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Elaborazione concettuale del manuale “Approfondimenti

di Diritto Amministrativo per il corso specialistico, Edizione


II” di G. Clemente di San Luca.
Denominazione documento: “ VENERE 15 – Parte Seconda” , Dea suprema della
bellezza e della armonia
Documento redatto da: Fabio Merola con la collaborazione di M. Sean e D. Raiano
Legenda: In questo documento sintetico sono riportati e raccolti gli argomenti ed i concetti di maggiore
preponderanza in sede esaminativa ; gli argomenti ed i concetti c.d. “SUPER” (di preponderanza
cardine, anche rispetto agli altri ) sono segnalati “in grassetto, in maiuscolo e sottolineati” ; le
argomentazioni sono non solo riprese dal manuale stesso, ma anche integrate da fonti come quelle delle
lezioni-corsi e da fonte internet ; le/gli stesse/i seguono l’ordine concettuale del manuale sopra
citato, con cui bisogna studiare, talvolta, in connessione ed in allegato ; taluni argomenti di poca (se
non nulla) preponderanza in sede esaminativa non sono riportati in questo documento, od , al massimo,
sono riportate le pagine “di richiamo” sul rispettivo manuale .

PARTE PRIMA – LE FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO / Capo 1 “La produzione


del diritto obiettivo (normativa e non) ad opera della PA”.

FONTE DEL DIRITTO OBIETTIVO e NORMA GIURIDICA (pag. 6): Quando parliamo di fonte del diritto
obiettivo intendiamo il luogo in cui si ha la genesi del diritto, la sorgente nella quale sorgono le regole
della convivenza, ovvero, ancora, il momento ed il luogo nel quale si ha la nascita del diritto obiettivo. I
concetti di fonte del diritto obiettivo e di norma giuridica possono esser studiati (così come tutti gli
argomenti concettuali della nostra trattazione) sia sul piano (“astratto”) della teoria generale, sia sul piano
(“concreto”) del diritto positivo. A livello concreto di diritto positivo, possiamo subito facilmente
sentenziare che sono fonti del diritto obiettivo quegli atti individuabili nella Costituzione, nelle leggi
ordinarie, negli atti aventi forza di legge, nelle leggi regionali e nei regolamenti (in specifico modo, per
quanto concerne i regolamenti, come capiremo in altra concettualizzazione, a livello formale, per quanto
concerne il ramo amministrativistico, sono considerati fonte del diritto obiettivo solo i regolamenti (per
l’appunto), anche se G. Clemente di San Luca non la pensa in tal modo, ma questa è una telenovela che
vedremo più avanti). / In particolare modo, per concettualizzare ancor meglio ciò di cui stiamo qui
parlando, ci si pongono 4 questioni: A) “fonte del diritto obiettivo” e “norma giuridica” sono termini
sinonimici o bisogna intenderli separatamente? B) come e quanto influisce su questo concetto (sulla
definizione di fonte del diritto) la nozione di “sistema delle fonti”? C) quando parliamo di fonte del diritto
dobbiamo intendere per essa atti o fatti giuridici (o entrambi)? D) sono atti giuridici (e quindi fonte del
diritto obiettivo) solo quelli idonei a produrre diritto obiettivo, o anche quelli in grado di disciplinare
esclusivamente rapporti giuridici intersoggettivi singoli (es. contratto)? A questo punto del discorso,
rispondiamo singolarmente ad ognuna delle questioni che interferiscono con la definizione del concetto
“fonte del diritto obiettivo” (e che si pone lo scrittore, G. Clemente di San Luca): A) Abbiam sostenuto che,
sul piano giuridico, definiamo fonte qualsiasi atto o fatto idoneo a produrre diritto obiettivo; l’insieme di
esse disciplina la convivenza di una data comunità. La fonte costituisce, allorché, il momento e il luogo di
genesi del diritto oggettivo. Concetto ben diverso, anzi diversissimo, da quello di fonte è quello di norma,
potendosi intendere per esso (anticipiamolo, anche se lo ridiremo dopo in altra concettualizzazione) “ogni
enunciato che esprima una regola di condotta generale, astratta e innovativa”. Il concetto di norma viene,
quindi, DOPO il concetto di fonte, nel senso che “il concetto fonte è un presupposto essenziale del concetto
norma”, la norma essendo niente altro che il frutto della interpretazione che della disposizione viene data,
di volta in volta, dagli operatori giuridici. B) Questa questione va risolta esprimendo quale sia la definizione
di diritto oggettivo e di ordinamento giuridico positivo: il diritto oggettivo è il complesso delle norme che
regolano la convivenza di una determinata società; l’ordinamento giuridico è, conseguentemente,
positivamente vigente se la collettività si riconosce nell’insieme delle norme che esso comprende e quindi
se queste norme si impongono come obbligatorie alla comunità, collettività, qual dir si voglia. Vi sono poi 3
questioni (sub B, diremo) che necessitano della esplicazione di 3 altrettanti concetti, ed ovverosia il concetto di
“gerarchia delle fonti” e di “primato della legge”, dove “gerarchia delle fonti” significa niente altro che “idea di
ordinazione delle fonti” (una fonte deve essere superiore o inferiore gerarchicamente rispetto ad un'altra) e dove
“primato della legge” (interconnesso evidentemente al concetto di gerarchia) significa che “vi deve necessariamente
essere una fonte gerarchicamente superiore rispetto ad altre, e cioè, in tal caso, la legge”; la terza questione, sub
concettuale del punto B, concerne la “fonte sulla produzione delle fonti” nel momento in cui ci si domanda “da quale
fonte si capisce quale siano le fonti? Dove rinveniamo quali debbono, possono, essere le fonti di produzione del
diritto?” a cui non vi è una risposta dogmatica, in quanto tutto dipende da come si concepiscono i primi 2 sub concetti
del B appena esplicati, ma se proprio volessimo darla, si deve attestare che questa fonte, questa disciplina della
produzione del diritto obiettivo, è rinvenibile tranquillamente (sicuramente nella Costituzione ma …) anche nella legge
od anche in una norma secondaria. C) Cominciamo col differenziare fonte fatto e fonte atto. Si ha fonte fatto
quando la produzione normativa si realizza mediante l’elaborazione di norme conformi a modelli di
comportamento derivanti da attività svolte in precedenza, mentre si ha fonte atto quando la produzione
normativa consiste nella redazione di disposizioni specificatamente destinate ad essere osservate come
norme giuridiche dai loro destinatari; la differenza si fonda sulla disciplina di diritto positivo vigente in quel
determinato contesto ordinamentale; si può affermare facilmente che gli atti normativi tendono ad
identificarsi tout court con le fonti del diritto oggettivo e che, quindi, le fonti del diritto obiettivo sono, in
prevalenza, atti e non fatti giuridici. Si esclude, quindi, categoricamente la fonte fatto dal novero
concettuale della categoria delle fonti diritto obiettivo. D) Per quanto concerne la questione del se
considerare (o meno) fonti del diritto obiettivo anche atti disciplinanti singoli rapporti giuridici
intersoggettivi, bisogna rispondere negativamente, nel senso che un atto fonte disciplinante un
determinato e singolare rapporto giuridico intersoggettivo non potrebbe esser considerato fonte del diritto
obbiettivo. Si esclude, quindi, categoricamente la fonte atto specifico dal novero concettuale della categoria
delle fonti diritto obiettivo.

NORMA GIURIDICA e DISTINZIONE con L’ATTO NORMATIVO (pag.15): Per completezza d’argomento, prima
di dare la definizione di norma giuridica, notifichiamo che v’è anche una definizione di norma in senso lato, che però a noi
non interessa. Per definire completamente la “norma giuridica”, dobbiamo analizzare prima il sostantivo
“norma” e poi l’aggettivo “giuridica”. Norma significa: “ogni enunciato che esprime una regola di
condotta generale, astratta e innovativa”. Per generalità intendiamo l’esistenza di una categoria
indeterminata di destinatari, per astrattezza intendiamo l’applicabilità ad una serie infinita di
fattispecie, per innovatività intendiamo la capacità di creare diritto ex novo. Tutti e 3 questi caratteri
(che deve avere la norma giuridica) si solvono nel fatto che la norma DEVE AVERE UNA PARTICOLARE
VOCAZIONE e CAPACITA’ REGOLATIVA della CONVIVENZA. In particolare la norma, che del testo è il
risultato ottenuto in via interpretativo, per essere qualità e merito di un atto o fatto, a che esso possa
definirsi fonte di diritto, deve essere norma “giuridica”, intendendosi con ciò che essa abbia seguito una
procedura formale prescritta dall’ordinamento. Riassumendo, dopo aver dato queste 2 definizioni, si può
dire che solo in presenza di ambedue le circostanze a quella norma potrà esser applicato un particolare
regime giuridico che è, per l’appunto, il regime giuridico dell’atto normativo. / - Criteri formali e sostanziali
per la identificazione corretta di una norma giuridica: non sempre però i criteri c.d. formali per la
individuazione di una norma giuridica sono in grado di risolvere con certezza la identificazione della norma
giuridica stessa, ed ecco perché soccorrono i cc.dd. criteri sostanziali che consentono di completare la non
facile operazione, integrandola, completandola ; detto ciò si deve dire che la norma giuridica è ogni
enunciato giuridicamente rilevante volto a disciplinare la vita associata, a prescindere dalla veste formale
che esso di volta in volta assuma  da ciò deriva che, ragionando a fondo, può ben darsi che un enunciato
non normativo costituisca norma giuridica semplicemente perché racchiuso in un atto che sia stato
emanato dal soggetto e che abbia seguito la procedura formale positivamente prevista (criterio formale di
identificazione di norma giuridica che funziona in positivo: “ci sono i presupposti formali? Si. Perfetto, allora
è norma giuridica”) MA si esclude categoricamente che possa verificarsi il caso opposto, e cioè che un
enunciato normativo racchiuso in un atto emanato dal soggetto a ciò deputato dall’ordine giuridico non sia
da ritenersi norma soltanto perché non ha seguito la procedura all’uopo prevista dalle vigenti fonti sulla
produzione (criterio formale di identificazione di norma giuridica che non funziona in negativo: “ci sono i
presupposti formali? No, MA ciò non vuol dire che essa non è norma giuridica, cioè non vuol dire che,
mancando i presupposti formali, allora dobbiamo dar per scontato che questa norma sotto esame non è
norma giuridica”). Insomma, elegantemente si può sostenere che se il dato formale è ok risolutivo in
positivo, esso non lo è affatto in negativo, qui rilevando decisivamente il dato sostanziale,
indispensabile per la corretta identificazione di una norma giuridica. / - Distinzione tra norma ed atto
normativo: la norma non deve confondersi con la disposizione del testo, o documento, normativo che la
contiene. Essa, la norma, come stradetto, si determina dalla interpretazione che danno i vari operatori
giuridici del testo enunciato nell’atto tanto è vero che una sola disposizione normativa può originare più
norme. Da qui la distinzione tra norma e atto normativo che è pari, con una metafora, alla differenza
che passa fra contenuto e contenitore (dove, lo diciamo per i meno svegli, è chiaro che il contenitore
contiene il contenuto): il contenuto è la norma ed il contenitore è, invece, l’atto normativo, quindi, per
gioco forza, è l’atto normativo che contiene la norma e non viceversa , fermo restando il fatto che non è
detto che una norma (un contenuto) appartiene ad un atto normativo (un contenitore) e basta, nel senso
che la norma può appartenere indifferentemente a diversi atti normativi [ad es. se la banana (la norma),
contenuto, appartiene al cesto contenitore di Fabio (atto normativo), ciò non vuol dire che, per forza, non ci
debbano essere altre banane (altre norme), altri contenuti, nel cesto contenitore di Mirko (un altro atto
normativo)]. Caso emblematico, referente quanto ciò esplicato, è la norma giuridica “contenuta” da una
consuetudine (dato che, sia chiaro, la norma giuridica può sicuramente derivare anche da una fonte fatto,
visto che sappiamo, visto che a questo punto si crede che il lettore abbia passato l’esame di diritto
pubblico, che la consuetudine è fonte fatto per eccellenza). / - Conclusioni riassuntive e definitorie in
schema di tutto il concetto qui in esame: è fonte del diritto obiettivo qualsiasi fatto giuridico che generi la
produzione di norme giuridiche che sono quegli enunciati giuridici contraddistinti da una specifica
vocazione e capacità di regolazione della convivenza. La seguente riflessione non vale per i meri fatti,
e, invero, concerne strettamente gli atti fonte del diritto obiettivo, atti che si dicono normativi e che
contengono norme giuridiche. Per identificare un atto normativo si usano criteri formali e sostanziali di
identificazione, dove i criteri formali, qualora mancassero, non debbono far pensare che quell’atto
normativo X, oggetto di esame e di studio, non sia normativo, in quanto ciò ci deve essere confermato
anche dai criteri sostanziali.
ATTI NORMATIVI e LORO REGIME GIURIDICO (con differenza tra forma e regime giuridico formale)
(pag.25): Dobbiamo aver capito che gli atti normativi (tralasciamo i fatti normativi), sono quei documenti
che pongono delle norme giuridiche, sono quei contenitori che contengono contenuti (norme) o
frammenti di esse. La norma (nel senso di regola che sia generale, astratta, innovativa) giuridica (nel senso
che abbia seguito l’iter procedimentale formale di formazione corretto) è incastrata all’interno di questo
documento, e, pertanto, conferiscono ad esso il carattere della normatività, che gli permette di avere quello
che comunemente si definisce regime giuridico tipico degli atti normativi, ma che in realtà traduce tanto il
concetto di forma quanto il concetto di regime giuridico formale, ma, dopo queste premessa definitoria,
andiamo per ordine. Abbiamo già sentenziato antecedentemente che è per nulla facile identificare
concretamente quando un atto sia normativo o meno, e dobbiamo, in questa sede, sentenziare che la
identificazione di un atto come normativo è importante perché l’ordinamento riconosce agli atti normativi
un peculiare regime giuridico. / - Differenza fra funzione normativa e funzione legislativa: in primo luogo,
prima di definire essenzialmente cosa sia il regime giuridico di un atto normativo, il ragionamento fatto dal
prof.re verte sulla differenza fra funzione normativa e funzione legislativa dove la funzione legislativa è
quella che verte al fine di fare leggi e le leggi, come sappiamo, le possono fare solo gli organi deputati a
poterlo fare (Parlamento generalmente) e dove la funzione normativa è quella che verte al fine di fare
norme e le norme, sempre come sappiamo, le possono fare anche altri soggetti, diversi dall’organo
legislativo ordinario, come ad esempio la PA stessa; insomma la funzione normativa è comprensiva della
legislativa che altro non è, allorché, che un sotto insieme del macro insieme “funzione normativa”. / -
Differenza tra forma e regime giuridico formale di un atto normativo: in secondo luogo, sempre prima di
definire essenzialmente cosa sia il regime giuridico di un atto normativo, il ragionamento fatto dal prof.re
verte su di un'altra differenza, e cioè sulla differenza tra forma e regime giuridico: la forma di un atto
concerne le prescrizioni formali concernenti le modalità (soggetto competente e procedura da seguire)
stabilite per la emanazione degli atti sostanzialmente normativi ; per regime giuridico di un atto si
intende il suo valore, la sua veste formale, IL MODO DI ESSERE dell’atto normativo, le conseguenze
formali che derivano dalla natura formale di un atto. Ancora, sempre per delineare più fortemente
questa differenza concettuale fondamentale, diremo che nell’ipotesi di forma di un atto normativo si deve
ANCORA emanare un atto normativo (e per farlo l’ordinamento prescrive giustappunto le modalità formali
da doversi seguire) e diremo, di contro ed invero, che nell’ipotesi di regime giuridico formale c’è GIA’ un
atto normativo e, siccome c’è, esiste già, esso va trattato come l’ordinamento prescrive che si trattino gli
atti normativi. / - Criteri per la identificazione dell’atto normativo: quasi come una partita di tennis e non come
dovrebbe in realtà essere la trattazione di un argomento (ma cercheremo di trattenerci e criticare il meno possibile il
pessimo lavoro metodologico adoperato dallo scrittore), il ragionamento (e la pallina gialla) ritorna nuovamente
su di un punto che sembrava abbandonato e cioè sui criteri di identificazione formali e sostanziali: entrambi
possono generare, difatti, effetti distorti  con i primi si può giungere a conferire il crisma della normatività
ad atti che in sostanza ne sono sprovvisti, mentre con i secondi (criteri c.d. sostanziali) è possibile che atti
formalmente sprovvisti della qualificazione di normativi vengano sottoposti al regime giuridico prescritto
per gli atti normativi ; ora, mentre sembra un problema minore che atti sostanzialmente non normativi
vivano secondo quel peculiare regime giuridico (primo caso) , è , invece, assai pericoloso ed assai elevato il
rischio che atti sostanzialmente normativi sfuggano a quel regime giuridico peculiare che dovrebbero
invece avere (secondo caso), e questo non è tollerabile in un sistema come il nostro che fa capo alla
democrazia ed alla garanzia di diritto nei confronti del cittadino ; il problema si pone essenzialmente, a livello
concreto, per gli atti normativi in forma di atto amministrativo e sicuramente non per quelli in forma di atto
legislativo che di certo, grazie alla loro forma (quindi grazie al loro iter procedimentale di formazione), vengono
considerati, ab origine, atti normativi senza nessun tipo di problema: può accadere, relativamente, infatti, agli atti
normativi di tipologia amministrativistica, che atti (sostanzialmente normativi) solo perché hanno una
forma amministrativa, di rango secondario, vengano considerati non normativi ed a loro non venga
applicato il peculiare regime giuridico tipico degli atti normativi anche se in realtà lo meriterebbero. / -
Regime giuridico di un atto normativo, concretamente parlando: dopo queste infinite e ripetitive premesse,
viene finalmente definito sostanzialmente cosa sia questo benedetto regime giuridico di un atto normativo:
regime giuridico significa che in capo all’atto vi sono diverse prerogative (che verranno meglio analizzate
in altra concettualizzazione) tipiche solo di un atto normativo, come ad esempio la irretroattività di essi
(gli atti normativi non possono mai avere effetto retroattivo), la valenza, per loro, del principio “jura novit
curia” (il giudice conosce il diritto ed ha il dovere professionale di trovare le disposizioni che fanno al caso,
ed applicarle) od il principio “ignorantia legis non excusat” (l’interessato non può addure a sua scusante
l’errore), il particolare modo in cui questi atti normativi debbono esser interpretati (seguendo i parametri
prefissati dall’art. 12 delle preleggi). / - - Sostanza -> Forma-> Regime Giuridico: in conclusione, in ogni
caso, si può dire che l’atto normativo è, alla fin fine, identificabile per la sostanza del suo contenuto, nel
senso che è la sostanza che determina la forma che esso deve assumere (dove, come sappiamo, per forma
si intende: il soggetto competente ad emanarlo e la procedura da doversi seguire, fino alle modalità di
esternazione e così via dicendo) ; dopodiché, la forma finisce in ultima istanza per qualificare gli atti
normativi, dando loro appunto il loro determinato regime giuridico che per alcuni versi è uguale per tutti gli
atti normativi, e per altri versi si differenzia (tra i diversi atti normativi) in ragione (ed in relazione) della
(alla) loro specifica forma di atti normativi, che può essere legislativa, costituzionale, amministrativa. /
- Ricapitolazione in schema:
La normatività, l’esser normativo, di un atto si traduce, a livello giuridico formale, in 2 concetti:
* Forma giuridica: intesa come l’insieme delle regole che servono per mettere in vita quell’atto (soggetto,
modalità di produzione, pubblicazione, ecc …) in base al quale assumono la veste giuridico formale di:
Atti costituzionali (disciplina ex art 138 cost)
Atti legislativi (disciplina ex art 70 ss)
Atti amministrativi (disciplina ex. Art 17 l. 400/88 )
* Regime giuridico: inteso come il trattamento che l’ordinamento ad esso riserva in quanto atti normativi,
una volta che essi esistono. In particolare essi sono sottoposti a:
Iura novit curia
È ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge
Ignorantia legis non excusat
Sono interpretati secondo l’art 12 delle preleggi
Sono ricorribili dinanzi a diverse magistrature
Questo tipo di prerogative dipende dall’elemento di discrimine che è la normatività, cioè la capacità
dell’atto di regolare la vita associata in maniera generale, astratta , innovativa, che può manifestarsi in un
atto tanto per il fatto che esso ha la forma dell’atto normativo ( che gli permette di essere tale allora anche
quando dal punto di vista sostanziale esso non lo sia , criterio formale) , tanto per il fatto che esso ha la
sostanza dell’atto normativo ( che permette di ricondurre alla categoria degli atti normativi anche atti che
abbiano eluso il procedimento di formazione sancito dall’ordinamento , e che permette quindi di applicarvi
comunque il regime giuridico degli atti normativi quando i criteri sostanziali di generalità e astrattezza
manifestino quella particolare vocazione a regolare la vita dei consociati , criterio sostanziale).
PRINCIPIO DI LEGALITA’ (da pag. 36 a pag. 57): - Intro: sappiamo tutti che principio di legalità significa
“primato della legge”, ma questo assunto sintetico contenutistico (di principio di legalità) sembra oggi
stemperarsi a fronte di osservazioni della realtà concreta, nel senso che sono cambiati i tempi ed oggi il
concetto di principio di legalità va, per così dire, aggiornato (ed intenso in modo amplificato, diverso),
soprattutto a causa della europeizzazione dell’ordinamento, ed a causa, anche, della crescita della
domanda di autonomia da parte degli enti territoriali infra - nazionali (c.d. sussidiarietà verticale), ma
andiamo per ordine. / - Le ragioni che danno vita al principio di legalità: le ragioni fondamentali del
principio di legalità possono riconoscersi nelle sue due essenziali valenze: quella garantistica, in base alla
quale ogni manifestazione di potere deve poter essere giustiziabile da parte dei soggetti che se ne
assumano lesi contra jus ; e quella democratica, in base alla quale ogni scelta di regolazione della vita
associata deve fondarsi, seppur in via mediata, su una investitura democratica del soggetto deputato ad
effettuarla. Due sono i concetti interconnessi al principio di legalità (ed alle sue due valenze) e sono,
precisamente, la separazione dei poteri che si identifica con la esigenza di garanzia (valenza garantistica del
principio di legalità), e la sovranità popolare che si identifica con la esigenza di democrazia (valenza
democratica del principio di legalità) ; in particolare modo, parlando in termini di anamnesi storica, nel
primordiale Stato di diritto liberale, il principio in questione mostrava, a viso aperto, solo la valenza
garantistica, e solo dopo, nel successivo Stato sociale di diritto, il principio di legalità ha amplificato,
integrato, completato la sua portata, mostrando anche l’altra valenza cardine del principio, e cioè la valenza
democratica e la esigenza di democrazia, che si esplica, come detto, nel fatto che la scelta di regolazione
della vita associata deve essere una scelta effettuata, in via mediata, dai cittadini tutti, consociati della
collettività. / - DOMANDA (* ragionamento operato dal prof.re che va da pag. 40 a pag. 57 e che concerne,
nel caso di specie, vari sotto paragrafi del paragrafo 4) : queste ragioni, nelle indiscutibilmente mutate
coordinate sociali ed economiche attuali, conservano la loro vitalità? Indubbiamente, mentre le ragioni che
spiegano la nascita del principio di legalità sembrano immutate, appare innegabile che il significato del
principio di legalità si manifesti oggi modificato, nel senso che esso pare arricchirsi di contenuti nuovi e
diversi, proponendosi in maniera assai più complessa ed articolata. In ogni caso, per rispondere alla
domanda esaustivamente, si deve porre un lungo ragionamento: - - come intendere la legalità in relazione
ai pubblici poteri amministrativi: concentriamoci anzitutto su quel che a noi riguarda, e cioè sul principio di
legalità rapportato alla esplicazione dei pubblici poteri da parte della PA; ora, dobbiamo scegliere quale
accezione di legalità si deve adottare per quanto concerne il potere pubblico amministrativo, e cioè se la
accezione di legalità sostanziale o quella formale (sappiamo già sicuramente, arrivati a questo punto del
percorso universitario, che legalità può esser intesa sia come formale che come sostanziale); diciamo da
subito che non esiste una risposta dogmatica, in quanto si deve valutare “case by case”, e, volendola dare,
dipende tutto da se si intende PA come attività o come organizzazione, poiché, infatti, con riguardo
all’attività il principio di legalità viene (va) inteso nella sua accezione tradizionale, e cioè nella sua accezione
garantistica ; con riferimento, invero, alla organizzazione della PA, il principio di legalità sembra perdere
molto del suo senso originario e andrebbe inteso nella sua accezione moderna, e cioè nella sua accezione
democratica  In schema: PA come attività = legalità da intendere in accezione garantistica; PA come
organizzazione = legalità da intendere in accezione democratica. - - la odierna insufficienza della legge e la
necessità di aggiornare il significato (ma non le ragioni) del principio di legalità; in particolare analisi dei
concreti indici rivelatori della insufficienza della concezione passata del principio di legalità: il principio di
legalità deve essere aggiornato, in quanto esistono dati fenomenici inequivocabili che fanno pensare che il
suddetto principio deve essere adeguato ai tempi moderni, analizziamoli: (vedi, per maggior precisione, da
pag. 45 a pag.48) a) globalizzazione dell’economia e b) europeizzazione dell’ordinamento (spostamento del
livello di regolazione, dal livello nazionale al livello sovranazionale, con conseguente netto alteramento del
sistema ordinario delle fonti del diritto, così come era conosciuto); c) crescente domanda di protagonismo
politico – istituzionale da parte delle autonomie territoriali (dicasi sussidiarietà verticale, termine che (lo
sappiamo da Amm.1) indica la particolare attitudine in base alla quale, laddove la soluzione di un problema
da parte della istituzione rappresentativa più vicina sia mancante, o insufficiente, o inadeguata, il soggetto
esponenziale di raggio geografico più ampio deve sussidiarla, e cioè intervenire, in via sostituiva, per
assumere la necessaria decisione); d) ri - espansione del privato e riduzione del pubblico (dicasi
sussidiarietà orizzontale, che, nello specifico, può intendersi in 2 modi e cioè come “solidarietà” tra
Pubblico e Privato, oppure come “non interventismo” del Pubblico negli affari del Privato se non solo nei
casi in cui questo ultimo non ce la fa). - - il consentaneo necessario aggiornamento del PRINCIPIO DI
SEPARAZIONE DEI POTERI: la relazione tra funzione e potere, e la differenza fra potere in senso
soggettivo e potere in senso oggettivo (v. pag. 49): conseguentemente a quanto appena riferito, vi è stato
il parallelo aggiornamento del principio della separazione dei poteri, non essendo sottovalutabile la
diversità fra potere in senso soggettivo (inteso come struttura) e potere in senso oggettivo (inteso come
funzione). Alla separazione delle funzioni (prendendo, quindi, in riferimento il piano oggettivo) corrisponde
necessariamente una altrettale separazione dei soggetti deputati a svolgerle; al potere amministrativo, ad
esempio, spettano normalmente funzioni dei tre tipi: di normazione, di amministrazione e di giurisdizione.
Con riferimento alla ‘ concentrazione ‘ di funzioni in capo allo stesso potere amministrativo, si pone il
problema della idoneità del principio della separazione dei poteri quale criterio per giustificare la
distinzione fra atti di tipo regolativo (normativi) e atti di tipo provvedimentale (non normativi); la risposta è
negativa, quindi il principio di separazione dei poteri non spiega proprio nulla, in quanto il principio della
separazione dei poteri non è mai stato (e non è) applicato in modo rigoroso. Da quanto appena riferito
risulta ulteriormente dimostrata la insufficienza del significato originario del principio di legalità, fermo
restando che rimangono, ribadiamo nuovamente, ben vive e vitali le ragioni, le valenze, che ne hanno
causato la genesi, e cioè l’istanza democratica e l’istanza garantistica, e fermo restando che, sul piano
giuridico formale, la legge continua ad avere un primato netto su atti di tipo regolativo di rango inferiore.
- - sul piano del diritto positivo vigente: sul piano concreto del diritto positivo, constatiamo che la PA è oggi
sempre più produttrice di fonti, in misura direttamente proporzionale al suo occuparsi di regolare la vita
associata; conseguentemente accade che la legge finisce per ritrarsi dal disciplinare vasti ambiti della vita
associata, e quindi ne sortisce un interrogatorio concernete il fatto che , concretamente, il principio di
legalità è come se non esistesse (così di certo non è) ; la tendenza, qui riferita, può spiegarsi sia in termini di
riduzione e sostituzione, sia in termini di trasformazione, dell’attività amministrativa di cura e definizione
concreta di interessi pubblici individuati. Ovviamente mentre sappiamo che il potere amministrativo può
essere inteso in un duplice senso, soggettivo e oggettivo, strutturale e funzionale, il potere normativo ha
una accezione soltanto oggettiva, funzionale. - - la distinzione tra FONTI PRIMARIE e SECONDARIE ed i
criteri per la classificazione delle fonti (v. pag. 55): la produzione normativa delle autonomie è da
considerarsi sicuramente come fonte primaria, ed anche laddove vi fosse una legge di rango primario,
ordinario, a dettare i principi entro i quali si può muovere la legge delle autonomie (che degrada,
evidentemente, a fonte secondaria), la prima (legge nazionale, ordinaria) non può sconfinare entro i limiti
prefissati costituzionalmente. Per operare correttamente le differenziazioni tra fonti, restano validi i criteri
per la classificazione delle fonti, e cioè la misurazione della forza e del valore degli atti normativi sotto
esame.

La forma dell’atto normativo (pag. 57): Abbiam stabilito che gli atti normativi hanno un loro peculiare
regime giuridico che però si differenzia (al loro stesso interno) in ragione della veste formale dell’atto
normativo stesso (costituzionale, legislativa o amministrativa). Abbiamo antecedente stabilito, inoltre, che
la forma, a livello definitorio, è intesa come l’insieme delle regole che servono per mettere in vita quell’atto
(soggetto, modalità di produzione, pubblicazione, ecc …) in base al quale assumono la veste giuridico
formale di atti normativi e cioè costituzionali, legislativi o amministrativi che siano. Dopo questa iniziale ed
essenziale premessa, vediamo nello specifico (“al microscopio”) la forma di ognuno di questi 3 atti
normativi:
* Atti costituzionali: la disciplina, di forma e di regime giuridico, è dettata ex art 138 cost.;
* Atti legislativi: la disciplina è dettata ex art 70 cost. s.s.. Sappiamo che gli atti legislativi si dividono in
sottotipi e l’ordinamento riserva una parte di regime giuridico particolare ad ognuno di questi sottotipi  la
diversità di forma, tra i diversi sottotipi, si riscontra essenzialmente con riguardo al soggetto che emana
l’atto legislativo e sappiamo, ancora, a tal proposito, che il potere di emanare atti legislativi cade in mano al
Parlamento (organo legislativo per antonomasia, Carta dixit), al Governo (grazie ad una legge di delega del
Parlamento; questa è, quindi, una attribuzione), alle Regioni (grazie alla disciplina fondamentale e
costituzionale dell’art.5 che spiega la rilevanza delle autonomie locali; questo è, quindi, un riconoscimento
e non una attribuzione, come nel caso del Governo) ed alle Province autonome di Trento e Bolzano. Inoltre,
in addizione a quanto ciò riferito, la diversità di forma si riscontra, oltre che con riguardo al soggetto, anche
rispetto alle modalità di produzione degli atti di normazione primaria e qui rileva, ad esempio, la modalità di
pubblicazione e così via dicendo.
* Atti amministrativi: la disciplina è dettata ex. Art 17 l. 400/88. Nasce qui, in tal contesto, un problema
evidente  sappiamo, anzitutto, che la PA, per legge, può emanare norme e provvedimenti, e risulta chiaro
che ove uno stesso soggetto (la PA) si trovi a disporre sul medesimo oggetto, ad esempio, ad un tempo, del
potere di dettare regole che lo disciplinano e, ad un altro tempo, del potere di provvedere concretamente a
tradure in atti quelle regole, il rischio di arbitri si fa molto serio; proprio in ragione di ciò, il potere
normativo della PA si è visto riconoscere un regime giuridico particolare e cioè, infatti, gli atti normativi
della PA hanno il valore (il regime giuridico formale) dell’atto amministrativo e la forza dell’atto
normativo, fermo restando che la potestà regolamentare della PA va regolata, limitata e trova il suo
fondamento, certamente nella Carta Costituzionale. Concludiamo affermando che, tranne per la loro
impugnabilità, gli atti normativi della PA godono di un regime giuridico differenziato da quello
generalmente proprio di tutti gli atti amministrativi; per converso, tranne che per la loro impugnabilità, essi
godono di un regime giuridico identico a quello generalmente proprio di atti legislativi ordinari.

LE SINGOLE PREROGATIVE FORMALI in cui si risolve il trattamento giuridico dell’atto normativo (da
pag. 65 a pag. 86):
L’atto normativo, in quanto tale, ha il suo regime giuridico che si concretizza in alcune prerogative:
pubblicazione necessaria, ignorantia legis non excusat, inderogabilità da parte della PA, iura novit
curia. Non sono invece prerogative tipiche, assolute, dell’atto normativo, ben potendo essere anche
dell’atto non normativo: interpretazione, irretroattività, motivazione. Analizziamo ora, singolarmente,
queste prerogative, concettualizzandole:

* Pubblicazione necessaria: riguarda essenzialmente il momento della nascita dell’atto normativo. È


principio costituzionale esplicato persino a livello costituzionale, che disciplina che solo
successivamente alla loro pubblicazione gli atti normativi, di volta in volta considerati, entrano in
vigore, divengono obbligatori, divengono efficaci. La questione cardine relativa alla pubblicazione è se
essa sia elemento di perfezione o di integrazione dell’efficacia di un atto normativo, e per risolvere questo
interrogativo cardine (del diritto amministrativo delle fonti) bisogna prendere in esame l’art. 73 cost. e l’art.
77 cost. (disciplina della pubblicazione di un atto normativo)  su di essa, abbiam quindi appena riferito, la
dottrina si esprime in due posizioni diverse: per una parte di dottrina la pubblicazione necessaria è ultimo
elemento della forma, per altra parte è invece primo elemento del regime giuridico. Ove ritenessimo che la
pubblicazione è nella forma, essa farebbe parte dell’iter formale e quindi la sua assenza pregiudicherebbe
l’esistenza dell’atto come normativo (e quindi anche la sua efficacia, sicché l’atto senza pubblicazione
sarebbe fondamentalmente inefficace); se invece lo riteniamo quale elemento del regime giuridico, l’atto è
efficace già prima della pubblicazione, sebbene la sua efficacia è limitata ai soli soggetti che ne abbiano
avuto conoscenza (pres. della Rep., Governo, ecc.), mentre solo la successiva pubblicazione lo renderebbe
efficace erga omnes. Fermo restando che questa ultima tesi è sponsorizzata da una parte minoritaria della
dottrina, il G. Clemente di San Luca la fa prediligere: quindi, ricontestualizzando, lo scrittore crede che la
pubblicazione necessaria è elemento del regime giuridico e non è elemento della forma (come pensa la
dottrina maggioritaria). Tale tesi trova fondamento in 2 sentenze, l’una la 321/83 C. Cost, l’altra la
2032/2002 del C.d.S : in entrambe emerge che con la promulgazione (da parte del P.d.R) l’atto produce già
degli effetti, limitati, mentre con la pubblicazione successiva l’atto produce effetti erga omnes. Quindi,
ancora, per capire ancora meglio e per farcelo entrare in testa come la data del nostro compleanno, la
pubblicazione non coinciderebbe concettualmente con la efficacia di un atto normativo (cosa che molti
pensano) in quanto, precedentemente alla pubblicazione di un atto normativo, vi è la promulgazione da
parte del P.d.R che già, di per se, darebbe esistenza ed efficacia, seppur limitata, a quell’atto normativo che
verrà poi, evidentemente, pubblicato. D’altronde, laddove la pubblicazione fosse elemento della forma, e
non del regime giuridico, qualunque atto non pubblicato, nonostante la sua vocazione/capacità regolativa,
sarebbe mancante di una prerogativa dell’atto normativo, e quindi non esistente. Secondo il prof.re, in
ultima constatazione concettuale, la pubblicazione necessaria non determina la loro esclusione dalle fonti
del diritto obiettivo, ma comporta solo l’inapplicabilità dell’ignorantia legis non excusat.
La pubblicazione necessaria è, sicuramente, concetto e principio dignitoso costituzionalmente, in quanto si
caratterizza per essere rivolto a produrre uno stato oggettivo di conoscibilità generale (da parte dei
consociati e cittadini), sia sotto il profilo della notorietà, sia sotto il profilo della certezza del diritto; non
importa, sentenziamo in ultimo luogo, che tipo di mezzo venga utilizzato per pubblicare un atto normativo,
in quanto, come dovrebbe esser già chiaro, è importante che il mezzo sia idoneo a soddisfare gli interessi
tutelati dal principio medesimo (tanto è vero che, quando viene pubblicato un qualsivoglia atto normativo,
talvolta può venir utilizzata la Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana, altre volte il Bollettino ufficiale e
così via dicendo).

* Ignorantia legis non excusat: concetto strettamente interconnesso a quello di pubblicazione, esplica
niente altro che è irrilevante, per un consociato, porre a sua scusanza il fatto che non si conosceva o
che si conosceva erroneamente un determinato atto normativo, allorché significa, in 2 eleganti termini,
irrilevanza della ignoranza. Si faccia attenzione, in quanto con il termine “legis” non ci si riferisce ai soli atti
legislativi, ma a tutti gli atti normativi. Ricontestualizzando, con ciò che il prof.re vuol sapere, il principio sta
a significare che il cittadino non può appellarsi all’errore. È ovviamente è collegato strettamente alla
disciplina della pubblicazione necessaria ed è proprio per questo che il prof dice che l’unica prerogativa che
viene meno se l’atto non è pubblicato.

* Inderogabilità delle norme da parte della PA: sta a significare che il regolamento (che è atto
formalmente amministrativo ma sostanzialmente legislativo) non può essere derogato da un atto
speciale, ma può essere derogato solo ed esclusivamente da altri regolamenti o atti con efficacia
superiore. Se infatti non fosse così, la PA determinerebbe una “violazione di legge”. La ratio del principio in
questione è fondata sulla considerazione che, altrimenti, le norme emanate dal potere esecutivo
mancherebbero alla loro funzione di garanzia, se potessero essere derogate da atti particolari, sia pure
emanati dalle stesse autorità e con l’osservanza delle medesime forme; insomma, verrebbe meno la tenuta
del sistema e, in particolare, verrebbe meno la tenuta della valenza garantistica se, ad esempio, un
regolamento potesse esser derogato da un atto speciale con efficacia minore del regolamento stesso che
esso vuole derogare.

* Iura novit curia e Ricorribilità in Cassazione: 2 concetti/prerogative strettamente interconnesse fra di


loro; il primo dei 2, il principio iura novit curia, significa che il Giudice conosce la legge. È sia potere che
dovere di individuare anche di sua iniziativa la norma giuridica del caso concreto. Da un lato, quindi, il
giudice può di sua iniziativa conoscere le norme applicate al caso sottoposto al suo esame, senza sottostare
ai limiti determinati dal principio dispositivo che copre invece la conoscenza di fatti in giudizio. Dall’altro,
strettamente legato al principio della Ricorribilità in Cassazione (ecco il secondo principio), il giudice deve
farlo, perché la violazione dell’obbligo costituisce motivo di ricorso in Cassazione contro la decisione del
Giudice. Sulla Ricorribilità in Cassazione non vi è pero concordia riguardo, soprattutto, l’ampiezza della sua
portata: infatti, secondo alcuni, il giudice non è sempre tenuto a conoscere il diritto, ma anzi la Corte di
Cassazione ammette che in qualche caso, per gli atti di difficile reperimento, il giudice non sia tenuto a
conoscere il diritto, con la conseguenza che “se non applica un atto perché non lo conosceva, e le parti non
lo hanno segnalato, la sentenza non è viziata, poiché spettava alle parti segnalare l’atto”. In realtà è
arbitrario differenziare tra atti normativi reperibili o meno, perché l’ordinamento non impone le modalità di
pubblicazione, ma rimanda a qualsiasi modalità che sia idonea.

Sono invece prerogative dell’atto anche non normativo, quindi prerogative sia dell’atto normativo che
dell’atto non normativo:

* Interpretazione: in relazione al concetto di interpretazione di un atto normativo in forma d’atto


amministrativo, ci si chiede se esso debba essere interpretato secondo il regime di interpretazione proprio
degli atti normativi (quindi prendendo in esame le disposizioni sulla legge in generale) oppure secondo il
regime di interpretazione che impone l’interpretazione secondo le regole adoperate per le interpretazioni
dei contratti (art. 1362 c.c. s.s.). Secondo una corrente di pensiero, gli atti amministrativi dovrebbero essere
interpretati secondo le norme sui contratti (art. 1363 c.c.), mentre gli atti normativi secondo l’art 12
preleggi. Il prof. confuta questa tesi, perché l’atto amministrativo generale non può non essere
interpretato secondo l’art 12 delle preleggi  A differenza dell’interpretazione del contratto, per l’atto
provvedimento amministrativo è necessario ricostruire la qualificazione giuridica e il contenuto precettivo,
facendo riferimento principalmente alla conformità con la legge. Un atto amministrativo, infatti, non
manifesta un incontro di due volontà (così come il contratto), ma anzi persegue un interesse pubblico.
Quindi, come tale, il provvedimento amministrativo va interpretato ugualmente all’atto normativo.

* Irretroattività: secondo l’art 11 preleggi, la legge non dispone che per il futuro, allorché gli atti
normativi emanati non dovrebbero retroagire nel tempo. Usiamo il condizionale in quanto, tuttavia, un
atto può essere fatto valere per il passato solo quando trova fondamento nella legge e salvo i limiti
costituzionali (es. la legge penale, allor quando si parla di retroattività “in bonam partem”, ma questo non è
un documento di diritto penale, quindi non dilunghiamoci). Questo principio si applica anche agli atti di
normazione secondaria, e quindi anche agli atti amministrativi generali, salvi i limiti stabiliti dalla legge e
costituzionali. Ordinariamente e in linea maggioritaria, comunque, un atto normativo non può che disporre
per il futuro e solo per il futuro.

* Motivazione: secondo l’art 3 della l. 241/90 devono essere motivati tutti i provvedimenti
amministrativi ad eccezione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale. La motivazione di un
provvedimento amministrativo, come sappiamo dalla prima parte di Venere 15, è uno strumento di
controllo, da parte della comunità, dell’esercizio del potere affidato alla PA. Ora il fatto che un atto sia
motivato non sta a significare che esso non è un atto normativo (o un atto a contenuto generale) e che
sarà sicuramente un provvedimento (in quanto, come detto, per legge, ex legge 241 del ’90, l’atto
normativo (e quello a contenuto generale) non deve esser motivato, e solo i provvedimenti vanno
motivati), per lo meno secondo la concezione dello scrittore. Il prof.re dice, allorché, che se un atto
normativo presenta una motivazione ciò non sta a significare che non sia normativo, quindi che anche
gli atti normativi possono essere motivati, anche se non è prescritto : ad esempio, concretamente
parlando, le direttive UE sono tutte motivate, eppure sono fonti, e questo è indubbio. In definitiva, ciò che
dobbiamo stamparci in fronte è che la motivazione non è discrimine per stabilire se l’atto è normativo o
no.

