P.A. :

Ammetteva la condanna solo nei casi di Nelle materie di giurisdizione esclusiva,


giurisdizione esclusiva e nei confronti della l’azione di condanna può essere proposta
PA. Era un limite per l’amm. dato che una anche dalla Amm. nei confronti di un privato
sentenza di mero accertamento nei confronti per l’adempimento di obbligazioni nei suoi
di un privato risultava di scarsa utilità in confronti.
quanto il giudizio di ottemperanza non Nelle materie di giurisdizione esclusiva, il
poteva essere esperito nei confronti di un cittadino può essere titolare anche di
privato. obbligazioni diverse da quelle pecuniarie ,
Ammetteva la condanna solo per l per cui , oltre alla tutela per equivalente ,
adempimento di obbligazioni pecuniarie può richiedere anche il risarcimento in forma
specifica ex art 2058 cc.
/
Si deduce che, ad oggi, i risultati conseguibili con la tutela risarcitoria possono essere
Risarcimento x equivalente: condanna la PA al risarcimento di una somma di denaro
Risarcimento in forma specifica: L’art 30 a specifico richiamo a tale tutela risarcitoria
dove ricorrano i presupposti di cui all’art 2058 cc, il risarcimento in forma specifica. Con esso
si permette al ricorrente di ottenere la stessa utilità che gli è stata pregiudicata dal
comportamento lesivo. Le condizioni di cui fa menzione il 2058 sono la non eccessiva
onerosità e la possibilità materiale e giuridica di adempiere l’obbligo.
In merito alla possibilità, fintanto che si parla di interessi oppositivi non vi è problema alla
risarcibilità in forma specifica , dato che il bene vita già appartiene alla sfera giuridica del
soggetto, che è stato privato.
Quando si parla di interessi legittimi pretesivi si corre il serio rischio che l’ apertura della
risarcibilità in forma specifica di tali interessi svii il lettore a interpretare un adempimento
della PA nei termini di conferimento di un bene vita che non è nella sfera giuridica del
destinatario. In tal modo la sentenza di condanna a risarcimento in forma specifica
dell’interesse legittimo porterebbe una invasione del potere del GA nella discrezionalità della
PA. Per tale categoria di interessi, il risarcimento non va letto come risarcimento per il
mancato godimento, ma come risarcimento per le chances, tempo processuale, ecc… /

Prima del codice, La Corte di Cassazione e il Consiglio di stato sostenevano soluzioni diverse
anche in merito alla possibilità che la domanda di risarcimento dei danni per lesione di
interesse legittimo potesse essere accolta solo se il provvedimento fosse stato impugnato e
annullato: per il Consiglio di Stato, l’azione risarcitoria veniva esclusa in mancanza di una
previa domanda di annullamento e diceva, inoltre, di non poter risolvere la questione di
annullamento in via incidentale; per la Cassazione, invece, le due azioni erano autonome. La
discussione fu superata con l’art 30 del c.p.a il quale ammette in via di principio l’autonomia
della domanda risarcitoria. In realtà l’art 30 vede due possibili strade : - azione di condanna
contestuale alla azione di annullamento; -azione , in casi indicati , in via autonoma , entro
120 giorni dal momento del fatto o della conoscenza. Come si legge , viene meno la
pregiudizialità, dal momento che la azione di condanna è proponibile in via autonoma ; e
però la condanna , che sul piano “processuale” non può essere respinta , può essere elusa
sul piano “sostanziale “ , dal momento che viene utilizzato il principio civilistico della
liquidazione del danno , e del buon creditore ( ricorrente); laddove il giudice, nel valutare il
risarcimento, rinvenga che una previa azione di annullamento del provvedimento avrebbe
ridotto il danno , può ridurre il danno anche fino a negarlo del tutto.

