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Legenda: In questo documento sintetico sono riportati e raccolti gli argomenti ed i concetti di maggiore
preponderanza in sede esaminativa; gli argomenti ed i concetti c.d. “SUPER” (di preponderanza cardine,
anche rispetto agli altri ) sono segnalati “in grassetto, in maiuscolo e sottolineati”; le argomentazioni sono
non solo riprese dal manuale stesso, ma anche integrate da fonti come quelle delle lezioni-corsi e da
fonte internet; le/gli stesse/i seguono l’ordine concettuale del manuale sopra citato, con cui bisogna
studiare, talvolta, in connessione ed in allegato; taluni argomenti di poca (se non nulla) preponderanza in
sede esaminativa non sono riportati in questo documento, od , al massimo, sono riportate le pagine “di
richiamo” sul rispettivo manuale .
PARTE PRIMA
La questione delle fonti è importante in ogni ramo del diritto, ma nel diritto amministrativo forse lo è
anche di più, per due motivi:
1. Il diritto amministrativo non ha un codice ma è composto da un sistema assai variegato e complesso
che comprende tantissime norme che riguardano la P.A.
2. La P.A. non è solo destinataria, ma anche produttrice di fonti.
Libertà e democrazia. Noi però dobbiamo occuparci della libertà dell’uomo associato, cioè dell’uomo che
vive in società (‘civilizzato’). In questo caso la libertà non è assoluta ma relativa, perché necessariamente
coniugata con quella degli altri.
Allora come si definisce la libertà nel nostro sistema giuridico?
Essendo il nostro un ordinamento giuridico liberal-democratico occorre ragionare sul rapporto che c’è tra
libertà e democrazia.
È importante a questo punto parlare di autorità, quando essa affonda le radici nella democrazia la libertà
non può esserle ostile, anzi non può fare a meno di essa.
L’autorità infatti misura, ed è, la proiezione organizzatoria della libertà nelle istituzioni.
Ma l’autorità, il potere, cosa significano?
Potere significa <<capacità di un soggetto individuale o collettivo di imporre la propria volontà,
nonostante l’eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva da parte di un altro soggetto o
gruppo di soggetti>>. Possiamo quindi affermare che ‘il potere è di chi ha la forza di imporsi’.
In epoca contemporanea la libertà dell’uomo che vive in società deriva dalla democrazia. Ognuno di noi
può fare solo ciò che non gli è impedito dalle regole stabilite dal soggetto istituzionale democraticamente
investito. Affinché queste regole siano ‘giuste’ devono essere condivise dai più.
Democrazia significa infatti che le regole valevoli per tutti sono stabilite dalla maggioranza dei consociati.
Ecco perché in democrazia si ha voto, certo sarebbe meglio se il consenso fosse unanime, ma si sa,
l’unanimità è un’utopia visto che ci sarà sempre chi la pensa diversamente.
Metodo democratico e libertà fondamentali. Se è vero che la democrazia serve a garantire la libertà a tutti
(e dunque viene prima della libertà) è altrettanto vero che per far funzionare la democrazia servono
alcune libertà, appunto dette fondamentali.
Ad esempio, la libertà di manifestazione del pensiero, infatti affinché la volontà della maggioranza sia
veramente tale occorre che il consenso resista al dissenso: senza la libertà di dissenso il consenso è
fasullo.
Ognuno infatti ha la possibilità di manifestare a tutti il valore diverso da quello che ha ispirato la legge,
affinché quest’ultima possa essere cambiata (posso comunicare agli altri ciò che non condivido).
Senza la possibilità di dissenso si avrebbe una dittatura della maggioranza.
Non a caso la libertà di manifestazione del pensiero (Art. 21 Cost.) è considerata la base degli
ordinamenti liberal-democratici. Inoltre questo articolo determina la conseguente ‘laicità’ dello Stato.
Con il termine laicità si intende quindi che lo Stato non prende alcuna tendenza di parte e che quindi i
cittadini possono professare le proprie idee e fare scelte anche radicalmente diverse tra loro.
In democrazia però il contenuto di ciascuna libertà è stabilito dalla legge, anche quello di libertà che
secondo i giusnaturalisti appartengono all’uomo, appunto, naturalmente.
Ad esempio prendiamo in considerazione la libertà di manifestazione del pensiero, pur essendo data la
possibilità di dissentire, questa non può manifestarsi violando il buon costume, l’ordine pubblico, oppure
l’onorabilità delle altre persone.
Questi sono quindi limiti ma non impedimenti di manifestazione del dissenso.
Libertà negativa e libertà positiva. E necessario allora spiegare la distinzione fra libertà negativa e libertà
positiva. Da tempo il concetto di libertà non si declina più soltanto secondo l’accezione negativa, quale
laissez faire, quale libertà dall’oppressore. Esso ormai si declina anche nel significato di libertà positiva, e
cioè come libertà di fare effettivamente , come reale capacità di fare. Mentre nella prima accezione la
richiesta del titolare di libertà è “ non impeditemi di fare nella seconda la richiesta è, invece, “aiutatemi a
fare”.
Ragioni e definizione del diritto e delle sue fonti. Possiamo dire che in ogni persona vive una
contraddizione: ognuno, di noi, da un lato è cittadino, la proiezione del quale è nella legge; dall’altro è
individuo, il “luogo” proprio del quale è nella capacità di resistenza alla legge, fino al punto che trova
spiegazione persino la sua trasgressione. Il diritto serve a fare in modo che gli esseri umani possono
pacificamente convivere. E evidente che il diritto non sia dovunque lo stesso. Esso, e la forma che
assume la “sostanza” di un dato esatto antropologico: in base alle attitudini, alle passioni, alle convinzioni
che prevalgono in una data società, questa si da alle sue regole. Il fatto che i valori e gli interessi si
traducono in dette regole non significa che essi debbano essere necessariamente avvertiti come propri da
tutti i soggetti della società. La loro eventuale non condivisione non è sufficiente a legittimare la non
osservanza delle regole che li hanno canonizzati. Le fonti, nel loro complesso insieme, definiscono gli
intrinseci limiti di contenuto di ciascuna libertà: stabilendo, da un lato, ciò che ciascun consociato può, o
non può, fare; e dall’altro i compiti dei soggetti pubblici e le regole in base alle quali devono essere svolti.
Ciò significa che le fonti si manifestano tanto attraverso norme di relazione, che hanno ad oggetto la
disciplina delle relazioni intersoggettive, quanto mediante norme di azione, che, invece, hanno ad oggetto
l’instaurazione di una P.A. e la disciplina della sua azione.
Il sistema delle fonti è ordinato secondo il principio di gerarchia. La collocazione nei gradini del
sistema dipende dalla forza, dall’efficacia della fonte. L’efficacia non è soltanto nella capacità di
modificare quella di rango inferiore, ma anche in quella di resistere a quella successiva di grado
inferiore. Questo criterio è appunto il criterio della forza, della capacità di imporsi sull’atto
inferiore e di resistere all’atto di grado inferiore. In realtà non è nemmeno una questione di
grado, perché il grado è un’altra cosa. E una questione di livello. Grado indica che ci sta un
primo, un secondo, un terzo, eventualmente un quarto grado, abbiamo fonti di primo di
secondo grado nel nostro ordinamento, ma non c’entra niente con la primarietà e con la
secondarietà, concettualmente. Perché primarietà e secondarietà attengono a questa questione
dalla gerarchia. Il problema e che la gerarchia oggi non è più sufficiente, non lo è mai stato, ma
mai come oggi non è più sufficiente a spiegarci la collocazione su livelli diversi. La dislocazione
sulla scala gerarchica delle fonti dipende da due elementi: la forza e il valore:
Per forza: si intende la capacità di un atto fonte, secondo il brocardo lex posterior derogant
priori, per un verso, di modificare la prescrizione di quello precedente di livello uguale od
inferiore; e, per l’altro, di resistere alla prescrizione di quello successivo di livello (o rango)
inferiore.
Per valore si intende la veste formale assunta dall’atto. Il valore, indica da un lato la vera e
propria forma giuridica, che è data dal soggetto e dalla procedura necessaria perché esso venga
in vita; e, dall’altro, il regime giuridico, che consiste nell’interesse delle prerogative che
caratterizzeranno la sua esistenza, una volta venuto in vita.
Per meglio comprendere l’ultima affermazione dobbiamo tener presente che una norma
giuridica non può identificarsi se non attraverso la veste formale in cui si manifesta: è la forma
che distingue una norma costituzionale da una norma legislativa, o da una norma
regolamentare. È facile avvolte ritenere che i due elementi si intreccino continuamente, fino al
punto che si può non infondatamente ritenere che ad un certo valore degli atti corrisponda una
certa forza, e viceversa. È vero che un atto ha valore di legge se dotato di forza di legge; cosi
come, all’inverso, che un atto non può avere forza di legge senza “indossare” la veste formale.
Ciò nondimeno,i due elementi caratterizzanti il criterio gerarchico, pur generalmente vivendo in
perfetta simbiosi, restano concettualmente distinti, ad indicare due diversi significati appena
ricordati. L’assunto ritorna di particolare utilità in questi casi specifici in cui accade che ad una
data veste formale dell’atto corrisponda una forza non coerente con quella propria degli atti
aventi lo stesso valore: il caso certamente più emblematico e quello dei ccdd. “ regolamenti
autorizzati” i quali pur conservando il valore formale degli atti amministrativi, sono dotati di una
capacità modificativa della corrispondente fonte primaria che sembra consentire di considerarli,
non del tutto irragionevolmente, provvisti di una forza pari a quella della legge.
Dobbiamo derivare che per intelligere la classificazione basata sul criterio gerarchico occorre
considerare in via preventiva l’elemento del valore formale: questo, infatti, si presenta più
stabile dell’altro; mentre la forza, come abbiamo appena riferito, è derogabile, il valore non lo è.
In definitiva un atto fonte è ben qualificabile come secondario quanto a regime giuridico, pur
non essendolo in effetti quanto a forza. Di tal che esso è dalla legge munito di una forza per la
quale sarebbe naturale qualificarlo come fonte primaria; e tuttavia continuiamo a catalogarlo
come fonte secondaria, privilegiandone il valore formale.
Il criterio gerarchico viene, da tempo risalente, integrato a quello della competenza, nel senso
di considerare plausibile che l’ordine gerarchico sia derogabile ( in base al principio lex specialis
derogat generali) per un determinato oggetto la fonte superiore possa non avere una capacità
regolativa tale da imporsi sulla fonte inferiore allorquando questa sia dall’ordinamento dotata di
una specifica “signoria” su quell’oggetto. Dopo la costituzione del 1948 può ben dirsi che il
criterio della competenza abbia assunto un ruolo decisamente più rilevante avendo perduto la
riduttiva connotazione di mera integrazione di quello della gerarchia, in ragione della sensibile
caratterizzazione pluralistica assunta dall’ordinamento repubblicano. La cittadinanza multilivello,
o come altrimenti si può dire, la dimensione del cittadino “ diversificata” in ragione del
differente raggio geografico del livello di governo al quale di volta in volta gli interessi di cui è
portatore si riferiscono: si mediti sul dato di osservazione della realtà secondo cui ciascuno di
noi è, ad un tempo, cittadino di un Comune, di una Provincia, di una Regione dello Stato
Italiano e dell’Unione Europea. Laddove la materia oggetto di disciplina sia dall’ordinamento
attribuita alla competenza concorrente di soggetti esponenziali di più livelli territoriali di governo
concentrici, la possibile contraddittorietà fra le norme da questi prodotte si risolve attraverso
l’utilizzazione del criterio gerarchico; non v’è ragione di possibile contraddittorietà, invece,
laddove la materia oggetto di disciplina sia riservata alla esclusiva “signoria” di uno solo dei
livelli di governo, ciò comportando, inevitabilmente, la utilizzazione del criterio della
competenza. Il criterio gerarchico, può oggi convintamente ritenersi da solo non sufficiente a
spiegare la classificazione di una fonte nel sistema. Appare necessario, cominciare a considerare
il criterio della competenza, non più come semplice “integrativo” di quello della gerarchia, bensì
come “co-determinativo”, insieme a quello, di un unico criterio che sembra potersi
ragionevolmente qualificare come “gerarchia attenuata”. La locuzione si presta adeguatamente
ad esprimere la indispensabile mediazione concettuale che occorre praticare fra le due
esigenze: da un lato, quella di spiegare in termini gerarchici la relazione tra fonti che, regolando
la stessa materia, promanano da pubblici poteri insistenti su territori concentrici; dall’altro,
quella di spiegare in termini di competenza la relazione tra fonti che, pur promanando dai
medesimi menzionati soggetti, hanno ad oggetto materie diverse, ciascuna spettando ad una di
essi in via riservata. Con la locuzione “gerarchia attenuata” si vuole intendere qualcosa che va
oltre la semplice mitigazione della gerarchia da parte della competenza. Anche in ragione di ciò,
si spiega perché l’elemento della forza non è da solo soddisfacente; epperò non possiamo
affatto trascurarne il ruolo, perché senza di esso resta priva di spiegazione, la relazione fra le
fonti: è per questo che dei due elementi si rileva indice più affidabile quello del valore formale.
Il mito della certezza del diritto deve ritenersi ormai definitivamente tramontato. Fino a qualche
decennio fa, a dire il vero, si parlava pacificamente di “certezza del diritto” come di un
tendenziale principio ispiratore dell’ordinamento. È sufficiente pensare al ruolo peculiare della
giurisprudenza per capire come l’idea stessa di certezza del diritto sopporti intrinsecamente un
limite quello di rappresentare una mera aspirazione utopistica.
4. IL PRINCIPIO DI LEGALITA’
Il principio di legalità afferma che tutti gli organi dello Stato sono tenuti ad agire secondo la
legge. Tale principio ammette che il potere venga esercitato in modo discrezionale, ma non in
modo arbitrario. Esso costituisce uno dei principali cardini dello stato di diritto: sta ad indicare la
sottoposizione dello stato alla legge in quanto espressione della volontà del popolo. La legge del
parlamento non è la sola fonte attraverso la quale il popolo stabilisce le regole che ne
disciplinano la vita associata. Ed invero, il popolo esercita la sovranità tutte le volte che vota per
eleggere i propri esponenti negli organi rappresentativi: ciò significa che nel nostro ordinamento
la sovranità si esprime attraverso l’emanazione, non solo di leggi dello stato, ma anche delle
leggi delle regioni e dei regolamenti degli enti locali (Città metropolitana, Province, Comune).
Oltre alle fonti derivanti da investitura diretta bisogna considerare anche quelle che sono
espressione di rappresentatività indiretta gli atti normativi di esecuzione e/o attuazione delle
leggi. Insomma il sistema delle fonti è permeato dal principio di legalità giacché il quadro
complessivo di questa è costituito dall’intero insieme degli atti fonte del diritto obbiettivo
(l'insieme delle norme giuridiche che regolano i rapporti di uno stato-comunità e che
comandano o vietano determinati comportamenti ai soggetti che ne sono destinatari).
Legalità in senso tecnico significa “rispetto della legge” quando si usa questa locuzione non si
vuole intendere il rispetto della legge in senso formale bensì l’insieme delle fonti - dall’unione
europea ai regolamenti comunali - che regolano quella fattispecie.
Si distingue in: principio di legalità formale e sostanziale:
· il primo afferma che l'amministrazione pubblica e la giurisdizione non hanno altri poteri
se non quelli conferiti dalla legge. Esso si atteggia, quindi, come necessità di una previa norma
di legge attributiva del potere (es. Le Camere);
Il sistema elettorale italiano è l'insieme delle regole con cui, sulla base dei voti espressi dai
cittadini italiani durante le elezioni, sono assegnati i seggi all'interno degli organi politico-
istituzionali locali, nazionali ed europei.
A partire dal 2005 (legge Calderoli) è in vigore un sistema proporzionale corretto con un premio
di maggioranza e diverse clausole di sbarramento. Nel 2013 la Corte costituzionale ha dichiarato
l'incostituzionalità di parte della legge, in riferimento al premio di maggioranza e all'impossibilità
per gli elettori di fornire una preferenza.
Differenza fra sistema proporzionale e sistema maggioritario:
Maggioritario ad unico turno: il candidato o la lista che ottiene il maggior numero di voti, anche
se inferiore al 50% si aggiudica il seggio e tutti i posti disponibili (es: A 45%,B 30%,C 25% - A
vince e si aggiudica tutti i posti disponibili lasciando a mani vuote B e C).
Maggioritario a doppio turno: se un candidato od una lista, alla prima votazione, ottiene il 50%
+1 dei voti (maggioranza assoluta) risulta eletto e si aggiudica tutti i seggi disponibili.
In caso contrario i due candidati o le due liste che hanno preso il maggior numero di voti si
sfidano nel così detto "ballottaggio". In questo caso gli elettori potranno votare solo le due liste
rimaste in gara e chi otterrà il maggior numero di voti si aggiudicherà il seggio.
Proporzionale: i seggi vengono ripartiti in base alla percentuale dei voti raccolti. Es: 10 seggi ->
A 50% con cinque seggi, B 30% con tre seggi, C 20% con 2 seggi)
Art. 5 Cost.
"La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi
che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento"
Da un'attenta lettura di tale articolo, si rende palese la non equivalenza fra Repubblica e Stato,
l'una essendo soggetto più ampio dell'altro fino a ricomprenderlo insieme alle autonomie locali
menzionate.
Tale articolo può essere scomposto in tre parti:
Parte 1): "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali"
(fenomeno del pluralismo autonomistico e istituzionale).
Da questa prima affermazione, ricaviamo che la Repubblica (intesa come ordinamento)
riconosce le autonomie locali, che, in quanto appunto riconosciute, implica il fatto che esse
siano preesistenti alla Repubblica stessa. La volontà dei nostri Padri Costituenti di riconoscere
come preesistenti le autonomie locali, stava ad indicare che per essi l'ordinamento giuridico
italiano non poteva che essere costituito dalle autonomie territoriali, in quanto qualificanti il
nostro Stato di tipo regionale.
Tale pluralismo istituzionale e autonomistico diventa la faccia interna della sovranità dello Stato.
Tali enti sono enti territoriali: enti esponenziali di tutti gli interessi ascrivibili ad una comunità
stanziata su un territorio. Vengono qualificati come enti a fini generali in quanto essi, in virtù
dell'investitura democratica, trasformano in interessi pubblici da perseguire tutti gli interessi di
tale comunità.
Caratteristiche:
Fini generali
Particolare relazione con il territorio
Titolari di autonomia di indirizzo politico - amministrativo, ovvero capacità di determinare
l'entità (qual è il fine) e l'identità (stabilirlo come proprio) degli interessi da perseguire.
Autarchia ( È la caratteristica degli enti diversi dallo Stato di disporre di potestà pubbliche e
consiste nella capacità, propria degli enti pubblici, di amministrare i propri interessi
svolgendo un'attività amministrativa avente gli stessi caratteri e la stessa efficacia giuridica di
quella dello Stato) attribuita in via originaria (e non derivata) dalla sovranità popolare
(investitura democratica)
Parte 2): "attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo"
(fenomeni del decentramento organico, pluralismo autarchico, decentramento autarchico)
Parte 3): "adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del
decentramento"
Tale parte, stabilisce un vincolo per il Legislatore, il quale dovrà operare, non solo nel rispetto
del valore dell' autonomia, bensì anche in funzione in funzione di entrambe le formule
organizzatorie: autonomia e decentramento.
La piramide e divisibile in tre grandi sezioni, ciascuna delle quali esprime il livello, o rango, dell’atto fonte:
costituzionale, primario, secondario.
L’insieme delle fonti primarie è a sua volta suddivisibile in tre sottoinsiemi: quello delle fonti ultra-
primarie; quello delle fonti primarie vere e proprie; e quello delle fonti sub-primarie.
La sovra/sottoordinazione non implica la possibilità di imporsi su tutte le altre dello stesso rango, bensì,
più limitatamente, di determinare l’illegittimità della correlata fonte subordinata che sia in contrasto con
essa
2. Le fonti ultra-primarie
L’ultraprimarietà è data dal fatto che essa è un sottoinsieme della primarietà; ha come
conseguenza che la fonte ultraprimaria si impone sulle fonti primarie, Le fonti ultraprimarie non
sono solo le fonti comunitarie, anche le sentenze della corte costituzionale e i referendum
abrogativi delle leggi, perché gli effetti giuridici di questi atti sono tali che si impongono sulle
fonti primarie.
Le sentenze della corte costituzionale sono espressione della peculiare attività con la quale il
giudice supremo, con riferimento alle questioni di volta in volta sollevate innanzi ad esso,
verifica la conformità delle norme di legge alle disposizioni costituzionali, eliminando, ex tunc,
quelle che vi contrastino.
Referendum abrogativo Sono previsti dall’art. 75 Cost. il cui primo comma recita “è indetto
referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto
avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecento mila elettori o cinque consiglieri
regionali” Si tratta di uno strumento di democrazia diretta.
Regolamenti parlamentari i quali, giusta gli art. 64 co.1 e 72 cost.,disciplinano l’organizzazione è
il funzionamento di ciascuna delle due camere del parlamento ai fini dell’esercizio della funzione
legislativa. Nel caso in cui una legge andrebbe in contrasto con i regolamenti (ipotesi remota)
quest’ultimo prevarrebbe, appunto, per la sua ultraprimarietà.
La legge resta la fonte primaria per eccellenza. Ad essa sono equiparati i decreti legge e i
decreti legislativi.
Nell’ordinamento Italiano il potere di fare leggi è in via principale in capo al parlamento essendo
assegnato al governo solo in particolari circostanze.
Decreti legge: Secondo la costituzione “ in casi straordinari di necessità e d’urgenza” il governo
può adottare decreti legge i quali devono essere convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro
pubblicazione altrimenti perdono efficacia sin dall’inizio (art. 77,co. 2 e 3)
Decreti legislativi: Il governo può normalmente esercitare la funzione legislativa sulla base di
una legge delega, che deve però contenere la “determinazione di principi e criteri direttivi”, e,
dall’altro, limitare il “tempo” e definire gli “oggetti” della decretazione delegata (art.76 cost.)
diversamente dal decreto legge il decreto legislativo e fonte sub-primaria perché è atto di
secondo grado.
E ben precisare la differenza fra fonte sub-primarie, fonte di secondo grado e fonti secondarie.
Tra fonti sub-primarie e fonti secondarie la differenza attiene al regime giuridico, le une
appartenendo ad un rango diverso da quello proprio delle altre.
L’espressione “fonti di secondo grado”, invece, si usa, a prescindere dalla veste formale della
fonte, per indicare la complessità della procedura di formazione della fonte, che si articola in
due distinti stadi.
Nella versione originaria dell’art. 117 cost., allo stato era riconosciuta la capacità legislativa
generale, la norma elencando tassativamente soltanto le materie di competenza della potestà
legislativa Regionale. In dette materie spettava comunque allo Stato di emanare le ccdd. “ leggi
cornice”, o “leggi quadro”, cui la carta assegnava il compito di stabilire i “principi fondamentali”
che determinavano i limiti di esercizio della potestà legislativa regionale.
Il nuovo art. 117, detta in modo tassativo le materie di competenza legislativa Statale, ed
assegna la capacità legislativa generale alle Regioni. A mutare in maniera significativa non è la
quantità delle materie assegnate alla competenza di stato e regioni, che viene solo lievemente
variata in favore delle seconde ma, il titolo in base al quale i due soggetti in parola dispongono
della potestà legislativa; oggi questa spetta a titolo generale alle regioni, e non più allo stato.
Del resto il co.1 recita “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle Regioni nel rispetto
della cost., nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali.
Nel co. 2 sono elencate le materie di potestà esclusiva dello stato. Nel co. 3 sono elencate le
materie di potestà legislativa Regionale, con riferimento alle quali, però, “la determinazione dei
principi fondamentali” è comunque “riservata alla legislazione dello Stato”. Nel co. 4 il quale
detta la clausola di chiusura del sistema, chiarendo che qualsiasi materia non compresa fra
quelle del co. 2 e non menzionata nel co. 3 va comunque ricondotta nel novero di quella di
competenza Regionale ciò implicando la sussistenza della legislazione statale di principio.
4. Le fonti sub-primarie
La sub-primarietà di una fonte è data dalla forza che essa ha rispetto a quella primaria
corrispondente (avendo la stessa veste formale della fonte primaria)
La sotto-ordinazione è data dal fatto che la fonte primaria stabilisce i principi, ratio materie,
entro cui e possibile disciplinare una materia, in modo che se una fonte sub-primaria si discosti
da questi principi è illegittima.
possiamo annoverare tra le fonti sub-primarie Il decreto legislativo e la legger regionale
delegata (laddove se ne riconosce la ammissibilità)
Il decreto legislativo e fonte sub primaria perché e atto di secondo grado
La legge regionale vera e propria può definirsi come la tipica fonte sub-primaria, giacchè la sua
forza ridotta è intrinseca all’atto
Distinzione tra legge principio e legge delega:
La legge regionale può venire in vita a prescindere dalla legge di principio giacchè il fondamento
della potestà legislativa regionale è nella costituzione.
non è cosi per la legge delegata quest’ultima, infatti non può venire in vita senza il previo
intervento legislativo del parlamento.
L’art. 117 cost. al 2° co. Recita: lo stato ha potestà legislativa esclusiva nelle seguenti materie:
a)..; b)..; c)..; (quindi un elenco tassativo). Il 3° invece evoca l’idea di un elenco non tassativo
perché formalmente non è rappresentato alla stessa maniera.
Il 4° co. Invece non ci fa pensare che tutto quello che non è inserito nel 3° co., Non significa
che non è competenza della regione, perché è competenza della regione tutto quello che non è
dello stato.
L’orientamento interpretativo prevalente immagina una simmetria, di lettura dei quattro comma.
È proprio quest’ultimo sia legislazioni esclusiva delle regioni.
Un’altra tesi analizza come il 4° co. esplichi le competenze residuali e concorrenti delle regioni,
motivando tale tesi con due elementi: il primo è che la norma non esprime quella volontà, e
d’altro canto il legislatore costituzionale non la qualifica espressamente come esclusiva,
l’interprete che la ritiene tale deve giustificarlo, altrimenti deve dichiarare che non è esclusiva.