LA CATEGORIA degli ATTI AMMINISTRATIVI FONTE del DIRITTO OBIETTIVO come COMPRENSIVA di
ATTI FORMALMENTE NORMATIVI e di ATTI NON NORMATIVI ma SOSTANZIALMENTE FONTE del
DIRITTO OBIETTIVO (considerazioni in merito agli atti amministrativi generali) / RAGIONAMENTO
COMPLETO del prof.re in merito all’atto amministrativo fonte del diritto obiettivo / (da pag. 86 a pag.
108):
- (da pag. 86 a pag. 88 viene fatto un utilissimo riassunto, di facile comprensione, di cui si consiglia una
lettura, di quanto fin qui riferito): Schematizzando all’osso quanto fin qui detto, si può dire: fonte del
diritto obiettivo è ogni fatto (atti compresi) generatore del diritto obiettivo  sono considerati atti
fonte del diritto obiettivo gli atti normativi e cioè i documenti, i testi normativi, in cui si manifesta
una fonte del diritto obiettivo, dalla interpretazione dei quali si ricavano le norme giuridiche 
norma giuridica è il precetto disciplinativo, regolatore, della convivenza che deriva dalla
interpretazione del testo o documento normativo  l’atto normativo, che da esso si ricava, può
assumere diverse forme (costituzionale, legislativa, amministrativa), la normatività prescindendo
dalla veste formale dell’atto, sebbene questa ultima non sia priva di conseguenze, giacché influenza
il regime giuridico  il regime giuridico dell’atto normativo consiste nel trattamento ad esso
riservato dall’ordinamento, e, cioè, nelle prerogative di cui gode l’atto una volta venuto in vita ed
identificato come tale, e consta di alcuni caratteri sempre presenti, e di altri che cambiano in ragione
della diversa veste formale  è in verità la sostanza, però, a fare, di un atto, un atto normativo, e
questa sostanza coincide con l’aspetto funzionale e concreto dell’atto, e, cioè, con la sua vocazione
e capacità di regolare la convivenza, con il suo esser “epifania”, manifestazione rivelatrice, della
funzione normativa che esso assolve ; a tale proposito, si pone il problema di verificare se e quando
tale sostanza sia, o meno, presente, e, dunque, se in concreto esiste questa vocazione/capacità tipica
dell’atto normativo, e ciò lo si verifica con i criteri formali e sostanziali, entrambi complementari
fra di loro (entrambi vanno utilizzati, non uno sì e l’altro no), ed abbiam visto e constatato che il
fatto che un atto non possegga i criteri formali (tipici dell’atto normativo) non significa
necessariamente che esso non è normativo (e qui entrano in gioco i criteri sostanziali, da ritenersi
sussidiari ed integratori rispetto ai formali)  “anycase”, una volta accertato che l’atto sia
normativo, esso deve esser “adeguato” in relazione al suo tipico e peculiare regime giuridico (che
viene di solito applicato, ed adoperato, agli atti normativi), regime giuridico che presenta delle
prerogative tipiche dell’atto normativo (per l’appunto) e queste prerogative si identificano, abbiam
poco fa visto, in diversi principi (pubblicazione necessaria, ignoranza non scusa, particolare
interpretazione, inderogabilità, irretroattività, ricorribilità in Cassazione per loro violazione o falsa
applicazione da parte del giudice e così via dicendo).

CONSIDERAZIONE IN MERITO ALL’ATTO FONTE, nell’ambito del diritto amministrativo:


ORA …
Dove nasce il problema?
Il problema, evidentemente, nasce per la PA, posto che gli atti amministrativi possono atteggiarsi quali
regolamenti o provvedimenti, di cui, giuridicamente, solo i primi sono normativi. Ciò ovviamente non
esclude che un atto amministrativo generale possa qualificarsi, ontologicamente, quale atto normativo, e
quindi ricondursi al regime giuridico proprio degli atti normativi, che di essi è la massima garanzia. Ancora,
per meglio dire, per meglio contestualizzare qual’ è il dato preoccupante, il problema rivela in quanto un
provvedimento, emanato dalla PA, che si atteggia a regolare, a disciplinare, più che a provvedere, essendo,
per l’appunto, un provvedimento e non un regolamento, eluderebbe sia la procedura prevista per gli atti
normativi ed eluderebbe, soprattutto, il fatto di dover esser disciplinato dal regime giuridico tipico degli atti
normativi, ambedue le circostanze che meriterebbero di mettersi a capo di un qualsiasi atto amministrativo
che si atteggi a regolare, a disciplinare situazioni. Insomma, “detta male”, ridicendo in termini masticabili,
c’è il rischio concreto che un atto amministrativo X, che sostanzialmente è normativo e formalmente non lo
è (esempio classico: un provvedimento), venga qualificato come non normativo e che quindi verrebbe
eluso, tout court, il principio di legalità che detta, valenza garantistica e democratica dixit, che gli atti
normativi debbono sottostare tassativamente ad un determinato iter procedimentale formativo ed ad un
determinato regime giuridico tipico per gli atti normativi.
Per constatare davvero quando siamo di fronte ad un atto normativo sostanzialmente, si dovranno, anche
qui, usare criteri sostanziali di identificazione di un atto normativo, che ci diranno che un atto è normativo
allor quando esso abbia la triade caratteriale tipica di un atto normativo: caratteri di generalità, astrattezza
ed innovatività.
Perché questo tipo di ragionamento?
Perché, a ben vedere, l’ordinamento esige che gli atti amministrativi, quindi quelli emanati della PA,
abbiano sì la veste giuridica dell’atto amministrativo, ma la forza normativa tale che una loro violazione da
parte di un provvedimento possa valere come violazione di legge. È allora è una garanzia della legalità ad
imporre che gli atti amministrativi, ove essi siano anche normativi, vengano ben ricondotti alla famiglia
grande degli atti normativi, perché così ad essi sarà applicabile qualunque garanzia tipica della
normatività.
Qual è il pericolo?
Il pericolo è che ove la PA disciplinasse una materia o un settore intero con un atto amministrativo generale
esso sfuggirebbe al controllo della normatività tipico del regime degli atti normativi.
Esplicato questo pericolo, come si può fare per arginarlo?
Di qui la necessità di ricostruire quand’è che un atto amministrativo generale è normativo, quindi atto
fonte del diritto obiettivo. Per farlo ci appelliamo a quelli che in dottrina sono riconosciuti come i più
autorevoli criteri formali e sostanziali (come detto milione di volte) 
Gli elementi costitutivi dell’atto che influenzano la sua caratterizzazione come generale e/o normativo sono
l’oggetto, il contenuto e la finalità (assumono, invece, una rilevanza marginale il soggetto e la forma);
analizziamo tutti i concetti sin qui richiamati, schematizzando:
* La forma è garanzia di sostanza, quindi primo passo è verificare che l’atto sia nato secondo le regole
positivamente stabilite dalle fonti di produzione del diritto obiettivo.
* Ove i criteri formali siano insufficienti, la dottrina maggioritaria ritiene che, come abbiam riferito, bisogna
ricorrere ai criteri sostanziali di generalità e astrattezza. È su questo punto che la visione del professore si
discosta dalla dottrina maggioritaria, ritenendo che generalità e astrattezza siano insufficienti per
ricostruire la qualità della normatività dell’atto amministrativo generale  * Il vero scriminante di
differenziazione (che ci fa capire quando un atto è normativo o non è normativo) è, difatti, per lo
scrittore, la “vocazione” (che include sia la generalità sia l’astrattezza, ma senza separarle tra loro).
Vocazione a che? A disporre, cioè a regolare in via preventiva e generale, e non a provvedere, cioè a
regolare il caso concreto (come succede nel caso emblematico dei già menzionati provvedimenti) ; dove
va ricercata questa vocazione a disporre dell’atto amministrativo generale, tale che esso possa essere
atto amministrativo fonte del diritto obiettivo? Va ricercata, questa vocazione, in tre dei cinque
elementi essenziali dell’atto amministrativo (oggetto, contenuto e finalità):
1) Oggetto (riferito tanto ai beni quanto ai destinatari dell’atto): negli atti dotati di vocazione, l’oggetto e i
destinatari sono indeterminati e indeterminabili; viceversa, per gioco forza logico, negli atti non normativi,
e quindi non dotati di vocazione, l’oggetto e i destinatari sono determinati o determinabili.
2) Contenuto: cioè il dispositivo, che non vuole dettare regole del singolo caso, ma vuole dettare una regola
ad un numero indefinito e indefinibile di fattispecie; ne consegue che un atto non normativo, e quindi non
dotato di vocazione, detta regole del singolo caso concreto o individua, per lo meno, una classe definita di
fattispecie.
3) Finalità: l’atto amministrativo che ha vocazione concorre a determinare in astratto i profili dell’interesse
pubblico, rispetto al provvedimento, o all’atto non normativo amministrativo in generale, che invece lo
definisce in concreto; ancor per meglio contestualizzare, diremo che, in schema analitico, atto normativo =
determinazione dell’interesse pubblico in astratto - atto non normativo (provvedimento) = determinazione
dell’interesse pubblico in concreto.
 Si capirà quindi, alla fine, che se questi elementi dell’atto amministrativo si atteggiano in questo modo
l’atto avrà vocazione/capacità di regolare la vita associata: di conseguenza sarà un atto fonte, una fonte del
diritto obiettivo, e, di conseguenza, pur non avendo formalmente i caratteri della normatività, ne
condividerà il regime giuridico  Se gli elementi si atteggeranno in questo modo, l’atto è sostanzialmente
fonte del diritto obiettivo e deve, allorché, sottostare al peculiare regime giuridico degli atti normativi.
/
Fatto questo ragionamento, ora possiamo trarre una duplice diversa conseguenza sul piano metodologico
(pag. 97):
- O si cambia il concetto della normatività sostanziale, per cui essa non discende più da generalità e
astrattezza, e piuttosto discende da VOCAZIONE/CAPACITA’ a regolare la vita associata;
- Oppure si abbandona l’idea della normatività formale e sostanziale, e si crea una categoria più grande,
quella categoria, cioè (che qui studiamo), dell’atto amministrativo fonte del diritto obiettivo, che
ricomprenda: 1) Atti formalmente normativi, 2) Atti sostanzialmente normativi sulla base di generalità
e astrattezza, 3) Atti amministrativi che in concreto hanno dimostrato la capacità a regolare la vita
associata.
(pag.102, par. 7.1): appare fondata la scelta di creare una categoria definibile come “atto amministrativo
fonte del diritto obiettivo”, che, per così dire, legittima la “ibridezza” di quegli atti i quali si connotano
similmente agli atti normativi, ma non necessariamente ne posseggono rigorosamente tutti i caratteri,
tanto è vero che sfuggono alla relativa qualificazione (e questo è un male) e perciò all’applicazione del
conseguente trattamento giuridico. [Ripete poi, per l’ennesima volta, il discorso sui criteri formali e sostanziali
di identificazione, dove i primi qualora accertano la presenza delle caratteristiche formali dell’atto normativo =
nulla quaestio, è un atto normativo; ma qualora questi non riscontrano queste caratteristiche, ciò non significa
che quell’atto (sotto esame) non è normativo, ed entrano in gioco, allorché, i criteri sostanziali che verificano se
sostanzialmente c’è la caratteristica di vocazione/capacità di regolare la vita associata, e, qualora ci fosse, allora
l’atto sarebbe un sostanzialmente normativo, e va applicato ad esso il regime giuridico degli atti normativi].
= Fondatezza ed utilità teorica e pratica della categoria degli atti amministrativi fonte del diritto obiettivo
(pag. 107, par. 7.3) / Ci domandiamo, in questa concettualizzazione, a fronte di tutto il discorso fatto sino a
questo momento: quale utilità ha questa categoria dell’atto fonte?
Proviamo a rispondere subito, colpendo dapprima al cuore il concetto: creando questa categoria
(utilissima) degli atti amministrativi fonte del diritto obiettivo, si evita che la PA possa, a suo
piacimento, sottrarsi alle prerogative tipiche dell’atto normativo, scegliendo una forma juris che elude
il regime giuridico della normatività, e che soprattutto eluda le garanzie della legalità. Insomma si evita
il despotismo della Amministrazione Pubblica, sotto questo filone concettuale. Ancor per meglio
argomentare, questa famosa categoria più volte citata porta anche una utilità teorica (in quanto risolve, in
base alla sua utilizzazione, la disputa concernente la discriminabilità fra atti normativi e non, risolvendo, tra
l’altro, infinite contraddizioni teoretiche e logiche) ed una utilità pratica (in quanto si deve riconoscere che
questa categoria consente di superare gli spinosi problemi di scelta del regime giuridico applicabile agli
atti).

Conclusione definitoria sull’atto amministrativo fonte del diritto obiettivo (prof.re dixit):
“Tutte le volte in cui un atto amministrativo individua un interesse pubblico dispone, e quindi è un
atto fonte del diritto obiettivo. Tutte le volte in cui dà valore concreto ad un interesse pubblico,
provvede, quindi è atto amministrativo non normativo.”

La classificazione concreta degli atti amministrativi fonte del diritto obiettivo: gli atti normativi
formalmente tali (i regolamenti), e gli atti amministrativi fonte “non normativi” (da pag. 108 a pag. 114)
(par.8 e par.9): A questo punto del discorso, è possibile determinare concretamente, materialmente, gli atti
amministrativi fonte del diritto obiettivo, gli atti fonte della PA, che meritano quindi il regime giuridico (di
cui si è tanto parlato) peculiare degli atti normativi.  Tramite i criteri formali identificativi di un
qualsivoglia atto normativo, noi possiamo riuscire ad identificare gli atti amministrativi normativi
formalmente tali e cioè, sul piano del diritto positivo, null’altro che i regolamenti ; mentre tramite i criteri
sostanziali identificativi di un qualsivoglia atto normativo, noi possiamo riuscire ad identificare gli atti
amministrativi (formalmente non normativi, ma…) sostanzialmente normativi, e quindi meritevoli,
sicuramente, anche essi (come i formalmente normativi) di esser visti dall’ordine giuridico come atti, alla fin
fine, normativi.
* Gli atti normativi formalmente tali sono, come anticipato, null’altro che i Regolamenti; si adoperano
per essi 2 criteri di classificazione, e cioè si classificano in base al soggetto e si classificano in base al
rapporto con la legge:
** In base al soggetto, vi sono i regolamenti: del Governo e dei Ministri, degli Enti locali, delle A.A.I.
(autorità amministrative indipendenti);
** In base al rapporto con la legge, vi sono i regolamenti: d’esecuzione, d’attuazione e integrazione,
indipendenti, autorizzati. Tutta la relativa disciplina (studiata in Amministrativo 1) è regolamentata dall’art.
17 della L. 400/1988, e numerose questioni concettuali sono sorte per quanto concerne i regolamenti
indipendenti (rileva qui, come ricorderemo, il fenomeno della deregulation) ed i regolamenti autorizzati
(rileva qui, come ricorderemo, il fenomeno della delegificazione); in particolar modo, nel caso dei
regolamenti indipendenti e nel caso, quindi, del fenomeno della deregulation, è stata mossa più di una
critica, in quanto c’è un troppo consistente indebolimento dell’azione normativa del Parlamento a pro di un
troppo consistente rafforzamento dell’azione normativa del Governo, con conseguente diminuzione
concreta di garanzia offerta, giustappunto, dai regolamenti indipendenti rispetto magari ai più garantistici
regolamenti autorizzati (fenomeno della delegificazione), più garantistici in quanto, con la delegificazione, il
Parlamento delegifica al Governo di normare su di una certa materia, ma detta allo stesso gli “spazi di
manovra” in cui può normare (con la deregulation, invero, il Parlamento “lascia carta bianca” al Governo ed
ecco perché viene marginalmente “preso in giro” il principio di legalità) . Il motivo dell’incremento
quantitativo, al giorno d’oggi, dei regolamenti indipendenti si deve trovare nel fatto che viene velocizzata
l’operazione di normazione (tramite lo snellimento burocratico che offre il Governo, rispetto, certamente
alla lente azione parlamentare), ma, come detto, si diminuisce, purtroppo, ontologicamente ed
inevitabilmente, il tasso di democraticità e garanzia offerto dal principio di legalità. (Vedi anche, per
maggior completezza e precisione, pag. 110-111).
* Gli atti normativi sostanzialmente tali non possono essere classificati a priori; serve, difatti, una
attenta analisi (con utilizzo di criteri sostanziali di identificazione) di diritto positivo: servirebbe, in verità, la
costruzione di una sorta di “protocollo di ricerca” da doversi adottare ogni qualvolta si manifesti la esigenza
di individuare la natura di un atto amministrativo, al fine di verificare, allorché, se esso sia, o meno, fonte
del diritto obiettivo. Tra gli atti normativi sostanzialmente tali (e formalmente non normativi) possiamo, in
ogni caso, ricordare: piani regolatori, atti determinanti prezzi o tariffe, autorizzazione del garante per la
privacy.

PARTE SECONDA

CAPITOLO 2 IL PLURALISMO ISTITUZIONALE E/O AUTONOMISTICO


2. Il concetto di Repubblica e la conferma del significato dell’art 5 cost. nella pur lenta e
faticosa realizzazione dell’ordinamento regionale e delle autonomie locali
Come sappiamo , il testo dell' articolo 5 costituzione pone come prioritario il problema relativo all'
interpretazione del termine "Repubblica". Sappiamo anche che la espressione, almeno con riguardo la
disposizione in esame , non è utilizzata come sinonimo di Stato apparato: così ricava dall' esplicita
affermazione della Repubblica "attuali servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo "; con il  che si intende palese la non equivalenza fra i due, l' una essendo qualificata come
soggetto diverso e più "largo" dell' altro ( fino a ricomprenderlo) .
Un soggetto - Repubblica - che , dunque , si identifica propriamente con lo Stato - comunità ( Postato -
ordinamento che dir si voglia ) e che , solo in quanto tale , in grado di "riconoscere" un dato preesistente
allo Stato-apparato: le autonomie locali , appunto . È indiscutibile infatti , che si possa riconoscere solamente
ciò che già c'é e che pertanto, non deriva la sua esistenza da un atto creativo del soggetto "riconoscente"
Che questa accezione del concetto di Repubblica - derivante dall' affermazione l' assemblea costituente del
pensiero Sturziano - sia fondata trova conferma nella pacifica interpretazione numerose altre norme della
carta facendo riferimento alla Repubblica.
È ben noto che la corte costituzionale, fino alla riforma del titolo V del 2001, si è espressa sul punto con una
giurisprudenza , per così dire, " intermittente " . L'ostacolo all' ampliamento delle attribuzioni degli enti
territoriali minori solo in base al valore consacrato dall' articolo cinque è costituito dall' elencazione delle
materie di competenza legislativa
regionale fissato dall' articolo 117 e dal c.d. "Parallelismo" fra materie di competenza legislativa e materia di
competenza amministrativa ex articolo 118 costituzione fu separato dai vari momenti della progressiva
attuazione dell' ordinamento regionale: dagli statuti delle regioni ordinarie e primi decreti legislativi di
trasferimento,alla stessa legislazione regionali, fino ed ai relativi, numerosi decreti legislativi.
Sennonché In dottrina sono stati sollevati dubbi avanzate perplessità di non poco conto. Relativamente alla
legittimità di un'azione  "integrativa" della normativa costituzionale ad opera del legislatore ordinario, tanto
nazionale che regionale. Dubbi che, peraltro solo oggi definitivamente fugati dalla novella della carta
intercorsa nel 2001 .Epperò, a ben riflettere, la ragione più profonda dell'atteggiarsi, in sede esegetica ,
favorevole lettura Autonomistica dell' ordinamento sembra essere stata una interpretazione sistematica della
costituzione , sulla scorta della quale può ben dirsi che il testo fondamentale prefiguri uno Stato regionale .
Dalle considerazioni testé sinteticamente richiamate , abbiamo già , a suo tempo inferito la perfetta
coniugazione fra le Coordinate costituzionali per la strutturazione funzionamento ed il funzionamento del
potere pubblico, è specialmente di quello amministrativo, stabilite dall'articolo  5 e 97.
Occorre allora più approfonditamente sul significato dell'articolo 5. E nel farlo, pur sforzandosi di restare
rigorosamente entro i confini dell' approccio giuridico, non sembra possibile esimersi dallo svolgere una
riflessione che in qualche misura si nutra dei risultati cui sono pervenute altre discipline, anche perché l'
oggetto sul quale il profilo dell' analisi giuridica in questo caso ad essere calato concerne in pieno uno dei
valori fondati fondanti l' ordinamento vigente. E in siffatte  circostanze, se si astrae dalla realtà dei fenomeni
la sua disciplina di volta in volta chiamata a "fagocitare", il giurista appare destinato, inesorabilmente, a fare
i buchi nell' acqua.
In altre parole , sembra che il giurista non si possa più consentire di continuare a riflettere sui rapporti fra
Stato, regioni ed enti territoriali minori entro gli angusti confini del termine giuridico-amministrativo ,
obliterando la realtà soggiacente fatta di interessi che si modellano e si dimensionano secondo forme e
misure che trovano origine- ben al di là di schemini - nella qualità originalità di tali soggetti che é
squisitamente ed intimata mente politica .
A meno di non scegliere di restare margini circuiti della contemporanea elaborazione scientifica nel campo
delle discipline sociali, quindi, il giurista non può più studiare i rapporti in parola senza mettere in discussione
il fondamento ontologico di valori ereditari acriticamente dal passato, da esperienze che si deve ritenere
abbia esaurito il loro ciclo vitale e siano state superate dalla storia se presi in considerazione nei tratti
fenomenologici originali. Si pensi, ad esempio, ai concetti di Stato , "nazione", ente territoriale infrastatale,
"sovranità" , "autonomia" , al loro entrare in crisi con riferimento al continuo mutarsi delle relazioni fra
territorio, comunità e interessi, e dalla conseguente necessità di un loro ripensamento che si misuri, per
adeguarsi, con detti mutamenti.
Nella prospettiva indicata, allora è indispensabile, quantunque a volo  d'uccello indagare le ragioni che hanno
reso lenta e faticosa la realizzazione dell' ordinamento regionale delle donne locali.
Ed invero, sebbene si possa affermare con sufficiente sicurezza che nell' interpretazione contro dall' articolo
5, regioni e autonomie locali siano state considerate come cellule costitutive del tessuto istruzione italiano,
bisogna tener presente che l' ordinamento regionale e autonomistico ha vissuto in Italia una, per così dire,
stentata e non agevole affermazione, per spiegare la quale si possono indicare tre ordini di ragioni , tutti
peraltro riconducibile ad una insufficiente cultura regionalista nelle e delle istituzioni.
La difficoltà in parola . in termini sintetici farsi risalire , anzitutto , al modo di cultura regionale di governo, e
cioè alla diffusa incapacità di intuire il possibile miglior esito del governare la comunità nazionale attraverso
modelli governo regionale .
Una seconda causa può essere individuata senz'altro nel comportamento vuoto di cultura regionale il
governo: si è registrata , infatti , una sostanziale insensibilità  alla questione automobilistica nei governi
succedutisi durante i primi vent'anni della vita Repubblica italiana.
Può infine, identificarsi una terza causa nel consistente vuoto di cultura di governo regionale, volendo
esprimere con ciò che le stesse regioni non hanno colto Il significato " culturale " del governare in modo
regionale .
Ciò è stato senz'altro dovuto, da un canto , alle incerta " penetrazione " nella coscienza collettiva del livello
istituzionale corrispondente, che si riflette inevitabilmente sulla pienezza della rappresentatività politica degli
esponenti relativi a detto livello . Si consideri , ad esempio la circostanza di fatto , difficilmente contestabile,
che nella più diffusa opinione pubblica é stata scarsa consapevolezza dell' Istituto regionale; la gente
comune conosceva assai più il nome del sindaco della società e non quello del presidente della regione: il
che fortemente sintomatico di una volta almeno ventennale " impopolarità " della Regione .
D' altro canto , non può ritenersi ininfluente su questi risultati poco lusinghieri la mancanza di una vera e
propria formazione culturale regionalistica della classe politica politica e della burocrazia locale .
L'insieme delle regioni indicate ha favorito l'esito, per molti versi, almeno nei primi vent'anni, fallimentare l
esperienza regionale in Italia. La cattiva prova da siffatta esperienza , comunque , non può valere a
sostenere la riproposizione del centralismo: Le istituzioni locali sono state imprigionate nella morsa dei partiti
onnivori .
Una volta libera del sistema istituzionale generale totale morsa la spinta autonomistica diventa l'unica
possibile strada della implementazione della democrazie, e di un certo senso può costituire un' efficacia
antidoto al perdurare rischio di mantenersi del cancro rappresentato dalla "occupazione partitica"
dell'istituzione della conseguente, dilagante, corruzione, la quale è stata la causa, agli inizi degli anni 90 del
secolo scorso, di un ulteriore degenerazione del sistema: la indetta Invadenza del terreno proprio della
politica ad opera delle autorità giudiziarie, fenomeno noto con il nome di "operazioni mani pulite " .
Anche un interpretazione aggiornata dell'articolo 5, dunque, a via da seguire è quella del regionalismo e
delle autonomie locali.
Del resto, sin dall'inizio degli anni 90” del secolo scorso numerosi ed inequivocabili segnali delle effettive
possibilità per un rifiorire della stagione autonomistica hanno consentito di riconoscere viva alle intuizioni dei
costituenti, che ha poi definitivamente trovato conferma nella riforma del titolo quinto della costituzione
approvata con legge costituzionale tre \ 2001
Sul piano istituzionale uno dei più rilevanti segnali sembra potersi individuare nell'orientamento assunto delle
organizzazioni rappresentative regionali (conferenza), dalle province ( UPI) e dei comuni ( Anci ) con la firma
di un protocollo d' intesa siglato a Milano il 19 marzo del 93 In occasione della "laboriosa” approvazione di
un importante documento: la carta regionale d'Italia sottoscritta dalla conferenza dei presidenti delle 20
regioni delle due province autonome italiane, è "ritenuta riferimento irrinunciabile per costruire la nuova
Repubblica nella prospettiva europea".
In questo documento dal significato assai rilevante, "nell'ottica di una coerente  riscrittura e riorganizzazione
del titolo quinto della costituzione", si afferma che l’organizzazione menzionate" intendono concorrere in
maniera attiva in Italia alla definizione di un testo di riforma capace di valorizzare e attuare l' essenziale
disegno costituzionale sulle autonomie territoriali affermato dall'articolo 5 della costituzione".
Nell' indicato orientamento si schiera decisamente la netta propensione per il principio di sussidiarietà,
assunto dalla carta della regione quale perno centrale ed imprescrittibile della riforma auspicata. Il
documento, infatti, così esordiva: "il principio di sussidiarietà deve essere alla base della riforma dell'
ordinamento"
E proseguiva specificando che sussidiarietà, <nel campo dei rapporti fra pubbliche istituzioni, significa che le
decisioni da assumere per la soddisfazione dei bisogni della collettività spettano alle istituzioni più vicine ai
cittadini e che le istituzioni maggiori esercitano nell' interesse comune soltanto le competenze che le
istituzioni minori non possono adeguatamente esercitare>
Significativamente il punto uno della carta così concludeva: "il principio di sussidiarietà deve essere
introdotto e sancito tra i principi fondamentali della costituzione della Repubblica".
Sotto un primo profilo, secondo il documento della conferenza delle regioni sono immediatamente
applicazioni del principio in parola: da un lato, che le competenze legislative generali "va riconosciuto in via
esclusiva" le regioni, <mentre allo Stato va riservata la competenza su materie enunciate, Direttamente
connesse all'unità dell'ordinamento e dalla in frazionabilità degli interessi nazionali>: dall' altro, che, come
quella legislativa, anche "funzione amministrativa va esercitata a titolo di competenza generale dalla
Regione, nel quadro del sistema complessivo dell' amministrazione locale", mentre allo Stato spetta di
esercitarla solo “per il soddisfacimento degli interessi unitari della comunità nazionale", e, per giunta, <a
titolo di deroga alla competenza generale spettante al sistema dei poteri locali>
Sotto il secondo profilo , il principio di sussidiarietà prescrive che, essendo "autonomia locale intesa come
autodeterminazione delle comunità territoriali", Province e comuni partecipano "attraverso idonee procedure
" alla definizione Degli “obiettivi generali della programmazione economico sociale territoriale di livello
regionale" e si vedano "riconosciute le funzioni amministrative che non attengono ad esigenze di carattere
unitario della comunità regionale", mentre le regioni possono "intervenire nella materia di competenza di
province comuni soltanto allorché lo richiedano: a) la tutela dell'interesse regionale; b) inadeguatezza dell'
azione di province e comuni; c) la lesione da parte di province comuni degli interessi di altre province
comuni; d) l'esigenza di garantire l'omogeneità delle condizioni di vita dei cittadini sul territorio regionale>
Si tratta di un vero e proprio di Rovesciamento dell' impianto istituzionale in allora effettivamente vigente,
che però non in perfetta armonia con le linee prospettiche tracciate dalla costituzione, fino a quel momento,
per molta parte disattese.
Sul piano più strettamente politico, nello stesso periodo, si registra un'attenzione tutta nuova dell'opinione
pubblica nei confronti del tema in discussione, soprattutto per effetto del notevolissimo fermento suscitato
dall'azione di stimolo, assai vivace e perciò sempre più efficace, svolta da movimenti di recente formazione.
A parte la generale richiesta di cambiamento dello Stato regionale stato federale. tra le proposte più seguite
e significative generate dal detto fermento, si segnala quella del c.d. "federalismo fiscale" .
A questo proposito, peraltro occorre intendersi termini: sul piano istituzionale federalismo, nel suo significato
etimologico, è fenomeno che presuppone l'esistenza di soggetti sovrani, i quali scelgono di rinunciare ad una
quota della loro sovranità, decidendo, appunto, di federarsi .
Ora, nessuno può con ragione sostenere che sia questa la situazione di fatto ricorrente in Italia, né al
momento della originaria " facitura" costituzionale, né, men che meno, oggi. Di qui È possibile derivare un
ordine alternativo di considerazioni .
O l'obiettivo di chi propugna il federalismo è quello di tenere una trasformazione lessicale che, imponendosi
nel greggio comune, sia strumentale all'affermazione di un sistema istituzionale finalmente basato
sull'autonomia. In tal caso è ragionevole supporre che nessuno si scandalizzerebbe, anzi, che molti
economisti sarebbero favorevoli .
Ovvero si ragiona assumendo il significato proprio della parola, ciò che disvelerebbe una strategica politica
tutt'altro diversa, la quale fa sorgere il sospetto di un segno separatista o secessionista che, seppure si grida
di non volere, costituirebbe un imprescrittibile presupposto perché fosse consentito di passare poi alla fase
federativa. Del resto , l'uso delle parole non può non avere anche un significato politico.
Se si accolgono gli argomenti appena svolti, non si può che manifestare prudenza anche nei confronti dell'
espressione "federalismo fiscale", nel senso che essa mostra di essere, (perlomeno) impropria, inaccettabile.
Ed invero: con essa si vuole rappresentare il prelievo è la spesa devono essere collegati in modo più stretto
alla realtà territoriale di riferimento anche in vista di una maggiore responsabilizzazione delle relative
comunità (allora si dovrebbe usare il termine federalismo, bensì quello di regionalismo fiscale , di sistema
fiscale su base locale).
Oppure l' espressione sta a disegnare un sistema fiscale tipico di uno Stato federale che non è, perché, per
aversi, postulerebbe una previa separazione secessione .
A meno di non voler mettere in discussione la dimensione unitaria dell'Italia come comunità politica
nazionale organizzata in stato, quindi, non può che ritenersi inaccettabile ogni ipotesi di federalismo, e, per
converso, riconoscersi la grande attualità dell' assunto “Regioni per unire" .
<Solo se le regioni conquisteranno questo potere di intervento nazionale, di "ingerenza", superando ogni
illusoria visione "separata" e di isolazionista> , sarà possibile "uscire dai pericoli e dalle secche di una rissa
municipale sia pure di dimensione un po' più larga" , soltanto così le regioni riusciranno ad emanciparsi da
quella determinata pratica istituzionale consistente in una <Lotta di "clienti" attorno alla elemosine concesse
dal potere centrale >. Ciò che induceva a concludere: <Ci interessano regioni come assemblee politiche che
lottano una riforma generale dello Stato e della società, attraverso questa vogliono articolare il potere
politico, e farlo aderire ai nuovi bisogni che mutano nelle masse>
Affermazioni, queste, che paiono pienamente condivisibili, ma con una necessaria precisazione. La battaglia
per le regioni deve essere considerato come una battaglia di carattere politico istituzionale, posta a realizzare
una trasformazione dell' assetto delle istituzioni nel senso solo dalla costituzione
Essa, però, non può intendersi come una battaglia politica pura. In altre parole non può essere intesa alla
stessa stregua di chi esprimeva una posizione di volta in modo esplicito a rispondere alle esigenze di come
meglio perveniva al domicilio delle masse.
Anche a prescindere dall' impianto normativo costituzionale italiano non sembra revocabile in dubbio che una
società complessa postuli, per essere governata democraticamente una riduzione delle distanze fra comunità
e sua forma organizzatore istituzionale: ottenere il risultato di rendere effettivo il governo della maggioranza
dipende dalla dimensione della circoscrizione territoriale. Più ampio è il più raggio di quest'ultimo, almeno si
trova corrispondenza tra volontà comune e sua rappresentazione nelle istituzioni essendo imposte ai cittadini
troppe mediazioni per raggiungere un livello di decisione molto distante da essi.
È questa la ragione per cui, sul piano definitorio, la democrazia maggioritaria oltre a dover essere integrata
da tratti consistenti di democrazia pluralistica richiede una forma di pluralismo anche all'interno del suo
stesso modello: il pluralismo istituzionale, che consente di strutturare in modo articolato la ricerca di
un'espressione più veritiera della volontà della maggioranza. In altre parole, la stessa chiarificazione dei
processi decisionali per l'individuazione dell’interesse pubblico che prendendo un più diffuso e dinamico
esercizio della sovranità: una sovranità che potrebbe dirsi "scomposta nelle" autonomie locali, volendo
significare che la prima trova una sua autentica definizione in virtù dell'opera di rappresentazione e
composizione degli interessi che si compie per il tramite delle seconde, e pertanto essa ben potrebbe
qualificarsi, in definitiva, anche come "composta dalle” autonomie.

3. Sovranità nazionale ed autonomie locali


Vi è, però, in un siffatto cammino teorico un ostacolo di non poco conto rappresentato dalla difficile
conciliabilità delle autonomie locale con la sovranità nazionale .
E anzi si rende necessario; seppur breve, richiamo delle nazioni di sovranità e di autonomia, prima ancora di
visitare concettualmente della definizione che tali nozioni assumono in base gli aggettivi che di volta in volta
si accompagna una di esse.
Per usare le parole di una autorevole dottrina il termine sovranità indica "il potere di comando minuti istanza
in una società politica", un potere, cioè, che si caratterizza per essere "supremo, esclusivo e non derivato".
In altre parole, la sovranità rappresenta "una razionalizzazione giuridica" del potere politico tale da
"trasformare la forza in potere legittimo, il potere di fatto il potere di diritto". Ciò evidentemente può
avvenire in virtù tanto della forza quanto della ragione: quel che conta sotto il profilo definitorio resta la
capacità di chi è sovrano di decidere "in ultima istanza" per la comunità.
Un altrettanto autorevole dottrina, occupandosi dell' altro concetto, ricorda "quando si parla di economia ,
quasi per antonomasia si intende autonomia normativa", è che "presa nel suo valore originario autonomia
dovrebbe significare la situazione di chi da a se stesso norme giuridiche, quindi del soggetto giuridico che
trovi in se e non in altri soggetti la fonte delle proprie norme e insieme agisce secondo le proprie norme un
soggetto produttore utilizzatore di norme proprie, ed esclusivamente proprie"; ma poi afferma che <questa
"autonomia normativa sovrana "si riduce a poco più di un' articolazione, di validità logica, delle sovranità
medesima>.
In effetti con riferimento al termine in parola si deve registrare la "impossibilità di fissare un linguaggio
comune", al punto che bisogna <integrare sempre il termine autonomia con un aggettivo, si da distinguere
adeguatamente tra loro quelle che, in realtà non sono più soltanto delle mere accezioni di una voce
significatoria, ma concetti ormai profondamente diversi, talora dimetralmente opposti>
Orbene. va senz'altro ricordato che, storicamente , la sovranità ha due importanti "avversari" nel
costituzionalismo e nel pluralismo.
La precisazione, tuttavia non è di ostacolo il convenire che la <Sovranità per definizione e illimitata. E, anche
per questo, non può essere originaria>. Per converso, l'autonomia, <in quanto relazione, è delineabile solo
come riconosciuta da una istituzione, un ordinamento: ossia, in quanto da questa istituzione, da questo
ordinamento sia derivata> . Nessuno, pertanto, può con successo confutare che <l'autonomia, in
contrapposizione alla sovranità, e coessenzialmente limitata: non può consistere che in quel complesso
normativo, o in quella possibilità di agire giuridico mediante le quali questo fosse stato costituito, che l'
istituzione, l' ordinamento derivante li deriva>
Ciononostante un discorso diverso merita la "autonomia locale” . Questa, infatti, si caratterizza per il suo
tipico, intrinseco, connotato di politicità .
In altre parole, l'autonomia locale può propriamente <definirsi come , “autonomia politica degli enti locali “>.

Pertanto, sebbene l'affermazione della limitazione dell' autonomia nei confronti della sovranità rileva, oltre
che rigore definitorio, pure una stringente logicità sebbene, anche autorevolmente, ci sostenga che <in una
struttura democratica, gli enti politicamente autonomi dominanti dall' opposizione trovano un limite alle
proprie possibilità di indirizzo politico nella necessità di osservare le leggi dettate dalla maggioranza del
governo> - , essa affermazione tuttavia, non sembra potersi meccanicamente estendere all' autonomia
locale.
Naturalmente nessuno nega che "l'autonomia locale , in quanto economia politica dell' ente locale, come
tutte le posizioni giuridiche connesse alla libertà costituzionale, esiste un ordinamento all'effettività: ciò
sussiste nei limiti in cui l'ordinamento giuridico adottate delle misure giuridiche per permettere la
realizzazione delle estrinsecazioni virtuali che essa porta in sé"
Non si vuole, insomma contestare che l'autonomia politica locale - punto di arresto di fronte alla
determinazione politica nazionale, bensì soltanto sottolineare che il problema non sia risolvibile
riconducendolo agli aspetti meramente quantitativi, ma piuttosto interrogando l' ordinamento giuridico
vigente sul ruolo qualitativo assegnato alle istituzioni rappresentative locali.
In questa prospettiva , allora , occorre rifarsi alla costituzione , e non pare dubitabile che essa disegni <un
ordine dinamico dove la parola "stato" può cambiare di significato nel momento in cui l'ordinamento si apre
a nuovi valori, onde la contrapposizione tra Stato e autonomie si scioglie nella successione tra un tipo di
Stato è un altro e non si irrigidisce invece in una contrapposizione, inutile e sterile, tra l’apparato statale e
alcune fasce di enti autonomi>
Pur spostando tale approccio interpretativo, però, restano ancora risolta la questione della inconciliabilità di
sovranità nazionale e autonomie locali. E, verosimilmente, la soluzione deve essere trovata, incoerenza
confederale “Stato regionale e delle autonomie”.
La spinta decisiva per superare l'ostacolo sembra offerta della titolarità popolare della sovranità. Ed invero,
pur non seguendo sul piano strettamente definitorio, non può, rispetto gli effetti , considerarsi indifferente
chi sia titolare della sovranità: potrà discutersi della formula. È meglio consenta adesso di esercitare
effettivamente, ma è cosa evidentemente diversa da qualsiasi altra se la sovranità appartiene al popolo.
La questione, allora, parrebbe proprio disporsi sul piano dell' individualizzazione è la miglior formula per il
suo effettivo esercizio, della formula, cioè, che più idoneamente si presti a far corrispondere le scelte comuni
alla volontà popolare. Diventa così imprescindibile accordarsi previamente sull’identità di un popolo
e,correlativamente, sula identità della sua principale proiezione organizzatoria: lo Stato.
Al riguardo è sicuramente assai suggestiva l' idea secondo cui lo Stato costituisca per l'uomo luogo di
sicurezza, di tranquillità.
Lo Stato , insomma consisterebbe in una sorta di psicologo involucro pronto Protettivo entro cui ripararsi
dalle difficoltà essenziali.
In realtà contemporanea per il verso, è forse poco appropriato accogliere una siffatta eccezione dello Stato.
E questo non perché sia controverso alla ricerca di quella tranquillità, ma perché tale circa non si può più con
sicurezza viene risolta nella dimensione statale .
È infatti in discussione proprio la dimensione ottimale, o, per meglio dire, ideale per quella a cui trattamento,
per quell’acquetamento, quell’appagamento dello spirito che scaturisce da una coalizione organizzatoria nel
potere capace di soddisfare perché maggiormente corrispondente alla reale relazione della persona,
comunità e territorio. Ed in proposito si deve rammentare che "base dell' autonomia locale" è <l’esistenza di
interessi generali - cioè non particolari, di categoria o di settore>, anche se <di dimensioni locali> .
Assume così centralità della riflessione che si sta svolgendo il dato antropologico - culturale, il tema cioè
delle radici dell' uomo nella sua comunità.
E, in stretta diramazione logica, la voce della inconciliabilità di sovranità e autonomia finisce per risolversi
nella ricerca di un possibile equilibrio fra i rispettivi aggettivi. Una tale ricerca passa, perciò, inevitabilmente
dello scioglimento del nodo dell'identità politiche e antropologico culturali. Entra in gioco, insomma, il
concetto di nozione, e definire compiutamente tale concetto è compito assai arduo, per non dire impossibile:
<Il contenuto semantico del termine, malgrado la sua immensa forza emotiva, rimane tuttora tra i più vaghi
incerti del vocabolario>
Sembra comunque convincente la tesi secondo cui siano storicamente identificabili con sufficiente nitidezza
alcuni elementi oggettivi - è soggettivi in grado di caratterizzare il concetto contemporaneo di nazione.
Ora, quel che interessa ai presenti fini è senz'altro la crisi sempre più evidente delle identità nazionali per
come sono pervenute all’oggi dalla storia. Una crisi determinata da due cause di segno contrario: da un lato,
dal progressivo assorbimento del momento decisionale a livello mondiale; dall' altro, all' opposto, dal
frequente insorgere di comunità locali nome di un' identità "nazionale" avvertita come diversa quella
espressa dallo Stato e da quest'ultima compressa in nome di una nazionalità corrispondente al diffuso sentire
della comunità.

Non sembra discutibile infatti, per un verso, che l' eventuale evoluzione del modo di produrre nella parte
industrializzata del mondo, dopo aver portato alla dimensione "nazionale" l' ambito di interdipendenza tra
rapporti umani, sta ora tendenzialmente allargando al di là delle dimensioni degli attuali Stati nazionali e fa
apparire con sempre più immediata chiarezza la necessità di organizzare il potere politico su spazi
continentali e secondo moduli federali.
Se ne deduce che si profila come "irreversibile, nonostante battute di arresto , ritorni neo - isolazionismi, il
processo di ridimensionamento dell'importanza della nella nozione come sistema sociale relativamente auto
contenuto, attore fondamentale della politica internazionale e centro di solidarietà sociale, se mai la nazione
era mai stata tutto ciò. La nazione potrà essere unità di un sistema più ampio, né più ne meno come i gruppi
etnici subnazionali e i sistemi locali lo sono rispetto ad essa. .
Per altro verso, appare altrettanto indiscutibile che le nazione moderne <si basano su identità molto più
antiche che discendono da un senso di differenza culturale, al principio spesso piccola, ma che una varietà
di processi ampliato e approfondito, tale da produrre "comunità di storia e destino" completamente distinte
sul piano culturale>; bisogna perciò "diffidare dalle facili soluzioni apprestate per i conflitti nazionali ed etnici,
nonché dalle spiegazioni prevalentemente economiche che così spesso vengono accreditate", così come
definitivamente convenire che "l'identità culturali, una volta create, non appassiscono facilmente, che i
componenti etnici premoderni sono profondamente inseriti nella maggior parte delle nazioni moderne, è che
le identità nazionali sono saldamente fondate nella strutturazione del mondo moderno> .
Insomma, <l"etnicità" ha fornito, in una maniera molto generale, un modello potente per l'associazione degli
uomini che è stato adattato e trasformato , ma non obliterato, nella formazione delle nazioni moderne. Le
“radici” di questa nozione devono essere trovate , sia in via generale sia in molti casi specifici, nel modello di
comunità etnica prevalente in gran parte della storia documentata in tutto il globo>.
Per venire, più da vicino, all' Italia ed al dato giuridico istituzionale che la concerne "l'interpretazione
sistematica consente di rilevare come il costituente abbia avuto chiara la percezione del fatto che lo stato –
comunità e, nel suo ambito, il popolo abbiano carattere nazionale, che l'entità nazione sia logicamente e
storicamente anteriore al regime repubblicano e alla stessa unità politica, e che dunque anche lo Stato
ordinamento si qualifica come nazionale.
Esattamente si è osservato che "la maggior Parte delle disposizioni costituzionali nelle quali figura il ricorso al
termine pare utilizzarlo nella accezione di Stato comunità, sull' assunto della piena equivalenza della nazione
al popolo organizzato politicamente". D'altro canto, è evidente che gli interessi in gioco non sono propri dello
Stato-persona, ma della collettività nazionale nel suo completato, benché la salvaguardia di essi non possa
che venire imputata agli organi dello Stato-persona.
Accogliendo a la riferita interpretazione non può che concludersi per un concetto di nazione che trovi il suo
principale è naturale riferimento in una comunità politica dotata di una originaria vocazione antropologica-
culturale che reclama in qualche modo di esprimersi sul versante istituzionale.
In definitiva, sebbene appaia incontestabile che sovranità nazionale e autonomie locali convivono con
difficoltà sotto il profilo di una rigorosa definizione concettuale tuttavia l'ostacolo non sembra del tutto
insormontabile ove il problema si affronti considerando in modo diverso il quadro generale di riferimento.
Secondo tale modo il piano dell' analisi (solo apparentemente si presenta connotato in senso quantitativo,
ma, invece, pur investendo in modo consistente la misura è nell' interesse qualitativo, traducendosi nel
seguente interrogativo: quale spazio, che ambito materiale, oppure (meglio ancora) quale parte di tale
ambito concerne (o deve concernere) in modo principale ed esclusivo le autonomie, e quanto ampia Risulta
(o deve risultare) l' area di manovra che resta la solita oltre la quota di esse che si manifesta per il tramite (o
a questo punto e forse più giusto dire: direttamente ad opera) delle autonomie.
In altri termini: è vero che "la ragione [dell' autonomia locale Sta] nella differenza di dimensioni di natura
degli interessi curati"; ed è vero che <gli enti locali rimangono enti che curano interessi generali, cioè tutti
gli interessi che riguardano i cittadini di un dato territorio, non per categorie e settori, ma per l' intera loro
collettività"
Ma, se il vero , allora risulta difficile contestare che la sovranità popolare nazionale sia altro dalla somma
delle autonomie locali, dovendosi naturalmente a eccettuare quelle aree circoscritte di potere statale
destinato: per un verso, a) alla cura dei pochi, ma essenziali, compiti Nazionali; e, per un altro , b) ad
esprimere, attraverso mediazioni, la sintesi delle manifestazione autonomistiche strutturalmente
disomogenee perciò impossibilitate ad essere sommate fra loro; e, per altro verso ancora, c) a sostenere,
esclusivamente in via sussidiaria, quelle fra tali manifestazioni che si rivelino da sole incapaci di garantirsi la
sopravvivenza.

