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Lezioni di giustizia

amministrativa Di Aldo Travi


Giustizia Amministrativa
Università degli Studi di Milano
142 pag.

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LEZIONI DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

CAPITOLO PRIMO – LEZIONI INTRODUTTIVE


 Premessa

Nel diritto amministrativo sostanziale la garanzia del cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione ha un rilievo primario: la stessa evoluzione recente del diritto amministrativo
esprime la ricerca di equilibri più appaganti fra l’amministrazione, che deve disporre di strumenti
adeguati, anche autoritativi, per attuare le finalità assegnatele, e il cittadino, che deve essere
garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici indebiti imposti dall’amministrazione. Un
punto di equilibrio è ricercato principalmente attraverso il principio di legalità, che subordina il
potere dell’amministrazione a regole predeterminate e che comporta un’ampia riserva al
legislatore per la disciplina dell’azione amministrativa autoritativa. L’amministrazione, proprio
perché soggetto pubblico, deve operare per assicurare le finalità dell’ordinamento e, perciò, è
tenuta particolarmente ad agire nel rispetto del diritto e senza ledere gli interessi giuridicamente
riconosciuti dei cittadini. Il diritto amministrativo detta regole che valgono anche a garanzia del
cittadino: il fatto che la violazione di queste regole giuridiche si ripercuota, in genere, sulla
legittimità o, talvolta, sull’efficacia stessa degli atti dell’amministrazione dimostra che la disciplina
dell’azione amministrativa non è diretta solo nei confronti dell’amministrazione, ma ha una
rilevanza più generale, che coinvolge anche il cittadino che da quegli atti sia interessato. La
coerenza dell’azione amministrativa con i principi su cui essa dovrebbe reggersi è innanzitutto un
dovere preciso dell’amministrazione e deve modellare la sua azione in ogni occasione.

 Gli istituti della giustizia amministrativa

Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti diretti specificamente
ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’amministrazione. Sono stati elaborati per la
tutela del cittadino che abbia subito un pregiudizio da una attività amministrativa: si tratta quindi
di strumenti di tutela successiva in quanto disciplinano la reazione dei cittadini nei confronti di
un’azione lesiva già posta in essere dalla pubblica amministrazione. Rimediano a vizi già venuti
ad esistenza che hanno concretamente leso un interesse legittimo.

Gli istituti di giustizia amministrativa si differenziano dall’istituto della partecipazione del


cittadino al procedimento amministrativo che porta all’emanazione di un atto amministrativo. La
logica è differente: la partecipazione al procedimento avviene in via preventiva per assicurare il
corretto svolgimento del procedimento stesso ed evitare quindi che l’amministrazione svolga la
sua funzione non in conformità delle norme ledendo gli interessi del cittadino.

Una parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi caratteristici della giustizia
amministrativa, frequentemente ha preso in esame il rapporto fra istituti di giustizia
amministrativa e controlli sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti sono previsti
per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa e in genere riguardano
un’attività amministrativa già conclusa. I controlli si incentrano, in genere, sulla verifica della
legittimità dell’atto amministrativo; più raramente sulla verifica della sua opportunità (cd
controlli di merito).

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La riforma del titolo V della Costituzione (legge cost 3/2001) ha soppresso il controllo statale
sugli atti delle Regioni e il controllo regionale sugli atti degli enti territoriali; in altri ambiti invece
i controlli sono rimasti. Anche i controlli possono portare all’annullamento dell’atto
amministrativo illegittimo, proprio come si può verificare in seguito a un ricorso amministrativo o
a un giudizio amministrativo.

Un criterio distintivo tra i controlli e gli istituti tipici della giustizia amministrativa sarebbe
identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia l’interesse alla
conformità dell’operato dell’amministrazione al diritto, o a regole tecniche, o a criteri di
efficienza).

Gli istituti di giustizia amministrativa assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino.

Negli istituti di giustizia amministrativa il procedimento trova ragione nell’interesse del cittadino,
tanto che tale interesse non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne condiziona anche lo
svolgimento e il risultato. Ad ogni modo, gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono
negli strumenti per la tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti dell’amministrazione. Fra
gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la
contestazione del cittadino è proposta a un organo amministrativo e la decisione è assunta con un
atto amministrativo, senza alcun esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia, in questo
caso, si svolge ed è risolta nell’ambito dell’attività amministrativa. Non si ha, però, neppure per i
ricorsi amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: il potere di
annullamento, nel caso dei ricorsi, è esercitato in seguito all’iniziativa di un cittadino che fa valere
un suo proprio interesse e questo interesse del cittadino rappresenta la ragione e identifica il
limite dei poteri conferiti all’autorità competente a decidere.

 Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa

Nel nostro ordinamento gli istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano per una loro
separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. Sulla giustizia comune (istituti
per la tutela dei cittadini nei loro rapporti con soggetti equiordinati) campeggia l’autorità
giurisdizionale ordinaria, considerata da sempre come il giudice per eccellenza e la cui
caratterizzazione come autorità appartenente a un ordine autonomo, qualificata da indipendenza
e imparzialità, rappresentata uno dei risultati più importanti della concezione dello Stato e dei
poteri pubblici nella società moderna. Anche gli istituti di giustizia amministrativa sono
strettamente dipendenti dall’evoluzione dei rapporti fra cittadino, amministrazione e autorità
giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati più puntualmente condizionati dalle
vicende particolari dei singoli Paesi.

Uno dei modelli più significativi è senz’altro quello francese: in Francia è radicato un sistema di
contenzioso amministrativo nel quale le controversie fra il cittadino e l’amministrazione sono
sottratte al giudice ordinario e sono devolute a un giudice speciale. Si tratta di un giudice con
uno stato giuridico diverso da quello dei magistrati ordinari: è inquadrato nel Potere esecutivo e
non gode di tutte le garanzie previste per il magistrato ordinario. La sua giurisdizione è
pienamente separata da quella ordinaria, con la conseguenza che non si può ricorrere al giudice
ordinario contro la decisione del giudice speciale, né viceversa. Il termine “contenzioso
amministrativo” oggi viene utilizzato frequentemente, in Francia e negli altri Paesi, oltre che per
designare in senso generico il complesso degli istituti e degli apparati predisposti per la tutela del
cittadino nei confronti dell’amministrazione, anche per designare in senso più specifico un
sistema nel quale la tutela dei cittadini nei confronti dell’amministrazione sia devoluta a giudici
speciali secondo il modello francese.
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Un modello profondamente diverso fu accolto originariamente nel Belgio: la Costituzione del
1831 stabilì che anche nei confronti dell’amministrazione il sindacato fosse riservato al giudice
ordinario (regola superata nel secondo dopoguerra, con l’introduzione di un giudice speciale).

In Germania, dopo la riforma del 1960, la giurisdizione amministrativa è intesa come


giurisdizione su diritti e si esercita nelle vertenze concernenti il diritto pubblico. I giudici
amministrativi sono ormai pienamente autonomi dal potere amministrativo e ricevono una
collocazione piuttosto nell’ambito dell’ordine giudiziario.

In Spagna l’influenza del modello francese non ha impedito l’affermazione di una giustizia
amministrativa affidata principalmente a giudici con una competenza e un’organizzazione
particolari, ma appartenenti all’ordine giudiziario e soggetti allo stesso stato giuridico e al
medesimo organo di auto-governo previsti anche per i giudici dei tribunali civili e penali. Si tratta
pertanto di un giudice specializzato.

In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo modellato su quello francese a


un sistema di giurisdizione unica (1865), e poi a un sistema articolato in una giurisdizione del
giudice ordinario e in una giurisdizione del giudice amministrativo (1889). In estrema sintesi, due
motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di giustizia
amministrativa:

 Le ragioni di specificità dell’amministrazione nell’ordinamento giuridico: questo motivo


indirizza verso strumenti di tutela diversi da quelli ordinari o, talvolta, addirittura verso forme di
tutela diverse da quelle giurisdizionali.
 L’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti dell’amministrazione-
autorità: questo motivo ha indotto frequentemente a considerare come modello la giustizia
comune, nella quale alla parità di posizioni delle parti corrisponde l’elaborazione delle tecniche
più raffinate per la tutela del singolo.

In questa prospettiva l’amministrazione, proprio perché è un soggetto dell’ordinamento, deve


essere trattata come gli altri soggetti anche quanto a tutela giurisdizionale e l’esigenza di
assicurare l’uguaglianza processuale per entrambe le parti in giudizio dovrebbe indirizzare verso
l’esclusione di un giudice particolare per l’amministrazione. Il primo motivo ha influenzato in
modo particolare l’assetto della giustizia amministrativa anche nel nostro Paese.

L’individuazione dei profili di specificità dell’amministrazione e della sua attività, che


giustifichino l’esclusione della giurisdizione ordinaria, non segue però criteri costanti. In alcuni
ordinamenti la specificità è identificata nell’assoggettamento dell’attività amministrativa a una
disciplina speciale. La specialità della disciplina è espressa talvolta dalla sua riconduzione al
diritto pubblico (ordinamento tedesco).

In altri Paesi, invece, è dato rilievo anche alla presenza di norme che derogano alle regole comuni
(ordinamento francese). In altri ordinamenti ancora, il criterio della specialità della disciplina
non è ritenuto sufficiente e la ricerca della specificità si incentra nell’analisi delle relazioni fra
amministrazione e cittadino. L’amministrazione, però, in una vicenda giuridica, non si presenta
sempre e necessariamente come autorità: nel nostro ordinamento anzi è testimoniata una vivace
tendenza a favore del ricorso a strumenti di diritto privato anche quando l’amministrazione
operi per il perseguimento di una finalità pubblica. In alcuni casi, inoltre, l’amministrazione
opera come soggetto equiordinato agli altri, rispetto al quale valgono le medesime regole che
vigono per i rapporti privati (cd diritto comune). Si deve comunque riconoscere che, al di là della
distinzione di competenze e di ordinamento fra giudice ordinario e giudice speciale, per la tutela
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del cittadino nei confronti dell’amministrazione sia realmente determinante il grado di
indipendenza riconosciuto all’autorità giurisdizionale.

 Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese

La concezione dell’amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli altri si affermò, nelle
prime fasi dello Stato liberale, in un contesto ispirato al principio della separazione dei poteri.
Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII secolo e degli anni della Rivoluzione si era
affermata l’esigenza che il Potere esecutivo, nel quale era inserita l’amministrazione, dovesse
essere un potere distinto dagli altri, anche se non superiore agli altri: l’Esecutivo non poteva
arrogarsi poteri del giudice ordinario, ma i suoi atti non dovevano neppure essere soggetti al
sindacato dei giudici.

Nel 1789-1790 prima l’Assemblea nazionale e poi l’Assemblea costituente sancirono in forma
solenne che gli organi giurisdizionali non avrebbero potuto interferire sull’amministrazione.
L’amministrazione è un potere autonomo e, quindi, non deve essere limitato dal potere
giurisdizionale. Altrimenti il giudice, giudicando l’amministrazione, avrebbe finito con
l’interferire sull’attività amministrativa. In questo senso sono particolarmente significativi due
decreti del primo periodo rivoluzionario:

- Decreto 22 dicembre 1789 sull’organizzazione delle assemblee primarie e delle assemblee


amministrative: le amministrazioni di dipartimento e di distretto non potranno subire
interferenze nell’esercizio delle loro funzioni amministrative da alcun atto del potere giudiziario
- Decreto 16 agosto 1790 sull’ordinamento giudiziario: le funzioni giurisdizionali sono distinte e
rimangono sempre separate dalle funzioni amministrative. I giudici non potranno, sotto pena di
esorbitanza dal loro potere, interferire in qualunque modo sulle operazioni dei corpi
amministrativi, né citare avanti a sé gli amministratori a motivo dell’esercizio delle loro funzioni.

Tutto ciò non comportava, però, l’esclusione di ogni possibilità di tutela per il cittadino.

Nella Rivoluzione francese si affermò il principio delle responsabilità dell’amministrazione nei


confronti dell’assemblea legislativa: il Ministro, che si collocava al vertice dell’apparato
amministrativo, poteva essere chiamato a rendere conto dell’operato dell’amministrazione e, in
particolare, delle illegalità da essa commesse e ne rispondeva politicamente di fronte ai
rappresentanti dei cittadini. A favore del cittadino era conservato un rimedio specifico, costituito
dal cd ricorso gerarchico. Con questo ricorso il cittadino si rivolgeva all’organo gerarchicamente
sovraordinato a quello che aveva emanato l’atto lesivo e richiedeva, all’organo sovraordinato, la
verifica della legalità dell’atto. L’ordinamento francese prevedeva frequentemente che i ricorsi
venissero decisi dalle autorità competenti dopo aver acquisito il parere di alcuni organi consultivi,
tra cui il Consiglio di Stato.

Il Consiglio di Stato, istituito nel 1799, operava come organo consultivo del Governo e anche
come organo preposto all’intero apparato amministrativo e dotato di competenze proprie.
Riguardo ai ricorsi, il Consiglio di Stato formalmente esprimeva un parere al Capo dello Stato,
al quale solo spettava emanare la decisione: in pratica, però, la decisione si uniformava sempre
al parere e l’intervento del Capo dello Stato finiva con l’attribuire ancora maggiore autorevolezza
al parere e all’organo che lo esprimeva. Un decreto di Napoleone del 1806 istituì, in seno al
Consiglio di Stato, un’apposita Commissione del contenzioso, con il compito di istruire i ricorsi
proposti contro gli atti delle amministrazioni centrali e locali. Per rafforzare l’imparzialità, la
Commissione fu costituita da consiglieri cui non potevano essere affidati compiti di
amministrazione attiva. Il Consiglio di Stato fu mantenuto, con le sue competenze sui ricorsi,
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anche con la Restaurazione (1814- 1815); nel frattempo si accentuò, nell’opinione comune, il
rilievo del suo parere sui ricorsi, tanto che l’intervento del Capo di Stato fu percepito come
sanzione che rendeva esecutiva la pronuncia del Consiglio di Stato stesso.

Prima con la Costituzione del 1848 e poi, definitivamente, con una legge 24 maggio 1872, al
Consiglio di Stato fu riconosciuta anche formalmente la competenza a decidere il ricorso, senza
più la necessità di una sanzione da parte del Capo dello Stato. A conclusione di questa evoluzione
risultava istituito un giudice capace di sindacare la legittimità degli atti dell’amministrazione. Il
principio delle separazione dei poteri era fatto salvo, perché competente a sindacare gli atti
dell’amministrazione era il Consiglio di Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari e,
soprattutto, non inserita nell’ordine giudiziario.

 La giustizia amministrativa in Italia: caratteri generali

Il modello francese del contenzioso amministrativo non comporta l’esclusione di ogni


competenza del giudice ordinario per controversie fra il cittadino e l’amministrazione: anche
in Francia determinate controversie con l’amministrazione sono demandate al giudice ordinario,
o perché sono relative a rapporti in cui l’amministrazione come soggetto di diritto comune, o
perché riguardano posizioni di libertà o particolari diritti del cittadino. In Francia questa
previsione di competenze del giudice ordinario ha comportato la necessità di istituire, nel 1848,
un organo che potesse decidere, nei casi di controversie, se la vertenza spettasse al giudice
ordinario o al giudice speciale, il Tribunale dei conflitti. Per assicurare l’equilibrio fra le due
giurisdizioni, il Tribunale dei conflitti è composto da giudici della Cassazione e da consiglieri di
Stato in pari numero. L’assetto della giustizia amministrativa in Italia è stata notevolmente
influenzato, nelle sue origini, dal modello francese.

Nella seconda metà dell’800 si sono affermate tendenze diverse, che dopo l’istituzione nel 1889
della Quarta sezione del Consiglio di Stato hanno orientato il rapporto fra il giudice ordinario e il
giudice amministrativo secondo la distinzione fra le posizioni qualificate del cittadino nei
confronti dell’amministrazione. A fondamento del riparto fra le due giurisdizioni vi è la
distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi: la giurisdizione amministrativa giudica
degli interessi legittimi, la giurisdizione ordinaria giudica dei diritti soggettivi. Tuttavia neppure il
modello italiano segue in modo indiscriminato questa classificazione, perché in alcuni ambiti,
oggi ben più estesi che in passato, la competenza del giudice amministrativo non dipende dalla
configurabilità di una posizione soggettiva come interesse legittimo, ma dipende dalla inerenza
della controversia a una certa materia (cd giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
Nei casi in cui si controverta se la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario o al
giudice speciale, dal 1877 è demandato alla Cassazione decidere il conflitto o la questione di
giurisdizione. Pertanto, nel nostro ordinamento, spetta a un giudice ordinario interpretare e
definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale.

CAPITOLO SECONDO – LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI


GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

 La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna

Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia nell’epoca


napoleonica. Al pari di altri istituti introdotti in seguito all’influenza francese, anche quello del
contenzioso amministrativo fu soppresso quasi ovunque in Italia con la Restaurazione.

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Nel Regno di Sardegna con editto 18 agosto 1831 Carlo Alberto costituì un Consiglio di Stato,
con funzioni consultive, articolato in tre sezioni:

I.Sezione dell’Interno,

II.Sezione di Giustizia, Garanzia e di affari ecclesiastici,

III.Sezione di Finanza.

Lo stesso editto stabiliva il parere del Consiglio di Stato dovesse essere acquisito
obbligatoriamente prima dell’adozione di certi atti; fra gli atti: atti con forza di legge, regolamenti,
conflitti fra giurisdizione giudiziaria e amministrazione, bilancio generale dello Stato, liquidazioni
del debito pubblico. Con le regie patenti del 1842, ben presto modificate con un regio editto del
1847, fu istituito un vero e proprio sistema di contenzioso amministrativo. Il sistema si fondava
sulla distinzione fra controversie riservate all’amministrazione (era ammesso solo un ricorso a
un’autorità amministrativa, l’Intendente) e controversie di amministrazione contenziosa
(prevista la possibilità di un ricorso in primo grado a un Consiglio di intendenza, in secondo
grado alla Camera dei conti).

Al Consiglio di intendenza e alla Camera dei conti la giurisprudenza civile riconobbe carattere di
organi giurisdizionali. Una serie di decreti reali del 1859 accolsero e confermarono i sistema del
contenzioso amministrativo: consiglio di governo, organi di primo grado (giudici ordinari del
contenzioso amministrativo) e consiglio di stato.

Alla stregua di questi decreti si delineava il seguente quadro: non ogni attività amministrativa era
soggetta a un sindacato giurisdizionale. In particolare, era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato
la cd amministrazione economica, espressione con vari significati, allora utilizzata
principalmente per designare l’attività amministrativa non puntualmente disciplinata da norme di
legge o di regolamento, o rimessa a valutazioni dell’amministrazione. La tutela del cittadino
poteva svolgersi solo nell’ambito dell’amministrazione stessa, in particolare per mezzo di ricorsi
gerarchici In alcune materie elencate dalla legge, la tutela dei cittadini nei confronti
dell’amministrazione era demandata ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo, ossia al
sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Consiglio di Stato.

In altre materie individuate specificamente da leggi speciali, la tutela dei cittadini era demandata
a giudici speciali del contenzioso amministrativo (Corte dei Conti e Consiglio di Stato). Quindi il
Consiglio di Stato era giudice speciale del contenzioso amministrativo, in unico grado, in materia
di pensioni, e giudice ordinario del contenzioso amministrativo, in grado di appello, per
determinate materie elencate dalla legge.

Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici civili.

Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, positivi o negativi, fra
amministrazione e giudici, e fra giudici del contenzioso amministrativo e giudici ordinari. I
conflitti si presentavano quando due autorità di ordini diversi rivendicavano la medesima
competenza (cd conflitti positivi), oppure quando escludevano entrambe la propria competenza,
in vertenze che dovevano spettare o all’una o all’altra (cd conflitti negativi). La disciplina per la
loro risoluzione fu introdotta con la legge 20 novembre 1859. In base a questa legge il conflitto
poteva essere sollevato anche dal rappresentante locale del potere esecutivo (Governatore e poi
Prefetto): a questi era riconosciuta anche una certa capacità di interferire sul procedimento
giurisdizionale, perché poteva imporre la sospensione del giudizio. La decisione dei conflitti era
assunta con decreto reale, previo parere del Consiglio di Stato, su proposta del Ministro
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dell’interno, sentito il Consiglio dei ministri. Ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo
non erano conferiti poteri di annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio.

Il giudice ordinario del contenzioso amministrativo riteneva di poter esercitare un potere di


interpretazione degli atti amministrativi. Inoltre quando per la decisione assumeva rilevanza una
valutazione sull’atto e sulla sua legittimità, il giudice del contenzioso amministrativo si riteneva
legittimato a rilevare la nullità dell’atto difforme dalla legge o la sua inefficacia si fini del rapporto
dedotto in giudizio.

 ll declino dei tribunali del contenzioso amministrativo

Le discussioni sul sistema in atto, caratterizzato dalla presenza di giurisdizioni speciali, non
furono superate dalla riforma del 1859. Ne è prova il fatto che quasi subito dopo furono sottratte
alla giurisdizione dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo alcune vertenze
precedentemente di loro competenza. In particolare fu sottratto ad essi il contenzioso fiscale, con
conseguenza di rilievo anche per tutto lo svolgimento successivo del diritto tributario e
soprattutto per l’autonomia del diritto tributario rispetto al diritto amministrativo.

A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati particolarmente


ordini di considerazioni:

- La tutela dell’interesse pubblico. Sembrava essenziale che l’attuazione dell’interesse pubblico


non fosse ostacolata da un intervento del giudice. Attraverso un sistema di contenzioso
amministrativo sembrava che questa esigenza fosse meglio garantita, tenuto conto anche della
specifica formazione dei componenti dei collegi giudicanti.
- L’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici ordinari. La
mancanza di queste garanzie era ritenuta da alcuni un fattore positivo, perché avrebbe consentito
di far valere in modo più efficace la responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo.
- La specialità del diritto dell’amministrazione. Le controversie demandate ai giudici del
contenzioso amministrativo riguardavano istituti diversi da quelli del diritto comune: sembrava
perciò opportuno che fossero demandate a un giudice diverso da quello ordinario.

Questi argomenti erano vivamente criticati dagli oppositori dei modelli di contenzioso
amministrativo. Essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie fra l’amministrazione e il
cittadino fossero assegnate al giudice ordinario. Solo un giudice estraneo all’amministrazione e
dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari avrebbe potuto assicurare l’imparzialità
necessaria per la decisione.

 La legge 20 marzo 1865, n. 2248

Si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza specifica in un settore del
diritto diverso da quello comune. Si teme che l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un
regime processuale privilegiato per l’amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato
liberale. Questi giudici a molti sembravano più attenti all’interesse dell’amministrazione che alla
garanzia dei diritti dei cittadini. Il dibattito raggiunse il suo culmine nella discussione alla
Camera sull’assetto della giustizia amministrativa subito dopo l’Unità. Le discussioni condussero
all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso amministrativo: la
legge 2248/1865, allegato E (cd LEGGE DI ABOLIZIONE DEL CONTENZIOSO
AMMINISTRATIVO).

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La legge 2248 era costituita da 6 testi normativi, che furono designati come “allegati” alla legge
stessa:

- Allegato A – legge sull’amministrazione comunale e provinciale


- Allegato B – legge sulla sicurezza pubblica
- Allegato C – legge sulla sanità pubblica
- Allegato D – legge sul Consiglio di Stato
- Allegato E – legge sul contenzioso amministrativo
- Allegato F – legge sui lavori pubblici

L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste particolari
garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi componenti (che era
disposta con decreto reale su proposta del Ministro dell’interno), né per quanto riguardava la
loro inamovibilità (per i presidenti di sezione e per i consiglieri, ma non per i referendari, era
previsto che la sospensione e la rimozione potessero essere disposte solo su relazione motivata del
Ministro dell’interno).