AZIONE DI ACCERTAMENTO e AZIONE AVVERSO IL SILENZIO: L’art 2 l.241/1990


sancisce che la PA ha il dovere di concludere il procedimento mediante l’adozione di un
provvedimento espresso. Il termine per provvedere è di 30 giorni. Quindi risulta chiaro che il
privato, di fronte all’inadempimento della PA può richiedere al giudice, tramite azione di
Accertamento, che accerti l’inadempimento della PA ed eventualmente proporre anche
azione di condanna. Il ricorso non è soggetto all’ordinario termine di decadenza di 60 gg ,
ma può essere proposto finché l’amministrazione ometta di provvedere , purché entro un
anno dalla scadenza del termine per l’ultimazione del procedimento ex art 31 c.2 c.p.a.
Il giudice se accoglie il ricorso ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine
congruo di 30 giorni. L’ordine di provvedere può contenere un contenuto specifico nei soli
casi di attività vincolata, e in tali casi la sentenza può “condannare” la PA a rilasciare un
provvedimento determinato. Pertanto, se il ricorso è proposto per il silenzio mantenuto dalla
PA sulla richiesta di provvedimento, il giudice può verificare la sussistenza delle condizioni
prescritte al rilascio di quel provvedimento e ordinare all’amministrazione di rilasciarlo. /
Ovviamente il GA non può sostituirsi alla PA quando vi sia discrezionalità amministrativa. Nel
caso del silenzio, quindi, il giudice ordina alla PA di provvedere, con un ordine a contenuto
generico (se vi è attività discrezionale) o a contenuto specifico (se vi è attività vincolata). /
Questa azione è conosciuta come azione di adempimento. Tale azione non può essere
proposta autonomamente, è necessariamente previa una azione di annullamento. /
Se entro 30 giorni l’amministrazione non si conforma al dictum della sentenza , il giudice può
nominare un Commissario ad Acta , istaurandosi un giudizio di ottemperanza; il commissario
è un organo che adempie in sostituzione della PA inadempiente; affinché il commissario ad
acta non prenda i poteri della PA , la PA può sempre provvedere in ragione della
inesauribilità del potere amministrativo , ma se non fa ciò si parla di consumazione del
potere amministrativo. /
Condizioni:
-inadempimento
-il giudice valuta la fondatezza della pretesa (ATTIVITA VINCOLATA= ordina di provvedere
con QUEL provvedimento; ATTIVITA DISCREZIONALE = ordina di provvedere) /
Esecuzione:
-la PA deve conformarsi al dictum della sentenza entro 30 gg.

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Il Processo Amministrativo

LA COMPETENZA:Come sappiamo la giurisdizione amministrativa è esercitata in primo grado


dai TAR, in secondo grado dal Consiglio di Stato, e dal consiglio di giustizia amministrativa
per la Regione Sicilia.
La competenza dei TAR è disciplinata dall’art 13 del c.p.a. che da rilievo innanzi tutto alla
sede dell’organo che ha emanato l’atto impugnato. Tale criterio trova temperamento in un
ulteriore criterio, quello della efficacia dell’atto che sancisce la competenza del TAR della
circoscrizione in cui l’atto ha effetto anche laddove l’atto sia stato emanato da una PA di una
Regione diversa. Integra la disciplina il cd. foro del pubblico impiego, per il quale è
competente il TAR nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio del pubblico dipendente per i
ricorsi in materia di pubblico impiego del personale di servizio.
Le regole sulla competenza hanno carattere inderogabile e una loro violazione può essere
rilevata anche d’ufficio e costituisce motivo d’appello. L’incompetenza può essere rilevata dal
TAR finché la causa non è decisa nel primo grado e il giudice incompetente non può
adottare misure cautelari , salvo che non siano state adottate prima del rilievo dell’
incompetenza, e in quel caso le misure cautelari hanno una ultrattività per 30 giorni dalla
pubblicazione dell’ordinanza con la quale il Tar dichiara la propria incompetenza. La stessa
ordinanza poi individua il tar competente e la causa deve essere riassunta nel termine
perentorio di 30 giorni. Ad ogni modo l’ordinanza con la quale il TAR pronuncia la propria
incompetenza è impugnabile con regolamento di competenza da parte delle parti. Accanto a
questa competenza inderogabile resiste la originale competenza funzionale, limitata a casi
specifici per il TAR LAZIO e il TAR LOMBARDIA, sulla base di previsioni che pero si
discostano dai tre criteri già analizzati. /
Per quanto concerne il Consiglio di Stato, il CDS oggi è giudice d’appello nei confronti delle
pronunce dei Tar.