Dato che quando il legislatore l’ha voluta qualificare come esclusiva l’ha fatto (2 co. Art. 117
Cost.).
In definitiva, secondo quanto dichiara espressamente l’ultima frase del co. 3, la potestà
legislativa spetta alle regioni in maniera concorrente nelle materie ivi elencate, ma solo
indicativamente. Non v’è ragione che convinca a non estendere siffatta affermazione anche alle
materie residuali del 4° co.
In uno Stato regionale qual è il nostro, la legislazione delle Regioni fisiologicamente non può
esprimersi che nell’ambito dei principi stabiliti dalla legislazione statale, la quale è vocata per
natura a realizzare l’interesse generale della Nazione. Ora è vero che l’interesse nazionale
nell’originario art. 117 Cost. era formalizzato quale limite (non di legittimità, ma) di merito per la
legislazione regionale ed oggi non lo è più. Ma non si può pensare che nella realtà esso sia
svanito. L’interesse nazionale è ancora ben vivo e vegeto.
Ove si accolga la tesi secondo cui quella del co. 4 è legislazione concorrente, la fissazione di un
paradigma nella legge di principio consente, in luogo della risoluzione “politica” del conflitto ad
opera del Governo, la sua “giurisdizionalizzazione” dinanzi alla Corte (controversia che abbia ad
oggetto una disputa ermeneutica fra diverse Regioni, ovvero fra Governo e Regione) la quale si
limiterà ad applicare al caso concreto la sua interpretazione del principio posto in via preliminare
dalla legge.
Ove la potestà legislativa regionale del 4 co. fosse considerata come esclusiva, non spetterebbe
alla corte risolvere l’eventuale conflitto fra le Regioni mancando la legge di principio, si
difetterebbe del paradigma cui fare riferimento. In questo caso il problema si risolverebbe solo
mediante l’intervento del Governo.
Sorge il problema nel momento in cui si vuole analizzare dove trovi fondamento la potestà di
formazione secondaria. Vi sono tre diverse teorie:
Secondo una di esse il fondamento risiederebbe nella essenza si qualsiasi P.A. (ontologico).
Purché rispetti i limiti imposti dalla legge.
In base ad un’altra opinione sarebbe rinvenibile nella Costituzione art. 117
Stando alla terza opinione la potestà di normazione secondaria troverebbe fondamento in una
legge,quindi non potrebbe esercitarsi in mancanza di quest’ultima.
La prima tesi offre una ricostruzione incontrovertibile ovvero la capacità della P.A. di produrre
norme in quanto dotata di capacità giuridica e dal fatto che tutte le P.A. hanno la capacità di
auto-regolarsi.
È impossibile argomentare contro il dato espressamente sancito dalla cost. art 117 co. 6, dato
che parrebbe innegabile il fondamento costituzionale della potestà di normazione secondaria.
La terza tesi, che è sicuramente quella gerarchicamente più accolta, che vede risiedere nella
legge il fondamento della potestà di normazione secondaria. Dato che la capacità di regolare la
vita associata è riconosciuta in via immediata solo a quegli organi degli enti territoriali che sono
diretta proiezione del popolo sovrano i quali possono esprimerla tanto mediante legge quanto
atti normativi secondari. Le PP.AA. non affondano le loro radici nella investitura diretta, quindi
per poter esprimere capacità normativa necessitano della interpositio legislatoris (interposizione
legislativa).
I regolamenti possono classificarsi sulla base di vari criteri: quello del soggetto che li emana,
quello del loro oggetto e quello del rapporto con la legge.
Quello su cui bisogna concentrare l’attenzione e senz’altro quello del rapporto con la legge.
La potestà regolamentare può dirsi spettante a cinque diverse classi di soggetti: lo Stato, le
Regioni, le Autorità indipendenti, gli enti istituzionali, gli enti territoriali locali.
La disciplina positiva della tipologia dei regolamenti in base al rapporto con la legge è
canonizzata, ma solo per quanto concerne quelli governativi, dall’art 17 della legge 23 agosto
1988, n. 400
Al primo comma si legge: “ con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del
Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di stato che deve pronunziarsi entro 90
giorni dalla richiesta, possono essere emanati regolamenti per disciplinare: a) l’esecuzione delle
leggi e dei decreti legislativi (esecutivi); b) L’attuazione e integrazione delle leggi e dei decreti
legislativi recanti norme di principio (attuazione e/o esecuzione); c) Le materie in cui manchi la
disciplina da parte delle leggi o atti aventi forza di legge (indipendenti); d) L’organizzazione ed il
funzionamento delle PP.AA. secondo le disposizioni dettate dalla legge” (organizzazione).
Al secondo comma, poi, si legge: “ Con decreto del Presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di stato, sono emanati i regolamenti
per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla cost., per
le quali le leggi della repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del
governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione
delle norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari” (autorizzati).
L’art. 17 della L.400 usa come criterio classificatorio prevalente il rapporto che intercorre tra
legge e regolamento. I regolamenti di organizzazione di cui alla lett. d) co. 1 possono dirsi
“spuri” rispetto alle altre 4 specie, diversamente dalle altre, segnala un oggetto determinato –
L’organizzazione e il funzionamento delle PP.AA. – e non già un tipico rapporto fra legge e
regolamento
I regolamenti di esecuzione e i regolamenti di attuazione e/o integrazione hanno in comune il
rapporto “di sudditanza” con la legge. Si distinguono l’una dall’altra, essenzialmente, in ragione
della diversità della legge cui danno seguito.
Nel primo caso (esecuzione) la legge è di dettaglio, nel senso che essa lascia al normatore
amministrativo un compito di mera esecuzione delle sue disposizioni. È pur sempre un
esecuzione di carattere normativo, il che presuppone in capo al cd. esecutore, uno spazio, non
marginale, di creatività. È vero che si tratta di esecuzione ma si realizza pur sempre con un
regolamento dotato oltre alla generalità e astrattezza anche della capacità di rinnovare
l’ordinamento giuridico.
Nel secondo caso (attuazione e/o integrazione) la legge è di principio, nel senso che essa
preclude al legislatore di disciplinare in dettaglio la materia, dovendo lasciare al normatore
amministrativo una capacità di regolazione secondaria che, pur dovendo sottostare al dettato
legislativo, gode di uno spazio più ampio rispetto a quello dei regolamenti esecutivi: lo spazio in
cui potrà muoversi e riconosciuto dall’ordinamento. Questi regolamenti sono chiamati a dar
corso alla attuazione ed alla integrazione di leggi di principio.
La differenza fra regolamenti di esecuzione e regolamenti di attuazione e/o integrazione non si
percepisce sotto il profilo qualitativo, visto che entrambi trovano fondamento nella legge,
piuttosto sotto il profilo quantitativo, perché il campo di applicazione dei primi è più ristretto
rispetto a quello dei secondi, dal momento che quest’ultimi, essendo dotati di una capacità
normativa secondaria che si riferisce ad una legge di principio, vedono in capo al legislatore la
possibilità di disciplinare la materia nel dettaglio.
La differenza risulta ancora più evidente nel caso in cui i regolamenti si presentino (anche o
soltanto) come di integrazione, in questi casi si può dire che varia anche la qualità, giacché,
diversamente che nella ipotesi di sola attuazione (dove la legge ha dettato i principi
compiutamente) Il regolamento di integrazione completa la fonte primaria per quella parte della
materia che quest’ultima ha ritenuto di non disciplinare e quindi e rimasta “bianca”.
I regolamenti autorizzati sono previsti dal co. 2 dell’art.17 della L. 400/1988, secondo il quale
essi possono essere emanati soltanto nelle materie “ non coperte da riserva di legge assoluta
prevista dalla costituzione”. Si definiscono autorizzati proprio perché la legge autorizza il
normatore amministrativo ad emanare un regolamento (non un regolamento qualsiasi, giacché
la potestà regolamentare, pur trovando fondamento nella legge, non richiede una specifica
autorizzazione da parte di questa) dato dalla capacità di ridisciplinare una materia fino allora
oggetto di disciplina legislativa, anche modificando i contenuti regolativi della relativa fonte
primaria.
È evidente che tutto ciò rappresenti un anomalia dato che, almeno sotto al piano sostanziale, vi
è un sovvertimento dell’ordine naturale fra le due fonti.
Non lo è sotto al piano formale dato che il regolamento autorizzato, proprio perché tale, è stato
investito dalla legge di un particolare potere. È la legge che ha riconosciuto la possibilità di
disciplinare un dato oggetto conferendo al regolamento governativo un potere “straordinario”
naturalmente entro i limiti prestabiliti di volta in volta.
L’ipotesi in via prevalente e quella della cd. Delegificazione, nell'ordinamento giuridico italiano,
identifica un istituto, per lo più ritenuto coerente con i principi costituzionali, per cui la disciplina
di alcune materie non protette da riserva di legge assoluta è trasferita dalla fonte legislativa
primaria a quella secondaria, (come ad esempio un decreto ministeriale). Quel che accade è che
la legge in qualche modo “sveste”, per cosi dire, la regolazione di una data materia dell’abito
primario, per farlo indossare quello secondario. Con la delegificazione piuttosto che di delega al
governo, si tratta di ciò: che in quella materia al governo viene conferito il potere di emanare
regolamenti, che proprio perciò prendono il nome di regolamenti di delegificazione, le cui
disposizioni potranno sostituire la disciplina legislativa di quel settore.
Il rispetto del principio di legalità viene comunque garantito:
a) Perché il legislatore potrà sempre tornare sui suoi passi riappropriandosi della
disciplina di una materia consegnata al Governo.
b) Perché cosi la disciplina di quella materia non viene “sbiancata”, visto che, fino a
quando non sarà emanato il regolamento, la materia resterà disciplinata.
Nel caso di regolamenti in deroga la legge di autorizzazione non opera una vera e propria
delegificazione, consentendo bensì, ma solo in presenza di situazioni di gravità ed urgenza, la
emanazione di regolamenti capaci di derogare pro-tempore e in relazione ad un ambito
oggettuale definiti e circoscritti, alla disciplina legislativa vigente. Diverso è il caso della
legislazione suppletiva, che, evoca l’idea di una disciplina legislativa che supplisce, in
determinate circostanze, alla mancanza della disciplina regolamentare. Questa disciplina entra
in funzione solo laddove il soggetto che detiene la potestà secondaria sia inerte nell’esercitarla.
La lett. c) del primo comma dell’art. 17 della L. 400/1988 prevede i ccdd. “Regolamenti
indipendenti”, che possono essere emanati nelle materie prive di “disciplina da parte di leggi o
atti aventi forza di legge” e che non siano “ comunque riservate alla legge”. È importante capire
se norme secondarie che posseggano questa caratteristica siano ammissibili in un ordinamento
nel quale vige il principio di legalità.
Secondo parte della dottrina i regolamenti indipendenti non sarebbero ammissibili proprio
perché il nostro ordinamento è permeato da questo.
Secondo la dottrina maggioritaria il principio di legalità sarebbe rispettato visto che è proprio la
legge (l’art 17 co. 1, lett. c) a prevedere la possibilità di regolamenti indipendenti. La lett. c)
statuisce che è possibile emanare regolamenti indipendenti in materie nelle quali non c’è
copertura da parte della normazione primaria, materie “bianche”, le quali non devono essere
dalla cost. riservate alla legge.
Con la L. 400, sia i regolamenti indipendenti sia regolamenti autorizzati, assurgono al requisito
di “liberare” dalle maglie del legislatore materie che richiedevano una disciplina più snella e
facilmente adeguabile alle esigenze della realtà.
Quando si parla di deregulation si vuole intendere il fenomeno per il quale, con legge, viene
abrogata la legge che disciplina una data materia: cosi, di fatto, smettendo la sua regolazione,
si origina un vuoto di disciplina. La materia non risultando più disciplinata dalla legge e sempre
che non sia riservata alla legge, potrà essere disciplinata da un regolamento indipendente.
La previsione di regolamenti indipendenti sembra rappresentare un vulnus (ferita) per il sistema
proprio dello stato di diritto ispirato al principio di legalità. È questo il timore manifestato dai
sostenitori della legalità sostanziale dato che i regolamenti indipendenti rispettano il principio di
legalità formale (disciplina di riferimento) nella legge del 400/1988, ma non in senso sostanziale
dato che non vi è la regolazione dell’esercizio.
Bisogna interrogarsi sui rimedi dei quali si disponga nel caso in cui la norma di un regolamento
indipendente venga assunta come illegittima. Si pone un serio problema circa la effettività di
sussistenza del principio di legalità: il regolamento, essendo un atto amministrativo, è
sindacabile solo dinanzi al T.A.R., e non può essere tradotto dinanzi alla corte costituzionale; la
verifica della sua coerenza con la carta, che è attività propria della consulta, non può essere
realizzata. Perché non si tratta di atto formalmente primario; essa tocca dunque al giudice
amministrativo, non potendo rimettere l’atto al giudizio della corte, si deve limitare ad effettuare
la verifica di legittimità adoperando la costituzione come parametro; ma ciò si presenta in
concreto molto difficile, perché al giudice amministrativo è comunque precluso il giudizio di
costituzionalità, dovendo limitarsi a ricavare dalla carta i parametri di legittimità, senza poter
affermare che l’atto è incostituzionale.
Regolamenti di organizzazione che disciplinano l’organizzazione dei pubblici uffici deve sempre
esser presente una legge che detti i principi fondamentali entro i quali possa esplicarsi la
potestà regolamentare. Possono manifestarsi in una qualunque delle fonti che abbiamo
esaminato, fuorché in quella dei regolamenti indipendenti, essa conseguendo dal modo in cui,
di volta in volta, si atteggia la legge: se questa è di legge di “dettaglio”, il regolamento di
organizzazione sarà di mera esecuzione: se, invece, si tratta di una legge “di principio”, esso
sarà di attuazione e/o integrazione; se, infine, la legge è “di delegificazione” il regolamento di
organizzazione sarà del tipo autorizzato.
Per ente pubblico si intende una persona giuridica di diritto pubblico. L’ordinamento assegna ad
ogni ente pubblico una “quota” di potere giuridico, denominata “attribuzione”: in tal senso l’ente
pubblico può essere definito “centro di potere”. L’ente pubblico e caratterizzato dall’autarchia la
quale in senso giuridico non significa autosufficienza, bensì capacità riconosciuta agi enti
pubblici diversi dallo stato di esprimersi mediate provvedimenti amministrativi nel regime
giuridico equiparati a quello dello stato.
La legge assegna una o più competenze agli organi dell’ente. L’organo, pertanto, viene definito
come “centro di competenze”.
Gli organi non sono dotati di personalità giuridica e si qualificano come strutture organizzatorie
dell’ente alle quali si riconosce una certa soggettività giuridica interna, gli atti che un organo
assume al di fuori della sua competenza sono invalidi o illegittimi con la conseguenza che
l’interessato dovrà rivolgersi al G.A.
l’Ufficio consiste nel complesso di beni, mezzi e persone funzionale allo svolgimento dell’attività
dell’organo. La differenza tra organo ed ufficio è ben resa in esempio da quella che passa fra
Prefetto è Prefettura: il primo è l’organo il secondo è l’ufficio.
Mentre all’organo sono dalla legge assegnate le competenze per emanare atti amministrativi;
all’ufficio sono assegnati compiti strumentali all’esercizio delle diverse competenze dell’organo.
L’ufficio ha una competenza assai circoscritta, senza quest’ultimo la P.A. non potrebbe esistere
giacché grava su di essi la più copiscua mole dell’azione che questa compie come la
“preparazione” degli atti amministrativi o lo svolgimento degli innumerevoli compiti “operativi”
sovente connessi alla erogazione di servizi pubblici. Quindi non bisogna confondersi e utilizzare
il termine organo come sinonimo di ufficio in merito alla titolarità del potere di emanare atti
amministrativi, che è propria soltanto di una figura non dell’altra: tecnicamente, l’atto non è del
Ministero, bensì del Ministro. È l’organo che manifesta la volontà dell’ente all’esterno e non
l’apparato di uffici che è strumentale al funzionamento dell’organo. Naturalmente sembra
indiscutibile che il Ministro non è in grado di operare senza giovarsi del supporto dell’intero
apparato Ministeriale, sovente composto da innumerevoli uffici.
Si può procedere ad una classificazione degli enti, ciò che può farsi sulla base di diversi criteri. I
più significativi sono:
a) La necessità,o meno, della loro esistenza. Si distinguono enti necessari da quelli non
necessari, il discrimine risiedendo nella inevitabilità, o meno, della loro esistenza secondo
quanto prescritto dall’ordinamento.
b) La diversità di configurazione strutturale che gli enti pubblici assumono in relazione alle
modalità organizzative di rappresentazione degli interessi, la tipologia dei quali si differenzia
a seconda che tali interessi siano individuati da un loro organo legittimato ad esprimere la
volontà della generalità dei cittadini che si rappresenta nell’ente. Si distinguono gli enti a
struttura associativa dagli enti a struttura istituzionale i primi, esponenziali degli interessi
facenti capo alle comunità territoriali, godono di una struttura realizzativa data dai cittadini
mediate elezioni. Diversamente dai secondi vedono gli interessi che devono perseguire
etero-definiti dall’ordinamento.
c) I fini che perseguono, se generali o particolari. Si distinguono gli enti a fini generali dagli
enti a fini particolari. Si dice ai fini generali l’ente che, in ragione della sua investitura
democratica da parte dei destinatari della sua azione, è riconosciuto dall’ordinamento
titolare della capacità di interpretare i bisogni, finalizzandoli in interessi pubblici da
perseguire. Per converso è a fini particolari l’ente abilitato a realizzare esclusivamente quelli
ad esso assegnati da una fonte dell’ordinamento, anche a prescindere dalla eventuale
esponenzialità democratica dei propri organi.
Distinguiamo, inoltre, gli enti territoriali, enti locali e enti istituzionali.
Un ente territoriale è un ente pubblico che ha tra i suoi elementi costitutivi il territorio, il quale
non rappresenta soltanto la delimitazione del raggio d’azione dell’ente ma la stessa base su cui
l’ente medesimo si radica: L’ente territoriale trova cioè nel territorio l’elemento che ne connota
l’essenza, nel senso che la comunità stanziata su di esso si proietta nelle istituzioni proprio per il
tramite dell’ente. L’ente territoriale è esponenziale, rappresentativo, si fa portatore di tutti gli
interessi potenzialmente ascrivibili a quella comunità. La costituzione, nell’indicarli
nominativamente (Comuni, province, Città metropolitane, Regioni e Stato), li qualifica come
costitutivi delle Repubblica (art.114) e li riconosce dotati di autonomia di indirizzo politico-
amministrativo.
Nel seno della categoria vanno differenziati gli enti locali (Comuni, Province e Città
metropolitane) che rappresentano la sovranità territoriale stanziata su un territorio
perseguendo interessi pubblici propri di tale circoscrizione, presentano alcuni connotati
peculiari, il principale fra i quali è senz’altro il non essere dotati della potestà legislativa ma
hanno un’’autonomia politico-amministrativo ovvero la capacità di autodeterminazione e
autoregolazione e la potestà regolamentare direttamente riconosciuta dalla costituzione art 117
co. 6 che recita: i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in
ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. (per
funzioni vedi capitolo 4 par.3)
Infine sono dotati di autarchia propria che è la caratteristica degli enti diversi dallo Stato di
disporre di potestà pubbliche e consiste nella capacità, propria degli enti pubblici, di
amministrare i propri interessi svolgendo un'attività amministrativa avente gli stessi caratteri e
la stessa efficacia giuridica di quella dello Stato.
Viceversa, gli enti istituzionali, che non hanno il territorio quale elemento costitutivo, sono
vocati (nati) al perseguimento di interessi particolari, definiti in via eteronoma da essi
(eteronoma che riceve da fuori di sé la norma della propria azione), e cioè da una fonte
dell’ordinamento diversa dai regolamenti emanati dai medesimi enti. Possiamo analizzare alcuni
fra i più importanti:
1. Gli enti pubblici economici, persone giuridiche pubbliche che svolgono attività
d’impresa nell’interesse dello stato o di altro ente territoriale
2. Gli enti privati di interesse pubblico, che sono privati per nascita o per
trasformazione di enti pubblici. Sono soggetti alla vigilanza dello stato e possono
beneficiare di sovvenzioni o esenzioni tributarie.
Anzitutto occorre chiarire che il rapporto organico non è un rapporto dato che un rapporto
richiede l’esistenza di due distinti soggetti che entrano in relazione tra di loro.
È molto diffuso in dottrina che il rapporto organico intercorra fra l’organo è l’ente, e ciò sia che
si consideri l’organo come la persona fisica che lo incarna, sia che lo si consideri come un’entità
oggettiva, a prescindere dalla persona fisica.
In realtà la più corretta qualificazione della “ situazione” che stiamo analizzando è quella di
immedesimazione organica ovvero la persona fisica che opera per la P.A. si immedesima con la
P.A., imputandosi a questa direttamente l’intero agire e le relative conseguenze. Equivoco nel
quale si corre il rischio di cadere, accogliendo l’opinione della dottrina prevalente, consiste nel
circoscrivere il ragionamento appena riferito alla sola “situazione” dell’organo, cosi escludendo,
l’ufficio. Viceversa, l’immedesimazione organica ricorre sempre, con riguardo a tutte le persone
agenti per una P.A., tanto che siano predisposte ad un organo e svolgono attività giuridica,
quanto che siano addette ad un ufficio e svolgono attività materiali. Il rapporto organico nasce
con l’instaurazione del rapporto di servizio che è un vero e proprio rapporto giuridico e si
determina concretamente con l’assegnazione della persona fisica all’organo o all’ufficio.
Insomma, ben può dirsi che l’immedesimazione organica costituisca una fictio, che consente di
spiegare come e perché agisce la persona giuridica ente pubblico: esiste un solo soggetto,
l’ente, le cui attività giuridiche ed operazioni materiali sono manifestate da tutte le persone
fisiche che operano per esso.
Il rapporto di servizio si caratterizza per la biunivocità della prestazione, alla prestazione del
dipendente corrisponde una prestazione dell’ente dal quale quello dipende, e dunque abbiamo
una serie di prestazioni e controprestazioni, una logica chiaramente sinallagmatica, diritti e
doveri reciproci, due soggetti giuridici ( la P.A. e il suo agente)
6.2. La responsabilità civile della P.A. nei confronti dei terzi e le conseguenze
derivanti della teoria della immedesimazione organica
Con l’avvento della teoria della immedesimazione organica, gli atti e i fatti compiuti dei preposti
agli organi, ovvero dagli addetti agli uffici, di una P.A. si considerano, invece, imputati a
quest’ultima a quest’ultima. Da ciò consegue che la P.A. sia direttamente responsabile per tutti
gli atti e i fatti che abbiano cagionato a terzi un danno ingiusto compiuti dalle persone fisiche
che agiscono per essa.
Secondo l’ordinamento italiano, la P.A. ed i suoi agenti, dei danni cagionati a terzi, sono
civilmente responsabili in maniera diretta e solidale.
Diretta per l’effetto dell’immedesimazione, in virtù della quale il soggetto agente nello svolgere
le attività proprie dell’organo o dell’ufficio presso cui è incardinato, impersona, è, quella P.A.
Solidale ciò significa che il terzo danneggiato, per il risarcimento, può convenire in giudizio, in
alternativa o congiunta, ma non cumulativa, tanto l’agente che ha compiuto l’attività, quanto la
P.A. cui quella attività è imputata. Naturalmente, nella pratica, accade, più frequentemente che
il danneggiato scelga di citare in giudizio la P.A., essendo fra i due il soggetto più solvibile.
Ove manchi l’immedesimazione non può imputarsi nessuna responsabilità della P.A. Orbene,
quando l’agente della P.A., abbia operato con colpa grave o dolo essa debba considerarsi
insussistente: nei casi in cui l’elemento psichico dell’agente si presenta nelle menzionate forme
infatti, è come se l’immedesimazione fosse stata recisa. Laddove si dimostri che sussista colpa
grave o dolo in capo all’agente, la P.A. dovrà farne denuncia alla procura della Corte dei conti,
perché si instauri un giudizio per danno erariale. Solo all’esito la P.A. potrà rivalersi di quanto
abbia corrisposto al terzo.
La P.A. risponde sia dei comportamenti tenuti sia degli atti emanati dal suo agente.
In entrambi i casi la P.A. potrà rivalersi ex art 2043 solo dopo che venga accertato:
che si sia verificato un fatto illecito
che questo sia stato determinato da un comportamento dell'agente
che vi sia un nesso di causalità fra il danno patito dal terzo ed il fatto illecito
Ora, con riguardo ai comportamenti tenuti dall'agente della P.A. l'applicazione del principio non
implica significative difficoltà.
La questione è diversa con riguardo agli atti amministrativi emanati.
Infatti, come detto poco sopra, affinché sussista la responsabilità ex art. 2043, occorre che si
sia verificato un fatto illecito, e l'atto amministrativo di per sé, può essere inesistente o nullo (e
in tal caso non servirà chiederne l'annullamento perché è come non esistesse), oppure
illegittimo (potrà essere richiesto l'annullamento al giudice amministrativo), ma mai illecito.
Come dice Sandulli, un atto amministrativo secundum jus ovviamente non è mai illecito, mentre
se contra jus, può essere invalido in ordine a quegli effetti ma non illecito.
L'illiceità si avrà sempre e solo in relazione al comportamento tenuto dall'agente, che sarà
appunto illecito quando darà esecuzione ad un atto illegittimo.
L’organizzazione amministrativa dello stato richiama alla mente la figura di un tronco di cono,
la cui sezione superiore corrisponde al governo che è composto dal presidente del consiglio e
dei ministri, che costituiscono insieme il consiglio dei ministri.
Ciascun ministro è al vertice di un apparato organizzatorio appunto chiamato Ministero.
al presidente del consiglio fa capo l’apparato organizzatorio che prende il nome di presidenza
del Consiglio dei Ministri
È nel Governo – la più alta espressione del potere esecutivo, e dunque dello stato –apparato –
che prendono “veste” amministrativa le scelte politiche assunte dallo stato-comunità questo
identificandosi a livello nazionale nel parlamento il quale rappresenta il primo segmento della
“linea di trasmissione” del potere Popolo – Parlamento – Governo.