4. Autonomia locale e decentramento amministrativo: conclusioni sulla coesistenza possibile fra


sovranità nazionale ed autonomie locali
Resta da spiegare meglio il rapporto fra dimensione geografica e democrazia, ciò che implica il potere di
chiarire che decentramento non equivale necessariamente a democrazia: <Una correlazione necessaria fra i
due termini decentramento e democrazia non può in realtà essere affermata almeno come proposizione
generale, dovendosi semmai operare una distinzione tra decentramento realizzato attraverso l' attribuzione
di competenze ad organi elettivi o burocratici. Solo nel primo caso esso opererà come strumento
democratico , ma non nel secondo>.
Del resto, la insistenza con cui <si parla del decentramento in funzione democratizzante è dovuto in primo
luogo alla considerazione spesso prevalente delle autonomie locali, e, secondariamente , ad una correlazione
diversa ma connessa: quella tra autoritarismo e accentramento >.
Si può, insomma, con sicurezza convenire che <la compatibilità o meno fra decentramento e democrazia
vada valutata in modo diverso a seconda della natura degli organi cui sono attribuite le funzioni decentrate.
Solo se questi sono elettivi e nei limiti quindi in cui il decentramento viene a coincidere con l' autogoverno, si
può correttamente parlare di un decentramento democratico> .
Ora, non appare controvertibile che allo stesso risultato cui si è giunti attraverso la valutazione dei profili
concernenti la effettiva corrispondenza democratica dei livelli istituzionali alle prime istanze provenienti dalla
comunità, si perviene anche prendendo in considerazione gli aspetti di razionalizzazione nella cura dei
bisogni collettivi. In altre parole, non sembra si possa più eludere facilmente la ricerca di ottimizzazione dell'
attività arresa attraverso un più ragionevole dimensionamento geografico degli interessi in relazione alle
forme istituzionali deputate a soddisfarli.
Sono ormai trascorsi più di sessant'anni da quando un' autorevole dottrina avvertiva che l'intera vita
associata tende verso forme di razionalizzazione: costituisce razionalmente l'ottimo attribuire questi interessi
[Interessi generali dimensione locale] non allo Stato ma ad enti locali: lo Stato non è in materia possibilità di
amministrare bene.
Ma non necessaria coincidenza fra decentramento e democrazia trova piena conferma nella distinzione fra
autonomia e decentramento fatta propria dall' articolo 5 cost.: la disposizione contenente un principio
fondamentale, al tempo stesso, consacra uno dei primi valori costituzionali fondanti l'ordinamento generale
ed impone una formula organizzatoria il decentramento amministrativo - per lo svolgimento dei compiti
assegnati dello stato- apparato dall'ordinamento .
Possono a questo punto, essere trattate alcune, sia pur non assolute, conclusioni da ragionamento svolto.
Sotto un primo profilo, non si può non "prendere atto", definitivamente, che la "pienezza del potere statuale
è ormai al tramonto". Ciò non vuol dire che "scompare il potere", ma che "scompare solo una determinata
forma di organizzazione del potere", quella forma, cioè, "che ha avuto nel concetto politico - giuridico di
sovranità il suo punto di forza". Essendo, perciò, in via di estinzione questo supremo potere di diritto,
bisognerà ora procedere, attraverso la lettura dei fenomeni politici che oggi si danno, a una nuova sintesi
politico - giuridica, che razionalizzi e disciplini giuridicamente le nuove forme di potere, nuovi "superiori" che
stanno emergendo .
Sotto un profilo in qualche modo opposto, occorre riconoscere piena dignità al riemergere delle istanze
locali: non quale mera (ri -)affermazione di particolarismi egoistici, bensì quale pretesa di rispetto per le più
naturali - in quanto più verosimilmente corrispondente alla volontà popolare - vocazioni territoriali, nonché
quale richiesta di un più efficace soddisfacimento dei bisogni collettivi nel seno di ciascuna comunità di
raggiunto geografico minore.
In definitiva, dunque, possiamo ben dire che, anche alla luce di un'analisi più approfondita, risulta
confermato, per un verso, che la sovranità nazionale deve essere contenuta nelle circoscritte arie
tipicamente proprie dell'intervento di ogni Stato, Le aree cioè che comprendono quel tanto di compiti di
conservazione e di organizzazione ritenuto il minimo essenziale perché si possa considerare sussistente una
comunità strutturata in forma statuale.
E, per altro verso, che, nelle aree in cui sovente si rende necessaria un' azione di composizione degli
interessi espressi dalle autonomie regionali e locali, la definizione aggiornata della sovranità nazionale
prescrive: a) che lo Stato debba autolimitarsi fungendo così soltanto da strumento per la mediazione fra tali
interessi, sempre che, evidentemente, questi si rivelino confliggenti e, perciò, disomogenei si pensi
singolarmente nella loro interezza, dunque non sono "sommabili", bensì abbisognevoli di trovare una sintesi;
ovvero b) che lo Stato debba agire nei casi in cui l' intervento si manifesti tanto indispensabile quanto
possibile ricorrendo dunque, di volta in volta, i presupposti per l' applicazione del principio di sussidiarietà.
Del resto , non si può più trascurare, oggi, che bisogna fare i conti in generale con quella incessante e
inesorabile erosione di potere decisionale a livello internazionale, della quale si è poco sopra fatto cenno.

5 . Le tappe principali del processo istituzionale di effettiva realizzazione dell' ordinamento


regionale e delle autonomie locali fino alla riforma del titolo V della costituzione
Nonostante l'ottava disposizione transitoria della costituzione disponesse che le elezioni regionali avrebbero
dovuto essere indette entro un anno dall'entrata in vigore della carta, la prima legislatura delle regioni, come
ben noto, ebbe inizio solo nel 1970 allora effettiva costituzione ed il conseguente insediamento degli organi
direttivi, però, non consentivano ai neonati enti territoriali l'esercizio delle funzioni amministrative nelle
materie indicate dall'articolo 117 cost.: sarebbero stati necessari gli 11 decreti legislativi adottati dal governo
nel gennaio del 1972.
Il primo trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle regioni, dunque, trova origine nella legge
281/1970, il quale fissare i principi e criteri direttivi ai quali il governo avrebbe dovuto attenersi nell'esercizio
la delega ricevuta.
Vi si disponeva, per un verso, che il passaggio dovesse avvenire per "settori organici di materie", che allo
Stato fosse riservata <La funzione di indirizzo e coordinamento> delle attività regionali necessaria per
soddisfare le esigenze di carattere unitario. Come si è appena accennato, nel gennaio del 1972 il governo
emanò 11 decreti delegati con i quali fu disposto il trasferimento alle regioni ordinarie di competenze e beni,
mettendo così gli enti territoriali in condizione di cominciare a svolgere la propria attività amministrativa.
Al trasferimento non furono risparmiate critiche. Il metodo seguito dal governo per attuare il trasferimento:
diversamente da quanto indicato nella legge -delega circa la necessità che esso avvenisse per <settori
organici di materie>, si procedette ricorrendo alla tecnica definita dal ritaglio delle funzioni, mantenendo cioè
in capo allo Stato, nell' ambito di ciascuna delle materie trasferite, una serie di competenze che non
consentivano il pieno esercizio della funzione amministrativa, di fatto impedendo lo svolgimento dei compiti
loro affidati dalla costituzione, ancor prima che trasferiti dalla legge.
Le critiche al trasferimento finirono per costringere il parlamento a conferire una nuova delega al governo,
per disciplinare in via definitiva il trasferimento alle regioni, nelle materie elencate all'articolo 117
costituzione, delle funzioni amministrative, degli uffici e del personale degli organi centrali. La legge
382/1975 impose che il governo identificasse le materie Per <settori organi in base a criteri oggettivi
desumibili dal pieno significato che e si hanno dalla più stretta connessione esistente tra funzioni affini,
strumentali con elementari, per modo che il trasferimento dovrà risultare completo ed essere finalizzato ad
assicurarne una disciplina ed una gestione sistematica e programmata delle attribuzioni costituzionalmente
spettanti alle regioni per il territorio e il corpo sociale>.
Con il D.P.R. 616\1977, si realizzò quello che viene definito il completamento dell'ordinamento regionale.
Queste le principali disposizioni del decreto. Le materie oggetto di potestà legislativa regionale elencate
all'articolo 117 Cost. furono accorpate, ai fini del trasferimento delle funzioni delle amministrative, nei
seguenti quattro settori organici: ordinamento e organizzazione amministrativa; servizi sociali; sviluppo
economico; assetto ed utilizzazione del territorio.
Le funzioni furono distinte in a) funzioni trasferite in proprio alle regioni; b) funzioni delegate alle regioni; c)
funzioni sottratte alle regioni e riservate allo Stato. Mentre relazione a quest' ultime si escludeva qualsiasi
ruolo delle regioni; per le prime (quelle trasferite), lo Stato avrebbe comunque conservato la funzione di
indirizzo e coordinamento, limitatamente alle attività attinenti ad esigenze di carattere unitario; le seconde
invece sarebbero state esercitabili dalle regioni nel rispetto delle direttive impartite dallo Stato.
La dottrina si è interrogata sulle modalità di esercizio del potere di indirizzo e coordinamento riconosciuto
allo stato nell’ambito delle materie trasferite alle regioni e sulle sue possibili ricadute tanto sulla legislazione
regionale quanto sull’amministrazione locale tout court.
Il dibattito è ruotato su due opposte tesi. Secondo l’una, la funzione di indirizzo e coordinamento si risolve in
un’attività che impegna le regioni solo in sede “politica”, ovvero nella determinazione, d’intesa con diversi
livelli istituzionali, degli obiettivi comuni da raggiungere. Secondo l’altra, invece, l’attività in cui essa si esplica
va considerata, con maggiore o minore intensità, “vincolante”, cos’ sostenendosi la totale subordinazione
delle amministrazioni regionali alle direttive statali. In una versione meno centralistica di questa secondo la
tesi, la funzione è da ritenersi limitata alla individuazione dei criteri che devono governare l’azione locale,
ovvero a quei soliti casi in cui si tratti di garantire gli interessi dell’interno territorio nazionale.
La corte costituzionale ha provveduto a chiarire i termini entro cui ricondurre gli atti di indirizzo e
coordinamento, spiegando che essi non possono essere tal punto vincolanti da “svuotare” l’autonomia delle
regioni in ordine allo svolgimento di compiti amministrativi nelle materie di loro competenza, né tanto meno
comportare una “ riassunzione”, da parte degli organi statali, della funzione amministrativa nelle materie
trasferite.

Gli esiti dei trasferimenti del 1972 e del 1977 non autorizzano giudizi lusinghieri sull' attuazione dell'
ordinamento regionale e sulla valorizzazione del sistema delle autonomie territoriali. Nel primo caso si trattò
di trasferimenti parziali, che operano sistematicamente un "ritaglio di funzioni" a favore degli organi dello
Stato, è che non furono (i ccdd. “settori organici di materie”), che sola avrebbe potuto garantire alle regioni
la capacità di interventi globali nei settori di loro competenza.
Anche gli esiti del 616/1977 hanno comunque largamente tradito le aspettative. L'impressione che si ricava
dall'analisi degli sviluppi successivi è che anche in questo caso, si sia trattano, in buona sostanza di un
processo di semplice trasferimento di alcune attività, e non già della massa in opera di nuovi e più efficaci
strumenti di governo funzionali alla costruzione di quello Stato regionale pensato e voluto dai costituenti.
Nel 90 quest'ultimo varava una legge molto importante la legge 142 sull'ordinamento delle autonomie locali,
che, nel disciplinarle, contribuisce alla ridefinizione dei rapporti tra regioni ed enti esponenziali minori,
provando a sanare le lacune e difetti determinatisi nelle relazione tra i poteri locali a seguito della scarsa
attuazione dell' articolo 118 cost., co. 3. Anziché amministrare normalmente attraverso la legge degli enti
locali, così come prescritto da questa norma costituzionale, le regioni hanno concentrato su se stesse le
competenze, non solo di programmazione e di indirizzo, ma anche di gestione, con la conseguente
emarginazione degli enti locali.
La legge 142/1990 è particolarmente significativa su un duplice versante: quello d ell'attribuzione delle
competenze e quello della innovazione organizzativa. Relativamente al primo profilo, va sottolineato il nuovo
rilievo conferito alla provincia, che, dopo la fallimentare esperienza degli anni 70, diventa titolare di
importanti funzioni di programmazione, amministrazione e gestione in molteplici materie. Nel gennaio del
1997 viene istituita la commissione bicamerale per le riforme costituzionali, con il compito di elaborare una
proposta di legge costituzionale per la revisione della intera seconda parte della carta. Nell' affrontare il
problema della ripartizione delle funzioni tra Stato, Regioni ed enti locali, la commissione adotta un modello
che intende la Repubblica come un ordinamento giuridico complesso, all'interno del quale operano quattro
distinti livelli istituzionali, i cui rapporti devono improntarsi al principio di leale cooperazione. La novità più
importante contenuta nella proposta è, comunque, costituita dal "capovolgimento" della impostazione dei
rapporti tra "centro" e "periferia", vale a dire dalla adozione di una prospettiva di diametralmente opposta
rispetto a quella vigente. Fino a quel momento nel dare attuazione all'art. 117 era stato seguito il metodo del
distacco di funzioni dal potere statale per affidarli alla competenza delle Regioni. Il progetto di riforma della
Bicamerale parte dal principio opposto, stabilendo che sono autonomie locali la sede originaria delle funzioni
di regolazione ed amministrazione delle comunità territoriali di cui esse sono esponenziali, e che allo stesso
spettano solo i compiti che attengono alla cura degli interessi nazionali.
Come risaputo, i lavori della commissione bicamerale vennero vanificati dalla bocciatura in aula. Ma la parte
di quel testo relativa all'impianto autonomistico della Repubblica è stata ripresa dalla legge costituzionale
3/2001, con cui si è provveduto ad iscrivere il titolo V della costituzione, peraltro inaugurandosi un infelice
stagione di riforme costituzionali approvate con maggioranze risicate in evidente contrasto con l'art 138 -
nella sua ratio già tradito dalla trasformazione del sistema elettorale.
Contemporaneamente lavori della commissione bicamerale prende avvio, in via parallela, insieme alla
legislazione ordinaria, un ampio ed importante processo di trasformazione in senso autonomistico
dell'ordinamento.
Il punto di partenza di tale processo sono le due ccdd. “leggi Bassanini” del 1997 la L. n°. 59, con cui il
parlamento delega il Governo ad emanare <uno o più decreti legislativi volti a conferire alle regioni e agli
enti locali funzioni e compiti amministrativi statali> , e la n°. 127, sullo snellimento dell'attività
amministrativa; l’una e l'altra reciprocamente complementari, e insieme destinate ad incidere in maniera più
che sensibile sui rapporti tra Stato centrale e autonomie territoriali, nonché sull'organizzazione e sull'attività
delle amministrazioni locali.
La prima legge emanata sul presupposto dell'approvazione nella proposta di legge costituzionale elaborata
dalla commissione bicamerale, segna una svolta decisa.
In direzione della valorizzazione del sistema delle autonomie, e realizza il massimo “federalismo possibile” a
costituzione invariata.
La riforma designata dalla legge 59\1997 si fonda su alcuni principi fondamentali, tra i quali assume
particolare rilevanza quello di sussidiarietà.
L'ultima tappa di notevole significato che ha preceduto la riforma costituzionale del 2001 è rappresentata dal
Testo unico degli Enti Locali, approvato con il 267/2000.
Per gran parte il duello in cui porrà la disciplina contenuta nella L. 142/1990 non senza alcune rilevanti
integrazioni, molte delle quali dovute anche alla indispensabile opera di coordinamento con le altre
preesistenti disposizioni legislative che pure sono assorbite nel nuovo corpo normativo.
In particolare vengono confermate le disposizioni della legge 142/1990, concernenti la definizione generale
dell'autonomia di comuni e province, nonché la titolarità delle funzioni così come si ribadisce la disciplina del
sistema regionale delle autonomie locali (art 4), fonda sulla centralità del metodo cooperativo fra le
istituzioni esponenziali di comunità concentriche, <al fine di consentire la collaborazione l' azione coordinata
fra regioni ed enti locali nell' ambito delle rispettive competenze>.
Anche con riguardo alla programmazione regionale locale (art 5) il meccanismo predisposto dalla L. 142
resta pressoché inalterato. La regione rimane il perno principale della procedura: e essa che indica <gli
obiettivi generali della programmazione economico sociale territoriale> e ripartisce le risorse (co. 1);
Non va trascurato che il TUEL, nonostante riservi alla legge regionale la definizione delle relative modalità,
impone la concorrenza di comuni province <alla determinazione degli obiettivi contenuti nei piani e
programmi dello Stato e delle Regioni> stabilendo che essi <provvedono per quanto di loro competenza, alla
loro specificazione ed attuazione> ( Art. 5 , co. 2 ); così come riconosce a Comuni e Province la capacità di
adottare <regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il
funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli
uffici è per l' esercizio delle funzioni> (art. 7). .

6. La distribuzione del potere legislativo e del potere amministrativo dopo la riforma


costituzionale del 2001
Occorre a questo punto, sia pur brevemente, riscrivere almeno le linee essenziali dell' assetto istituzionale
definito dalla riforma costituzionale contenuta nella legge costituzionale 3\2001, integrata poi a livello
primario dalla legge 5 giugno 2003, n 131 che si occupa di avviarne attuazione .
Sia pure a margine, non può preliminarmente evitarsi di notare che tale assetto secondo l'opinione più
largamente diffusa, viene definito federalistico: la qualificazione, però, non appare del tutto condivisibile per
le ragioni espresse in precedenza.
Bisogna solo ribadire che federare significa unire ciò che originariamente si presenta diviso secondo
l’opinione più largamente diffusa improprio l'uso del termine per rappresentare l'esigenza di dislocare il
potere in modo più equo e democratico sul territorio.
È invece da sottolinearsi in modo particolare il mutamento assai significativo racchiuso nell' incipit del titolo V
novellato, rappresentato dall' affermazione del riformato articolo 114: <La Repubblica è costituita dai
comuni, dalle province … >, come ad indicare il definitivo superamento di ogni residua perplessità circa la
composizione soggettiva della Repubblica, e la sua decisa ed inequivoca non identificabilità esclusiva con lo
stato-apparato .
6.1. La potestà legislativa
Nel provarsi a delineare, sistematicamente, gli attuali confini della potestà legislativa di Stato e regioni, non
si può non prendere le mosse dal chiarire come sia mutano, oggi, l'ambito della legislazione regionale, i tipi
della quale dovrebbero essere soltanto quelli della legislazione concorrente e della legislazione esclusiva, e
non quello della legislazione delegata.
Anche a questo scopo è opportuno svolgere una considerazione preliminare: in sede di esegesi del testo la
seconda parte della costituzione essere letta in un rapporto di strumentalità con la prima, quest'ultima
racchiudendo i valori ed i principi fondamentali, alla realizzazione dei quali, attraverso la disciplina della
struttura organizzativa della Repubblica, sono funzionalizzate le disposizioni della parte seconda.
La recente novella della carta, pertanto, non può considerarsi altrimenti che come una manifestazione del
bisogno largamente condiviso di aggiornare l'impianto strutturale dei pubblici poteri, al fine di renderlo
coerente con le profonde trasformazioni socio-economiche della realtà contemporanea, senza mancare di
corrispondere valori di democrazia, libertà, uguaglianza e giustizia consacrati, siccome inesauribile, nella
intangibile parte prima della costituzione.
Ciò posto, occorre capire come sia cambiato il ruolo costituzionale delle regioni, con riguardo la titolarità
delle funzioni legislativa. E da tutti condiviso che il significato più rilevante della riforma stia proprio nell'aver
invertito il principio che regola la titolarità della funzione legislativa, sebbene ciò non sia conseguito senza
lasciare dubbi ed incertezze.
Come è ben noto, nella precedente versione all'art 117 assegnava alle regioni competenza legislativa
soltanto in alcune materie espressamente elencate, quella generala essendo riconosciuta proprio allo Stato.
Nuovo art. 117 capovolge la logica distributiva del potere legislativo: oggi, infatti sono elencate le materie di
competenza esclusiva dello Stato ed anche quello in cui Stato e regioni hanno competenza "concorrente"
(co. 3); viene invece "lasciata" <alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato>.
.
a) in primo luogo per quanto attiene alla materia di legislazione esclusiva dello Stato, va detto che, stante la
mancata riproposizione dell' ultimo co. del precedente articolo 117 che contemplava la legislazione regionale
delegata, viene considerato non più possibile una delega alle regioni di potestà legislativa, concernente la
disciplina relativa ad una delle dette materie.
Questa tesi lascia perplessi ove si ponga mente alla possibilità, per lo Stato, di delegare invece la propria
potestà regolamentare, possibilità espressamente sancita dalla novella: spostandola si determina uno
scenario, non privo di contraddittorietà, secondo il quale lo Stato, in una data maniera, che sia parte della
propria competenza legislativa esclusiva, non può delegare questa, ma può delegare, bensì, quella
regolamentare.
Con la non insignificante conseguenza che la regione, poi, si troverebbe, in detta materia, da un lato , a non
poter disporre nella forma legislativa, ma, dall'altro a poterlo fare nella forma normativa amministrativa
(regolamentare ).
b) In secondo luogo, per quel che concerne le materie di legislazione concernente occorre capire se ed
entro quali limiti la legislazione regionale possa esprimersi in assenza delle leggi-quadro statali. Il problema è
risalente (perché venne sollevato con riferimento al vecchio articolo 117), e può considerarsi già risolto in
senso positivo con riferimento all'ammissibilità dell'esercizio legislativo regionale anche mancando la
deposizione legge statale.
La <Determinazione dei principi fondamentali >, per espresso dettato costituzionale, è si <riservata alla
legislazione dello Stato>, ma, ove questa manchi, le regioni possono comunque legiferare, non solo in base
all'argomento di ordine Storico-giuridico.
Lo possono fare soprattutto perché il nuovo articolo 117 pone ormai Stato e regione su un piano di parità,
formale e sostanziale, quanto alla titolarità del potere legislativo.
Insomma, sebbene nelle materie di legislazione concorrente, allo Stato sia riconosciuto il potere\dovere di
dettare i <principi fondamentali>, esso viene dotato in generale di una capacità di produzione del diritto
qualitativamente pari a quella delle regioni. Ciò rafforza l'ormai consolidato principio secondo cui l'eventuale
"latitanza nella emanazione della legge-cornice non può interdire la capacità di legislatori regionali, altrimenti
violandosi l'autonomia di azione politica delle regioni, oggi vieppiù consolidatasi in costituzione .
Del resto , considerato che il co. 1 dell' articolo 117 dispone che "la potestà legislativa è esercitata dallo
Stato e dalle regioni nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali ", Bisogna registrare che le regioni vengono così definitivamente equiparate
allo Stato, tanto nell'ordinamento europeo, quanto nel riconoscimento soggettività in ambito internazionale.
La linea interpretativa in parola è confermato dalla legge 131/2003, che dispone per favorire l’adeguamento
dell'ordinamento alla legge costituzionale 3\2001: essa si occupa di disciplinare la transazione stabilendo
che le <disposizioni normative statali vigenti […] nelle materie appartenenti alla legislazione regionale
continuano ad applicarsi [ … ] fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali> , così come le
<disposizioni normative regionali vigenti […] nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale
continua ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia> . Viene
confermato inoltre, che nelle legislazioni concorrenti i principi fondamentali, se non "espressamente
determinate dallo Stato" , sono "desumibili dalle leggi statali vigenti" .
Per l' individuazione dei regimi fondamentali, poi, legge la loggia stabilisce che "in sede di prima applicazione
il governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi veramente ricognitivi dei principi fondamentali
che si traggono dalle leggi vigenti".
A questo la legge 131 aggiunge che pure le disposizioni legislative vigenti non aventi carattere di principio
fondamentale dovranno essere, "per ambiti omogenei nelle materie di legislazione concorrente", raccolte dal
governo in testi unici meramente compilativi.
c) In terzo luogo, infine a proposito delle materie di legislazione residuale regionale, non è affatto chiaro se
la relativa previsione rende impossibile ogni intervento legislativo statale, ovvero se tutto è ipotizzabile che,
quantunque in ambiti circoscritti, lo Stato manifesti in qualche modo la necessità di soddisfare l'interesse
nazionale. l'espressione, infatti è stata eliminata nel nuovo testo; tuttavia, non può credersi che, con ciò, tale
interesse sia "svanito" sul piano sostanziale né può ritenersi che l'interesse nazionale possa essere fatto
valere da un soggetto diverso dallo Stato, sia pure in una veste di coordinatore che, al fine di comporre
interessi nazionali eventualmente confliggenti , promuova modalità cooperative e/o collaborative.
Naturalmente , all’uopo, sarebbe idonea a una qualunque forza organizzativa facente capo allo Stato .
Questo proposito è opportuno ricordare che, fra i criteri direttivi dettati dall'art. 1 co. 6 della legge 131 2003,
al fine di predisporre decreti legislativi ricognitivi dei principi fondamentali nelle materie di cui al co. 3 dell'art
117 Cost., figura la considerazione unitaria delle disposizioni statali rilevanti per garantire l' unità giuridica ed
economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali.
D'altro canto, stando ad una stretta interpretazione del testo novellato, non può escludersi che, per le
materie residuali, si ritenga ammissibile la stessa legislazione statale di principio di cui al co. 3,
proficuamente utilizzabile quale strumento di coordinamento delle diverse legislazioni regionali. Nulla
impone, infatti, che la legislazione dello Stato di cui parla il co. 4 (alla quale la materia non deve essere
espressamente riservata per poter costituire oggetto della legislazione regionale residuale) sia soltanto quella
esclusiva di cui al co. 2, e non anche quella contenente la determinazione dei principi fondamentali allo
Stato, expressis verbis, <riservata> dal co. 3.
Come a dire che anche siffatta determinazione ben potrebbe considerarsi Latu sensu, una materia
Espressamente riservata alla legislazione dello Stato, e dunque sottratta in ogni caso all'ambito di possibile
disciplina legislativa regionale.
Insomma, la determinazione in parola sarebbe, comunque, sempre riservata allo Stato , anche nelle materie
assegnate con oggetto di competenza legislativa " residuale " delle regioni . altro sarebbe stato ,
evidentemente, se il co. 4 avesse qualificato in modo esplicito siccome esclusiva la potestà legislativa
regionale nelle materie residuali: ciò il legislatore costituzionale ha espressamente sancito il riferimento alla
legislazione statale. È vero che questo argomento sarebbe facilmente ribaltabile: se avesse voluto riferirsi
alla legislazione concorrente, il legislatore costituzionale ben avrebbe potuto dichiararlo in modo espresso.
Ma può sottovalutarsi che, fra le due, è senz'altro legislazione concorrente a proporsi come tipologia
generale, quella esclusiva caratterizzandosi inequivocabilmente come tipologia speciale: ne consegue che, in
mancanza di una esplicita qualificazione, non si possa non preferire la opzione secondo cui quella del co. 4
debba intendersi come Legislazione concorrente.
È che tale interpretazione non sia del tutto peregrina trova conferma in un ulteriore argomento testuale. La
lista delle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato si presenta in una forma che sembra
suggerirne la tassatività (ognuna delle materie essendo contrassegnata da una lettera che di volta in volta
introduce in capoverso); diversamente la modalità di elencazione delle materie di legislazione concorrente
(co.3) pare proprio evocare la sua indicatività (le materie non sono contrassegnati da lettere e sono
esplicitate luna di seguito all' altra).
Pertanto, il senso fatto palese dalle disposizioni in esame parrebbe essere il seguente: nel co. 2 si allenano le
materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato; il co. 3 si indicano le più evidenti e rilevanti materie
di competenza legislativa regionale concorrente; il co. 4 contiene la clausola di chiusura del sistema con la
quale si chiarisce che qualsiasi materia non compresa fra quelle del co. 2 sebbene risultasse non menzionata
nel co. 3 (anche perché eventualmente , per così dire , “nuova”), non può che essere ascritta fra quella
competenza legislativa regionale concorrente.
In definitiva, disposizione del co. 4 dovrebbe segnalare semplicemente l' ambito (residale), ma non
qualificare anche il tipo (esclusiva) della legislazione regionale.
Sennonchè , si deve registrare diverso avviso della corte costituzionale.
Anzitutto in via generale, secondo il giudice delle leggi, la titolarità della potestà legislativa residuale in capo
alle regioni non può, in buona sostanza, ritenersi sussistente per il solo fatto che non vi sia espressa
menzione della relativa materia nella elencazione di cui all' art. 117, co. 3 (occorre che le regioni dimostrino
in giudizio uno specifico titolo di competenza).
Nel merito, poi, va detto che la corte, sin dal primo momento, ha qualificato la potestà legislativa delle
regioni nelle materie di competenza regionale residuale, almeno in linea di principio, come esclusiva. Essa,
però, tutte le volte che è stata chiamata ad esprimersi in modo specifico sulle diverse materie di, per così
dire, "dubbia" collocazione , pur non accedendo in toto alla impostazione qui suggerita, riconosce allo stato
uno spazio legislativo tendenzialmente di non irrilevante portata. Ad un tale risultato la consulta perviene
adoperando due differenti percorsi argomentativi.
In primo luogo, la corte individua nella "trasversalità" di alcune materie contemplate negli elenchi dei commi
2 e 3 la causa della non riconoscibilità della potestà regionale piena: essa, cioè, in alcune materie considera,
appunto "trasversale " ritiene sussiste uno spazio più o meno ampi di intervento legislativo.
Tra le materie trasversali richiede una particolare attenzione quella di quell' articolo 117 avente ad oggetto i
"livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale": al riguardo il giudice delle leggi ha chiarito che la necessità di fissarli può giustificare
l'intervento statale pur in settori riservati alla competenza, sia legislativa che amministrativa, delle regioni,
giacché "la conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alla competenza
legislativa ed amministrative delle regioni e delle province autonome impone evidentemente che queste
scelte, almeno nelle loro linee generali siano operate dal passato con legge.
In secondo luogo, la consulta giunge ad un risultato, proprio identico ma certamente analogo, per la via
della cosiddetta attrazione in sussidiarietà sulla quale torneremo .
Andando ad analizzare in maniera più specifica lo spazio riconosciuto allo stato nelle materie di cui all'art 4,
si scopre che decidendo sulla rivendicazione, da parte delle regioni ricorrenti, e la piena competenza nelle
materie di legislazione residuale, la corte diversifica le risposte in ragione delle varie materie oggetto di
controversia.
Prima degli altri vanno segnalati casi in cui la corte, non accogliendo le censure delle regioni ricorrenti,
afferma che la materia rientra, non nel co. 4 ma nel co. 2 dell' art. 117.
In altri casi la corte, pur riconoscendo la materia come rientrante tra quelle di cui al co. 4, la ripartisce
quanto all'oggetto. Talvolta opera siffatta ripartizione individuando l'ambito materiale di potestà legislativa
esclusiva statale è quello di potestà legislativa esclusiva regionale .
Tal altra, invece il giudice delle leggi riconduce l'ambito legislativo residuale per una parte, alla potestà
concorrente, per un' altra, ad una potestà, per così dire "ripartita" fra esclusiva statale ed esclusiva
regionale, così di fatto finendo per "costruire" in alcune circostanze, una sorta di tertium genus nei tipi di
potestà legislativa: né esclusiva, né concorrente, ma, appunto, "ripartita" volendo con il termine intendere
che, nel seno della materia, vengono individuati ambiti di potestà legislativa esclusiva statale ed ambiti di
potestà legislativa esclusiva regionale (e non che lo Stato aspetti la determinazione dei principi fondamentali
e alle regioni il dettaglio, come nelle legislazioni concorrenti).
Alla luce della giurisprudenza costituzionale sinteticamente richiamata possiamo concludere che la
impostazione che abbiamo suggerito, seppur non pienamente accolta non sembra dalla corte del tutto
smentita. Essa, in vero, appare ragionevole perché coerente con lo spirito della carta consacrato dall'articolo
5 cost.: in via generale ed in linea di principio, la potestà legislativa, tranne che per alcuni ambiti ritenuti
luogo privilegiato della legislazione esclusiva dello Stato, spetta alle regioni, salvo riconoscersi alla
legislazione nazionale il compito di determinare i principi che consentano, se non necessariamente
L'armoniosa convivenza, almeno una efficace compatibilità dei contrapposti interessi delle singole regioni, in
nome di quella non discutibile, perché costituzionalmente presupposta, unità ed indivisibilità della
Repubblica.
Né appare sostenibile che una siffatta lettura esiti in un modello sostanzialmente inalterato rispetto al
precedente punto. Chi avanza critiche di questo genere non sembra poter evitare di meritare un giudizio
quantomeno di superficialità: basti pensare soltanto al nuovo disposto dell'art. 127 cost., per capire che la
determinazione dei principi fondamentali ad opera della legislazione statale non può più risolversi in
arbitrarie "Invasioni" del terreno proprio dell'autonomia legislativa regionale, le regioni essendo in grado di
rivolgersi alla corte costituzionale per tutelare la propria sfera di azione costituzionalmente garantita.
A ben riflettere, del resto, ove si esclude la possibilità delle legislazione statale di principio, la definizione
dell'interesse nazionale, di volta in volta effettivamente mai del tutto mancante, verrebbe di fatto consegnata
alla meno garantistica e democratica decisione del governo, che porrebbe le regioni in balia degli umori al
momento prevalenti in questa sede, con buona pace dei fautori del c.d. “regionalismo forte”, i quali sovente
nel sostenere tesi improvvidamente radicali, si mostrano in difetto della opportuna lungimiranza politica
istituzionale.

6.2 La potestà amministrativa


Si può a questo punto passare all'esame della potestà amministrativa per come essa risulta disciplinata
all'esito della riforma costituzionale .
Va, a questo proposito, preliminarmente ricordato che la potestà amministrativa è strutturale all'esercizio ,
tanto della funzione normativa, quanto della funzione amministrativa in senso stretto, delle PP.AA.
Orbene, con il nuovo testo del titolo V è stata in qualche modo interiorizzata la diversità fra funzioni
normative e funzioni amministrative in senso stretto sebbene entrambe siano attribuite comunque a PP.AA.

6.2.1 a) la potestà normativa secondaria


La perdurante tendenziale determinatezza che contrassegna la disciplina del potere legislativo è sufficiente
per intendere come la incertezza della distribuzione di questo si rifletta sulla distribuzione della potestà
normativa espressa nella forma giuridica dell'atto amministrativo, risultando conseguente incerto l'ambito di
competenza assegnata ciascun ente territoriale relativamente a tale potestà ..
A questo proposito l' articolo 117 , co. 6, sancisce che la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle
materie di legislazione esclusiva statale; spetta alle regioni "in ogni altra materia", e quindi sia nelle materie
di legislazione concorrente sia in quelle di legislazione residuale regionale. In tutte tali materie, la carta per
quanto attiene alla disciplina dell'organizzazione dello e svolgimento delle funzioni loro attribuite, ritaglia uno
spazio di potestà regolamentare alla competenza di comuni, province e città metropolitane.
Del resto , Il co. 4 dell' art 4 L. 131/2003 , chiarisce ancora meglio che "la disciplina dell'organizzazione,
dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei comuni, delle province e delle città metropolitane è
riservata alla potestà regolamentare dell' ente locale", sia pur specificando che ciò deve essere "nell' ambito
della legislazione dello Stato o della regione, che ne assicuri i requisiti minimi di uniformità secondo le
rispettive competenze.
Sennonché, essendo la potestà regolamentare degli enti locali circoscritta alle funzioni loro attribuite, la
distinzione delle distribuzione della potestà normativa amministrativa rimanda, gioco forza, l'analisi del nuovo
articolo 118. Ed anche la formulazione di questa disposizione suscita più di un dubbio.

6.2.2. b) la potestà amministrativa in senso stretto


Il testo costituzionale novellato, nel suo complesso, sembra scontare un uso improprio dei termini “funzione”
e “materia”, che invece non contraddistingueva il precedente disposto degli artt. 117 e 118. Il primo dei due
viene senza dubbio utilizzato anfibologicamente, tanto nell’artt. 117, co 2, lett. P, e co. 6, quanto nell’art.
118, co 1 e 2
E infatti, nelle disposizioni di quest’ultimo articolo il termine funzione si può intendere sia nel significato
tecnico di “svolgimento del potere amministrativo”, volendosi con esso indicare il corrispondente di “potestà”
adoperato per la funzione legislativa all’art 117; sia nel significato a-tecnico è “compito”, oppure “materia di
competenza” volendosi con esso segnare, a dir cos, i campi dell’azione amministrativa degli enti locali.
Tanto il primo quanto il secondo comma dell' articolo 118 , invero si parla delle funzioni/amministrative al
plurale così di fatto finendo per confondere il significato tecnico del termine “funzione” con quello di “materie
di competenza”, poiché a queste che si fa riferimento. E si sancisce, al co. 1 , che dette funzione <sono
attribuite ai comuni>, il verbo adoperato presentando una certa ambiguità, soprattutto se si considera che al
co. 2 gli enti in parola vengono riconosciuti <titolari di funzioni proprie e di quelle conferite con legge statale
o regionale, secondo le rispettive competenze > per non dire poi della previsione del co. 2 dell' art. 117,
Secondo cui costituiscono materie di legislazione esclusiva dello Stato le <funzioni fondamentali di comuni ,
province e città metropolitane >.
L’incertezza testuale e tale da poter legittimante consentire più d'una interpretazione. E, fra le altre, non
appare peregrina quella secondo cui le disposizioni costituzionali in esame rappresentino il fondamento di
diritto positivo per sostenere la estrapolazione della funzione normativa e della funzione amministrativa.
È infatti difficilmente discutibile che, mentre la potestà regolamentare spetta in via generale allo Stato ed alle
Regioni, messo in ambiti coscritti comuni per converso , le funzioni amministrative vengono, altrettanto in
via generale , assegnate alla competenza dei comuni, salvo che, per assicurarne l' esercizio unitario, siamo
conferire a province e città metropolitane , Regioni e Stato , sulla base dei principi di sussidiarietà
differenziazione ed adeguatezza "Il senso fatto palese dalla disposizione del co. 1 dell' articolo 118 pare
inequivocabile essere quello di riconoscere al comune il ruolo di primo attore nell' esercizio della funzione
amministrativa, nelle relative materie di competenza; solo in via sussidiaria, al fine di " assicurarne l'esercizio
unitario", norma riconosce, invece, il potere di Province, Città metropolitane , Regioni e Stato ; potere,
peraltro <conferito> , il che dovrebbe far pensare ad un necessario previo intervento legislativo .

6.2.3 Principio di sussidiarietà


Prescindendo, quindi, per il momento dalla definizione degli ambiti materiali di competenza, il nuovo disegno
costituzionale si ispira, quanto il metodo d'azione al principio di sussidiarietà, l' applicazione del quale
consente gli interventi sostitutivi per garantire "l' esercizio unitario" delle funzioni. Ciò dovrebbe significare
che il detto esercizio unitario possa e debba riconoscere solo quando lo richiedono la tutela dell' unità
giuridica o dell' unità economica in particolare la tutela dei livelli essenziali delle presentazioni concernenti i
diritti civili e sociali.
Allo scopo di delineare confini dei possibili interventi sostitutivi – interventi i quali rappresentano la principale
forma di manifestazione della sussidiarietà (sebbene, con riguardo a quelli del governo, nell’ultima frase
dell’art. 120 si precisi – assegnandosi alla legge il compito di “garantire” che ciò accada - <che i poteri
sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione>
devono scorrere i complementari principi di "differenziazione" e di adeguatezza ", Che indica la strada per
determinare, appunto, gli standard minimi, o, più precisamente, i “livelli essenziali”.
Per differenziazione deve intendersi il rispetto della “diversità” connotate il patrimonio antropologico-
culturale di ciascuna comunità, infranazionale o infraregionale che sia.
L’adeguatezza, invece, va intesa come l’astratta idoneità del soggetto istituzionale a volgere il compito per il
quale è chiamato.

Sentenza 303/2003 (Mezzanotte) Chiave di lettura della sentenza


Bisogna tener riferimento ad alcuni articoli fondamentali 117 e 118
L’art 117 la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città
metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite.
Il nuovo art. 117, detta in modo tassativo le materie di competenza legislativa Statale, ed assegna la capacità legislativa generale alle
Regioni. A mutare in maniera significativa non è la quantità delle materie assegnate alla competenza di stato e regioni, che viene solo
lievemente variata in favore delle seconde ma, il titolo in base al quale i due soggetti in parola dispongono della potestà legislativa; oggi
questa spetta a titolo generale alle regioni, e non più allo stato.
Del resto il co.1 recita “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle Regioni nel rispetto della cost., nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Nel co. 2 sono elencate le materie di potestà esclusiva dello stato. Nel co. 3 sono elencate le materie di potestà legislativa Regionale,
con riferimento alle quali, però, “la determinazione dei principi fondamentali” è comunque “riservata alla legislazione dello Stato”. Nel
co. 4 il quale detta la clausola di chiusura del sistema, chiarendo che qualsiasi materia non compresa fra quelle del co. 2 e non
menzionata nel co. 3 va comunque ricondotta nel novero di quella di competenza Regionale ciò implicando la sussistenza della
legislazione statale di principio.

Art 118 Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario,
siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza.
Questo articolo dice che in primo luogo sono attribuite ai comuni le funzioni amministrative salvo che per
assicurare l’esercizio unitario vengono conferite sulla base dei principi di sussidiarietà differenzazione ed
adeguatezza.