LE PARTI: Anche nel processo amministrativo dobbiamo distinguere tra parti necessarie e
parti non necessarie. Affinché la sentenza sia valida occorrerà che sia rispettata la
garanzia del contraddittorio nei confronti delle sole prime, e non anche nei confronti delle
seconde.
Le parti necessarie sono:
Il Ricorrente: è colui che fa valere in giudizio una propria sit. Giur. Sogg. Il ricorrente è
colui che dà avvio al procedimento tramite un atto di sua iniziativa: il Ricorso. Il ricorrente
ha piena disponibilità dell’azione proposta, pertanto potrà decidere della eventuale rinuncia.
Nel caso di ricorso presentato congiuntamente da più persone avremo un cd. ricorso
collettivo. Per il ricorrente si parla di un interesse individuale.
L’amministrazione resistente: è la PA che ha emanato l’atto impugnato e nei confronti
della quale viene fatto valere un diritto soggettivo. Il c.p.a espressamente stabilisce che ad
essere convocato sia l’ente, non l’organo. La PA resistente è parte nel processo, e non
autorità, soggetta in tutto e per tutto alle regole del processo, su tutte la parità delle parti in
giudizio. Del resto la PA, al pari del ricorrente, ha un interesse, quello a mantenere l’atto
impugnato.
I controinteressati: sono i soggetti a cui l’atto amministrativo conferisce un’utilità
specifica. Quindi essi hanno un interesse alla conservazione dell’atto ( es. il vincitore di un
concorso la cui graduatoria è impugnata dal ricorrente). Ad essi deve essere notificato il
ricorso, almeno ad uno (dove i controinteressati siano più di uno), ma in questo caso sarà
necessaria la successiva integrazione del contraddittorio. In dottrina si dice che il
controinteressato abbia una posizione speculare rispetto al ricorrente: mentre infatti il
ricorrente trae una lesione a un suo interesse legittimo da parte di un atto, il
controinteressato trae il suo interesse legittimo dall’atto impugnato; è per questo che la
specularità di posizioni merita parità di trattamento , suffragata di certezza dall’art 24 Cost
che impone una garanzia di tutela giurisdizionale per chi abbia un interesse legittimo , e
quindi come tale sia per il ricorrente che per il controinteressato. Per individuare i
controinteressati, oltre all’utilità specifica, è necessario anche un requisito formale, ossia che
sia individuabile dall’atto. /
Le parti non necessarie
Stando al cpa sono parti non necessarie tutte quelle che abbiano un interesse, come tali
legittimate ad intervenire in giudizio. Pertanto, il loro ingresso è vincolato ad un intervento
in giudizio, ma la norma non individua chi possa intervenire. Per essi quindi esiste una
varietà discendente da una varietà di situazioni sostanziali e di posizioni processuali.
Sicuramente sembra possano intervenire coloro che hanno un cd. interesse dipendente,
ossia coloro che patiscono indirettamente gli effetti del provvedimento impugnato perché
hanno una relazione giuridica con una parte necessaria (la PA vs. un proprietario di un
appartamento. L’inquilino del proprietario ha un interesse dipendente). In dottrina però è
necessario sottolineare la diversità del suo interesse rispetto a quello della parte necessaria:
se infatti il titolare dell’interesse in questione avesse pari dignità processuale della parte
necessaria vuol dire che l’interventore in questione parteciperebbe al processo con un mero
interesse semplice o di fatto, perché di questo si tratta (ha differenziazione fattuale, ma il
provvedimento non lo lede direttamente). In realtà bisogna invece intendere l’intervento
semplicemente adesivo, ad adiuvandum nel caso l’interventore intervenga a favore del
ricorrente, ad opponendum nel caso intervenga a favore della parte resistente o di un
controinteressato. Per entrambi sono comunque molto discussi i poteri processuali, posto
che i primi possono solo introdurre argomenti aggiuntivi a quelli del ricorrenti, ma non
hanno poteri processuali veri, mentre i secondi non sembrano avere grandi limitazioni.
Oltre ai titolari di un interesse dipendente, possono intervenire anche i titolari di un
interesse giuridico autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, pur non
essendo controinteressati, perché non ottengono utilità dall’atto stesso (il vicino di un
soggetto che abbia impugnato il provvedimento di annullamento del suo permesso di
costruire).