I ministri hanno una doppia natura: sono ad un tempo organi politici ed organi
amministrativi,sotto quest’ultimo profilo essendo posti a capo dei rispettivi ministeri (detti anche
dicasteri). Non v’è una disciplina omogenea per la fisionomia organizzativa dei Ministeri
presentandosi differenziata in ragione dei diversi compiti che ciascuno di essi è chiamato a
svolgere. In via generale può dirsi che detta fisionomia si disponga secondo un modello
piramidale, ogni dicastero componendosi di una struttura centrale e di una struttura periferica:
gli organi facenti capo all’una ( struttura centrale esercitano le proprie competenze a livello
nazionale) e all’altra ( struttura periferica svolgono le proprie attività in ambito territoriale
prevalentemente Provincia) sono fra di loro in rapporto di dipendenza gerarchica.
a) La struttura centrale. Al vertice della piramide è collegato Il Ministro. Normalmente, il
Ministro è coadiuvato da uno o più Sottosegretari di Stato che esercitano i compiti ad essi
delegati con decreto del Ministro. Nel esercizio delle sue funzioni il ministro è altresì assistito da
alcune strutture organizzative di staff, i ccdd. Uffici di diretta collaborazione con il Ministro. Detti
uffici operano esclusivamente con compiti di supporto all’organo di direzione politica e di
raccordo tra questo e gli organi di amministrazione attiva, con ciò l’ordinamento rispondendo
espressamente alla “necessità di impedire” che essi svolgano “attività amministrative rientranti
nelle competenze dei Dirigenti ministeriali”.
La struttura organizzativa centrale di line può seguire due diversi modelli: quello basato sul
Segretariato generale e quello basato su dipartimenti. In entrambe le circostanze, peraltro, essa
è articolata in Direzioni: nel primo modello, queste sono sempre qualificate generali perché
costituiscono le “strutture di primo livello”, e fanno capo al segretario generale; nel secondo,
invece, sono qualificate a volte generali, a volte centrali, e fanno capo ai Dipartimenti. La
direzione è costituita da uffici dirigenziali non generali a loro volta formati da uffici, per cosi
dire, “semplici”. Essa ha rappresentato per lungo tempo e tuttora rappresenta la vera e propria
struttura “portante” dell’amministrazione centrale, quale che sia il modello della sua
organizzazione. Nonostante, in ciascun Ministero sono presenti più direzioni. Al loro vertice è
posto un direttore il quale esercita le competenze che le diverse fonti gli attribuiscono, a
cominciare dal potere di impartire agli organi gerarchicamente subordinati ordini e direttive.
Laddove la struttura centrale si disponga secondo il modello del Segretariato generale v’è
l’ufficio del segretario generale a capo del quale è posto il Segretario generale. Quest’ultimo
“opera alle dirette dipendenze del ministro” cui e legato da un rapporto di tipo fiduciario, la
legge prevedendo che egli “assicura il coordinamento dell’azione amministrativa; provvede
all’istruttoria per l’elaborazione degli indirizzi e dei programmi di competenza del ministro; vigila
sulla loro efficienza e rendimento e ne riferisce periodicamente al ministro”.
Con l’attuazione della riforma dei Ministri disegnata dalla prima “legge bassanini” ad opera del
D.Lgs. 300 /1999, il modello testé descritto è diventato progressivamente recessivo, in sua vece
affermandosi una tipologia organizzatoria che individua nei dipartimenti gli uffici dirigenziali di
primo livello.
I dipartimenti sono soluzioni organizzative che di regola vengono adottate quando ci si trovi di
fronte alla assegnazione di materie molto ampie e talvolta eterogenee, all’interno delle quali è,
pero, possibile distinguere alcune grandi “aree funzionali”.(ovvero di policy).
Dal punto di vista gerarchico, il Dipartimento è un ufficio sovraordinato alle direzioni. Dal punto
di vista funzionale, il Capo del Dipartimento è titolare di competenze vastissime, esse
coincidendo con i “compiti finali” riguardanti l’area di spettanza, nonché con i “relativi compiti
strumentali, ivi compresi quelli di indirizzo e ordinamento delle unità di gestione in cui si
articolano quelli di organizzazione e quelli di gestione.
A ciascuna struttura di primo livello deve essere preposto un funzionario con la qualifica di
Dirigente generale. Anche alle Direzioni che non siano strutture di primo livello possono essere
predisposti dirigenti generali, ma ciò non è necessario, essendo richiesta la qualifica di dirigente
centrale.
Merita attenzione uno specifico Dipartimento del Ministero dell’economia e delle finanze, quello
della Ragioneria generale dello Stato, cui sono rimessi compiti di coordinamento, supporto e
controllo delle politiche, dei processi e degli adempimenti di finanza pubblica. Al dipartimento
fanno capo gli Uffici centrali del bilancio operanti presso i singoli Ministeri con portafoglio. La
Ragioneria deve garantire la corretta gestione e la rigorosa programmazione delle risorse
pubbliche. Il controllo della Ragioneria si differenzia da quello della corte dei conti, giacché,
mentre quest’ultimo è svolto nell’interesse dell’ordinamento generale quello della Ragioneria è
funzionalizzato agli scopi propri delle amministrazioni cui è servente.
b) La struttura periferica laddove questa è presente costituisce la base della piramide
organizzatoria dell’apparato ministeriale.
In linea generale può dirsi che i ministeri dispongano anche di strutture decentrate,
convenzionalmente definite periferiche, presenti sull’intero territorio nazionale, la cui esistenza
è, forse, la principale conseguenza, all’interno dell’amministrazione statale, dell’attuazione del
principio del decentramento amministrativo, consacrato nel art.5 cost.
La struttura periferica esercita le proprie competenze in un ambito territorialmente limitato, la
cd. “circoscrizione territoriale”, la cui ampiezza per la gran parte delle materie, normalmente
corrisponde a quella della circoscrizione della Provincia o della Regione.
Fra gli organi periferici dell’apparato ministeriale merita particolare attenzione il Prefetto, che
può ben definirsi la storica articolazione del Ministero dell’interno in ambito provinciale, esso
costituisce funzionalmente il ganglio periferico dell’intera compagine governativa sul territorio di
ciascuna Provincia. A seguito della riforma cost. del 2001 dispone che “ in ogni Regione a
statuto ordinario il prefetto preposto all’ufficio territoriale del governo avente sede nel
capoluogo della Regione svolge le funzioni di rappresentante dello Stato per i rapporti con il
sistema delle autonomie”. Inoltre la il D.Lgs. 300/1999 prevede che il prefetto possa “
richiedere ai responsabili delle strutture amministrative periferiche dello Stato l’adozione di
provvedimenti volti ad evitare un grave pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla cittadinanza
anche ai fini del rispetto della leale collaborazione con le autonomie territoriali”, e, in caso di
inerzia da parte di queste, assumere direttamente i provvedimenti in parola.
I ministeri possono svolgere i compiti attribuiti dalla legge attraverso Agenzie ministeriali, e cioè
esterne alla organizzazione strictu sensu ministeriale, ma ad essa funzionalmente collegate. Di
regola, le Agenzie sono chiaramente a compiere, in virtù di apposite convenzioni “attività a
carattere tecnico-operativo di interesse nazionale” in origine esercitate da ministeri o da enti
pubblici. Normalmente le Agenzie ministeriali non hanno personalità giuridica ma soltanto una
spiccata soggettività giuridica. La legge, peraltro, dispone che esse siano sempre sottoposte al
potere di indirizzo e di vigilanza del ministero, nonché di controllo della Corte dei conti.
sogliono distinguersi quelle Agenzie che difettano della aggettivazione qualificativa “ministeriali”
, anche se pare davvero ingiustificata una siffatta distinzione, le quali sembrano riassumersi
nella loro genesi.
Il perseguimento e la realizzazione degli interessi pubblici che l’ordinamento affida alla cura
dello stato amministrazione, oltre che per mezzo delle strutture ministeriali e delle diverse figure
soggettive sin qui analizzate può compiersi anche per il tramite degli enti istituzionali, il cui
insieme costituisce la parte più rilevante delle strutture “parallele” dello stato. Detti enti vanno
tenuti rigorosamente distinti da quelli territoriali . Quest’ultimo è un ente pubblico che ha tra i suoi
elementi costitutivi il territorio, il quale non rappresenta soltanto la delimitazione del raggio d’azione
dell’ente ma la stessa base su cui l’ente medesimo si radica: L’ente territoriale trova cioè nel territorio
l’elemento che ne connota l’essenza, nel senso che la comunità stanziata su di esso si proietta nelle
istituzioni proprio per il tramite dell’ente. L’ente territoriale è esponenziale, rappresentativo, si fa
portatore di tutti gli interessi potenzialmente ascrivibili a quella comunità sono enti esponenziali di tutti gli
interessi potenzialmente ascrivibili alla comunità stanziata sul territorio, che rappresenta la base su cui
radicano, l’elemento che ne connota l’essenza: di qui la loro qualificazione come enti ai fini generali, fini
che essi, in virtù della investitura democratica, formalizzano in interessi pubblici da perseguire.
Diversamente, gli enti istituzionali che non hanno il territorio quale elemento costitutivo, sono vocati
(nati) al perseguimento di interessi particolari, definiti in via eteronoma da essi (eteronomia significa che
riceve da fuori di sé la norma della propria azione), e cioè da una fonte dell’ordinamento diversa dai
regolamenti emanati dai medesimi enti. Gli enti istituzionali possono ragionevolmente esser distinti
in strumentali e ausiliari, a marcare la differenza tra i due diversi fenomeni che essi
rispettivamente incarnano, rappresentati, nel primo caso dal decentramento autarchico e, nel
secondo, dal policentrismo autarchico.
Il decentramento e il policentrismo autarchici vanno ascritti entrambi all’affermazione della
versione “sociale” dello stato di diritto democratico ed alla conseguente crescita dei compiti di
welfare che l’ordinamento,ancorché in forme diverse, ha ritenuto via via, di volta in volta,
meritevoli di tutela. L’aumento dei compiti pubblici ha storicamente generato, per la
insufficienza dell’apparato stricto sensu statale a farvi fronte, per un verso, la creazione di
soggetti pubblici diversi dallo stato, e, per un altro, la trasformazione in soggetti pubblici di
soggetti privati già esistenti nella società civile e svolgenti compiti divenuti pubblici.
In particolare , si qualifica come “decentramento autarchico” il fenomeno della creazione, ad
opera della legge, di enti istituzionali strumentali. Questi pur vantando l’autonomia
amministrativa che gli deriva dalla personalità giuridica, conservano tuttavia una relazione di
“dipendenza” rispetto allo stato.
In definitiva, la nascita di un ente strumentale può dirsi conseguire alla acquisita
consapevolezza, da parte del legislatore, della necessità che “nuovi” compiti pubblici – non
adeguatamente perseguibili, per motivi diversi, dall’apparato amministrativo strictu sensu
statale – richiedano la creazione di figure soggettive dotate di personalità giuridica alle quali
affidarne la cura. L’ente strumentale e pertanto ab origine dotato di potestà pubblica
(autarchia), potestà che la legge preleva dal patrimonio “genetico” dello stato per trasferirla ad
una figura pubblica di nuova istituzione, la cui soggettività ed il cui regime giuridico vengono
resi, perciò, in tutto e per tutto identici a quelli dello stato. La Legge 10 marzo 1975, n 70, che
dispose la soppressione di molti enti pubblici, provvide ad offrire, in una tabella allegata, una
catalogazione di quelli superstiti, secondo le seguenti sette”categorie omogenee” di enti: 1) che
garantiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza; 2) di assistenza generica 3) di
promozione economica 4) preposti al servizio di pubblico interesse 5) preposti ad attività
sportive, turistiche e del tempo libero; 6) scientifici di ricerca e sperimentazione; 7) culturali e di
promozione artistica. La catalogazione fa perno sulle materie oggetto dell’attività degli enti, a
prescindere dalla caratterizzazione di questi quali strumentali o ausiliari.
Fra quelli catalogati dalla tabella sembrano potersi iscrivere nel novero degli enti strumentali:
L’istituto della previdenza sociale (INPS); l’istituto nazionale assicurazione contro gli infortuni del
lavoro (INAIL); istituto nazionale per il commercio estero (ICE).
Si qualifica, invece, come policentrismo autarchico il fenomeno per cui la legge riconosce, quali
enti istituzionali ausiliari, preesistenti persone giuridiche di diritto privato che agiscono per la
realizzazione di attività considerate particolarmente meritorie dal Legislatore al punto da
acquisirle nel novero dei compiti pubblici. Quindi in questo caso anziché costituire organi ad
hoc, la legge considera più opportuno “fagocitare” (assimilare qualcosa) nell’orbita pubblicistica,
cosi attribuendo loro potestà pubbliche, soggetti giuridici di diritto privato già operanti nella
società civile per il perseguimento di fini sociali, la cura dei quali viene riconosciuta di interesse
pubblico.
Ciò non esclude che la pubblicizzazione, sia comunque realizzabile con il consenso del soggetto
privato. Inoltre, deve esser chiaro che il privato, anche laddove si manifesti neghittoso verso la
pubblicizzazione, nel caso in cui l’esercizio della sua libertà non fosse economicamente
autosufficiente, esso reclamando il sostengo finanziario pubblico, dovrà sì rassegnarsi a
sopportare l’intervento di pubblicizzazione.
L’ente ausiliare non è dotato di autarchia in via originaria, esso avendo ricevuto vita giuridica
prima della qualificazione pubblicistica, acquisendo la capacità si diritto pubblico solo al
momento della “fagocitosi”.
nell’ambito della tabella allegata sembrano potersi collocare fra gli enti ausiliari: l’associazione
italiana della croce rossa (CRI); l’automobile club Italia (ACI); il club alpino italiano (CAI).
Fra gli enti ausiliari sembra più corretto collocare anche quelli che, in qualche modo,
“entificano” gruppi sociali rappresentandone istituzionalmente gli interessi e le finalità.
Quest’ultime, infatti, seppur non possa dirsi che siano, di per se, necessariamente proprie dello
Stato, sono state dal legislatore considerate di indubbio rilievo generale e perciò, meritevoli
d’esser qualificate come pubblici: è dunque siffatta considerazione a determinare l’attribuzione
di potestà pubblica in capo agli enti in parola. Ne sono l’espressione antonomastica le camere
di commercio e gli ordini ed i collegi professionali
Una prima ragione della nascita del fenomeno delle autorità amministrative indipendenti va
individuata nella moltiplicazione degli interessi pubblici e negli effetti che detta moltiplicazione
ha prodotto sul piano dei compiti che le P.A. svolgono. È opinione ampiamente condivisa che la
tradizionale tipologia organizzatoria rappresentata dall’ente pubblico sia sempre più recessiva
essendo stato soppiantato da nuove figure.
“La funzione amministrativa in senso tecnico” copre ormai, sul piano quantitativo, la parte
minore dell’insieme delle attività svolte dalla P.A. ad essa essendo richiesto, in via prevalente,
da un canto, di operare materialmente al fine di conseguire “risultati” tangibili; e, dall’altro di
disciplinare l’attività dei privati rivolta a realizzare scopi sociali e di controllare che questa sia
stata effettivamente e correttamente svolta.
Possiamo elencare una serie di figure riconducibili alla categoria delle Autorità amministrative
indipendenti:
a) La banca d’Italia la cui attrazione nel novero delle autorità e assai discussa. Nata come
istituto di emissione monetaria con la L. 10 agosto 1893 n.449. la banca oggi svolge
compiti importanti come: regolamentazione del mercato valutario e controllo del settore
del credito volti ad assicurare la stabilità monetaria.
b) La commissione nazionale per la società e la borsa (CONSOB) opera per la tutela degli
investitori e per l’efficienza e la trasparenza del mercato mobiliare, vigilando sui prodotti
oggetto di investimenti.
c)Il Garante per la protezione dei dati personali, più noto come Garante per la tutela della
privacy. Il suo compito principale e quello di assicurare che il trattamento dei dati
personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità
dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza e all’identità personale e al
diritto alla protezione dei dati personali.
Quanto alla soggettività giuridica delle diverse figure sembra poteri dividere in tre classi di
figure giuridiche:
1.Quelle che sono senza alcun dubbio persone giuridiche, e quindi entità distinte dallo
stato-persona, per espressa qualificazione dell’ordinamento: è il caso della Banca d’Italia
o della Consob.
2.Quelle per le quali la qualificazione normativa, seppur non espressa, appare implicita
giacché le norme che disciplinano la struttura paiano dotarle della piena soggettività
spettante alle persone giuridiche e il caso del garante della privacy
3.Quelle che sono prive di personalità giuridica che di conseguenza andrebbero riferite
all’ambito della personalità giuridica dello Stato-ente: è il caso della Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi.
Le funzioni attribuite sono quasi sempre di competenza dell’organo collegiale, e ciò malgrado il
relativo programma preveda anche, tra quelli posti al vertice della struttura, uno specifico
organo monocratico.
L’organo collegiale è costituito da un numero variabile di componenti, scelti tra persone di
specifica competenza ed esperienza e indiscussa moralità e indipendenza.
Sotto il profilo funzionale la legge attribuisce alle diverse figure in esame poteri amministrativi
in senso stretto, regolativi e giudiziari.
In via di massima può dirsi che la titolarità del potere normativo sia propria, di regola, delle
Autorità che svolgono compiti di regolazione di settori sensibili del mercato: di pensi, ad
esempio, alle potestà in esercizio delle quali l’Autorità per l’energia elettrica e il gas stabiliscono
tariffe, condizioni e modalità di esercizio delle attività di servizio.
Particolare rilievo rivestono i poteri giudiziari, in esercizio dei quali le autorità intervengono, in
posizione di terziarietà, a risolvere le controversie che possono insorgere nel loro settore. A
titolo esemplificativo può richiamarsi il potere dell’Autorità per le garanzie nelle
telecomunicazioni di disciplinare “ con provvedimenti le modalità per la soluzione non
giurisdizionale delle controversie che possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un
soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di
licenze tra loro”.
L’indipendenza è riconosciuta dalla dottrina come qualità distintiva e peculiare delle Autorità.
Detta indipendenza è ad un tempo, organizzativa e funzionale consentendo di disciplinare con
piena autonomia la propria organizzazione ed il proprio funzionamento con il solo limite della
legge. Per assicurare l’indipendenza delle autorità, la legge dispone di una serie di strumenti
utili a “proteggere” i titolari degli organi di vertice di ciascuna Autorità da possibili influenze
esterne. La gran parte di essi consiste nei meccanismi di nomina degli organi collegiali, nomina
che nella maggioranza dei casi, è di competenza del Parlamento.
CAPITOLO 4 – L’APPARATO AMMINISTRATIVO DEGLI ENTI
TERRITORIALI INFRAZIONALI
Art. 5 Cost. “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua
nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i
principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento”
La tesi che viene consacrata nella carta, affonda le radici nella cultura cattolica, dice che:
l’ordinamento giuridico italiano non può che essere costituito dal multiforme e variegato
universo delle autonomie territoriali, e questo anche in base a ragioni di ordine efficientistico.
Se questa tesi trova conforto nel dato residuale. 114 cost., sia nella sua versione originaria sia
nella sua versione attuale. Per altro verso, a sostegno della tesi secondo la quale la Repubblica
equivarrebbe a Stato-persona (quel concetto dottrinario del diritto costituzionale che identifica
lo stato come un'entità composta dai suoi organi funzionali, con i quali intraprende rapporti
esterni con gli altri stati e soggetti di diritto internazionale così come rapporti interni con i
soggetti che ne fanno parte).
Si fa notare che nella carta sono diffusi i punti in cui il termine viene indiscutibilmente usato in
questi significato. Ad esempio tutte le volte che si fa menzione di una “legge della
Repubblica” pare difficile dubitare che si voglia intendere la legge dello Stato.
La stessa corte costituzionale si è, nel tempo, pronunciata in modo non del tutto coerente,
manifestando una “elasticità” di orientamento che sembra proprio doversi far risalire alla incerta
dizione delle norme. Epperò (tesi del professore) la ragione più profonda di un approccio
favorevole alla lettura in chiave automatistica dell’ordinamento sembra risiedere nella
“interpretazione sistematica della Costituzione, sulla scorta della quale può ben dirsi che il testo
fondamentalmente, prefigurando [...] uno stato Regionale, qualifichi gli enti territoriali minori
come vere e proprie “cellule” costitutive del “tessuto” istituzionale generale, in quanto tali
dotate del medesimo patrimonio genetico cosi, da presentare, seppure su scala ridotta la
identica qualità strutturale e funzionale del tessuto” .
La Repubblica si riassume nella espressione pluralismo istituzionale (se il fenomeno viene
rimirato dalla prospettiva della sua distinzione rispetto a quello del pluralismo sociale, mettendo
cioè l’accento sulla circostanza che in questo caso si tratta di soggetti istituzionali, e non, come
in quello, di soggetti sociali) o automatismo (se lo si osserva sotto un profilo contenutistico, e
cioè considerando le qualità dei soggetti istituzionali che si caratterizzano per la loro autonomia
di indirizzo politico-amministrativo). E anzi, se non fosse cosi lungo, sarebbe più corretto
adoperare insieme le due qualificazioni, e parlare perciò di pluralismo istituzionale e
autonomistico.
In questa prospettiva ermeneutica si muove uno dei più significativi commenti all’art. 5. La
dottrina, che ha commentato all’inizio la costituzione, non ha conferito il rilievo che esso
meritava come norma guida della lettura di tutta la Costituzione, perlomeno quanto alla parte in
cui i principi di fondo debbono riflettersi sulle strutture dell’ordinamento. Esso è stato letto
invece prevalentemente attraverso la lente, e storica e giuridica, delle autonomie locali intese in
senso tradizionale, con conseguente mortificazione della carica davvero rivoluzionaria che ilo
testo normativo celava nelle sue espressioni.
come è noto, il titolo V Cost. è stato integralmente riscritto dalla L. cost. 3/2001, con cui si è
provveduto ad aggiornare l’impianto strutturale dei pubblici poteri, al fine di renderlo coerente
con le profonde trasformazioni socio-economiche della realtà contemporanea, senza mancare di
corrispondere ai valori di democrazia, libertà, uguaglianza e giustizia consacrati nella prima
parte della costituzione. Le norme in esso contenute che maggiormente interessano ai presenti
fini sono, insieme all’art. 114, l’art. 117, che dispone in ordine alla distribuzione della potestà
legislativa tra Stato e Regioni e, ancor più, l’art 118, che dispone in ordine alla titolarità della
potestà amministrativa in senso stretto.
Secondo la versione originaria del Titolo V, le regioni avevano potestà legislativa soltanto nelle
materie elencate nell’art 117, quelle non menzionate essendo attribuite alla potestà legislativa
residuale dello stato.
In questo quadro la potestà amministrativa era distribuita secondo il principio del “parallelismo”
delle funzioni. All’ambito materiale della potestà legislativa, cioè, corrispondeva quello della
potestà amministrativa: il soggetto istituzionale titolare del potere legislativo in una data
materia era altresì attributario, in quella stessa materia del potere amministrativo.
È opinione largamente condivisa in dottrina, e per certi versi anche dalla giurisprudenza, che la
riforma del Titolo V abbia prodotto una vera e propria “rivoluzione” nei rapporti tra Stato,
Regioni e autonomie locali.
Non meno rilevanti sono le novità concernenti il riparto della potestà amministrativa.
La potestà amministrativa in senso stretto (o proprio, che dir si voglia), la quale, secondo la
attuale formulazione dell’art. 118, almeno in via di principio, è dislocata in modo radicalmente
diverso dal passato: ed invero, viene abbandonato il principio del “parallelismo” fra potestà
legislativa e potestà amministrativa. Il nuovo testo, infatti, al co.1, così recita: “Le funzioni
amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurare l’esercizio unitario siano
conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”. Sembra palese riconoscere al Comune il ruolo di primo attore
nell’esercizio della funzione amministrativa, nelle relative materia di competenza. Può dirsi cioè
che il novero delle materie di competenza del comune risulta definitivamente ampliato: l’insieme
di queste, invero, nasce potenzialmente illimitato, e suscettibile di restrizioni soltanto a seguito
di motivate esigenze di unitarietà.
Il dettato costituzionale può dirsi sufficientemente chiaro in merito al metodo di azione, tale
metodo essendo ispirato alla sussidiarietà, da intendersi come principio che legittima gli
interventi sostitutivi soltanto dove occorra garantire “l’esercizio unitario” delle funzioni.
Il principio di differenziazione, stabilisce nell'attribuzione di una funzione amministrativa ai
diversi livelli di enti di governo (comuni - provincie - città metropolitane - regioni - stato) che si
debbano considerare le caratteristiche relative alle rispettive capacità di governo degli enti
amministrativi riceventi; queste sono caratteristiche demografiche, territoriali, associative,
strutturali che possono variare anche in misura notevole nella realtà del paese.
Il principio di adeguatezza, stabilisce che l'entità organizzativa che è potenzialmente titolare di
una potestà amministrativa, deve avere un'organizzazione adatta a garantire l'effettivo esercizio
di tali potestà; l'adeguatezza va considerata sia rispetto al singolo ente, sia rispetto all'ente
associato con altri enti, per l'esercizio delle funzioni amministrative.
Mentre al co. 1 dispone che, “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni” fatto salvo il
conferimento per esigenze di unitarietà. Il co. 2 sancisce che “I comuni, le Province e le città
metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. La poca chiarezza del testo e resa ancor
più evidente della disposizione dell’art. 117, co. 2, lett. p), in base alla quale è rimessa alla
legislazione esclusiva dello Stato la individuazione delle “Funzioni fondamentali di Comuni,
Province e Città metropolitane”
Secondo la tesi più accreditata le funzioni amministrative – in via di principio e in senso
generale – sono attribuite ai comuni dalla cost.,per essere poi, dalla stessa carta, distinte in:
a) Proprie e/o fondamentali, stabilite dalla legislazione esclusiva dello Stato
b) Conferite con legge statale regionale ai soggetti esponenziali dei livelli di governo
di raggio geografico più ampio (non esiste gerarchia tra enti territoriali si dice
“diverso ambito territoriale”).