La continuità con l’amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di


intervenire alle sedute direttamente o attraverso delegati. Fu confermata l’articolazione nelle tre
sezioni precedenti, che in taluni casi operavano collegialmente in adunanza generale
(obbligatorio per i pareri sulle proposte di legge e sui regolamenti). Inoltre il Presidente del
Consiglio di Stato poteva formare, per l’esame di questioni particolari, Commissioni speciali,
designando i consiglieri che ne avrebbero fatto parte. Al Consiglio di Stato erano assegnate
tipicamente competenze consultive: in alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era
obbligatorio. In particolare il parere era prescritto sopra tutte le proposte di regolamenti generali
di Pubblica amministrazione e sui ricorsi fatti al Re contro la legittimità di provvedimenti
amministrativi sui quali siano esaurite e non possano proporsi domande di riparazione in via
gerarchica. Nella normativa sul Consiglio di Stato si faceva riferimento al ricorso al Re,
designato spesso come ricorso straordinario, perché poteva essere proposto solo dopo
l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici. Il ricorso al Re non rappresentava,
però, uno strumento di tutela giurisdizionale e non comportava l’esercizio da parte del Sovrano
di poteri tipici dei giudici speciali: si collocava nell’ambito dei rimedi amministrativi. In alcune
ipotesi tassative il Consiglio di Stato esercitava, inoltre, funzioni giurisdizionali, come giudice
speciale. Dall’allegato D furono assegnate al Consiglio di Stato come giudice speciale
competenze minori, per controversie in materia di debito pubblico e di sequestri di beni
ecclesiastici, oltre ad altre previste da leggi speciali. In questi casi il procedimento aveva carattere
tipicamente contenzioso e la decisione poteva comportare l’annullamento dell’atto amministrativo.
Oltre a tali competenze minori, al Consiglio di Stato come giudice speciale fu conferita una
competenza di particolare rilevanza istituzionale: la risoluzione dei conflitti fra amministrazione e
autorità giurisdizionale.

L’allegato E viene frequentemente designato come legge di abolizione del contenzioso


amministrativo, perché all’art. 1 disponeva la soppressione dei cd giudici ordinari del
contenzioso amministrativo. Si tenga presente che invece nessuna innovazione era apportata
alla giurisdizione dei cd giudici speciali del contenzioso amministrativo.

Nell’allegato E fu delineato, in estrema sintesi, il seguente assetto della giustizia amministrativa:

a) Tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un
diritto civile e politico furono assegnate al giudice ordinario (art. 2). La legge precisava

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espressamente che la competenza del giudice ordinario non poteva subire eccezioni per il fatto
che parte in giudizio fosse un’amministrazione o che fossero coinvolti i suoi interessi. Fu sancito
che la giurisdizione del giudice ordinario non avrebbe incontrato eccezioni per il fatto che si
discutesse di provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa
b) Gli affari non compresi nell’ipotesi precedente furono riservati alle autorità amministrative
(art. 3). Si poteva trattare, pertanto, solo di vertenze che non avessero natura penale e che non
avessero come oggetto un diritto civile o politico. In questo ambito riservato all’amministrazione
erano introdotte alcune garanzie per i cittadini: era previsto che le autorità amministrative
avrebbero provveduto con decreti motivati, con l’osservanza del contraddittorio con le parti
interessate e previa acquisizione del parere degli organi consultivi. La norma rimase, comunque,
senza particolare attuazione pratica. Nei confronti dei decreti assunti dall’amministrazione,
inoltre, fu consentito il ricorso in via gerarchica. Le disposizioni appena richiamate definivano
così il quadro dei cd limiti esterni della giurisdizione civile nei confronti dell’amministrazione,
ossia l’ambito delle controversie demandate alla competenza del giudice ordinario. I limiti
esterni di una giurisdizione di contrappongono ai limiti interni che identificano i poteri che il
giudice può esercitare verso l’amministrazione nella decisione delle controversie di propria
competenza. La tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione risultava così articolata:
nelle materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico era ammessa la tutela
giurisdizionale, davanti al giudice ordinario; nelle altre materie, la tutela del cittadino si risolveva
nell’ambito dell’amministrazione stessa ed era ammesso perciò solo il ricorso gerarchico.
c) Nelle controversie di competenza del giudice ordinario le ragioni della specialità
dell’amministrazione trovavano un riscontro nei limiti interni della giurisdizione civile (art. 4).
L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e separazione dei poteri era ricercato in
primo luogo ammettendone un sindacato del giudice ordinario solo sulla legittimità dell’atto
amministrativo, e non sulla sua opportunità o convenienza: l’opportunità o la convenienza di un
atto potevano essere valutate esclusivamente dall’amministrazione stessa e di conseguenza le
eventuali contestazioni del cittadino circa l’opportunità o la convenienza di un atto potevano
essere svolte solo in via amministrativa (solo con i ricorsi gerarchici). Inoltre era riconosciuta
al giudice ordinario la competenza a sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non ad
annullarlo, revocarlo o modificarlo: un intervento del genere era riservato all’amministrazione.
Infine, la valutazione del giudice ordinario circa la legittimità di un atto amministrativo poteva
rilevare solo ai fini del giudizio in corso e non poteva produrre effetti generali: i limiti soggettivi
della pronuncia del giudice erano circoscritti alle parti, anche quando l’atto amministrativo
poteva avere una portata più generale. L’art. 5 della legge introduceva il controverso istituto
della disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario. Quando la
controversia investiva un atto amministrativo, il giudice ordinario doveva prescindere, per la sua
decisione, da quanto disposto nell’atto stesso, qualora tale atto fosse risultato illegittimo. L’atto
illegittimo non poteva essere annullato dal giudice: doveva essere disapplicato.
d) L’amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza: essa era tenuta a conformarsi al
provvedimento del giudice, ovviamente nei limiti del caso deciso. Questa prescrizione
fondamentale di ottemperanza al giudicato individuava un criterio del rapporto istituzionale fra
potere amministrativo e potere giurisdizionale, sancendo la prevalenza del secondo rispetto al
primo. Si trattava non di una prevalenza fra organi, ma solo di una prevalenza fra atti.

 Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865

La riforma del 1865 intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela nei confronti
dell’amministrazione, imperniato sul modello precedente del contenzioso amministrativo, a un
altro sistema, imperniato sul giudice ordinario. Il sistema delineato nell’allegato E della legge
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2248/1865 avrebbe potuto assicurare, in astratto, una efficace tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione. Sarebbe stato necessario, però, attuare in modo adeguato l’art. 3 della legge,
sulla tutela del cittadino nel procedimento amministrativo e attraverso i ricorsi gerarchici. Invece
la norma sulla partecipazione nel procedimento non venne applicata. Inoltre sarebbe stata
necessaria un’applicazione della legge che riconoscesse al giudice ordinario tutti gli spazi di tutela
che precedentemente erano stati assegnati ai tribunali del contenzioso amministrativo. Invece,
nell’interpretazione degli artt. 2 e 3 della legge, prevalse una linea restrittiva. L’interpretazione
sulla portata degli artt. 2 e 3 era rimessa al Consiglio di Stato, al quale spettava decidere, come
giudice dei conflitti, se una vertenza fosse di competenza dell’autorità giurisdizionale o fosse
invece riservata all’amministrazione. Il Consiglio di Stato, nelle sue decisioni sui conflitti,
propose una lettura molto restrittiva dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario. In
conclusione, emergeva nelle decisioni del Consiglio di Stato la tendenza ad escludere la
competenza del giudice civile quando la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità
amministrativa, e ciò anche quando questi provvedimenti non fossero fondati su valutazioni
discrezionali. La competenza del giudice civile veniva ammessa esclusivamente in presenza di atti
dell’amministrazione emanati a tutela di un interesse “personale” o patrimoniale
dell’amministrazione stessa (non a tutela di un interesse pubblico generale). L’indirizzo accolto
dal Consiglio di Stato appariva ad alcuni autori in evidente contrasto con gli artt. 2 e 4 della legge
del 1865, secondo cui invece la competenza del giudice ordinario non doveva essere limitata né
per il fatto che una parte in causa fosse l’amministrazione, né tanto meno per il fatto che si
discutesse di un atto amministrativo. Sembrava necessario che i conflitti venissero decisi da un
organo indipendente e super partes: solo il giudice ordinario, però, dava queste garanzie.

 La legge sui conflitti del 1877

Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento legislativo sulla materia del
conflitti, con la legge 3761/1877. La legge attribuì alla Corte di cassazione di Roma la decisione
sui conflitti, sia positivi che negativi, insorti fra Amministrazione e autorità giudiziaria (cd
conflitti di attribuzione), ovvero fra giudici ordinari e giudici speciali (cd conflitti di
giurisdizione). Alla Cassazione di Roma fu attribuito, inoltre, il potere di decidere i ricorsi
proposti contro le sentenze dei giudici speciali, impugnate per incompetenza e eccesso di potere:
il termine incompetenza designava il difetto di giurisdizione e il termine eccesso di potere
indicava l’assunzione di una decisione esorbitante dall’ambito delle attribuzioni del giudice (cd
straripamento di potere). In tutti questi casi la Cassazione di Roma doveva decidere a sezioni
unite.

Nella stessa legge fu disciplinato anche il ricorso dell’amministrazione alla Cassazione, per
denunciare il difetto di attribuzione del giudice ordinario in vertenze riservate all’autorità
amministrativa. Fu sancito che, se l’amministrazione fosse stata parte in causa, avrebbe potuto
proporre tale ricorso solo nel giudizio di primo grado; se non fosse stata parte in causa, avrebbe
potuto proporlo non oltre la formazione del giudicato. Quindi Corte di Cassazione di Roma:

- Decisione conflitti (positivi e negativi) di attribuzione e di giurisdizione


- Decisione ricorsi contro sentenze giudici speciali (incompetenza ed eccesso di poteri)
- Decisione ricorso dell’amministrazione (parte in causa / no parte in causa)

CAPITOLO TERZO – L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE


AMMINISTRATIVA

 L’istituzione della Quarta sezione


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I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela del cittadino nei
confronti dell’amministrazione era tutt’altro che realizzata e l’abolizione del sistema del
contenzioso amministrativo aveva comportato non un perfezionamento, ma un indebolimento
delle garanzie offerte al cittadino. Emergeva l’esigenza di una revisione.

Il tema presentava due profili fondamentali, fra loro connessi:

- L’attuazione di una tutela più ampia ed incisiva del cittadino nei confronti dell’amministrazione.
- L’individuazione dell’organo cui affidare tale tutela.

La giurisprudenza sui conflitti affermatasi col Consiglio di Stato nel 1877, e poi proseguita dalle
sezioni unite della Corte di cassazione dopo il 1877, affermava una tendenziale incompatibilità fra
il diritto soggettivo e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino era
riconosciuto e garantito nei confronti dell’amministrazione solo quando essa agiva iure
privatorum e in poche altre ipotesi; laddove invece interveniva un provvedimento
amministrativo di regola vi erano solo interessi legittimi. Di conseguenza si delineava una
contrapposizione fra i diritti, che in quanto tali erano passibili di una tutela giurisdizionale in
forza dell’art. 2 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo. Gli interessi diversi dai
diritti soggettivi, che erano privi di una tutela giurisdizionale anche quando risultavano di grande
importanza per il cittadino e concernevano profili dell’attività amministrativa disciplinati dalla
legge.

Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi, configurabili
quando l’amministrazione emana atti “di imperio” ed opera in base a un potere assegnatole dal
diritto pubblico. A tale esigenza diede riscontro la legge 5992/1889: legge Crispi. Gli interessi dei
cittadini lesi da atti dell’amministrazione dovevano essere tutelati con strumenti più efficaci dei
ricorsi gerarchici: la garanzia di tali interessi era perciò demandata ad un’autorità specifica dotata
di un potere di annullamento e perciò non inquadrata nell’ordine giurisdizionale. In base alla
legge del 1889 la tutela degli interessi fu demandata al Consiglio di Stato, con la precisazione,
però, che questa funzione contenziosa era assegnata a una nuova sezione, la Quarta sezione del
Consiglio di Stato. Ad essa dovevano presentare i loro ricorsi i cittadini che ritenevano di essere
stati lesi nei loro “interessi” da atti dell’amministrazione. La legge del 1889 si presentava
formalmente come legge di modifica dell’allegato D legge 2248/1865. I primi articoli istituivano
una Quarta sezione del Consiglio di Stato, designata come sezione per la giustizia amministrativa.
La competenza di tale nuova sezione era definita nell’art. 3: Spetta alla sezione quarta del
Consiglio di Stato di decidere i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per
violazione della legge contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa o di un
corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti
morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’Autorità giudiziaria
(= forme di impugnazione del provvedimento amministrativo), né si tratti di materia spettante
alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali.

Il ricorso non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio di
un potere politico La tutela del cittadino si configurava, nella legge del 1889, come tutela contro il
provvedimento amministrativo. I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del
provvedimento e producevano, come utilità, per il ricorrente, l’annullamento del provvedimento
impugnato. La tutela era ammessa solo nei confronti di un atto che fosse già produttivo dei suoi
effetti; era perciò una tutela successiva e non preventiva. In questa logica l’art. 12 disponeva che
i ricorsi non hanno effetto sospensivo. Su istanza del ricorrente, per gravi ragioni, la Quarta
sezione poteva sospendere l’esecuzione dell’atto o del provvedimento, ma la presentazione del

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ricorso di per sé non incideva sull’esecutività del provvedimento né sull’esercizio successivo della
funzione amministrativa.

Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino per impugnare un provvedimento affetto da vizi
tassativamente indicati dalla legge:

 INCOMPETENZA: vizio degli elementi soggettivi dell’atto amministrativo. Era identificata


principalmente nei casi in cui l’organo che aveva emanato l’atto impugnato non fosse titolare
della competenza a provvedere
 ECCESSO DI POTERE: uso gravemente scorretto del potere discrezionale da parte
dell’amministrazione. L’illegittimità dell’atto consisteva, in questo caso, nel contrasto con alcuni
principi generali, ritenuti vincolanti per l’amministrazione. Fu ammesso un sindacato anche nei
confronti di quella che un tempo era stata definita come l’amministrazione economica. Se però
non era in discussione la violazione di questi principi generali, il sindacato sulla discrezionalità
amministrativa non era possibile per la Quarta sezione e rimaneva riservato all’autorità
amministrativa e ai ricorsi gerarchici. Questo ambito estraneo al sindacato della Quarta sezione
venne poi spesso designato come merito dell’atto amministrativo.
 VIOLAZIONE DI LEGGE: contrasto fra un elemento del provvedimento o del suo
procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in altra fonte del diritto.

La tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione, nel quadro della riforma del 1889, fu
ricondotta a uno schema imperniato su una distinzione fra posizioni soggettive. La tutela
nell’ambito dei diritti soggettivi era demandata al giudice ordinario; ai diritti soggettivi si
contrapponevano gli “interessi” propri dei cittadini (poi designati come interessi legittimi), la cui
tutela sarebbe stata demandata alla Quarta sezione; infine permaneva un ambito di attività
riservata all’amministrazione. La legge del 1889 introduceva un rapporto preciso fra il ricorso alla
Quarta sezione e il ricorso gerarchico, perché il ricorso alla Quarta sezione era ammesso solo
contro un provvedimento definitivo, ossia contro un provvedimento per il quale fossero stati
esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica. Invece, per quanto riguardava il ricorso
straordinario al Re, l’art. 7 della legge del 1889 introduceva la regola della sua alternatività con il
ricorso alla Quarta sezione. Dalla tutela imperniata sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti
emanati dal governo nell’esercizio del potere politico. Questa categoria dei cd atti politici non
aveva confini chiari: il senso della norma era comunque di sottrarre al sindacato di autorità
esterne determinati atti che non avevano carattere legislativo. Si trattava di atti riconducibili a
funzioni superiori di governo. La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di
legittimità sull’atto amministrativo. In taluni casi particolari, però, la legge del 1889 attribuiva alla
Quarta sezione un sindacato anche in merito: in questi casi, la Quarta sezione, nel caso di
accoglimento del ricorso, non avrebbe dovuto limitarsi ad annullare l’atto impugnato, ma avrebbe
potuto esercitare poteri più ampi ed assumere una decisione sulla pratica in sostituzione del
provvedimento annullato.

Fra le ipotesi di sindacato anche in merito la legge prevedeva quello dei ricorsi diretti ad
ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto
riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto
civile o politico (cd giudizio di ottemperanza). In questo modo veniva reso effettivo e
giustiziabile l’obbligo dell’amministrazione di ottemperare al giudicato dei giudici ordinari.
Successivamente alla legge Crispi del 1889, con la legge 6837/1890, fu attribuita alla Giunta
provinciale amministrativa (organo statale che esercitava il controllo sugli enti locali) una
competenza modellata su quella della Quarta sezione, ma limitata alla tutela nei confronti di

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taluni atti di Amministrazione prevalentemente locali. Contro le pronunce della Giunta
provinciale amministrativa era ammesso ricorso alla Quarta sezione.

 La riforma del 1907

La legge del 1889 non affrontava la questione della natura amministrativa o giurisdizionale della
Quarta sezione. Le pronunce della Quarta sezione erano designate nella legge come decisioni,
termine che indicava anche pronunce di autorità amministrative e, in particolare, richiamava le
“decisioni” dei ricorsi gerarchici. Prevalse però l’indirizzo che valorizzava maggiormente il ruolo
della Quarta sezione, ponendola su un piano diverso da quello degli organi amministrativi. La
tesi del carattere giurisdizionale della Quarta sezione fu accolta dalla Cassazione, alla quale la
legge del 1877 assegnava i ricorsi contro le decisioni dei giudici speciali per motivi di
giurisdizione. La Cassazione, dichiarando ammissibili ricorsi del genere proposti contro le
decisioni del Consiglio di tato, riconobbe alla Quarta sezione il carattere di giudice speciale e
alle decisioni di essa il valore di sentenze. Ogni discussione in proposito fu superata dalla legge
62/1907. Questa legge riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della Quarta sezione,
introducendo la distinzione fra sezioni consultive del Consiglio di Stato (le prime tre) e sezioni
giurisdizionali, e conseguentemente contemplò espressamente la possibilità del ricorso alla Corte
di cassazione agli effetti della legge 3761/1877 (legge sui conflitti) contro le decisioni delle sezioni
giurisdizionali. Inoltre istituì la Quinta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni
giurisdizionali, alla quale erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito, mentre alla
Quarta sezione erano riservati i ricorsi nei casi generali in cui il sindacato era limitato alla
legittimità. Il coordinamento fra le due sezioni era affidato alle Sezioni riunite (oggi, Adunanza
plenaria), composte dai componenti di entrambe le sezioni. Altre innovazioni di rilievo nella
legge del 1907 riguardarono la disciplina dell’istruttoria nel processo amministrativo (disciplina
differenziata in relazione al fatto che la competenza fosse circoscritta alla legittimità o estesa al
merito), la disciplina del procedimento avanti alle Giunte provinciali amministrative (alle quali fu
riconosciuto espressamente carattere giurisdizionale, con riferimento alle funzioni contenziose) e
la disciplina del ricorso straordinario al Re (fu fissato un termine perentorio per la presentazione
del ricorso). In attuazione della legge del 1907 e del relativo testo unico fu emanato il r.d. 642/1907,
con il regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

 La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva

La legge del 1907 ha orientato decisamente la distinzione fra la giurisdizione amministrativa e


quella ordinaria nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive. Al Consiglio di Stato in
sede giurisdizionale era assegnato il compito di tutelare posizioni giuridicamente qualificate,
distinte dai diritti soggettivi: gli interessi legittimi. Un sistema imperniato sulla distinzione fra
diritti soggettivi e interessi legittimi comportava la necessità di identificare puntualmente i
caratteri e i contenuti delle diverse posizioni soggettive, operazione che, però, non sempre
risultava agevole. Inoltre un sistema del genere presentava l’inconveniente che, se le due
posizioni soggettive erano fra loro correlate, diventava necessario esperire due distinti giudizi,
uno avanti al giudice amministrativo a tutela degli interessi legittimi e l’altro davanti al giudice
ordinario a tutela dei diritti soggettivi. La legge 2840/1923, cui fece seguito il testo unico delle
leggi sul Consiglio di Stato, approvato con r.d. 1054/1924, cercò di porre rimedio a questi
inconvenienti attraverso due importanti ordini di innovazioni: al giudice amministrativo, nei
giudizi di sua competenza, fu riconosciuta espressamente la capacità di conoscere in via
incidentale le posizioni di diritto soggettivo, fatta eccezione per le questioni riguardanti lo
stato e la capacità delle persone e la querela di falso, che furono riservate sempre al giudice
ordinario. La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di evitare che, in un
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giudizio amministrativo, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi
comportasse sempre la sospensione del giudizio e la rimessione delle parti avanti al giudice civile.
In alcune materie particolari elencate dalla legge, fra le quali il pubblico impiego, al giudice
amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare in via principale anche di
diritti soggettivi. In queste materie la tutela giurisdizionale era devoluta interamente al giudice
amministrativo (cd GIURISDIZIONE ESCLUSIVA del giudice amministrativo). In questi
casi per individuare il giudice competente, non era necessario distinguere fra diritti soggettivi e
interessi legittimi, ma la tutela di tutte le posizioni soggettive qualificate era devoluta al giudice
amministrativo. Dalla riforma del 1923 emergeva, comunque, in modo chiaro che nelle ipotesi di
giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria
seguiva il criterio della distinzione per materie. Le materie assegnate alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo erano individuate in via tassativa e non esemplificativa (la
più importante era il pubblico impiego). Di conseguenza la giurisdizione esclusiva aveva
carattere di specialità. Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti
soggettivi il giudice amministrativo disponeva degli stessi poteri di cognizione e decisione che gli
spettavano nel caso di giurisdizione sugli interessi legittimi. Il giudizio, quindi, non era sottoposto
alle regole del cpc sulla tutela dei diritti, ma era la tutela dei diritti che veniva assoggettata alle
regole del giudizio amministrativo.

Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela dei diritti era aggiuntiva rispetto a quella degli
interessi. Di conseguenza, si potevano avere casi di giurisdizione esclusiva nei quali il giudice
amministrativo esercitava solo una giurisdizione di legittimità, ma anche casi di giurisdizione
esclusiva nei quali il giudice amministrativo esercitava una giurisdizione anche in merito. Le
ipotesi di giurisdizione esclusiva in cui il giudice amministrativo si pronunzia anche in merito
erano però eccezionali.

Anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva conoscere in via
incidentale delle situazioni di diritto soggettivo, non inerenti alla materia devoluta alla
giurisdizione esclusiva, che fossero però rilevanti per la decisione. Al giudice amministrativo,
invece, era preclusa la cognizione, sia in via principale, sia in via incidentale, di questioni inerenti
allo stato e alla capacità delle persone, o di questioni di falso, che erano riservate sempre al
giudice ordinario. Al giudice ordinario, inoltre, anche nelle materie devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo erano riservate le questioni attinenti a diritti patrimoniali
conseguenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre. I
diritti patrimoniali conseguenziali furono identificati con il diritto al risarcimento del danno
che assumeva rilevanza in seguito all’annullamento di un provvedimento amministrativo che
avesse inciso su un diritto soggettivo. Le azioni per il risarcimento dei danni dovevano essere
proposte sempre davanti al giudice ordinario, anche se era stato arrecato un danno a un diritto
devoluto alla giurisdizione esclusiva. La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche
all’ordinamento del Consiglio di Stato. Fra esse la più importante è rappresentata dal
superamento della distinzione di competenze fra Quarta e Quinta sezione: la distinzione fra le
due sezioni da allora fu di ordine meramente interno. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato
ha essenzialmente il compito di risolvere o di prevenire i contrasti di giurisprudenza fra la due
sezioni.

 L’entrata in vigore della Costituzione e l’istituzione dei Tar

Dopo il t.u. 26 giugno 1924, n 1054, la disciplina della giurisdizione amministrativa e del processo
amministrativo rimase sostanzialmente immutata per oltre 70 anni. In questo periodo si consolidò
il modello di una giurisdizione amministrativa indirizzata alla tutela degli interessi legittimi e
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incentrata principalmente nell’impugnazione di atti. Nei primi anni dell’ordinamento
repubblicano le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto organizzativo della giurisdizione
amministrativa, ma non furono condizionate dalla Costituzione. Con il d.l. 642/1948, era stata
istituita una Sesta sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, omologa alla Quarta e
alla Quinta. Subito dopo, con il d.lgs. 654/1948, venne istituito il Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione siciliana, organo equiordinato al Consiglio di Stato, con funzioni
consultive e giurisdizionali: in questo modo divenne problematica la stessa unitarietà nell’assetto
della giurisdizione amministrativa. Solo nella seconda metà degli anni 60 l’incidenza di principi
costituzionali risultò più evidente, soprattutto per effetto delle norme sull’indipendenza del
giudice. La Corte costituzionale dovette dichiarare l’illegittimità di alcune giurisdizioni speciali la
cui disciplina non garantiva adeguatamente l’indipendenza dei giudici. In particolare fu
dichiarata illegittima la composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede
giurisdizionale. In seguito a questa pronuncia anche le vertenze che erano demandate in primo
grado alla Giunta provinciale amministrativa divennero di competenza del Consiglio di Stato,
come giudice di unico grado. Gli interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a
statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art. 125 Cost, sulla istituzione, in ogni
Regione, di un giudice amministrativo di primo grado. Con la legge 1034/1971 (legge Tar) furono
istituiti, nei capoluoghi di ciascuna Regione, i Tribunali amministrativi regionali (Tar). I Tar
furono istituiti come giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale per
le controversie per gli interessi legittimi e per quelle su diritti soggettivi devolute alla
giurisdizione esclusiva. Ad essi furono assegnate anche le controversie sulle operazioni elettorali
per le elezioni amministrative. Nei confronti delle sentenze del Tar fu previsto l’appello alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (quarta, quinta e sesta), che pertanto, a partire
dalla riforma del 1971, si configurarono come giurisdizione di secondo grado. La legge del 1971
introdusse anche alcune disposizioni di procedura per il giudizio di primo grado e per il giudizio
di appello. Innovò anche altri profilo della giurisdizione amministrativa ed estese la giurisdizione
esclusiva alle vertenze in materia di concessioni di beni o di servizi pubblici. L’assetto generale
della giustizia amministrativa sembrava completato dal d.p.r. 1199/1971, che fu emanato
nell’esercizio della delega legislativa attribuita al Governo dalla legge 775/1970, per la riforma del
procedimento amministrativo. Il d.lgs. 775/1970 dettò per la prima volta una disciplina organica
dei ricorsi amministrativi: il ricorso gerarchico e gli altri ricorsi ad esso assimilati, e il ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica.

 Le innovazioni successive e il “codice del processo amministrativo”

Dopo l’istituzione dei Tar, tra gli interventi più significativi vi fu l’estensione della giurisdizione
esclusiva ad alcune controversie con l’amministrazione in materia edilizia. In queste
controversie frequentemente si presentavano insieme interessi legittimi e diritti soggettivi.
Elementi sostanziali di novità emersero invece nella legislazione a partire dai primi anni 90. Gli
interventi legislativi seguivano due indirizzi principali:

1. Discipline speciali per accelerare lo svolgimento del processo. Già nei primi anni successivi
all’istituzione dei Tar era emerso uno squilibrio sostanziale fra il numero dei ricorsi proposti e i
ricorsi decisi. Questo squilibrio aveva comportato, soprattutto per i Tar, una dilatazione della
durata media dei giudizi. Il legislatore cercò di affrontare questo problema introducendo
innanzitutto disposizioni speciali che avrebbero dovuto assicurare una decisione più celere in
ambiti di particolare importanza. Così la legge 241/1990, nel prevede il diritto di recesso ai
documenti amministrativi, introdusse per la sua tutela un rito speciale, di competenza del
giudice amministrativo, caratterizzato da procedure accelerate. Furono introdotte misure per

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accelerare la decisione dei ricorsi in tema di procedure espropriative e, soprattutto, di
affidamento di appalti pubblici.

2. Incremento di casi di giurisdizione esclusiva. L’ampliamento della giurisdizione esclusiva non


rispondeva per solo all’esigenza di rendere più agevole la tutela del cittadino, evitando le
incertezze e le complicazioni determinate dalla devoluzione a giudici diversi della tutela dei diritti
e degli interessi legittimi. Si affermava anche il disegno di privilegiare il ruolo del giudice
amministrativo nelle vertenze con l’amministrazione che risultassero più importanti per gli
interessi generali della collettività. In questa logica furono assegnate alla giurisdizione esclusiva
le controversie sugli atti delle Autorità indipendenti per i servizi di pubblica utilità.

La tendenza ad estendere la giurisdizione esclusiva ricevette ulteriore impulsi negli stessi anni in
concomitanza con la riforma del pubblico impiego. Per molte categorie di dipendenti pubblici, il
d.lgs. 29/1993 aveva trasformato il rapporto con l’amministrazione: non si trattava più di un
rapporto pubblicistico, ma di un rapporto contrattuale, civilistico. In coerenza con questa riforma,
nel 1997 fu conferita una delega al Governo per devolvere al giudice ordinario tutte le nuove
controversie dei dipendenti pubblici con un rapporto contrattuale. La medesima legge conferì
una delega al Governo anche per estendere la giurisdizione esclusiva alle controversie aventi ad
oggetto diritti patrimoniali consequenziali in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici. La
delega fu attuata dal Governo, che, col d.lgs. 80/1998, assegnò alla giurisdizione esclusiva quasi
tutte le vertenze con l’amministrazione in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica. Il
legislatore delegato stabilì inoltre che nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva il giudice
amministrativo sarebbe stato competente anche per le domande di risarcimento del danno
ingiusto cagionato dall’amministrazione. Gli artt. 33 e 34 del d.lgs. 80/1998 furono dichiarati
illegittimi dalla Corte costituzionale per eccesso di delega. Per rimediare, il Parlamento ne
ripropose il testo, con limitate modifiche, nell’art. 7 della legge 205/2000, e cioè in una legge
ordinaria. La Corte costituzionale intervenne nuovamente, dichiarando parzialmente illegittimo
anche questo articolo, sostenendo questa volta che il legislatore aveva esteso eccessivamente la
giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica, violando l’art. 103,
comma 1 Cost. La legge 205 ha anche arricchito i poteri di cognizione del giudice, ha integrato il
quadro delle misure cautelari, ha istituito un rito specifico per le vertenze sul silenzio
dell’amministrazione, ha ridefinito il rito speciale per le vertenze sull’affidamento degli appalti
pubblici e in altre materie di particolare importanza economica o sociale. Furono inoltre
introdotte alcune misure per accelerare la definizione dei giudizi. L’attenzione del legislatore
verso i riti speciale riemerse con forza anche negli anni successivi, soprattutto per le controversie
in materia di opere pubbliche e di affidamento di contratti pubblici. Il d.lgs. 53/2010 introdusse
ulteriori previsioni speciali. In particolare furono assegnati al giudice amministrativo poteri
inediti, come quello di decidere, in relazione agli interessi coinvolti e alle situazioni concrete, se
all’annullamento dell’aggiudicazione dell’appalto dovesse seguire l’inefficacia del contratto, o
come quello di applicare d’ufficio sanzioni pecuniarie all’amministrazione che avesse sottoscritto
un contratto senza espletare le procedure di evidenza pubblica o senza rispettare il termine
dilatorio stabilito dalla legge. In seguito a questi interventi legislativi risultò più forte l’esigenza di
una disciplina organica del processo amministrativo. A tal fine il Parlamento conferì una delega
al governo con la legge 69/2009. Avvalendosi di una facoltà concessagli dalla legge, il Governo
affidò la redazione del testo del decreto legislativo al Consiglio di Stato. La delega fu esercitata
con il d.lgs. 104/2010. Col d.lgs. furono approvati quattro allegati: il primo è il codice del processo
amministrativo (cpa), il secondo contiene 19 le norme d’attuazione al codice, il terzo le norme
transitorie e il quarto le norme di coordinamento e le abrogazioni. In questo modo veniva
introdotto per la prima volta nel nostro Paese un codice del processo amministrativo. Con

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l’entrata in vigore del codice venivano abrogate quasi tutte le disposizioni precedenti sul processo
amministrativo. In particolare erano abrogati il regolamento di procedura del 1907, le disposizioni
processuali contenute nel testo unico sul Consiglio di Stato del 1924, le disposizioni processuali
della legge istitutiva dei Tar e della legge 205/2000. Sono rimaste invece in vigore alcune
disposizioni del d.lgs. 53/2010. La legge di delega prevedeva che il Governo, entro due anni dal
suo primo esercizio, potesse emanare ulteriori decreti legislativi con le correzioni e integrazioni
che l’applicazione pratica renda necessarie e opportune. In base a questa disposizione furono
introdotte disposizioni correttive e integrative al codice prima col d.lgs. 195/2011, poi col d.lgs.
160/2012. Le previsioni del codice hanno subito ulteriori modifiche anche ad opera di leggi
speciali.

 Alcuni problemi aperti

La formazione del codice del processo amministrativo fu accompagnata da un dibattito che


riguardò la bontà delle scelte che stavano maturando con la nuova disciplina. Oggetto di
discussione furono soprattutto il raporto con la giurisdizione civile, l’idoneità degli strumenti
previsti per la tutela dei diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva, i mezzi istruttori, le
tipologie delle pronunce del giudice. Nel dibattito fu richiamato anche il tema della funzionalità
del processo amministrativo, ossia della sua idoneità a rendere giustizia al cittadino in tempi
ragionevoli. L’eccessiva durata media del processo amministrativo rappresenta il problema più
grave. Il tema ha assunto un rilievo ancora maggiore per il riconoscimento nell’art. 111 Cost del
diritto alla ragionevole durata del processo. Molte volte la durata di un processo amministrativo
non rispetta il parametro costituzionale. Il cpa ha riproposto e, in alcuni casi, ha esteso gli
strumenti di accelerazione del processo già prospettati dalla legge 205/2000 e dalle altre normative
precedenti: la possibilità di anticipazione nella fase cautelare della decisione sul merito del ricorso,
la previsione di sentenze redatte con una motivazione più succinta (cd sentenze in forma
semplificata), la perenzione straordinaria dei ricorsi ultraquinquennali. Queste misure, però, non
sono sufficienti. In altri Paesi, per affrontare evenienze analoghe e più in generale per evitare al
cittadino di affrontare i costi e i tempi di un giudizio, anche per le vertenze con l’amministrazione
sono stati valorizzati i mezzi alternativi di soluzione delle controversie (ADR). Si tratta di
strumenti non giurisdizionali, diversi però dai tradizionali ricorsi amministrativi. I mezzi
alternativi dovrebbero prevedere l’intervento di un soggetto qualificato, ma comunque terzo
rispetto alle parti in causa; a tale soggetto possono essere assegnate funzioni decisorie, ma anche
di mediazione e di conciliazione. I più recenti progetti della giustizia civile, nel nostro Paese,
hanno dato ampio rilievo agli strumenti di conciliazione e di mediazione: in alcuni casi oggi
rappresentano una condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale.

CAPITOLO QUARTO – L’INTERESSE LEGITTIMO

 Considerazioni introduttive

Nel nostro diritto amministrativo le posizioni giuridicamente rilevanti del cittadino nei confronti
dell’amministrazione vengono articolate in interessi legittimi e diritti soggettivi. Si deve
riconoscere che la figura dell’interesse legittimo, anche se nel nostro diritto amministrativo è
assolutamente centrale, non ha un fondamento di teoria generale. Di conseguenza, la nozione di
interesse legittimo non ha in qualche modo preceduto e reso obbligate le scelte del legislatore o
gli indirizzi che storicamente hanno determinato il sorgere e l’affermarsi nel nostro Paese della
nozione in esame. La figura dell’interesse legittimo trova fondamento, invece, proprio in queste
scelte e in questi indirizzi. L’interesse legittimo è inteso come una posizione diversa e alternativa
rispetto al diritto soggettivo. La distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire
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agevole quando si confrontino certe ipotesi stereotipe: si pensi al caso del cittadino interessato a
un potere discrezionale dell’amministrazione. In questo caso si ritiene pacificamente che possa
essere identificato solo un interesse legittimo: al cittadino l’ordinamento non garantisce neppure
la pretesa a un risultato utile, perché l’esito finale del procedimento dipende da una scelta
discrezionale dell’autorità amministrativa; di conseguenza, sul piano del diritto sostanziale, la
garanzia della posizione del cittadino viene concepita solo in correlazione con le modalità di
esercizio del potere dell’amministrazione. Oppure si pensi al caso del cittadino creditore di
un’obbligazione pecuniaria nei confronti dell’amministrazione In questo caso l’ordinamento
riconosce e garantisce la pretesa a un risultato utile predeterminato (l’adempimento della
prestazione pecuniaria) e appresta tutta una serie di strumenti per assicurare una piena
realizzazione di questa pretesa.

La distinzione, però, risulta più difficile in altre ipotesi. Si pensi al caso di un’attività vincolata
dell’amministrazione: in questo caso la giurisprudenza e la dottrina prevalenti ammettono la
configurabilità di posizioni di interesse legittimo, ma se l’attività è vincolata si deve riconoscere
che la legge prevede e quindi garantisce direttamente al cittadino un determinato risultato e in
questo modo, almeno sul piano del diritto sostanziale, la distinzione rispetto alle obbligazioni
scompare.

Anche nell’ambito del diritto privato si tende a riconoscere la configurabilità di situazioni rispetto
alle quali i diritti soggettivi sono caratterizzati in termini analoghi rispetto agli interessi legittimi.
Si pensi alla partecipazione ad un concorso privato, il diritto soggettivo del cittadino non si
risolve nella pretesa ad un risultato utile (l’assunzione) ma si presenta in termini di stretta
correlazione allo svolgimento del potere privato: deve essere assicurata l’osservanza dei principi
di buona fede e di ragionevolezza e a tal fine viene configurato un obbligo di motivazione.

Quindi:

- Se ATTIVITÀ VINCOLATA (la pubblica amministrazione deve applicare scelte e decisioni che
sono già contenute nella legge): diritto soggettivo
- Se ATTIVITÀ DISCREZIONALE (la pubblica amministrazione ha la possibilità di scegliere
tra un numero di soluzioni possibili): interesse legittimo

Irrinunciabili sono la garanzia e l’ampiezza della tutela nei confronti dell’amministrazione.

 L’interesse legittimo e il potere dell’amministrazione

Un primo elemento è costituito dal carattere relativo (o relazionale) dell’interesse legittimo:


l’interesse legittimo è una posizione correlata all’esercizio di un potere da parte
dell’amministrazione (cd potere amministrativo). L’esercizio del potere produce effetti giuridici
nei confronti dei cittadini: l’amministrazione, disponendo degli interessi che le sono devoluti dalla
legge, distribuisce risorse, ad alcuni conferisce utilità particolari, ad altri le sottrae o le nega, e
così operando incide sulle posizioni giuridiche dei cittadino. In via di prima approssimazione,
l’interesse legittimo può essere definito come una posizione soggettiva speculare al potere
dell’amministrazione: è la posizione qualificata del cittadino nei cui confronti assume rilevanza
giuridica l’esercizio di tale potere.

Molte riflessioni si sono concentrate sull’analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la presenza di
un potere amministrativo. L’amministrazione può realizzare i suoi fini anche operando
nell’ambito del diritto privato e rispetto ad atti di diritto privato le posizioni soggettive non
possono che essere quelle del diritto privato (ossia, diritti soggettivi).
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Il potere amministrativo è considerato un situazione specifica del diritto pubblico: di
conseguenza non è configurabile un interesse legittimo neppure in presenza di atti unilaterali
dell’amministrazione, quando essi siano riconducibili al diritto privato. Non vale però la
conclusione opposta: l’attività unilaterale dell’amministrazione disciplinata dal diritto pubblico
non si configura necessariamente come potere amministrativo. In alcune situazioni l’attività
svolta dall’amministrazione è certamente disciplinata dal diritto pubblico, ma non vengono
riconosciute le caratteristiche del potere in senso proprio, tant’è vero che rispetto ad essa sono
configurabili diritti soggettivi.

In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività amministrativa nel diritto
pubblico, per definire il potere tipico dell’amministrazione. Un riferimento a questi profili appare
opportuno perché, una volta riconosciuto che la nozione di interesse legittimo si riconnette a
quella di potere dell’amministrazione, diventa possibile, attraverso il loro esame, cogliere meglio
il modo specifico di porsi dell’interesse legittimo.

I.Potere autoritativo

In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del potere, la cd autoritarietà o


autoritatività. Di fronte a un potere autoritativo dell’amministrazione il cittadino non può
opporre un diritto soggettivo, perché l’amministrazione, attraverso i propri provvedimenti, può
estinguere legittimamente i diritti dei terzi.

L’attenzione si sposta così sulla autorità dei provvedimenti amministrativi e quindi sulla loro
incidenza estintiva rispetto a un diritto soggettivo. Il nucleo del potere amministrativo sarebbe
espresso dall’autoritarietà: in questo senso sembra prendere posizione anche l’art. 1 legge
241/1990, come modificato dalla legge 15/2005, che nel contesto di una valorizzazione degli istituti
privatistici riserva però al diritto pubblico proprio la disciplina dell’attività autoritativa
dell’amministrazione. Il carattere dell’autoritarietà aiuta a capire alcune vicende del diritto
soggettivo del cittadino rispetto all’amministrazione; tuttavia non spiega quando
l’amministrazione sia titolare di un potere e in che cosa consista, nella generalità delle situazioni,
tale potere. Inoltre è difficile configurare una autoritarietà dell’amministrazione in tutti i casi in
cui l’attività amministrativa non comporti la sottrazione di utilità al cittadino o consegua a un
richiesta dello stesso cittadino interessato. Il potere dell’amministrazione ha il carattere della
unilateralità, perché l’effetto giuridico è prodotto dall’atto dell’amministrazione; non ha però il
carattere dell’autoritarietà, perché non si verifica alcuna sottrazione d’autorità di utilità spettanti
prima al cittadino. Eppure anche in questi casi viene identificato un interesse legittimo del
cittadino.

Per alcuni l’autoritarietá designa semplicemente la capacità di modificare situazioni giuridiche


senza il consenso del soggetto destinatario.

II.Potere funzionale alla realizzazione dell’interesse pubblico

In altre interpretazioni è considerata come elemento caratteristico del potere la sua funzionalità
alla realizzazione dell’interesse pubblico. Di conseguenza non si ha potere quando l’attività
amministrativa sia diretta istituzionalmente a soddisfare un interesse privato: è il caso, per
esempio, della determinazione dell’indennità di esproprio. Questa ipotesi non può verificarsi nel
caso dell’attività discrezionale, perché tale attività, per definizione, comporta la necessità di un
scelta in considerazione dell’interesse pubblico. Rimane però oscuro sulla base di quali criteri
giuridici si possa concludere che l’attività vincolata sia diretta a realizzare un interesse pubblico o
un interesse privato. Infatti, se l’attività è vincolata, ogni apprezzamento degli interessi è precluso
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all’amministrazione e, quindi, la funzionalità a certi interessi dovrebbe ritenersi giuridicamente
irrilevante.

III.Potere infungibile

Altre interpretazioni assumono come caratteristica del potere amministrativo la sua infungibilità:
il potere dell’amministrazione è riservato a uno specifico apparato e solo a tale apparato è
consentito l’esercizio di esso. La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si
caratterizzerebbe per una dipendenza istituzionale dall’amministrazione proprio per questa
ragione. Il carattere dell’infungibilità non è esclusivo del potere ammnistrativo. Si configura, per
esempio, anche rispetto a talune obbligazioni, nei cui confronti sono configurabili pacificamente
posizioni di diritto soggettivo. Nel nostro ordinamento la semplice fungibilità di una prestazione
è rilevante non per una classificazione degli interessi, ma piuttosto per definire le modalità e le
possibilità di esecuzione nel caso in cui si sia verificata una violazione di tali interessi.

Alcune interpretazioni accolgono argomenti di ordine squisitamente formale e individuano come


elemento tipico del potere la produzione di effetti giudici, in termini costitutivi: potere
significa quindi capacità di assumere atti produttivi di effetti giuridici propri. Viene accolta come
distinzione fondamentale quella fra procedimenti dichiarativi e procedimenti costitutivi. I
primi si limitano ad accertare o a certificare situazioni già identificate dalla legge o posizioni già
compiutamente definite dalla legge stessa, e nei confronti di essi sarebbero identificabili diritti
soggettivi; i secondi, invece, hanno un carattere dispositivo, perché sono idonei a produrre effetti
giuridici specifici che vengono enunciati nel provvedimento finale, e nei confronti di essi
sarebbero identificabili interessi legittimi.

Un orientamento dottrinale individua come discriminante per la nozione di potere il fatto che la
legge riservi all’amministrazione una competenza esclusiva, intesa come capacità di operare
effettuando valutazioni che possono essere compiute solo dall’amministrazione, e non da altri
soggetti (si pensi alla cd discrezionalità tecnica, ma soprattutto alla discrezionalità
amministrativa). Il potere, insomma, si caratterizza per essere riservato a un soggetto, ma questa
riserva attiene non tanto alla tipologia degli effetti prodotti, quanto piuttosto alle modalità
attraverso le quali l’amministrazione opera ed assume i suoi atti. Quando la legge riserva a un
organo amministrativo l’effettuazione di certe valutazioni, l’attività dell’amministrazione presenta
caratteristiche particolari. Innanzitutto i risultati dell’attività amministrativa non possono essere
definiti previamente sulla scorta solo di quanto previsto dalla legge: la valutazione
dell’amministrazione rileva, nella formazione del provvedimento finale, introducendo elementi
nuovi, rispetto a quelli già compiutamente determinati nella previsione normativa. Inoltre, se la
valutazione è riservata all’amministrazione, non vi è neppure la possibilità di un sindacato pieno
sull’attività amministrativa, perché in questi casi il giudice non ha la capacità di sostituire alla
valutazione compiuta dall’amministrazione una sua propria valutazione. Nei casi in cui la legge
attribuisca all’amministrazione la capacità di compiere valutazioni di questo genere, essa è in
grado di innovare l’ordinamento nel senso specifico di poter produrre regole nuove rispetto a
quelle già sancite nell’ordinamento. Questa situazione si verifica tipicamente quando l’attività
amministrativa sia discrezionale.