La sussidiarietà può essere definita come quel principio regolatore per cui se un ente inferiore è capace di
svolgere bene un compito, l'ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l'azione
Il principio di adeguatezza, nel campo del diritto amministrativo, stabilisce che l'entità organizzativa che è
potenzialmente titolare di una potestà amministrativa, deve avere un'organizzazione adatta a garantire
l'effettivo esercizio di tali potestà; l'adeguatezza va considerata sia rispetto al singolo ente, sia rispetto
all'ente associato con altri enti, per l'esercizio delle funzioni amministrative.
Dal combinato di questo principio con il principio di sussidiarietà, si ricava che se l'ente territoriale a cui è
affidata una funzione amministrativa, che per il principio della sussidiarietà dovrebbe essere quello più vicino
al cittadino amministrato, non ha la struttura organizzativa per rendere il servizio, questa funzione deve
essere attribuita all'entità amministrativa territoriale superiore.
ll principio di differenziazione, nel campo del diritto amministrativo, stabilisce nell'attribuzione di una
funzione amministrativa ai diversi livelli di enti di governo (comuni- provincie - città metropolitane - regioni-
stato) che si debbano considerare le caratteristiche relative alle rispettive capacità di governo degli enti
amministrativi riceventi; queste sono caratteristiche demografiche, territoriali, associative, strutturali che
possono variare anche in misura notevole nella realtà del paese

Il primo problema faceva riferimento al fatto che lo stato può attrarre in sussidiarietà la funzione
amministrativa ciò gli è riconosciuto dall’art. 118 mentre no gli è riconosciuta di attrarre a sé anche la
funzione legislativa.
Lo stato quando attraeva in sussidiarietà la funzione amministrativa non aveva possibilità di disciplinare le
materie in cui la Regione ha competenza concorrente (quindi lo stato non può fare tutto da solo a meno che
non vi è l’attrazione in sussidiarietà) oppure di materie che sono di competenza degli enti locali art 117, co 6,
dove questi hanno le potestà regolamentare per lo svolgimento e l’organizzazione delle funzioni proprie loro
attribuite. Quindi in queste materie lo Stato non ha la potestà esclusiva per risolvere il problema.
Es. Se il Comune di Napoli ha il problema dell’immondizia e questo problema, viene attratto grazie al
principio di sussidiarietà dal Comune alla Provincia dalla Provincia alla Regione e dalla Regione allo Stato
quest’ultimo interviene con l’esercito ma comunque deve fare dei regolamenti per emanare delle leggi e
quindi lo Stato non avendo la funzione legislativa rimaneva bloccato questa identica cosa si rappresentava
per le materie di concorrenza con la Regione. Per evitare il bloccaggio dello Stato e la sentenza del 303/2003
ha previsto che nel momento in cui, lo Stato nel disciplinare le materie concorrenti con la Regione oppure
quelle materie in cui gli enti locali hanno potestà regolamentare, attraeva la funzione amministrativa e anche
la funzione legislativa o regolamentare (legislativa se deve regolare materie della Regione o regolamentare
se deve disciplinare materie degli Enti Locali)
Tutto ciò è possibile purché vi siano 3 principi:
- Un intesa forte con le regione in base al principio di leale collaborazione;
- un intervento a tempo determinato dello stato;
- un intervento proporzionale e ragionevole da parte dello stato;
una volta appurati questi 3 elementi lo Stato attrae oltre la funzione amministrativa anche la funzione
legislativa risolvendo la situazione che magari i comuni o le province non riuscivano a risolvere.
Attenzione! si parla di attrazione e non di avocazione perché sono enti che sono sullo stesso piano mentre
avocazione viene fatta da enti gerarchicamente superiori, e come ben sappiamo dalla riforma del titolo V
sono rimessi sullo stesso piano si utilizza il termine attrazione
Il secondo problema è quello che fa riferimento alla fonte giuridica adatta a disciplinare le funzioni “ascese”
al livello di governo più alto. La consulta ha dichiarato <che i regolamenti governativi adottati in
delegificazione fosse inibito disciplinare materie di competenza regionale>, così come essa stessa aveva già
affermato alla riforma del titolo V.
<La ragione giustificativa di tale orientamento si è se possibile, rafforzata con il nuovo art. 117, 6 co.;
secondo il quale la potestà regolamentare è dello stato, salva delega alle regioni, nelle materie di legislazione
esclusiva, mentre in ogni altra materia è delle Regioni. In un riparto così rigidamente strutturato, alla fonte
secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o
di incidere su disposizioni regionali preesistenti; e neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza possono
conferire ai regolamenti statali una tipicità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli
ordinamenti regionali a livello primario>.
Inoltre la corte dichiara che <Non può quindi essere loro riconosciuta l'attitudine a vanificare la collocazione
sistematica delle fonti conferendo primarietà ad atti che possiedono lo statuto giuridico di fonti secondarie e
a degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti statali o comunque acquisti condizionate.
Si è quindi, come già chiarito, alla legge statale è consentita l'organizzazione e la disciplina delle funzioni
amministrative assunte in sussidiarietà, va precisato che la legge stessa non può spogliarsi della funzione
regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminando i principi che orientino l'esercizio della
potestà regolamentare, circoscrivendone la discrezionalità>.
Sul punto , di recente , Il giudice delle leggi sembrerebbe aver mutato il proprio originario orientamento, a
dir così “abilitando” pure i regolamenti di delegificazione a disciplinare le funzioni "attratte in sussidiarietà"
allo Stato, purché questi vengano emanati conformemente alla procedura di <leale con la collaborazione con
le regioni>, costituita <dall' intesa con la conferenza Stato – regioni>.
In definitiva, possiamo concludere che, secondo la consulta , sembrerebbe essere "indifferente” la natura
della fonte utilizzata dallo Stato per disciplinare la funzione astratta.

6.2.4. Definizione del contenuto e degli effetti del principio di sussidiarietà da parte della Corte
costituzionale: il fenomeno della c.d. “attrazione in sussidiarietà”
Ai fini di una più precisa definizione del contenuto nonché della capacità di influenza, del principio di
sussidiarietà e di grande rilievo la sentenza 303/2003 della corte costituzionale.
La corte - nel rilevare anzitutto che "anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a
rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni
diverse, rischierebbe di vanificare, per l' ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione
presenti negli più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principi giuridici, trovano sostegno nella
proclamazione di unità indivisibilità della repubblica - ha affermato che <un elemento di flessibilità ed
indubbiamente contenuto nell' articolo 118, 1 co., cost.>, e segnatamente del principio di sussidiarietà .
In coerenza con la propria matrice teorica e con il significato pratico che le è proprio, la sussidiarietà agisce
<come Subsidium quando un livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intende raggiungere; ma se
ne è comprovata un'attitudine ascensionale deve allora concludersi che, quando l'istanza di esercizio
unitario trascende anche l'ambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato>.
Per assicurarne l'esercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza .
La consulta individua con precisione l0offetto del principio di sussidiarietà, sostenendo che esso <si riferisce
esplicitamente alle funzioni amministrative>. Tuttavia, la capacità di influenza esplicitamente alle funzioni
amministrative>. Tuttavia, la capacità di influenza del principio e ben più ampia, in quanto esso <introduce
per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida la stessa distribuzione delle
competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni
possano essere allocate a livello di governo diverso per assicurarne l’esercizio unitari, sulla base dei principi
di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Invero il fatto che il principio di sussidiarietà grazie alla sua natura di strumento di sussidio di tipo
"ascensionale ", riesca a spostare, <quando l' istanza di esercizio unitario trascende anche l' ambito
regionale> , la funzione amministrativa dalla regione allo Stato, "Non può restare senza conseguenze
sull'esercizio della funzione legislativa. Ad avviso della corte, infatti , "il principio di legalità , il quale impone
che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate Regolare alla legge , conduce logicamente
discutere delle regioni , con discipline differenziate , possono organizzare e regolare funzioni amministrative
attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere ad un compito siffatto.
In conclusione stabilito che, nelle materie di competenza statale esclusiva o concorrente, in virtù dell' articolo
118, 1 co., la legge può attribuire allo stato funzioni amministrative, deve essere riconosciuto che in
ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarlo e regolarle , al fine di
rendere l' esercizio permanentemente affrontabile a un parametro legale ".
Una volta fermato siffatto principio, la consulta <resta da chiarire che i principi di sussidiarietà e di
adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel titolo V e possono
giustificarne una deroga solo se la valutazione dell' interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni
regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno
scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la regione interessata>.
La corte – ricostruendo l’evoluzione del principio di sussidiarietà - ricorda che esso era stato per la prima
volta enunciato nella legge 15 marzo 1997 Come criterio ispiratore della distribuzione legale delle funzioni
amministrative fra lo Stato e gli enti territoriali ' : in quel caso esso era " operante nella sua dimensione
meramente statica , Come fondamento di un ordine prestabilito di competenze ". A seguito della sua
incorporazione nel testo della costituzione , avvisto mutare il proprio significato . Accanto alla primitiva
dimensione statica , che si fa evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni
amministrative ai comuni , è derisa , infatti , attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà , Che consente
ad essa di operare non più come razzi o ispiratrice a fondamento di un ordine di attribuzioni stabile e
predeterminate , ma come fattore di flessibilità di quell' ordine in vista del soddisfacimento di esigenze
unitarie . Ecco dunque <dove si fonda una concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e
della adeguatezza>, che <non possono operare quali mere formule verbali capaci con la loro sola
evocazione di modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito, perché ciò
equivarrebbe a negare la stessa rigidità della costituzione>.
Al tempo stesso i principi in parola "non possono assumere la funzione che aveva un tempo l'interesse
nazionale, la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l'esercizio da parte dello Stato una
funzione di cui non sia titolare in base all' articolo 117 costituzione. Nel nuovo titolo V l'equazione
elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva
l'erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle regioni, è divenuta priva di
ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più di un limite, né di legittimità, nè di
merito, alla competenza legislativa regionale ".
Per cui – conclude la corte- tutto <Ciò impone di annettere principi di sussidiarietà adeguatezza una valenza
squisitamente procedimentale , poiché l' esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre , insieme alla
funzione amministrativa , anche quella legislativa , può aspirare a superare il vaglio di legittimità
costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le
attività conservative e di coordinamento orizzontale , Che devono essere condotte in base al principio di
lealtà>Nella sent.303/2003, la corte ha “affrontato” anche la questione della fonte giuridica adatta a
disciplinare le funzioni “ascese” al livello di governo più alto. La consulta ha dichiarato <che i regolamenti
governativi adottati in delegificazione fosse inibito disciplinare materie di competenza regionale>, così come
essa stessa aveva già affermato alla riforma del titolo V.
<La ragione giustificativa di tale orientamento si è se possibile, rafforzata con il nuovo art. 117, 6 co.;
secondo il quale la potestà regolamentare è dello stato, salva delega alle regioni, nelle materie di legislazione
esclusiva, mentre in ogni altra materia è delle Regioni. In un riparto così rigidamente strutturato, alla fonte
secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o
di incidere su disposizioni regionali preesistenti; e neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza possono
conferire ai regolamenti statali una tipicità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli
ordinamenti regionali a livello primario>.
Inoltre la corte dichiara che <Non può quindi essere loro riconosciuta l'attitudine a vanificare la collocazione
sistematica delle fonti conferendo primarietà ad atti che possiedono lo statuto giuridico di fonti secondarie e
a degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti statali o comunque acquisti condizionate.
Si è quindi, come già chiarito, alla legge statale è consentita l'organizzazione e la disciplina delle funzioni
amministrative assunte in sussidiarietà, va precisato che la legge stessa non può spogliarsi della funzione
regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminando i principi che orientino l'esercizio della
potestà regolamentare, circoscrivendone la discrezionalità>.
Sul punto , di recente , Il giudice delle leggi sembrerebbe aver mutato il proprio originario orientamento, a
dir così “abilitando” pure i regolamenti di delegificazione a disciplinare le funzioni "attratte in sussidiarietà"
allo Stato, purché questi vengano emanati conformemente alla procedura di <leale con la collaborazione con
le regioni>, costituita <dall' intesa con la conferenza Stato – regioni>.
In definitiva, possiamo concludere che, secondo la consulta , sembrerebbe essere "indifferente” la natura
della fonte utilizzata dallo Stato per disciplinare la funzione astratta.

6.2.5. La definizione delle materie di competenza degli enti locali


Dopo la parentesi è per riprendere il filo del discorso principale bisogna risolvere la questione della
definizione delle materie di competenza degli enti locali, rispondere alla quale significa consentire, ad un
tempo, di completare la descrizione della potestà amministrative in senso stretto, per un verso, e di
delimitare l' ambito di applicazione della potestà regolamentare degli enti locali, per altro. A comuni, province
e Città metropolitane, infatti la carta riconosce come di propria spettanza della "potestà regolamentare in
ordine alla disciplina dell' organizzazione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite " .
Occorre allora riprendere, preliminarmente, il problema delle relazione fra potestà amministrativa e potestà
regolamentare, al fine di chiarire se detta relazione si connoti, nella novella costituzionale, come di
distinzione, di inclusione, ovvero semplicemente di reciproca influenza.
Come abbiamo chiarito stando alla semplice affermazione letterale della disposizione dell' articolo 117 , co .
6 , e dell' articolo 118 , co. 1 , viene di concludere che delle due l' una: o la funzione normativa non è
considerata incluso nella funzione amministrativa; oppure, se ne è parte, il legislatore costituzionale ha
comunque ritenuto scindere la stessa funzione (amministrativa) quanto alla imputazione soggettiva,
affidandone parte all'insieme degli enti esponenziali delle diverse comunità territoriale e parte o , se si
preferisce in prima battuta soltanto ai comuni (le funzioni amministrative ) .
La seconda opzione sembra doversi preferire. Sposandola, però, non in senso stretto (e cioè , come
esplicazione , non di qualsiasi potere amministrativo, bensì esclusivamente del potere provvedimentale :
Quello , che si esplica mediante attività autoritativa discrezionale), ma come comprensiva anche della
funzione normativa - , il testo si rivela se non proprio contraddittorio, quanto meno di incerte difficile
interpretazione, proprio in ragione della poco chiara, se non ambigua, "imputazione soggettiva" per il co. 1
dell' articolo 118 Costituzione, infatti, la potestà amministrativa dovrebbe essere tutta, per intero, di
spettanza dei comuni, è "concepibile" agli altri pubblici poteri solamente ove sussista una dimostrata
esigenza di "assicurarne l' esercizio unitario”.
Sicchè, ove la potestà regolamentare fosse considerata annoverata fra le <funzioni amministrative>,
anch’essa dovrebbe spettare prioritariamente ai comuni, e assorbibile ai livelli di governo più ampi solo per
effetto dell’applicazione > dei principi di sussidiarietà, differenzazione ed adeguatezza>.
Viceversa, il co. 6 dell’art 117 disciplina la potestà in parola dislocandola ai vari livelli di governo.
D'altronde , l' articolo 4 l. 131/2003, nel ripetere per gran parte contenuti della novella costituzionale ,
specifica però in modo più puntuale che "è riservata alla potestà regolamentare dell' ente locale" la
"disciplina dell' organizzazione, dello svolgimento e della gestione” delle sue funzioni .
Una volta chiarito il rapporto fra potestà amministrative potestà normativa degli enti locali, si può affrontare
il problema delle definizioni delle loro funzioni.
Questo, può risolversi in almeno due diverse maniere, ed invero , quelle attribuite agli enti locali , di cui parla
il ricco punto 6 dell' articolo 117 , possono:
a) O reputarsi coincidenti soltanto con quelli cui fa riferimento il primo comma dell' articolo 118 ma ciò
appare in contrasto con la interpretazione più convincente, secondo cui tale disposizione avrebbe il
significato di un' affermazione di principio, poi specificata nel secondo comma;
b) Ovvero ritenersi consistenti in tutte quelle facenti capo ai comuni, e dunque tutte quelle di cui al secondo
comma dell' articolo 118: e cioè quelle proprie (che dovrebbero, se non identificarsi con, almeno incutere per
intero quelle fondamentali definite in via esclusiva dalla legge dello Stato) e quelle conferite dalle leggi
Statali e Regionali.
In ogni caso, se si sceglie di seguire la tesi secondo cui le funzioni amministrative sono tutte attribuite ai
comuni della costituzione [per essere poi distinte in : a) Proprie, fondamentali e non, da un canto ; b)
conferite <con legge regionale> ai soggetti esponenziali dei livelli di governo di raggio geografico più ampio
< Stato , Regioni, Province e Città metropolitane ) ove sia necessario > assicurarne l' esercizio unitario], non
si può concludere altrimenti per attribuire agli enti locali, si debbano intendere tutte le (funzioni
amministrative relative alle) materie tanto proprie quanto conferite.
Riflessi sul testo unico Enti locali. Ora, tutti i profili problematici appena illustrati non possono non riflettersi
su la interpretazione del TUEL, ed in particolare, per quanto qui interessa, quella degli artt. 3, 4, 6 e 7.
Segnatamente, la riforma costituzionale influisce sulla disciplina, nel TUEL, almeno delle seguenti questioni:
a) la fissazione dei limiti della potestà normativa (statutaria e regolamentare); b) la circoscrizione dell’ambito
funzionale di competenza degli enti locali; c)la definizione di sussidiarietà .
In particolare , la fissazione dei limiti alla potestà normativa disposta dal TUEL (art 3, co. 4) – per gli statuti
nell’ <ambito dei principi fissati dal presente testo unico> (art 6 co 2), per i regolamenti nei <principi fissati
dalla legge e dallo statuto> e nelle <materie di propria competenza > (art. 7) - sembra doversi ritenere
superata, gli enti locali ben potendosi considerare, almeno in linea teorica, liberi di regolare le materie di
propria competenza amministrativa con il loro limite della disciplina costituzionale (art. 114 , co. 2 , art. 117 ,
co. 6).
Alla stessa stregua deve ritenersi superata la circoscrizione dell'ambito delle materie di competenza degli enti
locali operata dal TUEL la quale pare riempirsi di nuovi e assai più ampi contenuti possibili.
Invero, risulta definitivamente ampliato, quantomeno in linea teorica generale, il novero delle materie di
competenza amministrativa del Comune: l'insieme di queste, anzi, nasce potenzialmente illimitato, e
suscettibile di estinzione soltanto a seguito di motivate esigenze di unitarietà .
Soltanto tali motivazioni di esigenze di unitarietà, quindi, possono legittimare interventi "sostitutivi" in
applicazione del regime di sussidiarietà.
Ed anche per quanto attiene alla definizione della sussidiarietà, il duello, nella laconica(ciò che scritto o
espresso molto concisamente) mera dichiarazione dell'esistenza del principio mostra tutta la necessità di
riempire di contenuto la nozione, quantunque solo in parte proprio dall' co. 1 del nuovo articolo 118.
Contributo ricostruttivo offerto dalla legge la loggia e dalla legge di delega del governo in materia di
federalismo fiscale relativi decreti delegati . - Un contributo di chiarificazione relativamente alla definizione
delle materie di competenza amministrativa dei comuni e degli altri enti locali, nonché del principio di
sussidiarietà , è offerto dalla legge 131/2003, che delega il governo "ad adottare uno o più decreti legislativi
diretti alla individuazione delle funzioni fondamentali, ai sensi dell' articolo 117 della costituzione" ,
Qualificando per tali quelle "essenziali per il funzionamento di comuni , province e città metropolitane
nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento".
La disposizione indiscutibilmente contribuisce risolvere i dubbi Sulla identificazione delle funzioni
fondamentali: e se corrispondono a quelle essenziali. Per la loro puntuale individuazione , stando al
principio/criterio direttivo dettato della lettera b del co. 4 Occorre prevedere per ciascun livello di governo, la
titolarità di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali imprescindibili
per il funzionamento dell' ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento,
tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte. (se non avete
capito andate a pag 28 amm. 1)
Per quanto, poi, specificamente attiene al principio di sussidiarietà , la legge la loggia stabilisce che esso
debba essere valorizzato "nell' allocazione delle funzioni fondamentali in modo da assicurarne l'esercizio da
parte del livello di ente locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisce l' ottimale
gestione anche mediante l'indicazione dei criteri per la gestione associata dei comuni".
La legge 131\2003 poco più avanti stabilisce che 'lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze ,
provvedono a conferire le funzioni amministrative da loro esercitate alla data di entrata in vigore della
presente legge, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza , attribuendo a
Province, Città metropolitane , Regioni e Stato soltanto quelle di cui occorre assicurarne l'unitarietà di
esercizio, per motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell'azione amministrativa, nel rispetto, anche
ai fini dell'assegnazione di ulteriori funzioni, delle attribuzioni degli enti di autonomia funzionale. Tutte le
altre funzioni amministrative non diversamente attribuite spettano ai comuni che le esercitano in forma
singola o associata, anche mediante le comunità montane e le unioni dei comuni. più di recente la legge 5
maggio 2009, n. 42, di delega al governo in materia di federalismo fiscale stabilisce, sia pure in via
provvisoria un primo elenco di funzioni fondamentali degli enti locali.
Invero, tali funzioni, però, che sono soltanto "provvisoriamente individuate" ai fini dell'attuazione della legge,
sono connesse alla sola "determinazione della entità e del riparto dei fondi perequativi degli enti locali" ,
nonché al finanziamento integrale delle loro funzioni sulla base del fabbisogno standard: non a caso l'elenco
è posto tra le norme transitorie per gli enti locali"
Nel procedere alla "individuazione delle funzioni fondamentali", il governo dovrà provvedere, alla revisione
delle disposizioni in materia di enti locali", attenendosi ad uno dei numerosi principi e criteri direttivi elencati
tale revisione effettuata "limitatamente alle norme che contrastano con il sistema costituzionale degli enti
locali definito dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, numero tre attraverso la modificazione dell'
integrazione la soppressione coordinamento formale delle disposizioni vigenti.
Per i comuni le funzioni, e relativi servizi sono i seguenti: a) funzioni generali di amministrazione, di controllo
e di gestione; b) funzioni di polizia locale; c) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asilo
nido e quelli di assistenza scolastica refezione, nonchè l'edilizia scolastica .
Per le province invece, sono: " a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo b) funzioni
nel campo dei trasporti; c) funzioni riguardanti la gestione del territorio; d) funzioni nel campo della tutela
ambientale .
6.2.6. I limiti reciproci della potestà regolamentare degli enti locali e della potestà legislativa di
Stato e Regioni
Quest' ultimo aspetto del tema non può essere affrontato se non avanzando una vera e propria provocazione
intellettuale avente ad oggetto la legge di codificazione della disciplina del procedimento amministrativo ,
legge 241/1990, giacché la forza giuridica di questa viene messa in discussione dall'assegnazione
costituzionale agli enti locali della potestà di disciplinare con propri regolamenti la <organizzazione > è lo
<svolgimento delle funzioni loro attribuite>.
Ora, se è condivisibile quanto si è prima affermato, e cioè che gli enti locali, per effetto della disposizione di
cui al co. 6 dell'art. 117, possono dirsi godere oggi di una vera e propria potestà normativa esclusiva <in
ordine alla disciplina dell'organizzazione dello svolgimento delle funzioni> - rectius (più correttamente) della
funzione amministrativa nelle materie - ad essi <attribuite>, ebbene allora non vi sono ragioni generali per
escludere che con riguardo alla stessa disciplina generale del procedimento amministrativo, essi possano
dettare regole difformi da quelle contenute nell'art 241/1990.
È vero, infatti, che in relazione alla potestà regolamentare degli enti locali la costituzione non individua
alcuna fonte di livello superiore in grado di dettare i principi fondamentali per la legislazione regionale,
necessariamente soggiace alla relativa legge statale.
Non va trascurato che non può essere di disinvoltamente dimenticata l' esigenza di unitarietà
dell'ordinamento. Sicché, pur non avendo la necessari veste di legislazione di principio nei confronti della
normazione locale, regioni di opportunità politico istituzionale suggeriscono di intendere la L. 241/1990 quale
la legge quadro per la regolazione amministrativa degli enti locali.
Del resto esplicitamente in tal senso si è espressa la legge 131/2003, che, pur confermando trattarsi di una
riserva regolamentare dell'ente locale, dispone testualmente che la potestà in parola deve operare
"nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità.
Va tuttavia segnalato che l'articolo 29, co. 2, della L. 241/1990 così esplicitamente recita: <Le regioni e gli
enti locali, nell' ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel
rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, così
come definite dai principi stabiliti dalla presente legge>.
6. Problemi e prospettive (secondo me non importante)
Con ogni probabilità è proprio la progressiva affermazione del pluralismo, sociale ed istituzionale, che ha
impresso una notevole spinta evolutiva all'ordinamento. La costante emersione di sempre nuovi interessi
giuridicamente rilevanti, soprattutto il vertiginoso aumento quantitativo e qualitativo di quelli pubblici, spesso
in conflitto tra di loro, infatti, hanno prodotto la crescente difficoltà di giungere, sia in via generale e\o
astratta (normativa - regolativa) che in via concreta (amministrativa - discrezionale in senso tradizionale), ad
un adeguato assetto degli stessi avvalendosi di più consolidati strumenti istituzionali.
Le autorità amministrative indipendenti, in tal senso, rappresentano verosimilmente più recente sviluppo di
un processo evolutivo che, a ben vedere, non interessa solo il profilo soggettivo - organizzatore della P.A.,
poiché trova origine, nell' evoluzione della “morfologia giuridica” dell' interesse pubblico, che sulla P.A., si
riflette attraverso i cambiamenti che produce nella configurazione della funzione amministrativa.
In dottrina, si è svolto un'attenta ed acuta analisi degli interessi curati dall'autorità e delle connesse funzioni,
partendo proprio dalla considerazione che, pur costituendo <l' attività di cura di interessi nella sistematica
più antica come in quella più recente, il nucleo fondamentale ed essenziale dell' attività amministrativa>,
tuttavia <sono andati mutando tanto i contenuti dell' attività di cura quanto la configurazione degli interessi
curati>; perdere allarme che, in definitiva <è appunto sotto questo profilo che l'attività di cura svolta dalle
autorità indipendenti presenta caratteri differenziali rispetto all'attività svolta dalle amministrazioni pubbliche
tradizionali>.
Secondo tale dottrina le differenze, in ordine alla posizione della P.A., rispetto agli interessi curati in ordine ai
contenuti dell’attività di cura, dipenderebbero essenzialmente dalla diversa natura degli interessi medesimi.
L’attività svolta dalle PP.AA. tradizionali infatti, avendo ad oggetto interessi pubblici astratti e rimessi
<all'apprezzamento discrezionale dell'autorità>, consisterebbe , nella loro concretizzazione che, allorquando
coinvolge situazioni soggettive private, si estrinseca <in una regolazione di tipo finalistico>; ovvero in <una
regolazione di tipo prudenziale>, nelle quali in ogni caso, <il rapporto bilaterale fra pubblica amministrazione
e situazioni soggettive private misurabili in termini di incidenza o di graduazione e l'azione amministrativa
consiste di un'attività di ponderazione fra interessi, primari e secondari, pubblici e privati.
Nel primo caso (regolazione finalistica), essendo tali situazioni in conflitto con l' interesse pubblico " , l'
attività amministrativa si estrinseca in <regole contenenti comandi specifici>, rivolti a <conformare,
comprimere o condizionare la situazione soggettiva primitiva> , e nella successiva attività di controllo volta
ad accertare l'uniformità fra comando e sua esecuzione.
Nel secondo caso (regolazione prudenziale) essendo le situazioni soggettive private coincidenti con
l'interesse pubblico, ma <potenzialmente contrapposte> tra loro, e mirando <l'attività di cura proprio a
soddisfare le situazioni soggettive private>, componendo relativi <interessi potenzialmente confliggenti, ma
per i quali l'ordinamento che definisce un assetto dato con il quale si identifica l'interesse pubblico>, la
concentrazione dell'interesse pubblico <risulterà secondo la nota formula, dal rapporto fra [Le] diverse
situazioni soggettive >, con riferimento alle quali la P.A., <oltre a specificare i requisiti e gli elementi
necessari per mantenere il rapporto fra situazioni soggettive diverse prefigurano dalle norme, svolgere
attività di controllo, che opera come condizione relativa della facoltà di scelta del privato, non più
conformandola interamente, ma piuttosto , indirizzando ad esercitarsi entro margini di libertà
predeterminati>.
Nell' ambito delle autorità indipendenti, invece emergerebbe un terzo tipo di attività, che dalle altre due si
differenzierebbe essenzialmente per il fatto di non trovare <fondamento nella garanzia o nella tutela
dell'interesse pubblico, ma, piuttosto nella necessità ed opportunità di garantire tutelare, reciprocamente,
situazioni soggettive private>, e con riferimento alla quale si dovrebbe, piuttosto, come <configurare
l'interesse pubblico "riflesso” e mediato, affidato, alla cura delle autorità indipendenti>. Tale attività si
estinsecherebbe in <un terzo tipo di regolazione definita come regolazione condizionale>, consistente in
<un insieme di regole che al contrario di quanto avviene per le regole di tipo finalistico e prudenziale, non
prefigura un risultato o un obiettivo al quale l'attività privata deve conformarsi, bensì contiene criteri di
comportamento e regole di condotta rivolta gli stessi privati>, nonché nella relativa attività di controllo, la
quale non incide direttamente sulle facoltà dei privati, che restano liberamente esercitabile ma ne facilita lo
svolgimento mediante la produzione di certezze giuridicamente rilevanti.
Di questa terza categoria <esemplari> sarebbero <la disciplina della concorrenza e la disciplina volta ad
assicurare la trasparenza dell'informazione sui mercati regolati, come quelli finanziari, fatti di regole volte ad
assicurare, l'insieme, l'uguaglianza degli operatori, libera scelta dei consumatori e l'efficienza allocativa del
mercato nel suo complesso>, così come delle relative attività di controllo, con riferimento alle quali si
sottolinea la <natura dichiarativa di molti provvedimenti delle autorità indipendenti in natura>.
La discreta analisi appare largamente condivisibile, salvo che nelle parti in cui, affermandosi che la funzione
amministrativa di regolazione condizionale troverebbe fondamento <non nella garanzia e nella tutela di un
interesse pubblico, ma piuttosto, è la necessità ed opportunità di garantire tutelare situazioni soggettive
private>, sembra, forse, si svalutino eccessivamente ruolo, nell' ambito di tale funzione, dell'interesse
pubblico di cui pure, tuttavia si riconosce la possibilità di configurazione.
Con riferimento alle funzioni della Consob in materia di intermediazione finanziaria, anche in dottrina si è
manifestata una diversa opinione per la quale <occorre distinguere la relazione Consob - intermediario da
quella intermediario – terzi>, essendo <di tutta evidenza come il sistema di vigilanza pubblica sia chiuso non
dalle sanzioni civilistiche ma dai poteri interdittivi e sanzionatori nei confronti degli intermediari>, giacchè si
registri <una netta distinzione tra il piano dei rapporti negoziali e civili e quello delle relazioni autoritativo-
pubblicistiche>
Secondo tale dottrina, <la predisposizione di un sistema " amministrativo " di tutela del risparmio attraverso
la vigilanza sull'attività di intermediazione mobiliare, tradisce la insufficienza della disciplina di diritto privato
a garantire altri ulteriori interessi che da questa attività vengono ad essere coinvolti>; pertanto <l'
intervento della Consob dimostra l'affermazione legislativa di un interesse (pubblico) non sufficientemente
soddisfatto “mediante leggi e sentenze", affidato alle cure di una pubblica amministrazione>, concludendosi
che <rispetto alla valenza special - preventiva della tutela amministrativa del risparmio la lesione dei diritti
dei risparmiatori non assume rilevanza diretta>.
Il fatto è che salva la natura (Pubblica) è la sua immediate diretta rilevanza è diversa proprio la "morfologia
giuridica" dell'interesse pubblico cui è funzionalizzata all'attività di regolazione condizionale esercitata dalle
autorità. In tali ipotesi, infatti, l'interesse pubblico, pur affacciandosi a situazioni soggettive private,
analogamente che nelle fattispecie in cui conforma una funzione di regolazione potenziale a differenza che in
queste ultime non "assorbe" detti situazioni (così riconducendole a meri elementi costitutivi di sé, che non
hanno più autonoma rilevanza giuridica) ma coesiste con esse.
Solo in quest'ottica si può condividere la denominazione di riflesso è l'affermazione che <l' interesse pubblico
stesso appare, dunque come riflesso di interessi collettivi (nel senso di imputabile ad una collettività di
individui, nella loro qualità di imprenditore, di consumatori, di risparmiatori, di investitori)>.

CAPITOLO 3 – LE AUTORITÁ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI


1. Premessa
Le radicali trasformazioni ordinamentali, intervenute a partire dagli ultimi anni 80” del secolo scorso, hanno
"sconvolto" il sistema istituzionale, generandosi perciò un profondo mutamento delle discipline giuridiche e,
in particolare del diritto amministrativo.
I compiti che, fino a oggi, le amministrazioni pubbliche vengono richieste di svolgere hanno così trasfigurato
il loro assetto, sia strutturale che funzionale.
Sotto il primo profilo è sempre più recessiva la tipologia organizzativa di stampo tradizionale rappresentata
dall'ente pubblico, progressivamente soppiantato da nuove figure, che sembrano proliferare come funghi
nella stagione autunnale .
Sotto il secondo profilo, L’idea ormai affermatasi appieno dallo Stato "esile", pretende che la più gran parte
delle attività anche di interesse sociale venga gestita dal mercato, o, più nobilmente, dalla società civile,
lasciando i pubblici poteri solo compiti di regolazione e di successiva verifica della corrispondenza di atti e
comportamenti dei soggetti privati alle regole predisposte.
Una testimonianza particolare significativa delle trasformazioni in parola offerta dalla controversa categoria
delle Autorità indipendenti .
Questi sono denominati in dottrina anche Autorità amministrative indipendenti
E’ la estrema incertezza in ordine di connotati giuridici della categoria, oltre che alla stessa esistenza, che
determina l'oscillazione della dottrina nell'uso delle diverse denominazioni.
Le Autorità indipendenti sono: La Banca d'Italia, la commissione nazionale per la società e la borsa, l'
Istituto per la vigilanza delle assicurazioni private e di interesse collettivo, La commissione per l' accesso ai
documenti amministrativi ed Il garante per la protezione dei dati personali ecc..
Le vie ricostruttive del fenomeno in parola vengono di seguito esposte al riguardo soprattutto ai profili
strutturali e funzionali concernenti le varie figure selezionate e soffermandosi, poi, in modo specifico sulla
qualità della indipendenza non riconosciuta, al fine ultimo di tentare una proposta di delineazione del genus
e della sua eventuale articolazione in species .
L'analisi della struttura va condotta cercando di indagare se la figura consista propriamente in un ente
(avente cioè personalità giuridica) ovvero in un organo e, in tal caso, di che livello di soggettività sia dotato
alla stregua di indici quali l' esistenza di un autonomo ruolo organico del personale, il patrimonio di
autonomia di gestione, di autonomia contabile e di autonomia finanziaria.
L’analisi del profilo funzionale, invece, va orientata, nelle sue grandi linee, ad identificare gli specifici poteri
attribuiti dalla legge a ciascuna figura e a distinguere quelli riferibili alla tradizionale nozione di funzione
amministrativa in senso proprio da quelli qualificabili piuttosto, con espressioni ormai diffusamente utilizzare
dalla dottrina, come “regolativi” o “giustiziali”.

2. Il profilo strutturale
Il profilo strutturale delle figure in esame si presenta abbastanza eterogeneo. Alcune di esse (la Banca
d0Italia, la CONSOB e l’ISVAP), ad esempio, sono certamente persone giuridiche poiché è la stessa legge a
qualificarle espressamente in tal senso.
Per altre, invece sembrerebbe che la qualificazione normativa, pur non espressa, sia comunque implicita, dal
momento che le norme che ne disciplinano la struttura paiano dotarle della piena soggettività spettante alle
persone giuridiche, ivi compreso un autonomo patrimonio, che sembra essere il connotato decisivo ai fini del
relativo riconoscimento. ciò vale per la commissione di garanzia dell' attuazione della legge sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali, l’autorità per l' energia elettrica e il gas, l' autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici.
In proposito deve osservarsi per un verso, che i regolamenti di contabilità delle ultime figure non sono fonti
"eteronome", ma sono adottati dalle stesse autorità con proprie delibere, esercitando il relativo potere
espressamente conferito loro dalla legge; per un altro, che il dato normativo di tali fonti secondarie potrebbe
essere confliggente con quello di legge perché nei relativi atti normativi primari le figure in parola sono
denominate <organo>, termine che viene comunemente adoperato per indicare figure soggettive non
personificate, per i centri di competenza.
dando particolare rilievo agli elementi di contrasto con il dato letterale della formazione primaria si potrebbe
concludere o che i regolamenti di contabilità in parola sono illegittimi perché contra legem, ovvero,
risolvendo l'antinomia in via interpretativa, che le loro disposizione non sostituiscono l’esistenza, in capo alle
rispettive figure soggettive, di veri e propri patrimoni, ma, piuttosto, il mero affidamento alle stesse di
"compendi patrimoniali" dello Stato, secondo il modello, già noto nell' ordinamento, delle ccdd.
"Amministrazioni autonome".
Anche tale conclusione, non è priva di ombre, poiché presuppone, secondo un'interpretazione logico
sistematica, la riduzione del significato di quelle disposizione dei rispettivi regolamenti di contabilità, le quali,
invece, secondo l'interpretazione letterale, sembrano evidenziare chiaramente l'autonomia patrimoniale delle
autorità.
Una spiegazione del fenomeno giuridico in parola può forse riproporsi rinunciando, per un attimo, al rigido
punto di vista formale e utilizzando invece come chiave di lettura, un approccio più realistico, di ispirazione
“istituzionalistica”. In tale ottica, infatti, si potrebbe ritenere che le ambiguità ed incertezze esistenti in ordine
alla pienezza o meno della soggettività delle figure in esame siano gli effetti della resistenza al fenomeno
"rivoluzionario” di attribuzione di compiti e funzioni ad "officia entificati" non rientranti nell'unitaria
Personalità dello <Stato-ente>, ma costituenti una articolazione delle articolazioni di uno <Stato-complesso
coordinato di enti>, in modo analogo al modello anglosassone.
Sintomatica di un processo in atto di tal fatta, in particolare, la vicenda della commissione di garanzia
dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in ordine all'autonomia gestionale
contabile della quale si è sollevato un conflitto interpretativo tra la commissione stessa della presidenza del
Consiglio dei Ministri che ha visto l' autorità "soccombere", in un primo momento, ma, successivamente
ottenere il riconoscimento tanto di autonomia gestionale contabile, quanto di autonomia patrimoniale.
Analoga è l'evoluzione della disciplina relativa al funzionamento dell’autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, poiché, mentre con riferimento all'autorità per la vigilanza sui lavori pubblici doveva rilevarsi
l'impossibilità di ritenere la sussistenza di un riconoscimento di personalità giuridica, la situazione è ben
diversa a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 153/2006, che agli articoli 6 ss. ridisciplina la
figura soggettiva in parola stabilendo, tra l' altro, che assuma l'attuale denominazione.
Manca, senza dubbio, di personalità giuridica la commissione per l' accesso ai documenti amministrativi .
Sotto il profilo della soggettività, si può dire che all'analisi compiuta emergono tre classi di figure giuridiche:
quelle che sono senza alcun dubbio persone giuridiche, e quindi entità distinte dallo Stato persona, per
espressa qualificazione dell'ordinamento (La Banca d'Italia, la Consob e l’Isvap ); quelle la cui qualificazione
non è espressa ma sembra implicitamente derivabile dall' ordinamento (L'autorità per l' energia elettrica il
gas, l' autorità per la garanzia e delle comunicazioni); quelle che infine, sono prive di personalità giuridica e
che, di conseguenza, andrebbero riferite all'ambito della complessiva personalità giuridica dello Stato ente (la
commissione per l' accesso ai documenti amministrativi).
In realtà, pur condividendo l'opportunità di non attribuire eccessivo valore, nell' analisi, alla questione della
personalità giuridica, si ritiene, tuttavia, che essa non sia assolutamente irrilevante è che non si possa, in
ogni caso, affermare semplicemente l'assenza in mancanza di esplicita affermazione legislativa, derivandone
di conseguenza l'imputazione della responsabilità patrimoniale dello Stato.
Più in particolare, dal confronto tra le varie strutture esaminate emerge un dato significativo in ordine
all'esercizio delle funzioni attribuite, il quale, in ciascuna figura, e quasi sempre di competenza di un organo
collegiale.
La tendenziale collegialità degli organi di vertice e di riconoscimento ad essi della competenza ad esercitare i
principali poteri assegnati alle rispettive figure soggettive sono strumenti mediante i quali il legislatore tenta
di costruire i presupposti dell'esercizio imparziale e/o indipendente delle funzioni attribuite.
Del resto, per alcune delle figure soggettive in esame ciò specificamente ribadito dalla legge.
In particolare con riferimento al garante per la protezione dei dati personali, all'autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici nonché nella disciplina generale sulla autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità,
quali giudichiamo espressamente l'applicabilità delle norme o dei principi di cui al D.Lgs. 29/1993 in tema di
ordinamento delle carriere del personale dipendente e modalità di reclutamento, di trattamento giuridico ed
economico del personale incaricato di funzioni dirigenziali, e di distinzione tra le funzioni in indirizzo/controllo
e di digestione .

3. Il profilo funzionale
Anche l'analisi del profilo funzionale delle figure soggettive in esame offre un quadro eterogeneo. Alcune di
esse, infatti, esercitano poteri riferibili a tutte tre le Specie di regolazione, giudiziale ed amministrativo in
senso proprio; alcune, invece, accanto a quelli amministrativi, esercitando poteri riferibili soltanto all'una o
all'altra delle due restanti; alcune, esercitano soltanto poteri tipicamente amministrativi.
Rientra nella prima categoria, ad esempio, la commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo
sciopero nei servizi pubblici essenziali, che, insieme a poteri propriamente amministrativi, si vede attribuire
anche due potestà che, malgrado la loro peculiarità, possono essere ritenute, rispettivamente, l' uno
regolativa e l'altra giudiziale: l’adozione della "regolazione provvisoria" è “l'emanazione del lodo'.
Analogicamente il garante per la privacy, oltre ai tradizionali poteri amministrativi, per un verso, può
rilasciare autorizzazioni generali, potere che ben può dirsi assumere i connotati di attività regolativa, per un
altro, esercita la funzione giustiziale per la tutela dei diritti dell'interessato in relazione al trattamento dei dati
personali. Più di un potere riferibile a ciascuna delle tre tipologie è attribuito anche all’Autorità per l'energia
elettrica e il gas e dall' autorità per le garanzie nella telecomunicazione.
Esempio della seconda tipologia e l' antitrust che , oltre alle prevalenti funzioni amministrative, esercita un
potere - quello di autorizzare, sebbene soltanto "per un periodo limitato", categorie di impres , ai sensi dell'
articolo 4 L. 287/1990 -, che pure è classificabile come attività regolativa. Accanto a potere riferibili alla
funzione amministrativa in senso proprio, inoltre, esercitano ciascuna numerose potestà regolative, sia la
Banca d'Italia, sia la Consob, sia L’Isvap, sia l'autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Rientra, infine, nella terza tipologia alla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, la quale
esercita esclusivamente funzioni amministrative.
Nell'opera di in enucleazione di poteri effettivamente esse assegnati dall'ordinamento riferibile alle singole
funzioni, sembra preferibile concentrare l'attenzione, piuttosto che su quelli ascrivibili alla funzione
amministrativa in senso proprio, su quelle ascrivibili invece la funzione decorativa giudiziale, giacché questi
maggiormente concorrono a mettere in discussione la riferibilità delle figure in esame al modello tradizionale
dell’amministrazione, intesa come potere caratterizzato dell’esercizio della cd. “funzione amministrativa in
senso tecnico”.