Un contributo di chiarificazione è offerto dalla legge “La Loggia”, che, all’art. 2, co.1, nel
delegare il governo “ad adottare […] uno o più decreti legislativi diretti alla individuazione delle
funzioni fondamentali, ai sensi dell’articolo 117, 2 co. Lett. p), della Costituzione”, qualifica
come tali quelle “essenziali per il funzionamento di comuni, Province e città metropolitane
nonché per il soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità di riferimento”. Quindi la
differenza fra le due categorie consisterebbe in ciò: mentre le fondamentali sono “proprie” di
tutti gli enti territoriali di una stessa species, le proprie sono “proprie” di ciascun singolo ente
territoriale, esse indicando una proprietà, una caratteristica peculiare, che si risolve in quel
tratto antropologico che distingue Comune da Comune, Provincia da Provincia e cosi via.
Anche alla luce della “legge La Loggia” sembra si possa convintamente affermare che al
comune spetta la competenza generale (residuale) dell’esercizio della funzione amministrativa in
senso stretto, sempre che prima siano state:
a) Riconosciute (in via esclusiva dalla legge) le materie di cui ogni ente territoriale e
titolare perché “connaturate alle caratteristiche proprie”, e cioè quelle materie
“essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di
bisogni primari delle comunità di riferimento”, ad identificare le quali contribuisce “in via
prioritaria” la circostanza fattuale dell’esser queste, per tradizione amministrativa,
“storicamente svolte” da Comuni e Province
b) Conferite (dalla legge statale o regionale) le materie da attribuirsi a Province, Città
metropolitane, Regioni, Stato, all’unico scopo di “assicurare L’unitarietà di esercizio”
della funzione amministrativa
Quindi resta da analizzare come la legge statale e la legge regionale conferisce le
funzioni per “assicurare l’esercizio unitario”, ciò avviene con il principio di sussidiarietà
(entra con la legge 59/1997, La Bassanini dopodiché viene consacrata a livello
costituzionale con la L. cost. 3/2001.)
Nella sua accezione “verticale” postula che le istituzioni di raggio geografico più ampio vengano
considerate attributarie di un dato compito solo laddove quelle di raggio geografico minore non
siano strutturalmente in grado di assolverlo.
Se, da un, lato non v’è dubbio che il principio può costituire un efficace strumento per la
valorizzazione delle capacità delle autonomie territoriali, autonomie le quali possono dispiegare
tutte le loro energie per la cura degli interessi delle comunità di cui sono enti esponenziali, in ciò
rassicurate dalla “certezza”, in caso di difficoltà. Dell’intervento da parte del soggetto
sussidiante.
Dall’altro, non si può tralasciare di mettere in evidenza il rischio di una sua errata applicazione
lasciandosi inespressi il suo significato e la individuazione dei soggetti legittimati a
sussidiare,nonché dei modi, dei tempi e delle regole che ne giustificano l’intervento.
In definitiva (secondo il professore) affinché la sussidiarietà sia effettivamente veicolo di
crescita dell’autonomia territoriale, è necessario che si realizzino almeno tre condizioni:
a) Che i limiti dell’azione del soggetto sussidiante vengano preventivamente fissati
b) Che i potenziali soggetti sussidiati partecipano alla definizione degli standard e degli
obbiettivi della loro azione
c) Che il soggetto sussidiante, comunque, sia legittimato ad intervenire solo se è il
soggetto sussidiato a richiedere l’intervento
Nella sue accezione “orizzontale” il principio si applica ai rapporti fra il pubblico e il privato. È
evidente che l’essenza concettuale è la stessa: in entrambi i casi si tratta di una relazione, uno
dei soggetti della quale sussidia l’altro che non è in grado di svolgere i propri compiti.
Cambiano evidentemente i soggetti: nel primo caso, il rapporto ricorre fra soggetti istituzionali,
nel secondo il rapporto è fra un soggetto istituzionale e un soggetto privato, il primo
sostenendo il secondo perché più debole.
Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di
sussidiarietà.(art. 118, co. 4)
Non sembra cosi pacifico escludere che la sussidiarietà richiamata alla norma ex co 1 dell’art
118 sia quella verticale. Dato che:
a) Sul piano dell’interpretazione letterale, l’inciso “sulla base del principio di sussidiarietà” è
riferibile ai soggetti della frase (“Stato,Regioni,Città metropolitane, Province e Comuni) e
non al suo oggetto (“l’autonoma iniziativa dei cittadini”), cosi ripetendosi la regola dei
rapporti intersoggettivi istituzionali (sussidiarietà verticale)
b) L’art. 118 adopera l’espressione “principio di sussidiarietà” non si vede perché, in
assenza di espliciti riferimenti contrari, il significato da attribuirsi debba essere diverso
c) Sul piano dell’interpretazione sistematica l’autonomia dei cittadini è sancita dalla
costituzione come valore centrale dell’ordinamento, sicché il doverla favorire da parte
degli enti territoriali che compongono la repubblica cela a confermare l’intero impianto
costituzionale, e non certo a significare un sovvertimento del rapporto fra “pubblico” e
“privato” nel senso che il primo potrebbe intervenire solo ove non fosse in grado di farlo
il secondo anche perché ciò finirebbe per tradire il valore costituzionale del rinascimento
delle autonomie locali.
Le relazioni interorganiche sono quelle che intercorrono fra gli organi di uno stesso ente, e cioè
fra le figure titolari di competenze diverse all’interno della medesima attribuzione. Esse sono
disciplinate dal diritto e si connotano per il carattere della stabilità. A seconda di come la legge
disponga, possiamo classificare le relazioni interorganiche in due grandi categorie: le relazioni di
sovra-sottordinazione e le relazioni di equiordinazione.
Dobbiamo distinguere una gerarchia in senso stretto, che corrisponde a quella tradizionale, da
una gerarchia in senso lato, che rappresenta la relazione interorganica di gran lunga prevalente
nella P.A. contemporanea. Si preferisce utilizzare il termine sovra-sottoordinazione rispetto a
quello di gerarchia perché quest’ultima resta prerogativa organizzatoria dei soli apparati militari
o paramilitari.
Anche perché la locuzione sovra-sottoordinazione è in grado di comprendere entrambe le forme
di gerarchia.
Laddove la P.A è organizzata secondo il rapporto di sovra-sottoordinazione si presenta
strutturata in maniera piramidale dove all’apice vi è un organo sovraordinato e vi sono più
organi sottoordinati.
Si può dire che i poteri in capo all’organo sovraordinato sono numerosi e in certi casi anche
assai penetranti. In estrema sintesi essi consistono nella capacità di:
● Impartire ordini. Che vincolano in maniera puntuale e dettagliata gli organi sottoordinati
nello svolgimento delle loro attività;
● Emanare direttive, che hanno lo scopo di orientare le attività degli organi sottoordinati;
● Emanare atti di coordinamento dell’attività degli organi sottoordinati;
● Assicurare la sorveglianza degli organi sottoordinati, i quali possono, per ciò, essere
sottoposti a controlli, ispezioni o inchieste;
● Delegare una o più competenze agli organi sottoordinati;
● Decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti inopportuni emanati dagli organi
sottoordinati.
Una tale ampiezza ed intensità di poteri si verifica ormai soltanto in ipotesi marginali, e
segnatamente in quelle che abbiamo inteso qualificare di “gerarchia in senso stretto”.
Altrimenti, laddove – come è di solito - essi non assumano una tale ampiezza ed intensità, si
versa nella ipotesi della cd. “gerarchia in senso lato”
a) La gerarchia in senso stretto. Il modello della gerarchia in senso stretto risale
all’organizzazione della P.A. costituita sulle basi della cultura militare. Siffatto mozione
militare, et similia, e si caratterizza per la capacità di impartire ordini, capacità che, in un
certo senso, implica tutte le altre.
Esso comporta un rapporto assai stretto di sovra-sottoordinazione tra gli organi, tenuti
insieme in una struttura piramidale dal cui vertice si dipartono ordini per tutti gli altri: il
vertice è detentore dell’intera sfera di competenze, il cui insieme costituisce il potere, o
attribuzione, dell’ente. In questa ipotesi, dunque, l’attribuzione è come se non si
scomponesse in più competenze, anche se l’organo di vertice esercita il potere
attraverso varie articolazioni organizzatorie: la sua competenza, però. Assorbe in
qualche modo quella degli organi sottoordinati.
b) La gerarchia in senso lato. Ben diversa è l’intensità dei poteri in parola quando si versi
nelle ipotesi di gerarchia in senso lato, per le quali è normalmente – a meno che una
legge non lo preveda espressamente - escluso il potere di ordine.
Con il progressivo realizzarsi del processo di giuridicizzazione delle competenze, diventa invero
non più coerente una disciplina della organizzazione amministrativa improntata al modello
gerarchico per come esso era inteso in origine. La P.A. è regolata sempre più da norme
giuridiche che operano il riparto delle competenze in capo alle diverse articolazioni
organizzatorie.
L’art. 97 Cost. disponendo una riserva di legge relativa, in base alla quale le competenze sono
stabilite necessariamente dalla legge, la quale può anche lasciare un’amplissima discrezionalità
alla P.A. ma mai senza aver assegnato le competenze, cosi individuando, sia pur in maniera
astratta interessi pubblici specifici la cui cura in concreto costituisce di queste l’essenza. Nella
cura dell’interesse pubblico l’organo sovraordinato dispone “solo” (si fa per dire) del potere di
direzione: può indicare attraverso l’emanazione di direttive, l’obbiettivo da raggiungere e/o gli
scopi da perseguire, ma deve lasciare all’organo sottoordinato la facoltà di scegliere le modalità
e i tempi dell’azione volti a conseguire quei risultati.
Secondo una parte della dottrina le direttive, diversamente dagli ordini, possono essere
disattese sulla base di un’adeguata motivazione, ove cioè ne vengano adeguatamente, appunto,
esplicate le ragioni. Sembra però più condivisibile la tesi secondo cui esse abbiano comunque
un’efficacia vincolante, solo che a differenza degli ordini, lasciano in capo al destinatario un
significativo spazio di discrezionalità per la loro attuazione.
Laddove si tratti dei rapporti tra più organi equiordinati, il modello organizzatorio necessario per
mantenere l’unità del sistema si fonda essenzialmente sul potere di coordinamento. In queste
ipotesi, non essendoci la prevalenza di un organo sull’altro, la tenuta insieme del sistema non
può esser garantita attraverso l’esercizio del potere di ordine, né di quello di direttiva:
l’ordinamento stabilisce alcune prerogative in capo ad un organo, il quale, pur non essendo
sovraordinato, viene specificamente deputato dalla legge ad esercitare un’attività di
coordinamento.
In realtà sono due le forme in cui si esplica la funzione di coordinamento: o attraverso un
organo collegiale, oppure mediante conferimento, da parte della legge, ad uno degli organi
equiordinati del compito di mettere in campo tutte le attività necessarie per far si che le azioni
di ciascuno restino armonizzate con quelle degli altri.
Ove l’ordinamento predisponga a fini di coordinamento la figura dell’organo collegiale, l’esercizio
delle attività viene rimesso ad un corpo costituito da una pluralità di persone dotati di pari
attribuzioni, le quali debbano provvedervi in seduta comune attraverso una delibera. Esso si
esprime mediante atti che risultano dalla volontà della maggioranza dei suoi componenti. Per
questo è necessario esaminare le modalità, per cosi dire del suo funzionamento. Si pone la
questione del quorum, e cioè della percentuale dei componenti necessaria affinché un collegio
sia validamente costituito ovvero sia valida una sua deliberazione. Si parla di quorum strutturale
(o costitutivo) nel primo caso, per indicare, appunto, il numero dei componenti che devono
essere presenti affinché il collegio sia legittimamente costituito. Si parla di quorum funzionale (o
deliberativo) nel secondo caso, per indicare il numero dei componenti che devono essere
presenti affinché il collegio possa legittimamente deliberare
Ove l’ordinamento assegni ad uno degli organi da coordinare il compito relativo, questo dovrà
assumere tutte le iniziative idonee al fine di garantire la coerenza fra le diverse volontà, in
questo risiede il contenuto di siffatto potere, e cioè favorire il dialogo istituzionale, ad esempio
promuovendo intese o accordi, assumendo atti di indirizzo o concerto, e verificando poi che
siano stati effettivamente seguiti.
La regola costituzionale che restituisce il senso prevalente cui debbono essere ispirate le
relazioni fra enti territoriali è nella seconda disposizione del co. 2 dell’art 120 cost., il quale, nel
disciplinare i limiti del potere sostitutivo dello stato – da esercitarsi fra l’altro “quando lo
richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” – cosi afferma: “La legge definisce
le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.
La leale collaborazione è il vero cardine delle relazioni intersoggettive fra gli enti territoriali. E
ciò vale tanto che gli enti siano dello stesso livello di governo (Regione e Regione, Provincia e
Provincia), tanto che siano di diverso livello (Regione e provincia, Regione e comune).
Nelle relazioni fra enti di diverso livello, accanto a quelle di leale collaborazione (che riguardano
l’ipotesi in cui la relazione ha ad oggetto la cura di compiti sui quali il coinvolgimento degli enti
è, a dir cosi, “paritario”), vanno collocate anche quelle in cui agli enti territoriali l’ordinamento,
pur qualificandoli costituzionalmente autonomi, assegna un ruolo definibile, in qualche modo,
rispettivamente di “primizia” e di “sottoposizione”.
In questi casi la relazione può assumere tre diverse forme: la delega intersoggettiva,
l’avvalimento degli uffici, e la sostituzione.
La delega intersoggettiva ha ad oggetto le funzioni amministrative: l’istituto consiste nel
trasferimento della titolarità dei poteri, per l’esercizio di funzioni amministrative, da un ente ad
un altro. In particolare, essa ricorre nei rapporti tra Stato e Regioni e tra Regioni ed enti locali.
Non è pacifico che dopo la riforma costituzionale del 2001 la delega in parola sia ancora
praticabile. L’istituto, infatti, era previsto dall’originario art. 118 Cost. che esplicitamente al co. 3
recitava: “La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle
Province, ai comuni o ad altri enti locali”.
L’art 118 cost. novellato non fa più cenno ad esso. L’istituto è previsto dalla L.59/1997, tuttora
vigente, che lo include tra quelli mediante i quali si opera lo stabile trasferimento alle Regioni e
agli enti locali di funzioni e compiti amministrativi Statali nel rispetto del principio di
sussidiarietà.
Anche l’avvalimento degli uffici, mediante il quale un ente si serve degli uffici di un altro ente,
senza che ciò comporti il trasferimento di funzioni dall’uno all’altro, era previsto dall’art 118
Cost. prima della riforma del Titolo V: la novella non vi fa più cenno, cosi riproponendosi le
perplessità appena riferite a proposito della delega quanto alla sua persistente vigenza. Pure in
questo caso occorre ricordare che, come la delega, l’avvalimento è previsto dalla L. 59/1997.
Con riguardo alla sostituzione, essa si ha quando un soggetto (il sostituto),esercita competenze
proprie di un altro soggetto (il sostituito), operando in nome proprio e sotto la propria
responsabilità, anche se gli effetti si producono direttamente nella sfera giuridica del sostituito.
Ad essa si può ricorrere quando sia necessario che un ente sopperisca alla inerzia di un altro
ente (ad esempio, nel caso che quest’ultimo non ponga in essere un atto obbligatorio per legge,
o non svolga le funzioni amministrative ad esso conferite), e può essere esercitata
legittimamente solo previa diffida. Detta fattispecie e disciplinata dall’art.120 cost.
3.2. Le relazioni fra ente pubblico potere (territoriale) ed altri enti (istituzionali)
Il contenuto delle relazioni intersoggettive tra un ente pubblico potere e gli enti istituzionali che
ad esso fanno capo può essere definito di strumentalità strutturale, di strumentalità funzionale
ovvero di ausiliarietà.
La relazione di strumentalità strutturale di un ente ne confronti di un altro ente implica che il
secondo dispone di una serie di poteri di ingerenza (direttiva, di indirizzo, di vigilanza) nei
confronti del primo (ne sono esempi le aziende speciali comunali, oppure gli enti regionali di
sviluppo agricolo o dell’artigiano).
La relazione di strumentalità funzionale si instaura con enti dotati di maggiore autonomia: si
tratta di enti che svolgono un’attività rilevante per l’ente territoriale di riferimento, in modo
particolare per lo stato, il cui rispetto al riconoscimento come enti pubblici (si pensi alle camere
di commercio).
Accanto alle relazioni intersoggettive di strumentalità vanno menzionate quelle di ausiliarietà
che si hanno con gli enti esponenziali di formazioni sociali giacché godono della possibilità di
determinarsi autonomamente, tuttavia soggiacciono comunque, sia pur limitatamente, a poteri
di indirizzo e vigilanza.
I beni pubblici possono quindi catalogarsi in beni in proprietà collettiva e beni in proprietà
individualizzata in appartenenza pubblica. La catalogazione, peraltro, serve a spiegare anche la
classificazione contenuta nel Codice civile. Secondo quest’ultimo i beni pubblici si distinguono in
beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili. Tale classificazione è frutto di un “eredità
giuridica” pervenuta al legislatore del 1942. Ad essa, come è noto, si è giunti attraverso una
lenta e lunga stratificazione storica, durante il corso della quale il Legislatore, a seconda dei
movimenti e delle circostanze particolari, ha scelto di mantenere demaniali, ovvero di rendere
patrimoniali indisponibili, determinate categorie di beni, in base alle contingenti esigenze
economiche, che, con ogni evidenza, continuamente cambiavano.
L’attuale collocazione formale dei beni fra quelli demaniali non corrisponde più alla originaria
significazione del “demanio” quale proprietà collettiva. Oggi possono dirsi in appartenenza
collettiva solo alcuni beni qualificati formalmente demaniali dal Codice civile. Stando all’art. 822
Cod. civ., sono demaniali esclusivamente le classi di beni immobili e di “universalità di beni
mobili”, tassativamente elencate, in necessaria appartenenza dello stato e degli altri enti
territoriali. Per tali vige il regime della inalienabilità e della incommerciabilità: essi cioè “sono
inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi”. In base al combinato
disposto dagli artt. 826 e 830 Cod. civ., invece, costituiscono patrimonio indisponibile quei beni,
mobili ed immobili, in appartenenza pubblica, ma non necessariamente dello stato e degli altri
enti territoriali, non compresi nelle classi elencate all’art. 822 Cod. civ.
diversamente da quelli demaniali i beni del patrimonio indisponibile non sono necessariamente
inalienabili, restando “soggetti alle regole particolari che li concernono”(828, co. 1), sebbene
“non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano” (co. 2).
Il primo e il seguente: c’è differenza fra beni in proprietà privata funzionalizzata, da un lato, e
beni pubblici privatizzati, dall’altro? In cosa si diversifica un bene pubblico privatizzato da un
qualunque bene in appartenenza privata funzionalizzata?
La risposta dipende dalla disciplina dettata dalla legge di “dismissione”: ove questa, lasciando
sui beni privatizzati la distinzione pubblica, determinasse conformazioni per categorie di beni,
non vi sarebbe differenza con la proprietà privata funzionalizzata: diversamente, ove la
distinzione fosse rimossa, nel caso sui beni dovessero residuare dei vincoli, questi andrebbero
verosimilmente considerati quali limitazioni esterne gravanti individualmente su ciascuno di essi.
In entrambi i casi sarebbe comunque necessario accertarsi del pericolo “storico-normativo” che
il bene abbia affettivamente seguito.
Il secondo interrogativo può formularsi: c’è differenza fra beni in proprietà funzionalizzata in
appartenenza soggettiva pubblica e beni in proprietà funzionalizzata in appartenenza soggettiva
privata?
La risposta è evidentemente no, nel caso si tratti di beni del patrimonio disponibile. Deve invece
essere si, ove si tratti di beni in appartenenza individualizzata formalmente qualificati demaniali
o patrimoniali indisponibili, giacché per ciascun tipo di questi la legge, l’ordinamento, detta
regimi giuridici che, seppur differenti l’uno dall’altro, segnano la loro “vita concreta” in modo
significativamente diverso da quella dei beni del patrimonio disponibile.
PARTE TERZA - L’AZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Una qualsiasi P.A. vede la causa della sua esistenza nella necessità di soddisfare interessi
pubblici, e da questo ne consegue il dover assicurare il conseguimento di ciò che in una
determinata società viene considerato il “bene comune”. Occorre ragionare sulle modalità con
cui, in un dato ordinamento , si perviene alla scelta degli interessi la cui soddisfazione va
sottratta al mercato per essere qualificata come compito da affidarsi alla cura di strutture
pubbliche. Bisogna, quindi, comprendere il confine che esiste tra pubblico e privato.
Nell’ultimo periodo si e’ verificato un significativo arretramento dei pubblici poteri rispetto ai
compiti cc.dd. di “welfare”. Il fenomeno impone di chiedersi se la misura, la quantità, dell’azione
delle PP.AA. che si esprime attraverso il dispiego di poteri, di provvedimenti autoritativi, si sia
così tanto circoscritta da perdere la consistenza necessaria a fondare l’autonomia disciplinare
del diritto amministrativo. Il fenomeno in materia, sembra manifestarsi in almeno due forme. Da
un lato, le privatizzazioni, o dismissioni, o liberalizzazioni di interi settori fino ad allora nel
dominio dell’Amministrazione Pubblica. Dall’altro, l’adozione di discipline legislative che
consentono di assumere, per la cura di interessi pubblici, modalità alternative rispetto a quelle
propriamente provvedimentali. (Es. adozione dei tipici strumenti del diritto civile come i
contratti)
Possiamo quindi concludere che laddove si adoperi l’espressione “privatizzazione”, ci si riferisce
non solo alle ipotesi dell’affidamento al mercato di settori prima sotto l’egida del pubblico, bensì
anche a quella in cui tali settori, pur rimanendo nella titolarità soggettiva pubblica, vedono
mutare la loro disciplina giuridica da quella pubblicistica tradizionale ad una caratterizzata
dall’adozione di “congegni”, non ascrivibili ad essa. Non e’ detto che i compiti svolti da parte
della stessa amministrazione pubblica, debbano necessariamente seguire le modalità ed il
regime giuridico del diritto amministrativo. La P.A. può realizzarli anche adoperando gli
strumenti del diritto civile, naturalmente sempre se la legge lo preveda, o almeno non lo
escluda. Infatti, laddove la legge preveda la possibilità di agire secondo moduli tipicamente
pubblicisti, l’atto giuridico si caratterizza per essere autoritativo, ciò comportando la sua
capacità di imporsi unilateralmente al destinatario; laddove la legge preveda di agire secondo
moduli privatistici, l’atto giuridico, essendo espressione di autonomia negoziale, produce i suoi
effetti soltanto a seguito della formalizzata combinazione delle due volontà. Insomma, non v’è
Stato, che non preveda una qualche forma di intervento pubblico. Indipendentemente dalla
minore o maggiore quantità di questo, quindi, la relativa area di azione, postula l’adozione di
una modalità giuridica di esplicazione del tutto peculiare, quella autoritativa, modalità che in
quanto tale giustifica l’esistenza del diritto amministrativo.
4. I principi ed i valori costituzionali quali paradigmi imprescindibili per l’analisi
giuridica
Il giurista deve cimentarsi con i valori e la Weltanschauung consacrati nella Carta: l’intero
ordinamento e’ da questi informato. La Weltanschauung tende a trovare una collocazione in un
ordine generale dell'Universo specialmente in senso filosofico, ma il concetto è stato utilizzato
anche in riferimento a elementi di specie, geografici, linguistici e razziali: pertanto, si tratta di
un concetto che trascende il singolo e attinge nel collettivo condiviso, e l'uso di questo termine
nel linguaggio italiano al posto di "visione del mondo" ha il significato di estendere il concetto a
una dimensione sovrapersonale di un determinato punto di vista. Negli ordinamenti
contemporanei, le Costituzioni limitano la libertà del Legislatore: come la P.A. e’
teleologicamente “costretta” dal fine fissato dalla legge, così il Legislatore lo e’ dai valori
consacrati dalla Carta. Compito dello stesso, e’ storicizzare i valori immortalati nella Carta, i
quali restano fermi finché essa rimane in vita. Quando si parla di Costituzione materiale, si deve
correttamente intendere lo stato di progressiva attuazione dei valori in essa stabiliti, quali
richiedono di essere adeguati a seguito della evoluzione della società, del suo modo di vivere,
delle conquiste tecnologiche acquisite e delle relative conseguenze economico-sociali. Possiamo
quindi concludere che allo scopo di delineare il confine tra “pubblico” e “privato”, il primo ed
indefettibile punto di riferimento per l’analisi giuridica resta la Costituzione. A seguire, sulla base
dei valori in essa consacrati, occorre prendere in considerazione la legge, cui spetta definire gli
interessi ed i corrispondenti compiti pubblici. Per valutare la legittimità delle scelte
amministrative di regolazione e di gestione, il giurista deve prioritariamente guardare alla legge,
pur nella consapevolezza che questa non può farsi carico di disciplinare ogni possibile situazione
della multiforme vita associata.