Quando l’attività amministrativa è discrezionale, l’amministrazione ha la possibilità di introdurre


una regola nuova, determinando, sulla base di una propria scelta, l’assetto degli interessi nel caso
concreto.

Se l’attività è vincolata, la legge che disciplina l’attività amministrativa definisce già


completamente ciò che spetta al cittadino in quella certa situazione: l’amministrazione, in
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presenza della situazione individuata dalla legge, è tenuta ad assumere nei confronti del cittadino
l’atto previsto dalla legge stessa e non può aggiungervi nulla di suo. Il cittadino è titolare perciò
di un diritto soggettivo. Se l’attività è discrezionale, il cittadino non può vantare una pretesa
giuridica a un determinato risultato, perché ciò che gli spetta non è determinabile a priori in base
alla legge, ma dipende da una scelta dell’amministrazione. In questo caso, quindi, si può solo
ammettere un interesse legittimo. Secondo questa tesi, la posizione di interesse legittimo è
sempre correlata a un potere dell’amministrazione; il potere dell’amministrazione, però, va
definito sulla base della discrezionalità. La discrezionalità opera come fattore intermedio fra la
norma e il provvedimento finale, fra la legge e il risultato dell’azione amministrativa. Questa tesi
non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente: essa riconosce la presenza di interessi
legittimi di fronte a un’attività amministrativa discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia
vincolata siano configurabili necessariamente diritti soggettivi. La giurisprudenza, rispetto
all’attività vincolata, ammette interessi legittimi quando si possa riconoscere che l’attività
amministrativa è indirizzata a un interesse pubblico specifico; altrimenti identifica invece diritti
soggettivi. La convinzione che la figura dell’interesse legittimo trovi ragione negli effetti giuridici
prodotti dall’attività amministrativa e quindi nella sua costitutività, più che nelle modalità
(discrezionalità ecc) attraverso le quali essa si esplica.

Da ultimo si deve tener presente l’influsso sempre maggiore del diritto dell’Unione europea sul
nostro ordinamento. Nei settori di sua competenza l’ordinamento dell’UE ha inciso
profondamente anche sul diritto amministrativo dei Paesi associati, introducendo elementi ed
istituti comuni e promuovendo lo sviluppo dei diversi ordinamenti nazionali secondo direttrici
omogenee. Il diritto UE impone, in tutti gli ambiti del suo intervento, una tutela efficace del
cittadino nei confronti dell’amministrazione; nello stesso tempo non contempla la figura
dell’interesse legittimo, anche perché essa è utilizzata quasi solo nel diritto italiano.

Il diritto dell’UE prevede una tutela del cittadino che non è condizionata, nei suoi risultati, dalla
qualificazione delle posizioni soggettive nel nostro ordinamento come interesse legittimo, anziché
come diritto soggettivo. In questi casi anche il legislatore italiano ha dovuto adeguarsi
all’impostazione dettata dalle norme europee.

(Segue): il contributo della giurisprudenza; la questione dei diritti costituzionalmente


tutelati

La presenza di interpretazioni diverse e di varie incertezze non significa, però, che normalmente
l’identificazione di una situazione soggettiva come interesse legittimo sia controversa: soprattutto
ad opera della Corte di cassazione quale giudice della giurisdizione, si è consolidata, ormai da
tempo, una interpretazione comune sulla identificazione della maggior parte delle situazioni
corrispondenti ad interessi legittimi. Certo, accanto a questo nucleo di interessi legittimi che
vengono pacificamente riconosciuti come tali, vi sono casi in cui la classificazione della posizione
soggettiva come diritto soggettivo o come interesse legittimo è ancora discussa. La persistenza di
casi del genere riflette la mancanza di un criterio certo e condiviso da tutti per identificare gli
interessi legittimi. Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi, la giurisprudenza ha
accolto una serie di criteri. In questa sede vengono richiamati quelli più significativi, con la
precisione che essi risultano invocati talvolta in via cumulativa.

a. Tesi della distinzione fra NORME D’AZIONE e NORME DI RELAZIONE

L’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che disciplinano un potere e il suo esercizio, e


norme di relazione che disciplinano un rapporto intersoggettivo e i suoi effetti. A questa coppia
di norme corrisponderebbe, nel caso di violazione, la coppia di qualificazione degli atti in termini
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di illegittimità-illiceità, e quindi, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia interesse legittimo-
diritto soggettivo. La figura dell’interesse legittimo troverebbe così un fondamento positivo, nella
norma che assegna quel potere all’amministrazione. La possibilità e l’utilità della distinzione tra
norme d’azione e norme di relazione sono criticate: anche le norme che disciplinano un potere,
per il solo fatto che ne determinano le condizioni per l’esercizio nei confronti di altri soggetti,
individuano relazioni giuridiche intersoggettive. D’altra parte anche le norme che concernono un
rapporto intersoggettivo vanno considerate in una logica dinamica e, in questo modo, emerge più
chiaramente che finiscono anch’esse con l’individuare i poteri rispettivi delle parti riguardo a un
certo bene della vita.

b. Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’INTERESSE PUBBLICO e attività


vincolata nell’INTERESSE PRIVATO

L’interesse legittimo, secondo la giurisprudenza, si caratterizzerebbe per il suo confronto con un


interesse pubblico. Di conseguenza se il potere dell’amministrazione è discrezionale, sarebbe
sempre configurabile un interesse legittimo; se invece il potere è vincolato, allora si dovrebbe
distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del cittadino o nell’interesse
dell’amministrazione, e nel primo caso vi sarebbe un diritto soggettivo, nel secondo un interesse
legittimo. Pertanto, secondo la Cassazione, in certi casi di attività vincolata il cittadino sarebbe
titolare di un diritto nei confronti dell’amministrazione al rilascio di un provvedimento
amministrativo; in altri casi, invece, a fronte di provvedimenti vincolati si ammettono interessi
legittimi. Sulla base dell’analisi giuridica, è impossibile capire in quali casi l’attribuzione di un
potere vincolato sia funzionale a un interesse pubblico, ovvero a un interesse privato, poiché la
funzionalità di un potere vincolato non si può ricavare dalla norma che lo prevede.

c. Tesi della distinzione fra CATTIVO ESERCIZIO DEL POTERE e CARENZA DI


POTERE

Nel caso di cattivo esercizio di potere (= vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di
potere) l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia (finché il provvedimento
non sia annullato) ed è configurabile solo una posizione di interesse legittimo, perché si è pur
sempre in presenza dell’esercizio di un potere dell’amministrazione. Invece, nel caso di carenza di
potere (= straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza di presupposti necessari) il
vizio preclude la stessa efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del cittadino rimane
quella originaria, come era in assenza dell’intervento dell’amministrazione. Se vi è carenza di
potere, infatti, l’amministrazione non esercita in modo efficace alcun potere e pertanto non
sarebbe identificabile neppure un interesse legittimo. La Cassazione ha cercato anche di
elaborare una casistica della carenza di potere, dimostrandosi perciò consapevole della
eccezionalità di tale figura nel sistema dei vizi dell’atto amministrativo. Ha sostenuto, così, che vi
è carenza quando il provvedimento è previsto dall’ordinamento, ma non come esercizio di una
funzione amministrativa. Oppure ha sostenuto che vi è carenza quando il potere è attribuito a
un’amministrazione di ordine diverso rispetto a quella cui fa parte l’organo che ha omesso il
provvedimento. In passato la Cassazione ha sostenuto che la carenza di potere di configurerebbe
anche quando il provvedimento sia stato assunto dall’amministrazione titolare del potere, ma in
mancanza di un presupposto di fatto o di diritto prescritto dalla legge: in questo caso di
configurerebbe la cd carenza di potere in concreto. La legge 15/2015, modificando la legge
241/1990, ha distinto fra ipotesi di annullabilità dell’atto amministrativo (art. 21-octies) e ipotesi di
nullità (art. 21-septies) e la distinzione è stata accolta anche nel codice (art. 31 cpa). La nullità si
configura nel caso del provvedimento che manca degli elementi essenziali e del provvedimento
che è viziato da difetto assoluto di attribuzione. L’atto amministrativo nullo, secondo i principi
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generali, dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, nella logica accolta dalla Cassazione per la
carenza di potere, l’atto amministrativo nullo non potrebbe costituire esercizio di un potere e non
potrebbe neppure modificare la posizione soggettiva del cittadino. La sistematica dei vizi dell’atto
amministrativo delineata dalla legge 15/2005 dovrebbe pertanto orientare la Cassazione a
coordinare la distinzione fra cattivo esercizio del potere e carenza di potere con la distinzione fra
i casi di annullabilità e i casi di nullità del provvedimento.

d. Tesi dei DIRITTI COSTITUZIONALMENTE TUTELATI

Nei rapporti con l’amministrazione disciplinati dal diritto pubblico il cittadino non è sempre
titolare di un interesse legittimo: in alcuni casi è stato escluso che gli atti dell’amministrazione
potessero essere qualificati come esercizio di un potere amministrativo e si riconosce senz’altro al
cittadino la titolarità di un diritto soggettivo. Si pensi ai cd diritti personalissimi, sui quali
l’amministrazione per definizione non può incidere perché non è mai titolare di un potere. In
questi casi la rilevanza della posizione soggettiva implicherebbe una sorta di rigidità originaria,
tale da precludere per legge qualsiasi compressione ad opera dell’amministrazione. Negli stessi
casi, anche in presenza di provvedimenti dell’amministrazione si configurerebbero sempre diritti
soggettivi, e non interessi legittimi. La giurisprudenza aveva operato una selezione delle posizioni
giuridiche, individuandone alcune come dotate di una protezione giuridica qualitativamente
maggiore e perciò non modificabili neppure per effetto dell’esercizio di un potere amministrativo.
Era così delineata la figura dei cd diritti costituzionalmente tutelati o protetti. Sul piano pratico,
la Cassazione si proponeva di offrire anche a queste posizioni soggettive tutti gli strumenti di
tutela previsti per il processo civile. L’obiettivo sembrò compromesso, quando alcune delle
materie cui inerivano tali diritti furono assegnate alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo e la Corte costituzionale ritenne legittima questa scelta. In questo modo la figura
dei diritti costituzionalmente tutelati divenne compatibile anche con la giurisdizione
amministrativa.

 L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata

L’interesse legittimo è anzitutto una posizione che identifica un interesse proprio del
cittadino: per questa ragione non può essere considerato come una posizione meramente riflessa
rispetto al potere dell’amministrazione. L’interesse legittimo è una posizione soggettiva, di cui
cioè sono titolari solo soggetti determinati. L’esercizio di un potere dell’amministrazione può
interessare, seppur in modi diversi, tutti i cittadini. Non tutti i cittadini, però, sono titoli di un
interesse legittimo rispetto a quell’esercizio del potere. La giurisprudenza ha rivendicato a sé la
capacità di individuare in quali situazioni sia configurabile la titolarità di un interesse legittimo.
Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una posizione soggettiva dovrebbe
essere definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla legge: al potere giurisdizionale spetta un
ruolo nella applicazione della legge, ma non dovrebbe spettare un ruolo creativo su un piano così
fondamentale per lo status del cittadino. Di conseguenza anche la titolarità dell’interesse
legittimo deve essere stabilita in base a criteri predeterminati e ancorati alla legge. Ad ogni
modo in proposito vengono considerati comunemente due criteri cumulativi. Il primo ed
elementare è quello della differenziazione: proprio perché l’interesse legittimo è una posizione
soggettiva, esso presuppone in capo al titolare la sussistenza di una posizione di interesse diversa
e più intensa rispetto a quella della generalità dei cittadini. L’interesse legittimo deve essere
perciò differenziato. Proprio per la mancanza di questa differenziazione fu esclusa a lungo in
passato la possibilità di considerare come interesse legittimo l’interesse dei cittadini di una certa
zona alla salvaguardia dei valori ambientali (cd interessi diffusi). Il criterio della differenziazione
non viene ritenuto sufficiente da buona parte della dottrina: è stato perciò proposto, ad
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integrazione di esso, il criterio della qualificazione. Perché si possa avere un interesse legittimo è
necessario che il potere dell’amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale potere, sia
titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento.
In altre parole, l’identificazione dei soggetti più direttamente interessati dovrebbe essere
effettuata secondo criteri squisitamente giuridici, e quindi sulla base della norma che disciplina il
potere. La semplice differenziazione di fatto non è sufficiente per affermare l’interesse legittimo:
l’interesse, per essere legittimo, deve anche essere qualificato, e cioè deve assumere rilievo in base
alla norma. In realtà non sempre la norma che disciplina il potere identifica i soggetti
direttamente interessati: anzi, molto spesso la norma non si cura di identificarli. Frequentemente,
invece, la qualificazione viene ricavata dalla giurisprudenza in base alla rilevanza attribuita a
quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso o alla incidenza concreta dell’azione
amministrativa su tale interesse.

 L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale

PRIMA. In passato l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è contrata particolarmente


su un aspetto: quello delle modalità della tutela nel caso di lezione di un interesse legittimo. Ciò si
spiegava col fatto che l’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza dell’interesse legittimo
nell’attribuzione al titolare dell’interesse un potere di reazione, nel caso si fosse verificata una
lesione; questo potere di reazione consisteva nella possibilità di impugnare (in via amministrativa
o in sede giurisdizionale) il provvedimento lesivo e di porre così in contestazione l’esercizio del
potere dell’amministrazione. Seguendo questa prospettiva si rilevava, innanzitutto, come la
tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria. Si noti che in questo
modo si istituiva un parallelismo fra il carattere costitutivo del potere e il carattere
costitutivo della tutela offerta all’interesse legittimo. All’interesse legittimo sembrava
corrispondere perciò una tutela tipica, di tipo costitutivo, diretta ad elidere gli effetti del
provvedimento lesivo. Infatti, mentre la tutela del diritto soggettivo assicurerebbe direttamente la
pretesa al bene della vita in cui si sostanzia il diritto, la tutela dell’interesse legittimo attuerebbe
solo un soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso l’eliminazione degli atti
amministrativi lesivi. La tutela dei diritti assicura la realizzazione di un pretesa che si identifica
con l’interesse materiale (assicura il cd adempimento dell’obbligo); invece, la tutela dell’interesse
legittimo assicurerebbe solo indirettamente l’interesse materiale, nel senso che determinerebbe
soltanto l’eliminazione dell’atto lesivo.

Con le modifica all’art. 34 cpa tradotte dal d.lgs. 160/2012, è stato chiarito che il cittadino che
impugni un diniego può chiedere al giudice amministrativo, oltre all’annullamento del
diniego, anche la condanna dell’amministrazione e rilasciare il provvedimento richiesto. Nel
giudizio sul silenzio, il giudice amministrativo, se accoglieva il ricorso, poteva ordinare
all’amministrazione di adottare provvedimenti con un contenuto specifico. In passato, la
rilevanza dell’interesse legittimo era ricondotta alla vicenda della impugnazione del
provvedimento lesivo. In questa prospettiva l’interesse legittimo sembrava essere considerato
dall’ordinamento solo in seguito a una sua lesione: così, paradossalmente, l’interesse legittimo
risultava sorgere solo quando era leso. In questo modo era facile ritenere che l’interesse legittimo
fosse figura di ordine squisitamente processuale. Questa concezione oggi sembra recessiva, ma
non è stata abbandonata del tutto, e comunque ha condizionato in profondità la giurisprudenza.
Basti pensare alla rigidità con cui fino alla fine del secolo scorso veniva negato il risarcimento dei
danni per lesione di interessi legittimi, o alla tendenza della giurisprudenza amministrativa a
ritenere satisfattiva per il ricorrente la sentenza di annullamento dell’atto lesivo.

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DOPO. Innanzitutto va chiarito che le modalità della tutela non costituiscono di per sé
l’elemento caratterizzante della figura dell’interesse legittimo: sono i caratteri dell’interesse
legittimo che condizionano le modalità della tutela. Le modalità della tutela dell’interesse
legittimo dipendono dal modo di essere di questo interesse, ossia dal suo confrontarsi
istituzionalmente con un potere dell’amministrazione. Per questo motivo anche la garanzia
dell’interesse legittimo si traduce innanzi tutto nella verifica del potere esercitato
dall’amministrazione. Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo
si configura, in genere, come tutela successiva: presuppone che sia già intervenuta una lesione
dell’interesse protetto. Nel caso in cui la lesione sia stata determinata da un provvedimento
amministrativo, la tutela si incentra nella verifica della legittimità del provvedimento e, attraverso
di esso, nella verifica della legittimità dell’operato dell’amministrazione nell’intero procedimento.
In seguito alla lesione dell’interesse legittimo provocata dall’atto amministrativo illegittimo, il
cittadino diventa titolare di un pretesa (un diritto potestativo) all’annullamento dell’atto lesivo.
La lesione dell’interesse legittimo può essere determinata, però, anche da altre situazioni
correlate al potere amministrativo: in particolare può essere determinata dalla mancanza
dell’esercizio di un potere, come è nel caso del silenzio-rifiuto. In questo caso il giudizio non ha
come obiettivo l’eliminazione di un provvedimento, ma ha come obiettivo l’adempimento del
dovere di provvedere dell’amministrazione. E quando la lesione dell’interesse protetto è
determinata dal diniego di un provvedimento, a certe condizioni la tutela dell’interesse legittimo
può essere diretta anche al rilascio del provvedimento già richiesto inutilmente
all’amministrazione. Nonostante che nel nostro ordinamento la tutela dell’interesse legittimo sia
stata modellata in passato secondo schemi tipici, oggi è evidente che il criterio della tipicità della
tutela è subordinato alla garanzia dell’interesse legittimo. Quanto poi alla questione della natura
solo processuale o anche (e principalmente) sostanziale dell’interesse legittimo, essa può essere
affrontata correttamente solo sulla base del diritto positivo. Il punto è capire se nel nostro
ordinamento all’interesse legittimo siano assegnate utilità ulteriori rispetto a quella (rilevante sul
piano processuale) della pretesa all’annullamento dell’atto lesivo. A questo scopo è decisivo
stabilire se l’interesse legittimo rilevi autonomamente, indipendentemente da una sua lesione: su
un piano, quindi, che non sia né quello della tutela giurisdizionale, né quello affine della tutela
con ricorsi amministrativi. Un argomento importante a favore della soluzione affermativa viene
tratto dalla legge 241/1990: essa, introducendo una serie di strumenti di garanzia per gli interessi
legittimi a partire dall’inizio del procedimento amministrativo, ha assegnato rilevanza all’interesse
legittimo prescindendo del tutto sia dalla impugnazione di un provvedimento, sia addirittura dal
verificarsi di una lesione all’interesse del cittadino. Si tenga presente che, nella legge 241/1990, la
partecipazione al procedimento amministrativo per chi sia titolare di un interesse legittimo si
attua su un piano di diritto sostanziale, attraverso la presentazione di osservazioni o di altri
contributi significativi che consentono all’amministrazione di realizzare una più completa
conoscenza dei fatti e una migliore valutazione degli interessi ai fini dell’adozione dei propri
provvedimenti. Inoltre, alla luce di questa disciplina, l’interesse legittimo si presenta come figura
attiva, caratterizzata da una serie di prerogative dirette a influire sull’azione amministrativa.

 Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del “bene della vita”

L’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale. L’interesse legittimo non sorge per effetto
della sua lesione ad opera di un potere dell’amministrazione e non assume rilevanza solo quando
si verifichino i presupposti per l’impugnativa: è configurabile già nel momento in cui ha inizio il
procedimento amministrativo e forse ancora prima, quando si realizzano i presupposti per il
procedimento. Perché nasca un interesse legittimo è necessario che sussistano le condizioni in
presenza delle quali l’esercizio del potere sia doveroso. Non assume importanza, a questo

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proposito, che il cittadino rispetto al potere dell’amministrazione possa derivare una posizione di
vantaggio o invece di svantaggio. Una volta stabilito che l’interesse legittimo è figura di diritto
sostanziale, va però chiarito in che cosa consista, rispetto ad esso, quel bene della vita che
costituisce una componente di tutte le posizioni soggettive di diritto sostanziale. In particolare si
tratta di capire in che cosa vada identificato il bene della vita alla cui realizzazione tende, seppur
con forme tipiche, anche l’interesse legittimo.

a) Il bene della vita non sembra identificabile con un interesse alla legittimità dell’azione
amministrativa. L’interesse legittimo è garantito giurisdizionalmente, in genere, attraverso la
contestazione della legittimità dell’azione amministrativa. Si pensi alla tutela giurisdizionale nei
confronti di un decreto di esproprio: nei confronti di esso, il proprietario espropriato non può
opporre una propria pretesa al godimento del bene e alla cessazione delle turbative da parte
dell’amministrazione, ma deve contestare le eventuali illegittimità che si siano verificate nel
procedimento amministrativo. Tuttavia, se la tutela giurisdizionale si realizza attraverso la
contestazione della illegittimità nell’azione amministrativa, non è detto che l’interesse garantito si
risolva in quello alla legittimità dell’azione stessa. È vero che la lesione di un interesse legittimo si
verifica ogni qual volta l’amministrazione eserciti il suo potere senza osservare le regole che lo
disciplinano; tuttavia la legittimità dell’azione amministrativa non è essa stessa un bene della vita,
né tanto meno può essere concepita come un bene della vita proprio di un soggetto determinato.
La legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita forse come l’oggetto di un interesse
generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata.
Se si vuole individuare l’oggetto di una posizione giuridica qualificata è necessario tenere in
considerazione l’interesse specifico del titolare di essa.
b) Per soddisfare questa esigenza viene prospettata spesso per figura dell’interesse legittimo una
dissociazione fra due ordini di interessi: sarebbero configurabili un interesse materiale, che è
proprio del titolare dell’interesse legittimo, ma che esorbita dalla rilevanza riconosciuta
dall’ordinamento all’interesse legittimo stesso, e un interesse diverso (l’interesse legittimo vero e
proprio), di cui il primo costituirebbe solo un presupposto di fatto o il substrato economico, e
che sarebbe, questo sì, passibile di tutela. Si pensi al caso di un concorso pubblico: il candidato
che partecipa al concorso è senz’altro titolare di un interesse legittimo rispetto agli atti del
concorso. Questo interesse, però, secondo la tesi in esame, non coinciderebbe con l’interesse
materiale del concorrente all’esito positivo del concorso e alla conseguente assunzione. Se il
concorrente non vince il concorso, ma non risulta compiuta dall’amministrazione alcuna
irregolarità, il suo interesse legittimo è ugualmente soddisfatto: non vi è stata, infatti, alcuna
lesione di esso, anche se l’interesse materiale certamente non si è realizzato. L’interesse
materiale costituirebbe perciò solo un presupposto di fatto, o il substrato economico
dell’interesse legittimo; quest’ultimo, a sua volta, caratterizzerebbe come posizione strumentale,
rispetto all’interesse materiale.
c) Secondo una diversa concezione l’interesse cd materiale non va considerato come un elemento
pregiuridico, estraneo all’interesse legittimo, ma costituisce la componente essenziale di
quest’ultimo, perché identifica proprio il bene della vita cui l’interesse legittimo è funzionale. Di
conseguenza il candidato che impugni l’esito negativo dal concorso fa valere il suo interesse
all’esito positivo del concorso, e non un interesse spurio, o secondario, né tanto meno un interesse
generale alla legittimità dell’operato dell’amministrazione. Va considerato piuttosto che le
modalità di tutela di un interesse sono determinate dalle caratteristiche proprie dell’interesse
stesso: perciò la realizzazione del bene della vita, nel caso dell’interesse legittimo, si attua in
relazione al potere amministrativo e nel rispetto delle regole che disciplinano lo svolgimento di
quest’ultimo. La legge, nel caso dell’interesse legittimo, non garantisce la realizzazione del bene
della vita per iniziativa autonoma del suo titolare, come invece vale, in genere, per il diritto
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soggettivo. La legge, nel caso dell’interesse legittimo, garantisce al bene della vita una tutela
modellata sul potere dell’amministrazione.