I PRINCIPI GENERALI DEL PROCESSO: Il processo amministrativo è soggetto innanzitutto al


cd. principio della domanda per cui il giudice non può esercitare le sue funzioni
giurisdizionali d’ufficio. Ciò impone,
da un lato, che il processo sia ad iniziativa della parte, la quale mantiene la piena
disponibilità dell’azione, potendovi anche rinunciare a giudizio in corso. Una volta depositato
il ricorso il matura la cd perenzione, cioè la parte entro un anno deve chiedere fissazione
dell’udienza di discussione altrimenti il procedimento i estingue; dall’altra parte, il principio
della domanda impone che il giudice è vincolato a pronunciarsi non oltre i limiti della
domanda. Il suo riferimento quindi è il ricorso principale, e anche laddove egli riscontri una
questione d’ufficio , decisiva ai fini della decisione del ricorso, deve sottoporla previamente
alle parti. /
Altro principio fondamentale è il cd. principio del contraddittorio , previsto dall’
articolo 111 Corst. Il giudice non si può pronunciare sulla domanda se prima non
sia stato integrato il contraddittorio rispetto a tutte le parti necessarie al
giudizio. Tale principio trova temperamento nella sola ipotesi in cui il ricorso sia
manifestamente infondato o inammissibile, per cui non è necessario integrare il
contraddittorio.

Il GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

1- IL RICORSO:Il giudizio avanti al Tar è introdotto con un Ricorso (art 41,1 cpa).
Storicamente il Ricorso era l’atto con il quale chi sostiene di essere stato leso in un proprio
interesse, da un provvedimento della PA, impugna tale provvedimento, chiedendone
l’annullamento. Era quindi storicamente uno strumento processuale di reazione ad un atto
lesivo della PA. Oggi, in virtù della giurisdizione esclusiva, il ricorso ha perso la sua
peculiare ontologia di reazione ad un atto lesivo, visto che nel caso di giurisdizione esclusiva,
conoscendo di diritti soggettivi (che sono situazioni autonome) non è necessaria
l’impugnazione del provvedimento. Ad ogni modo il ricorso conserva quella peculiarità di
primo atto processuale che introduce il giudizio amministrativo. A differenza che
nel processo civile, nel proc. Amministrativo il ricorso viene prima notificato alle parti
necessarie e poi depositato. /
Esso deve contenere quegli elementi tipicidel ricorso, sanciti all’articolo 40 c.p.a:
Il giudice adito
Generalità del ricorrente e delle altri parti
L’oggetto della domanda, e, nel caso di azione di annullamento, il provvedimento
impugnato
Esposizione sommaria dei fatti e i motivi su cui fonda il ricorso
Indicazione dei mezzi di prova
Provvedimenti che si chiedono al giudice (annullamento, modifica, riforma)
Sottoscrizione /
Specificamente, nell’azione di annullamento è necessaria l’indicazione dell’atto impugnato e
dei vizi dedotti rispetto all’atto stesso. Per vizio si intende uno dei tre ordini di legittimità
che comportano l’annullabilità dell’atto: incompetenza, violazione di legge,
eccesso di potere: inteso come sviamento di potere, disparita di trattamento,
ingiustizia manifesta.
Per l’individuazione del vizio fatto valere col ricorso, non sono richieste formule sacramentali.
Ciò che rileva, a pena di inammissibilità, è che l’oggetto della domanda e dei motivi sia
coerente con l’azione esperita.
Il ricorso è sempre nullo quando manchino gli elementi essenziali della controversia. Nel
caso di irregolarità il giudice può ordinare la rinnovazione entro un termine stabilito.
/
Ancora riguardo il ricorso per l’annullamento di un provvedimento, esso deve essere
notificato all’amministrazione che ha emanato il provvedimento ed almeno ad uno dei
controinteressati entro 60 giorni dalla comunicazione o pubblicazione o piena conoscenza del
provvedimento.
Ciò che stupisce è che un ricorso proposto contro l’illegittimità di un atto amministrativo sia
soggetto ad un termine perentorio, di 60 giorni. Tale previsione evidentemente è
risultato di una contemperazione tra l’esigenza del ricorrente alla tutela del suo interesse
legittimo, e le ragioni di certezza delle altre situazioni giuridiche. /
Per i giudizi proposti a tutela di diritti soggettivi, che non comportino l’impugnazione di
provvedimenti, non opera un termine di decadenza perché non viene impugnato un
provvedimento. E si è discusso in questi termini anche riguardo al giudizio sul silenzio: in
effetti nemmeno qui il giudizio verte su un provvedimento e il ricorso quindi non ha
carattere impugnatorio. Il CDS in passato esigeva comunque la perentorietà dei 60 gg per
proporre il ricorso, sebbene il legislatore si è poi orientato diversamente prevedendo che il
ricorso, in caso di silenzio, può essere proposto fintanto che dura l’inadempimento. /
L’originale del ricorso, notificato, deve essere depositato entro 30 giorni dall’ ultima notifica
al TAR competente, e con il deposito si attua la costituzione in giudizio della parte ricorrente.