Appare chiaro che la Carta del 1948 instauri uno Stato di diritto, sociale e delle autonomie
territoriali. Con riguardo al primo aspetto, sembra superfluo spendere parole per spiegare
perché, secondo la Costituzione, lo Stato italiano sia di diritto, essa evidentemente ripudia ogni
ipotesi di Stato assoluto. Sul piano teorico si e’ convenuto che lo Stato di diritto ben può
connotarsi anche come sociale, nulla impedendo che le sue fonti, a cominciare dalla
Costituzione, scelgano di assumere come compiti pubblici una più o meno vasta gamma di fini
sociali. Si può, pertanto, sostenere che in uno Stato di diritto sono, da un lato, teoricamente e
positivamente fondamentali tutti quei diritti che ineriscono alle libertà fondamentali per il
funzionamento del metodo democratico; e sono, dall’altro, solo positivamente fondamentali tutti
quei diritti che la Costituzione riconosce o qualifica come tali, sempreché non siano inconciliabili
con il metodo democratico. I principi fondamentali contenuti nelle prime disposizioni della
Costituzione, segnano i valori determinativi del paradigma entro il quale deve vivere ed
articolarsi l’intero sistema giuridico, a partire dall’art. 1, il quale, nel dichiarare solennemente
che “la sovranità appartiene al popolo”, sancisce la inequivocabile qualificazione democratica
dell’ordinamento italiano. Con l’art. 2, si innesta nel nucleo essenziale dell’impianto istituzionale
italiano, il riconoscimento dei diritti inviolabili, e dunque delle liberta fondamentali. E non e’
privo di significato che tali diritti vengano riconosciuti alla persona umana, e non all’individuo,
con ciò in un certo senso mediandosi la cultura liberale con quella cattolica, sì da porre al centro
dell’ordinamento non il singolo in sé, bensì la comunità in cui vive ed opera. La asserita
coessenzialità dei due principi nella qualificazione dell’ordinamento costituzionale italiano
vigente comporta come conseguenza logica che i diritti inviolabili dominano dal vertice una
ideale scala gerarchica di valori che la Carta del 1948 ha stabilito. L.art .3 della Costituzione,
riconosce chiaramente la possibilità di estendere la libertà in maniera eguale a tutti i soggetti,
intesa come cosiddetta “eguaglianza di chances”. In questa prospettiva, assumono estrema
importanza i pubblici poteri, qualificati in modo tale da garantire, almeno tendenzialmente, la
giustizia sociale e, attraverso essa, il valore del pieno sviluppo della persona umana. Deve
dunque ritenersi, che l’ordinamento costituzionale italiano deve farsi rientrare tra quelli che
assumono il metodo democratico come paradigma per la decisione collettiva.
L’ordinamento giuridico instaurato dalla Carta del 1948 si ispira al valore del pluralismo, che ben
può dirsi la sua più veridica ed efficace chiave di lettura. Mentre il pluralismo sociale attiene
alla qualificazione dello Stato come di diritto, quello istituzionale si riferisce alla qualificazione
dello Stato non solo di diritto, ma anche come delle autonomie territoriali. Per cercare di
comprendere il perché, e’ necessario richiamare la differenza teorica fra democrazia pluralistica
e maggioritaria. Premesso che questi due sistemi, nel corso del tempo, finiranno per combinarsi
con diverse intensità di dialogo, bisogna tener ben chiaro che la democrazia pluralistica
affida il perseguimento di interessi alieni, di valori ultraindividuali agli individui, alla loro capacità
di raggiungerli, in buona sostanza facendo assegnamento sulla sensibilità di quelli fra loro più
forti a sostenere i più deboli. La democrazia maggioritaria, invece, si caratterizza per assegnare
alla maggioranza dei consociati il potere di scelta per la comunità: si fida della decisione dei più
numerosi per realizzare i valori, la libertà, ed in tale prospettiva postula l’esistenza di forme
organizzative che siano espressione della maggioranza. Entrambi i modelli di democrazia, però,
non posso soddisfare in linea sostanziale, tutti gli interessi e da qui ne derivano a tal riguardo
delle critiche. Con riguardo al primo, nel momento in cui nasca una incompatibilità tra due o più
interessi, occorre trovare fra essi una mediazione. la ricerca di quest’ultima, può essere
garantita solo dalla applicazione del principio del governo della maggioranza, alla quale spetta di
scegliere il conseguimento di quegli interessi reputati dalla stessa “migliori possibili”. Sull’altro
fronte, la democrazia maggioritaria non si può compiere senza che venga garantita la possibilità
delle minoranze di manifestare il dissenso e cosi, conquistare il consenso necessario per
ribaltare la loro posizione in quella maggioritaria. Nel pluralismo sociale, le minoranze possono
trovare tutela, a patto che si ragioni esclusivamente in termini di libertà negativa. Si capisce
bene quindi che entrambi i modelli democratici, convivono, giacché l’uno senza l’altro darebbero
vita ad una democrazia “monca”. La Costituzione italiana del 1948 si rivela come il prodotto di
una equilibrata miscela, da un lato, del pluralismo sociale, espressamente consacrato nell’art. 2,
che costituisce principio posto a presidio delle libertà fondamentali; e dall’altro, del metodo
democratico prescritto dall’art. 49 con tutto quello che quest’ultimo implica. La democrazia
creata dai Padri fondatori, cioè, si sviluppa su due piani e combina i due modelli della
democrazia pluralistica, presidiando la libertà individuale e delle autonomie sociali e collettive, e
della democrazia maggioritaria, declinando la sovranità nazionale attraverso l’articolazione delle
autonomie territoriali nello Stato regionale.
E’ doveroso dover tener conto, che non tutti gli interessi assunti da parte della P.A. consistono
sempre in obiettivi che la legge ha assunto formalmente come pubblici, poiché tali obiettivi non
possono sempre, sul piano tecnico giuridico, qualificarsi rigorosamente come “interessi
pubblici”. Su questo piano, come interesse pubblico si intende soltanto quello che una norma
giuridica codifica come tale in astratto, alla sua realizzazione in concreto funzionalizzando
l’esercizio di un potere amministrativo. L’interesse pubblico, quindi, e’ stato sottoposto,
unitamente all’intervento pubblico, ad una cura dimagrante, che lo ha fatto sensibilmente
scendere di peso, così che appare tanto gravemente deperito da generare la diffusa convinzione
che si tratti di un malato terminale. Il fenomeno si può spiegare con alcuni rilevanti mutamenti
istituzionali verificatisi negli oltre sessant’anni dalla entrata in vigore della Costituzione. Vi sono
quindi, dei mutamenti che finiscono con il coincidere con il dimagrimento dell’interesse pubblico.
Questi sono 4 e vengono a realizzarsi tramite:
a. Rapporto fra interesse pubblico e autonomie territoriali locali, in cui e’ chiaro che sia
indispensabile l’effettivo rispetto della cd. “autodeterminazione “ delle comunità locali,
poiché questo corrisponde ad una condizione necessaria per il raggiungimento del
modello di democrazia. Ne consegue però che le comunità locali debbano
necessariamente rivedere i loro obiettivi, contenendoli, laddove questi si pongano in
conflitto con quelli delle più ampie comunità alle quali essi facciano capo. Ciò
nonostante, si presenta quale imprescindibile esigenza di democrazia riconoscere alle
comunità locali alcuni ambiti di decisione esclusiva in grado di permettere loro di poter
controbilanciare la naturale maggior forza del potere regionale e statale.
b. Rapporto fra interesse pubblico e autonomie sociali. Il privato sociale e segnatamente il
volontariato, si occupano di attività che non rappresentano anche realizzazione di
compiti pubblici, poiché le suddette attività vengono ricomprese nella manifestazione di
libertà e nel correlato principio di autonomia negoziale. I problemi che potrebbero
potenzialmente sorgere, possono farsi rientrare in due fattispecie: la prima, quando le
organizzazioni del privato pretendono che la loro azione ottenga riconoscimento dei
pubblici poteri; la seconda, quando la loro attività, concernendo campi in cui
l’ordinamento prevede compiti pubblici, interferisca con quella delle PP.AA. operanti nel
settore. Laddove si versi in ipotesi della seconda specie, il principio può essere
adoperato, ma a condizione che esso venga dichiaratamente confinato nella sola
gestione dei servizi, e non esteso alla loro regolazione, essendo quest’ultima
inderogabile ed indefettibile funzione dei poteri pubblici.
c. Abbiamo poi, il rapporto fra interesse pubblico e Autorità indipendenti. A causare
l’aumento di Autorità indipendenti e’ stata senza dubbio la convinzione che, il bene
comune debba ritenersi preferibilmente conseguibile attraverso il mercato, l’iniziativa
individuale. L’unico interesse pubblico che resta presente in tali circostanze sembra
consistere nella regolazione di quei settori ccdd. “sensibili” nei quali occorre assicurare la
protezione di diritti fondamentali del cittadino, che vengono dall’ordinamento considerati
meritevoli di tutela verso il potere esecutivo, da un lato, e verso il mercato, dall’altro. La
tendenza ad istituire sempre nuove Autorità indipendenti mette in evidenza che il
bisogno di Autorità e’ connaturale alla società complessa contemporanea, in cui tutti gli
interessi, sovente sono in competizione tra loro ed inoltre poiché la loro ontologica
inconciliabilità, non consente che coesistano presi nella loro interezza, rendendosi per ciò
inevitabile che vangano mediati, composti, sintetizzati da qualcuno la cui comunità
attribuisce tale ruolo.
d. Quanto al rapporto fra interesse pubblico e moduli negoziali dell’azione amministrativa,
bisogna ricordare la legge 241/1990, che la P.A. proceda alla determinazione in concreto
del primo, non soltanto attraverso la tradizionale forma unilaterale, bensì anche
mediante il ricorso ai secondi. Ciò non significa affatto che l’ordinamento consenta in
tali ipotesi di abdicare alla discrezionalità in favore dell’ autonomia negoziale. I moduli in
parola, gli accordi di diritto pubblico cioè, restano pienamente entro l’alveo dell’esercizio
del potere amministrativo.
La legge e le fonti in generale, pur restando momenti imprescindibili per la identificazione di
interessi pubblici, non possono recitare questo ruolo altro che in modo astratto, chiamando
l’amministrazione a definire l’interesse pubblico in modo più compiuto, commisurandolo con la
realtà della situazione fattuale. Tale compito non può che spettare alla P.A., la quale deve
disporsi sempre più per essere capace di assolverlo diligentemente e in maniera soddisfacente.
La politica può essere intesa sotto vari punti di vista; dal punto di vista sociologico, può dirsi che
per politica debba intendersi, la intelligenza della giusta misura: intelligenza di ciò che conviene,
di ciò che e’ opportuno, necessario alla convivenza umana e che non e’ mera mediazione tra
prospettive, interessi ed attese particolari. Tralasciando il piano sociologico, la dottrina e’
tendenzialmente orientata nel senso di ritenere che la politica, intesa come scelta dei fini e
gestione degli interessi della collettività, assuma rilievo giuridico allorché dia vita ad atti che
siano espressione di un indirizzo tale da indurre un orientamento comune. Ebbene, sotto il
profilo della imputazione soggettiva, la politica si traduca in atti di indirizzo presi in una pluralità
di luoghi decisionali, ancorché originariamente l’indirizzo politico sia stato ritenuto proprio solo
dello Stato, per definizione ente a fini generali. La pluralità di luoghi di elaborazione dell’indirizzo
politico indubbiamente incide sul modello di formazione, sul regime e sugli effetti giuridici degli
atti che lo determinano. Ed infatti quella degli atti politici si configura come una categoria di atti
non omogenei, ancorché accomunati dalla medesima causa: l’interesse generale dello Stato. Un
connotato tipico dell’atto politico e’ la “libertà nel fine” che lo contraddistingue, la quale e’ tipica
dello stesso e non estendibile agli atti deputati piuttosto a darvi attuazione. Si deve tener
presente che qualsiasi attività svolta ed a maggior ragione nell’interesse generale, non e’ mai
immune da una certa qual funzionalizzazione , la cui intensità e’ ovviamente variabile,
dipendendo dall’insieme delle norme di diritto positivo che di volta in volta regolano la
fattispecie. Passando alla nozione di amministrazione, secondo una prima locuzione si indica il
soggetto Stato, quantunque si abbia piena contezza della articolata complessità organizzatoria
di questo. Ciò nondimeno, essa e’ altresì adoperata per qualificare una specifica attività svolta
dal potere pubblico che va sotto il nome di “funzione amministrativa”. La parte maggioritaria
della dottrina definisce quest’ultima come l’attività pratica che lo Stato spiega per curare in
modo immediato gli interessi pubblici che esso assume nei propri fini. Il carattere che più
identifica l’amministrazione in questa attività e’ la “discrezionalità” . Tanto gli atti di “alta”
quanto quelli di “normale” amministrazione, pur essendo espressioni di attività qualitativamente
diverse, gli uni rappresentando il punto di saldatura tra l’attività di indirizzo politico e quella
provvedimentale, hanno funzione di indirizzo amministrativo per le successive scelte
discrezionali della P.A.: gli altri danno corpo e realizzano l’indirizzo amministrativo per le
successive scelte discrezionali della P.A. Talvolta gli stessi provvedimenti discrezionali possono
presentare un contenuto di politicità: questo dipende dal grado di intensità degli interessi
compresenti nella fattispecie concreta ed interagenti con l’I.P.S. astrattamente fissato dalla
norma, e dal grado di complessità della loro composizione. Infine, sembra potersi sostenere la
tesi che ritiene che anche l’atto amministrativo “semplice”, provvedimentale, sia pur attraverso
un’attività particolare e concreta, in qualche modo possa esprimere nel suo contenuto una
scelta politica.
5.3. Interesse pubblico specifico, interesse pubblico concreto e risultato tra
efficienza e legalità
L’efficienza nel senso pubblicistico consiste nella massimizzazione del perseguimento dell’I.P.S.
con il minor pregiudizio da arrecarsi agli interessi secondari, pubblici e privati. Se l’efficienza si
intende commisurata al benessere di una comunità e non viene presa in esame nella logica
dell’interesse individuale, essa non può andar disgiunta dalla verifica costante del grado di
soddisfacimento di siffatto benessere. Ove si convenga su quanto appena richiamato,
l’efficienza deve essere sempre coniugata con la legalità, perché e’ la legge, o meglio l’insieme
delle fonti nel loro complesso sistema, ad identificare l’I.P.S. in astratto. L’azione della P.A.,
secondo l’opinione prevalente, deve ispirarsi alla legalità sostanziale, intesa, in una più moderna
accezione, come capace di offrire, appunto, una garanzia di risultato. Pertanto politica e
amministrazione, ove intese come strutture, devono veder definite, e rispettivamente delimitate,
le competenze per evitar il dissolvimento della responsabilità. Se dunque e’ decisivo definire la
responsabilità per ottenere più efficienza, ciò non sembra affatto implicare la separazione fra
politica e amministrazione, le quali sul piano oggettivo si rivelano entrambe in gran parte
sinonimiche della medesima cura concreta del bene comune.
Quando parliamo di P.A. usiamo il termine in maniera bivalente: pensiamo alla P.A. sia come
struttura, come soggetto, sia come funzione, come attività. Dal punto di vista
funzionale/oggettivo si parla di amministrazione pubblica nel senso di attività di cura degli
interessi pubblici. Dal punto di vista strutturale/soggettivo dobbiamo fare riferimento al
fenomeno denominato pluralismo della PP.AA. Il tipo di attività che si vuole svolgere condiziona
la struttura che se ne deve occupare, questa costituendo un mezzo, e non un fine: si costruisce
una struttura in modo che possa essere funzionale allo scopo che ci si propone.
L'Amministrazione pubblica consiste nelle tre specie della attività autoritativa, della attività
materiale e/o di erogazione di prestazioni e della attività di diritto civile; la seconda risulta
essere di gran lunga quella più adoperata dalla stessa P. A. L'elemento portante della disciplina
del diritto amministrativo non e' altro lo studio del potere amministrativo e della funzione
amministrativa stessa, che portano alla nascita di atti chiamati provvedimenti, mediante i quali
la P.A. Entra in relazione con la società civile destinataria della sua attività.
- Attività autoritativa. Risulta essere l'attività per eccellenza che caratterizza l'attività
autoritativa della pubblica amministrazione. Tale attività e' definibile come la esplicazione della
funzione amministrativa in senso tecnico-giuridico, che, a sua volta, rappresenta lo svolgimento
dinamico del potere, e cioè di quella specifica è particolare "energia giuridica" chiamata potere
amministrativo, il quale si estrinseca nella produzione di atti/provvedimenti amministrativi.
- Attività di diritto civile. Si rinviene in quelle istanze nelle quali il ruolo dell'interesse
pubblico, pur mai potendo mancare del tutto, si presenta più contenuto, operando in linea di
massima, in un ambito limitato dell'azione. Questa attività non e' in se stessa funzionalizzata,
non e' perciò manifestazione dell'esercizio di un potere. Ciò non significa che essa non integri lo
svolgimento di un compito pubblico; ma, più semplicemente, che il compito, almeno per la sua
parte più consistente, viene svolto secondo le nodosità giuridiche proprie del diritto comune e
non del diritto pubblico.
- Attività materiale e/o di erogazione di prestazione. Stesso dicasi per quest'ultima, che
essa consista o no nella erogazione di prestazioni. Il lavoro svolto quotidianamente dagli
impiegati della segreteria studenti di una Facoltà universitaria, per esempio, così come quello
delle centinaia di migliaia dei dipendenti che agiscono la P.A., compiendo le operazioni materiali
più diverse, realizza un gran numero dei compiti che le fonti assegnano alla P. A., pur non
risolvendosi nella esplicazione di un potere.
E' sempre più accolta la distinzione fra amministrazione per atti e amministrazione per servizi, la
prima risolvendosi essenzialmente nell'attività autoritativa, la seconda comprendendo invece le
attività di tutte e tre le specie che abbiamo appena descritto: la resa di un servizio pubblico,
consta tanto di attività autoritativa, tanto di attività di diritto civile (ad es. il contratto di utenza),
tanto di attività materiale erogazione della prestazione (ad es. la guida di un autobus). Come
abbiamo ricordato poc'anzi, per "funzione amministrativa" si intende l'attività peculiare della P.
A., essa presentando i caratteri tipico dell'amministrazione in senso oggettivo (e non in senso
soggettivo, rilevando, perciò, non come attività della P. A., bensì come attività amministrativa).
Se ne consegue che l'ambito della "amministrazione per atti" coincide con quello dell'esercizio
dell'attività autoritativa , e cioè dell'attività amministrativa funzionalizzata alla determinazione in
concreto dell'interesse pubblico specifico.
L'attività amministrativa che si manifesta nella amministrazione per atti, viene generalmente
classificata, relativamente all'oggetto, in tre specie: l'amministrazione attiva, che esita
fisiologicamente nella manifestazioni di volontà della P.A. che prendono forma nei
provvedimenti amministrativi; l'amministrazione consultiva, che si esplicita mediante atti di
apprezzamento, manifestazioni cioè di giudizio (pareri) o di scienza (valutazioni tecniche);
l'amministrazione di controllo, gli atti relativi alla quale rispondono alla esigenza di rispetto
della legalità nel seno proprio del potere amministrativo. In merito a quest'ultima ipotesi, e'
necessario trattare dei ccdd. "controlli esterni", quelli cioè che sono operati da un soggetto
terzo neutrale. Precedentemente, coerentemente con gli art. 125 e 130 i controlli sugli atti
venivano ad essere svolti dalle Regioni e dagli enti locali, attualmente ritenuti aboliti. Bisogna
riferire essenzialmente, che la Corte dei conti e' vi sta dall'ordinamento a svolgere controlli
esterni aventi ad oggetto gli atti e/o l'attività in genere delle amministrazioni degli altri enti
pubblici, territoriali e non. Siffatti controlli, possono classificarsi in: controlli sugli atti
preventivi e successivi; e controlli sull'attività di gestione finanziaria e di bilancio,
questi ultimi solamente successivi. I controlli preventivi hanno ad oggetto quelli elencati nel co.
1 art. 3, Legge 14 gennaio 1994, n. 20. Può dirsi, invece, che i controlli successivi sugli atti
abbiano carattere eccezionale. (Co. 4, art. 3). In via fisiologica i controlli successivi hanno ad
oggetto l'attività di gestione; gestione di bilancio, gestione fuori bilancio e sui fondi di
provenienza comunitaria.
La nozione giuridica di servizio pubblico, come anche la nozione di attività materiale, risultano
essere incerte. L'attività di servizio pubblico non e' tipicamente qualificabile fra le attività
giuridiche; la nozione della stessa ricomprende tanto attività tipicamente giuridiche
(provvedimentali e/o contrattuali), quanto attività materiali e/o di erogazione di prestazioni. In
ogni caso, quella dei servizi pubblici, o servizi economici di interesse generale, e' area
dell'azione della P.A. che si presenta di definizione complessa, anche perché storicamente
cangiante in ragione delle mutevoli condizioni giuridico-istituzionali stabilite dall'ordinamento:
possiamo comunque tener in riferimento, che la resa di un servizio pubblico comprende,
normalmente, tanto attività-funzione, propriamente amministrative, provvedimentali
(espressione di potere), tanti attività "naturalmente" disciplinare dal diritto civile, tanto attività
consistenti in mere prestazioni materiali. Va detto, peraltro che, anche per effetto della
giurisprudenza comunitaria, oggi si devono tenere strettamente distinti i servizi pubblici a
carattere imprenditoriale (o economici, che dir si voglia) dai servizi pubblici amministrativi; la
differenza deriverebbe dal fatto che sia possibile, o meno, erogarli sulla base dei criteri propri
della impresa commerciale. Da quanto detto fin qui può ricavarsi che, per un verso, la P. A. oggi
non opera più prevalentemente mediante atti e provvedimenti amministrativi, poiché gran parte
della sua attività si risolve in atti di diritto civile, ovvero in operazioni materiali; per un altro, il
servizio pubblico consta di regola, di tutte tre le specie di attività; e per un altro ancora, la parte
quantitativamente più consistente dell'attività materiale della P. A. e' costituita proprio da quella
che integra l'erogazione di servizi pubblici. In merito al risultato che la P. A. deve raggiungere,
si tiene conto alle fonti dell'ordinamento, le quali affidano chiaramente alla sua cura, una serie
di circostanze che ovviamente dovranno essere portate a compimento secondo i dettami
prestabiliti. Non v'è dubbio che dovendo i servizi pubblici esser resi in maniera da corrispondere
alle esigenze della collettività, si deve andare alla ricerca di forme giuridiche che garantiscano e
assicurino la corrispondenza di soffiata azione, alla volontà comune, cioè che e' la sostanza del
principio di legalità.
Come spiega autorevole dottrina: "L'attività di regolazione e' diretta al corretto funzionamento
di un determinato settore di attività private di carattere economico o anche sociale, è
caratterizzato da un elevato livello di specializzazione". Per regolazione si deve intendere
"Un'azione continua di osservazione, regolazione e correzione delle attività che gli operatori del
settore pongono in essere, al fine di farle svolgere in modo conforme ai principi e ai valori che
di volta in volta vengono individuati dalla legge. Sulla scorta della distinzione fra regolazione e
gestione, si e' proceduto ad un opera di privatizzazione(prima) e di liberalizzazione (poi), della
gestione dei servizi pubblici di natura imprenditoriale.
La privatizzazione. Indica la trasformazione del regime di diritto pubblico in quello di diritto
privato. Essa ha come obiettivo , la ri-delineazione del confine fra pubblico e privato, allo scopo
ultimo di rendere la gestione delle attività pubbliche più efficiente, capace dunque di offrirle in
qualità migliore e a costi più contenuti.
La liberalizzazione. Può essere amministrativa e nel qual caso consiste nel mero superamento
degli impedimenti amministrativi per lo svolgimento delle attività private; ovvero economica
allorché si traduce nel superamento dei Monopoli legali, consentendo così lo svolgimento di
attività economiche, precluse prima in ragione di ciò.
4. Il ruolo del "privato sociale" - volontariato e non profit - nella resa dei servizi
pubblici: i limiti entro i quali e' ammissibile il principio di sussidiarietà "orizzontale"
(fra pubblico e privato)
La P.A. può scegliere di ricorrere a soggetti privati per la resa di un servizio pubblico. Bisogna
ora comprendere come il cd. Privato sociale contribuisca alla resa degli stessi. ragionando sulla
nozione di privato sociale si perviene soprattutto all'analisi delle cosiddette ONLUS
(organizzazioni non lucrative di utilità sociale). Nelle stesse rientrano anche fondazioni,
associazioni (riconosciute e non), comitati e società cooperative: ne consegue, evidentemente,
che non possono rientrarvi gli enti pubblici e soggetti privati quali le società commerciali (tranne
quelle cooperative), le fondazioni bancarie, i partiti e i movimenti politici, i sindacati, le
associazioni dei datori di lavoro e quelle di categoria.
I poveri, i portatori di handicap, gli ammalati, tutte le categorie di persone disagiate, assai di
frequente trovano assistenza, conforto, sostegno, piuttosto che dalle strutture amministrative
che dovrebbero essere a questi scopi deputate, nell'opera generosa e gratuita di associazioni ,
fondazioni , gruppi, comitati, insomma strutture più o meno organizzate, le quali sono ispirate
dalla vocazione a servire una causa sociale, per la libera scelta di coloro che la animano.