 Interessi legittimi e diritti soggettivi

Già nei primi anni successivi alla legge istitutiva della Quarta sezione (legge 5992/1889) furono
analizzati con attenzione alcuni procedimenti, come quello espropriativo, caratterizzati
dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto soggettivo (un diritto reale) del cittadino:
fu osservato in proposito che, per effetto del decreto di esproprio, il diritto soggettivo si
estingueva (perché il privato non era più proprietario), lasciando però posto a un interesse
legittimo (una volta emanato il decreto di esproprio, il privato lo poteva impugnare davanti al
giudice amministrativo). Lo stesso modello fu poi prospettato in modo simmetrico per i cd diritti
in attesa di espansione, consistenti nella trasformazione di un interesse legittimo in diritto
soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amministrativo con effetti costitutivi. La
degradazione in genere veniva ricondotta a un carattere del provvedimento amministrativo, la
autoritatività, che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi la sua
trasformazione in interesse legittimo. La teoria della degradazione veniva proposta anche per
spiegare come l’annullamento del provvedimento comportasse il ripristino del diritto soggettivo:
l’annullamento comportava l’eliminazione del provvedimento e, quindi, anche il venir meno della
degradazione del diritto. La teoria della degradazione non è però accettabile. Nel corso di una
procedura espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di un diritto reale fino al decreto
di esproprio: indubbiamente tale decreto determina l’acquisto del bene in capo al soggetto
espropriante e perciò l’estinzione del diritto di proprietà del cittadino. Nel corso del
procedimento espropriativo il proprietario è però titolare di un interesse legittimo,
conformemente ai principi generali, e senza necessità di immaginare alcuna degradazione:
l’amministrazione infatti, esercita nei suoi riguardi un potere in senso proprio. L’interesse
legittimo, inoltre, sorge con l’esercizio del potere, perciò già prima del decreto di esproprio. Nei
confronti della dichiarazione di pubblica utilità, che è un provvedimento preliminare rispetto al
decreto di esproprio, il proprietario può solo far valere un interesse legittimo (e può impugnare la
dichiarazione di pubblica utilità davanti al giudice amministrativo). In altre parole, né si verifica
una degradazione del diritto soggettivo in interesse legittimo, né tanto meno una tale
degradazione è determinata dal provvedimento amministrativo. Che non vi sia una
trasformazione del diritto soggettivo in interesse legittimo è dimostrato dal fatto che, nell’esempio
proposto da ultimo, coesistono insieme il diritto soggettivo e l’interesse legittimo: l’interesse
legittimo rispetto al potere espropriativo, il diritto soggettivo ad ogni altro effetto. Che poi la
configurabilità di un interesse legittimo non sia determinata dall’emanazione del provvedimento
amministrativo è dimostrato dal fatto che il proprietario rimane tale fino al decreto di esproprio,
ma già prima del decreto è titolare di un interesse legittimo in relazione al potere espropriativo
che viene esercitato dall’amministrazione.

 Interessi legittimi e risarcimento del danno

La responsabilità dell’amministrazione rappresenta un componente importante per la tutela del


cittadino. Nello stesso tempo, è stata considerata anche come un fattore di garanzia della legalità.
Il rapporto fra responsabilità e legalità è stretto, perché la prima sanziona la condotta che si
caratterizza innanzitutto per essere antigiuridica. Nel nostro Paese la disciplina della
responsabilità dell’amministrazione è ricondotta tipicamente al diritto civile; nei suoi sviluppi,
concernenti il risarcimento dei danni provocati dal provvedimenti (o dal silenzio)
dell’amministrazione, ha avuto notevole importanza per la figura dell’interesse legittimo. Nelle
concezioni che affermavano il carattere tipicamente processuale dell’interesse legittimo la tutela
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del cittadino si attuava nell’annullamento del provvedimento impugnato; era difficile, invece, in
quel contesto, ipotizzare una tutela risarcitoria, perché il diritto al risarcimento presuppone la
lesione di un interesse sostanziale. Tuttavia anche il riconoscimento del carattere sostanziale
dell’interesse legittimo non ha comportato sempre la conclusione che la lesione di un interesse
legittimo fosse risarcibile.

Fino agli ultimi anni del 900, le vertenze risarcitorie erano riservate al giudice civile e la
giurisprudenza civile ammetteva una responsabilità dell’amministrazione solo nel caso di
lesione di un diritto soggettivo: nella lettura dell’art. 2043 cc danno ingiusto, suscettibile di
risarcimento, era il danno arrecato a diritti soggettivi. Pertanto, se il danno era arrecato invece a
un interesse legittimo, era escluso un diritto al risarcimento. Nel caso in cui il provvedimento
illegittimo avesse inciso su un diritto soggettivo preesistente estinguendolo, l’annullamento del
provvedimento illegittimo avrebbe ripristinato in via retroattiva il diritto soggettivo: se
l’estinzione del diritto è un effetto del provvedimento, con l’annullamento del provvedimento
risorge anche il diritto soggettivo. A questa stregua, una volta annullato il provvedimento,
sarebbe risultato che l’amministrazione aveva ingiustamente conculcato il diritto soggettivo. La
lesione perciò sarebbe stata riferibile a un diritto e avrebbe potuto essere risarcita. Si pensi al
caso di un esproprio illegittimo: il cittadino, una volta ottenuto l’annullamento del provvedimento
espropriativo, risulta nuovamente titolare ex tunc del diritto di proprietà. Applicando questo
schema, il risarcimento del danno causato da provvedimenti amministrativi sarebbe stato
possibile solo se il cittadino fosse stato titolare di un diritto soggettivo qualificabile come tale
prima dell’esercizio di quel potere da parte dell’amministrazione; non sarebbe stato possibile,
invece, se la posizione del cittadino fosse stata solo un interesse legittimo. Tutti gli interessi che
non erano riconducibili a vicende di estinzione di diritti non potevano fruire di una tutela
risarcitoria. Inoltre, seguendo lo stesso schema, nei casi di estinzione di un preesistente diritto,
per il risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento del provvedimento lesivo.
Solo l’annullamento, infatti, poteva ripristinare il diritto soggettivo su cui aveva precedentemente
inciso il provvedimento. Una volta verificatesi tutte queste condizioni (l’annullamento del
provvedimento lesivo; la configurabilità di un pregiudizio a un diritto soggettivo), il diritto al
risarcimento non sarebbe stato subordinato a verifiche concernenti l’elemento soggettivo (la
colpa o il dolo) della condotta lesiva. All’obiezioni che in questo modo sarebbe stato ignorato un
elemento richiesto dall’art. 2043 cc per la responsabilità civile, la Cassazione replicava che, data
l’illegittimità del provvedimento (accertata nella pronuncia di annullamento), la colpa
dell’amministrazione sarebbe stata in re ipsa e, quindi, non avrebbe richiesto ulteriori
accertamenti. In questo modo la giurisprudenza non delineava solo una disciplina sostanziale del
risarcimento dei danni cagionati da provvedimenti amministrativi, ma ricavava anche una regola
pratica sul rapporto fra giurisdizioni. Se il risarcimento doveva essere preceduto
dall’annullamento del provvedimento lesivo, era necessario esperire l’azione di annullamento
davanti al giudice amministrativo prima dell’azione civile per i danni, che allora era riservata
al giudice ordinario: solo dopo l’annullamento del provvedimento si poteva ammettere il diritto al
risarcimento.

Il risarcimento del danno causato ad interessi legittimi era tendenzialmente escluso; in genere il
risarcimento era ammesso solo per la lesione di un diritto soggettivo. Questa posizione fu
abbandonata dalla Cassazione con la sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n. 500. Gli
argomenti invocati per il mutamento di indirizzo furono, innanzitutto, di ordine sostanziale e
riguardarono l’interpretazione complessivo della responsabilità aquiliana nell’art. 2043 cc. La
Cassazione affermò che l’art. 2043 cc non doveva considerarsi accessorio alla disciplina dei
diritti soggettivi e della loro tutela, ma aveva una sua propria portata, perché assicurava in via

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generale la ripartizione del danno ingiustamente subito da un soggetto a causa del
comportamento di un altro soggetto. La riparazione pertanto non riguardava solo i diritti
soggettivi e non era neppure circoscritta ad interessi tipizzati da disposizioni particolari: in via di
principio si estendeva a tutti gli interessi giuridicamente qualificati, comunque fossero definiti.
Dovevano essere esclusi così solo gli interessi di mero fatto. Nella sentenza la Cassazione
riconosceva espressamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo. Nello stesso tempo, però,
sottolineava la specificità dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo, sostenendo che per
il risarcimento non era sufficiente la lesione dell’interesse legittimo in quanto tale, ma che era
necessaria anche una lesione al bene della vita correlato all’interesse, bene della vita inteso dalle
Sezioni Unite sempre come utilità finale.

In concreto quando l’interesse legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il cittadino
intende conservare nei confronti dell’amministrazione che esercita il suo potere, il danno
risarcibile si indentifica col sacrificio della posizione di vantaggio (= bene della vita) ad opera del
provvedimento illegittimo. Gli interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di
altra posizione di vantaggio attuale sono designati INTERESSI OPPOSITIVI. Invece se
l’interesse legittimo inerisce alla pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento favorevole
che gli attribuisca un bene o una posizione di vantaggio (cd INTERESSE PRETENSIVO), un
danno risarcibile si configura concretamente solo se la pretesa del cittadino, sulla base di un
giudizio prognostico, sarebbe stata destinata, secondo un criterio di normalità, ad ottenere un
esito positivo. In definitiva, in questo caso, la lesione all’interesse legittimo determinata dal
diniego illegittimo del provvedimento richiesto dal cittadino non dà titolo al risarcimento del
danno, se la pretesa del cittadino ad ottenere un provvedimento favorevole non è fondata. Si noti
che viene meno anche la necessità di subordinare l’azione per danni al previo annullamento del
provvedimento amministrativo: secondo le Sezioni Unite, per il risarcimento dei danni era
indispensabile l’accertamento della illegittimità del provvedimento, non invece il suo
annullamento. Le Sezioni Unite precisarono che in questo caso si doveva applicare pienamente il
modello di responsabilità extracontrattuale previsto dall’art. 2043 cc. Sostennero, pertanto, che
per il risarcimento degli interessi legittimi era essenziale la dimostrazione della imputabilità
dell’illecito all’amministrazione a titolo di colpa o di dolo. A questo proposito le Sezioni Unite
affermarono che la colpa doveva identificarsi nel fatto che l’amministrazione avesse agito
violando regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione.

L’intervento delle Sezioni Unite fu accolto con favore dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Alla
pronuncia del 1999 face però seguito la legge 205/2000, che estese la giurisdizione amministrativa
alle vertenze risarcitorie: di conseguenza la giurisdizione per il risarcimento dei danni per lesione
ad interessi legittimi fu devoluta globalmente ai giudici amministrativi.

Nello stesso tempo, su alcuni profili nodali si avviò un vivace dibattito:

I. La giurisprudenza amministrativa si orientò nel senso che il risarcimento richiedesse il previo


annullamento dell’atto lesivo (cd tesi della pregiudizialità amministrativa). Questa soluzione fu
criticata dalla Cassazione, che, invece, aveva sostenuto la tesi della autonomia fra le due azioni. Il
contrasto è stato superato solo dall’art. 30 cpa, che, con una soluzione di compromesso, ha
riconosciuto l’autonomia fra le due azioni ma ha introdotto per l’azione risarcitoria un termine
breve di decadenza.
II. Un altro profilo controverso fu rappresentato dal peso assegnato dalla Cassazione alla lesione del
bene della vita, soprattutto con riferimento agli interessi pretensivi. Innanzitutto la stessa nozione
di risultato utile fu condizionata dalla circostanza che già da alcuni anni la giurisprudenza civile
ammetteva il risarcimento del danno per perdita di chance; la stessa soluzione fu subito accolta
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anche dalla giurisprudenza amministrativa. Quest’ultima ammette il risarcimento per perdita di
chance, purché venga dimostrata una congrua probabilità di un esito positivo. Resta il fatto che il
bene della vita suscettibile di risarcimento può consistere anche in una chance, ossia in una
probabilità di conseguire un risultato utile, e non soltanto nell’esito favorevole del procedimento.
III. Inoltre il cittadino, anche se non gli spetti un provvedimento positivo, può subire ugualmente un
danno se l’amministrazione risponde tardivamente alla sua richiesta: si tratta del cd danno da
ritardo. Esso assume rilievo pratico soprattutto quando il procedimento amministrativo comporti
un’immobilizzazione di risorse economiche che il cittadino avrebbe ragionevolmente potuto
destinare diversamente, se l’amministrazione gli avesse risposto con un provvedimento negativo.
In questo caso il danno è provocato non da un provvedimento illegittimo, ma dalla condotta
illegittima dell’amministrazione che non rispetta i termini per la conclusione del procedimento.
Una parte della giurisprudenza ha ammesso anche in queste ipotesi un risarcimento del danno,
riconoscendo che l’interesse legittimo può essere leso non solo da un provvedimento illegittimo,
ma anche da ogni altro svolgimento del potere amministrativo che non sia conforme alla legge.
Questa soluzione fu criticata in un primo tempo dal Consiglio di Stato: sostenne che se non fosse
spettato al cittadino un provvedimento favorevole non sarebbe stata neppure configurabile una
lesione a un suo bene della vita e senza una lesione al bene della vita non vi sarebbe spazio per un
risarcimento. Successivamente, lo stesso legislatore riconosceva espressamente il diritto al
risarcimento del danno provocato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione
del procedimento, senza subordinarlo alla spettanza di un esito favorevole del procedimento (art.
2-bis legge 241/1990).
IV. anche la rilevanza riconosciuta dalle Sezioni Unite del 1999 all’elemento soggettivo è stato
oggetto di riflessioni critiche. La giurisprudenza amministrativa sostenne che l’illegittimità del
provvedimento giustificava una sorta di presunzione di colpevolezza dell’amministrazione.
L’amministrazione avrebbe potuto superare questa presunzione solo dimostrando di essere
incorsa in un errore scusabile. Questa soluzione si scontrò però con l’indirizzo della Corte di
giustizia UE: essa negava che l’elemento soggettivo potesse condizionare il diritto al risarcimento
dei danni. La giurisprudenza amministrativa ha cercato di assorbire questa divergenza,
sostenendo che la responsabilità dell’amministrazione, nel caso particolare di violazione alla
disciplina sugli appalti, avrebbe carattere oggettivo in forza del diritto comunitario, mentre in
ogni altro caso l’elemento soggettivo rimarrebbe rilevante, nei termini dell’errore scusabile.

 Interessi legittimi e interessi semplici

Dal novero delle posizioni soggettive istituzionalmente garantite nel nostro ordinamento
rimangono estranei i cd INTERESSI SEMPLICI. Essi corrispondono agli interessi che non
assurgono né al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi. Sono interessi
semplici, per esempio, gli interessi dei cittadini che non risultino differenziati: fra essi la
giurisprudenza include, in genere, gli interessi dei cittadini rispetto alle modalità di un servizio
pubblico reso alla collettivi. Interessi del genere possono avere anche una consistenza rilevante
dal punto di vista economico e, soprattutto, dal punto di vista sociale; eppure la loro distinzione
dagli interessi legittimi comporta l’esclusione di una loro tutela giurisdizionale. La tutela degli
interessi semplici è prevista solo in casi eccezionali, da disposizioni che hanno una portata
tassativa. La gravità di questa conseguenza ha suscitato un ampio dibattito, che ha coinvolto sia
la dottrina che la giurisprudenza.

La discussione ha riguardato in primo luogo gli INTERESSI COLLETTIVI O DI


CATEGORIA: sono gli interessi tipici dei soggetti appartenenti a una categoria lavorativa,
professionale, di utenti ecc. Nei confronti degli atti amministrativi che riguardino specificamente

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la categoria, può configurarsi in capo a ciascun appartenente un interesse qualificato. In questo
ambito, però, operano anche organismi privati o talvolta pubblici che sono rappresentativi o
esponenziali della categoria. Considerare l’interesse di categoria come un interesse legittimo
dell’organismo rappresentativo sembrava incompatibile con il carattere soggettivo (o personale)
dell’interesse legittimo: l’organismo rappresentativo farebbe valere infatti un interesse che non
sarebbe direttamente proprio, ma che piuttosto sarebbe specifico dei suoi associati e solo di
riflesso coinvolgerebbe l’organismo stesso. La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto in
capo a questi organismi la titolarità dell’interesse di categoria e la capacità di farlo valere come un
proprio interesse legittimo. E il riconoscimento della legittimazione della associazioni ha
comportato una tutela più assidua degli interessi collettivi.

La discussione più vivace ha riguardato, però, gli INTERESSI DIFFUSI, che corrispondono
all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni, e per i quali la giurisprudenza negli anni 70
aveva escluso ogni tutela, argomentando proprio sulla loro distinzione dagli interessi legittimi. In
seguito al dibattito, il legislatore interveniva con alcune disposizioni speciali che ammettevano la
tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però non al singolo cittadino interessato,
bensì a particolari associazioni: ciò è avvenuto per la tutela degli interessi ambientali. In questi
casi l’intervento legislativo non ha reso l’associazione titolare di un interesse legittimo, ma ha
operato solo sul piano processuale, attribuendo all’associazione una particolare legittimazione,
che le consente di far valere anche interessi ulteriori rispetto ai propri interessi legittimi.
Una soluzione analoga dovrebbe valere anche per ogni ordine di associazione costituita a tutela
di un interesse diffuso, alla luce di quanto ha previsto l’art. 9 legge 241/1990, che garantisce la
partecipazione nel procedimento amministrativo alle associazioni e ai comitati costituiti a tutela
di interessi diffusi. È stato sostenuto che l’associazione che abbia partecipato al procedimento
amministrativo dovrebbe anche essere legittimata a promuovere il successivo giudizio
amministrativo, nel caso in cui il procedimento si sia risolta sfavorevolmente. Questa conclusione,
però, è stata vivacemente criticata, dato che l’art. 9 ha considerato solo il procedimento
amministrativo e non ha inciso sul principio generale in base al quale il ricorso al giudice
amministrativo è ammesso solo per far valere un interesse legittimo. Si tenga presente infine che,
nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche da disposizioni
costituzionali, con riferimento a vizi di legittimità; invece solo raramente è ammessa con
riferimento ai vizi di merito. Anzi, in genere la nozione stessa di interesse legittimo viene
ricondotta alla legittimità dell’azione amministrativa, anche se in alcune ipotesi è contemplata una
tutela degli interessi legittimi anche nei confronti dei vizi di merito.

CAPITOLO QUINTO – I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA


GIURISDIZIONALE DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

 I principi dei Trattati UE e della CEDU

L’art. 1 cpa afferma che la giurisdizione amministrativa deve attuare una tutela piena ed effettiva
secondo i principi della Costituzione. Lo stesso articolo richiama inoltre, agli stessi fini, i principi
del diritto europeo. Con questa espressione sono designati sia il diritto dell’UE, che il sistema
fondato sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Il riferimento al diritto
dell’Unione europea concerne, innanzitutto, i Trattati europei. Il Trattato sull’Unione europea
(TUE), a sua volta, richiama all’art. 6 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
adottata il 12 novembre 2007. La Carta afferma alcuni principi importanti sul rapporto fra il
cittadino e l’amministrazione comunitaria e sulla tutela giurisdizionale dei diritti e delle libertà
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garantiti dall’Unione. In particolare, stabilisce (art. 47 CEDU) che ogni persona ha diritto a
che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da
un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE) e vari altri atti comunitari delineano un sistema di garanzie nei
confronti degli atti dell’Unione, con riflessi importanti anche per la tutela dei cittadini. Le
direttive europee che hanno riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni in materia di
appalti pubblici (direttive del Consiglio n. 89/665/CE e n. 92/13/CE) per prime hanno aperto nel
nostro ordinamento una breccia nell’indirizzo tradizionale che escludeva la risarcibilità delle
lesioni di interessi legittimi. Con riferimento ai singoli istituti processuali, va segnalata l’ampia
giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure cautelari nei confronti degli atti
amministrativi, che ha avuto riflessi sulla disciplina italiana. Tuttavia, fino ad oggi, anche gli
interventi della Corte di giustizia non sembrano indirizzati a definire in modo organico un diritto
del cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione. La preoccupazione
principale della Corte pare soprattutto un’altra: è quella di assicurare che le modalità di tutela
giurisdizionale negli ordinamenti nazionali siano adeguate all’esigenza di salvaguardare gli
interessi e il diritto dell’UE. Il diritto europeo richiamato dall’art. 1 cpa è rappresentato anche
dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(cd Convenzione europea dei diritti dell’uomo CEDU). La Convenzione fu ratificata dall’Italia
nel 1955. La Corte costituzionale ha affermato che la sua violazione può essere motivo di
illegittimità costituzionale. Alla Convenzione non è riconosciuto valore costituzionale, ma la sua
violazione configurerebbe anche una violazione dell’art. 117 Cost, che impone sia al legislatore
nazionale che a quello regionale di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. La
Corte costituzionale ha anche precisato che nell’interpretare la Convenzione il giudice nazionale
deve attenersi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ai nostri fini
interessa soprattutto l’art. 6 CEDU, che riconosce il diritto di ogni persona ad un processo equo:
ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un
tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale, costituito dalla legge.
Questi canoni furono recepiti nel 1999 nel nuovo testo dell’art. 111, commi 1 e 2 Cost, cd giusto
processo. L’art. 6 CEDU riguarda, oltre ai processi penali, le controversie relative ai diritti e
doveri di carattere civile. La Corte europea, però, ha riconosciuto questo carattere anche a molte
controversie con l’amministrazione ed ha chiarito che in tali casi la tutela dei diritti si estende
anche agli interessi legittimi.

 I principi costituzionali in generale

Per valutare, rispetto al nostro ordinamento, i caratteri fondamentali della tutela giurisdizionale
nei confronti dell’amministrazione, è comunque essenziale riferirsi alla Costituzione. Anche i
primi articoli del codice del processo amministrativo, nell’enunciare i “principi generali” della
giurisdizione amministrativa, richiamano particolarmente una serie di principi costituzionali,
ribadendone così la rilevanza anche come criterio per l’interpretazione e l’applicazione del codice.

In particolare sono richiamati:

- la pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 cpa / art 24 Cost)


- I principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’art.
111, comma 1 Cost
- La ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2 cpa / art. 111, comma 2 Cost)
- La motivazione di ogni provvedimento decisorio (art. 3, comma 1 cpa / art. 111, comma 6 Cost)

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La Costituzione repubblicana indirizza verso un’amministrazione ispirata ai principi democratici
e caratterizzata perciò dal superamento della tradizionale contrapposizione ed estraneità del
cittadino rispetto all’amministrazione.