3.1. I poteri ascrivibili alla funzione di regolazione


Esame dei poteri regolativi non può non cominciare col mettere in evidenza Sta assolutamente peculiare ,
attribuita alla commissione di garanzia dell' attuazione delle leggi sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali,
di adottare, in caso di mancato accordo tra le parti, una regolamentazione provvisoria delle modalità di
articolazione dei conflitti sindacali che siano rispettose dei diritti della persona costituzionalmente tutelati.
Si può osservare che l' ambito valutativo nel quale l'autorità si può muovere nell'esercizio del potere in parola
è circoscritto entro margini abbastanza definiti dalla legge, in forza della quantità e qualità dei "criteri "
fissati, oltre il fine ultimo per il suo esercizio.
Altra tipologia singolare di potestà regolativa è quella di autorizzazione generale. Tale potestà è attribuita ,
tra le figure in esame, al garante per la protezione dei dati personali e dall' autorità garante della
concorrenza del mercato.
Invero, il potere il cui esercizio sfocia nell' adozione di tali atti di autorizzazione generale sembra doversi
iscrivere alla funzione regolativa, stante la loro evidente capacità attitudine a produrre fonti di diritto
obiettivo.
Ma le figure con riferimento alle quali emergono i dati più significativi in ordine alla quantità dei poteri
regolativi loro attribuiti sono le autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, la Consob e la Banca
d'Italia.
Quanto alle prime la legge attribuisce talora alle due autorità di regolazione potestà da esercitarsi con atti
espressamente qualificati "regolamenti", per un altro, sono numerose potestà attribuite che, si segnalano
come merabili alla species delle funzioni regolative in quanto le autorità concorrono variamente a definire il
diritto obiettivo vigente nel settore, stabilendo, ad esempio tariffe, condizioni modalità di esercizio delle
attività di servizio, ovvero clausole negoziali e altre regole da inserirsi obbligatoriamente nei contratti
stipulato tra gli esercenti, i servizi e la clientela.
All'autorità per le garanzie nelle comunicazioni sono tutte attribuite dalla legge numerose potestà da
esercitarsi mediante atti espressamente qualificati "regolamentari", senza che sia prevista una vera e propria
"forma" che contraddistingue questi ultimi da quelli che, invece, costituiscono esercizio di potestà che
possono essere ritenute regolative in quanto concorrono a definire il diritto obiettivo vigente nel settore.
Quanto alla Banca d'Italia espressamente prevede nell'esercizio delle funzioni di vigilanza in materia di
credito di tutela del risparmio, l' emanazione di "regolamenti nei casi previsti dalla legge", oltre l’impartizione
di <istruzioni> ed all'adozione di <provvedimenti di carattere particolare>. Peraltro, fino a tempi recenti
nessun articolo del testo unico qualificato espressamente la natura regolamentare del potere di volta in volta
attribuito.
Per quel che attiene ai poteri della Consob, sono numerosi quelli da esercitarsi mediante atti di cui il D.Lgs
58/1998 qualifica espressamente la natura regolamentare.
In pochi casi la legge pare rinviare ad atti regolativi della Consob senza qualificarli espressamente come tali.
Nel complesso l' analisi rileva, dunque, l'esistenza di plurime ed eterogenea tipologie di poteri rispondenti
alla nozione di fonte del diritto obiettivo.
È possibile individuare, infatti, per un verso, poteri regolativi di atti espressione dei quali sono qualificabili
come formalmente normativi, è perciò in quanto tali aventi indiscussa efficacia costitutiva dell'ordinamento
giuridico generale. Per altro verso, si rendono evidenti poteri che si esplicano in atti collocabili nella categoria
degli atti amministrativi fonte del diritto obiettivo, per effetto della utilizzazione di criteri sostanziali.
E’, a smentire la natura normativa degli atti di regolazione non sembra sufficiente il fatto che la
giurisprudenza ritenga necessaria una più garantistica modalità procedurale per la loro emanazione, una
modalità perciò diversa da quella propria dei provvedimenti amministrativi in senso stretto.
Sotto altro profilo, indipendentemente dalla caratterizzazione tipologica appena richiamate , i poteri degli atti
regolativi delle autorità in esame si manifestano nelle seguenti tipologie: quelli di auto - organizzazione;
quelli " funzionali " , E cioè conferiti All' autorità per disciplinare autonomamente l' esercizio delle funzioni
amministrative provvedimentali attribuite loro dalla legge, con evidenti possibili effetti riflessi nei confronti di
quei soggetti con i quali esse entrino in contatto nell' esercizio di detti poteri; e, infine, quelli direttamente
rivolti a disciplinare situazioni giuridiche soggettive e/o rapporti giuridici coinvolgenti soggetti terzi, in
funzione, seconda dei casi, di esecuzione, di attuazione, di integrazione, ovvero, addirittura delegificazione
della disciplina di fonte primaria del settore.
Il supremo collegio amministrativo, dopo aver dichiarato che, una volta accertata, in via generale, la
configurabilità di poteri normativi in capo alle autorità dipendenti, ha fatto cenno ad almeno due questioni
consequenziali, relative alle possibili tipologie di regolamenti adottabili dalle autorità indipendenti e al loro
rapporto con la normativa secondaria di fonte governativa o ministeriale a seguire le prende considerazioni
separatamente, seppur in maniera succinta. In primo luogo tratta quella della tipologia dei regolamenti,
chiarendo che essa non si può definire in via generale:
Ciò nondimeno, si può utilmente adoperare "il riferimento costituzionale", dal quale "emergono due grandi
gruppi di manifestazione di funzioni normative: le prime, più tradizionali, espressione di una potestà
autorganizzazione dell'amministrazione che ora si inquadra nell'area delineata dall' articolo 97 cost.; le
seconde, almeno in parte più recenti, riconducibili ai principi costituzionali che presiedono non al sistema di
poteri pubblici, ma alle attività dei vari ambiti materiali in cui rispettivamente operano le singole autorità".
Il Consiglio di Stato afferma che "se la materia è analiticamente o,comunque, in buona parte disciplinata
dalla legge, i regolamenti delle autorità presenteranno caratteristiche affini e regolamenti esecutivi, di
attuazione e completamento della disciplina legislativa e sul rispetto della legge si potrà incentrare il
sindacato giurisdizionale. In altri casi il potere regolamentare è attribuito alle autorità indipendenti con un
mero riferimento alla materia oggetto di regolamentazione o, al più, a concetti giuridici indeterminati a
finalità di carattere generale".
Laddove ricorrano queste ipotesi "la dottrina ha parlato di regolamenti autonomi, simili a quelli che
nell'ordinamento della pubblica amministrazione governativa vengono definiti indipendenti". Sul punto il
giudice, dichiara di considerare" ragionevole ammettere, in via generale, la configurabilità anche di questo
tipo di regolamenti", pur avvertendo indispensabile il "ribadire la necessità di accertare, caso per caso, la
sussistenza delle condizioni che la materia regola non sia sottoposta a riserva di legge e che nella stessa
legge istitutiva dell' autorità, o comunque in altra fonte primaria, siano rinvenibili i criteri di fondo per
l'esercizio del potere normativo dell'autorità di regolazione".
Importante rimarcare, in definitiva, che le norme che attribuiscono i relativi poteri, a prescindere dalla
tipologia di questi, sono talvolta qualificati espressamente la natura regolamentare degli atti mediante i quali
si dovranno essere esercitati.
Inoltre, per nessuna delle figure soggettive esaminate è rinvenibile una disciplina espressa di caratteri
connotati, sul piano formale, l' esercizio dei poteri normativi loro attribuiti; anzi, per alcune di esse, esistono
regole relative alla pubblicazione che espressamente accomuna sotto lo stesso regime atti normativi ed atti
amministrativi generali.
Incertezza e talora anche maggiore, allorquando, con riferimento alla stessa Banca d'Italia, dispone che "i
provvedimenti di carattere generale della Banca D'Italia sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana" contenute sono destinate anche a soggetti diversi da quelli sottoposti a vigilanza".
Soltanto <quando le disposizioni in essi contenute sono destinate anche a soggetti diversi da quelli
sottoposti a vigilanza>. Stando alla lettera della norma in parola, perciò, non andrebbero (paradossalmente)
pubblicati in Gazzetta Ufficiale, ad esempio alcuni regolamenti “funzionali”, sul cui valore normativo, invece,
non v’è ragione alcuna di nutrire dubbi.
Si pongono i medesimi problemi tradizionalmente incontrati da dottrine giurisprudenza allorquando si sono
impegnate nel tentativo di costruire, sul piano materiale, una nozione di atto normativo idoneo a qualificarne
l' ipotesi con sufficiente certezza, soprattutto allo scopo di distinguere, da tutti gli altri atti amministrativi
comunque recettivi, posto che nell'ordinamento Giuridico positivo questi ultimi sono sottoposti ad un
peculiare regime giuridico, significativamente diverso da quello degli altri atti amministrativi .
È proprio l' esistenza di norme in cui è espressamente qualificata la natura regolamentare dei poteri conferiti
che induce a domandarsi se il legislatore non abbia voluto, nella specie, imporre all' autorità l' esercizio della
funzione regola attiva con il regime giuridico proprio degli atti regolamentari, e, dunque, a chiedersi quale
debba essere, invece, il regime giuridico degli atti con i quali le autorità , negli altri casi, esercitano
comunque un potere regolativo, che, alla stregua degli indici sostanziali della generalità/astrattezza ed
innovatività, potrebbe (o dovrebbe) essere ritenuto normativo .
Con riferimento poteri regolativi in parola, è evidente dunque che, oltre a quella della loro identificazione, si
rinnova anche la tradizionale problematica relativa al fondamento e dai limiti di legittimità della potestà
normativa secondaria dell' esecutivo.
Nella specie il problema non si pone alla stessa maniera, almeno non con riferimento a tutte le diverse
tipologie rilevate in precedenza.
Ed invero, con riguardo ai poteri di (mera) auto-organizzazione e da quelli funzionali non sembrano esservi
elementi tali da alterare i termini della questione. Altrettanto non sembra potersi dire con riferimento ai
poteri regolativi di governo del settore, rispetto ai quali assume maggior consistenza il dubbio che non si
possa ritenere del tutto indifferente il profilo soggettivo dalla derivazione democratica dell' organo che
esercita il potere, la cui individuazione, nelle figure soggettive esaminate, è estremamente problematica.

3.2. La funzione giustiziale e la sua problematica distinzione dalla funzione amministrativa in


senso proprio.
È necessario premettere una considerazione di ordine generale relativa alla nozione di funzione giustiziare
assunta quale parametro, conseguentemente, ai confini che ne delimitano l'ambito concettuale, in particolare
distinguendolo da quello della funzione amministrativa in senso proprio.
Allo scopo può ritenersi ancora valido l'autorevole insegnamento secondo cui funzione "giustiziare" è quella
caratterizzata dall'essere "mezzo di giustizia, e cioè strumento ordinato "a risolvere una controversia in vista
della realizzazione della giustizia nel caso concreto".
L'esistenza di una controversia e del correlato fine di giustizia fanno sì che, nell' esercizio di tale funzione,
l'interesse dei soggetti privati coinvolti assumono rilievo diverso e più pregnante di quello assunto
nell'esercizio della tradizionale funzione amministrativa.
L' esercizio della funzione giustiziale tradizionalmente si avvia ad iniziativa di un soggetto privato che
assume la lesione di una propria situazione giuridica soggettiva ed è condizionato dal contenuto dell' atto di
iniziativa, dal momento che nel suo fine e una "funzione di tutela degli interessi del privato".
Sono il peculiare fine della funzione ed il conseguente rilievo dell' interesse individuale,
piuttosto che le modalità di svolgimento dell’attività, che valgono a distinguere la funzione
giustiziare dalla funzione amministrativa in senso proprio. Diversamente opinando si finisce, infatti,
per assimilare alla funzione giustiziare anche voti il cui svolgimento procedimentale certamente si ispira ad
un principio di contraddittorio, ma che, essendo finalizzati esclusivamente alla cura dell' interesse pubblico,
non si collocano fuori dell' ambito della funzione amministrativa in senso proprio.
La distinzione è importante particolarmente nei confronti dei poteri sanzionatori di illeciti amministrativi, il cui
esercizio è pur sempre correttamente ascrivibile nell'ambito del generale compito di cd. "Polizia
amministrativa in senso stretto", alla funzione amministrativa in senso proprio ed invero, l' esercizio dei
modelli sanzionatori si svolge, sì, mediante moduli procedimentali caratterizzati da modalità contenziose, ma
non ai fini di giustizia, per cui, ad esempio, l'interesse del soggetto denunciante, sul cui impulso ha avuto
eventualmente luogo l'avvio del procedimento amministrativo, non rileva oltre i limiti di cui alla disciplina
della partecipazione al procedimento.
La collocazione di poteri sanzionatori nell' ambito della funzione amministrativa in senso proprio, trova
conferma anche nella giurisprudenza amministrativa, laddove, ad esempio, con riguardo all' antitrust,
qualifica come amministrative di tipo sanzionatorio e, di sue funzioni, evidenziandone le relative
conseguenze sul piano del regime giuridico.
Con specifico riferimento ai poteri attribuiti dalla legge 287/1990 la giurisprudenza ritiene che siano
"preordinati esclusivamente alla tutela oggettiva del diritto di iniziativa economica nell'ambito del libero
mercato e non alla garanzia di posizioni individuali degli operatori del mercato stesso", per cui, "a fronte
dell'esplicazione di detti poteri, tutti gli altri soggetti diversi da quelli direttamente incisi – siano essi
consumatori o imprese concorrenti - sono titolari di un mero interesse diffuso, indifferenziato rispetto alla
posizione di pretesa della generalità dei cittadini e che le autorità preposte alla repressione dei
comportamenti interattivi attuino correttamente e tempestivamente i poteri che sono loro conferiti
dall'ordinamento a tale specifico fine"; concludendo, dunque, che anche in tal caso applicabile il principio
secondo cui "nei procedimenti repressivi il soggetto denunciante non assume una posizione di interesse
tutelata né all' apertura del procedimento né alla conclusione di questo in senso conforme alle sue
aspettative, essendo titolare solo di un interesse di mero fatto che lo abilita, se del caso, di intervenire nell'
eventuale giudizio instaurato dall'unico soggetto legittimato a reagire, e cioè il destinatario dell'attività
sanzionatoria.
Stante la svalutazione della rilevanza degli interessi individuali di consumatori ed imprese concorrenti, è
chiaro che, quando parla di "tutela oggettiva del diritto di iniziativa economica nell' ambito del libero
mercato" il giudice si riferisce alla cura di un interesse pubblico consistente nella effettiva età della libera
concorrenza.
Per concludere in ordine confini che delimitano l'ambito concettuale della nozione di funzione giudiziale della
P.A., è opportuno chiarire che detta nozione, così come è stata individuata è distinta da quella di funzioni
amministrative in senso proprio, non può d'altra parte essere assimilata alla funzione giurisdizionale "in
senso proprio, quella il cui esercizio, ai sensi degli articoli 102, 103 e 134 della costituzione, è riservato,
rispettivamente, ai giudici ordinari, amministrativi e costituzionali, è che si caratterizza, secondo autorevole
opinione dottrinale, per il <valore formale delle pronuncia> (autentico <carattere distintivo rispetto ai
provvedimenti delle altre autorità e agli atti dei privati>), le cui <Statuizioni, anche se non conformi alla
legge, non possono essere revocate o modificate o comunque dichiarate illegittime, se non mediante altre
pronunce giurisdizionali>.
3.3. I poteri ascrivibili alla funzione giustiziale
È necessaria molta cautela nella rilevazione analitica dei poteri ascrivibili alla funzione giustiziale attribuita
dalla legge alle figure soggettive in esame. In particolare più che le modalità contenziose di svolgimento del
procedimento, sembra decisivo, nel senso delle connotazione “giustiziale”, del potere esercitato, che le
situazioni giuridiche soggettive coinvolte alla controversia siano dalla legge espressamente qualificate come
diritti. In tal caso quindi la rilevanza dell'interesse individuale, e la conseguente finalizzazione del potere
amministrativo anche alla sua tutela, è fuor di dubbio.
Dubbia è l'ascrivibile nullità alla funzione giurisdizionale giudiziale della P.A. del potere di emanare un lodo
sul merito della controversia relativa a questioni interpretative o applicative dei contenuti degli accordi o
codici di autoregolamentazione, attribuito alla commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo
sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Ed invero, tanto l' espressione "lodo" quanto quella richiesta congiunta delle parti "sembrano condurre a
ritenere che in effetti il legislatore stia, piuttosto, riconoscendo alla commissione la possibilità di esercitare
un ruolo propriamente arbitrale, di natura privatistica, i cui poteri, cioè, si fondano sull'espressione di
consenso negoziale delle parti.
Così ad esempio, con riguardo al potere di “valutare” <reclami, istanze e segnalazioni presentate dagli utenti
o consumatori, singoli o associati, in ordine al rispetto dei livelli quantitativi e tariffari da parte di soggetti
esercenti il servizio> non è chiaro se tale funzione debba essere esercitata al fine esclusivo di cura di un
interesse pubblico oggettivo, ovvero anche per la delle situazioni giuridiche soggettive individuali dei singoli
utenti e/o consumatori reclamati. Se da un lato, infatti la possibilità di intervenire <imponendo, ove
opportuno, modifiche alle modalità di esercizio ovvero procedendo alla revisione del regolamento di
servizio> sembra rivolta piuttosto alla tutela oggettiva dell'interesse pubblico, dall' altro, invece, il potere di
"ordinare" <al soggetto esercente il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti,
imponendo l'obbligo di corrispondere un indennizzo>, sembra contemplare, tra i suoi fini, la tutela delle
relative situazioni giuridiche soggettive individuali.
Sotto il profilo soggetto, ad esempio, dal momento che la legge testualmente ne prevede <l’esperimento
presso l’autorità>, non può escludersi che le procedure in parola si realizzano con un sistema di commissioni
conciliative o di camere arbitrali analogo a quello previsto per le controversie derivanti dall’esecuzione dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi o forniture; anzi, ad un siffatto sistema sembra rinviare la previsione
della possibilità di rimessione delle controversie in prima istanza alle commissioni conciliative ed arbitrali
costituite presso le camere di commercio. In tale ipotesi, poiché l’Autorità non svolge che compiti
amministrativi di supporto e vigilanza nei confronti del collegio arbitrale, e il collegio esercita la propria
attività in assenza di “rapporto organico” con l’Autorità, il potere di risoluzione arbitrale delle controversie
non può essere ritenuto, in definitiva, attribuzione di quest’ultima
Con riferimento all'autorità per le garanzie nella comunicazione la legge rimette ad essa medesima di
disciplinare <con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non giurisdizionale delle controversie che
possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure
tra soggetti autonomi o destinatari di licenza tra loro>, prevedendo per tali controversie la non proponibilità
di ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione
distinto dal potere testè descritto sembrava doversi ritenere quello di “dirimere” <sentire le parti
interessate>, le controversie aventi ad oggetto l’ambito dell’interconnessione e dell’accesso alle
infrastrutture di telecomunicazioni ove, accanto alle situazioni giuridiche soggettive individuali di coloro che
“controvertono”, si poteva dubitare se rilevassero altresì interessi superindividuali suscettibili di condizionare
la consistenza.
In definitiva, sembra che, in materia di interconnessione di accesso alle infrastrutture di telecomunicazioni, la
funzione esercitata dall'autorità di "dirimere" relative controversie trascendesse la tutela delle situazioni
soggettive individuali, orientandosi anche verso il perseguimento di interessi pubblici. Infatti, oltre l'esplicito
richiamo al generico "interesse pubblico" si poteva dubitare che andassero riconosciuti altrettanti interessi
pubblici anche in alcuni dei criteri elencati.
Quanto alla risoluzione delle controversie tra organismi di telecomunicazioni divertenti, già la stessa autorità,
ne regola nel relativo regolamento, riconosceva la possibilità di agire unilateralmente alla via della procedura
arbitrale, smentendo così quel carattere arbitrale privatistico che la dottrina criticata tendeva a riconoscere al
relativo potere decisorio.
Il legislatore delegato, disposto che l'Autorità addotta a procedere extragiudiziali trasparenti, semplici, e poco
costose per l' esame delle controversie in cui sono coinvolti consumatori e utenti finali tali da consentire
un’equa tempestiva risoluzione delle stesse, prevedendo nei casi giustificati un sistema di rimborso o
indennizzo.
Con riferimento ai poteri delle autorità qui considerati iscrivibili alla funzione giustiziare, è opportuno
sottolineare che si possono ritenere pienamente valide le considerazioni svolte da autorevole dottrina in
merito alle peculiari caratteristiche della “neutralità decisoria” delle pronunce di giustizia della P.A. anche
allorquando l'autorità amministrativa decidente nè si identifichi con una delle parti, né si trovi con alcuna di
esse il rapporto di superiorità o quasi superiorità gerarchica.
E’ evidente che sebbene non possa negarsi "estraneità, è generalmente la “neutralità”, dell' autorità
decidente rispetto alle varie parti in contesa, né che l’Autorità sia <tentata ispirarsi alle regole del diritto: non
altrimenti dalla neutralità del giudice, tuttavia si tratta nondimeno di una neutralità “impropria”, in quanto
"particolare">, poiché " non viene in questione una neutralità in senso assoluto, bensì una neutralità la quale
è tale che si esaurisce nell'ambito della pubblica amministrazione: dell' osservanza di essa l’autorità
decidente non “risponde” infatti se non nell'ordine amministrativo.
Si può, inoltre, estendere ad esse anche la considerazione che la finalità della funzione in parola è quella di
evitare che la controversia insorta nel settore affidato alla cura dell' autorità "dilaghi nell'ordinamento
generale prima che ne sia stata tentata la risoluzione in via "di giustizia", in seno allo stesso ordinamento
particolare.
Si comprende, perché data la riferita finalità della funzione, è l' ambito in cui essa, viene esplicata, è lo
stesso ordinamento a configurarla come neutralità “impropria”>, e, pertanto, coerentemente e non
considera come inoppugnabili le decisioni amministrative di cui trattasi, e, non diversamente degli atti in cui
si estrinseca la funzione amministrativa, non le esenta dal sindacato giurisdizionale>
In definitiva, dal momento che non vi sono poteri delle Autorità sottratti alla giustiziabilità in sede
giurisdizionale che è caratteristica del regime tipico della funzione amministrativa di carattere “giustiziale”,
risultando non accoglibili le ricostruzioni che tendono a configurarle come “giudiziarie” o “paragiudiziarie”.

4. L’indipendenza
In dottrina, discutendo del fenomeno delle autorità indipendenti, si è giustamente affermato che l' aggettivo
"indipendente" ha <un significato solo stipulativo, peraltro ancora consolidato sul quale basta intendersi con
chiarezza, così da evitare equivoci", è che, segnatamente, nell' espressione recente è predicato con
riferimento ad <organizzazioni statali dotate di particolari caratteristiche relazionali con l'autorità di governo,
tali da sottrarle (da ogni) "ingerenza" di quest'ultima, pur essendo esponenziali non di ambito di interesse
proprio ma adibite alla cura di interessi fatti propri allo Stato>.
In tal senso, quindi, l'indipendenza si articolerebbe sul duplice piano: organizzativo, come sottrazione
all'ingerenza dell'<apparato di governo>, è funzionale come sottrazione all'ingerenza degli <atti tipici nei
quali esso si esprime>. Essa andrebbe rilevata attraverso alcune caratteristiche che sono sempre presenti,
sia pure con intensità diversa, raggruppabili in tre categorie: a) capacità di determinare la propria
organizzazione (disegno organizzativo; personale; contabilità) con il solo vincolo del rispetto della legge, ma
senza soggezione al potere regolamentare in materia di organizzazioni attribuito al governo; b) capacità di
determinare la propria azione nell'esercizio nei poteri attribuiti dalla legge, anche mediante l'emanazione
degli atti di normazione secondaria senza soggezione al potere regolamentare è direttivo dell' autorità di
governo: c) una serie di qualità in capo ai soggetti persone fisiche titolari degli uffici di vertice (nel senso di
<caratteristiche di stato giuridico>, e cioè: <procedimento di nomina; durata in carica; etc.) consistenti in
un insieme di “accorgimenti” studiati al fine di mettere al riparo le persone fisiche preposte alla titolarità da
influenze esterne, e ciò "garanzia" dell' effettivo funzionamento di due ordini di capacità. Sulla base di
rispettivi disegni legislativi rivelano la loro vocazione a tale indipendenza la Banca d'Italia, la Consob ,
l'ISVAP, L' antitrust, L'autorità per la vigilanza sui contratti pubblici; il garante per la privacy e le autorità di
regolazione dei servizi di pubblica utilità. Per ciascuna di esse può ritenersi esistente almeno un minimum
delle caratteristiche di indipendenza afferenti a ciascuna delle tre categorie anzidette, tale da poterne
affermare una significativa capacità di determinare la propria organizzazione e la procreazione senza
soggezione al potere regolamentare direttivo del governo.
In particolare, sotto il profilo organizzativo, quanto a quella per la vigilanza sui contratti pubblici, rivela a tal
fine che l' apposito ruolo del personale dipendente dell'autorità sia istituito con decreto del presidente del
Consiglio dei Ministri, sebbene ciò avvenga <su proposta dall'autorità>.
Con riferimento alla Consob, infine, viene in rilievo, quale "imperfezione", il preesistente controllo preventivo
di (mera) legittimità del presidente del Consiglio dei Ministri da esercitarsi sentito il Ministro del tesoro, sui
regolamenti di organizzazione e funzionamento.
Ad ogni modo per l' approvazione è previsto il meccanismo del silenzio assenso nel termine di 20 giorni dal
ricevimento delle relative deliberazioni di adozione dei regolamenti.
Sotto il profilo funzionale la Banca d'Italia, nell' esercizio delle funzioni di vigilanza bancaria, soggiace, in una
certa maniera, a poteri regolamentari è direttiva del comitato interministeriale per credito e il risparmio del
Ministro del tesoro. Il CICR, Inoltre, è competente a conoscere dei reclami proposti "contro i provvedimenti
adottati dalla Banca d'Italia" nell' esercizio dei medesimi poteri.
Quanto all'antitrust da un lato il potere governativo di stabilire <procedure istruttorie garantiscono gli
interessati la piena conoscenza degli atti istruttori, il contraddittorio e la verbalizzazione> e, dall'altro
soprattutto quello di determinare <in linea generale e preventiva i criteri sulla base dei quali l'autorità può
eccezionalmente autorizzare, per bene rilevanti interessi generali dell'economia nazionale nell'ambito
dell'integrazione europea, operazione di concentrazione vietate sempreché esse non comportino la
eliminazione della concorrenza dal mercato o restrizioni alla concorrenza non strettamente giustificate dagli
interessi generali predetti>.
Del resto l'indipendenza della banca centrale nazionale nonché dei suoi organi decisionali e tuttora imposta
dalla disciplina comunitaria.
In via generale, non bisogna, pensare che la riconducibilità della nomina al governo sia un elemento in grado
di compromettere necessariamente il carattere di indipendenza dell' Autorità. Nel definire lo stato giuridico
dei titolari degli organi di vertice infatti vi sono altre regole che pure possono, a secondo dei casi e se
adeguatamente "calibrate", porre sufficientemente arrivarono i titolari dell'organo da influenze esterne. Del
resto si dovrebbe concludere, paradossalmente, per l'assenza di indipendenza degli organismi che in
Inghilterra e negli Stati Uniti sono quasi sempre di nomina presidenziale governativa.
Si accennato che indottrina si tende generalmente a negare, salvo che per la Banca d'Italia, la Consob e
L’Isvap la personalità giuridica delle figure soggettive in esame, qualificandola come organi dello Stato. Ci
sono, tuttavia, anche evidenziate norme che inducono, invece, ritenere la sussistenza di una certa autonomia
patrimoniale per alcune di esse.
Rammentando l'autorevole insegnamento secondo cui ogni figura soggettiva è creata dall' ordinamento,
essenzialmente, "in vista dell'ottenimento di certe imputazioni giuridiche, perché la persona giuridica non è
che una figura soggettiva a cui la norma dell'ordinamento giuridico, portando il procedimento di ipostasi
(concretizzazione di ciò che è astratto) alle sue estreme possibilità, attribuisce una qualificazione di iscrizione
alla più compiuta figura soggettiva pensabile, cioè il soggetto", non si può non riconoscere che anche il
descritto carattere di indipendenza, ove presente, sembra deporre a favore della qualificazione dell'autorità
come persone giuridiche.
Ed invero Stante la loro indipendenza dal governo, sia impossibile ritenere quest'ultimo responsabile del loro
operato si deve peraltro riconoscere che le autorità che godono di tale indipendenza atteggiano come vere e
proprie persone giuridiche, soprattutto che godono anche di autonomia patrimoniale, poiché in tal caso,
perfino sotto il profilo della relativa responsabilità, gli effetti delle attività poste in essere, nelle molteplici
fattispecie, dalle autorità si riflettono in tutto e per tutto su di esse e non già sullo stato persona. Questi
stando, dunque, indipendenza ed autonomia patrimoniale, non si vede, in definitiva, a quali fini possa avere
ancora senso qualificare le figure soggettive considerate come organi dello Stato , e non come vere e proprie
versioni giuridiche.
5. Profili del genus
Al fine di potersi proporre una ricostruzione del genus delle autorità indipendenti occorra risolvere prima il
problema del se esse abbiano natura amministrativo o meno.
Sembra di poter affermare che tutti poteri loro attribuiti sono in ogni caso funzionalizzati alla cura di interessi
super individuali fissati dalla legge, e quindi pubblici, parlato malgrado la loro peculiare "morfologia giuridica"
che si discosta da quella tradizionale per l' interesse "incorporato" dall' amministrazione affidataria del
relativo compito.
A ben vedere, quindi, nessuno dei (tipi di) poteri attribuiti alle autorità in esame presenta caratteristiche di
assoluta anomalia rispetto a quelli già noti ed attribuiti, di volta in volta, alla P.A., a seconda delle specifiche
previsioni di diritto positivo.
Ciò che invece in qualche modo caratterizzando le figure esaminate all'interno del variegato insieme delle
amministrazioni pubbliche, è , appunto, il predicato dell'indipendenza, ovverosia della sottrazione
all'ingerenza del potere governo.
L' indipendenza sembra costituire il principale carattere ricostruttivo del genus di quelle che a questo punto,
sembra si possano, a ragion veduta, definire autorità amministrative indipendenti. Di conseguenza, dalla
categoria rimarrebbe esclusa la commissione per l' accesso ai documenti amministrativi, la quale difetta di
quel minimo di caratteristiche sufficienti ad affermare l' indipendenza.
È noto che delle autorità indipendenti è stata anche proposta una distinzione in species, fondata
essenzialmente sulla diversità dei compiti e delle relative funzioni loro assegnate dalla legge. Tale tesi, che
ha avuto ampia diffusione è nata fondamentalmente dalla riflessione di un autorevole dottrina che, nel
tempo, la precisata e parzialmente aggiornata, anche alla luce dell'evoluzione del dato normativo.
La dottrina e parola, ad una prima riflessione, osservava che, mentre, da un lato, alcune autorità – cc.dd
“garanti” - eserciterebbero "esclusivamente o prevalentemente attribuzione qualitativamente diverse dalle
tradizionali potestà amministrative", e ciò non consistenti in "ponderazione tra interessi diversi altri di
scegliere la misura satisfattiva del bisogno loro affidato", consistendo, piuttosto, le loro funzioni nello
"stabilite" regole o “vegliare" sul rispetto di <regole>; dall' altro, invece le cc.dd. <Autorità Regolatrici,
ancorché iniziano ad avere, soprattutto a favore degli utenti dei servizi pubblici, alcuni attribuzione di questo
tipo> continuerebbero " ad averne altre che vanno diritte a decisione di merito. Si riteneva in conclusione,
<ben possibile che su tale differenza si innestino, grazie una coerenza figlia dell'istinto, tanto le diversità
nella titolarità dei poteri nomina, per le autorità garanti solo organi parlamentari, per le autorità regolatrici
governo e Parlamento, quanto quelle sulla titolarità dell' esercizio delle attribuzioni conferite, in esclusiva e
senza interferire dal governo per le autorità garanti , con intrecci con attribuzioni del governo per le autorità
regolatrice>.
È evidente che la distinzione, fondata sul discrimina esercizio di funzioni amministrative discrezionali, è
fortemente condizionata dalla intrinseca incertezza inserita nel giudizio di "preferenze", con riferimento a
ciascuna autorità, tra tali funzioni e quelle non discrezionali.
Ma le maggiori perplessità devono essere avanzate in relazione al giudizio che in dottrina in parola sembrano
esprimere sulle funzioni "diverse" svolte dalle autorità garanti, che sarebbero consistite in <un'esecuzione
della legge che non è né amministrativa né giudiziale> e da cui sarebbe decisa anche la natura non
amministrativa delle stesse “Autorità garanti”
È significativo che la stessa dottrina in successivi interventi abbia articolato ulteriormente la distinzione,
sfumandone in parte i contorni, in qualche modo riconoscendone, piuttosto che il carattere ricostruttivo-
dogmatico, la natura di rilevazione di una tendenza, dettata talora da <una coerenza figlia dell'istinto> più
che da una precisa e consapevole volontà del legislatore infatti la distinzione viene articolata individuando
almeno tre tipi di autorità. Innanzitutto vi sarebbe <quello incarnato dall' autorità antitrust che ha compiti
esclusivamente di aggiudicazione e non di regolazione del settore di cui si occupa>, o per la quale <il
governo totalmente estraneo alla nomina e sprovvisto di poteri di indirizzo>.
Anche il giudizio sulla natura non amministrativa delle autorità di garanzia e delle relative funzioni e
sostanzialmente rivisto, giungendosi ad affermare, quasi all'opposto, che, stante la diversità <ben potrebbe
risultare che alcune di esse non hanno più nulla di amministrativo, hanno davvero sfondato il muro di una
pur variegata pubblica amministrazione, delle tante varianti che in questo secolo l’ordinamento ha prodotto
nella conformazione delle pubbliche amministrazioni ma una conclusione tanto drastica, qual è l'estraneità
all'amministrazione di tutte le nuove autorità, impone a dir così l'onere della prova a chi la sostiene.
In sintesi in merito all'articolazione in species di quello che pare potersi ricostruire come il generoso delle
autorità amministrative indipendenti, ferma restando in ogni caso la natura "amministrativa" delle singole
autorità e delle rispettive funzioni esercitate, sembra si possa concordare con le conclusioni sul punto della
indagine conoscitiva sull'autorità amministrative indipendenti condotta dalla I commissione permanente della
Camera dei deputati, secondo cui la distinzione finisce <per risultare essere precaria, proprio in
considerazione dell’assommarsi di entrambi i poter:i di regolazione e di garanzia> .
PARTE TERZA – L’AZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Capo 4 “Il potere amministrativo e le attività discrezionali”

L’interesse pubblico nella società complessa (pag. 260): Come sappiamo, fine ultimo e causa esistenziale
della PA è l’interesse pubblico, che essa (la PA) è tenuta a curare. Una volta che questo interesse viene
individuato, esso diviene un interesse specifico. Ma come fa un interesse a divenire pubblico? Non basta,
infatti, che esso sia un interesse che accomuni più persone: è necessario, difatti, che vi sia una fonte
dell’ordinamento giuridico che lo canonizzi come tale, affidandolo in cura alla P.A. (per l’appunto). Quindi,
contestualizzando, a livello definitorio, potremmo dire che è pubblico l’interesse che una fonte
dell’ordinamento formalmente ha canonizzato come tale. / - Anamnesi storica che condiziona,
inevitabilmente, anche la definizione di interesse pubblico: In particolar modo, la contenutistica del macro
concetto amministrativistico di interesse pubblico cambia nel corso della storia, dipendendo, evidentemente,
dalla società caratterizzante lo stesso: cominciamo subito col dire che con il passaggio dallo Stato liberale allo
Stato sociale vi è stato un incremento esponenziale degli interessi pubblici; ciò, ovviamente, non significa che
in passato, nella c.d. società semplice, non vi fossero interessi pubblici o che ve ne fossero pochissimi, ma
significa, bensì, che, a determinare la “semplicità” della società, v’era il fatto che il potere era concentrato
nelle mani di poche persone e, di conseguenza, gli interessi significativi (pubblici) erano solo quelli che
venivano sbandierati dai gruppi detentori del potere. Passano gli anni e cambia, per forza di cose, il modo di
pensare e la società, ed ecco che assistiamo all’avvento dello Stato sociale (si parla di passaggio dalla società
semplice allo società complessa, o, per meglio dire, all’avvento dello Stato pluriclasse), dove, essendosi
ampliata la cerchia di soggetti con accesso al potere, emergono nuovi interessi (già esistenti in passato, ma
oscurati dai pochissimi gruppi di potere) che hanno acquisito una considerazione normativa: è in questa
prospettiva, allora, che l’interesse pubblico ha subito una serie di trasformazioni, perché la complessità della
società ha determinato una complessità degli interessi, o, per meglio dire, una eterogeneità degli interessi. /
- L’interesse pubblico, oggi, nella società complessa, e trasformazioni che ha determinato sul sistema: Ora,
ragionando in termini di “matematica del diritto”, possiamo ben dire che l’eterogeneità degli interessi (in
questa società complessa odierna) porta ad una fisiologica eterogeneità di competenze [poiché
aumentando (e facendosi complessi) gli interessi pubblici da curare, aumentano inevitabilmente anche gli
organi preposti alla cura di questi interessi] che porta, seguendo la linea di questa equazione concettuale, ad
un problema (serio) di individuazione dell’interesse pubblico. Tanto è vero che, oggi giorno, a conferma della
tesi che stiamo portando, ad avvallare questo ragionamento, con la nascita delle autonomie locali, sono
subentrati ulteriori interessi pubblici e, quindi, accanto agli interessi di cui si fa carico lo Stato, vi sono infatti
anche altri interessi pubblici di cui si fanno carico, evidentemente, gli enti territoriali locali (per non contare
poi, tra l’altro, se proprio vogliamo, quelli di cui si fa carico l’UE). Quindi, a conclusione, la fonte di
individuazione degli interessi pubblici non è più solo lo Stato, trovando essi (gli interessi pubblici) genesi in
relazione a tutte queste nuove realtà (ecco perché parlavo di problema nella concreta individuazione
dell’interesse pubblico)  Da ciò evince, gioco forza logico dixit, che la trasformazione della contenutistica
dell’interesse pubblico ha determinato una successiva trasformazione: - da un lato, la trasformazione
dell’organizzazione della PA; - dall’altro, la trasformazione dell’attività stessa della PA. /
* Pensiero, concatenato al Capitolo 4 tout court, del prof.re:
Ab origine, abbiamo detto che un interesse diviene pubblico quando una norma lo qualifica come tale;
bisogna tener presente che l’interesse pubblico specifico individuato dalla norma diviene interesse pubblico
concreto attraverso la stessa attività autoritativa della PA, che trasforma in concreto quanto la fonte
dell’ordinamento (la legge, dietro la quale si cela la democraticità e quindi la voce della maggioranza) ha
canonizzato. Per meglio capire, utilizzando le parole di Guiduccio, l’attività autoritativa della PA consiste
“nella trasformazione del potere conferito dalla norma in atto, attraverso quell’insieme di atti e fatti,
concatenati fra loro, che definiamo procedimento amministrativo”.
L’attività della PA sicuramente non può mai essere libera, essendoci il principio di legalità. Potrà qualificarsi,
al massimo, come un’attività vincolata o discrezionale. Quando ci troviamo nei casi dell’attività discrezionale,
la garanzia di non assoluta libertà dell’attività della PA discende dal fatto che 1) La PA è sempre legata
all’interesse pubblico, 2) Esistono i principi di imparzialità e buon andamento ex art. 97 della Costituzione.