Possiamo dire che il "privato sociale", il volontariato, si distingue dalla P. A. perché solo in capo
a questa e' posto il dovere giuridico di svolgere i compiti cui e' tenuta a provvedere per effetto
della assegnazione ad opera della legge. Questo dovere non sussiste per le organizzazioni del
"privato sociale", le quali sovente si trovano ad attendere, sì, ai medesimi compiti, per effetto di
una determinazione della loro volontà generatisi in maniera autonoma. Se il dovere giuridico di
svolgerli li distingue, ad accomunare la P.A. E volontariato e', invece, la realizzazione e di
compiti sociali, o più in generale, del bene comune. Le appena richiamate differenze e
similitudini, spiegano perché negli U.S.A. il cd. fenomeno del "non profit sector", e' definito
anche del third sector in virtù del fatto che e' considerato un tertium genus rispetto a quelli del
pubblico e del privato; in realtà esso si muove più liberamene, come e' proprio di un soggetto
privato, ma al tempo stesso lo fa per conseguire obiettivi i quali, per la loro rilevanza sociale,
sono di regola tipicamente caratterizzanti i soggetti pubblici. Negli U.S.A. si parte dal
presupposto culturale che tutto ciò che il privato e' in grado di fare da solo deve essere lasciato
fare a lui, senza che lo stato intervenga, quest'ultimo dicendo limitarsi ad operare soltanto
laddove il privato si palesi incapace di farlo: d'altra parte, se il privato svolge un'attività di
interesse comune, deve poter vantare una serie di benefici fiscali, nella forma degli sgravi o
delle agevolazioni. Possiamo così riassumere, lo Stato da una parte, assolve soltanto alle sue
funzioni fondamentali e, dall'altra, non si cura, se non in minima parte, degli interessi dei
cittadini, poiché e' il privato ad occuparsene. Tuttavia, le risorse utilizzate dal privato a questo
scopo devono considerarsi in natura sempre e comunque pubbliche: nel caso dello Stato fiscale
classico, con ogni evidenza, lo sono sia formalmente che sostanzialmente: nel caso dello Stato
che sposa la logica del non profit, invece, lo sono solo sostanzialmente, giacché sul piano
formale le risorse restano private, sebbene una loro parte consistente sia, in "natura" pubblica,
visto che sarebbe dovuta al fisco. In altre parole, con il sistema dell'intervento soggettivamente
pubblico, lo Stato deve spendere di più e i cittadini versano per il bene comune, soltanto quanto
dovuto al fisco. Viceversa, con il sistema dell'intervento "oggettivamente" pubblico, lo Stato
deve spendere di meno, e i cittadini versano per il bene comune una cifra nell'insieme
superiore, sebbene l'ammontare totale delle quote da essi dovute al fisco sia inferiore. La
differenza fra queste due scelte e' la seguente: nel primo caso, si fida esclusivamente dello
Stato per il conseguimento del bene comune. Nel secondo caso, invece, ci si avvale anche del
contributo del privato che spontaneamente vuole operare per il bene comune. Quest'ultimo
caso permette di indirizzare al sociale, una più cospicua quantità di quote di risorse per il
conseguimento dei fini predefiniti. Nel nostro ordinamento il rischio di egemonizzazione della
società da parte dei gruppi privati forti e' più circoscritto. Un sistema basato essenzialmente sul
non profit, invece, sebbene a prima vista presenti indubbi aspetti positivi, può far seriamente
correre il rischio in parola. In definitiva, la prospettiva dello Stato fiscale classico, pur dovendo
sopportare alcune conseguenze non marginali negative, assicura un più elevato grado di
democrazia, di universalità ed eguaglianza nella resa dei servizi pubblici. Bisogna quindi
concludere, che l'opera svolta da quel privato sociale che voglia godere di quei vantaggi stabiliti
da parte della legge, debba collocarsi in un quadro di riferimento che faccia comunque capo al
pubblico. Quest'ultimo non può dismettere l'esercizio di servizi che la comunità, attraverso le
fonti del suo ordinamento, ha definito come pubblici.
Inoltre sappiamo che spetta al Legislatore la scelta della soluzione di contemperamento fra le
sfere di libertà individuali e il bene comune, inteso come bene giuridico (diritto di… ) e non
come cosa materiale in sé . Esso può scegliere 3 strade:
1. ritiene che l'interesse comune sia meglio conseguibile mediante il libero svolgimento
delle iniziative individuali. In questo caso opta per lo schema del riconoscimento di diritti
soggettivi a tutti (riconoscimento del diritto e del relativo obbligo) disciplinando la
soluzione di contemperamento con una norma di relazione (ipotesi meramente didattica,
scolastica, non reale ) ;
2. ritiene che l'interesse comune vada perseguito attraverso la necessaria intermediazione
della P.A.. In questo caso opta per lo schema del riconoscimento di interessi legittimi ai
soggetti coinvolti, disciplinando la soluzione di contemperamento con una norma
d'azione (ipotesi meramente didattica, scolastica, non reale ) ;
3. il Legislatore si esprime di volta in volta assumendo o norme di relazione o di azione a
seconda della fattispecie (ed è questa è la soluzione vigente nel nostro modello
giuridico)
Queste due nozioni fin qui incontrate di interesse legittimo e di diritto soggettivo sono due
fattispecie di situazioni giuridiche soggettive (che andremo ad analizzare in questo capitolo) .
Per situazione giuridica soggettiva intendiamo quella serie di prerogative giuridicamente
assistite che l'ordinamento positivo riconosce in capo a un soggetto ; In diritto per situazione
giuridica soggettiva s'intende la posizione giuridicamente rilevante di un soggetto di diritto nei
confronti di un altro. Le situazioni giuridiche soggettive sono attribuite da norme giuridiche e
costituiscono il contenuto dei rapporti giuridici. Il concetto di situazione giuridica soggettiva si
distingue da quello di status che può essere definito come la posizione di un soggetto rispetto ad un
determinato gruppo sociale, dalla quale derivano determinate situazioni giuridiche soggettive (ad
esempio, dallo status di cittadino derivano il diritto di voto e l'obbligo di prestare servizio militare). La
teoria delle situazioni soggettive, elaborata da Santi Romano, è di matrice privatistica ma può essere
estesa a tutti i campi del diritto, perché in ogni settore della vita giuridica vi sono norme che pongono un
soggetto in relazione con le cose e con gli altri soggetti e qualificano così la sua situazione giuridica (di
proprietario, debitore, lavoratore dipendente ecc.).
L'interesse legittimo è una delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dal diritto
italiano. Si tratta della situazione giuridica soggettiva della quale è titolare un soggetto
nei confronti della pubblica amministrazione che esercita un potere autoritativo
attribuitole dalla legge, e consiste nella pretesa che tale potere sia esercitato in
conformità alla legge.
La Costituzione del 1948 ne ha riconosciuto la tutelabilità assieme al diritto soggettivo. La risarcibilità della lesione
all'interesse legittimo è stata ammessa dalla giurisprudenza per la prima volta con la sentenza n. 500 del 22 luglio
1999, emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, risarcibilità confermata ed ampliata dalla successiva legge
21 luglio 2000, n. 205.
Nell'ordinamento italiano non esistono norme definitorie: l'espressione "interessi legittimi" è comunque
presente in tre articoli della Costituzione: all'art. 24 dove è stabilito il diritto di agire in giudizio per la
difesa dei diritti (intesi come diritti soggettivi) e degli interessi legittimi, all'art. 103, in cui si stabilisce la
giurisdizione del Consiglio di Stato e degli altri organi di giustizia amministrativa per la tutela degli
interessi legittimi, e all'art. 113, dove si prevede che avverso gli atti della pubblica amministrazione è
sempre ammessa la possibilità di tutelare questa posizione soggettiva in sede giurisdizionale. L'interesse
legittimo ha come oggetto una utilità o un bene della vita che un soggetto privato mira,
rispettivamente, a conservare (interesse oppositivo, vedremo) o a conseguire (interesse
pretensivo, vedremo) tramite l'esercizio legittimo del potere amministrativo. /
Si definisce interesse legittimo la situazione giuridica che vanta il soggetto, la cui posizione nei
confronti dell'esercizio del potere amministrativo è fattualmente differenziata rispetto a quella
degli altri consociati, e giuridicamente qualificata da una norma dell'ordinamento (per questo
motivo si può avere interesse legittimo in diversi casi che più avanti vedremo!); Affinché sussista
interesse legittimo, la illegittimità del provvedimento deve ridondare negativamente nella sfera
giuridica di un soggetto producendo una lesione personale in detta sfera.
Caratteristiche e contenutistica : situazione non ascrivibile a qualsiasi consociato ma a qualcuno
in particolare ; posizione del consociato differenziata rispetto agli altri ; in quanto posizione
differenziata vi è possibilità di essere lesi nella propria sfera giuridica.
Esempio: sulla linea concettuale del solito esempio “palazzo costruito – offusca panorama” ,
Caio scopre che l'area su cui è stato assentito il permesso è qualificata come non edificabile e
quindi il provvedimento è illegittimo. In questi casi non si ha interesse amministrativamente
protetto ma interesse legittimo. /
*** Per concludere questo tema delle situazioni giuridiche soggettive frontiste del potere
amministrativo, si suggerisce vivamente, per una ricapitolazione tout court, lo studio del paragrafo
10 (sintesi definitoria) a pag. 474 del manuale.
Parte Terza, Capitolo 5, Par. 11, pag. 475 del manuale. Cenni sulla tutela giurisdizionale dei diritti
soggetti e degli interessi legittimi: in particolare, la questione della risarcibilità dei danni derivanti da
lesione di interessi legittimo: Nel diritto pubblico italiano, come già spiegato, si contrappongono i
diritti soggettivi agli interessi legittimi. Si tratta di una distinzione che riflette il peculiare criterio di
riparto della giurisdizione adottato dall'ordinamento italiano quando viene domandata la tutela di
una situazione giuridica soggettiva nei confronti della pubblica amministrazione: se la situazione è un
diritto soggettivo, la giurisdizione spetta (di regola) al giudice ordinario, se è un interesse legittimo,
spetta al giudice amministrativo. In un'ottica che trascenda la terminologia in uso nell'ordinamento italiano,
è indubbio che l'interesse legittimo è una sottospecie del diritto soggettivo pubblico: infatti, per quanto la sua
definizione sia piuttosto controversa, può essere considerato la pretesa che la pubblica amministrazione eserciti
i suoi poteri pubblici in conformità alla legge. In tale ottica, dunque, la contrapposizione tra interessi legittimi e
diritti soggettivi andrebbe piuttosto letta come contrapposizione tra interessi legittimi e altri diritti soggettivi,
che si differenziano per la modalità di protezione predisposta dall'ordinamento. Va aggiunto che la dottrina
italiana ha talvolta esteso la figura dell'interesse legittimo al diritto privato, in relazione a situazioni in cui la
soddisfazione dell'interesse di un soggetto non dipende dal suo comportamento ma da quello di un altro
soggetto, titolare di una posizione di diritto o potestà nei suoi confronti. Possiamo quindi facilmente
sentenziare, per quanto appena detto, che si parla di interesse legittimo come di un interesse
soltanto occasionalmente protetto, quando cioè vengano in essere i presupposti per farlo ;
l’interesse legittimo è, allorché, una situazione inautonoma, particolaristica, che viene in essere in un
ottica di impianti normativi particolare. A questo riguardo, diremmo ancor meglio che la tutela
giurisdizionale dei diritti soggettivi è una tutela “risarcitoria” perché viene in essere quando vien fatto
qualcosa “contra legem” , mentre la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi è una tutela
“caducatoria” (volta cioè ad ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimamente lesivo della
situazione soggettiva) anche se , alla luce degli ultimi orientamenti giurisprudenziali, dottrinali,
sociologici e legislativi, a questa ultima va affiancata una netta tutela “risarcitoria”. Il perché va
esplicitato leggendo gli artt. Cost. 24, 103 e 113 che parlano di interessi legittimi , e leggendo il
c.p.a che ci dice chiaramente che il giudice amministrativo, accertato il danno che reca un errato
provvedimento amministrativo ad un soggetto portatore di interesse legittimi, dispone anche della
possibilità di condannare la PA al pagamento di somme pecuniarie dovute per il risarcimento danni.
E’ quindi fondatamente logico (e giusto ideologicamente) pensare che la PA ,che sbaglia, debba, non
solamente e meramente annullare il suo atto provvedimentale errato, ma anche “pagare” ,
“risarcire” il soggetto leso, affiancando, allor quindi, alla tutela caducatoria (tipica della giurisdizione
amministrativistica, per quanto vedremo) la tutela risarcitoria (tipica della giurisdizione ordinaria
civile)
L’ATTO AMMINISTRATIVO :
Nozione: Un atto amministrativo è, nel diritto amministrativo, un atto giuridico posto in
essere da un'autorità amministrativa nell'esercizio di una sua funzione amministrativa.
Esso è espressione di un potere amministrativo, produttivo di effetti indipendentemente dalla
volontà del soggetto o dei soggetti cui è rivolto. La sequenza di atti amministrativi all'interno di
un procedimento amministrativo, sotto la supervisione di un responsabile del procedimento
amministrativo, porta invece all'emanazione di un provvedimento amministrativo (di cui , però,
parleremo nella parte seconda del capitolo 6). L’atto è la macro categoria generale, il genus,
che poi si articola in 3 , altrettanto grandi, species (manifestazioni di conoscenza, di giudizio, di
volontà) di cui parleremo (anche in questo caso) dopo / Svolgendo una serie di osservazioni
concettuali, arriviamo alla definizione definitiva dell’atto amministrativo (secondo G. Clemente di
San Luca) : L’ATTO AMMINISTRATIVO E’ OGNI ATTO UNILATERALE, POSTO IN ESSERE DA
UNA P.A., NELLA ESPLICAZIONE DI UN POTERE AMMINISTRATIVO, E CONSISTENTE IN UNA
MANIFESTAZIONE (di conoscenza, di giudizio, di volontà, di regolazione, di indirizzo
amministrativo, o di controllo) GIURIDICAMENTE RILEVANTE NELL’ORDINAMENTO GENERALE
(che dunque produce effetti all’esterno dell’ordinamento particolare della PA, dell’ordinamento
amministrativistico), atto che, in quanto tale, viene per ciò sottoposto ad un peculiare regime
giuridico. Per quanto concerne il regime giuridico di cui abbiamo appena detto, diciamo (per
ora) semplicemente che esso consiste nella sua autoritatività, nella sua esecutività, nella sua
inoppugnabilità, nella sua impugnabilità (dinanzi al giudice amministrativo, d’ora in poi c.d.
G.A.) ; è quindi, per tale motivo, importante identificare l’atto amministrativo, e ciò si fa (lo si
identifica) analizzando analiticamente i suoi elementi costitutivi ed i suoi caratteri che (una volta
identificati) giustappunto denotano questo particolare, tanto acclamato, regime giuridico
dell’atto amministrativo. (come quando bisogna identificare un cammello, come lo si fa? Si
contano le gobbe (che devono essere 2, altrimenti si tratta di dromedario) , si vede il colore del
pelo e così via dicendo … )
Gli elementi costitutivi : Primariamente, si deve sottolineare il fatto che non ne parla
esplicitamente e direttamente nessun articolo, né nessun codice contemporaneo, ma, in
maniera indiretta, ne parla l’art. 21 septies introdotto nel 2005 nel quale si parla della nullità
dell’atto amministrativo, facendo, appunto, riferimento proprio agli elementi essenziali dell’atto
amministrativo. “Elementi essenziali” significa che la eventuale assenza (anche di uno soltanto
di essi) comporta la nullità dell’atto stesso. Essi sono 5, e sono :
1) Soggetto: termine soggettuale attivo dell'atto, il soggetto pubblico (generalmente una PA)
che lo pone in essere -> ogni atto amministrativo deve essere sempre imputabile ad una P.A.
Occorre, fondamentalmente, non solo che il soggetto sia meramente una PA, ma che la PA
stessa ( l'ente che la incarna, l’ente che emana l’atto ) sia titolare della relativa attribuzione, e
che l'organo (della PA emanatrice l’atto) della relativa competenza. Quindi, ricapitolando, il
soggetto che emana l’atto deve essere una PA titolare di attribuzione e competenza per
emanare quell’atto, e non solo meramente un semplice soggetto pubblico/amministrativo. (Es.
la laurea conferita dal Sindaco è un atto nullo, nonostante il Sindaco rappresenti la PA, in
quanto il Sindaco non ha l’attribuzione e la competenza per emanare quell’atto, cosa che ,
invece in questo caso, ha il rettore di dipartimento).
Vizi del soggetto:
Incompetenza assoluta: si ha quando l'atto proviene da un organo di un ente privo della relativa
attribuzione. In questo caso, l'atto è da considerarsi inesistente/nullo (non è in grado di
produrre effetti giuridici) ; Incompetenza relativa: si ha quando l'atto proviene da un organo di
un ente titolare di attribuzione, ma esso è privo della relativa competenza. L'atto è da
considerarsi, in questo caso, illegittimo/invalido (produce gli effetti giuridici suoi propri ma sarà
al tempo stesso annullabile).
2) Oggetto: termine passivo dell'atto, cioè il destinatario/bene nei cui confronti opera l'atto. E’
quindi il soggetto fisico o giuridico o la res (questo dipende dalle situazioni) nei cui confronti
l’atto incide. L’oggetto deve essere, come ci prescrive la disciplina privatistica, possibile, lecito,
determinato e determinabile.
Vizi dell'oggetto:
Sarà inesistente l'atto il cui oggetto non sia possibile, lecito, determinato o determinabile e
idoneo a realizzare l'esercizio di quel potere.
3) Forma: è la veste giuridico/formale dell'atto amministrativo. Nel nostro ordinamento vige il
principio di libertà della forma ma quella prevalente è la forma scritta che in alcuni casi è
obbligatoria per legge (in questi casi deve contenere: intestazione, preambolo, motivazione,
dispositivo, data e sottoscrizione). Nel diritto amministrativo la forma degli atti è, come detto
ripetiamo, tendenzialmente libera, potendo l'atto amministrativo rivestire sia la forma scritta
(es. un verbale) sia la forma orale (es. un atto iussivo) sia la forma simbolica o per immagini
(es. un segnale stradale, che dai più si ritiene essere un atto di natura iussiva). In genere è la
legge che stabilisce quale forma l'atto debba assumere, in ossequio ai principi di tipicità e
nominatività degli atti. Quando parliamo di forma, possiamo collegarci strettamente alla
disciplina del silenzio della PA, in quanto, leggendo da tale prospettiva concettuale, esistono
manifestazioni tacite ed implicite di volontà (quindi particolari forme che “rivestono” un
determinato atto amministrativo) : esistono, allor quindi, casi di atti implicito, dove la forma non
si manifesta per iscritto, ma da volontà ricavabile da un altro atto o comportamento della P.A. o
(quando la legge ne attribuisce significato) dal silenzio della PA stessa .
Vizi di forma:
Inesistenza: Se la forma scritta è obbligatoria ed essa manca l'atto sarà inesistente ;
Invalidità/Illegittimità: quando manca uno dei requisiti formali (data, sottoscrizione..) sarà
annullabile.
4) Contenuto: per contenuto intendiamo ciò che l'atto dispone (es. espropriazione di un
bene); il contenuto quindi esprime il volere della PA, esprime quello che la PA manifesta, che
essa sia una conoscenza, una volontà, un giudizio e così via dicendo. Il contenuto, così come
l’oggetto (ricorderemo per quanto appena detto) deve essere inderogabilmente possibile, lecito,
determinato e determinabile.
Vizi di contenuto:
Inesistenza: l'atto è inesistente se il suo contenuto non sarà possibile, lecito e determinato o
determinabile; Invalido/Illegittimo: quando il contenuto viola un principio generale
dell'ordinamento (es. viene emanato un atto a contenuto retroattivo, quando gli atti
amministrativi sono di norma irretroattivi. In questi casi sarà illegittimo, ma continuerà a
produrre i suoi effetti fin quando non ne verrà chiesto l'annullamento).
5) Finalità: è il fine, identificato inderogabilmente dal Legislatore, a cui l’atto tende ; risponde
alla domanda “ l’atto esiste perché, per quale causa (tipica prevista da legge) ?” e corrisponde
concettualmente ad un interesse pubblico da perseguire, che viene sempre fissato dalla legge.
E’, potremmo definitivamente dire, “ la finalità tipica che la legge fissa per determinare
categorie di atti ” (quindi posto ciò, il fine potrebbe servire didatticamente anche per individuare
le categorie degli atti -> tramite il fine, io riesco a capire di che categoria concettuale di atti
stiamo avendo a che fare) ; il fine è la causa legale prevista dalla legge, secondo cui si deve
obbligatoriamente aderire per l’emanazione dell’atto stesso ; il fine è un elemento essenziale
cardine, fondamentale, in quanto si verifica se l’atto adottato risponde a quel fine tipico per
esso previsto dal Legislatore -> è proprio tramite il fine che si verifica se l’atto è stato adottato
legittimamente o meno.
Vizi del fine:
Inesistente: se l'atto non realizza proprio un interesse pubblico specifico ; Invalido/illegittimo:
quando l'atto realizza un interesse pubblico diverso da quello fissato dalla legge (si trasmoda
qui in eccesso di potere, di cui parleremo ampliamente dopo).
I caratteri: Sono, ordinariamente, 4 le caratteristiche preponderanti che deve avere
necessariamente un qualsiasi atto amministrativo per esser considerato degno di questo nome.
Essi sono:
1) Autoritatività (o unilateralità) : capacità dell' atto di determinare i suoi effetti tipici nel
mondo giuridico (rilevanza esterna) in via unilaterale per il semplice fatto di provenire da una
autorità amministrativa. L’atto si dice autoritativo, unilaterale, in quanto ha efficacia
indipendentemente dalla volontà del soggetto cui è destinato (a cui può anche essere imposto);
essa non va confusa (teoricamente parlando, a livello meramente didattico, in quanto
praticamente e materialmente la differenza è praticamente nulla) con la imperatività propria
solo dei provvedimenti : per essa intendiamo la capacità di incidere in via diretta nella sfera
giuridica del destinatario.
2) Esecutività: è la conseguenza diretta dell'autoritatività. Consiste nella astratta idoneità
dell'atto a produrre gli effetti tipici suoi propri. ( importante ricordare è che se l’atto esiste
produce i suoi effetti a prescindere che sia illegittimo o meno, quindi bisogna tener separati, in
diritto amministrativo, i concetti di esistenza ed illegittimità, anche se questo ultimo, una volta
scoperto, fa conseguire l’altro, fa conseguire l’inesistenza ). Esecutività, ripetiamolo, sta a
significare che l’atto, per il solo fatto di esistere, produce i suoi effetti, quindi a prescindere da
una sua eventuale invalidità e/o illegittimità che non sia stata magari ancora messa alla luce.
L'esecutività, si badi bene, va tenuta distinta dalla efficacia giuridica in senso stretto ->
Esecutività: astratta attitudine a produrre gli effetti ; Efficacia in senso stretto: effettiva
produzione degli effetti al verificarsi di eventuali termini o condizioni o modus. In ogni caso ,
queste due categorie sono riconducibili alla più ampia categoria di efficacia in senso lato.
L’esecutività non va confusa, inoltre, con la esecutorietà (tipica caratteristica, stavolta, di un
provvedimento amministrativo) di cui parleremo ampliamente successivamente ma di cui
possiamo interconnetterci dicendo semplicemente che “essa è la facoltà che la legge ,in alcuni
determinatissimi casi, concede alla PA di farsi giustizia da sé nei confronti di un soggetto,
ovvero sia di portare ad esecuzione un atto (o, per meglio dir, un provvedimento) senza
passare per il giudice”.
3) Tipicità e nominatività: entrambi sono la conseguenza del principio di legalità. L’atto è
nominativo (e vedremo tra un po’ cosa è la nominatività, in accezione più specifica) , è tipico in
quanto ciascuna tipologia di atto è prevista tipicamente dalla legge. E’ facile comprendere,
quindi, come ci si può collegare alla finalità, alla causa (elemento essenziale dell’atto
amministrativo) di cui parlavamo poco fa. Succede che , praticamente, la legge disciplina i c.d.
“numeri chiusi”, (i numerus clausus, per essere chic) (ricorderemo dal diritto civile) e quindi la
PA può emanare solamente quelle tipologie di atti che sono presenti in questi “numeri chiusi”,
non se ne può inventare uno nuovo (come succede nel diritto privato, quando 2 contraenti si
“inventano” un particolare negozio giuridico in voga dell’elemento volitivo, come elemento
essenziale del negozio giuridico stesso). Quindi, ricapitolando a livello definitorio, tipicità
significa che i tipi di atti amministrativi sono individuati dalla legge, che ne definisce il contenuto
e la finalità (si parli appunto anche della finalità, per una completezza discorsiva).
Vizi tipicità:
Inesistenza: qualsiasi atto non tipizzato dalla legge.
** Nominatività: più che individuare il tipo di atto (come nel caso della tipicità) , la legge
individua il nomen iuris. Si dirà, ancor meglio, in voga della definizione di tipicità poc’anzi
esplicata (a cui bisogna inderogabilmente interconnettersi) , che un atto è nominativo in quanto
ciascuna tipologia di atto è prevista nominativamente dalla legge. (Es. la legge denomina
concessione un atto che consiste in una autorizzazione. Ad una data tipicità, autorizzazione,
corrisponde il nomen iuris di concessione).
4) Inoppugnabilità: consiste nel fatto che un atto, decorsi i 60 giorni disponibili per
impugnarlo, diventa inoppugnabile, ovvero sia non potrà più essere impugnato dinanzi un
giudice . Quindi, detta male, quando un atto (secondo la teoria di un soggetto che si vede
violare i suoi interessi legittimi (ecco tutto torna!) ) sembra esser illegittimo, vi è questa
possibilità di impugnarlo entro 60 giorni (decorsi i quali, quell’atto diventa inoppugnabile). La
differenza con la c.d. non impugnabilità: L'inoppugnabilità va, inderogabilmente, tenuta distinta
dalla non impugnabilità. La prima , come appena detto, è quella caratteristica che acquisiscono
gli atti quando non vengono impugnati entro i 60 giorni utili per farlo ; la seconda, è una
caratteristica di un atto che nasce direttamente (automaticamente, ontologicamente) come non
impugnabile, nasce come caratteristica fisiologica di una determinata categoria di atti c.d. non
impugnabili (che hanno questa caratteristica nel loro DNA) , perché non è in grado di ledere ex
se una situazione giuridica soggettiva. Praticamente ricapitolando , ricognitivamente e
simpaticamente , con una frase che lascia poco spazio alla immaginazione : “con
l’inoppugnabilità ci si diventa, con la non impugnabilità ci si nasce” . Esempi di atti non
impugnabili: * Endoprocedimentali (o preparatori) : atti interni al procedimento (e non in cui
sfocia il procedimento). Essi non sono impugnabili in quanto non interagiscono direttamente con
la sfera giuridica di un soggetto e non possono creare lesione, per una loro caratteristica
fisiologica. I preparatori devono essere tenuti distinti dagli atti presupposti, perché a differenza dei primi, hanno
autonomia funzionale e sono capaci di ledere con il provvedimento la sfera giuridica soggettiva di un soggetto (es.
Atti meramente confermativi e meramente esecutivi: a differenza dei
regolamenti, vedi appunti) ; *
confermativi e degli esecutivi veri e propri, essi non consistono in una nuova manifestazione di
volontà, dando semplicemente conferma o esecuzione di una manifestazione di volontà
precedente (quindi l'eventuale lesione non verrà da tali atti, ma da quelli precedenti di cui essi
danno semplice attuazione).