Le principali disposizioni costituzionali che attengono alla tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione possono essere articolate in:

- Disposizioni sul giudice, e in particolare sui giudici speciali (artt. 102, 108 e 111, comma 2 Cost)
- Disposizioni sull’azione (artt. 24 e 113 Cost)
- Disposizioni sull’assetto della giurisdizione amministrativa (artt. 125, 100, commi 1 e 3, 103,
comma 1 e 111, comma 8).

Alcuni dei principi sul giudice, come l’imparzialità, e sull’azione, come la garanzia del
contraddittorio e la parità delle parti in giudizio, confluiscono anche nel principio del giusto
processo, introdotto dall’art. 111 Cost, ed oggi richiamato espressamente dall’art. 2 cpa. Il
principio del giusto processo richiede di essere attuato, innanzitutto, nella disciplina legislativa
del processo e perciò richiede che il processo sia regolato dalla legge. Inoltre, nel principio del
giusto processo confluiscono alcune condizioni fondamentali per l’esercizio della funzione
giurisdizionale: l’art. 111, comma 2 esige la terzietà e l’imparzialità del giudice, garantisce il
contraddittorio fra le parti precisando anche che esse devono essere istituzionalmente in
condizioni di parità, e infine richiede che la legge assicuri la ragionevole durata del giudizio.
Vanno considerate anche altre disposizioni di rilievo per l’attività giurisdizionale in generale. È il
caso, in particolare, dell’art. 111, comma 6 Cost sulla necessità che i provvedimenti giurisdizionali
siano motivati: il principio è richiamato anche dall’art. 3 cpa, con la precisione che l’obbligo di
motivazione vale per ogni provvedimento decisorio. Ancora più in generale, vanno considerati,
anche rispetto alla disciplina della giustizia amministrativa, il principio di eguaglianza e il
principio di ragionevolezza, sanciti nell’art. 3 Cost, o la garanzia della tutela giurisdizionale per i
non abbienti.

 I principi sul giudice

La Costituzione considera come valori essenziali l’indipendenza, l’imparzialità e la terzietà del


giudice. L’imparzialità e la terzietà del giudice sono considerate dall’art. 111, comma 2 Cost e
ineriscono direttamente all’esercizio della giurisdizione, come componenti del giusto processo. Il
giudice deve decidere senza essere condizionato dalle parti (imparzialità) e in una situazione di
indifferenza e di equidistanza rispetto agli interessi di cui esse siano portatrici (terzietà). Le parti
rispetto al giudice devono essere in assoluta parità. L’imparzialità e la terzietà vanno assicurate
innanzitutto rispetto all’organo giurisdizionale nella sua interezza: esso deve essere posto
istituzionalmente nelle condizioni di giudicare senza subire condizionamenti di sorta delle parti in
causa. Vanno assicurate, inoltre, rispetto ad ogni singolo componente dell’organo giurisdizionale,
che deve essere del tutto indifferente sul piano personale rispetto alla vertenza su cui è tenuto a
pronunciarsi. L’indipendenza del giudice, invece, inerisce alla relazione dell’organo
giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero influire sulle sue
decisioni: si tratta del Governo e del potere politico in generale. L’indipendenza del giudice non è
una caratteristica solo del giudice ordinario, ma è essenziale per l’esercizio di ogni funzione
giurisdizionale e vale pertanto anche per il giudice amministrativo e per gli altri giudice speciali.
Il principio costituzionale dell’indipendenza del giudice ha avuto un ruolo fondamentale
nell’assetto della giustizia amministrativa, determinando la soppressione di quasi tutte le
giurisdizioni amministrative speciali, diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti: Corte
cost. 22 marzo 1967, n. 30 dichiarò l’illegittimità costituzionale delle disposizioni sulla

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composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale; Corte cost. 27
maggio 1968, n. 49 dichiarò l’illegittimità costituzionale delle disposizioni sulla composizione delle
Sezioni per il contenzioso elettorale; Corte cost. 22 gennaio 1976, n. 25 dichiarò l’incompatibilità
con riferimento alle disposizioni sulla composizione del Consiglio di giustizia amministrativa per
la Regione siciliana. I giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore della
magistratura, che è organo di autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il Consiglio di
Stato è istituito un apposito organo di autogoverno dei giudici amministrativi, il Consiglio di
presidenza della giustizia amministrativa, le cui competenze sono state definite dalla legge
186/1982.

 I principi sull’azione: l’art. 24, commi 1 e 2 e l’art. 111, comma 2 Cost

L’art. 24, comma 1 Cost garantisce il diritto d’azione, sia con riferimento alla tutela di diritti
soggettivi, che con riferimento alla tutela di interessi legittimi (tutti possono agire in giudizio per
la tutela di propri diritti soggettivi e interessi legittimi). La norma costituzionale ha posto una
serie di vincoli e di problemi. In particolare: è di rango costituzionale il principio secondo cui la
tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione è articolata in tutela dei diritti soggettivi
e in tutela degli interessi legittimi. Questa articolazione impone una necessaria coordinazione fra
i due ordini di tutele, nel senso per lo meno che la loro sommatoria deve essere in grado di
assicurare la tutela di tutte le situazioni giuridiche soggettive.

La collocazione, sullo stesso piano, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere
la convinzione che la Costituzione sancisse una certa interpretazione dell’interesse legittimo, da
intendersi come posizione qualificata di carattere sostanziale, proprio perché anche il diritto
soggettivo è tipicamente posizione di carattere sostanziale. Di conseguenza, per effetto
dell’interpretazione accolta dalla norma costituzionale, l’interesse legittimo assurgerebbe al rango
di interesse individuale del cittadino che lo fa valere, e non potrebbe più essere considerato solo
come una posizione processuale, o come un mero riflesso di un interesse pubblico al corretto
esercizio del potere da parte dell’amministrazione. L’Assemblea costituente intendeva solo
assicurare che la garanzia costituzionale del diritto d’azione non venisse circoscritta ai diritti
soggettivi, e comprendesse a pieno titolo anche gli interessi legittimi. La norma afferma il
principio della pienezza della tutela. Appare marginale la questione della natura (sostanziale,
anziché processuale) dell’interesse legittimo. All’art. 24 Cost è ricondotto il criterio della
effettività della tutela giurisdizionale, in base al quale ogni situazione giuridica riconosciuta
sul piano sostanziale deve godere di tutela sul piano processuale. L’art. 24 Cost è stato la
ragione per alcuni interventi significativi della Corte costituzionale su singoli istituti della
giustizia amministrativa.

Temi generali degli interventi:

a) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale rispetto alla TUTELA
CAUTELARE. La garanzia del diritto d’azione comporta anche la necessità che sia assicurata la
possibilità di esercitare tale diritto in tutte le modalità che sono ad esso connaturate
istituzionalmente. In particolare comporta non solo la possibilità di una tutela nei confronti
dell’amministrazione attraverso l’impugnazione di provvedimenti in vista del loro annullamento,
ma anche la possibilità di chiedere al giudice amministrativo misure cautelari, per evitare che la
durata del giudizio produca un danno irreparabile all’interesse del ricorrente. Il ricorso al
giudice amministrativo, di regola, non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato: solo
con istanza della parte, per evitare un pregiudizio grave e irreparabile, è possibile ottenere la
sospensione del provvedimento stesso.

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b) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale nel giudizio in materia di
PUBBLICO IMPIEGO. In questa materia la Corte costituzionale ha dato rilievo all’esigenza di
assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a quella ammessa, in situazioni
analoghe, ai dipendenti con rapporto di lavoro privato. La Corte costituzionale, nelle varie
pronunce, aveva dato rilievo, oltre all’art. 24, commi 1 e 2 Cost, anche all’art. 3 Cost, in
riferimento al principio di eguaglianza fra impiegati pubblici e lavoratori privati, e al principio di
ragionevolezza.
c) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e limiti alla cd
GIURISDIZIONE CONDIZIONATA. Per giurisdizione condizionata si intende l’accesso alla
tutela giurisdizionale che risulti subordinato al previo esperimento di un ricorso in via
amministrativa. In questi casi, poiché l’azione giurisdizionale è ammessa solo dopo la
presentazione del ricorso amministrativo, non è possibile adire immediatamente il giudice. La
questione della ammissibilità della giurisdizione condizionata ha pertanto due risvolti: il primo
attiene alla subordinazione dell’azione giurisdizionale a un adempimento estraneo al processo,
come è il ricorso amministrativo, e il secondo attiene alla esclusione della immediatezza della
tutela giurisdizionale. La prima giurisprudenza della Corte costituzionale affermò che l’art. 24
Cost non avrebbe contemplato, fra i contenuti del diritto d’azione, anche il diritto
all’immediatezza dell’azione: la garanzia costituzionale avrebbe riguardato la indefettibilità
dell’azione giurisdizionale, e non la sua immediatezza. La Corte sembrava portata a giustificare la
previsione della necessità del ricorso amministrativo, sulla base dell’argomento che il ricorso in
via amministrativa avrebbe assicurato interessi dell’amministrazione meritevoli di tutela. La
prima giurisprudenza della Corte si riferiva particolarmente ad ipotesi in cui il ricorso al giudice
civile era subordinato alla previa presentazione di un ricorso amministrativo. Si deve però
considerare anche che, fino al 1971, valeva in generale la regola, affermata anche dalla legge del
1889 di istituzione della Quarta sezione, secondo cui la possibilità di ricorrere al giudice
amministrativo era garantita solo nei confronti dei provvedimenti definitivi dell’amministrazione:
pertanto, nei confronti di provvedimenti per i quali fossero già stati esperiti tutti i ricorsi
amministrativi ordinati ammessi dalla legge. La giurisdizione condizionata rappresentava un
carattere generale nel processo amministrativo. A partire dalla fine degli anni 80 del 900 è
maturato un diverso indirizzo della Corte costituzionale. In alcune pronunce sulla giurisdizione
condizionata la Corte sembra considerarla incompatibile con l’art. 24 Cost. Invece non è stata
ritenuta illegittima la giurisdizione condizionata nell’ordinamento militare, in considerazione dei
particolari interessi coinvolti. Infine la Corte non ha ritenuto illegittime le disposizioni che
richiedono l’esperimento di forme di tutela non giurisdizionali a pena di mera improcedibilità
dell’azione giurisdizionale. Nei casi in cui sia prescritta la presentazione di un ricorso
amministrativo come condizione di mera procedibilità e non di ammissibilità dell’azione
giurisdizionale, se l’azione giurisdizionale sia stata proposta senza aver prima esperito il ricorso
amministrativo, il giudice non può decidere subito la controversia respingendo senz’altro la
domanda perché non era stata preceduta dal ricorso amministrativo, ma deve sospendere il
giudizio ed assegnare all’attore un termine per dar corso all’adempimento omesso. La parte,
nel termine assegnatole, può proporre il ricorso amministrativo e, una volta conclusa questa fase,
il giudizio può riprendere. L’inosservanza dell’onere di proporre il ricorso amministrativo prima
della domanda giudiziale non comporta pertanto la perdita del diritto d’azione. Rimane fermo,
però, che la necessità del ricorso amministrativo esclude, in questi casi, l’immediatezza della
tutela giurisdizionale. Dai principi costituzionali emerge che nel nostro ordinamento la possibilità
di un accesso immediato al giudice sia principio generale, ma non assoluto; deroghe a questo
principio sono possibili, purché rispondano a condizioni precise. Non possono essere
discriminatorie e devono rispettare un criterio di ragionevolezza. Non possono compromettere in
modo grave la tutela del cittadino: pertanto, in casi d’urgenza, va sempre garantita la possibilità
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di richiedere subito al giudice una misura cautelare. Il rimedio amministrativo o il tentativo di
conciliazione richiesto dalla legge dovrebbe condizionare l’esercizio del diritto d’azione
giurisdizionale soltanto nei termini di mera procedibilità.
d) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e subordinazione della
tutela giurisdizionale dei DIRITTI SOGGETTIVI al previo espletamento di un
procedimento amministrativo. In passato la legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità
prevedeva che la pretesa del cittadino all’indennità potesse essere fatta valere il giudizio solo
dopo la determinazione dell’indennità in amministrativa. Di conseguenza, fino al momento in cui
l’amministrazione non avesse emanato il provvedimento di determinazione dell’indennità, il
proprietario espropriato, pur essendo titolare di un diritto soggettivo all’indennità stessa, non
avrebbe potuto farlo valere in giudizio. La Corte costituzionale affermò che queste disposizioni
erano incompatibili con l’art. 24, comma 1 Cost, sostenendo che, altrimenti, sarebbe stata rimessa
all’arbitrio della Pubblica amministrazione l’esperibilità della tutela giurisdizionale.
e) Illegittimità dell’ARBITRATO OBBLIGATORIO. La possibilità per le parti di convenire che
una vertenza sia decisa da arbitri, anziché dal giudice, è ammessa pacificamente nel nostro
ordinamento per quanto concerne le vertenze in tema di diritti soggettivi. Il cpc non pone
limitazioni particolari rispetto alle controversie con una Pubblica amministrazione. In passato la
Corte di cassazione escludeva che le parti potessero rimettere ad arbitrato le vertenze devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, perché considerava l’arbitrato come
alternativo al giudizio civile. Tuttavia, a far tempo dalla legge 205/2000, è stato previsto che anche
le controversie su diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva potessero essere definite
con arbitrato. Il cpc prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia richieda un
accordo fra le parti, di natura contrattuale. Alcune leggi speciali, tuttavia, avevano previsto
talvolta forma di arbitrato obbligatorio, nel senso che al privato era precluso il ricorso al giudice
nei confronti dell’amministrazione ed era ammessa la tutela solo davanti a un collegio arbitrale,
pur in assenza di compromesso o di clausola compromissoria. La Corte costituzionale ha ritenuto
illegittime queste disposizioni, rilevando che l’esclusione della competenza del giudice può
trovare fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti: la previsione di un arbitro
obbligatorio risulta in contrasto con l’art. 24 Cost, che garantisce l’accesso alla tutela
giurisdizionale. La Corte ha anche dichiarato che non è illegittima la legge che devolva ad arbitri
le vertenze in una certa materia, se però consente che ciascuna parte, con atto unilaterale, possa
declinare la competenza arbitrale a favore della competenza del giudice civile. In passato le
previsioni di arbitrati obbligatori avevano riguardato soprattutto i contratti pubblici. Attualmente
la devoluzione della controversia ad arbitri è rimessa sempre ad una scelta dell’amministrazione,
che deve essere dichiarata all’inizio della procedura di evidenza pubblica; all’aggiudicatario,
inoltre, è riconosciuta la facoltà, da esercitarsi entro un termine perentorio, di escludere
l’arbitrato.

L’art. 111, comma 2 Cost stabilisce che il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti.
Il principio del contraddittorio si esprime in primo luogo nella regola secondo cui il giudice non
può statuire sulla domanda se le parti nei cui confronti sia stata proposta non siano state
regolarmente evocate in giudizio. Questa regola, espressa storicamente nell’art. 101 cpc, è
riaffermata rispetto al processo amministrativo dagli artt. 2 e 27 cpa. La garanzia del
contraddittorio è completata, nell’art. 111, comma 2 Cost, dal principio della parità processuale
delle parti: anch’esso è richiamato dall’art. 2, comma 1 cpa. Il principio costituzionale della parità
delle parti comporta che ogni parte deve disporre degli stessi strumenti di tutela (parità delle
armi).

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In questa prospettiva il principio del contraddittorio integra innanzitutto il diritto alla difesa.
Esso non vale soltanto per il processo di cognizione, ma si applica ad ogni ordine del processo
amministrativo. Si estende pertanto anche al giudizio di esecuzione, che è rappresentato nel
processo amministrativo dal giudizio di ottemperanza. Il principio del contraddittorio esige che
ogni parte sia posta nelle condizioni di interloquire su ogni questione rilevante per la decisione
della vertenza. In questo modo rappresenta una garanzia essenziale. L’art. 73, comma 3 cpa
esclude che il giudice possa decidere in base a questioni rilevate d’ufficio che non siano state
preventivamente sottoposte alle parti.

La giurisprudenza amministrativa spesso ha invocato il principio del contraddittorio anche a


favore del ricorrente, come elemento del diritto d’azione, per sostenere, per esempio, che il
cittadino deve essere posto nelle condizioni di conoscere con pienezza l’attività amministrativa
che intende contestare in giudizio. Nel principio del contraddittorio troverebbero, così, una
maggiore garanzia istituti che precedono la stessa instaurazione del giudizio, come l’accesso agli
atti amministrativi, o che consentono di integrarne l’oggetto, come i motivi aggiunti. Nel processo
amministrativo il principio del contraddittorio, nella sua portata generale, è parso talvolta in
conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio, soprattutto nelle vertenze rispetto alle
quali la durata del processo può compromettere interessi pubblici molto importanti, anche di
ordine finanziario. La celerità della decisione assume un rilievo anche costituzionale, come
componente essenziale del principio della ragionevole durata sancito dall’art. 111 Cost. La
mancanza di risorse economiche adeguate ha indirizzato il legislatore a perseguire il canone della
ragionevole durata essenzialmente attraverso misure di mera accelerazione del processo. Il
legislatore ha previsto in alcune materie riti speciali accelerati e ha ammesso la possibilità di
anticipare la decisione del ricorso già nella fase cautelare. In particolare, se sia stata proposta
un’istanza cautelare, la decisione potrebbe intervenire prima che le parti abbiano potuto svolgere
attività essenziali per una difesa, come la presentazione del ricorso incidentale da parte del
controinteressato e la presentazione dei motivi aggiunti da parte del ricorrente. La Corte nel 1999
non ritenne che queste previsioni fossero illegittime: affermò infatti che la legge può ammettere
una decisione del giudice prima della decorrenza di tutti i termini fissati per l’esercizio delle
attività di difesa. Sostenne però che il giudice non può adottare una decisione accelerata se le
parti abbiano richiesto di svolgere ulteriori attività processuali che risultino obiettivamente
rilevanti per il giudizio: in presenza di una richiesta del genere, il giudice è tenuto a rinviare la
decisione. La celerità nella definizione del giudizio non può sacrificare i contenuti fondamentali
della tutela giurisdizionale. In coerenza con queste considerazioni, l’art. 60 cpa stabilisce che il
collegio, se ritenga di pronunciarsi sul merito del ricorso già nella fase cautelare del giudizio, 43
deve sentire sul punto le parti costituite e, se una di esse dichiari di voler presentare ricorso
incidentale, motivi aggiunti o regolamenti di competenza o di giurisdizione, deve rinviare la
decisione e assegnare un termine per consentire alla parte di presentarlo.

 I principi sull’azione: l’art. 113 Cost

L’art. 113 Cost detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione. Queste regole sono espressione del principio secondo cui la circostanza che
un’amministrazione sia parte in causa, o che il giudizio verta su di un atto amministrativo non
può in alcun modo giustificare limitazioni alla tutela giurisdizionale del cittadino. L’art. 113,
comma 1 Cost definisce il rapporto fra la garanzia della tutela giurisdizionale e la posizione
dell’amministrazione. La tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica amministrazione è
sempre ammessa. La norma costituzionale precisa che la garanzia della tutela giurisdizionale
contro gli atti dell’amministrazione vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. Le
logiche interne ai diversi modelli di giurisdizione devono cedere rispetto all’esigenza di garantire
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una tutela completa dei diritti e degli interessi legittimi. L’art. 113, comma 2 Cost impedisce di
circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti
amministrativi impugnati o alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. La norma ha determinato
l’abrogazione delle disposizioni precedenti che limitavano il ricorso al giudice amministrativo solo
ad alcuni dei vizi di legittimità. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di legittimità: rimangono
escluse da ogni specifica protezione costituzionale le possibilità di sindacato per vizi di
merito. L’art. 7, comma 1 cpa esclude comunque la possibilità di impugnazione degli atti
politici. Viene ritenuto atto politico solo l’atto che sia esercizio di un potere politico. Un atto del
genere è riservato ad autorità cui competa al massimo livello la funzione di indirizzo politico e di
direzione della cosa pubblica. L’esclusione dell’impugnazione dell’atto politico non introduce una
deroga al principio sancito dall’art. 113, comma 2 Cost, ma sancisce l’estraneità dell’atto politico
rispetto all’ambito degli atti amministrativi. L’art. 113, comma 3 Cost rinvia alla legge per
l’individuazione dei giudici competenti ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed
effetti. La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore del
giudice amministrativo del potere di annullamento degli atti amministrativi: non è stato
costituzionalizzato il principio affermato dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo (legge 2248/1865, allegato E) sulla preclusione per il giudice ordinario di
pronunce di annullamento. Di conseguenza non possono essere ritenute illegittime le disposizioni
di legge ordinaria che conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare provvedimenti
amministrativi. Inoltre, la norma costituzionale esclude indirettamente che il potere di
annullamento degli atti amministrativi rappresenti un corollario necessario per qualsiasi potestà
giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione. Il coordinamento con il principio affermato
nell’art. 113, comma 1 va ricercato nei termini che al giudice è sempre garantito il potere di
sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non è sempre garantito tale sindacato si
debba risolvere necessariamente in un potere di annullamento. In questo contesto viene
considerato talvolta anche l’art. 21 octies legge 241/1990: esso stabilisce che la violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti non ne comporta l’annullabilità, se per la natura
vincolata del provvedimento sia palese che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso;
stabilisce inoltre che il provvedimento amministrativo non è annullabile per violazione delle
norme sulla comunicazione dell’avvio del procedimento, se l’amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso. Secondo alcuni, nei casi
previsti dall’art. 21 octies, non sarebbe ammessa una tutela impugnatoria, ma rimarrebbe ferma la
tutela risarcitoria, in presenza di un danno patrimoniale. Secondo un orientamento più ampio,
invece, il legislatore sarebbe intervenuto ridefinendo i vizi dell’atto amministrativo e tracciando
una nuova linea di confine fra la semplice irregolarità e l’illegittimità amministrativa. Nei casi
considerati dall’art. 21 octies l’illegittimità si configurerebbe solo quando il provvedimento abbia
un contenuto ingiustamente lesivo, ossia quando produca nei confronti del destinatario un effetto
diverso da quello prescritto nella stessa situazione dalla legge.