PRINCIPI DI IMPARZIALITA’ E BUON ANDAMENTO (ART. 97 COST.) / concetti e riscontri nella


giurisprudenza (da pag. 265 a pag. 283):
- Definizioni e contenutistica essenziale dei 2 “decodificatori costituzionali”: I concetti di imparzialità e buon
andamento li ritroviamo, anzitutto, all’art. 97 della Carta, quando viene esplicato che “i pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
della amministrazione”. Andiamo a concettualizzare la contenutistica (non semplice) di questi 2
fondamentali “decodificatori costituzionali” nella loro valenza (non strutturale ma …) funzionale , nel
senso che essi servono a far capire com’è che deve agire specificatamente l’Amministrazione Pubblica:
* IMPARZIALITA’: in passato era un concetto interpretato come “estraneità della PA dagli apparati politici”
(concezione erronea). La preoccupazione di fondo che aveva mosso il Costituente era di evitare che
accadesse quanto avveniva nel periodo fascista, dove la PA era apparato servente ad un unico soggetto (il
governo del Duce); appunto, per evitare qualsiasi ingerenza politica, si interpretava l’imparzialità come
impermeabilità della PA da qualunque interesse politico. Oggi, venuto meno, almeno apparentemente,
questo pericolo, si tende ad interpretare questo principio in modo diverso: possiamo definire l’imparzialità
come “non arbitraria pretermissione di alcuno degli interessi coinvolti nell’esercizio del potere
amministrativo funzionalizzato alla realizzazione in concreto dell’interesse pubblico primario, o
specifico, dalla legge affidato alla cura della PA”. Per meglio capirci, la P.A. deve necessariamente prendere
in considerazione tutti gli interessi coinvolti, siano essi pubblici o privati, che potenzialmente concorrano,
all’interno di un procedimento amministrativo, alla definizione dell’interesse pubblico concreto.
* BUON ANDAMENTO: gli studiosi ed i ricercatori collegano il principio di buon andamento al concetto di
efficienza. Nella scienza economica, infatti, per efficienza si intende il raggiungimento del massimo risultato
con il minimo costo. In che termini allora essa si veste della causa amministrativa? Per buon andamento
della PA si intende, allorché, definendolo, il: “massimo profitto sociale con il minimo sacrificio sociale” (G.
Clemente di San Luca). Ciò vuol dire che la PA avrà operato secondo buon andamento quando avrà ottenuto
la massima esternazione dell’interesse pubblico specifico con il minimo sacrificio degli interessi secondari.
- Interdipendenza reciproca dei 2 decodificatori costituzionali: In passato si discuteva se fossero concetti
separati oppure collegati fra loro. Oggi non appare esservi dubbio sul fatto che siano concetti collegati,
addirittura interdipendenti (come vedremo anche dalla analisi del riscontro giurisprudenziale dei 2 principi
costituzionali amministrativistici. /
- Nella giurisprudenza costituzionale: Abbiamo, come anticipato in titolo, dei riscontri giurisprudenziali per
quanto concerne la interpretazione di questi 2 decodificatori costituzionali del sistema amministrativistico. Si
possono menzionare alcune pronunce della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato che valgono a
suffragare l’interpretazione dell’articolo 97 (della Carta) secondo quanto sostenuto dal prof: secondo alcune
pronunce della Corte Costituzionale, dal 1962 a seguire, emerge una particolare visione dell’art. 97, quale
norma che investe il funzionamento della PA nel suo complesso. Il fatto che numerose sentenze della
Consulta analizzino l’art. 97 come un unicum, senza distinguere tra i due principi, sembra rafforzare
quell’idea che vede la nozione di imparzialità andare di pari passo con quella di buon andamento, facendo
così interagire i due principi. Esempio di quanto ciò appena detto, sempre sul versante della giurisprudenza
costituzionale, è l’analisi di una pronuncia del ’66, in cui si asserisce che “al fine di assicurare il buon
andamento dei pubblici uffici, il legislatore può legittimamente disporre che determinati organi collegiali
vengano composti anche con la partecipazione di membri che provengano da gruppi sociali operanti nel
settore, al fine di rendere possibile una più efficiente rilevazione degli interessi”: sembra quasi, questa
pronuncia, dare al buon andamento un contenuto che sin qui si è ritenuto tipico della imparzialità, e ciò ci fa
capire come questi 2 macro concetti siano tra loro complementari, vicinissimi, concatenati,
interdipendenti funzionalmente rispetto all’unico scopo dell’Amministrazione e cioè perseguire
l’interesse pubblico. - - Sentenza Corte Cost. 453/1990: stessa “filastrocca” vien fuori dall’analisi di una
sentenza della Corte Costituzionale del 1990 (n. 453), sentenza in cui la Corte si è espressa sulla legittimità
costituzionale delle norme di alcune leggi siciliane disciplinanti la composizione delle commissioni di pubblici
concorsi, norme nei confronti delle quali si lamentava che non fosse prevista una commissione di
componenti “esperti”, di componenti “tecnici”, e si lamentava, inoltre, che la nomina dei commissari
giudicanti fosse determinata in base alla rappresentanza politica di maggioranza e minoranza in seno
all’organo esponenziale territoriale. Il Giudice supremo nonostante affermi in modo perentorio che
nell’imparzialità si esprime la distinzione più profonda tra politica ed amministrazione, esclude, ciò
nonostante, per l’appunto, che questo comporti che le commissioni di concorso non possano essere formate
attraverso una scelta operata dall’organo rappresentativo dell’ente territoriale (anche se sicuramente è
necessario che il concorso deve comunque puntare alla selezione dei candidati migliori, e per far questo è
comunque ovviamente necessario che la presenza dei tecnici nella commissione di valutazione sia per lo
meno esistente, se non prevalente, ma non esclusiva), così facendo privilegiando il senso che noi qui abbiam
dato all’articolo 97 costituzionale. - - Conclusioni definitorie: concludendo, per quanto concerne i riscontri
giurisprudenziali costituzionali dei concetti sotto analisi, possiamo dire che la diversa conclusione cui si
perviene ragionando nel modo opposto a quello qui adottato, peraltro, si spiega col suo trovare origine, e
genesi, proprio nella idea che l’imparzialità coincida con la mera impermeabilità alla pressioni politiche,
concezione che, abbiam detto, deve ritenersi insufficiente, errata, perché esclude dalla nozione, a priori, la
necessarietà della considerazione di tutti gli interessi concretamente in gioco e, per altro verso, sbagliata
perché comunque la PA, al momento della scelta, non può che essere parziale. Ecco perché, in ultimissimo
luogo definitorio, non è “pazzoide” una interpretazione (come quella data da Guido Clemente di San Luca)
che apra spazi per una lettura dell’art. 97 cost. che assegni al buon andamento il significato di efficienza, ed
alla imparzialità un valore più pregnante di quello che, meramente, la riduca ad eguaglianza, fermo restando
che la PA deve conservare il suo tradizionale carattere autoritario, dove l’autorità deve avere dei limiti
(altrimenti sarebbe despotismo), nel senso che il limite è un valore semantico coessenziale al concetto di
autorità.
- Nella giurisprudenza amministrativa: Nel giudice amministrativo si riscontra invece una maggior timidezza,
soprattutto quando si deve valutare l’azione della PA in relazione ai 2 principi ex art 97 Cost.
Per ciò che concerne il buon andamento, sembra mancare nel giudice un efficace controllo attraverso l’uso
dell’eccesso di potere ; per quel che riguarda l’imparzialità, ben può dirsi incerta l’affermazione della
necessità di prendere in considerazione tutti gli interessi coinvolti. / ** Sulla imparzialità: il Consiglio di
Stato ha espressamente ribadito che il principio di imparzialità dell’art. 97 Cost. non può essere invocato
quando “le norme chiamate in causa non operano discriminazioni, ma disciplinano in maniera articolata
situazioni niente affatto identiche” ; si è, in pratica, ben lontani da quella definizione di imparzialità che qui si
è ritenuto di accogliere, dato che, come detto, secondo il giudice amministrativo, infatti, non è imparziale
l’azione che trovi fondamento nella più ampia conoscenza e non arbitraria pretermissione delle situazioni
soggettive da essa coinvolte, bensì quella che nella scelta eviti di cagionare disparità di trattamento. MA
ATTENZIONE, perché bisogna esplicare che vi sono stati segnali di interessanti sviluppi interpretativi,
allorquando si considera il principio generale secondo cui bisogna aumentare al massimo la conoscenza delle
varie posizioni coinvolte (questo principio, detto “del giusto procedimento”, non è ben visto dal Consiglio di
Stato stesso che, coerentemente a quanto affermava, ab origine, sulla definizione di imparzialità, esplica che
questo non è un principio costituzionalizzato e quindi non prioritario) dove, allora, cambiano anche “le carte
in tavolo”, perché per fattualizzare un giusto procedimento amministrativo bisogna, inevitabilmente, trovare
la necessaria mediazione degli interessi che consente la individuazione di quello che può fregiarsi della
“etichetta” di interesse pubblico, ed ecco spiegato perché nella più recente giurisprudenza amministrativa si
registra che il significato qui attribuito al principio di imparzialità sembra progressivamente farsi strada,
specie prendendo come riferimento TAR Calabria Catanzaro, e TAR Lazio Roma, dove nelle sentenze non si fa
altro che ripetere giuridicamente quanto appena riferito circa il giusto procedimento e la necessaria
mediazione degli interessi coinvolti per fattualizzare esattamente il primo, il giusto procedimento. - - La
tematica della motivazione: con riferimento al ruolo del procedimento amministrativo nell’enucleare
l’interesse pubblico nel modo più pienamente corrispondente al vero, si rivela, in tutta la sua significatività, la
tematica della motivazione degli atti amministrativi; con la legge 241 del 1990, il Legislatore ha fatto proprie
le istanze della dottrina orientata ad interpretare l’art. 97 nel significato in questa sede accolto; il tutto è
rintracciabile specie nelle decisioni dei giudici amministrativi di primo grado, anche se non mancano decisioni
in dissonanza, specie in TAR Marche, anche se va comunque rilevato che il contraddittorio (che scaturisce
proprio dalla motivazione del provvedimento; viene, insomma, presentato sulla base di una motivazione)
non è solo una garanzia per il privato, ma è una modalità da seguire ai fini della stessa individuazione
dell’interesse pubblico e, quindi, così come chiaramente esplica il C.d.S., la funzione della partecipazione del
cittadino nel procedimento amministrativo attraverso la presentazione di osservazioni e controdeduzioni è
quella di far emergere gli interessi, anche spiccatamente privati, che sottostanno all’azione amministrativa
discrezionale, in modo da orientare correttamente, ed esaustivamente, la stessa scelta della PA, attraverso
una ponderata valutazione di tutti gli interessi, pubblici e privati che siano, in gioco per il raggiungimento
della miglior soddisfazione possibile dell’interesse pubblico. La necessità della motivazione, in quanto
funzionale all’attuazione in concreto dei principi ex art. 97 cost., è stata ribadita dalla Corte Costituzionale nel
2010 che ha esplicato, a chiare lettere, che la esigenza di conoscibilità dell’azione amministrativa, anche essa
intrinseca ai principi di buon andamento ed imparzialità, è fondamentalmente necessaria, esigenza (questa)
che si realizza proprio attraverso la motivazione, in quanto strumento volto ad esternare le ragioni ed il
procedimento logico seguiti dall’autorità amministrativa.
P.S. sulla imparzialità analizzata dalla giurisprudenza amministrativa: la giurisprudenza amministrativa
attribuisce, inoltre, al principio di imparzialità la ulteriore finalità di anticipare i possibili conflitti tra privato e
PA, in considerazione del fatto che i pubblici poteri debbono valorizzare il metodo dialettico come forma
inderogabile di esercizio della funzione amministrativa. / ** Sul buon andamento: con riferimento al
principio di buon andamento, contributi del giudice amministrativo alla sua definizione contenutistica
possono trovarsi nelle decisioni secondo le quali: “nel dovere di buon andamento della PA va ricompreso il
rispetto delle legittime aspettative e delle posizioni dei terzi, nei confronti dei quali il comportamento
dell’Amministrazione non deve apparire contraddittorio” e, ancora, “non confligge con la esigenza del buon
andamento e dell’imparzialità della PA la limitazione dell’accesso a personale che abbia acquisito qualificate
esperienze, maturate nell’ambito degli stessi settori degli Enti locali”. Queste esplicazioni, ambedue del
Consiglio di Stato, mettono in evidenza la considerazione unitaria dei due principi, come a voler significare il
loro indissolubile collegamento (come già detto 100 volte); la linea interpretativa tesa a considerare i 2
principi in modo unitario va, per altro, di pari passo con la tendenza a ritenere che l’imparzialità informi di sé
la fase decisoria (piuttosto che quella istruttoria). In ogni modo, parlando concretamente e riconfermando
quanto già anticipato, moltissime sentenze del Supremo Collegio amministrativo esplicano, a chiare lettere,
la definizione di buon andamento qui assunta, e cioè che buon andamento significa “necessità di ottenere il
massimo dell’interesse pubblico specifico col minimo pregiudizio di tutti gli altri interessi coinvolti”. Persino il
tribunale amministrativo regionale Molise Campobasso ha, praticamente, nettamente affermato, in una
controversia relativa alla “caduta” dei ricavi dell’attività commerciale a pro della costruzione di un opera
pubblica, che l’azione amministrativa, essendo essa tenuta ad agire secondo buon andamento (97
costituzionale dixit), deve sacrificare pochissimo le posizioni soggettuali secondarie (in questo caso di specie,
gli interessi dei commercianti) per la piena realizzazione dell’interesse primario (in questo caso di specie, la
costruzione dell’opera pubblica).
- Conclusioni sul contributo definitorio della giurisprudenza circa i 2 principi di imparzialità e di buon
andamento (pag. 282): In definitiva, l’esame della giurisprudenza costituzionale e amministrativa non
sembra smentire che imparzialità e buon andamento siano strettamente collegati, interdipendenti
funzionalmente e concettualmente, funzionalmente e strutturalmente connessi indissolubilmente.
Inoltre, si evince come la giurisprudenza interpreti l’imparzialità come necessità che la PA valuti, insieme
all’interesse primario, tutti gli altri possibili interessi secondari; e il buon andamento, invece, è
interpretato come efficienza, ovvero come il raggiungimento del minimo risultato con il minimo sforzo,
compressione minima degli interessi secondari a pro di una espansione massima dell’interesse pubblico
principale. Come tale, rispetto all’imparzialità, deve considerarsi incostituzionale una legge che impedisca
irragionevolmente alla PA di conoscere gli interessi secondari presenti in concreto nell’esercizio delle sue
funzioni. Analogamente, rispetto al buon andamento, sarebbe incostituzionale una legge che impedisse
irragionevolmente alla PA di risparmiare risorse non indispensabili al fine di raggiungere il risultato voluto
dalla legge.

I tentativi di riforma costituzionale per ridefinire i rapporti tra politica e amministrazione (pag.283): Da tempo
la dottrina propende per una riforma della Carta che punti ad una vera e propria novella dell’impianto normativo
costituzionale della PA, ed uno dei principali obiettivi da doversi conseguire consiste nel liberare la burocrazia e
l’amministrazione dalla morsa del potere politico, ottenendo in tal modo una burocrazia non subordinata alla
politica e non soggetta ad interferenze esterne, una burocrazia retta dal principio di imparzialità, di modo che alla
direzione politica spetta, alla fin fine, determinare gli indirizzi entro i quali l’amministrazione deve operare e la
gestione amministrativa svolga, di per sé sola, il suo compito volto al conseguimento dell’interesse pubblico, senza
alcun tipo di ingerenza politica. Questa tesi dottrinale non convince (e il prof.re ne è in disaccordo) in quanto non
pare fattibile attribuire ad una classe di specialisti dell’amministrazione una autorità che risulti scollegata
completamente dall’indirizzo politico; andare incontro all’interesse pubblico significa andare incontro alle
manifestazioni di bisogno dei cittadini e non significa, come la dottrina vuole far credere, sottrazione ai cittadini di
spazi, in favore di una amministrazione tecnicamente accorsata; per conoscere i bisogni, che continuamente
cambiano, è necessario aumentare le occasioni di partecipazioni della politica, favorendo la più completa osmosi
fra società civile e società istituzionale. Concludendo, secondo lo scrittore rimane indispensabile mantenere,
allorché, un congruo margine di rappresentatività della struttura, e non si può, nella maniera più assoluta, affidare
il potere di scelta, in ambito amministrativo, ad organi burocratici o a magistrati vincitori di un concorso.
GLI ORIENTAMENTI della GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA sul CONTENUTO DEFINITORIO delle
DIVERSE DISCREZIONALITA’ (da pag. 286 a pag. 292): - Nozioni definitorie dei diversi tipi di
discrezionalità:
Discrezionalità amministrativa pura: l’attività discrezionale non è libera, giacché è sempre funzionalizzata al
perseguimento di un interesse pubblico specifico; ma nemmeno può dirsi vincolata, giacché essa può e deve
spaziare tra le diverse soluzioni possibili di contemperamento fra l’interesse pubblico primario e gli interessi
secondari che con quello interagiscono nella fattispecie concreta; la discrezionalità amministrativa, per ciò, si
colloca nel momento finale del percorso logico che la PA deve compiere per effettuare la scelta di
realizzazione dell’IPS, alla fine del procedimento amministrativo, non influendo sui momenti precedenti,
identificabili nella conoscenza e nella valutazione dei presupposti dell’azione amministrativa.
Discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: sovente ricorre l’ipotesi della cd. discrezionalità
amministrativa a contenuto tecnico dove, in tal caso, l’oggetto della scelta verte sulla opposizione fra le
diverse possibili soluzioni tecnico scientifiche del contenuto provvedimentale.
Discrezionalità tecnica: diversa dalla discrezionalità amministrativa (sia pura, sia a contenuto tecnico) è la
discrezionalità tecnica, che ricorre laddove, in sede preliminare rispetto all’adozione del provvedimento, la
PA, in ragione della incertezza definitoria connaturale alla materia cui di volta in volta afferisce la verifica
della ricorrenza o meno dei presupposti della sua azione (incertezza dovuta alla opinabilità scientifica della
questione), deve scegliere il criterio che reputa più idoneo per effettuare la verifica in parola.
Mero accertamento tecnico: come la discrezionalità tecnica, anche il mero accertamento tecnico ricorre
nella fase preparatoria del procedimento; in questo caso, al pari di quello precedente appena analizzato, la
disciplina normativa impone alla PA di verificare la sussistenza dei presupposti della sua azione; tuttavia,
diversamente dal caso precedente, siffatto acclaramento scientifico tecnico si presenta in sé certo ed
inopinabile, consistendo perciò (il mero accertamento tecnico), alla fine della fiera, in una attività
amministrativa vincolata.
Fenomeno dello scivolamento: resta da ricordare il fenomeno del cd. scivolamento dalla discrezionalità
tecnica alla discrezionalità amministrativa. L’ipotesi ricorre laddove, la morfologia della norma contemplando
uno spazio discrezionale soltanto nella fase di acclaramento dei presupposti, l’autorità amministrativa sfrutta
detto spazio al fine di compiere, nella fase decisoria, una scelta di contemperamento fra interessi, che,
secondo legge, le sarebbe preclusa (poiché la norma configura come vincolato, e non discrezionale, il
contenuto del provvedimento). /
- Orientamenti giurisprudenziali sul contenuto definitorio delle diverse discrezionalità:
- Giurisprudenza amministrativa sulla distinzione fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica:
alla luce delle recenti pronunce della giurisprudenza amministrativa, si può affermare che la distinzione
concettuale tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica è stata acquisita. Rimembriamo, a tale
proposito, una pronuncia del 2006 del TAR Emilia Romagna Bologna in cui praticamente si afferma la
distinzione sopra riferita, a livello nozionistico, tra i 2 tipi di discrezionalità, allorquando si sentenzia che
“diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non coinvolge scelte di
opportunità amministrativa, bensì concerne una valutazione antecedente ad essa che riguarda l’analisi e la
valutazione dei fatti che sono incerti, in quanto opinabili scientificamente ; va quindi nettamente distinto il
concetto di opportunità, che attiene alla cura degli interessi pubblici coinvolti dall’azione amministrativa, da
quello di discrezionalità tecnica che attiene alla valutazione dei presupposti delle scelte ancorché effettuate
alla luce di criteri tecnici e scientifici opinabili ; occorre, allorché, tracciare una netta differenza fra i 2 tipi di
discrezionalità, dato che, ripetiamolo nuovamente, la discrezionalità tecnica si risolve in una attività di
giudizio (condotta attraverso la sola acquisizione e valutazione dei dati della realtà) mentre la discrezionalità
amministrativa è una sorta di manifestazione di volontà della PA, una vera e propria scelta riservata alla
Amministrazione e, per questo motivo, nemmeno sindacabile dal giudice amministrativo”. Confermano,
questa ormai acclarata differenza concettuale, TAR Trentino Alto Adige Trento e il Consiglio di Stato a ridosso
degli anni 2010.
- Giurisprudenza amministrativa sulla distinzione fra discrezionalità tecnica e mero accertamento tecnico:
altrettanto definita sembra la distinzione concettuale tra discrezionalità tecnica e mero accertamento
tecnico. Il TAR Calabria Catanzaro, con una pronuncia del 2010, ha precisato che “la giurisprudenza
amministrativa ammette il sindacato sulla discrezionalità tecnica, sia attraverso controllo estrinseco, che
attraverso controllo intrinseco. Non è però possibile postulare un controllo definito di “tipo forte”, con il
quale l’autorità giudiziaria sostituisce la valutazione tecnica svolta dall’amministrazione con una propria e
diversa determinazione, in quanto questa operazione è impedita tassativamente dal principio di separazione
tra funzione amministrativa e funzione giurisdizionale, che non consente (questo principio) al giudice di
incidere su un potere di valutazione riservato all’amministrazione dotata delle necessarie competenze
tecniche e specialistiche nel settore di riferimento. Il controllo può, invece, essere pieno quando l’attività
richiesta all’amministrazione non presuppone la spendita di discrezionalità tecnica ma di meri accertamenti
tecnici, che implicano la verifica di dati certi non suscettibili di apprezzamenti opinabili”. Nel 2009, alla stessa
stregua, il TAR Lombardia Milano sentenzia che “la discrezionalità tecnica ricorre quando l’amministrazione
deve accertare un fatto sulla scorta di una regola tecnica cui la norma giuridica conferisce rilevanza diretta o
indiretta. L’applicazione della regola tecnica comporta valutazioni suscettibili di apprezzamento opinabile
qualora la stessa rinvia a concetti imprecisi, appunto opinabili. Il carattere non obiettivo dell’accertamento
differenzia la discrezionalità tecnica da quella del mero accertamento di un fatto”.
- Giurisprudenza amministrativa sul fenomeno del cd. scivolamento dalla discrezionalità tecnica alla
discrezionalità amministrativa: il giudice amministrativo, per lungo tempo nella sua costante
giurisprudenza, non ha tenuto concettualmente distinte discrezionalità amministrativa e discrezionalità
tecnica perché le ha assimilate ambedue in un unico concetto di merito amministrativo; questa propensione
si spiega con la esigenza, da parte del giudice, di individuare i limiti del suo possibile intervenire, del suo
possibile sindacato, sulle decisioni della PA (praticamente, ripetiamolo con termini masticabili, al giudice
risultava inutile distinguere i 2 tipi di discrezionalità, in quanto a lui interessa sapere se può sindacare o meno
in una classe di fattispecie ed in quanto in entrambe le ipotesi il suo sindacato si può esprimere
consistentemente, a prescindere dalla tipologia specifica di discrezionalità). Seguendo questa linea
concettuale, il giudice amministrativo ha sovente considerato applicabili i principi ex art. 97 cost. anche alla
discrezionalità tecnica, e proprio questa attitudine fa prospettare il fenomeno (erroneo, illegittimo) dello
scivolamento  Il fenomeno dello scivolamento si verifica laddove la PA illegittimamente scivoli dalla
discrezionalità tecnica a quella amministrativa, ed il giudice si permette di ritenere applicabili i principi in
parola anche a fattispecie qualificabili come di sola discrezionalità tecnica. L’attitudine in parola è
assolutamente impropria in quanto l’attività di acclaramento dei presupposti dell’azione non appare
assolutamente assimilabile concettualmente all’attività di scelta del contenuto provvedimentale (= infatti
solo per questa ultima attività dovrebbero valere i principi ex art. 97 cost. e non già anche per l’attività di
acclaramento dei presupposti dell’azione, che è, abbiam capito, niente altro che discrezionalità tecnica, cui
non debbono categoricamente potersi applicare i principi di imparzialità e buon andamento).
Schematicamente, si può ben dire che: applicazione dei principi ex art. 97 cost. = SOLO nei casi di
discrezionalità amministrativa  costantemente il giudice ritiene applicabili i principi in parola anche nei casi
di discrezionalità tecnica  La PA, seguendo questa erronea applicazione giurisprudenziale, gode, e fa
confondere, spesso e volentieri, discrezionalità tecnica ed amministrativa, scivolando dalla prima alla seconda.
Nella giurisprudenza recente amministrativa, sembra potersi rilevare una tendenza particolare, tendenza
nascente dal fatto che si vuole evitare il fenomeno dello scivolamento: la discrezionalità tecnica non viene
considerata come parte del merito amministrativo, e quindi solo la discrezionalità amministrativa risulta
essere parte del merito amministrativo ; il Consiglio di Stato, nel 2010, con riguardo all’anomalia di una
offerta resa in una procedura ad evidenza pubblica, si è espressa sulla discrezionalità tecnica ed ha, invero,
confermato che, oggi, non deve più esistere quella equazione “discrezionalità tecnica = merito insindacabile
dalla giurisdizione”, in quanto oggi è pacifico che quand’anche si trattasse di discrezionalità tecnica può
svolgersi il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della PA, in base alla attendibilità delle
operazioni tecniche (sotto il profilo della loro adeguatezza, correttezza).
- Giurisprudenza sulla discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: l’ipotesi di discrezionalità
amministrativa a contenuto tecnico va tenuta fortemente distinta dall’ipotesi di discrezionalità tecnica (la
prima attingendo al merito amministrativo, diversamente dalla seconda - la prima è una scelta, per così dire,
“volitiva” dell’amministrazione, la seconda no), e questa distinzione è confermatissima da numerose
pronunce giurisprudenziali, soprattutto in relazione a controversie riguardanti le procedure ad evidenza
pubblica, indette per la realizzazione di un’opera attraverso la selezione di più soluzioni progettuali tecniche:
laddove la PA aggiudichi un appalto scegliendo, tra le diverse soluzioni progettuali proposte, quella che
meglio consente di realizzare l’interesse pubblico, le relative valutazioni tecniche influenzeranno,
evidentemente, il provvedimento finale di aggiudicazione. Con riguardo al cd. project financing, per la cui
procedura la PA ha il potere di selezionare, tra più soluzioni progettuali, quella che ritiene maggiormente
rispondente all’interesse pubblico, TAR Campania Napoli, nel solito 2010 (dite sempre 2010 per quanto concerne la
data delle pronunce dei TAR  ) , afferma che “nel valutare la rispondenza al pubblico interesse della proposta
degli aspiranti promotori, la PA esercita il proprio potere discrezionale in alto grado”, e ciò significa dire:
ampia discrezionalità e sostanziali valutazioni di merito, per cui l’amministrazione provvede ad individuare,
tra le proposte progettuali e tecniche delle ditte di edilizia e di costruzione, quelle che ritiene di pubblico
interesse, sulla base di valutazioni strettamente interne, quindi sulla base di una scelta “volitiva” propria ; il
Consiglio, ovviamente, non ignora che ci possa essere un proprio sindacato di legittimità sulla faccenda, così
come non ignora che l’attività amministrativa deve svolgere il proprio compito in questa fase (come in tutte
le altre) all’insegna della trasparenza, della par condicio, e così via dicendo.

* Adesso condurremo, in stretta interconnessione logica con questa concettualizzazione (circa i


vari tipi di discrezionalità), una ricapitolazione significativa, in relazione, in particolar modo,
all’analisi del prof.re (fonte: ricevimento):

Il procedimento amministrativo è la funzione amministrativa, ossia quell’insieme di atti e fatti attraverso i


quali prende forma il potere conferito alla PA dalla legge.
Ogni procedimento amministrativo consta di due fasi : una fase preparatoria/istruttoria ed una decisoria.
Fase istruttoria: è il momento procedimentale nel quale si verifica l’esistenza del presupposto individuato
dalla norma di potere;
Fase decisoria: è la fase in cui avviene la scelta del contenuto provvedimentale da parte della PA.
In entrambe le fasi l’attività della PA può essere un’attività vincolata o discrezionale.
FASE ISTRUTTORIA: FASE DECISORIA:
Mero accertamento tecnico: attività vincolata Attività vincolata
Discrezionalità tecnica: attività discrezionale Discrezionalità amministrativa
Discr. Amm. a contenuto tecnico

Nella fase istruttoria, l’attività della PA può essere un’attività vincolata o discrezionale.

Mero accertamento tecnico: nella fase istruttoria, la norma impone alla PA di verificare la sussistenza dei
presupposti. Ove tali presupposti siano certi ed inopinabili, l’attività è vincolata e alla PA non resta che
verificare che essi sussistano. (es. nel caso di inquinamento al 10%,…..)
Discrezionalità tecnica: nella fase istruttoria, la norma impone alla PA di verificare la sussistenza dei
presupposti, ma in questo caso i presupposti sono incerti ed opinabili. Quindi, in questo caso, la PA avrà
margine di scelta (non sui presupposti ma) sui criteri tecnici da adottare per verificare la sussistenza dei
presupposti individuati dalla norma. (es. nel caso di pericolo di terremoto. -> Il presupposto è incerto perché
la PA potrebbe utilizzare svariati criteri, ergo la discrezionalità tecnica)

Anche nella fase decisoria l’attività della PA può essere vincolata o discrezionale.

Attività vincolata: in questo caso, una norma impone alla PA il contenuto provvedimentale. In questo caso, la
PA, dopo aver individuato, nella fase istruttoria, la sussistenza del presupposto, emana un provvedimento
stabilito dalla legge, quindi non ha possibilità di scelta. (es. in presenza del presupposto A, la PA deve
emanare il provvedimento B)
Discrezionalità amministrativa: in questo caso, nella fase decisoria, la PA ha margini di scelta del contenuto
provvedimentale attraverso il quale raggiungere l’obiettivo dell’IPS. (es. in presenza del presupposto A, la
PA può emanare il provvedimento B, oppure C, D )
Discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: nel caso in cui la PA, sempre nella fase decisoria, sia
chiamata a scegliere tra più soluzioni connotate da un carattere tecnico-scientifico, equivalenti tra loro,
tenendo conto della combinazione dell’interesse primario con gli altri interessi secondari, allora parliamo di
discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico.

La teoria dello scivolamento dalla discrezionalità tecnica in amministrativa:


La teoria (di Guiduccio) sullo scivolamento muove dall’analisi di alcuni comportamenti della PA, ed è una
teoria suffragata da alcune motivazioni giurisprudenziali. Il fenomeno dello scivolamento ricorre quando la
PA da una discrezionalità tecnica si rende, di fatto, titolare di una discrezionalità amministrativa che non gli
è attribuita dalla legge. Ovvero: la norma d’azione attribuisce alla PA un potere discrezionale tecnico,
mentre, di fatto, la PA finisce per esercitare una discrezionalità amministrativa, cioè sceglie il criterio tecnico
per verificare la sussistenza del presupposto, in funzione del provvedimento il cui contenuto è già fissato
dalla legge.
In queste ipotesi, allora, la PA, che sarebbe investita del solo potere di verificare, attraverso una scelta
discrezionale dei criteri, i presupposti definiti dalla legge, sceglie il criterio che gli fa più comodo in
relazione al contenuto del provvedimento che la legge ha individuato. Si tratta allora di un’attività che nella
fase istruttoria sarebbe discrezionale, mentre sarebbe vincolata la fase decisoria. E la PA, proprio in funzione
di quella decisione che la legge già ha preso, utilizza il criterio tecnico che gli fa più comodo.

(ES. una legge stabilisce che il sindaco di Napoli, nel caso in cui dovesse esserci pericolo di terremoto, deve
chiudere lo stadio.
Pericolo di terremoto: presupposto incerto e opinabile: Attività discrezionale < = > scelta del criterio tecnico
per verificare la sussistenza del presupposto
Chiudi lo stadio: contenuto provvedimentale: Attività discrezionale < = > la PA non può fare altro.
Cosa fa allora il sindaco? Dal momento che non vuole chiudere lo stadio perché ha un bacino di voti enorme
tra i sostenitori del Napoli, applica un criterio tecnico dal quale non si evince il pericolo del terremoto, e la
sua scelta è come se fosse di contenuto provvedimentale, perché, di fatto, sta utilizzando il potere di cui è
investito per seguire altro scopo, quale appunto il non applicare il provvedimento.)

In talune ipotesi, la giurisprudenza ha ammesso l’applicazione dei principi dell’art 97 cost. , che,
ontologicamente, sarebbero propri solo della discrezionalità amministrativa, ma che invece, come appena
visto, possono estendersi alle ipotesi di discrezionalità tecnica, proprio per il fatto che in realtà la PA ha fatto
scivolare il proprio potere in quella categoria di discrezionalità. Quindi il GA, operando un raffronto
dell’attività amministrativa sulla base dell’art 97 cost., non potrà ovviamente entrare nel merito, ma potrà
sindacare sul merito della scelta, ossia sulla logica con la quale la PA ha scelto quel criterio tecnico, tale da
verificare se si tratti di un eccesso di potere.

Capo 5 “Interesse pubblico e tutela della concorrenza”


(* capitolo elaborato e schematizzato in una sola concettualizzazione, sia per poca preponderanza in sede
esaminativa, sia per la poca quantità argomentativa dello stesso Manuale, sole 10 pag.) / (da pag. 297 a pag.
308):

- Nascita e motivazione di genesi della tutela della concorrenza: Merita particolare interesse il caso in cui il
contenuto dell’interesse pubblico è costituito dalla tutela della concorrenza. Col passare degli anni i pubblici
poteri, a causa di diversi problemi della società fisiologici, hanno spostato la loro azione da gestione a
regolazione di gran parte di settori economici, ed è per questo motivo che cambia il significato contenutistico
di interesse pubblico, e cambia sicché anche la sua particolare morfologia giuridica. La tutela della
concorrenza consiste nella leale competizione tra soggetti nella produzione di beni o servizi, affinché essi
siano resi nella migliore qualità e a costi più bassi. Proprio per questo, in un sistema democratico, è
necessario che la libertà di concorrenza venga regolata, per evitare che un suo esercizio arbitrario, da
parte di alcuni, determini la privazione di essa nei confronti degli altri. /
- La prima domanda importante dalla quale discende il discorso è: la tutela della concorrenza è un interesse
pubblico? La risposta è SI. Che la stessa tutela della concorrenza sia un interesse pubblico ce lo dimostra,
sul piano formale, il fatto che vi sia una normativa comunitaria e nazionale che la canonizza come tale. Una
volta detto, quindi, che essa è interesse pubblico, bisogna capire, sul piano sostanziale, a chi e a cosa esso
serva questa tutela della concorrenza: evidentemente, è interesse pubblico se esso in concreto ha una sua
utilità, e per dimostrarlo bisogna vedere se esso serva solo a chi concorre (i produttori) o anche ai destinatari
di chi produce (utenti e consumatori), e quindi che esso sia funzionale a raggiungere una miglioria della
qualità della produzione al minor costo. /
- Tutela della concorrenza come interesse pubblico in 2 forme diverse, e relativa disciplina giuridica nelle 2
diverse forme: Una volta chiarito che di interesse pubblico si tratta, è importante segnalare che la tutela della
concorrenza si presenta quale interesse pubblico in due forme diverse: da un lato, quale interesse pubblico
immediato e finale (nel caso di mercato naturale); dall’altro, quale interesse pubblico mediato e strumentale
(ove essa sia vettore per raggiungere produzione di beni e servizi).  Ci domandiamo, a questo punto del
ragionamento, alcune questioni: È interesse pubblico in entrambi i casi? Hanno la stessa disciplina giuridica?
Nell’ordinamento come il nostro, in uno Stato quindi a diritto amministrativo, bisogna infatti distinguere ciò
che è stato sempre “mercato” da ciò che è divenuto “mercato” per scelta legislativa, insomma si tratta di
cogliere la differenza tra quello che chiamiamo mercato naturale e mercato artificiale ; ciò perché un conto è
regolare la concorrenza tra beni che sono indiscutibilmente oggetto di mercato (beni di consumo,
automobili), altro è regolare la concorrenza quando si tratta di beni che sono di rilevanza sociale, pur se
privatizzati (acqua, gas, elettricità). Nulla esclude che nell’uno e nell’altro caso essa (la tutela della
concorrenza) sia definibile un interesse pubblico, infatti sia come obiettivo finale (la tutela della concorrenza
nel mercato), sia come strumento al conseguimento di un altro interesse pubblico (la tutela della
concorrenza nel mercato per raggiungere X), ci sembra degno di esser definito un pubblico interesse.
** Nelle sue due versioni la disciplina giuridica è ovviamente differente: quale obiettivo in sé, cioè come
obiettivo finale della PA, la tutela della concorrenza è affidata all’ Antitrust. Quando, invece, la concorrenza è
obiettivo strumentale, la sua cura è affidata alle A.A.I. (Autorità Amministrative Indipendenti), diverse dall’
Antitrust, e, in questi casi, l’obiettivo di tali Autorità è garantire adeguati livelli di qualità dei servizi o prezzi
economici attraverso la tutela della concorrenza. Queste ultime Autorità, per realizzare l’interesse pubblico
affidato alla loro cura, operano attraverso due attività. Una di regolazione, e l’altra sanzionatoria, consistente
nella verifica e sanzione dei comportamenti non conformi al quadro regolativo. Ciò non toglie che sull’attività
delle Autorità operi comunque il controllo giurisdizionale, tanto del giudice ordinario, quanto del giudice
amministrativo, a seconda della situazione giuridica che di volta in volta si presenti in capo al soggetto
frontista. /
- Riflessi della differente morfologia giuridica dell’interesse pubblico alla tutela della concorrenza sulla
qualificazione delle situazioni giuridiche soggettive nella e della concorrenza / Cosa cambia rispetto ai
soggetti frontisti? E’ ovviamente un interesse pubblico autonomo nel caso in cui la concorrenza sia tutelata in
quanto tale (i consumatori beneficiandone indirettamente). Nel caso inverso, dove sia un obiettivo
strumentale, si tratta di un interesse inautonomo, essendo infatti condizionato dalla realizzazione di altri
interessi. Sul piano giuridico la differenza è netta: nel primo caso, infatti, l’interesse alla concorrenza è
immediato; nel secondo caso è mediato perché condizionato alla realizzazione dell’interesse finale. Ergo? In
quanto interesse legittimo, sindacabile dinanzi al GA, nel caso di un interesse inautonomo, perché
condizionato al raggiungimento del risultato finale, anche laddove un provvedimento dell’autorità riuscisse a
raggiungere l’obiettivo intermedio della concorrenza, ma non fosse in grado di raggiungere quello finale, esso
sarebbe impugnabile perché illegittimo dinanzi al GA per eccesso di potere.
La differenza di posizione si nota prettamente in merito alle situazioni giuridiche: nel caso di mercato
naturale, interagiscono solo le situazioni giuridiche soggettive dei produttori in competizione. Ma nel caso di
mercato “artificiale”, le situazioni giuridiche soggettive coinvolte sono quelle dei produttori, ma anche dei
cittadini-utenti; in queste ipotesi i produttori hanno ovviamente un diritto soggettivo nei confronti degli altri
produttori che abbiano violato la normativa antitrust, mentre gli utenti-consumatori vantano nei confronti
degli stessi produttori - gestori un diritto soggettivo all’erogazione del servizio ; entrambi poi, sia produttori-
gestori, sia utenti-consumatori, vantano nei confronti dell’Autorità un interesse legittimo.
Dov’è il problema?
Quando l’autorità garante non regola bene la materia, o non sanziona i comportamenti non conformi alle
regole da essa posta, non ci sono strumenti per garantire i cittadini-utenti. È chiaro che dove si tratti di diritti
soggettivi la tutela è molto più forte di quanto lo sia rispetto agli interessi legittimi. Quindi, in concreto, il
cittadino gode di una tutela maggiore nella fase della erogazione del servizio, vantando lì un diritto soggettivo
nei confronti del produttore-gestore. Ma nella fase dell’organizzazione, cioè rispetto all’autorità, esso vanta
solo un interesse legittimo. Ciò cosa comporta? Che può, ovviamente, citare in giudizio il gestore per
ottenere il risarcimento danni, ma gli è impossibile agire giuridicamente per ottenere che, attraverso la
concorrenza (quindi nei confronti della Autorità), il servizio sia reso in una migliore qualità e a costi inferiori.
Tutto ciò a meno che non si voglia “giuridicizzare” la partecipazione di associazioni di utenti alla elaborazione
delle regole che l’autorità crea, in modo tale che gli utenti stessi possano far valere i vizi di un atto regolativo
dinanzi al giudice amministrativo, creando un parametro di riferimento che il giudice possa tener presente
nel sindacare l’operato della autorità. /
- Conclusioni: Sicuramente, alla luce della normativa comunitaria e nazionale, è possibile l’uso del
meccanismo della concorrenza per garantire interessi sociali. Quindi è possibile la creazione di un mercato
artificiale, in cui i beni e i servizi, attraverso la tutela della concorrenza, vengano resi al meglio e a minor costi.
Tutto ciò determina che, in questo caso, la tutela della concorrenza, per il cittadino-utente, è un interesse
legittimo, ma inautonomo, perché la sua rilevanza è legata al reale raggiungimento del risultato finale. E da
un lato è difficile scientificamente comprovare se il risultato finale (cioè il miglioramento del servizio) sia
tangibile, e d’altra parte è difficile far valere l’interesse a che la resa dei servizi pubblici nella maniera migliore
venga legittimamente assicurata attraverso la tutela della concorrenza, essendo esso solo un obiettivo
intermedio, che sfugge nella sua fase regolativa alle garanzie dirette per i cittadini.
Capo 6 “Le situazioni giuridiche soggettive”

Libertà e democrazia. LIBERTA’ NEGATIVA e LIBERTA’ POSITIVA. Diritti civili e diritti sociali. Stato di diritto e
Stato sociale (pag. 309): - Premessa concettuale e relatività del concetto di libertà: Il tema delle situazioni
giuridiche soggettive coincide con quello della definizione giuridica della libertà. Noi sappiamo, anzitutto, che
solo la libertà dell’uomo solo può definirsi una libertà assoluta, illimitata (quindi la libertà assoluta è un
concetto utopico, perché non esiste uomo che non vive in una società con delle regole) ; la libertà dell’uomo
in società è necessariamente un concetto relativo; difatti, la massima ambizione dell’uomo, la libertà, calata
nella dimensione della società civile, significa sempre libertà relativa, ossia in una società civile “io sono
libero fino a che non violo la tua libertà”. / – IL METODO DEMOCRATICO: per assicurare la libertà e la
certezza della sua salvaguardia, nessun modello è migliore del metodo democratico. Il metodo democratico
è quel principio in virtù del quale le norme devono essere poste da soggetti che sono espressione della
maggioranza, da soggetti, ovvero, che siano rappresentativi di coloro che devono essere regolati. Come
detto, quindi, tutte le libertà dell’individuo devono trovare un fondamento nella maggioranza. Ma veramente
tutte? Bisogna far attenzione, in quanto ci sono delle libertà che non rientrano in questo quadro, cioè che
non soggiacciono alla definizione maggioritaria, per il fatto che esse sono strumentali al funzionamento del
metodo democratico. Queste libertà sono le libertà fondamentali, cioè quelle libertà riconosciute a tutti i
cittadini, che sono funzionali al metodo democratico perché permettono ai cittadini di esprimere il dissenso,
e alle minoranze di divenire a loro volta maggioranze. / - LIBERTA’ NEGATIVA e LIBERTA’ POSITIVA: Il nostro
Stato sociale prevede una totalizzazione della libertà, cioè prevede sia le classiche libertà negative, sia le
libertà positive. Analizziamo queste fondamentali 2 tipologie di libertà  Le libertà negative: sono legate al
concetto del “lasciatemi fare”, per cui non c’è necessità dell’intervento dello Stato per ottenere il bene della
vita: in questo caso, il bene della vita è assegnato direttamente al cittadino da una norma che si dice di
“relazione”, cioè che disciplina i rapporti tra i consociati, i rapporti intersoggettuali, e che risponde alla
situazione giuridica soggettiva del DIRITTO SOGGETTIVO ; Le libertà positive: sono legate al concetto dell’
“aiutatemi a fare” , cioè necessitano dell’intervento di una PA per far sì che il cittadino raggiunga il bene della
vita: in questo caso, il bene non appartiene al cittadino, perché vi e una norma, la cd. norma di azione, che
assegna il potere alla PA per riconoscere il bene al cittadino. In questo caso la situazione giuridica soggettiva
è di INTERESSE LEGITTIMO. / - Diritti civili e diritti sociali. Stato di diritto e Stato sociale: si è sollevata,
anzitempo, la questione circa la conciliabilità tra diritti civili e diritti sociali, ed, in stretta e coerente connessione
logica, si discute circa la conciliabilità tra Stato di diritto e Stato sociale. Cominciamo col dire, colpendo al cuore il
concetto, che le definizioni di Stato di diritto e Stato sociale non operano sullo stesso piano (ma questo, ben si
badi, non significa inconciliabilità fra i 2 concetti), poiché il senso che più profondamente contraddistingue lo Stato
di diritto sta proprio nella limitazione del potere politico assoluto, nella limitazione della tirannia, e poiché quando
si afferma che uno Stato è sociale si vuole indicare null’altro che quello Stato (indicato come sociale) si propone di
perseguire una più ampia gamma di fini rispetto allo Stato liberale. Non si può nemmeno dire che la causa della
crisi dello Stato di diritto sia lo Stato sociale (o viceversa), ma si deve, invece, dire che l’odierno Stato di diritto
sopravvive e, anzi, vive, così come vive lo Stato sociale, fermo restando che sono necessari, in ambedue i sistemi
ordinamentali, strumenti giuridici mutabili a seconda del contesto socio – economico (e a seconda, allorché, della
progressione della società). Si può, quindi, concludere sentenziando che l’affermazione della inconciliabilità
teorica (totale) tra Stato di diritto e Stato sociale sia arbitraria, così come arbitraria risulta essere l’inconciliabilità
teorica fra diritti civili e diritti sociali.
DIRITTI SOGGETTIVI e INTERESSI LEGITTIMI. Norme di relazione e norme di azione. La tutela
giurisdizionale riconosciuta dalla Costituzione ai soggetti lesi nei propri diritti soggettivi e interessi
legittimi (da pag. 314 a pag. 322): - NORMA DI RELAZIONE e NORMA DI AZIONE: Affinché ci sia un diritto
occorre che una fonte giuridica l’abbia riconosciuto ad una serie indefinita di soggetti, prevedendo,
correlativamente ad esso, un obbligo in capo a tutti gli altri consociati; in via prevalente, è la legge che
compie tale operazione, ma non sembrano esserci ostacoli ad impedire che possa farlo anche un
regolamento; contenutisticamente questa norma giuridica non fa altro che regolare rapporti
intersoggettivi, e viene chiamata NORMA DI RELAZIONE; essa si preoccupa di stabilire in una data comunità
quali sono i diritti e gli obblighi reciproci dei consociati; la situazione giuridica soggettiva interconnessa
concettualmente alla norma di relazione è il diritto soggettivo (situazione giuridica soggettiva per
antonomasia), che concretamente parlando, a titolo esemplificativo, potrebbe essere il diritto di proprietà
di Fabio sul suo Rolex. < > Secondo un differente processo di formazione della disposizione normativa,
l’oggetto di questa norma giuridica può essere anche diverso: la norma potrebbe istituire ed investire di
potere una struttura pubblica al fine di svolgere un compito di interesse generale, e cioè, alla fin fine,
succede che l’istituzione rappresentativa della comunità, reputando necessario sottrarre un dato bene o
interesse alla libertà di intrapresa privata, sceglie di creare una organizzazione pubblica, incaricandola del
compito di garantire a tutti la disponibilità del detto bene e la soddisfazione del detto interesse; se, dunque,
si è stabilito di affidare ad una struttura (creata ad hoc) un potere da esercitarsi per raggiungere un fine
comune, oggetto della norma non è il rapporto intersoggettivo, come nella norma di relazione, bensì
oggetto della norma è l’attività della PA: in tal caso, si tratta di una NORMA DI AZIONE, e la situazione
giuridica del soggetto coinvolto dal detto esercizio di potere prende il nome di interesse legittimo, che
concretamente parlando, a titolo esemplificativo, potrebbe essere l’interesse legittimo di Fabio a far valere
le sue (valide) ragioni nel concorso pubblico in magistratura, da cui è stato ingiustamente estromesso a
causa di un errore della struttura amministrativistica dispositrice del concorso. / - Principali problemi che
derivano dalla grande dicotomia: sono almeno due i problemi che siamo chiamati a risolvere, e cioè ci chiediamo
cosa succede se la struttura pubblica non rispetti una norma di relazione, e cosa succede se la struttura pubblica
non rispetti una norma di azione  nel caso della violazione di una norma di relazione non sembrano esserci
grossi problemi perché, ove la controversia abbia ad oggetti rapporti tra soggetti privati, essa è oggetto di studio
del diritto civile; in realtà, la norma di relazione (e la sua eventuale violazione) ci interessa se, in una data
circostanza di fatto, è una PA a violarla (appunto una struttura pubblica) (si sappia che il diritto amministrativo è
coinvolto dal problema della tutela dei diritti solo se una PA produce un danno al diritto di un soggetto); in tale
casistica non ci si spaventi, in quanto la costruzione tecnico giuridica è identica alla situazione (precedentemente
indicata) in cui la controversia coinvolga 2 privati, ma, attenzione, se c’è, però, una norma di azione che legittima
la PA ad intervenire nel diritto soggettivo del privato, a quel punto l’assetto regolativo della fattispecie non è più
dettato dalla norma di relazione, ma è dettato dalla stessa norma di azione, e, quindi, concretamente parlando,
la PA può fare quel che la norma d’azione gli consenta (imponga?) di fare (esempio classico è quando vien
disposta una espropriazione di proprietà, in quanto bisogna costruire una strada pubblica importante al posto di
quella casa). / - Disposizioni costituzionali concernenti le situazioni giuridiche soggettive (art. 24,103 e 113
cost.); questione del petitum nel caso di violazione di una situazione giuridica soggettiva (anticipazioni
concettuali): dalle disposizioni costituzionali … : “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti
e interessi legittimi” (art. 24 cost.) ; “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno
giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in
particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi” (art. 103 cost.) ; “Contro gli atti della
pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa” (art. 113 cost.), … appare evidente che gli
interessi legittimi sono considerati concettualmente distinti dai diritti soggettivi, ma equiparati a pieno
titolo a questi diritti soggettivi ; si deve sapere, sicuramente, che in Italia, leggendo le disposizioni ex
art. 103 e 113 cost., in ambito amministrativistico processuale, esistono 2 giurisdizioni a tale proposito,
e cioè quella ordinaria e quella amministrativa, dove la prima cura la eventuale violazione di diritti
soggettivi, e la seconda cura la eventuale violazione di interessi legittimi ; in ultimo importantissimo
luogo, per quanto concerne il petitum rivolto ai 2 giudici nel caso di violazione di una delle 2 citate
situazioni giuridiche soggettiva, affermiamo che, nel caso di violazione di diritto soggettivo, l’interessato
può chiedere al giudice (ordinario, ovviamente) il risarcimento del danno, mentre, nel caso della lesione di
un interesse legittimo, il provvedimento della PA, risultando illegittimo, può esser annullato ma era (si
sottolinei il verbo al passato) fuori discussione che l’interessato potesse chiedere un eventuale risarcimento
danni (cosa oggi, è fuori discussione, fattibile, tanto è vero che esiste, addirittura, a tale proposito, un
particolare codice (ad hoc) che è il codice del processo amministrativo, regolante queste particolari
casistiche). /

Lo schema concettual – logico, di quanto fin qui riferito (tra l’altro, già menzionato dal
sottoscritto in Amministrativo 1), deve essere il seguente:

** LIBERTA’ NEGATIVA = NORMA DI RELAZIONE = DIRITTO SOGGETTIVO


= TUTELABILE G.O.