3- La Costituzione delle altre parti (art 46) e il Ricorso Incidentale (art 42):
Entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, l’amministrazione resistente e i
controinteressati possono costituirsi in giudizio presentando memorie e documenti. Se il
ricorso principale non è stato notificato a tutti i controinteressati, ma è stato notificato ad
almeno uno di essi, il GA ordina l’integrazione del contraddittorio. /
Entro gli stessi 60 giorni dalla notifica del ricorso, le parti resistenti e i controinteressati
possono proporre ricorso incidentale. In passato esso era concesso solo al
controinteressato, il quale poteva impugnare lo stesso provvedimento già impugnato dal
ricorrente facendo valere vizi diversi, dai quali egli avrebbe potuto ottenere un risultato a lui
favorevole. (Tizio, ricorrente, impugna la graduatoria dalla quale risulta che egli è arrivato
2o perché non gli son stati riconosciuti dei punti; Caio, controinteressato, fa ricorso
incidentale adducendo mancata attribuzione di ulteriori punti che lo qualificherebbero
comunque al di sopra di Tizio). La giurisprudenza oggi riconosce al controinteressato la
possibilità di impugnare con ricorso incidentale anche un atto diverso da quello impugnato
dal ricorrente con il ricorso principale, ammesso che però tale atto diverso sia funzionale allo
stesso risultato utile. L’art 42 del C.p.a riconosce queste facoltà, e rispetto alla disciplina
vigente prima del codice ha aperto la possibilità del ricorso incidentale anche alla
amministrazione resistente. In verità, in passato, non era riconosciuto tale potere alla
PA, perché si diceva che laddove la PA avesse riconosciuto una illegittimità dell’atto da essa
emanato, impugnato dal ricorrente, avrebbe potuto annullarlo, in sede di autotutela. E in
effetti se il ricorso incidentale ha ad oggetto ulteriori vizi, ossia altri elementi di illegittimità,
la PA nel riconoscere l’illegittimità di un proprio atto può annullarlo in virtù del proprio potere
illimitato. Oggi comunque il codice, quando all’art 42 fa menzione delle “parti resistenti”,
quali quelle “legittimate a proporre ricorso incidentale”, fa inevitabilmente riferimento anche
alla PA.
Il ricorso incidentale, inoltre, oltre ad avere la stessa scadenza temporale del ricorso
principale ( 60 gg dalla notifica) , si assimila ad essa anche per ciò che concerne l’onere di
notifica alle altre parti, in altrettanti 60gg.
Una volta instaurato il giudizio, ossia una volta che le parti necessarie si siano costituite con
le eventuali memorie e ricorsi incidentali, possono fare intervento le parti non necessarie.

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