// Dopo questo infinito discorso, possiamo dare una nozione definitoria completa
di Atto Amministrativo :
"Esso è l'atto:
1. di regola tipico e nominato (salvo quelli "della emergenza")
2. emanato unilateralmente da un'autorità amministrativa
3. nell'esercizio di un potere funzionalizzato dalla legge alla realizzazione di un IPS
4. consistente in una manifestazione di conoscenza, giudizio, o volontà (non sono
obbligatori tutti e tre)
5. avente rilevanza esterna (cioè giuridicamente rilevante nell'ordinamento
generale)
6. che non necessariamente, ma di regola, è il frutto dello svolgimento di un
procedimento
7. che, in quanto tale, si vede applicato un particolare regime giuridico
(autoritatività, esecutività, inoppugnabilità e impugnabilità)"
Parte Terza, Capitolo 6, Par. 2.1, pag. 495 del manuale. Classificazione degli atti amministrativi: (la
differenza fra atti aventi “e non” contenuto di volizione)
Vedremo, in maniera molto schematica e poco discorsiva (ecco perché, per i più scrupolosi,
rimandiamo la lettura a pag. 495 del manuale) la classificazione, fatta in dottrina, degli atti
amministrativi.
In base alle attività che la P.A. deve svolgere (conoscere, valutare, provvedere) può effettuarsi una
classificazione per contenuto, una classificazione, quindi, che verrà fatta sulla base contenutistica
della tipologia di atto stesso.
Prima di spiegare la classificazione, definiamo le tre attività della P.A.:
1) conoscenza, che può essere:
* puramente e semplicemente enunciata: l'accertamento della conoscenza si traduce in un
atto senza che l'autorità amministrativa effettui alcun apprezzamento o giudizio e senza esprimere
una volontà (es. certificato)
* utilizzata come presupposto per una valutazione (p.2): l'accertamento non trova
formalizzazione in un atto, ma diviene strumentale alla emanazione di un atto di apprezzamento
* utilizzata come presupposto per una manifestazione di volontà (p. 3): la conoscenza non si
esprime direttamente in un atto, ma contribuisce a determinare la manifestazione della volontà.
3) volontà. La manifestazione di volontà può essere prevista dalla legge come esito finale dell'azione
amministrativa (cioè esito finale di attività di conoscenza e valutazione), ma non è detto che
conoscenza e valutazione debbano necessariamente sfociare in una manifestazione di volontà. La
manifestazione di volontà si fattualizza, generalmente, in un provvedimento amministrativo.
Elementi accidentali dell’atto amministrativo (solo schematizzato, vedi, per maggior precisione, pag 548):
Essi coincidono con quelli previsti dal diritto civile:
* termine: indica il momento dal quale l'atto inizia ad avere efficacia (termine iniziale). oppure il
momento dal quale l'efficacia cessa (termine finale)
* condizione: il verificarsi di un evento futuro e incerto porta all'inizio (condizione sospensiva) o
alla cessazione (condizione risolutiva) dell'efficacia dell'atto.
* modus: generalmente non è possibile apporli, eccezionalmente si può solo se amplia la sfera
giuridica del destinatario.
Inoltre, si ha vizio di merito sopravvenuto, quando, a seguito di una nuova rivalutazione della
P.A. degli interessi in gioco, l'originario contenuto dell'atto risulterebbe divenuto ormai
inopportuno e non più conveniente, a dispetto di come lo si era concepito inizialmente.
L’ECCESSO DI POTERE: Nozione definitoria: Vizio di legittimità degli atti amministrativi che
determina l’annullamento degli stessi. L’eccesso di potere è nozione complessa, frutto di un
lungo percorso di elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, dettata dall’esigenza di consentire
al giudice (in particolare, al giudice amministrativo) di effettuare un controllo sulla legittimità
delle scelte discrezionali della pubblica amministrazione. La teoria più accreditata lo interpreta
come un «vizio della funzione amministrativa». Secondo un’altra interpretazione, si tratterebbe di
«violazione dei limiti interni non scritti dalla discrezionalità amministrativa». Entrambe le teorie
riconducono il vizio al non corretto esercizio del potere discrezionale da parte della pubblica
amministrazione. Attraverso la figura dell’eccesso di potere, come negli altri casi di invalidità
dell’atto amministrativo, il giudice non effettua un controllo, in sé inammissibile, sul merito delle
scelte, bensì sul ‘modo’ in cui queste sono state effettuate. L'eccesso di potere è, quindi, un
vizio di legittimità dell’atto amministrativo che si manifesta nel cattivo uso del potere da parte
della Pubblica amministrazione o nella deviazione del potere da quei principi generali stabiliti dal
legislatore, come la correttezza, la buona fede o la diligenza.
Contenutistica : Vizio che si verifica ogni qualvolta l’atto amministrativo realizza un interesse
diverso da quello al quale l’ordinamento lo aveva istituzionalmente preposto. Secondo la
giurisprudenza l’eccesso di potere si realizza non solo quando la divergenza dell’atto dalla sua
funzione tipica sia effettiva (ipotesi che si riassume sotto il nome di sviamento di potere), ma
pure quando essa è soltanto potenziale (p.e., perché emerge il dubbio che l’atto sia stato
adottato sulla base di un’inesatta rappresentazione della realtà): in quest’ultimo caso, allora,
l’eccesso di potere assume l’aspetto di un vizio intervenuto nell’iter logico di formazione
dell’atto. Normalmente, si distinguono diverse forme di eccesso di potere. Di queste, alcune
sono intrinseche all’atto stesso: così, la motivazione inesistente, la motivazione insufficiente (si
omette di prendere in considerazione qualcuna delle circostanze rilevanti), la motivazione
incongrua (si motiva riferendosi a elementi irrilevanti), la motivazione dubbiosa (si assumono a
fondamento fatti dei quali si esclude la certezza). Altre forme, invece, sono estrinseche all’atto:
p.e., le esistenze di norme o di prassi deponenti in senso contrario al provvedimento adottato.
Parte della dottrina ha ritenuto sussistente l’eccesso di potere anche nei casi di ingiustizia grave
e manifesta e in quelli di disparità di trattamento in situazioni identiche tra loro. Queste ipotesi,
però, concretano manifestazioni di parzialità dell’Amministrazione e rappresentano quindi
violazioni di precise norme giuridiche (contenute negli artt. 3 e 97 Cost.); pertanto, non si tratta
di eccesso di potere, bensì di violazione di legge. Di eccesso di potere in senso lato, infine, si
parla anche per indicare qualsiasi arbitrario sconfinamento di una pubblica autorità nelle
attribuzioni di un potere diverso da quello al quale la stessa appartiene (legislativo, giudiziario,
esecutivo). Tale figura, tuttavia, viene denominata più propriamente incompetenza assoluta.
Quando viene in essere ? Perché si verifichi nel concreto un eccesso di potere occorre che: l'atto
sia discrezionale, in quanto gli atti vincolati hanno un contenuto predeterminato e pertanto
rispetto a questi non si può configurare l'eccesso di potere; l'atto realizzi uno sviamento del
potere, tale per cui il fine realizzato dall'atto nel caso concreto è diverso da quello previsto dalla
legge; l'eccesso di potere sia provato.
Differenza con il vizio di merito: L'eccesso di potere si concretizza quando tramite l'atto
amministrativo viene perseguita una finalità diversa dalla finalità tipica prevista dall'ordinamento
giuridico; il vizio di merito invece attiene la violazione delle regole di opportunità, convenienza e
buona amministrazione. Con l'eccesso di potere si realizza una violazione di norme giuridiche,
mentre con i vizi di merito si realizza una violazione di norme non giuridiche.
IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO:
Nozione: Il provvedimento amministrativo, nel diritto amministrativo, indica un particolare
tipo di atto amministrativo con il quale un'autorità amministrativa manifesta la propria volontà,
nell'esercizio dei suoi poteri. Tipicamente si tratta dell'atto amministrativo conclusivo di una
sequenza di atti all'interno di un procedimento amministrativo supervisionato da un responsabile
del procedimento amministrativo. Tramite un provvedimento amministrativo si crea, modifica o
estingue una determinata situazione giuridica soggettiva al fine di realizzare un particolare
interesse pubblico affidato alla cura della pubblica amministrazione che ha posto in essere il
provvedimento. E’ un atto particolare in quanto consiste in una statuizione autoritativa ed
imperativa (che manifesta, allorché, caratteri di autarchia, autoritatività) capace di modificare
unilateralmente la sfera giuridica del destinatario, diversamente da tutti gli altri atti
amministrativi che non è detto che abbiano questa capacità. La autoritatività e la imperatività
sono 2 caratteristiche peculiari caratterizzanti il provvedimento, sono come la criniera per il leone,
o la pelle tigrata della tigre, che sono comunque felini (fanno parte di quel genus) ma sono felini
“particolari” e certamente (ci verrebbe da dire) più pericolosi ! (Es. Un certificato è un atto
amministrativo, non ci interessa di che species sia, ci interessa sapere che non fa parte della species
“provvedimenti” , ma non modifica di certo la sfera giuridica del destinatario ; un provvedimento di
espropriazione di un bene è anch’esso un atto amministrativo ma è, più specificatamente, facente parte
della species dei provvedimenti amministrativi e quindi ha la capacità di modificare la sfera giuridica del
destinatario, in quanto appunto viene espropriato il bene a questo ultimo). / Dando una definizione
(secondo G. Clemente di San Luca) : IL PROVVEDIMENTO E’ QUELLA SPECIES PARTCIOLARE
DI ATTO AMMINISTRATIVO, LA CUI EMANAZIONE RICHIEDE SEMPRE E PER FORZA LO
SVOLGIMENTO DI UN PROCEDIMENTO, CARATTERIZZATO DA (oltre le caratteristiche già
proprie dell’atto amministrativo genus: autoritatività, esecutività, inoppugnabilità)
IMPERATIVITA’ (capacità di modificare unilateralmente la sfera giuridica del destinatario, senza
il volere di quest’ultimo) ed in alcuni casi, previsti da legge, dalla ESECUTORIETA’ (che abbiamo
accennato prima, che ne parleremo fra un po’, e che consiste, a livello definitorio, nella capacità
,da parte della PA, di portare ad esecuzione materiale (e forzata) un provvedimento senza
autorizzazione del giudice -> Es. provvedimento di espropriazione della televisione, perché Fabio non ha
pagato le tasse: chi per esso della (e per conto della) PA va a casa di Fabio, senza nessuna autorizzazione del
giudice, e si prende la televisione e Fabio può urlare e fare il pazzo quanto vuole, ma non servirà a nulla).
Caratteri peculiari e tipici del provvedimento amministrativo: Oltre a quelli tipici di tutti
gli atti amministrativi, i provvedimenti sono caratterizzati da 2 particolarissime (e, ci verrebbe da
dire, “preoccupanti” per il destinatario) caratteristiche: 1) imperatività: capacità del
provvedimento amministrativo di modificare unilateralmente la sfera giuridica di destinatari. Essi
si trovano in una posizione di soggezione, ma questo non significa dire, come vedremo, che
questi non possano far nulla in quanto possono impugnare il provvedimento ; 2) esecutorietà: si
affianca all'esecutività tipica di ogni atto amministrativo (semplice attitudine a produrre effetti),
e consiste nella capacità del provvedimento di essere portato direttamente e coattivamente ad
esecuzione, a prescindere dall'intervento del giudice, anche contro la volontà del destinatario.
Laddove l'esecutività viene sospesa dal giudice, il provvedimento perde la sua esecutorietà.
Quindi le autorità pubbliche possono dare immediata e diretta esecuzione del provvedimento
amministrativo , senza che sia necessaria una preventiva pronuncia giurisdizionale.
2.1) La prima sub – categoria dei provvedimenti che operano su diritti e doveri : Provvedimenti ampliativi
(pag. 586 del manuale): si caratterizzano per il fatto che allargano, ampliano, la sfera giuridica dei
destinatari, tanto attribuendo loro diritti e facoltà giuridiche, quanto rimuovendo gli ostacoli che si
frappongono all'esercizio di questi (libertà positiva: aiutami a fare). Essi sono:
- Concessioni: con i provvedimenti di concessione, la P.A. attribuisce al destinatario un diritto soggettivo,
un potere, una facoltà o uno status, dei quali la sfera giuridica di questi era sprovvista. Le concessioni
possono essere (non strappate il foglio !) a loro volta suddivise in concessioni traslative (la P.A.
trasferisce diritti reali o di altro tipo di cui è titolare. Pur non dovendo essere necessariamente esercitati
da questa, può comunque esercitarli), oppure concessioni costitutive (la P.A. costituisce in capo ad un
privato diritti e facoltà di cui non è titolare, i quali, pur non essendo da essa esercitati, sono riconosciuti
dall'ordinamento come un'area di suo dominio). Dato e posto che le concessioni in generale concedono
un diritto al richiedente, questi vanterà nei confronti della P.A. un interesse legittimo ;
- Erogazioni finanziarie: provvedimento con il quale la P.A. sostiene l'impegno nella società civile nei più
svariati settori, e per le più diverse attività ;
- Licenze: si intendono quei provvedimenti mediante i quali la P.A. permette una determinata attività
valutando discrezionalmente se l'esercizio di questa sia o meno in grado di soddisfare un interesse
pubblico. (Si distinguono dalle autorizzazioni, in quanto queste vengono rilasciate a soggetti che già
vantano un diritto soggettivo).
- Dispense: l'ordinamento assegna alla P.A. la capacità di valutare l'opportunità che venga svolta
un'attività da esso stesso generalmente preclusa e di consentirne in via eccezionale l'esercizio.
- Autorizzazioni: il più importante tra i provvedimenti ampliativi, il più frequente in prassi (tutti noi
abbiamo avuto a che fare, per lo meno una volta, con delle autorizzazioni) . Con essa la P.A. rimuove il
limite legale che si frappone all'esercizio di un diritto già esistente nella sfera giuridica del richiedente
dopo aver accertato i presupposti fissati dalla legge. Il diritto quindi è già in capo al richiedente, e questi
può esercitare l'attività solo dopo la verifica amministrativa dei requisiti da essa stessa stabiliti (tutti noi
dovremmo poter guidare dopo i 18 anni, ma la patente (che è una sorta di autorizzazione) è quel
provvedimento amministrativo ampliativo/permissivo di tipo autorizzativo (ci si perdoni il gioco di parole)
che elimina il limite legale che si frappone all’esercizio di un diritto che già dovrebbe essere esistente
nella sfera giuridica del soggetto richiedente, dopo l’accertamento da parte dello Stato, da parte della PA,
che abbiamo i requisiti per poterlo fare -> non dobbiamo esser ciechi, monchi, e dobbiamo saper
guidare).
*** Differenza tra Concessioni e Autorizzazioni: è di facile comprensione, se il lettore è stato attento
prima. Entrambi i provvedimenti ampliativi arricchiscono la sfera giuridica del destinatario, ma, mentre nel
primo caso la sfera giuridica del destinatario acquista un diritto che prima non vi era, nel secondo, il
diritto era già parte della sfera giuridica del destinatario ma non aveva possibilità di effettiva esplicazione,
mancando il titolo per il suo esercizio.
- Abilitazioni: mentre nelle autorizzazioni la P.A. si connota per essere di discrezionalità amministrativa
(valutare i vari interessi in gioco), nelle abilitazioni, essa è di discrezionalità tecnica (verificare la
sussistenza di requisiti fissati dalla legge). In entrambi vi è un diritto in via di espansione e vantano una
situazione giuridica di interesse legittimo.
- Approvazioni: consistono in un provvedimento di assenso successivo all'emanazione di un altro
provvedimento che opera come condizione di efficacia di quest'ultimo.
Dalle approvazioni vanno tenuti distinti i nulla osta, che non sono provvedimenti, ma atti
endoprocedimentali (si ha durante il procedimento) non dotati di autonomia funzionale. Con esso la P.A.
manifesta di non avere un contrario avviso rispetto all'assunzione del provvedimento che dovrebbe
esitare a quel procedimento.
2.2.) La seconda sub – categoria dei provvedimenti che operano su diritti e doveri : Provvedimenti
restrittivi (pag. 600 del manuale) : sono quei provvedimenti che limitano le facoltà dei destinatari, o
comprimendole fino a sopprimerle, o imponendo obblighi. Si tratta in sostanza di provvedimenti ablatori,
perché i poteri che essi realizzano in concreto consistono comunque nell'ablazione di un diritto o di una
facoltà. L’atto ablativo, difatti, è l’emblema di questa sub – categoria : L'atto ablativo, nell'ambito del
diritto amministrativo, è un atto amministrativo attraverso il quale la Pubblica Amministrazione priva il
titolare di un diritto reale, estinguendolo o trasferendolo coattivamente ad un altro soggetto, oppure
limitando nella sua estensione.
Si possono distinguere, a loro volta, in 2 “mini” - sub- categorie: quelli che incidono sui diritti (2.2.1) ;
quelli che creano obblighi (2.2.2). Vediamoli nello specifico:
2.2.1 ) Quelli che incidono sui diritti: Si distinguono a loro volta (si chiede nuovamente di non strappare il
foglio !) : provvedimenti che incidono su diritti patrimoniali (e spiegheremo solo questi, nelle loro
sfaccettature) ; provvedimenti che incidono su diritti non patrimoniali (che non toccheremo, non avendo
essi importanza pregnante) . Vediamo quindi i soli (si fa per dire) Provvedimenti che incidono su diritti
patrimoniali che vanno ulteriormente differenziati in: provvedimenti ablativi di beni o diritti reali ;
provvedimenti ablativi creativi di vincoli o limitazioni alla proprietà. Spieghiamoli :
*** Provvedimenti ablativi di beni o diritti reali: Rientrano in tale categoria: - espropriazione: è il
provvedimento ablatorio più importante. Consiste nel trasferimento definitivo, per ragioni di pubblica
utilità, del diritto di proprietà o di un altro diritto reale, da un precedente ad un nuovo titolare.
Espropriato è (solitamente) un soggetto privato, espropriante è invece sempre una P.A. L'espropriazione
deve sempre trovare uno specifico fondamento legislativo ed è possibile solo dietro indennizzo ; -
Occupazione temporanea: l'autorità espropriante, può disporre l'occupazione temporanea di aree non
soggette a procedimento espropriativo. È dovuta al proprietario un'indennità; - Requisizione: è un
provvedimento finalizzato tanto a conseguire l'uso di beni in appartenenza privata, quanto ad acquisirne
la proprietà. Al destinatario è dovuta, in entrambi i casi, un'indennità. La requisizione in proprietà
riguarda esclusivamente beni mobili e produce effetti definitivi. La requisizione in uso può avere ad
oggetto anche beni immobili ed è per definizione temporanea ; - Confisca e sequestro: la confisca si
connota per uno scopo sanzionatorio a seguito di un illecito amministrativo. Il sequestro ha uno scopo
cautelare, collegandosi necessariamente ad una situazione di pericolo che potrebbe determinarsi a causa
del bene.
***Provvedimenti creativi di vincoli e limitazioni della proprietà: Vanno ricompresi tra essi due classi di
provvedimenti: quelli mediante i quali la P.A. pur non apprendendo un bene, ne condiziona la piena
utilizzazione da parte del proprietario ; quelli mediante i quali la P.A. impone al destinatario la
costituzione di un rapporto obbligatorio.
2.2.2) Quelli che creano obblighi: Tra questi rientrano: ordini/ordinanze (contenuto positivo, definiti
comandi); divieti (contenuto negative).
Ora si analizzeranno i paragrafi 11,12,13 del Capitolo 6 (Parte Terza), dove si aprirà un
interessante tema: la possibilità da parte della PA di pattuire accordi con i privati o con un'altra
PA , in sostituzione dei provvedimenti finali.
La negoziabilità del potere amministrativo / Introduzione discorsiva agli accordi della PA (vedi ,
contestualmente ed in allegato, da pag. 142 a pag. 148 della “sbobbinatura” per il corretto e completo studio di
questo argomento concettuale) : L’esercizio del potere amministrativo è, sembrerebbe paradossale,
negoziabile MA entro l’ambito della discrezionalità amministrativa, senza MAI poter diventare
espressione del principio di autonomia negoziale, che rimane estraneo comunque al diritto
amministrativo, o , per meglio dire, “trapiantato” ma alla condizione che si uniformi a ciò che
prescrive la legge ed il motivo ideologico per cui la PA stessa è stata concepita (a breve, tra
poche righe, capiremo ancor meglio quanto è stato appena detto). L’accesa questione dottrinale
circa la possibilità, circa i limiti, della cooperazione, coadiuvazione, collaborazione tra azione
amministrativa (di per sé caratterizzata dogmaticamente da autoritatività, autarchia) e privato
ha trovato codificazione ad opera della L 241/1990 agli artt. 11 (accordi integrativi o sostitutivi
del provvedimento) e 15 (accordi fra PPAA), quindi il che ci deve far capire che chi ancora oggi
sostiene che PA e privato sono 2 pianeti diversi (che non si toccano materialmente e
concettualmente) non capisce nulla di diritto amministrativo, né di diritto privato. Posto questo,
affermato definitivamente che esiste la possibilità dell’accordo negoziale di impianto privatistico
tra amministrazione e privato e tra amministrazioni (fra di loro), ciò che bisogna qui subito
chiarire (e sottolineare fortemente, si badi bene) è che l’ACCORDO con il privato da parte della
PA circa una determinata fattispecie concreta NON DEVE (né sembra) MAI alterare l’assetto
teleologico del potere , quindi non deve mai smuovere quei sacrosanti dogmi della autoritatività
e unilateralità . Succede, in sintesi, che lo strumento negoziale è sempre e comunque
funzionalizzato allo scopo primario della PA: curare l’interesse pubblico ; allorché anche una
pattuizione volitiva “amministrazione – privato” sulla riga base – logica del diritto privato e
dell’impianto civilistico deve sempre avere a fondamenta del tutto (quasi come fosse un muro
maestro di un palazzo) la cura dell’interesse pubblico. Quindi l’autoritatività
dell’amministrazione, il suo potere autarchico, intesa/o come dogma della filosofia
amministrativistica, rimane viva e vegeta, sempre presente, anche se oscurata dietro un velo.
SI AGISCE , COMUNQUE , SEMPRE NEL REGIME PUBBLICISTICO E MAI IN QUELLO
PRIVATISTICO.
Ogni P.A., dunque, può stipulare contratti. Laddove necessiti di conseguire un introito (ad
esempio, vendendo o dando in locazione un bene che è nella sua appartenenza: i ccdd.
contratti attivi) o servizi (ad esempio, comprando o prendendo in locazione un bene che è
nell’altrui appartenenza: i ccdd. contratti passivi), seppur secondo una procedura complessa,
perché articolata in almeno due grandi fasi, l’una fino alla stipula e l’altra dopo di essa, sotto il
prevalente dominio, rispettivamente, del diritto amministrativo e del diritto civile. La richiamata
esigenza pubblicistica va sotto il nome di evidenza pubblica, a segnalare, appunto, quelle
procedure che la P.A. è tenuta a seguire, al fine di garantire l’interesse pubblico specifico, nella
fase che, per gran parte, precede (di regola) la stipula del contratto. L’interesse pubblico non è
da intendersi rigidamente: come fa osservare autorevole dottrina, infatti, per un verso può ben
dirsi che nella fase preliminare alla stipula (in prevalenza sotto l’egida del diritto amministrativo)
si manifestano momenti ispirati all’autonomia negoziale; per altro verso, seppur in maniera
marginale, nella fase successiva alla stipula (in prevalenza sotto egida del diritto civile)
sussistono aspetti di chiara matrice pubblicistica (quali sono, ad esempio, i controlli concernenti
l’esecuzione e la estinzione del contratto)
4. I capitolati
I capitolati sono quei documenti che contengono i precetti che una qualunque P.A. si dà per
auto-regolare la propria capacità contrattuale. Essi “per ogni genere di contratti possono
dividersi, ove sia necessario, in generali e speciali e sono approvati da ciascun Ministero”
Quelli generali “contengono le condizioni che possono applicarsi indistintamente ad un
determinato genere di lavoro, appalto o contratto, e le forme da seguirsi per le gare; “quelli
speciali, invece, attengono ai singoli contratti, giacché “riguardano le condizioni che si
riferiscono più particolarmente all’oggetto proprio” di ciascuno di essi, cosi finendo per
conformare ogni specifico rapporto negoziale. È importante che, con riguardo al loro contenuto,
è prescritto che in essi siano “determinate la natura e l’importanza delle garanzie che i
concorrenti devono produrre per essere ammessi agl’incanti, e per assicurare l’adempimento dei
loro impegni; come pure le clausole penali e l’azione che l’amministrazione può esercitare sopra
le cauzioni nel caso d’inadempimento ai detti impegni non che il luogo in cui l’aggiudicatario, il
fideiussore o l’approbatore, garante del fideiussore, devono eleggere il domicilio legale“.
La loro natura giuridica per lungo tempo controversa: si discuteva se essi costituissero vere e
proprie fonti dell’ordinamento generale, ovvero semplici norme interne di ciascun ordinamento
particolare della P.A., che in quanto tali la vincolavano, ma non fanno altrettanto per il
contraente privato fintanto che non le abbia sottoscritte come clausole contrattuali. Può dirsi
che, almeno in linea di massima, sia prevalsa (e prevalga) questa seconda tesi. Naturalmente,
un peso decisivo per definire la natura va attribuito alla forma giuridica dell’atto che approva il
capitolato: laddove l’”involucro” che lo contiene presenti quella propria dei regolamenti,
evidentemente, sembra doversi riconoscere al capitolato natura normativa, con tutte le
conseguenze ciò derivano quanto alla loro applicabilità ed interpretazione.
E veniamo ad illustrare la fase che precede la stipula di ogni contratto della P.A., fase che è
pubblicistica e perciò disciplinata in maniera tale che venga garantito il rispetto dei principi, di
cui all’art 97 Cost., di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. La disciplina in
parola ha inizio con un atto amministrativo mediante il quale la P.A. delibera la cd.