** LIBERTA’ POSITIVA = NORMA DI AZIONE = INTERESSE LEGITTIMO =


TUTELABILE G.A.

Breve sintesi ricognitiva del complesso QUADRO delle SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE (pag.321):
Abbiamo quindi, poco fa, riferito che, chiaramente, dinanzi alla PA può aversi, può vantarsi, sia un diritto
soggettivo, sia un interesse legittimo, come nella maggior parte dei casi. In effetti, la situazione del
soggetto frontista della PA varia a seconda della dimensione fattuale e della dimensione giuridica della
situazione del singolo.
Possiamo avere, in particolare modo, provando a classificarle, queste differenti situazioni giuridiche
soggettive:
 Interesse semplice o di fatto: in questo caso, il frontista ha una situazione che non è diversificata
fattualmente da quella degli altri cittadini, per cui l’ordinamento non prevede per esso una tutela
giuridica (es. “io la mattina vado all’università e faccio colazione all’anfiteatro, al “Juiss”:
costruiscono un palazzo che impedisce la mia visuale durante la mia colazione – relax ; la mia
situazione è di tutti quelli che la mattina fanno colazione all’anfiteatro, per cui ho un interesse che
non è fattualmente differenziato e, per questo motivo, non tutelato dall’ordinamento”).
 Interesse amministrativamente protetto: il cittadino, il frontista, in questa casistica, ha una
situazione fattualmente differenziata, ma giuridicamente non qualificata, per cui il cittadino può
solo richiedere alla PA (non al GA) una rivisitazione del merito della scelta, con un ricorso
gerarchico o in opposizione (es. “io abito di fronte all’anfiteatro, quindi ho una situazione
fattualmente differenziata rispetto agli altri, appunto perché ci abito in quella zona (non è che ci
passo), e viene costruito il palazzo che mi impedisce una bella visuale dal mio balcone, ma il
provvedimento della PA (di costruire quel palazzo) è perfettamente legittimo; io chiedo
all’Amministrazione Pubblica una rivisitazione del merito della scelta di costruire quel palazzo,
chiedendo di tener presente il fatto che mi verrà, in qualche modo, leso il mio “bene alla vita” che
è, concretamente parlando, la vista “turistica” dal balcone di casa mia”).
 Interesse legittimo = situazione inautonoma: è quella situazione giuridica di vantaggio del soggetto
frontista della PA che discende dall’esercizio illegittimo del potere della PA, situazione giuridica
soggettiva che è fattualmente differenziata e giuridicamente qualificata, per cui il frontista può
adire il GA per la tutela giurisdizionale. L'interesse legittimo è, a livello definitorio, una delle
situazioni giuridiche soggettive riconosciute dal diritto italiano; si tratta della situazione giuridica
soggettiva della quale è titolare un soggetto nei confronti della pubblica amministrazione che
esercita un potere autoritativo attribuitole dalla legge e consiste nella pretesa che tale potere sia
esercitato in conformità alla legge. (es. precedente “ abito all’anfiteatro, vien provveduto di
costruire questo palazzo di fronte casa mia, e il provvedimento, in addizione alla situazione
precedente, è addirittura illegittimo; non solo ho una situazione fattualmente differenziata rispetto
ad altri (come nel caso dell’amministrativamente protetto), ma la mia è anche una situazione
giuridicamente qualificata, in quanto è stata lesa illegittimamente dalla PA” ).
Gli interessi legittimi li possiamo distinguere, ancora, tra
PRETENSIVI : in cui il bene della vita non appartiene ancora alla mia sfera, per cui io ambisco a
ottenerlo
OPPOSITIVI : il bene della vita già c’è l’ho, e ho un interesse a conservarlo.
Meritano, ancora, menzione gli interessi DIFFUSI E COLLETTIVI: tecnicamente, l’interesse diffuso è
un interesse semplice che appartiene a tutti i cittadini (tutela delle balene). L’art 9-10 della legge
241/90, però, ha sancito che l’interesse diffuso costituito in associazione o comitato, non costituito
ad hoc per far fronte ad una sopravvenuta evenienza (cioè, ad esempio, già costituito in
associazione prima che fosse leso l’interesse stesso), hanno dignità procedimentale. In questo caso,
quindi, quando l’interesse sia rappresentativo non più di una comunità indistinta di persone, ma di
una comunità specifica (comitato o associazione) ha dignità procedimentale al procedimento
amministrativo, e ciò quindi non esclude che, ove esso sia leso, esso possa divenire interesse
legittimo  lo schema concettual – logico, a tale specifico riguardo, dovrebbe rappresentarsi nella
mente del lettore in questo modo: INTERESSE DIFFUSO > INTERESSE COLLETTIVO > INTERESSE
LEGITTIMO.
 Diritti soggettivi = situazione autonoma: costituiscono la situazione giuridica per eccellenza, per
antonomasia, e si tratta di quella situazione giuridica che prevedono il riconoscimento automatico
del “bene vita” al soggetto, in virtù di una norma di relazione che opera indistintamente per tutti i
consociati, e che disciplina le modalità della relazione dei soggetti. Dinanzi all’esercizio del potere
della PA, i diritti soggettivi possono subire un contemperamento, segnatamente intesi quali diritti
CONDIZIONATI che si distinguono tra:
DIRITTI AFFIEVOLITI : il diritto si comprime e si trasforma in interesse legittimo ( es. espropriazione :
il mio diritto di proprietà diventa solo un interesse legittimo a che la PA abbia operato secundum
legem)
DIRITTI IN ATTESA DI ESPANSIONE : il diritto è riconosciuto al cittadino ma necessita dell’intervento
della PA per poter trovare espressione ( es. IUS AEDIFICANDI : necessito dell’autorizzazione edilizia
della PA).
LA SENTENZA 500/199 delle SEZIONI UNITE della CORTE di CASSAZIONE (analisi dei vari profili di
novità introdotti dalla sentenza dalla L. 205/2000 e dal recente Codice del processo amministrativo)
(da pag. 322 a pag. 338):
- Premessa all’argomento: Il quadro sin qui descritto (per quanto concerne, quindi, le tutele giurisdizionali
delle situazioni giuridiche soggettive) ha subito recenti evoluzioni a seguito, primariamente, della
emanazione del d.lgs. 80/1998, confermato (seppur con qualche rilevante modifica) dalla L. 205 del 2000,
ed a seguito della fondamentale sentenza del 22 luglio 1999, n° 500, emanata dalla Corte di Cassazione che,
riunitasi a SU (Sezioni Unite), ha affermato, quale principio generale, la risarcibilità del danno per lesione di
interesse legittimo (cosa prima non ammessa, come abbiam visto nella scorsa concettualizzazione) ; a
confermare, in ultimo luogo, le novità del surriferito quadro concettuale viene emanato, anche, il Codice
del processo amministrativo, approvato con un d.lgs. nel 2010. /
La sentenza 500/99 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha sancito definitivamente la
risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione di un interesse legittimo.
– Come era in precedenza il quadro concettuale, e perché era così: Storicamente, non vi erano precedenti
del genere, dal momento che la questione del risarcimento del danno per violazione di un interesse
legittimo era sempre stata esclusa segnatamente per il fatto che, dal punto di vista processuale, le
situazioni di diritto soggettivo erano devolute al G.O. (giudice ordinario) il quale, ai sensi dell’art 2043 c.c., è
titolare (unico) del potere risarcitorio derivante da danno ingiusto ; la eventuale questione sulla lesione di
un interesse legittimo era devoluta al G.A. (giudice amministrativo) il quale era titolare (solo) del potere
caducatorio, finalizzato a far ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo della P.A. Detta male, solo il GO
aveva potere risarcitorio ed il GO stesso, per l’appunto, lo si sa dalla lettura della Carta, deve vedersela solo
con questioni concernenti lesioni di diritti soggettivi, e non assolutamente con questioni inerenti la lesione
d’interessi legittimi. Dal punto di vista sostanziale, la ragione era rinvenibile nel fatto che, nel modello della
tutela aquiliana ex art. 2043 c.c., il danno ingiusto veniva fatto coincidere con la lesione di un diritto
soggettivo, di una situazione autonoma che riguardasse direttamente il soggetto leso, per il fatto che la
situazione giuridica fosse garantita da una norma di relazione (mentre nel caso di interesse legittimo, lo
sappiamo, la lesione consegue ad una violazione di una norma d’azione, che non statuisce un immediata
attribuzione di un bene vita).
- Primi segnali di cambiamento; differenziazione, all’interno del contesto, tra interessi oppositivi ed interessi
pretensivi: Da un punto di vista dottrinale, qualcosa aveva già fatto breccia nel “muro della irrisarcibilità
degli interessi legittimi”, ma segnatamente riguardo agli interessi legittimi oppositivi, ciò dovuto al fatto
che, nel caso, per l’appunto, di interessi oppositivi, il bene vita già appartiene al soggetto titolare
dell’interesse; in questi casi, il modello su cui era ricostruita la risarcibilità per essi era quella del diritto
soggettivo affievolito, per i quali si discuteva che, in realtà, un diritto soggettivo affievolito, in virtù di un
provvedimento Illegittimo, non cessa mai di essere diritto, e, quindi, merita di essere risarcito in quanto tale
(es. espropriazione: diritto di proprietà diventa interesse legittimo, ma se il provvedimento è illegittimo non
è mai stato affievolito il diritto soggettivo, è sempre stato tale). Il problema riguardava piuttosto, in dottrina
e ovviamente in giurisprudenza, l’interesse legittimo pretensivo, perché il bene vita non preesiste, in questo
caso, nella sfera giuridica del soggetto; una prima apertura (anche in questo frangente) la si aveva avuta
con l’articolo 13 della L. 142/92, la quale, in ottemperanza ad una direttiva comunitaria in materia di
appalti, aveva statuito la risarcibilità dell’interesse legittimo pretensivo da domandarsi dinanzi al G.O previo
annullamento del provvedimento illegittimo; la disposizione confluì nel d.lgs. 80/98 che, nel devolvere alla
giurisdizione esclusiva del GA le materie di urbanistica, affidava alla cognizione del GA anche le questioni
risarcitorie relative all’art 13 della l. 142/92. *** Specificatamente, ancor per meglio argomentare, il d.lgs. 80 del
’98 viene modificato in seguito alla emanazione della L. 205 del 200 che è, praticamente, una trasformazione in legge
di questo decreto legislativo con alcune modifiche rilevanti: viene novellato, difatti, l’art. 35 co.1, e l’art. 35 co.4 che,
contenutisticamente, non fa altro che ampliare il potere del giudice amministrativo che, ora, è capace di conoscere
anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno. La nuova disciplina normativa della L. 205, in
ogni caso, determinò una profonda modifica del sistema di riparto delle giurisdizioni, e ciò non poteva esser troppo
netto e palese perché sarebbe andata essa (la legge 205) inevitabilmente in netto contrasto con l’art. 103 della
Costituzione (che decreta il riparto giurisdizionale in ambito amministrativistico, come sappiamo) ; seguendo questa
linea concettuale, secondo lo scrittore è errato il parere favorevole che il Consiglio di Stato diede alla surriferita legge,
la quale, sempre secondo il ragionamento del prof.re, presenta taluni profili di evidente incostituzionalità; l’incoerenza
logico – giuridica sta nel semplice fatto che la Carta prescrive (tramite il 103 cost.) una cosa, e la L.205 ne prescrive
un'altra: o si sostiene che l’interesse legittimo non esiste, ed allora si va contro la Costituzione, o se non se ne esclude
l’esistenza, non si può negare che il risarcimento di un interesse legittimo è ontologicamente impossibile. /
- Contenutistica della sentenza 500/1999: In ogni caso, tornando alla concettualizzazione di quel che a
noi più interessa, e, cioè, tornando alla contenutistica semantica della storica sentenza 500, affermiamo che
è proprio in questo quadro normativo che le SS.UU della Corte di Cassazione partoriscono la pronuncia
500/99 che cambia lo scenario rispetto agli interessi legittimi 
Punto di partenza della Corte è il concetto di “danno ingiusto” di cui all’art 2043 cc: i giudici infatti ri
-interpretano il concetto, ritenendo che non potesse confinarsi all’interno delle mura del diritto
soggettivo, bensì dovesse individuarsi in un qualsiasi danno arrecato a qualsiasi situazione giuridica
soggettiva, perché, indipendentemente dalla situazione giuridica, ci troviamo dinanzi ad una vittima che ha
patito una lesione indebita, che ha, pertanto, diritto al risarcimento. Quindi il “danno ingiusto” va
relazionato a qualunque situazione giuridica (e non più come prima: meramente relazionato al diritto
soggettivo puro) ; la Corte, però, precisa che, riguardo agli interessi legittimi, deve esser stato arrecato
un danno ingiusto “al bene della vita protetto”.
La Corte, quindi, costruisce l’interesse legittimo non più in una dimensione processuale , bensì lo
costruisce, lo trasla, lo legge, lo immedesima, in una situazione sostanziale, pre - esistente all’azione
amministrativa, volto a garantire che l’eventuale sacrificio dell’interesse al bene della vita del privato sia
giustificato dal fatto che ad esso si contrappone un interesse pubblico prevalente. Ma se l’interesse
coincide con il bene della vita, cosa accade ove il bene non sia ancora nella sfera giuridica del
soggetto? È qui che la Corte statuisce che deve spettare al giudice il compito di effettuare un giudizio
prognostico, basato su un criterio di normalità, volto a stabilire de quel determinato bene della vita
spettasse realmente al soggetto. /

- I casi di risarcibilità che dei danni causati da attività della PA sono dunque:
 Quelli in cui le situazioni soggettive sono solo apparentemente interessi legittimi ma in realtà sono
veri e propri diritti soggettivi nascenti da una norma che solo in apparenza è di azione ma in realtà è
di relazione, giacché la PA ha un compito meccanico, vincolato, per cui il danno arrecato al bene
della vita è risarcibile, perché il bene è direttamente garantito dalla norma.
 Quelli in cui la situazione giuridica è qualificabile come interesse legittimo oppositivo, in particolare
i diritti soggettivi affievoliti, per i quali il bene già appartiene al soggetto; nonché i diritti soggettivi in
attesa di espansione, per i quali, oltre al danno per il tempo impiegato e le spese sostenute dal
titolare dell’interesse, appare risarcibile anche il mancato godimento al bene della vita.
 Quelli in cui la situazione soggettiva sia di interesse legittimo pretensivo: in questi casi è
sicuramente risarcibile il danno derivante da atto illegittimo, per il tempo impiegato, le spese
sostenute invano dal titolare dell’interesse legittimo, potendovi ricomprendersi anche il
risarcimento per il “lucro cessante”, cioè la perdita di chances dovuta all’attesa della decisione
amministrativa. Mai, però, è risarcibile il danno causato dal mancato conseguimento del bene della
vita a cui egli aspirava, giacché detto bene può essere riconosciuto solo dalla decisione
amministrativa.

Pertanto, per gli interessi oppositivi è sempre riconosciuto il risarcimento; per quelli pretensivi è da
valutare di volta in volta sulla base del giudizio prognostico. /

- Il ragionamento logico dello scrittore; (secondo il Professore):


- - Riguardo il giudizio prognostico; ambiguità e contraddittorietà della Corte: Il ragionamento della Corte
sul giudizio prognostico, basato su un criterio di normalità, per stabilire se sia stato leso l’interesse al bene
della vita è, secondo lo scrittore: 1) ambiguo, perché la sentenza non chiarisce se l’interesse legittimo è
sempre coincidente col bene della vita; 2) contraddittorio, perché se ritiene che l’interesse legittimo
coincide con il bene della vita, non si può stabilire la risarcibilità dell’interesse e, al tempo stesso, negarla
quando non è stato leso il bene della vita. Infatti se sono strettamente collegati, allora devono essere lesi e
risarciti entrambi. Del resto, dove la norma non riconosca un diritto soggettivo, bensì un interesse legittimo
pretensivo, il bene non può ritenersi garantito autonomamente dalla norma, necessitando esso, per il
riconoscimento, dell’esercizio del potere amministrativo.
- - Riguardo il bene della vita: Il bene della vita, nel caso di interesse legittimo, non può che essere l’utilità
che il soggetto vuole conseguire, ma della quale non può disporre autonomamente, giacché la legge
disciplina la fattispecie in modo tale che sia la PA a riconoscerlo in capo al soggetto. Pur non avendo
necessariamente una natura processuale, ma sostanziale, come detto mille volte, l’interesse legittimo ha
sempre una sua ontologia procedimentale, in quanto connesso all’esercizio del potere amministrativo.
Quindi sono risarcibili le spese per il tempo, le spese sostenute e la perdita di chances, ma non il bene
leso in quanto tale.
- - Riguardo, ancora, il giudizio prognostico (violazione del principio di separazione dei poteri): Riguardo
invece al giudizio prognostico, il professore critica fortemente la scelta della Corte, dal momento che essa
viola la separazione dei poteri: il giudice può SEMPRE sindacare la legittimità, ma mai il MERITO
(opportunità e convenienza) della scelta della PA. Nell’ordinamento ci sono momenti giuridici in cui si sfiora
il limite (come per esempio per quanto concerne il giudizio di ottemperanza: ma qui il commissario ad acta,
che deve portare ad esecuzione sentenze che la PA si rifiuta di attuare, ha ad oggetto un potere vincolato, e
non discrezionale, per cui il contenuto è legato ad una scelta che la PA già ha fatto) ma relativamente al
merito-fatto; non è possibile, invece, un invasione del merito-diritto. Insomma un conto è condannare al
risarcimento in situazioni in cui il giudice deve solo applicare la legge, un conto è quando deve giudicare un
interesse legittimo entrando nel kern dell’esistenza della PA.

*** In poche parole, con questa sentenza, la Corte sta investendo il giudice amministrativo di un potere che
non gli è riconosciuto dall’ordinamento. Ma poi in che modo? Criterio di normalità. Cioè? Secondo
imparzialità e buon andamento ex art 97 cost.? Non può, perché questi citati principi sanciscono la
discrezionalità amministrativa che è sinonimo di merito. La Corte, al proposito, parla di un indagine
approfondita volta a identificare la colpa della PA, quasi come se la colpa fosse elemento ulteriore alla
illegittimità dell’atto. E paradossale è il risarcimento che deve essere individuato quando, oltre alla
illegittimità, c’è bisogno della colpa, perché l’atto viola l’imparzialità e il buon andamento. Cioè, per meglio
dire, dovrebbe essere illegittimo e anche colposo? Quindi sono le regole della colpa quelle dell’art 97?
Impossibile, perché l’art 97 è il limite interno della legittimità della attività discrezionale della PA, e non
decodifica un ulteriore eventuale colpa della PA, ma anzi essendo essa già il limite alla legittimità della PA.
Inoltre, la Cassazione aveva stabilito che la giurisdizione fosse del G.O., salvi i casi di giurisdizione esclusiva
del GA; in effetti poi l’art 7 della legge 205/2000 ha trasferito la competenza risarcitoria nell’ambito della
giurisdizione generale di legittimità al GA, e la disposizione ha trovato conferma anche con la successiva
sentenza 204/2004, che ha definito il risarcimento del danno non più un’autonoma materia devoluta alla
competenza esclusiva del GA ma un ulteriore strumento di tutela dell’interesse legittimo a disposizione del
GA.

- - Riguardo la questione della pregiudizialità amministrativa: Ultima questione era quella relativa alla
pregiudizialità amministrativa, cioè l’interdipendenza tra la domanda caducatoria e quella risarcitoria  La
questione ha impegnato in un aspro conflitto la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato: la prima
escludeva la necessità della previa azione caducatoria e sottoponeva la tutela risarcitoria al classico termine
prescrizionale di 5 anni, indipendente dall’annullamento del provvedimento; il CDS, invece, era per la
pregiudizialità, cioè riteneva impossibile valutare il risarcimento senza poter valutare la legittimità del
provvedimento, e diceva di non poterlo fare in via incidentale. Spesso accadevano i famosi inconvenienti
legati all’inoppugnabilità dell’atto entro 60 gg dalla sua emanazione; cioè la tutela dell’azione caducatoria
decadeva. Ciò cosa comportava? Che spesso il soggetto ricorrente non aveva il tempo (60 gg) di chiedere
l’annullamento e, quindi, perdeva entrambe le azioni, essendo la prima pregiudiziale alla seconda.
La diatriba è stata risolta dal c.p.a (codice processuale amministrativo) che all’articolo 30 stabilisce che:
- l’azione di condanna è esperibile in via contestuale all’azione di annullamento;
- l’azione di condanna è esperibile anche in via autonoma, entro 120 gg dalla conoscenza.
Questo sembra aver spazzato via la pregiudizialità amministrativa, proprio per evitare che l’inoppugnabilità
dell’atto negasse le ragioni risarcitorie, sebbene la contemperazione delle esigenze risarcitorie con quelle di
certezza giuridica sono evidenti, dal momento che comunque il legislatore ha stabilito un termine di
decadenza, di 120 gg per l’azione di condanna, decorrenti dalla data di conoscenza del provvedimento.
Comunque appare che, dal punto di vista processuale, sia scomparsa la pregiudizialità; e dal punto di vista
sostanziale? Non si può dire lo stesso, perché comunque l’articolo 30 investe il giudice di un potere che di
fatto richiama in essere la pregiudizialità: infatti la norma esige che il ricorrente abbia previamente esperito
tutti i rimedi possibili a ridurre il danno, quindi contro il provvedimento. Questo principio, della colpa del
creditore, di fatto impone al ricorrente di chiedere l annullamento dell’atto, perché il GA potrebbe, in caso
di mancato esperimento dei mezzi idonei a ridurre il danno, non riconoscere il risarcimento.

Adesso si procederà ad una utile ricapitolazione sintetica/schematica sulla questione della risarcibilità, al
fine di scongiurare una eventuale non cognizione del lettore a tale riguardo:
Riportiamo, anzitutto, l’originale disposto della sentenza 500 del 1999  Cassazione Civile, SS.UU.,
sentenza 22/07/1999 n° 500: "La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o
di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra nella fattispecie della
responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale
certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale.
Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione
dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo
contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In
altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere
alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività
illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che
il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo".
Si legga, ora, al fine di una ricognizione “più stretta”, questa utile elaborazione sintetica della vicenda:

Fino agli anni novanta del XX secolo la lesione di un interesse legittimo a opera di un provvedimento
amministrativo invalidità trovava tutela esclusivamente attraverso l'azione di annullamento da proporre
innanzi al giudice amministrativo. In seguito alla sentenza della Corte di Cassazione n. 500/1999, è venuto
meno il principio tradizionale che limitava l'area della risarcibilità nei rapporti tra cittadino e pubblica
amministrazione alla lesione di diritti soggettivi. L'azione risarcitoria può essere dunque proposta, come
prevede ora espressamente la normativa sulla giustizia amministrativa, anche in caso di lesione dell'interesse
legittimo.
La tesi dell'irrisarcibilità si fondava sull'assunto dell'inapplicabilità della normativa contenuta nell'art. 2043
del codice civile rispetto ai casi di lesione di interessi legittimi.
I motivi dell'inapplicabilità sono giustificati dal punto di vista del diritto processuale nel senso che unico
giudice competente a dichiarare il risarcimento è il G.O. che però è competente per i diritti soggettivi e non
per gli interessi legittimi, e ciò perché, dal punto di vista del diritto sostanziale, l'interpretazione - classica -
data dell'art.2043 del c.c. è stata orientata solo verso la risarcibilità dei diritti e non degli interessi.
In questo modo, una tutela risarcitoria indiretta degli interessi legittimi, veniva riconosciuta dalla
giurisprudenza solo in relazione ai cosiddetti "interessi legittimi oppositivi" (interessi legittimi che sorgono
per il privato nei confronti di un atto amministrativo sfavorevole) e non anche in difesa degli interessi
legittimi "pretensivi". Inoltre, doveva prima intervenire l'annullamento dell'atto illegittimo da parte del G.A.
(cosiddetta condizione di pregiudizialità amministrativa) e solo successivamente si poteva proporre domanda
al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo.

La sentenza della Cassazione SS.UU. 500/99 ha invece recepito un orientamento che, dapprima solo
espressione dell'elaborazione dottrinale, era stato successivamente accolto nell'ordinamento giuridico con il
Decreto Legislativo 80 del 1998, che ha previsto, per la prima volta, la risarcibilità dell'interesse legittimo
leso, nei campi dell'edilizia, dell'urbanistica e dei servizi pubblici. Tale sentenza afferma che è legittimo
chiedere al G.O. il risarcimento del danno causato da lesione di interesse legittimo, indipendentemente dal
preventivo annullamento dell'atto stesso da parte del G.A. Per la prima volta anche gli interessi legittimi
pretensivi ricevono tutela, infatti, anche per essi è possibile ricorrere al G.O. per il risarcimento. Infine, nel
caso di materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del G.A., la tutela risarcitoria per gli interessi legittimi
pretensivi e oppositivi, è affidata allo stesso giudice.

Inoltre con la legge del 10 agosto del 2000 n. 205, ampliando i poteri del Giudice amministrativo, il
legislatore ha previsto - modificando l'art 35, comma 4º del D.lgs. 80/1998 - la possibilità per questo di
disporre il risarcimento della lesione all'interesse legittimo, in tutte le materie rientranti nella sua
giurisdizione e non solo in quelle precedentemente previste (edilizia, urbanistica, servizi pubblici) dallo
stesso decreto.

In base alla previsione contenuta nell’art. 6, 2º comma, della legge n. 205 del 2000 le controversie
concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte
mediante arbitrato rituale di diritto.
L’art. 8, 1º e 2º comma, della stessa legge n. 205 prevede poi che solo nelle controversie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo aventi ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale
possono trovare applicazione le disposizioni processuali civili sul procedimento per ingiunzione.

Queste norme sull’arbitrato e sul procedimento ingiuntivo contenute nella legge di riforma del processo
amministrativo mostrano che, seppur nella evoluzione legislativa complessiva tendente ad appiattire la
distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi, permane invariata la necessità di una distinzione fra i due
concetti. Su questo terreno dunque hanno ancora senso le varie teorie nozionistiche e classificatorie sul
concetto di interesse legittimo elaborate nel corso della lunga esperienza dottrinale e giurisprudenziale in
tema di giustizia amministrativa.
Orientamenti giurisprudenziali successivi alla sentenza 500/1999 (da pag. 338 a pag. 355):
(* concetto meramente schematizzato, in quanto la trattazione esaustiva è poco preponderante in sede
esaminativa; per maggior precisione (e scrupolo) si consulti il Manuale alle suindicate pag.e)
- Premessa all’argomento ed anticipazioni essenziali: Occorre verificare se e come la giurisprudenza, dopo la
storica sentenza 500 del 22 luglio 1999 e dopo la L. 205 del 2000 (dopo, quindi, “il cambio di rotta”
concernente la risarcibilità in relazione alla eventuale lesione di interesse legittimo) , abbia condannato al
risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi (specialmente pretensivi); anticipiamo, sin da qui,
che le pronunce (dei tribunali amministrativi e civili) richiamano pochissimo gli indicatori giuridici e i principi
guida della 500/1999, allorché, senza peccare di superbia, possiamo dire che l’applicazione
giurisprudenziale correlativa alla storica sentenza surriferita è pressoché deludente; “bando alle ciance”, in
ogni modo, analizzeremo, in particolare, in che modo viene definito ed inteso (dalla giurisprudenza
amministrativa, prima, e civile, poi): A) il concetto di bene della vita leso, B) il concetto di giudizio
prognostico, C) il concetto di criterio di normalità, D) cosa si intende per procedura di selezione degli
interessi attraverso un giudizio di comparazione, E) se, infine, il giudice ordinario abbia condannato al
risarcimento dei danni per lesione di interesse legittimo senza attendere il previo annullamento dell’atto
amministrativo considerato illegittimo. /
- La giurisprudenza amministrativa: A) la definizione di bene della vita serve per capire quali sono davvero
gli interessi legittimi risarcibili ed è, pertanto, importante capirne la nozione che ne dà la giurisprudenza: il
bene della vita viene essenzialmente identificato con l’utilità finale cui il privato aspira e che può essere
conseguita solo con la intermediazione del potere amministrativo (non mancano, però, casistiche in cui
viene configurato come l’integrità patrimoniale della parte lesa, o viene configurato come interesse alla
partecipazione procedimentale). È importante, in ogni caso, non confondere il bene della vita con
l’interesse legittimo, in quanto il bene della vita è un presupposto dell’interesse legittimo e giammai un
sinonimo. B) alla possibilità di conseguire il bene della vita si ricollega una diffusa applicazione
giurisprudenziale relativa al criterio del giudizio prognostico: il giudizio prognostico viene effettuato
prendendo in considerazione le concrete probabilità, per la parte ricorrente, di riuscire ad ottenere il bene
(de quo) in seguito alla corretta ripetizione del procedimento amministrativo; si parla, in proposito, di
“oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva” (così il TAR pugliese), ad esempio prendendo a
parametro i punteggi assegnati ai partecipanti ad un appalto – concorso ; il giudizio prognostico è un
giudizio che attiene non ad un evento futuro ma al nesso di causalità (materiale) tra il vizio che inficia il
provvedimento ed il contenuto del provvedimento stesso ; è, allorché, dandone una ulteriore definizione,
un giudizio ipotetico volto a stabilire se il contenuto del provvedimento sarebbe stato diverso qualora la PA
avesse agito legittimamente (esso, detta male, tende a stabilire quale sarebbe stato il corso delle cose se il
fatto antigiuridico non si fosse prodotto, vale a dire se la PA avesse agito conformemente) ; la recente
giurisprudenza ricollega il giudizio prognostico all’onere della prova, facendosi forza su un richiamo
specifico del c.p.a. In ogni modo, il lettore più intelligente avrà ben capito che questa prognosi corre sul filo
della probabilità, e c’è, insito in essa, margine di incertezza; margine di incertezza che diventa (non margine
ma…) grande incertezza qualora il giudice debba valutare in relazione a discrezionalità amministrativa e non
in relazione ad una qualsivoglia attività vincolata (perché, in caso di discrezionalità amministrativa, è incerto
anche il mix di interessi che la PA aveva adottato (ex ante l’emanazione del provvedimento) per il
conseguimento del più “forte interesse”). Insomma, concludendo, secondo lo scrittore, è davvero
inappropriato questo giudizio prognostico, perché insito di incertezza, criteri di probabilità, cose ipotetiche,
tutt’altro rispetto all’obiettività che richiede il diritto, tanto è vero che, a conferma di quanto ciò appena
riferito, i giudici amministrativi mostrano il loro imbarazzo quando debbono svelare le argomentazioni
relative alla liquidazione del danno, argomentazioni che risultano “arrampicamenti sugli specchi da
scolaretto liceale”. C) è frequente, in stretta correlazione con il giudizio prognostico, il richiamo al criterio
della normalità: questo parametro sembra costituire una sorta di endiadi con la prognosi giudiziale, che ne
assorbe presumibilmente ogni possibile autonomo sviluppo; praticamente, quindi, è assimilabile il concetto
di criterio di normalità con quello di giudizio prognostico. D) per quanto riguarda il compito di
contemperamento degli interessi coinvolti, possiamo sentenziare facilmente che esso compete alla PA che,
però, è molte volte parte in causa nelle controversie, e, quindi, spetta, conseguentemente, al giudice
esaminare gli elementi di fatto e di diritto per poi emanare una sua decisione; il GA, dopo aver valutato la
sussistenza o meno degli indicatori evidenziati ex sentenza 500 del 99, ha stabilito se condannare la PA al
risarcimento dei danni senza alcun specifico riferimento al bilanciamento fra gli interessi in gioco ; il giudice,
detta in termini masticabili, si arresta di fronte a valutazione che spettano, come si dovrebbe ben sapere,
alla PA, tanto è vero che si afferma che il contemperamento degli interessi attiene alla funzione
amministrativa e non a quella giurisdizionale (così TAR Friuli), e che il giudice amministrativo dovrebbe
limitarsi ad accertare il presupposto della illegittimità dell’atto. E) per quanto attiene alla verifica
dell’abolizione della necessaria pregiudizialità del giudizio amministrativo di annullamento rispetto a quello
civile di danno, occorre accertare se essa sia stata effettivamente tradotta in una scissione della tutela
demolitoria da quella ripristinatoria: è proprio dall’analisi della giurisprudenza amministrativa che possono
cogliersi i più significativi approcci al problema della oramai non più necessaria pregiudizialità del giudizio
amministrativo di annullamento ; l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (con una ordinanza del 2000 e
del 2007) accoglie ciò che si è detto (nella scorsa fondamentale concettualizzazione riguardante la 500/99)
quando si è parlato di pregiudizialità amministrativa nel contesto della sentenza 500/99, anche se non ha
richiamato mai specificatamente questa ultima nella scrittografia delle pronunce; concludendo, i campi
semantici della tutela demolitoria e della tutela ripristinatoria vanno separati, a livello giustiziale
amministrativistico. /
- La giurisprudenza civile: A) le pronunce della magistratura ordinaria identificano il bene della vita con la
integrità patrimoniale riferibile, ovviamente, alla sfera giuridica del soggetto leso, anche se non mancano
attività ermeneutiche che identificano, stavolta, il bene della vita con l’utilità finale conseguibile attraverso
la intermediazione del potere amministrativo; ai fini della tutela risarcitoria il giudice deve “stabilire se
l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse
rilevante per l’ordinamento, che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto
soggettivo, interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante”. B) in merito al giudizio
prognostico, gli orientamenti sono eterogenei: sentenze che lo confondono con l’onere della prova, altre
ancora che lo ricollegando al grado di soddisfazione che la sfera giuridica dell’attore avrebbe ottenuto in
caso di attività amministrativa esente da vizi; la Cassazione civile ha fatto, comunque, salvo il fatto che il
giudizio prognostico è necessario per una corretta valutazione della questione. C) per quanto attiene al
criterio di normalità, vale lo stesso identico discorso fatto quando abbiam parlato di giurisprudenza
amministrativa: è concetto che va strettamente relazionato (a volte identificato) con quello di giudizio
prognostico, essendo ad esso strumentale e funzionale; la Cassazione civile ritiene, a tale riguardo, che non
sia tutelabile la mera aspettativa al bene della vita ma “è tutelabile solo una situazione soggettiva di
oggettivo affidamento circa la sua favorevole conclusione”. D) per quanto concerne il contemperamento
degli interessi in gioco, non c’è nulla in più da dire rispetto a quanto già detto nella sede di analisi
concettuale della giurisprudenza ammnistrativa: il giudice ordinario, così come fa quello del Tribunale
amministrativo, si arresta davanti a valutazioni che competono alla PA in maniera tassativa, inderogabile,
assoluta, ex principio di separazione di poteri. E) in merito alla questione della pregiudizialità del giudizio di
legittimità e dell’annullamento dell’atto rispetto al giudizio risarcitorio, infine, la Corte di Cassazione aveva
affermato, in contrasto con l’orientamento del Consiglio di Stato (in precedenza riferito), che “ l’art. 7 della
L.205 del 2000 mostra di volere devolvere al giudice amministrativo, nell’ambito della sua giurisdizione, la
cognizione dei danni che scaturiscono da provvedimenti e da condotte non conformi a diritto, senza che
all’uopo sia necessaria in via pregiudiziale una illegittimità provvedimentale consacrata dalla pronunzia di
annullamento” ; ciò significa dire che la tutela giudiziaria deve essere chiesta al GA, e gli potrà essere
chiesta, altresì, la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva ; la parte
potrà chiedere al GA anche solo la risarcitoria, senza dover osservare il termine di decadenza pertinente
all’azione di annullamento (questione, questa, affrontata in tal modo anche dal c.p.a). /
- Conclusioni: l’impressione generale che si ricava dall’esame della giurisprudenza è nel senso di rinvenire
una sorta di indifferenza nei confronti della sentenza 500 del 1999, soprattutto ad opera della magistratura
ordinaria; in generale si ha la sensazione che i giudici sono molto prudenti quando debbono seguire la
strada tracciata dalle Sezioni Unite.
Osservazioni conclusivi sulla P.TE TERZA (pag. 353): Dall’analisi dei numerosi commenti alla sentenza
500/1999 si ricava la sensazione che essi siano diffusamente permeati da una sorta di pregiudiziale disposizione
negativa verso la PA, nel senso che la PA registra una scarsa attitudine a porsi in concreto nella prospettiva
istituzionale (immaginata per essa) ; laddove si sposi un modello di cultura istituzionale che riconosca nella libera
iniziativa individuale l’unica strada per arrivare a conseguire il bene comune, è chiaro che si riduce
inevitabilmente (per un gioco forza) l’area di dominio della PA, ma, ciò nonostante, è fisiologico, scientifico,
ontologico, che rimangano spazi (ancorché) minimi e residuali che restano tassativamente di dominio
dell’Amministrazione, poiché in qualunque prospettiva di conviveva serve un soggetto esponenziale, al di sopra
del privato, che garantisca (come minimo) gli interessi essenziali della comunità ; appunto, per quanto appena
ciò detto, è impossibile un completo azzeramento definitivo di tutti i compiti pubblici, per la cui disciplina e
svolgimento è necessariamente indispensabile parlare di interesse pubblico e di strutture che siano votate alla
cura di questo. Concludendo in maniera definita questa parte terza generale di approfondimento di diritto
amministrativo, notiamo come allora il diritto amministrativo ha ancora ragione d’essere come disciplina
speciale perché lo Stato si è evoluto, e tuttora va evolvendosi, da luogo di arbitrio a luogo di garanzie per il
cittadino, sicché, per indentificarsi esso (lo Stato) come luogo garantistico di convivenza per il consociato, deve
necessariamente (come già antecedentemente sentenziato) far “sopravvivere” l’interesse pubblico, l’interesse
sopra strutturale rispetto ad altri, che deve esser curato dalla struttura pubblicistica per eccellenza, che è, per
l’appunto, la PA.