 I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa

La Costituzione ha sancito la regola del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice
amministrativo. Infatti, dopo aver richiamato il ruolo del Consiglio di Stato come organo di tutela
della giustizia nell’amministrazione, ha affermato il ruolo del Consiglio di Stato e degli altri
organi di giustizia amministrativa come giudici per la tutela nei confronti della Pubblica
amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei
diritti soggettivi. La giurisdizione a tutela dell’interesse legittimo ha carattere generale, mentre la
giurisdizione esclusiva è tassativa. Resta il fatto, però, che al Consiglio di Stato e ai Tribunali
amministrativi regionali è riconosciuto il ruolo di giudici naturali degli interessi legittimi;

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addirittura è dato un fondamento costituzionale alla loro giurisdizione esclusiva, mentre manca
qualsiasi disposizione simmetrica per i giudici ordinari. Trattandosi di una giurisdizione speciale,
era necessario indicare nella Costituzione quale fosse il suo ruolo rispetto alla giurisdizione
ordinario. Questa esigenza fu soddisfatta dall’art. 103, comma 1 Cost, che sancisce la distinzione
fra giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa ed individua come criterio principale di
riparto la distinzione fra tutela dei diritti e tutela degli interessi legittimi. Lo stesso art. 103,
comma 1 Cost riconosce espressamente la possibilità che la giurisdizione amministrativa sia
estesa anche a vertenze con l’amministrazione in tema di diritti soggettivi: è la cd giurisdizione
esclusiva. La norma costituzione la ammette in particolari materie indicate dalla legge. Corte cost.
6 luglio 2004, n. 204 ha ribadito che la tutela dei diritti soggettivi, anche nelle vertenze con
l’amministrazione, spetta normalmente al giudice ordinario: al giudice amministrativo è
demandato un ruolo diverso, che la Corte ha identificato tipicamente con la tutela nei confronti
del potere amministrativo. Di conseguenza ai sensi dell’art. 103 Cost la giurisdizione
amministrativa su diritti non può essere definita dal legislatore sulla base di criteri meramente
discrezionali. In conclusione, secondo la Corte, l’assegnazione di una vertenza alla giurisdizione
esclusiva non può trovare fondamento nella mera partecipazione della Pubblica amministrazione
al giudizio, né in un generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia, ma deve
trovare fondamento nel collegamento fra la materia cui inerisce la vertenza e una posizione di
potere dell’amministrazione. Tuttavia Corte cost. 11 maggio 2006, 45 191 sostenne che, per la
legittimità di una previsione di giurisdizione esclusiva, la riconducibilità della condotta
dell’amministrazione a un potere amministrativo poteva essere anche solo mediata, ossia indiretta.
La complessità del riparto di giurisdizione rende concreto il rischio che il cittadino promuova
l’azione contro l’amministrazione davanti a un giudice privo di giurisdizione per quella
controversia. In passato l’errore nella individuazione del giudice dotato di giurisdizione
comportava spesso conseguenze irreparabili: una volta che il giudice adito avesse dichiarato il
proprio difetto di giurisdizione, la parte avrebbe potuto riproporre la domanda davanti al giudice
dotato di giurisdizione, ma, se nel frattempo fosse maturato un termine di decadenza, la domanda
sarebbe stata dichiarata tardiva e inammissibile dal nuovo giudice. Ciò si verificava soprattutto se
la parte per errore aveva proposto la domanda al giudice ordinario, anziché al giudice
amministrativo: infatti il ricorso al giudice amministrativo, quando sia impugnato un
provvedimento, è soggetto a un termine di decadenza di 60 giorni e in genere la sentenza del
giudice ordinario declinatoria della giurisdizione poteva intervenire solo quando questo termine
era già scaduto. Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77 dichiarò illegittimo l’art. 30 legge Tar, perché
non prevedeva che gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice
privo di giurisdizione si conservassero dopo la declinatoria della giurisdizione, se la
domanda fosse stata riproposta tempestivamente davanti al giudice dotato di giurisdizione
(cd TRANSLATIO IUDICII). La Corte costituzionale sostenne che la pluralità delle
giurisdizioni non poteva sacrificare il diritto della parte ad ottenere una decisione sul merito della
sua pretesa. L’istituto della translatio iudicii è stato codificato in termini generali dall’art. 59 legge
69/2009. L’art. 103, comma 1 Cost, oltre al Consiglio di Stato, menziona anche altri organi della
giustizia amministrativa. La giurisdizione amministrativa generale non si esaurisce, nella
Costituzione, nel Consiglio di Stato, ma include anche un giudice amministrativo di primo grado
(art. 125 Cost), costituito poi nei Tar. Il riferimento a organi di giustizia amministrativa di primo
grado è all’origine della interpretazione secondo cui il doppio grado di giurisdizione, nel caso del
giudice amministrativo, sarebbe costituzionalizzato. Corte cost. 31 marzo 1988, n. 395 ha escluso
che l’art. 125 Cost imponesse il principio del doppio grado nella giurisdizione amministrativa: la
norma costituzionale avrebbe imposto solo di ammettere l’appellabilità delle sentenze dei Tar. Di
conseguenza il legislatore ordinario può ben assegnare al Consiglio di Stato, in talune ipotesi, una
competenza in unico grado. L’art. 125 Cost dispone inoltre che la giurisdizione amministrativa di
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prima grado abbia un’articolazione territoriale regionale (nelle Regioni sono istituiti organi di
giustizia amministrativa di primo grado); di conseguenza anche la competenza per i giudizi di
primo grado è ripartita fra i Tar sulla base di un criterio territoriale. Il legislatore, però, per vari
ordini di vertenze ha preferito riservare la competenza in primo grado al solo Tar Lazio,
derogando ad ogni criterio territoriale. La Corte costituzionale ha affermato che la deroga alla
ripartizione ordinaria di competenza dei Tar deve avere una giustificazione apprezzabile. Il
raccordo fra la giurisdizione amministrativa e la giurisdizione ordinaria è assicurata, nell’art. 111,
comma 8 Cost, dalla previsione che contro le decisioni della Corte dei Conti e del Consiglio di
Stato sia ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. Risalta,
in questo modo, anche la specificità del ruolo della Cassazione rispetto alla giurisdizione
amministrativa e contabile. Infatti rispetto alle sentenze del Consiglio di Stato (e della Corte dei
conti) la Corte di cassazione può essere adita solo per motivi inerenti alla giurisdizione, mentre
per le sentenze degli altri giudici speciali il ricorso alla cassazione è ammesso anche per
violazione di legge.

CAPITOLO SESTO – LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI


DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

 I criteri accolti per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa

Dopo la legge di abolizione del contenzioso amministrativo (legge 2248/1865 allegato E) e fino
all’istituzione della Quarta sezione (legge 5992/1889), la questione dei limiti della giurisdizione
civile fu affrontata per i rapporti fra sindacato giurisdizionale e autorità amministrativa: si
trattava, in particolare, di stabilire quale ambito dell’ambito amministrativa fosse immune dal
sindacato giurisdizionale. A questo proposito ebbe particolare rilievo la tesi della distinzione fra
ATTI DI GESTIONE e ATTI D’IMPERIO. Questa tesi contrapponeva gli atti posti in essere
dall’amministrazione nell’ambito dell’attività di diritto comune (contratti ecc) agli atti posti in
essere dall’amministrazione nella sua specifica qualità di soggetto pubblico, distinto e superiore
rispetto ai soggetti privati, e disciplinato perciò da regole diverse da quelle del diritto comune.
Questa tesi fu criticata alla fine dell’800 e successivamente abbandonata. Fu fatto notare che i
limiti al potere giurisdizionale dovevano essere identificati in base alla norma che regola l’attività
amministrativa e quindi in base alla disciplina dettata da tale norma per l’attività
dell’amministrazione; si notata che anche nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico, costituiti da
atti specifici dell’amministrazione, si potevano configurare diritti soggettivi, la cui tutela era
affidata perciò al giudice ordinario. Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di
giurisdizione per la tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione ha indirizzato
l’indagine soprattutto verso la ricerca di regole certe per il riparto della competenza fra giudice
ordinario e Quarta sezione. In discussione, in questo caso, non sono stati però solo i criteri per
definire l’interesse legittimo come situazione giuridica. La discussione ha riguardato anche il
piano della tutela processuale: era necessario capire quali elementi della domanda giudiziale
dovevano essere considerati per stabilire se un soggetto faceva valere in giudizio un interesse
devoluto al giudice amministrativo.

Le origini del dibattito vengono ricondotte a una sentenza della Cassazione del 1891 e ai
successivi interventi di parte della dottrina, dalla quale fu prospettato il cd CRITERIO DEL
PETITUM. Il dato caratterizzante della giurisdizione amministrativa era rappresentato dal
potere di annullamento degli atti impugnati. Di conseguenza, nel caso di un provvedimento
lesivo di un diritto soggettivo, si doveva ammettere la possibilità per il cittadino di ricorrere
avanti al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto. Il criterio del petitum
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comportava la possibilità per il cittadino di far valere come interessi i diritti soggettivi ed
implicava una sorta di relazione di continenza fra diritti soggettivi e interessi legittimi: i diritti
soggettivi erano considerati posizioni soggettive più garantite degli interessi legittimi e, quindi,
potevano essere fatti valere anche come interessi per ottenere di fruire della relativa tutela. Una
volta respinte le proposte di fondare la giurisdizione amministrativa sul potere di annullamento, il
criterio in esame perse spessore: fu definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza a partire
dagli anni 30 del secolo scorso. Le critiche formulate nei suoi confronti sono state principalmente
di due ordini. In primo luogo è stato rilevato che interessi legittimi e diritti soggettivi sono
posizioni distinte qualitativamente, e non in termini di minore o maggiore tutela. In secondo
luogo è stato rilevato che le tesi del petitum finiva con l’aprire la strada a una doppia tutela, nel
senso che la medesima posizione soggettiva poteva essere fatta valere alternativamente o
cumulativamente, a scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei due giudici.

Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare fortemente l’altro elemento tradizionale
dell’azione, rappresentato dalla CAUSA PETENDI: la controversia è di competenza del giudice
amministrativo, se è fatto valere un interesse legittimo; invece, è di competenza del giudice
ordinario, se è fatto valere un diritto soggettivo. Il problema, però, in questo modo non è
completamente risolto: si deve ancora capire alla stregua di quali circostanze si possa stabilire se
sia fatto valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo. A questo proposito costituisce un
termine ricorrente di confronto la cd TEORIA DELLA PROSPETTAZIONE. Secondo questa
teoria va attribuisco rilievo decisivo alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva, come
risulta dagli atti introduttivi del giudizio. Se l’attore afferma di essere titolare di un interesse
legittimo, la tutela spetta al giudice amministrativo; se, invece, si presenta come titolare di un
diritto soggettivo, è competente il giudice ordinario. Ciò che rileva è la situazione soggettiva che
viene fatta valere, così come prospettata dal cittadino nella sua domanda giudiziale. La
Cassazione ha respinto la tesi della prospettazione.

La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata più di recente come tesi del PETITUM
SOSTANZIALE: ciò che rileva è l’effettiva natura di questa posizione e la sua oggettiva
qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo. Il giudice non può fermarsi alla
qualificazione della posizione soggettiva come enunciata da una parte, ma deve verificare
d’ufficio l’esattezza di tale qualificazione. Questa conclusione pone ulteriori problemi. In primo
luogo la verifica della giurisdizione si presenta, di regola, come preliminare rispetto alla decisione
di merito. Di conseguenza il giudizio sulla posizione soggettiva effettivamente in gioco finisce con
l’essere caratterizzato da una certa astrattezza. L’insussistenza di una posizione di diritto
soggettivo comporta, per il giudice ordinario che sia stato adito, una pronuncia di rigetto della
domanda per infondatezza, mentre il giudice amministrativo, ove rileva l’insussistenza di un
interesse legittimo, è solito dichiarare inammissibile il ricorso (per difetto di giurisdizione).
Evidentemente non si è ancora formato un orientamento unitario.

 I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione

Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria coinvolge particolarmente l’interpretazione
dell’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo (legge 2248/1865 allegato E).
Ciò vale non solo perché questa norma vieta al giudice ordinario di revocare o modificare
l’atto amministrativo, ma anche perché il divieto di revoca e di modifica è stato interpretato
estensivamente, fino a considerare oggetto di protezione qualsiasi espressione di attività
amministrativa che non fosse riducibile al mero diritto privato. Il divieto di revocare o modificare
l’atto amministrativo è stato interpretato come impossibilità per il giudice di assumere
qualsiasi decisione che potesse avere un’incidenza effettiva sull’attività amministrativa.
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Nozione di atto amministrativo. Una prima interpretazione portava a identificare tale nozione
con qualsiasi atto dell’amministrazione posto in essere nell’interesse pubblico. Accettando questa
interpretazione, si deve concludere che oggetto di protezione non possono essere solo i
provvedimenti amministrativi, ma devono essere anche i comportamenti materiali
dell’amministrazione di per sé non regolari, ma comunque indirizzati a soddisfare un interesse
pubblico. Per giustificare tale conclusione fu sostenuto che questi comportamenti materiali
dell’amministrazione sarebbero in realtà provvedimenti amministrativi taciti, ossia espressioni di
volontà dell’amministrazione desumibili da un comportamento. Questa interpretazione è stata
considerata a lungo con favore dalla Cassazione. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione,
questa interpretazione non ha più alcuna ragion d’essere. Oggetto di protezione non può essere
una qualsiasi modalità con cui l’amministrazione persegua l’interesse pubblico, ma può essere
solo ciò che già in base alla legge è soggetto a un regime differenziato. La garanzia può quindi
riguardare solo l’atto amministrativo, non l’amministrazione in quanto tale. L’atto amministrativo
viene identificato come espressione del potere dell’amministrazione; pertanto laddove
l’amministrazione non esercita un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna
limitare ai poteri del giudice. La garanzia dell’atto amministrativo trova la sua ragione e la
definizione del suo ambito nel principio di legalità: laddove non opera il principio di legalità
non vi può essere alcuna immunità dall’intervento giurisdizionale. L’atto che, per un grave vizio,
risulti inefficace non può essere considerato espressione di un potere dell’amministrazione.
Pertanto rispetto al provvedimento che sia nullo perché manca degli elementi essenziali o è
viziato da difetto assoluto di attribuzione non è identificabile alcun limite a carico del giudice
ordinario. Il limite interno della giurisdizione civile non va esteso a tutto ciò che non sia
strettamente diritto privato, ma va circoscritto a tutto ciò che costituisca, in base alla legge,
espressione di un potere pubblico.

Tipologie di sentenze. La questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata affrontata
soprattutto con riferimento alle tipologie delle sentenze che il giudice ordinario può emettere nei
confronti dell’amministrazione. Si sostiene che, anche nelle vertenze su rapporti di diritto privato,
l’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo vieterebbe al giudice ordinario
non solo di incidere direttamente su atti amministrativi, o di condannare l’amministrazione a
revocare o modificare propri atti, ma anche di emettere sentenze per la cui esecuzione
l’amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività amministrativa. In questa logica le uniche
sentenze compatibili con l’art. 4 sembravano essere le sentenze di mero accertamento e le
sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro. Le prime erano ammesse proprio
perché il loro carattere dichiarativo escludeva che potessero avere un’efficacia esecutiva e quindi
garantiva da qualsiasi incidenza su un’attività provvedimentale dell’amministrazione. La sentenza
dichiarativa si limita ad accertare la situazione delle parti rispetto a un bene giuridico: pertanto
non implica, da parte del giudice, l’esercizio di poteri dispositivi che possano incidere su atti
dell’amministrazione, né rappresenta il titolo per un’esecuzione. Per le sentenze di condanna al
pagamento di somme di denaro, invece, la giustificazione era più complessa. In definitiva, anche
una condanna del genere obbligava l’amministrazione a porre in essere una propria attività;
tuttavia la condanna al pagamento di somme di denaro fu ammessa, sia perché il pagamento di
una somma si traduce in un dare tipicamente fungibile, sia perché altrimenti sarebbe stata esclusa
qualsiasi garanzia per il cittadino nei confronti dell’amministrazione. Le altre sentenze di
condanna comporterebbero gradi più limitati di fungibilità fra funzione amministrativa e attività
del giudice, perché la loro esecuzione richiederebbe necessariamente, un esercizio da parte
dell’amministrazione di una attività amministrativa qualificata. Si escludevano, inoltre, le
sentenze di tipo costitutivo. In conclusione, il principio affermato dall’art. 4 della legge del
1865 sancirebbe la distinzione tra attività giurisdizionale e attività amministrativa: ciò che è
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configurato come attività specifica dell’amministrazione non può essere oggetto di interferenze
del giudice, anche se il rapporto dedotto in giudizio inerisce al diritto comune. Pertanto tutte le
obbligazioni a carico dell’amministrazione non avrebbero mai, sul piano della tutela
giurisdizionale, una garanzia di adempimento specifico: la tutela giurisdizionale, nel caso di
adempimento, potrebbe essere solo di tipo risarcitorio. Il confronto di questa interpretazione con
i principi costituzionali ha imposto di ricercare ben altri limiti per i poteri del giudice ordinario
nei confronti dell’amministrazione. Se la tutela del diritto soggettivo nei confronti
dell’amministrazione deve essere piena e completa, si deve anche permettere al giudice di
emettere quel tipo di sentenza che sia più idoneo e adeguato per la garanzia del diritto fatto
valere in giudizio. Questa conclusione risulta particolarmente chiara rispetto all’attività di diritto
privato dell’amministrazione: se l’amministrazione opera nel diritto comune è assoggettata
necessariamente alla disciplina privatistica. Di conseguenza, laddove l’amministrazione non
esercita un potere in senso stretto, il giudice può assumere la sentenza di condanna o la
sentenza costitutiva più idonea alla tutela del diritto fatto valere in giudizio. Questa
conclusione è accolta oggi dall’art. 63, comma 2 d.lgs. 165/2001. Con riferimento alle controversie
di lavoro fra i dipendenti dell’amministrazione, con rapporto contrattuale, o privatizzato, e l’ente
pubblico datore di lavoro, la disposizione prevede che il giudice adotta, nei confronti delle
pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna,
richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Pertanto non si può ammettere più una preclusione
generale, per il giudice ordinario, a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti
dell’amministrazione. Residua solo la possibilità di una garanzia dell’atto amministrativo, intesa
come garanzia rispetto a un potere di annullamento o a una sovrapposizione della sentenza al
potere esercitato dall’amministrazione col provvedimento. Il giudice, se anche il cittadino
avesse un diritto soggettivo all’emanazione di un provvedimento, non potrebbe condannare
l’amministrazione ad emettere il provvedimento richiesto e potrebbe solo emettere sentenza
di condanna al risarcimento dei danni. Tuttavia, esclusa la possibilità che la sentenza possa
avere come contenuto l’intervento su un provvedimento amministrativo, per il resto il
giudice può pronunciare qualsiasi tipo di sentenza nei confronti dell’amministrazione. Non
importa se l’esecuzione della sentenza possa comportare, per l’amministrazione, la necessità di
una attività amministrativa per realizzare la prestazione non provvedimentale imposta dalla
sentenza stessa: l’esercizio di un’attività amministrativa di questa specie rileva solo sul piano
interno, come attività strumentale per l’adempimento della prestazione, e pertanto non comporta
alcuna limitazione delle possibilità di tutela del cittadino. L’affermazione di questa logica più
adeguata ai principi costituzionali è avvenuta nella seconda metà del 900. In particolare a lungo è
stato escluso che il giudice ordinario potesse emettere sentenze costitutive ai sensi dell’art. 2932
cc, nei confronti dell’amministrazione che non desse esecuzione a un contratto preliminare. Solo
in un secondo tempo la Cassazione mutava indirizzo, argomentando sulla base della
considerazione che ogni profilo di discrezionalità amministrativa si sarebbe esaurito con il
contratto preliminare (perciò l’attività successiva all’amministrazione poteva avere solo carattere
esecutivo) e che, concludendo il contratto preliminare, l’amministrazione avrebbe sancito il
proprio pieno assoggettamento al diritto comune. La Cassazione fino ad oggi ha escluso che
questa norma possa essere invocata nel caso in cui l’obbligo di contratte derivi direttamente dalla
legge e non invece da un contratto preliminare. In questo caso, infatti, manca un atto con cui
l’amministrazione si assoggetti preventivamente al diritto privato. Di conseguenza, in casi come
questo la Cassazione consente al cittadino solo di chiedere sentenze di condanna al risarcimento
dei danni, ovvero sentenze che fissino all’amministrazione un termine per adempiere, con
l’avvertenza, però, che la scadenza del termine potrà solo giustificare azioni risarcitorie, fatte
salve le possibilità offerte dal giudizio di ottemperanza. Ugualmente emblematica è l’evoluzione
della giurisprudenza civile in tema di azioni cautelari o possessorie nei confronti
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dell’amministrazione. Originariamente si tendeva ad escludere qualsiasi possibilità di esperire tali
azioni nei confronti dell’amministrazione. Oggi, invece, si sottolinea come l’intervento del giudice
sia precluso solo quando si richieda un provvedimento d’urgenza che incida direttamente su un
provvedimento amministrativo, o sulla sua esecuzione.

 La disapplicazione degli atti amministrativi

La legge di abolizione del contenzione amministrativo (legge 2248/1865) assegnò al giudice


ordinario la capacità di procedere alla disapplicazione. La legge del 1865 disponeva che (art. 5) in
questo, come in ogni altro caso le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i
regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi. Punti fermi, condivisi con
ampiezza dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sono praticamente solo i seguenti:

- La disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia inerente e un diritto soggettivo

- La valutazione degli atti amministrativi e dei regolamenti ai fini della loro disapplicazione
concerne solo la legittimità

- Attraverso la disapplicazione il giudice può sindacare la legittimità dell’atto amministrativo


anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è un elemento rilevante per la decisione, e senza essere
vincolato all’osservanza di alcun termine particolare.

La disapplicazione si presenta come elemento di un modello di tutela alternativo rispetto


all’impugnazione del provvedimento.

L’istituto della disapplicazione è stato utilizzato in due ipotesi:

1) nel caso di una pretesa di un privato verso l’amministrazione che si fondi su di un atto
amministrativo;

2) nella controversia tra privati, in cui sia rilevante un titolo rappresentato da un atto
amministrativo.

È del tutto inutile, invece, invocare la disapplicazione con riferimento a contestazioni fra privati
concernenti provvedimenti puramente permissivi dell’amministrazione. La disapplicazione
presuppone che l’atto amministrativo sia rilevante per la decisione e, quindi, sia produttivo
di effetti da disapplicare. A maggior ragione non ha senso invocare la disapplicazione rispetto a
un atto amministrativo inefficace. Di disapplicazione si può trattare quando il giudizio verta su
un rapporto giuridico determinato o condizionato da un provvedimento amministrativo: la
disapplicazione si riferisce agli effetti prodotti dall’atto amministrativo e inerenti al rapporto
dedotto in giudizio. Invece non è corretto invocare la disapplicazione nel caso di un atto
amministrativo nullo: è comunque improduttivo di effetti giuridici. Inoltre non è corretto
invocare la disapplicazione quando l’atto amministrativo rilevi come mera circostanza di fatto.

 Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti dell’amministrazione

La giurisprudenza sembra indirizzata ad escludere che i limiti affermati dall’art. 4 della legge del
1865 possano essere invocati per circoscrivere la tutela possibile rispetto a diritti perfetti o diritti
costituzionalmente protetti, come se la rilevanza costituzionale di questi diritti fosse
incompatibile con l’individuazione di limiti posti da norme di grado inferiore. Di conseguenza, è
stato escluso che l’art. 4 potesse precludere al giudice ordinario di condannare l’amministrazione
a un facere specifico o a un pati, anche con incidenza diretta sull’attuazione di provvedimenti
amministrativi, quando ciò fosse richiesto dalla tutela di un diritto costituzionalmente tutelato. In
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alcuni casi il legislatore ha disciplinato alcuni giudizi sulla base di un assetto diverso dei limiti
interni della giurisdizione ordinaria nei confronti dell’amministrazione. In proposito meritano di
essere segnalati particolarmente i giudizi di opposizione alle sanzioni amministrative disciplinate
dalla legge 689/1981, ed alcuni giudizi previsti da leggi speciali. Molti di questi giudizi sono
regolati dal d.lgs. 150/2011, che ha riordinato i riti civili speciali di cognizione.