“determinazione a contrarre”, evidentemente esplicitando le ragioni di interesse pubblico che
motivano la decisione. Nello stesso provvedimento conformemente ai precetti contenuti nei
relativi capitolati, viene determinato anche il contenuto del contratto, di quest’ultimo
predisponendosi un vero e proprio “progetto” che contempli, unitamente alla spesa prevista, la
modalità di scelta del contraente che sarà assunta. Il momento successivo consiste, appunto,
nella scelta del contraente. Le tradizionali norme di contabilità pubblica prevedono le seguenti
quattro modalità per individuarlo: l’asta pubblica; la licitazione privata; la trattativa privata; e
l’appalto-concorso. La necessità di conformarsi all’ordinamento U.E. ha recentemente imposto
una diversa terminologia; così nel Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006) si parla di:
“procedure aperte”, “procedure ristrette” e “procedure negoziate” . La sostanza però e rimasta
essenzialmente immutata, le tre procedure, in linea di massima, corrispondendo a quelle della
tradizione, e cioè rispettivamente: all’asta pubblica; alla licitazione privata; alla trattativa privata
e all’appalto-concorso. Il codice contempla anche la modalità mutuata dall’ordinamento
europeo, del cd. “dialogo competitivo”, che a differenza delle tre, non trova corrispondenza
nella storia della legislazione italiana di contabilità pubblica, e forse per questo non ha avuto
molta fortuna nella pratica. “Il dialogo competitivo” è una procedura nella quale la stazione
appaltante, in caso di appalti particolarmente complessi, avvia un dialogo con i candidati
ammessi a tale procedura, al fine di elaborare una o più soluzioni atte a soddisfare le sue
necessità sulla base della quale o delle quali i candidati selezionati saranno invitati a presentare
le offerte; a tale procedura qualsiasi operatore economico può chiedere di partecipare”.
Ognuna delle menzionate modalità è utilizzabile, per le caratteristiche sue proprie, al ricorrere di
determinate circostanze: se si tratti di stipulare contratti attivi, oppure passivi; se sia stato, o
no, già predisposto il progetto dell’opera che si intende realizzare; se il bene o servizio di cui si
ha bisogno sia offerto sul mercato da uno solo, oppure da diversi produttori; e cosi via.
Asta pubblica e licitazione privata. La P.A. ricorre all’asta pubblica (che corrisponde alla
“procedura aperta” nella terminologia della U.E.) ovvero alla licitazione privata (che corrisponde
alla “procedura ristretta”), dopo aver predisposto il progetto di contratto: emana perciò un
bando con cui invita, nel primo caso chiunque creda purché in possesso dei requisiti) a
presentare un offerta; nel secondo caso, invece, soltanto i soggetti che, sulla scorta di una
preliminare selezione, siano stati considerati in grado di realizzare l’opera. In entrambi i casi
sceglierà, alla fine, l’offerta ritenuta più convincente, tenendo conto del “criterio del prezzo più
basso”, ovvero di quello “dell’offerta economicamente più vantaggiosa” che va intesa in senso
complessivo.
Quanto al bando di gara, che è necessario per entrambe le modalità, occorre ricordare che esso
consiste in un atto amministrativo con il quale la P.A. invita i soggetti interessati a partecipare
alla gara: tutti quelli che vogliano presentare offerte, nel caso dell’asta; ovvero coloro che
chiedano di partecipare, nel caso della licitazione.
Merita attenzione, sia pur brevemente, la questione della definizione di quali PP.AA. rientrino fra
quelle che, per aggiudicare le gare per la individuazione del contraente, devono sottostare alle
prescrizioni che stiamo esaminando, perché fra esse la legge include i ccdd. “organismi di diritto
pubblico”.
L’art. 3 D.Lgs. 163/2006, infatti, stabilisce che “le amministrazioni aggiudicatrici” sono: le
amministrazioni dello stato; gli enti pubblici territoriali; gli organismi di diritto pubblico. Per
organismo di diritto pubblico s’intende “qualsiasi organismo, anche in forma societaria” che sia
“istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non
industriale o commerciale”, che sia “dotato di personalità giuridica”, e “la cui attività sia
finanziata in modo maggioritario dallo stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di
diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui
organo d’amministrazione, di direzione o vigilanza sia costituito da membri dei quali più della
metà e designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto
pubblico”.
La gara per la scelta del contraente si conclude con un verbale di aggiudicazione, che è un
provvedimento amministrativo. Esso, di regola, tiene luogo del contratto, il quale, quindi, non
viene espressamente stipulato: come recita l’art. 16, co. 4, R.D. 2440/1923, “i processi verbali
di aggiudicazione definitiva, in seguito ad incanti pubblici o a private licitazioni, equivalgono per
ogni legale effetto al contratto”. Un vero e proprio contratto, viene stipulato sempre nel caso
della trattativa privata; mentre, negli altri casi, solo laddove il verbale di aggiudicazione
costituisce un atto meramente preparatorio, e non conclusivo, del contratto.
Una volta che l’aggiudicazione definitiva sia divenuta efficace, “e fatto salvo l’esercizio dei poteri
di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o
concessione ha luogo entro il termine di 60 giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o
nell’invito ad offrire , ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con
l’aggiudicatorio”. Quanto alla forma la norma prevede che “Il contratto è stipulato mediante atto
pubblico notarile, o mediante forma pubblica amministrativa a cura dell’ufficiale rogante
dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero mediante scrittura privata, nonché in forma
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna appaltante”. Successivamente il contratto
approvato è sottoposto “agli eventuali controlli previsti dagli ordinamenti delle amministrazioni
aggiudicatrici, degli enti aggiudicatori, o degli altri soggetti aggiudicatori, nel rispetto dei termini
previsti dai singoli ordinamenti, decorrenti dal ricevimento del contratto approvato da parte
dell’organo di controllo. In mancanza, il termine e di 30 giorni”. L’esecuzione del contratto
segue in via prevalente la disciplina civilistica.
7. Le conseguenze del riesercizio del potere nella evidenza pubblica e gli effetti
dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione sul contratto stipulato con il
privato
Resta da spiegare se il riesercizio del potere amministrativo interferisca sui contratti stipulati
dalla P.A.
Non v’è dubbio che, trattandosi di provvedimenti amministrativi, gli atti che precedono la stipula
sono annullabili, in sede di autotutela. Naturalmente, una siffatta indiscutibile esigenza deve
essere necessariamente combinata con il principio di tutela dell’affidamento che garantisce il
contraente privato risultato aggiudicatario della gara. Ciò impone alla P.A. uno speciale rigore
nell’esplicare le ragioni che giustificano il provvedimento di secondo grado, formalmente nel
corpo della motivazione dell’atto. Bisogna interrogarsi sulla sorte che tocca al contratto una
volta che sia stato annullato il provvedimento di aggiudicazione. La risposta è che, in linea di
massima, l’annullamento del provvedimento “travolge” il contratto, pregiudicandone la validità e
mettendone a rischio il perdurare della efficacia. L’art. 121, codice del processo amministrativo,
al co. 1 stabilisce che, nei quattro casi da esso esplicitamente individuati, “il giudice che annulla
l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto”. E che nel farlo deve precisare, “in
funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione
appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni
ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva”. Ciò
nondimeno il co. 2 della stessa disposizione precisa che “il contratto resta efficace, anche in
presenza delle violazioni di cui al comma 1 qualora venga accertato che il rispetto di esigenze
imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti”.
Un ulteriore questione si pone al riguardo: da chi possa essere esperita una eventuale azione di
annullamento del contratto dinnanzi al giudice ordinario. Secondo un consolidato orientamento
della giurisprudenza civile la titolarità di siffatta azione spetta soltanto alla P.A., solo questa
potendo vantare in proposito un interesse giuridicamente rilevante. A ben riflettere, però, le
cose non sembrano stare esattamente così, giacché anche i contraenti esclusi illegittimamente,
ovvero risultati illegittimamente perdenti nella aggiudicazione della gara, presentano un
interesse meritevole di tutela, laddove, ottenuto l’annullamento del provvedimento che li ha
pregiudicati, non possono vedersi compiutamente soddisfatti nel caso che l’illegittimo
aggiudicatario concluda indenne la esecuzione del contratto, senza cioè che questo venga in
alcun modo intaccato dall’annullamento del provvedimento che lo giustifica. Sulla scorta di tale
dubbio si è affacciata nella giurisprudenza del Consiglio di stato la tesi secondo cui, un volta
annullato il provvedimento di aggiudicazione, la sorte del contratto sarebbe sempre segnata,
esso dovendo considerarsi automaticamente caducato.
Resta da dire, in conclusione, della questione concernente la giurisdizione competente a
conoscere delle controversie insorgenti nel campo dell’attività di diritto civile della P.A.,
relativamente sia agli atti di ritiro dei provvedimenti che precedono il contratto, sia quest’ultimo.
Nell’avvertire che in materia gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, sono in
continua e costante evoluzione, e perciò tutto fuorché pacificamente univoci. Il discrimine fra
giurisdizione del giudice ordinario e giurisdizione del giudice amministrativo si basa sulla
differenza della natura della situazione giuridica soggettiva che si assume lesa, che riflette la
differenza della natura degli atti oggetto della controversia, e quindi la diversa fase in cui questi
si collocano: quella della evidenza pubblica, e quella, della stipula del contratto.
LE FASI DEL PROCEDIMENTO : Le fasi del procedimento sono 3 (così come le divise
Sandulli più di mezzo secolo fa), di cui però (si badi bene) l’ultima è soltanto eventuale:
LA CONFERENZA DI SERVIZI:
ARTICOLO 14 ,14 bis, ter, quater e quinquies della LEGGE 241 / 1990 :
E’ disciplinata in esordio al Capo 4, quasi a dire che questo è forse uno degli strumenti giuridici
più importanti tra quelli annoverati per l’obiettivo snellimento. Partendo dal cuore del concetto,
diremmo che , la conferenza dei servizi serve a determinare una crasi dei tempi del
procedimento, in quanto l’interesse pubblico concreto si determina in una logica, non più
consequenziale, ma contemporanea. Infatti ‘costringe’ ad una riunione congiunta tutte le PPAA
titolari degli interessi pubblici coinvolti al fine di determinare in concreto l’IPS. L’art 14 prevede
2 ipotesi in cui la PA, indice una conferenza di servizi: l’ipotesi del comma 1 è FACOLTATIVA
(può essere indetta quando risulta opportuno un esame contestuale dei vari interessi coinvolti) ;
quella del comma 2 è, invece, OBBLIGATORIA. Importante è sottolineare il fatto che la
decisione maturata in sede di conferenza NON coincide con il provvedimento finale del
procedimento.
Classificazione tipologica della conferenza di servizi / Conferenza istruttoria e decisoria : Si
distingue la conferenza istruttoria da quella decisoria. Queste due tipologie NON si distinguono
per la collocazione della conferenza nelle due diverse fasi del procedimento. Infatti la
conferenza (sia nell’ipotesi del co. 1 facoltativa, che del co. 2 obbligatoria) è definibile come
DECISORIA se la deliberazione che la conclude costituisce il provvedimento finale, o
ISTRUTTORIA se in essa si raggiunge l’accordo sul contenuto provvedimentale, ma spetta
sempre e solo all’autorità competente assumere il provvedimento. In pratica la conferenza è
decisoria quando ciò che perviene dalla decisione di questa ultima coincide perfettamente e tout
court con l’atto provvedimentale finale = la conferenza decisoria termina con il provvedimento,
formale e sostanziale , vero e proprio (nella conferenza decisoria della PA Regione Campania e
della PA Regione Sicilia si è pervenuti ad un provvedimento X che viene direttamente emanato,
è quello e basta) ; invero, è una conferenza istruttoria quando si raggiunge un mero accordo
formale sulla contenutistica del provvedimento, ma la conclusione della conferenza istruttoria
non termina mai con la emanazione, o deliberazione (qual dir si voglia) del documento, ma solo
con un accordo che poi dovrebbe esser rispettato dall’autorità competente ad emanare
sostanzialmente quel provvedimento = la conferenza istruttoria termina con un mero accordo
sul provvedimento finale, ma la deliberazione sostanziale del provvedimento, che spetta
all’autorità competente, può essere anche di contenuto diverso. (nella conferenza istruttoria
della PA Regione Campania e della PA Regione Sicilia si è pervenuti all’accordo di emanare un
provvedimento X , ma la conferenza non termina con l’emanazione di quel provvedimento X
(come nel caso della decisoria) che va comunque emanato in altra sede dall’autorità
competente a farlo (e dovrebbe essere emanato sulla base di quell’accordo della conferenza
istruttoria) /
Dopo questa analisi contenutistica schematizzata all’osso, procediamo con una ricapitolazione, una
rilettura di questo importante strumento giuridico amministrativistico: La conferenza di servizi è un
istituto della legislazione italiana di semplificazione amministrativa dell'attività della pubblica
amministrazione della Repubblica Italiana. Il suo scopo è quello di facilitare l'acquisizione, da parte della
pubblica amministrazione, di autorizzazioni, atti, licenze, permessi e nulla-osta o di altri elementi
comunque denominati, mediante convocazione di apposite riunioni collegiali (cosiddetta conferenza)
anche finalizzati all'emissione di un provvedimento amministrativo. Nelle intenzioni del legislatore essa
può essere vista sia come un modulo procedimentale di semplificazione che come uno strumento di
coordinamento, diretto a soppesare ed aggregare la pluralità degli interessi coinvolti in un determinato
procedimento. Le determinazioni della conferenza di servizi si sostituiscono alle autorizzazioni finali ed
hanno lo scopo di velocizzare la conclusione di un procedimento amministrativo, ad esclusione di
concessioni edilizie, permessi di costruire e Denuncia di inizio attività in edilizia.
Tipologie: Le tipologie di conferenza previste sono le seguenti: conferenza istruttoria (o preliminare): ” Qualora sia
opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo,
l'amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi ” ; conferenza istruttoria predecisoria: viene
convocata, su istanza dell'interessato (che ne sopporterà gli oneri) per progetti preliminari di particolare complessità;
conferenza telematica; conferenza decisoria: viene convocata con l'obiettivo di creare una sede decisionale che
sostituisca tutti gli atti prodromici al provvedimento finale. La conferenza è obbligatoria quando l'amministrazione
procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni
pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa
richiesta. Può essere inoltre convocata facoltativamente, in caso di intervenuto dissenso da parte di una o più
amministrazioni; conferenza in materia di project financing.
Dopo questa analisi analitica / schematica sintetica, si ripropone di seguito una corposa
ricapitolazione della importantissima disciplina del silenzio dell’amministrazione pubblica:
Il silenzio della pubblica amministrazione è un comportamento omissivo dell’amministrazione di
fronte a un dovere di provvedere, di emanare un atto e di concludere il procedimento con
l’adozione di un provvedimento entro un termine prestabilito. L’ordinamento distingue il silenzio
in ipotesi legislativamente qualificate in senso positivo (silenzio assenso), in senso negativo
(silenzio diniego e silenzio rigetto) e ipotesi non giuridicamente qualificate (silenzio
inadempimento, quarta ipotesi particolarissima di cui non abbiamo prima menzionato la
disciplina per poca preponderanza teorica).
Il silenzio assenso. - L’art. 20 della l. n. 241/1990 (modificato dall’art. 3 d.l. n. 35/2005)
include il silenzio assenso tra gli istituti di semplificazione amministrativa . La norma stabilisce
che nei procedimenti a istanza di parte, esclusi quelli disciplinati dall’art. 19 (Segnalazione
certificata di inizio attività), per il rilascio di provvedimenti amministrativi, «il silenzio
dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda», se
la stessa amministrazione non comunica all’interessato, nel termine indicato dalla legge , il
provvedimento di diniego ovvero se, entro 30 giorni dalla presentazione dall’istanza, non indice
una conferenza di servizi. Il silenzio assenso in alcuni casi è espressamente escluso dalla legge
(per es., per procedimenti e gli atti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, nei casi in
cui la legge qualifica il silenzio come rigetto ecc.). In ogni caso l’art. 20, co. 3, prevede che
l’amministrazione possa, in via di autotutela annullare (Annullamento d’ufficio) o revocare (con
la revoca che rivisita, come sappiamo, il merito) l’atto implicito di assenso (art. 21 quinquies e
nonies).
Il silenzio diniego (rifiuto) ed il silenzio rigetto. - Il silenzio diniego e il silenzio rigetto
sono due ipotesi in cui le norme attribuiscono espressamente all’inerzia dell’amministrazione
una qualificazione giuridica negativa. Nel primo caso, decorso inutilmente un determinato
periodo di tempo, il silenzio equivale a un provvedimento di diniego. Così, per es., in materia di
diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il silenzio rigetto, invece, si ha in caso di mancata
pronuncia sul ricorso gerarchico decorsi 90 giorni dalla sua presentazione, senza che l’organo
adito abbia comunicato la decisione, in questo caso esso si intende respinto.
Il silenzio inadempimento. - Nei casi in cui la legge non qualifica espressamente il silenzio,
ovvero nelle numerose materie in cui il silenzio assenso non trova applicazione per espressa
diposizione di legge (si tratta delle materie indicate al comma 4 dell’art. 20 della l. n. 241/1990
che, per la loro rilevanza, necessitano di un’istruttoria e di una manifestazione espressa del
potere: ad es., ambiente, difesa nazionale, patrimonio culturale, immigrazione, cittadinanza), il
silenzio dell’amministrazione equivale a un ‘inadempimento’, quindi, come surriferito, il silenzio
non ha valenza giuridica, non significa nulla, e quindi è un vero e proprio inadempimento della
P.A. Pertanto un soggetto che abbia richiesto l’adozione di un provvedimento, decorsi
inutilmente i termini entro cui avrebbe dovuto pronunciarsi la pubblica amministrazione può
presentare ricorso al giudice amministrativo fintanto che perdura l’inadempimento. La disciplina
concernente la tutela avverso il silenzio inadempimento è ora contenuta nel Codice del processo
amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) all’art. 31 (che prevede l’azione verso il silenzio) e all’art.
117 (che disciplina invece il regime processuale di tale azione).
Adesso annotiamo una chicca da “bacio accademico”, che si può esporre qual’ ora si abbiano le potenzialità per farlo
(concetto non presente sul libro, quindi questo è un elemento c.d. “plus” di ricerca: Silenzio e amministrazione
finanziaria. - Il silenzio dell’amministrazione finanziaria assume un ruolo significativo nella disciplina del processo
tributario e dell’interpello. Nell’individuazione degli atti suscettibili di essere impugnati è stata prevista la possibilità di
proporre ricorso avverso il rifiuto, espresso o tacito, della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie e interessi o altri
accessori non dovuti. In tale ipotesi la disciplina del silenzio è correlata a quella dell’esercizio del diritto del
contribuente a ottenere il rimborso delle somme indebitamente versate al soggetto attivo dell’obbligazione tributaria.
Il contribuente che vanti nei confronti dell’amministrazione finanziaria un diritto al rimborso della maggiore somma
pagata non può ottenere direttamente una tutela giurisdizionale, perché per poter soddisfare il proprio diritto di
credito deve presentare in via preliminare un’istanza di restituzione all’amministrazione competente. Decorso il
termine di 90 giorni dalla domanda, sorge la possibilità per i soggetti interessati di ricorrere in giudizio al fine di
soddisfare la propria pretesa di rimborso (né negata, né accolta dall’ufficio) entro il termine di prescrizione decennale.
Il silenzio dell’amministrazione ha assunto una rilevanza anche all’interno dell’istituto dell’interpello. Ai sensi dell’art.
11 della l. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), se l’amministrazione non risponde all’istanza del
contribuente entro 120 giorni si intende che l’amministrazione concordi con l’interpretazione o il comportamento
prospettato dal contribuente. La conseguenza di tale disciplina è che qualsiasi atto a contenuto impositivo o
sanzionatorio, emanato in difformità a tale ultima risposta, è nullo.
Tutela giurisdizionale avverso l’inerzia della P.A. (par . 14.2, Capitolo 8, pag. 825 manuale):
L’art 31 del c.p.a. disciplina la tutela giurisdizionale avverso il SILENZIO - INADEMPIMENTO
della P.A. Presupposto per tale tutela è che ci sia in capo alla PA un obbligo di provvedere ad
una determinata richiesta, al quale quest’ultima è venuta meno. L’azione avverso il silenzio-
inadempimento è un’AZIONE DI CONDANNA esperibile fintanto che perdura l’inadempimento e,
comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento
(come già riferito antecedentemente) . Competente è il G.A. L’art 117 stabilisce che, quando il
giudice accoglie l’impugnazione, ordina alla P.A. di provvedere entro un termine non superiore a
30 giorni. Se la P.A. anche in questo caso non provvede il G.A. può nominare un commissario
ad acta che provvede in luogo alla P.A.
Dovrebbe essere già chiaro al lettore più acuto che nelle ipotesi di SILENZIO-SIGNIFICATIVO
non è esperibile il rimedio dell’articolo 31 e 117. Difatti l’oggetto di tale giudizio deve essere
l’inerzia della PA e non il silenzio della PA che ha , come stradetto, nei casi che non sono di
silenzio inadempimento, un significato giuridico alla stregua di un vero e proprio atto
amministrativo , e non l’obbligo di provvedere, che viene solitamente demandato dal GA alla PA
quando vi è un silenzio inadempimento di questa ultima e quando vi è una azione di ricorso
esperita in base agli artt. 31 e 117 . Concludiamo dicendo che l’azione processuale riconosciuta
è l’AZIONE DI ANNULLAMENTO.
Profili problematici circa l’impugnabilità del silenzio, come fosse un atto amministrativo =
motivazioni mancanti, ergo difficoltà da parte del ricorrente di trovare vizi nell’ “atto”, in quanto,
come detto, la motivazione è il miglior luogo giuridico dove si possono trovare vizi dell’atto per
poi quindi adire un giudice : A ben riflettere, il silenzio assenso può dipendere da una SCELTA
della stessa PA per ragioni che, non solo contrastano con l’esigenza di garanzia dei
controinteressati (la PA rimanendo silente pregiudica l’interesse dei controinteressati giacché
resterebbero privi di un esplicito provvedimento, sugli eventuali vizi del quale costruire il
ricorso ) ma anche per ragioni di economia dei mezzi. Infatti in questo modo risulta assai
difficile sindacare la legittimità dell’uso del potere, questo difettando di una manifestazione
formale. La PA quando risponde espressamente deve motivare la sua scelta, laddove invece
manifesti il proprio assenso in maniera silente evita di esplicitare la motivazione, quindi i
controinteressati, pur potendo impugnare il silenzio come se fosse un provvedimento, sarebbero
comunque privati della effettiva possibilità di costruire il ricorso non essendovi i relativi motivi.
sono stati introdotti diversi momenti e meccanismi tramite i quali il privato può
intervenire nell'attività della pubblica amministrazione;
introduzione di una disciplina generale dell'istituto della conferenza di servizi;
i provvedimenti amministrativi devono riportare obbligatoriamente la motivazione (ad
eccezione degli atti aventi portata generale ed astratta, come i regolamenti);
l'autorità amministrativa ha l'obbligo di dare comunicazione o notizia dell'avvio del
procedimento amministrativo;
la previsione dell'esistenza degli interessi legittimi collettivi;
l'individuazione della figura responsabile del procedimento amministrativo e la previsione
dell'obbligo di comunicazione del responsabile agli interessati dal provvedimento
amministrativo;
l'istituzione degli accordi integrativi o sostitutivi tra privati e pubblica amministrazione,
come possibilità per sostituire provvedimenti di carattere amministrativo;
l'istituto del silenzio-assenso, per cui nei casi previsti dalla legge, il silenzio
dell'amministrazione assume carattere di manifestazione di volontà;
l'istituto del denuncia di inizio attività nei casi in cui sia richiesta un'autorizzazione;
il diritto per i cittadini di avere accesso agli atti della pubblica amministrazione e di
poterne ottenere una copia (cosiddetto diritto di accesso agli atti amministrativi).
l’articolo 8 stabilisce che la PA provvede a darne notizia dell’avvio del procedimento mediante
comunicazione personale.
ARTICOLO 9 (SOGETTI CHE POSSONO INTERVENIRE):
Tale articolo dispone che qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati e interessi
collettivi cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento possono intervenire nel procedimento.
Naturalmente quanto ai portatoti di interessi collettivi NON possono intervenire se la costituzione di
un’associazione o comitato sia generata ad hoc (viene costituita solo per poter partecipare al
procedimento), il soggetto pertanto dovrebbe preesistere rispetto all’inizio del procedimento.
ARTICOLO 10 (DIRITTI DEI PARTECIPANTI AL PROCEDIMENTO):
Ai soggetti di cui all’art 7 e 9 è riconosciuto il diritto di:
1) prendere visione degli atti del procedimento
2) di presentare memorie scritte e documenti che la PA ha l’OBBLIGO di valutare ove siano
PERTINENTI all’oggetto del procedimento
Quindi nel caso in cui queste siano pertinenti e la PA voglia comunque discostarsene lo deve
motivare. Proprio per questo la omessa o irragionevole valutazione delle memorie scritte e
documenti presentati rende ILLEGITTIMA l’azione amministrativa, e in quanto tale DOVREBBE
essere giustiziabile.
Il condizionale è d’obbligo poiché la legittimazione procedimentale non sempre coincide con la
legittimazione processuale, infatti non è sufficiente il fatto di aver partecipato perché sussista un
interesse legittimo poiché all’interesse procedimentale non necessariamente corrisponde interesse al
bene della vita. Quindi si può affermare che quando il soggetto ha legittimazione procedimentale
vanterà una situazione giuridica significativa, per questo nel momento in cui tale situazione si
configura anche come interesse legittimo e quest’ultimo viene leso sia avrà anche interesse
processuale.
Infine le cose PERTINENTI sono quelle destinate a servire in modo durevole la cosa principale. La
pertinenza va distinta dalla rilevanza poiché, mentre la rilevanza implica un giudizio, la pertinenza
consegue ad un accertamento.
ARTICOLO 10-bis (comunicazione del motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza):
Nei procedimenti ad istanza di parte l’autorità competente, PRIMA di rigettare la domanda, deve
comunicare i motivi ostativi. I soggetti che hanno fatto istanza possono presentare per iscritto le loro
osservazioni, la PA è tenuta a valutarle ma non necessariamente ad accoglierle spiegando i relativi
motivi.
L’ultima parte di tale articolo dispone che la PA NON può addurre tra i motivi ostativi INADEMPIENZE
O RITARDI attribuibili a se stessa.
La violazione della norma è in grado di determinare ANNULLAMENTO del provvedimento, ma
quest’ultimo non può essere richiesto se ci sono vizi invalidanti (co 2 art 21octies).