CAPITOLO 7

I vincoli amministrativi alla proprietà privata

2. La proprietà individualizzata in appartenenza soggettiva privata.

I beni di appartenenza soggettiva privata, sono qualificati giuridicamente dall'ordinamento, che


dire, per costituzione, conformarli in modo da garantire la funzione sociale della proprietà. Due
soggetti possono essere titolari di beni che l'ordinamento qualifica alla stessa maniera, però solo
uno dei due può dover sopportare provvedimenti amministrativi limitativi della disponibilità
integrale, ovvero soltanto di una o più facoltà, dei beni medesimi. Nella prima ipotesi possiamo
parlare di qualificazione/conformazione giuridica dei beni per categorie; nella seconda, invece, di
vincoli amministrativi su singoli beni. La qualificazione/conformazione giuridica dei beni per
categorie può intervenire, tanto direttamente ad opera della legge, quanto ad opera di atti
amministrativi fonte del diritto obiettivo. Sebbene siano ben più numerose le tipologie degli
interventi legislativi di qualificazione/conformazione, la più significativa differenza fra le categorie
dei beni e' data, nella realtà, dalla loro qualificazione/conformazione ad opera della strumentazione
urbanistica. Quanto alla seconda ipotesi, quella di vincoli amministrativi su singoli beni, si tratta di
casi in cui beni individui subiscono un provvedimento ablatorio, per effetto del quale la legge può
prevedere, espropriazione del bene opero diritti reali su di esso ovvero ancora di singole facoltà
inerenti alla proprietà.il dato che appare discriminare circa la ricorrenza o meno di una
espropriazione sembra doversi rinvenire nella indennizzabilità della perdita del bene, e il diritto
reale su di esso, ovvero della singola facoltà. In questo caso, dunque, si tratterà di vincoli ablatori
espropriativi. Nell'altro caso, possiamo parlare di vincoli ablatori non espropriativi, giacché il
vincolo ablatorio e' costruito dalla legge come non indennizzabile. Ordunque, il discriminante tra
interventi di qualificazione/conformazione e interventi singolari, non può rinvenirsi nella previsione
legislativa di un indennizzo.
3 e 3.1.  La qualificazione/conformazione giuridica finalizzata a garantire la "funzione
sociale" della proprietà privata, secondo l'art. 42, co 2, Cost. Le cc.dd. "limitazioni interne".
Beni privati di interesse pubblico e beni privati a destinazione pubblica

Adesso, in primo luogo, prenderemo in esame i beni privati di interesse pubblico ed i beni
privati a destinazione pubblica (beni pubblici privatizzati). È innanzitutto da chiarire, sì, ed in che
misura, siano assumibili le classificazioni dei beni privati come a) interesse pubblico, ovvero B) a
destinazione pubblica.
1) la prima categoria indica quei beni che avrebbero in comune con i beni pubblici, la caratteristica
di soddisfare immediatamente finalità pubbliche. Rientrerebbero nella categoria, i beni che
assolvano istituzionalmente a finalità di pubblico interesse, e appunto in relazione a ciò siano
assoggettati a un particolare regime in ordine alla disponibilità, nonché a un particolare regime di
polizia, di interventi e di tutela pubblici. Ad 1+ attenta e meditata riflessione, se non avessi
escludere che siffatta categoria presenti tratti così singolari da militare d'essere tenuta distinta da
quella dei beni in proprietà funzionali Z militare d'essere tenuta distinta da quella dei beni in
proprietà funzionalizzata. Certo, la funzionalizzazione può essere disposta da una fonte
dell'ordinamento in modo più o meno intenso e penetrante. Ma la maggiore o minore intensità non
appare sufficiente per giustificare l'adozione di una specifica sezion certo, la funzionalizzazione
può essere disposta da una fonte dell'ordinamento in modo più o meno intenso e penetrante. Ma
la maggiore o minore intensità non appare sufficiente per giustificare l'adozione di una specifica
categorizzazione. I beni in parola non presenterebbero carattere giuridicamente significativi che
siano in grado di suggerire, in maniera verosimilmente fondata, una peculiare categoria.
b) nella categoria dei beni privati a destinazione pubblica si suole far rientrare quei beni che,
originariamente pubblici, essendo stati oggetto di privatizzazione, manterrebbero una
qualificazione giuridica peculiare, che ne determinerebbe un regime speciale. È necessario
chiedersi se il bene che era in origine demaniale, ovvero patrimoniale indisponibile, una volta
alienato ad un soggetto privato, con servizi vincoli che ne circoscrivano la piena utilizzabilità.
1) Alienazione senza modifica del vincolo di destinazione. Può accadere che la direzione non
comporti una modifica della destinazione e della gran parte delle regime giuridico del bene
alienato. Nel caso essa si abbia in favore di soggetti solo formalmente privati, il soggetto
acquirente potrà commercializzarli utilizzando in bic utilizzando in vece dello strumentario giuridico
pubblicistico quello proprio del diritto civile: non potrà però, modificare la destinazione del bene, lì,
salvo eccezioni, a sua volta ad altro soggetto privato. Il vincolo di destinazione, permane pure la
dove l'alienazione si abbia in favore di soggetti anche sostanzialmente privati, questi ultimi, però,
potendo invece, alienarli ai terzi. E necessario, inoltre, svolgere alcune brevi ed essenziali
riflessioni sui vincoli di destinazione e sulla commerciabilità regolata dei beni. Indottrina, si è di
recente fatta strada l'idea che gli ultimi evoluzioni legislative abbiano generato non una categoria,
quella appunto di beni pubblici, i quali possono considerarsi pubblici anche se appartenenti a
soggetti privati, in virtù della loro permanente sottoposizione ai rispettivi vincoli di destinazione e
della connessa regolazione amministrativa dire loro possibilità di utilizzo ciò significa che
nell'ipotesi in cui continuerà formalmente ad applicarsi l'articolo 823, comma uno, del codice civile,
la tradizionale incommerciabilità di beni pubblici cederà il passo a una commerciabilità che si
potrebbe efficacemente di finire regolata. Si potrebbe dire, che l'incommerciabilità dei beni sarà
sostituita dalla incommerciabilità della loro destinazione, per significare come quest'ultima non
sarà modificabile se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, riconoscendo una valenza
generale alla regola finalistica formulata per i beni patrimoniali indisponibili dell'articolo 828,
comma 2, del medesimo codice. Resta fermo che per quelli divenuti allenabili A "comuni soggetti
privati", alla stregua di quelli che per legge su uno trasferibili soltanto a soggetti sostanzialmente
pubblici, permane il vincolo di destinazione. Di talché il loro regime giuridico di merda fortemente
connotato dalla regolazione pubblicistica. Possiamo perciò concludere che continuano a rilevare,
per i beni alienabili a soggetti privati, i diversi atti amministrativi finalizzati a qualificarli, a
determinarne la destinazione, ed a limitarne la utilizzabilità, sia collettiva che individuale e tuttavia
essi divengono commerciabili attraverso "l'impiego dei mezzi offerti dal diritto privato". In buona
sostanza, i soggetti privati che volessero acquistare un bene pubblico marinato con un vincolo di
destinazione dovrebbero tener conto, da un lato, i limiti cui questo è sottoposto, e, dall'altro, degli
obiettivi vantaggi che potrebbero ricavarne.
2) Sdemanializzazione e/o perdita del vincolo di destinazione. Può che dire, viceversa, che il bene
venga sclerificato, si demaniale, bene può che dire, viceversa, che il bene venga sclerificato, si
demaniale, ovvero, sì patrimoniale indisponibile, che venne il vincolo sì patrimoniale indisponibile,
che venga il minato il vincolo di destinazione gravante sullo stesso. In entrambi casi di riva come
naturale la sua nuova collocazione nel patrimonio disponibile. Ciò comporta, con ogni evidenza,
che il bene andrà soggetto al regime tipico della proprietà di appartenenza privata, in quanto tale
suscettibile di interventi legislativi di funzionalizzazione per categorie. Da quanto abbiamo appena
detto sin qui possiamo ricavare quale conclusione che la categoria dei beni privati a destinazione
pubblica sembra non presentare elementi tali da giustificare la sua differenziazione da quella dei
beni privati di interesse pubblico e, quindi, anche da quella di beni in proprietà privata
funzionalizzata. Infine, ciò che caratterizza giuridicamente tutti tali beni è la qualificazione con
formativa che segna, sua base di scelte assunte, di volta in volta, dalle fonti dell'ordinamento, le
utilità consentite al soggetto privato titolare del bene. Ciò non di meno, assumendola sotto
classificazione a fini meramente descrittivi, potrebbe configurarsi l'esistenza di due species-beni
privati a destinazione pubblica e beni privati di interesse pubblico-dell'unico genus giuridicamente
significativi: quello dei beni in proprietà privata funzionalizzata giuridicamente significativo: quello
dei beni in proprietà privata funzionalizzata.

3.2. La qualificazione/conformazione giuridica dei beni:  per categorie a) ad opera della


legge
Cominceremo da quelli derivanti dalla legge, avendo riguardo ai settori, agli ambiti materiali,
indicati in premessa: Beni Culturali, ambiente, urbanistica, e servitù pubbliche su beni privati. Non
è inutile sottolineare che i provvedimenti amministrativi attuativi delle previsioni normative di
qualificazione/conformazione anno, proprio perciò, natura  ricognitivo-dichiarativa di un connotato
che la norma riconosciuto intrinseco al bene.

A) Beni culturali. Con riguardo a questi ultimi, vengono in rilievo le disposizioni del codice dei Beni
Culturali e del paesaggio, concernenti, rispettivamente, a) la cd. "tutela diretta" Dei beni, con
l'espressione di assumendosi i divieti, i doveri e i poteri di intervento attribuiti alla p Dei beni, con
l'espressione di assumendosi i divieti, i doveri e i poteri di intervento attribuiti alla P.A. Ti hanno
dato il getto direttamente il bene culturale; b) la loro esportazione; c) lavoro fruibilità giuridica
collettiva; d) I poteri ablatori, preordinati all'appropriabilità pubblica del patrimonio culturale in
appartenenza privata.
a) tutela diretta. Con riferimento agli strumenti della tutela diretta, vanno richiamati il diritto ex legg
con riferimento agli strumenti della tutela diretta, vanno richiamati il diritto ex lege di adibire i Beni
Culturali ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare
pregiudizio alla loro conservazione, i divieti a svolgere determinate attività su di essi senza una
preventiva autorizzazione da parte del ministero.
a.1) divieto di usi non compatibili o pregiudizievoli. Il divieto riguarda la generalità dei beni. È
stabilito dall'articolo 20 del codice, un regime giuridico diverso per quelli di appartenenza pubblica
e quindi in appartenenza privata. Per i primi, infatti, è sempre necessaria l'autorizzazione. Per i
secondi, invece, il divieto opera ex lege, non essendo previsto per il loro uso il previo rilascio della
autorizzazione. Questo vuol dire che la valutazione sulla compatibilità lisi vita di esso e affidata alla
diligenza del proprietario, il quale rischia, però, che l'autorità di tutela, in sede di esercizio del
potere di vigilanza, rilevando la sussistenza di usi non compatibili o lesivi, irroghi la relativa
sanzione.
a.2) interventi soggetti ed autorizzazione. Disciplinati dagli articoli 21, 49,50 e 52, possono definirsi
corrispondenti ad altrettanti di viti e cioè:
Il divieto di demolizione, anche con successiva ricostituzione, Nonché il divieto di rimozione:
innovando rispetto alla precedente legislazione, il codice distingue l'ipotesi della distruzione da
quella della demolizione. Mentre la prima invitata ex legge (articolo 20, comma uno); la seconda,
parziale o totale che sia, al pari della rimozione, è ammessa previo rilascio di autorizzazione
ministeriale;
Il divieto di smembramento e di scarto: analogo provvedimento autorizzatorio è richiesto per lo
smembramento di collezioni, serie di raccolte, nonché per lo scarto di documenti pubblici privati
per i quali sia intervenuta la dichiarazione e di materiale bibliografico delle biblioteche pubbliche e
delle biblioteche private per le quali sia intervenuta la dichiarazione. Per queste categorie di beni lo
smembramento e lo scarto equivalgono ad un avere propria demolizione, suscettibile di
compromettere il valore storico e documentale della raccolta;
il divieto di spostamento: anche lo spostamento del bene culturale e sottoposto a regime
autorizzatorio. L'autorizzazione in questo caso è funzionale alla verifica che la nuova collocazione
richiesta del soggetto che lo ritiene non faccio correre rischio che la cosa si deteriori, al tempo
stesso offrendo garanzie idonee affinché possa esserne evitata la sottrazione;
il divieto di eseguire lavori: anche l'esecuzione di opere lavori di qualunque genere è subordinata
ad un atto preventivo di consenso dell'amministrazione, riso sul progetto o, qualora sufficiente, su
descrizione tecnica dell'intervento, che il proprietario è obbligato a presentare al soprintendente.
(Art. 21, co. 4). Che l'amministrazione non debba limitarsi almeno accoglimento della proposta
progettuale, ma esercito reale potere di controllo, è dimostrato dal fatto che la legge, per un verso,
riconosce al soprintendente la facoltà di chiedere chiarimenti o elementi integrativi di giudizio
(articolo 22, comma due); E, per l'altro, fa salva la possibilità che l'autorizzazione possa contenere
prescrizioni (articolo 21, comma cinque);
il divieto di affissione: ulteriore di Vito e quello a collocare o affiggere cartelli o altri mezzi di
pubblicità sui difficili e nelle aree tutelati come Beni Culturali, previsto dall'articolo 49, comunque. Il
rilascio dell'autorizzazione e rimesso alla Clara amento, da parte del soprintendente, della
insussistenza del danno all'aspetto, al decoro e alla pubblica fruizione di detti edifici ed aree
derivante dall'impatto delle installazioni. Ove rilasciata, l'autorizzazione dovrà essere trasmessa al
Comune per l'eventuale adozione del provvedimento di sua competenza;
il divieto di distacco: un'ultima specie di divieti e quella relativa al distacco, senza autorizzazione,
gli affreschi, stemmi, definiti, eccetera, e alla rimozione di CP i monumenti, costituenti visti gi
un'ultima specie di divieti e quella relativa al distacco, senza autorizzazione, gli affreschi, stemmi,
definiti, eccetera, e alla rimozione di CP i monumenti, costituenti vestigia
della prima guerra mondiale. Il divieto è disciplinato dall'articolo 50 ed opera sulla generalità delle
cose, indipendentemente dall'avvenuta verifica dichiarazione dell'interesse culturale.
a.3) doveri di conservazione. Sempre in tema di tutela diretta rilevano i doveri di conservazione
(articoli 29-37 e i 39-42). La disciplina posta dal codice stabilisce innanzitutto, nell'articolo 29, quali
sono le diverse misure conservative, menzionando la prevenzione, la manutenzione ed il restauro.
In caso di intervento volontario, tanto per il restauro, quanto per le altre attività conservative,
valigie, riproducendo di impianto disposto dalla precedente normativa, vuole la loro esecuzione
subordinata al rilascio di autorizzazione. Il restauro può essere anche imposto dalla pubblica
amministrazione, ovvero effettuato direttamente da questa (intervento impositivo o intervento
sostitutivo). In tutti e tre i casi, comunque, la legge prevede l'eventuale concorso alla spesa da
parte dello Stato.
b) inespropriabilità ex lege e limiti alla esportazione. Ulteriori limitazioni interne si rinvengono nella
disciplina della esportazione, che prevede, per un verso, il diritto ex lege all'uscita definitiva dei
beni culturali mobili indicati nell'articolo 10, comma 1,2 e 3 ( art. 65, co. 1); Per altro verso, un
divieto preventivo alla esportazione di singoli beni che la autorità di tutela, sulla base di un giudizio
tecnico discrezionale, e sentito il competente organo consultivo, impone con proprio
provvedimento; Per un altro ancora, il previo rilascio di una autorizzazione per l'esportazione delle
cose che presentino interesse culturale, opera di autore non più vivente il cui esecuzione risalga
ad oltre 50 anni.
c) fruibilità giuridica collettiva. Con riguardo all'accesso pubblico ai beni culturali di appartenenza
privata, l'articolo 104 stabilisce che possono essere assoggettati a visita da parte del pubblico, per
scopi culturali, gli immobili e le condizioni o serie di oggetti per i quali sia intervenuto il
provvedimento di dichiarazione di eccezionale interesse, e sempre che intercorra un accordo con il
proprietario. Per i beni mobili individui, invece, la fruibilità giuridica non sembra essere assicurata
dalla legge. Essa, invero, e disciplinata dall'articolo 44 della forma del comodato, Che consiste in
un contratto tra la pubblica amministrazione e il proprietario, in virtù del quale quest'ultimo
consente la disposizione del bene di cui dispone in archivi i istituti che abbiano in amministrazione
in deposito raccolte o collezioni artistiche, archeologiche, bibliografiche e scientifiche.
d) poteri ablatori. Sono preordinati a fini di godimento anche i poteri ablatori di espropriazione, di
prelazione artistica e di acquisto coattivo alla esportazione, disciplinati, rispettivamente, ai articoli
95,59-62, e 70 del Codice. Consente di acquisire al patrimonio in appartenenza pubblica Beni
Culturali di proprietà privata, rimuovendo i limiti all'accessibilità di questi e rendendo giuridicamente
disponibili Beni Culturali che in precedenza, in virtù dello Stato di appartenenza, erano
integralmente preclusi all'accesso del pubblico.
d.1 espropriazione. nel caso dell'espropriazione, la detta teleologia È formalmente espressa nella
norma, il comma uno dell'articolo 95 disponendo che i Beni Culturali in appartenenza privata,
immobili immobili, possono essere espropriati dal ministero per causa di pubblica utilità e, quando
espropriazione risponda ad un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della
fruizione pubblica Dei beni medesimi. Quanto alla indennità di esproprio da corrispondere al
privato, essa consiste nel giusto prezzo che il bene avrebbe in una libera contrattazione di
compravendita all'interno dello Stato.
d.2) prelazione artistica. La prelazione artistica consiste in un diritto di precedenza che la legge
riconosce alla pubblica amministrazione nell'acquisto di beni culturali in appartenenza privata
alienati a titolo oneroso, nonché conferiti in società. Pur essendo assimilabile, i suoi effetti giuridici,
alla espropriazione, L'applicazione artistica la tenuta distinta da questa, caratterizzandosi per il
fatto di prevedere come presupposto la volontà del proprietario di trasferire il bene a titolo nervoso,
ovvero di conferirlo in società. Parimenti, essa va distinta dall'omonimo istituto civilistico,
qualificandosi con un provvedimento amministrativo a carattere ablatorio.
d.3) acquisto coattivo alla esportazione. Il potere di acquisto coattivo alla esportazione si
differenzia nei presupposti sia dalla espropriazione, sia dalla prelazione artistica. Dalla prima, lo
distingue il fatto che esso trova la sua genesi in un comportamento del proprietario dalla legge
ritenuto significativo; dalla seconda, lo differenzia, invece, la circostanza che il suo esercizio non
richiede che vi sia, da parte del titolare, l'esplicita volonta di alienare il bene a titolo oneroso.
L'istituto, nell'attuale sistema, sembra aver perso l'originaria intensità, essendosi sfamata la
efficacia di uno tra i più consolidati strumenti di acquisizione da parte dello Stato di beni culturali in
appartenenza privata. Le condizioni, così come i tempi, sono rimaste inalterate, confermandosi il
carattere vincolante, per la P. A., della dichiarazione del valore che l'esportatpre e' obbligato a
rendere: come nella previgente normativa "il Ministero ha la facoltà di acquistare la cosa o il bene
per il valore indicato nella denuncia". (Art. 70, co. 2). Non altrettanto può dirsi con riferimento alle
scelte in capo all'esportatore, la legge consentendogli di rinunciare all'uscita dell'oggetto, peraltro
solo "fino a quando non sia intervenuta la notifica del provvedimento di acquisto": il fatto che la
dichiarazione del valore sia obbligatoria, perciò, comunque impedisce all'esportatore di sottrarsi al
procedimento ablatorio, il che indibbiamenre sembra attenuarne gli effetti.
B) Ambiente. In tema di ambiente le "limitazioni interne" comprendono i vincoli forestali è quello
paesaggistici.
a) vincoli forestali. Sono disciplinati dall'art. 10, co. 1, della legge 21 Dicembre 2000, n. 353,
recante "La legge quadro in materia di incendi boschivi, con specifico riferimento ai termini
boschivi che siano stati percorsi dal fuoco.
a.1) I vincoli sulle aree boscate percorse dal fuoco. Consistono nella imposizione di obblighi ob
rem, sia di facere che di pati, e sono così catalogati: a) il vincolo di destinazione quindicennale a
zona boscata e di pascolo; b) l'obbligo di rimboschimento dei terreni vincolati; c) il vincolo di
inedificabilità decennale nei Comuni sprovvisti di piano regolatore su area boscata percorsa dal
fuoco; d) il divieto decennale di realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate
ad insediamenti civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui detta realizzazione sia stata
prevista in data precedente l'incendio degli strumenti urbanistici vigenti a tale data; e) il divieto
decennale di pascolo e caccia, limitatamente ai soprassuoli delle zone boscate percorsi dal fuoco.
a.2) vincoli alla utilizzabilità dei boschi. Consistono nei divieti disposti dagli artt. 7 e 9, R. D. L.
3267/1923, secondo i quali sono vietati, senza autorizzazione, la trasformazione dei boschi ed il
pascolo su boschi. Tutti i richiamati vincoli, si presentano chiaramente come limitazioni legali al
diritto di proprietà, poiché il loro contenuto e' fissato dalla legge, che lascia in capo al Comitato
forestale soltanto il potere di accertare la effettiva sussistenza degli elementi stabiliti dalla norme.
b) vincoli paesaggistici. Sono disciplinati dalla parte III del già richiamato "Codice di beni culturali e
del paesaggio", e sono volti a preservare valori ad un tempo naturali, estetici e storico culturali, i
quali, nell'insieme, segnano l'area in cui questi si manifestano. Non di rado, territori boschivi
vengono sottoposti, oltre alla tutela loro propria, anche a quella paesaggistica. I vincoli in parola
consistono in: a) divieti (distruggerli, o introdurre modificazioni che rechino pregiudizi ai patrimoni
paesaggistici tutelati dalla legge)
b) obblighi di conservazione. (Possessori o detentori a qualsiasi titoli di immobili ed aree di
interesse paesaggistico tutelati dalla legge, hanno l'obbligo di presentare alle amministrazioni
competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, ed astenersi dall'avviare i lavori
fin quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione. c) obblighi di facere (l'art. 154, co. 1,
stabilisce che "qualora la tinteggiatura delle facciate dei fabbricati siti nelle aree contemplate dalle
lettere c) e d) dell'articolo 136, comma 1, o dalla lettera m) dell'articolo 142, comma 1, sia
sottoposta all'obbligo della preventiva autorizzazione l'amministrazione competente, su parere
vincolante del soprintendente, o il Ministero, possono ordinare che alle facciate medesime sia dato
un colore che armonizzi con la bellezza d'insieme.
C) Urbanistica. Nel settore dell'urbanistica, si distinguono tre diverse tipologie di interventi di
qualificazione/conformazione: le zone di rispetto, le zone di tutela, i vincoli per le zone a rischio
vulcanico nell'area vesuviana.
a) zone di rispetto. Tra queste si annoverano:
a.1) zone di rispetto dei cimiteri. Secondo quando stabiliva l'art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie,
era fatto espresso divieto di realizzare nuove costruzioni, o di procedere ad ampliamenti di quelle
preesistenti, entro un raggio di 200 metri dal perimetro del cimitero. Una, sia pur limitata, deroga ai
divieti in parola e' stata introdotta dall'art. 28 della Legge 1 Agosto 2002, n. 166, recante
disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti, il quale, ha previsto il potere del Consiglio
Comunale di approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la
costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200
m. Dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 m, sempre che ricordano anche
alternativamente due ulteriori condizioni "a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti; b) l'impianto cimiteriale sia
separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della
classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali
rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
a.2) zone di rispetto delle strade pubbliche e delle autostrade.
Si tratta di limitazioni che riguardano i fondi limitrofi a strade pubbliche. Il nuovo codice della strada
stabilisce che, "ai proprietari o aventi diritto dei fondi confinanti con le proprietà stradali fuori dei
centri abitati è vietato: A) aprire canali, fossi ed eseguire qualunque esclamazione nei terreni
laterali alle strade: B) costruire ricostruire o ampliare, lateralmente alle strade, edificazioni di
qualsiasi tipo di materiale: C) impiantare gli alberi lateralmente alle strade, si rivive o piantagioni
ovvero recinzioni, rinviando al regolamento per la determinazione delle distanze dal confine
stradale entro le quali vigono i divieti di cui sopra.
a.3) zone di rispetto delle ferrovie. Nei pressi di ferrovie, ferrovie metropolitane e funicolari terrestre
su rotaia, è stabilito il divieto di edificabilità, che comprende una fascia di 6 m dalla più vicina
rotaia, la misurassi in proiezione orizzontale.
a.4) zone di rispetto di elettrodotti, metandotti e depositi di gas. Nella fascia di terreno circostante
gli elettrodotti, i mettano tutti ed I depositi di gas è previsto il divieto di edificabilità.
a.5) zone di rispetto del demanio marittimo. La esecuzione di nuove opere entro una zona di 30 m
dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni rilevati sul mare è sottoposta all'autorizzazione del
capo del compartimento.
b) zone di tutela. L'articolo 94 del decreto legislativo 3 aprile 2006, numero 152 stabilisce chi su
proposta delle autorità d'ambito, Julie, per mantenere e migliorare le caratteristiche qualitative
delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano, Erogati a terzi mediante
impianto di acquedotto che riveste carattere di pubblico interesse, individuano le aree di
salvaguardia distinti in zone di tutela assoluta e zone di rispetto.
b.2) zone di tutela paesaggistica. L'articolo 142 del codice dei Beni Culturali ed il paesaggio rimetti
la ricognizione delle aree di cui al comma uno dell'articolo 142, la loro delimitazione e
rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d'uso
in tese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree nonché la loro
valorizzazione.
b.3) zone di tutela ambientale. Sono vietati fuori dei centri edificati, per gravi motivi salvaguardia
mentale, con provvedimento motivato, anche nei centri edificati, esecuzione di nuove costruzioni e
la trasformazione di quelle esistenti, qualsiasi mutamento dell'utilizzazione dei terreni con
destinazione diversa da quella agricola E quant'altro possa incidere sulla morfologia del territorio,
sugli equilibri ecologici, idraulici ed idrogeotermici, preferendosi così la salvaguardia dell'integrità di
lunghi e dell'ambiente naturale.
c) vincoli per le zone a rischio vulcanico dell'area vesuviana. Nei comuni rientranti nella
cosiddetta zona russa è consentito il mutamento di destinazione d'uso degli immobili residenziali
da di birre all'esercizio di attività produttive e commerciali, turistico ricettive o di pubblica utilità.
D) servitù pubbliche su beni privati. Si distinguono cinque categorie pubbliche su beni privati:
a) servitù di "via alzaia". La servitù insiste sulla striscia di terreno che i proprietari dei fondi
attraversati confinanti con corsi d'acqua navigabili sono tenuti a lasciare sgombra per consentire il
traino dell'imbarcazione o comunque il transito di persone ed animali. Ma sulla rizza è
generalmente di 5 m une non sia diversamente è determinata da regolamenti o consuetudini o
consuetudini.
b) servitù aeronautiche. Stante la necessità di garantire la sicurezza del volo, in prossimità degli
aerodromi sono soggetti a limiti stabiliti dagli articoli 711 successivi del codice sulla navigazione
interna, le opere, le piantagioni e le attività che costituiscono un potenziale richiamo per la fauna
selvatica o comunque un pericolo per la navigazione aerea.
c) servitù di elettrodotto. Ogni proprietario è tenuto a del passaggio per i suoi fondi alle condutture
elettriche aeree un sotterranee che segua chi le abbia ottenuto permanentemente o
temporaneamente l'autorizzazione dall'autorità competente.
e) servitù di strade vicinali. Insistono sulle strade Vicinale cosiddetti pubblica e sembrano essere
frutto di elaborazione giurisprudenziale che ne ha stabilito posti e modi di costituzione. Le strade
vicine alle pubbliche, dunque, sono strade di proprietà privata gravate da servitù pubblica di
passaggio, alla quale vengono assoggettate anche gli spazi privati aperti al transito pubblico: essi,
in quanto assoggettati al pubblico transito, sono equiparate alle strade pubbliche in senso proprio e
sottoposte al regime giuridico di questi ultimi. Perché una strada possa rientrare nella categoria
delle strade vicina di pubbliche devono sussistere: a) il requisito del passaggio B) la concreta
idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di
generare interesse: C) un titolo valido a sorreggere l'affermazione il diritto di uso pubblico, chi può
identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da un tempo immemorabile. Le prime quattro serviù
elencate, sebbene siano costituite con atto amministrativo, sembrano doversi collocare, tutte,
senza particolari problemi, fra le qualificazioni/conformazioni legislative, giacchè e’ comunque
direttamente dalla legge che scaturisce la connotazione limitante la proprietà. Anche alla uinta,
benchè ciò si presenti meno pacifico,, pare doversi riservare la medesima collocazione pur
trattandosi di una creazione giurisprudenziale, infatti, a far propendere per la sua assimilazione alle
servitù pubbliche ex lege sta il fatto che l’asservimento all’uso collettivo pare discendere, in via
diretta, da una qualità che la legge considera intrinseca al bene.

3.3 (Continua): b) ad opera di atti amministrativi fonte di diritto obiettivo (piani regolatori e
strumentazione urbanistica in genere)
E’ necessario ora, anallizzare tutte quelle limitazioni interne dervivanti da atti fonte del diritto
obiettivo. Tali limitazioniricorrono in due soltanto dei quattro ambiti indicati: ambiente e
urbanistica.
A) Ambiente. Relativamente all’ambiente, esse si distinguono nelle seguenti tre specie: a) vincoli
a scopi idrogeologici posti dal Piano di coltura e conservazione; b) vincoli di bacino posti dal Piano
di bacino distrettuale; c) vincoli a tutela delle acque posti dal Piano di tutela delle acque.
a) vincoli a scopi idrogeologici posti dal piano di coltura e conservazione. Essi hanno lo
scopo di vincolare “per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che possono
subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque
b) vincoli di bacino posti dal Piano di bacino distrettuale. Tali vincoli sono posti dal Piano di
bacino distrettuale, che “e lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il
quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla
difesa e alla valorizzazione del suolo e alla corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle
caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato
c) vincoli per la tutela delle acque posti dal Piano di tutela delle acque. Previsti dall’art.121 de
D. lgs. 152/2006 appena richiamato, consistono nelle misure necessarie alla tutela qualitativa e
quantitativa del sistema idrico e sono posti dal Piano di tutela delle acque approvato dalla Regione.
I tre vincoli appena richiamati, sono riconducibili alla categoria delle qualificazioni/conformazioni ad
opera di atto fonte.

B) Urbanistica. Con riguardo a quest’ultima, le limitazioni si sostanziano: nelle a) zonizzazioni ad


opera del Piano regolatore generale; e nelle b) zone sismiche.
a) zonizzazioni ad opera del Piano regolatore generale. Le prescrizioni di zona sono le
disposizioni che consentono al pianificatore comunale di suddividere il territorio in zone in base alla
capacità delle diverse aree di ospitare i differenti usi. Richiamando la definizione fornita dalla Carta
di Atene del 1933, può affermarsi che la zonizzazione e’ quella operazione fatta sulla pianta di una
città, al fine di assegnare ad ogni funzione, ad ogni individuo il suo giusto posto. Lo zooning, si
caratterizza, per un verso, per la suddivisione del territorio comunale in zone, aventi ognuna una
data funzione e, per l’altro, per la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare per
ciascuna di esse. Il D.M. 1444/1968, nel definire le Zone Territoriali Omogenee (Z.T.O.) della
pianificazione urbanistica, indica quelle che necessariamente devono essere individuate nello
strumento urbanistico comunale, distinguendo tra zone “omogenee” residenziali, produttive,
agricole e destinate ad impianti di interesse generale. La “zona” si caratterizza, pertanto, per
l’identità della destinazione urbanistica di tutte le aree che la compongono. Sul piano giuridico, ciò
si giustifica con l’esigenza di garantire, a parità di condizioni, l’uguaglianza di trattamento della
situazioni giuridiche soggettive, ad esempio del diritto di proprietà o del diritto d’impresa. In
ciascuna zona, infatti, l’edificazione e’ diversamente regolata, potendo le norme tecniche di
attuazione del Piano regolatore prescrivere, oltre alla specifica destinazione e alle funzioni
ammissibili, l’incidenza volumetrica, le altezze massime ed ogni altro parametro edilizio ritenuto
rilevante: per tali motivi può affermarsi che le norme tecniche di attuazione disciplinano, oltre alla
pianificazione territoriale, anche l’attività edificatoria in senso stretto. Più in particolare, al fine di
determinare le modalità e le potenzialità di intervento, le n.t.a.: forniscono, sulla base delle
caratteristiche fisiche di ogni area, la definizione della zona; chiariscono quale debba essere lo
scopo degli interventi e le forma attraverso cui devono essere attuati; prevedono indici urbanistici
specifici da rispettare; disciplinano le destinazioni d’usp e le modalità attuative del piano.
Le Zone Territoriali Omogenee sono suddivise nelle seguenti:
La zona A (centro storico) e’ costituita da parti del territorio comunale interessate da edifici e
tessuto edilizio di interesse storico, architettonico o monumentale. In questa vige il divieto di
edificabilità, qualsiasi intervento dovendo avere per scopo la conservazione e la ricostituzione dei
valori urbanistico-ambientali, desumibili dal significato storico della medesima. Le modalità
attuative dela conservazione della zona A sono di regola fissate in specifiche previsioni contenute
nei Piani particolareggiati e di recupero.
La zona B e’ costituita da parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone
A, e definitta zona di completamento, ad indicarne la vocazione essenzialmente di completamento
della edificazione preesistente.
La zona C e’ costituita da parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino
inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità di
cui alla precedente lettera B, ed e’ definita zona residenziale di espansione, a significare che si
tratta di una zona a vocazione urbanistico edilizia, destinata a soddisfare le esigenze di sviluppo
dell’edilizia residenziale, sia privata che pubblica. La zona C, insomma, si connota per le previsioni
di espansione dell’aggregato urbano.
La zona D e’ costituita da parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o
ad essi assimilati. Relativamente a tale zona, spesso i pianificatori introducono specifiche
sottozone, distinguendo tra grandi industrie, medie industrie, piccole industrie ed artigianato
industriale. Sotto il profilo vincolistico ciò che rileva e’ il fatto che il pianificatore può intervenire a
disciplinare la zona industriale vietando l’esercizio di particolari attività, in considerazione della
tutela ambientale ed igienico-sanitaria.
La zona E e’ costituita da parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle in cui il
frazionamento della proprietà richieda insediamenti da considerare come zone C. Dal canto suo, la
giurisprudenza ha affermato che la destinazione a zona agricola contenuta nel Piano regolatore
non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, in quanto risponde all’esigenza di
conformare il diritto di proprietà attraverso la definizione dell’utilizzazione del suolo consentita al
proprietario. Per altro verso, il giudice amministrativo ha riconosciuto il carattere di residualità della
zona E rispetto alle altre zone, espressamente sostenendo che la destinazione agricola non
sottrae l’area ad ogni e qualsiasi utilizzazione produttiva e nemmeno totalmente all’edificazione,
tenuto conto che, assume nella pianificazione urbanistica, carattere residuale rispetto alle altre
zone omogenee.
La zona F e’ costituita da parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse
generale. La locuzione impianti di interesse generale non fa necessariamente riferimento alle
opere pubbliche, ma concerne tutte quelle strutture che riguardano la collettività, anche se private.
b) zone sismiche. Sono disciplinate dall’Ordinanza Presidente del consiglio dei Ministri, 28 Aprile
2006, n. 3519, la quale fissa i criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche e per la
formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone. Nelle zone in parola sono in
particolare previsti obblighi tecnici riguardanti, per un verso, il progetto, la valutazione e
l’adeguamento sismico degli edifici; e, per l’altro, i progetti di opere di fondazione e di sostegno dei
terreni.

4. I vincoli amministrativi sui singoli diritti di proprietà privata, secondo l’art. 42, co. 3, Cost.
Le cc.dd. “limitazioni esterne” + 4.1. I vincoli amministrativi su singoli beni: a) ablatori
(integralmente o parzialmente) espropriativi (perchè indennizzabili)

E’ necessario ora, procede di passo in passo nell’andare ad individuare i veri e propri limiti al diritto
di proprietà, le cc.dd. “limitazioni esterne”. Quest’ultime derivano da provvedimenti amministrativi
singolari, volti a circoscrivere la utilizzabilità dei beni, fino alla loro espropriazione. Detti vincoli
ablatori, possono avere una capacità espropriativa, la quale e’ riconoscibile dalla corresponsione di
indennitàprevista dalla legge. I primi limiti amministrativi, quelli cioè ablatori (integralmente o
parzialmente) espropriativi (perchè indennizabili) ricorrono in tutti e quattro gli ambiti materiali
indicati: beni culturali, ambiente, urbanistica e servitù pubbliche su beni privati.

A) Beni culturali. I vincoli in parola consistono nella cd. “espropriazione in zona di rispetto”, ipotesi
che può ricorrere secondo la legge, in due casi.
a) espropriazione per fini strumentali. E’ disciplinata dall’art. 96 del Codice, a norma del quale
“Possono essere espropriati per causa di pubblica utlità edifici ed aree quando ciò sia necessario
per isolare o restaurare monumenti, assicurarne la luce e la prospettiva, garantirne ed accrescerne
il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso”.
b) espropriazione per interesse archeologico. E’ disciplinata dall’art. 97 del Codice, a norma del
quale “Il Ministero può procedere all’espropriazione di immobili al fine di eseguire interventi di
interesse archeologico o ricerche per il ritrovamento delle cose indicate nell’art. 10”. Essa sembra
potersi assimilare ad una siffatta ipotesi, piuttosto che a quella della espropriazione di beni
culturali, giacchè mira alla appropriazione di beni, non in ragione della loro culturalità, ma perchè la
loro disponibilità e’ strumentale alla ricerca archeologica.

B) Ambiente. Si distinguono due diverse specie di vincoli ambientali, quelli naturalistici e quelli
idrogeologici, ulteriori rispetto a quelli posti dal Piano di coltura e conservazione.
a) vincoli naturalistici. Secondo la dottrina, essi sono rivolti alla tutela di valori naturalistici ed
ecologici, geologici e biologici ma anche estetici e, in diverse ipotesi, finanche antropologici e
storico-culturali, all’interno di porzioni di territorio, variamente estese e delimitate. Secondo l’art.
12, co. 1, L. 394/1991, “la tutela dei valori naturali ed ambientali e’ affidata all’Ente parco ed “ e’
perseguita attraverso lo strumento del piano per il parco”, il quale “ deve disciplinare
l’organizzazione generale del territorio nonchè i vincoli, destinazione di uso pubblico p privato e
norme di attuazione relative con riferimento alle varie aree o parti del piano. I vincoli appena
richiamati consistono nel divieto di costruire nuove opere edilizie, di ampliare le costruzioni
esistenti, di eseguire opere di trasformazione del territorio. E’ sempre la legge, infine, a stabilire
che “ I vincoli derivanti dal piano alle attività agro-silvo-pastorali possono essere indennizzati sulla
base di principi equitativi. I vincoli, temporanei o parziali, relativi ad attività già ritenute compatibili
possono dar luogo a compensi ed indennizzi, che tengano conto dei vantaggi e degli svantaggi
derivanti dall’attività del parco.
b) vincoli idrogeologici ulteriori rispetto a quelli posti dal Piano di coltura e conservazione.
Consistono nella limitazione all’utilizzo di quei boschi costituenti “opera naturale” a difesa di terreni
o fabbricati dalla caduta di valanghe, dal rotolamento di sassi ecc., nonchè di quelli ritenuti utili per
le condizioni igieniche locali, i quali ultimi possono su richiesta delle provincie, dei comuni o di altri
enti e privati interessati, essere sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione. La legge, inoltre,
prevede l’obbligo di indennizzare la diminuzione del reddito derivante dalle limitazioni all’uso.

C) Urbanistica. Vi rientrano soltanto i vincoli preordinati all’esproprio. Si caratterizzano per il fatto


di porre vincoli di inedificabilità funzionali al successivo trasferimento della titolarità del bene in
capo alla pubblica amministrazione, mediante espropriazione, al precipuo fine di realizzare un
opera pubblica. I vincoli localizzativi, insomma, determinano una inedificabilità provvisoria poichè,
in attesa dell’espropriazione, il privato non potrà realizzare opere di edificazione. In maniera più
approfondita, l’art. 7 della legge urbanistica stabilisce che il Piano regolatore indichi la rete della
principali vie di comunicazioni e della aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonchè
ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale.

D) Servitù pubbliche su beni privati. Vi rientrano soltanto le cc.dd. “servitù militari”. L’art. 1 della
Legge 24 dicembre 1976, n. 898, dispone che in vicinanza delle opere ed installazioni permanenti
e semipermanenti di difesa, di segnalazione e riconoscimento costiero, delle basi navali, degli
aereoporti e così via, il diritto di proprietà può essere soggetto a limitazioni secondo le norme della
presente legge. Tali limitazioni sono stabilite nella durata massima di cinque anni, salvo quanto
previsto dal successivo articolo 10, e debbono essere imposte nella misura direttamente e
strettamente necessaria per il tipo di opere o di installazioni di difesa. Le limitazioni in parola
consistono in particolare a) nel divieto di fare elevazioni di terra o di altro materiale, costruire
condotte o canali sopraelevati piuttosto che aprire strade, fabbricare muri o edific ecc. La legge
prevede epressamente che al proprietario del fondo che subisce la limitazione vada corrisposto un
indennizzo: “Ai proprietari degli immobili assoggettati alle limitazioni spetta un indennizzo annuo
riportato al doppio del reddito dominicale ed agrario dei terreni e del reddito dei fabbricati, quali
valutati ai fini dell’imposizione del reddito.

4.2 (Continua): b) ablatori non espropriativi (perchè non indennizzabili)

Tali vincoli sono previsti esclusivamente dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.

A. Beni culturali. Ci si riferiscei al cd. “vincolo indiretto” (così definito perchè ha ad oggetto,
non già il bene culturale, bensì la zona di rispetto, e cioè l’insieme degli immobili, privi di pregio
artistico e storico, che siano in relazione spaziale o abbiano un rapporto di asservimento
funzionale con il bene culturale) e al divieto di affissione in zona di rispetto.
a. Vincolo indiretto.  E’ disciplinato all’art. 45, co. 1 del Codice, a norma del quale “Il
Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia
messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o
ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro. La norma non definisce il vero e proprio
contenuto, ma ne affida la determinazione alla valutazione discrezionale della P.A., alla quale
spetterà indicare, nei singoli casi, le misure ritenute indispensabili ad assicurare la tutela del bene
culturale.
b. divieto di affissione in zona di rispetto.  E’ disciplinato all’art. 49, co. 2, del Codice, il
quale dispone il divieto a collocare, senza autorizzazione, cartelli o altri mezzi di pubblicità lungo le
strade site nell’ambito o in prossimità di beni culturali. L’autorizzazione e’ rilasciata dall’autorità
competente, previo parere favorevole della soprintendenza sulla compatibilità della collocazione o
della tipologia del mezzo di pubblicità con l’aspetto, il decoro e la pubblica fruizione dei beni
tutelati. Attraverso tali strumenti, dunque, l’autorità di tutela può imporre ai proprietari dei beni che
circondano quello culturale vincoli e limitazioni, così da rafforzare la tutela di quest’ultimo, ovvero
di completarla, disegnando intorno ad esso uno spazio decoroso e coerente con i suoi valori.
Questo tipo di vincoli vanno inclusi tra quelli amministrativi non espropriativi gravanti su singoli
beni.
5. La questione del rapporto fra contenuto minimo del diritto di proprietà privata e funzione
sociale di questa e la recente tendenza a rispondere alla conciliazione fra le due istanze
attraverso la cd.”perequazione urbanistica”.

Con la locuzione “perequazione urbanistica” si indicano, in maniera onnicomprensiva, molteplici e


differenti “strumenti” accomunati da un medesimo fine: quello di una ripartizione, appunto,
perequata dei vantaggi e degli svantaggi economicamente apprezzabili che conseguono alle scelte
compiute in sede di pianificazione urbanistica. Mediante tale istituto il Legislatore ha inteso fornire
ai soggetti pianificatori uno strumento per riequilibrare quella che diffusamente viene considerata
una sostanziale ingiustizia, conseguente alla non marginale perdita di valore economico, rispetto a
quelli edificabili, dei suoli sottoposti, per ragioni di pubblico interesse, a vincolo di inedificabilità
assoluta. Il funzionamento della “pianificazione perequativa” e’ di agevole descrizione.
L’amministrazione procede alla individuazione dei suoli aventi una intrinseca potenzialità
edificatoria, che vengono poi raggruppati  in un comparto cui viene attribuito un indice generale di
edificabilità. In questo modo tutti i suoli in esso inclusi vengono qualificati come edificabili, a
prescindere dalla effettiva possibilità di compiere l’intervento edilizio. Al generale riconoscimento
della capacità edificatoria, si accompagna il riconoscimento della trasferibilità di detto indice in
maniera del tutto autonoma rispetto al suolo cui esso si riferisce. L’effetto e’ che, per un verso, ove
in sede di pianificazione attuativa il suolo ricompreso nel comparto venisse fatto oggetto di un
vincolo preordinato all’esproprio, l’indennizzo andrebbe comunque corrisposto considerando il
suolo come edificabile; e, per altro verso, la possibilità della autonoma circolazione delll’indice di
fabbricabilità dà all’amministrazione la possibilità di prevedere forme alternative di compensazione
nei confronti di chi abbia sopportato gli effetti della pianificazione, consistenti tanto nella
espropriazione del suolo da parte della P.A., per la realizzazione, ad es, di opere di
urbanizzazione. In entrambe le ipotesi il proprietario del suolo può vedersi assegnate quote di
edificabilità su altre aree del territorio comunale. L’utilizzo dello strumento perequativo sembra
proficuo particolarmente per cercare di fornire una soluzione al problema sia dei vincoli urbanistici
preordinati all’esproprio, sia dei vincoli di inedificabilià assoluta non collegati all’acquisizione in
mano pubblica del bene inciso. E’ necessario ora comprendere come la pianificazione perequativa
possa risolvere in radice i problemi connessi a questo tipo di vincoli. Quando la disposizione di
piano vada ad incidere, svuotandone il contenuto minimo, su una singola proprietà, ci si trova in
presenza di un vincolo sostanzialmente espropriativo. Appunto per questo, l’adozione della
pianificazione perequativa consente di escludere in radice la configurabilità di vincoli urbanistici,
così superando il problema del rispetto del “contenuto minimo” del diritto di proprietà ad opera di
vincoli incidenti su singoli beni. In conclusione, sembra potersi affermare che la pianificaione
perequata riesca ad evitare gli inconvenienti connessi alla “limitazione”, oltre la soglia del
“contenuto minimo”, e che la “tecnica” a tal fine utilizzata, sembra pienamente conforme con lo
statuto costituzionale della proprietà privata funzionalizzata. Afferam, inoltre, la Corte
Costituzionale, che se la funzione sociale della proprietà deve essere posta dal legislatore e dagli
interpreti in stretta relazione, all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà economica e sociale, la pianificazione perequata sembra rappresentare
l’istituto maggiormente in grado di massimizzare la coniugazione delle istanze solidaristiche
connesse alla funzione sociale della proprietà con il minor sacrifico dei diritti di proprietà (cosiddetti
dominicali).

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