Sanzioni amministrative pecuniarie. La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei
provvedimenti amministrativi con cui siano state applicate sanzioni amministrative
pecuniarie (= ordinanze-ingiunzioni) spetta in genere al giudice ordinario. La Corte di
Cassazione e la Corte costituzionale affermano che in questi casi il cittadino è titolare di un
diritto soggettivo alla propria integrità patrimoniale. In materia di sanzioni amministrative il
cittadino può ricorrere proponendo opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione, mentre prima
dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio è ammessa soltanto la presentazione di difese e
documenti nel procedimento sanzionatorio. L’opposizione all’ordinanza-ingiunzione può
investire qualsiasi profilo della pretesa sanzionatoria dell’amministrazione: può riguardare sia la
regolarità formale del provvedimento, che la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione,
che la fondatezza delle valutazioni effettuate dall’autorità amministrative. Il rito è regolato dal
RITO CIVILE DEL LAVORO; il giudice dell’opposizione può sospendere cautelarmente
l’ordinanza-ingiunzione e, se accoglie l’opposizione, annulla in tutto o in parte l’ordinanza o la
modifica anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta. Al giudice ordinario è conferito
espressamente un potere di sospensione e di annullamento del provvedimento
amministrativo. Inoltre la previsione espressa di un potere di modifica del provvedimento
determina una piena fungibilità dei poteri decisori del giudice rispetto ai poteri
dell’amministrazione.

Provvedimento convalidato. Per gli accertamenti e per i trattamenti sanitari obbligatori in


condizioni di degenza ospedaliera l’art. 35 legge 833/1978 prevede che il Sindaco disponga
l’effettuazione del trattamento; il provvedimento del Sindaco è immediatamente efficace, ma deve
essere convalidato dal giudice tutelare entro un termine perentorio molto breve. Nei confronti del
provvedimento convalidato il destinatario, o chiunque vi abbia interesse, può ricorrere al
Tribunale civile, con le modalità previste per il RITO SOMMARIO DI COGNIZIONE: la
tutela spetta al giudice ordinario perché in giudizio sono diritti primari di libertà del cittadino. Il
ricorso al Tribunale è ammesso anche da parte del Sindaco contro l’eventuale diniego di
convalida del suo provvedimento. La legge, in questa ipotesi, riconosce espressamente al
Tribunale il potere di adottare misure cautelari, che comportano la sospensione del trattamento
obbligatorio. Il giudizio verte principalmente sul provvedimento, e non solo sul decreto di
convalida, che ne costituisce un accessorio. La legge, però, non dispone se il Tribunale,
accogliendo il ricorso, annulli il provvedimento del Sindaco. La logica dell’istituto e la stessa
formulazione della norma inducono a considerare favorevolmente questa soluzione.

Espulsione dello straniero. Nei confronti dei provvedimenti del Prefetto di espulsione di
stranieri, il d.lgs. 286/1998 ha previsto che la tutela vada esperita in genere avanti al giudice
ordinario: il ricorso va proposto entro 60 giorni al giudice civile. L’attribuzione della
giurisdizione al magistrato ordinario riflette anche in questo caso la convinzione che nei confronti
di un provvedimento di espulsione siano in gioco posizioni di libertà e diritti della persona.
Tuttavia il quadro complessivo non appare omogeneo, perché nell’ipotesi di espulsione dello
straniero disposta per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato è competente il Tar.
Inoltre molto spesso i provvedimenti di espulsione sono conseguenti al diniego di permesso di
soggiorno: contro i provvedimenti di diniego il ricorso va proposto, però, al giudice
amministrativo. Anche nel caso del ricorso contro il decreto prefettizio di espulsione, la legge non
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precisa quali siano i poteri del giudice civile. Per ragioni di effettività della tutela si deve però
ammettere che il giudice, se accoglie il ricorso, possa intervenire sul provvedimento di espulsione
e, perciò, possa annullarlo. Questa conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza costituzionale
che ha riconosciuto al giudice, in via cautelare, il potere di sospendere il decreto di espulsione. La
legge ammette che, in taluni casi, nei confronti dello straniero che si trattenga indebitamente nel
territorio dello Stato, possa essere disposto l’accompagnamento alla frontiera a messo della forza
pubblica: il provvedimento di accompagnamento forzato, nelle 48h successive, deve essere
convalidato dal Tribunale; la normativa, però, è stata dichiarata illegittima da Corte cost 15 luglio
2004, n. 222, perché non assicurava in alcun modo il diritto alla difesa dello straniero e non
garantiva neppure che la convalida precedesse l’esecuzione del provvedimento. In seguito alla
pronuncia della Corte costituzionale, l’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla
frontiera è sospesa fino all’esito del giudizio di convalida e in tale giudizio deve essere assicurata
la difesa dello straniero. Se la convalida non è concessa, il provvedimento perde ogni effetto.

Decisione del Garante della privacy. La decisione del Garante su un ricorso proposto a tutela
dei diritti di privacy può essere impugnata dagli interessati, entro 30 giorni dalla comunicazione,
davanti al Tribunale civile. Il giudizio segue il RITO DEL LAVORO. Assumono rilievo sia
l’attribuzione espressa al Tribunale del potere di sospendere in via cautelare l’esecuzione della
decisione del Garante, sia la disposizione secondo cui il giudice civile, in queste vertenze,
provvede anche in deroga al divieto di cui all’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo.

 Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte un’amministrazione


statale

La circostanza che parte in giudizio sia una Pubblica amministrazione non comporta, di per sé,
alcuna variazione delle regole del processo comune. Unica variazione di rilievo rispetto alle
regole ordinarie è quella determinata dalla disciplina dell’Avvocatura di Stato, nel caso di giudizi
in cui sia parte un’amministrazione statale. La difesa in giudizio delle amministrazioni statali
spetta all’Avvocatura dello Stato, che ha sede presso ciascun distretto di Corte d’appello.
L’Avvocatura dello Stato rappresenta e assiste l’amministrazione statale in forza della legge,
senza la necessità di uno specifico mandato; di conseguenza può compiere gli atti processuali per
l’amministrazione statale senza la necessità di una procura. Per i giudizi civili in cui sia parte
un’amministrazione statale, l’art. 25 cpc assegna la competenza territoriale al giudice del luogo
ove ha sede l’Avvocatura dello Stato (cd foro erariale): la modifica alla disciplina generale vale,
però, solo per le cause di competenza dei Tribunali e delle Corti d’appello e non si estende alle
controversie di lavoro. Inoltre, nelle cause promosse contro amministrazioni statali, gli atti
introduttivi del giudizio devono essere notificati all’amministrazione statale (intesa come
Ministero) competente, nella persona del rispettivo Ministro, presso l’ufficio dell’Avvocatura
dello Stato nel cui distretto ha sede il giudice adito. L’eventuale errore nell’identificazione
dell’amministrazione statale competente deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato non
oltre la prima udienza, con contestuale indicazione dell’amministrazione competente: se accoglie
l’eccezione, il giudice fissa un termine per la rinnovazione dell’atto e la rinnovazione tempestiva
preclude qualsiasi decadenza.

 Il giudice ordinario e le controversie di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni

Prima della riforma del 1993 per i dipendenti degli enti pubblici erano previste due diverse
discipline: i dipendenti degli enti pubblici economici erano soggetti a un rapporto di lavoro di
diritto privato, secondo le regole del codice civile, mentre i dipendenti degli altri entri pubblici

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erano soggetti in genere a un rapporto pubblicistico, il cd rapporto di pubblico impiego. Le
diversità di regime sostanziale si rifletteva anche sulla tutela processuale: per le vertenze dei
dipendenti degli enti pubblici economici era competente il giudice amministrativo (giudice del
lavoro), mentre per le vertenze inerenti al pubblico impiego era competente il giudice
amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva. A partire dagli anni 70 la disciplina del
pubblico impiego è stata oggetto di una profonda revisione, caratterizzata dall’adozione di
modelli sempre più affini a quelli privatistici. A conclusione di una evoluzione, in attuazione alla
delega legislativa conferita al Governo, con la legge 421/1992, il d.lgs. 29/1993 ha introdotto una
riforma generale del pubblico impiego, ispirata all’obiettivo della cd privatizzazione, o, meglio,
della contrattualizzazione, del rapporto di pubblico impiego. Il disegno di riforma è stato
successivamente precisato e integrato dal d.lgs. 165/2001. In base a queste disposizioni i rapporti
di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono ora regolati innanzitutto dalle
disposizioni del codice civile sul rapporto di lavoro dipendente, nonché dalle leggi sui rapporti di
lavoro subordinato nell’impresa. Sono dettate anche disposizioni speciali sul rapporto di lavoro
dei dipendenti delle amministrazioni: queste disposizioni speciali, tuttavia, non identificano una
disciplina alternativa a quella del settore privato, ma comportano solo deroghe ad essa. Anche
per i dipendenti delle amministrazioni vale come principio generale che i rapporti individuali di
lavoro sono regolati contrattualmente. La nuova disciplina, però non si applica a tutte le
categorie di dipendenti di pubbliche amministrazioni. Rimangono regolate dai principi sul
rapporto di pubblico impiego alcune categorie di dipendenti dell’amministrazione statale:

- I magistrati ordinari e amministrativi

- Gli avvocati dello Stato

- Il personale militare e delle forze di polizia

- Il personale della carriera diplomatica

- Parte del personale della carriera prefettizia

- Il personale di alcune Autorità indipendenti

- I professori e i ricercatori universitari

Per il personale con rapporto contrattuale la tutela giurisdizionale è di competenza del giudice
ordinario (giudice del lavoro), secondo la disciplina del cpc. Invece, per il personale con rapporto
di pubblico impiego le vertenze spettano sempre al giudice amministrativo, in sede di
giurisdizione esclusiva. Il quadro è completato dalla previsione che le vertenze concernenti
comportamenti antisindacali delle amministrazioni siano invece devolute tutte al giudice
ordinario. La giurisdizione ordinaria non si estende, però, a tutte le vertenze inerenti al personale
con rapporto contrattuale: la giurisdizione amministrativa è stata conservata per le vertenze
concernenti le procedure di concorso per l’assunzione del personale. La portata di tale
disposizione è stata estesa dalla giurisprudenza anche alle vertenze per i cd concorsi interni per il
passaggio ad una qualifica superiore del personale già assunto. Si tenga presente che, invece, nel
caso degli enti pubblici economici, anche le controversie relative alle procedure concorsuali di
assunzione sono di competenza del giudice ordinario, in coerenza con la convinzione che si tratti
di con concorsi assoggettati ai principi privatistici.

La tutela giurisdizionale per il personale con rapporto contrattuale presenta vari profili peculiari.
La competenza territoriale spetta al Tribunale civile nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al
quale è addetto il dipendente o al quale era addetto al momento della cessazione del rapporto (no
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disciplina foro erariale). Le amministrazioni possono avvalersi di propri funzionari per la difesa
in giudizio di primo grado, fatta salva la possibilità, per le amministrazioni statali, che la difesa sia
assunta direttamente dall’Avvocatura dello Stato. Dal punto di vista della tutela processuale, i
profili di maggiore interesse della disciplina in esame riguardano il quadro dei poteri riconosciuti
al giudice ordinario, nelle controversie di lavoro con pubbliche amministrazioni. È riconosciuta
espressamente al giudice la capacità di adottare qualsiasi ordine di pronuncia, di accertamento,
costitutiva o di condanna, richiesta dalla natura dei diritti tutelari. Inoltre, la circostanza che nel
giudizio vengano in questione atti amministrativi presupposti non incide sulla giurisdizione del
giudice ordinario: il giudice procede, se li riconosce illegittimi, alla loro disapplicazione. Poiché il
rapporto di lavoro è privatizzato, le parti sono titolari reciprocamente di diritti e di obblighi: di
conseguenza anche gli atti unilaterali dell’amministrazione che ineriscano direttamente al
rapporto con i propri dipendenti sono atti di diritto privato, e non atti amministrativi. Gli atti
amministrativi possono configurarsi solo in una fase logicamente precedente rispetto agli atti di
gestione del rapporto di lavoro: possono rilevare solo come atti presupposti. La distinzione fra gli
atti amministrativi e gli atti di diritto comune si riflette puntualmente sui poteri del giudice
ordinario: infatti il giudice può incidere direttamente sugli atti di diritto comune assunti
dall’amministrazione, anche con pronunce costitutive, mentre nel caso degli atti amministrativi
può solo disapplicare. L’argomento, oggetto di vivaci discussioni, inerisce al diritto sostanziale. In
questa sede è sufficiente ricordare che fra tali atti amministrativi, nel caso dello Stato e degli enti
pubblici istituzionali, vi sono gli atti di organizzazione previsti ora nell’art. 2, comma 1 d.lgs.
165/2011. Essi sono configurati dalla legge come espressione di uno specifico potere
amministrativo: fra l’altro, definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici,
individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi,
determinano le dotazioni organiche complessive. Quando gli atti amministrativi di
organizzazione abbiano un’incidenza sul rapporto di lavoro, seppur indiretta, e siano rilevanti
per valutare il comportamento delle parti nel rapporto stesso, il giudice ordinario può procedere
alla loro disapplicazione. Nello stesso tempo, non è escluso che il dipendente
dell’amministrazione sia direttamente leso, in un suo interesse legittimo, dall’atto di
organizzazione. In questo caso l’atto di organizzazione può essere impugnato dal dipendente
davanti al giudice amministrativo. Nel caso siano pendenti contemporaneamente un giudizio
civile, in cui l’atto amministrativo rilevi come presupposto e sia passibile di disapplicazione, e un
giudizio amministrativo, la pendenza del giudizio amministrativo non costituisce causa di
sospensione del giudizio civile. Il potere del giudice ordinario di verificare la legittimità dell’atto
amministrativo non è subordinato a quello del giudice amministrativo. L’esclusione della
sospensione rende maggiore la possibilità di un contrasto, seppur solo materiale, fra giudicati. Un
coordinamento fra i due giudizi sembra vada ricercato alla luce dell’interesse della parte (la
pronuncia sulla domanda da parte del giudice civile può incidere sull’interesse a ricorrere nel
giudizio amministrativo) e degli effetti dell’annullamento (l’annullamento impedisce che a
quell’atto possa essere riconosciuta efficacia nel giudizio civile fra le stesse parti).

 L’esecuzione forzata nei confronti dell’amministrazione

Nei confronti dell’amministrazione è esperibile l’esecuzione forzata prevista dal cpc, anche in
forma specifica.

BENI. Non tutti i beni dell’amministrazione possono essere soggetti ad esecuzione forzata. Non
possono essere assoggettati ad esecuzione forzata i beni demaniali: né quelli del demanio
necessario (possono solo appartenere alo Stato o agli Enti territoriali), né quelli del demanio
accidentale (non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi). Si ritiene che non possano
essere assoggettati ad esecuzione forzata neppure i beni del patrimonio indisponibile, ma la
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regola della inespropriabilità si desume dall’art. 514, comma 5 cpc, che dichiara impignorabili i
beni necessari per l’adempimento di un pubblico servizio. La disposizione si riferisce ai beni
mobili, ma viene considerata espressione di un principio più generale. Si deve concludere che
solo i beni del patrimonio disponibile siano passibili si esecuzione forzata. In realtà, è in atto una
tendenza che tende a limitare anche la pignorabilità dei beni del patrimonio disponibile.

CREDITI. L’espropriazione di crediti dell’amministrazione è stata oggetto in passato di vivaci


discussioni. Innanzitutto era esclusa la possibilità di espropriare crediti di cui l’amministrazione
fosse titolare in virtù di rapporti pubblicistici, ed è questo tuttora l’indirizzo della giurisprudenza
in tema di crediti per entrate tributarie. Rispetto alle somme già nella disponibilità
dell’amministrazione, e che essa normalmente detiene presso il proprio tesoriere (rispetto ad esse
l’amministrazione vanta un credito verso il tesoriere), si tendeva a limitare pesantemente la
possibilità di una espropriazione. Infatti si riconosceva all’amministrazione una sorta di
discrezionalità nella graduazione del pagamento dei suoi debitori: di conseguenza si attribuiva
carattere di infungibilità e rilevanza esterna agli adempimenti contabili imposti dalla legge
all’amministrazione per qualsiasi pagamento e si affermava che comunque l’esecuzione era
ammessa solo nei limiti degli importi che il bilancio dell’ente pubblico non avesse destinato a
scopi specifici di interesse generale. In pratica, se l’ente pubblico non aveva stanziato nel suo
bilancio una somma ad hoc, l’esecuzione risultava impossibile. Solo intorno al 1980 la Cassazione
mutava indirizzo e riconosceva che non poteva ammettersi discrezionalità laddove vi era un
obbligo di adempiere a una condanna al pagamento e che d’altra parte sia le procedure di
pagamento previste dalle leggi di contabilità, sia le previsioni dei bilanci degli enti non potevano
limitare la possibilità di esecuzione forzata. Alle procedure di pagamento e ai bilanci deve essere
riconosciuta una rilevanza interna. La Cassazione sembra fare eccezione solo per quei fondi
pubblici che siano soggetti a un particolare vincolo di destinazione specifica, diverso da quello
risultante dal bilancio o da un mero impegno di spesa, e imposto da una legge speciale. In questo
caso l’impignorabilità discenderebbe dal fatto che il vincolo di destinazione avrebbe una
rilevanza esterna.

LEGISLAZIONE SPECIALE. Su questo quadro ha inciso pesantemente, però, una


legislazione speciale, che riflette le condizioni di tensione sulla finanza pubblica accentuatesi
negli ultimi decenni. A partire dagli anni 90 il legislatore ha introdotto nuovi limiti all’esecuzione
forzata nei confronti dei beni dell’amministrazione, precludendo del tutto l’espropriazione di beni
e limitando l’espropriazione dei crediti alle somme non impegnate dall’Ente per servizi pubblici
essenziali. In alcuni casi è stata sancita l’inespropriabilità di tutte le somme a disposizione per
certi capitoli di spesa o addirittura per tutte le somme a disposizione di un Ente. Inoltre, rispetto
alle sentenze di condanna, è stato introdotto un termine dilatorio di 120 giorni dalla notifica
del titolo esecutivo per l’avvio dell’esecuzione forzata nei confronti delle amministrazioni e
degli enti pubblici non economici. Questo indirizzo legislativo è controproducente per gli stessi
enti pubblici, perché determina l’applicazione di condizioni più esose da parte dei loro fornitori,
ed è di dubbia legittimità costituzionale, perché introduce a favore dell’amministrazione un
privilegio processuale che è ingiustificato sul piano sostanziale. La Corte costituzionale, però, ha
sostanzialmente respinto fino ad oggi queste censure di illegittimità costituzionale, sostenendo
che questa normativa attuerebbe l’interesse pubblico a un regolare svolgimento dell’attività
amministrativa.

GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA. La sentenza del giudice civile può essere eseguita, oltre
che nelle forme previste dal cpc, anche nelle forme del giudizio di ottemperanza, davanti al
giudice amministrativo. L’art. 112, comma 2, lett c) cpa ammette in via generale che il giudizio di
ottemperanza sia esperibile anche per conseguire l’esecuzione delle sentenze del giudice
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ordinario (e degli altri atti ad essere equiparati) passate in giudicato. Nel giudizio di
ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione anche in merito e può
provvedere, direttamente o attraverso un commissario, ad assumere tutte le iniziative necessarie
per eseguire la sentenza.

CAPITOLO SETTIMO – I RICORSI AMMINISTRATIVI

 Principi generali

L’art. 3 legge del 1865 allegato E contemplava il ricorso in via gerarchica come rimedio generale
per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi; l’art. 9 allegato D contemplava il ricorso
straordinario come rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei
provvedimenti amministrativi definitivi. Fino all’istituzione della IV sezione del Consiglio di
Stato, i ricorsi in via amministrativa rappresentarono lo strumento fondamentale per la tutela
delle posizioni soggettive non tutelabili davanti al giudice ordinario e per ottenere l’annullamento
dei provvedimenti amministrativi. Ricorso gerarchico e ricorso straordinario sono gli esempi più
importanti di ricorsi amministrativi. Questi ricorsi sono rimedi giuridici, diretti a un’autorità
amministrativa per ottenere da essa l’annullamento di un provvedimento amministrativo, o
la sua riforma, nel caso del ricorso gerarchico e del ricorso in opposizione. L’atto con cui
l’organo competente prevvede su un ricorso su un ricorso amministrativo non è un atto
giurisdizionale, ma è un provvedimento amministrativo. I caratteri, la forma e l’efficacia della
decisione di un ricorso amministrativo sono quelli propri dell’atto amministrativo e non quelli
degli atti giurisdizionali. I ricorsi amministrativi sono strumenti di tutela di interessi qualificati e,
quindi, di interessi legittimi o diritti soggettivi. La legittimazione spetta non a qualsiasi cittadino,
ma solo a chi faccia valere un interesse legittimo o un diritto soggettivo. Conseguentemente
rimangono estranei dalla protezione i cd INTERESSI SEMPLICI E DI FATTO, ossia quegli
interessi che non hanno neppure la consistenza di un interesse legittimo e che corrispondono ad
un mero interesse economico o materiale, o a una mera aspettativa. In secondo luogo, le ragioni
della tutela del cittadino comportano che l’autorità competente, nel valutare e decidere un ricorso,
debba attenersi al ricorso stesso e non possa introdurre d’ufficio motivi diversi da quelli dedotti
nel ricorso: vige, insomma, un PRINCIPIO DISPOSITIVO (o meglio, principio della
domanda). In particolare l’annullamento dell’atto legittimo non può essere subordinato a
valutazioni discrezionali, di opportunità, che non trovino riscontro nei motivi del ricorso. La
funzione giustiziale dell’amministrazione non si attua secondo le regole sui procedimenti
giurisdizionali, non si risolve in un atto idoneo a costituire cosa giudicata, e la decisione è
soggetta ai rimedi previsti per gli atti amministrativi. Nel caso di ricorsi ordinari (ricorso
gerarchico e ricorso in opposizione), la decisione amministrativa è inoltre soggetto alla possibilità
di interventi successivi dell’amministrazione, come l’annullamento d’ufficio. Nel nostro
ordinamento sono previste varie tipologie di ricorsi amministrativi: la loro disciplina generale è
contenuta nel d.p.r. 1199/1971. In questo decreto legislativo sono contemplate quattro tipologie di
ricorsi:

a. Rimedi generali (la loro esperibilità non richiede una disposizione specifica che li ammetta):

- Ricorso gerarchico: si ritiene sempre ammesso in presenza di una relazione gerarchica fra
organi

- Ricorso straordinario: è sempre ammesso nei confronti di provvedimenti definitivi

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b. Rimedi tassativi (sono esperibili solo quando siano espressamente previsi da una specifica
disposizione):

- Ricorso gerarchico improprio

- Ricorso di opposizione

I ricorsi ordinari e i ricorsi straordinari

I ricorsi ordinari sono ammessi solo nei confronti di un provvedimento non definitivo. Con il
d.p.r. 1199/1971 è stata introdotta la regola secondo cui il ricorso ordinario è ammesso in unico
grado: di conseguenza, se l’atto amministrativo da impugnare non è già di per sé definitivo, la
definitività si consegue dopo aver esperito solo un grado di ricorso amministrativo.

Ricorsi ordinari sono:

- Ricorso gerarchico proprio

- Ricorso gerarchico improprio

- Ricorso in opposizione

Il ricorso straordinario è ammesso solo nei confronti di provvedimenti definitivi. Si ricordi che
definitività significa ora solamente che quell’atto non è assoggettato a ricorsi ordinari. Nei
confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi legittimi sono ammessi sia il ricorso
al giudice amministrativo, che il ricorso amministrativo ordinario. Nei confronti dei
provvedimenti definitivi lesivi di interessi legittimi sono ammessi sia il ricorso al giudice
amministrativo, che (in alternativa al primo) il ricorso straordinario. Il ricorso al giudice
amministrativo può essere esperito sia nei confronti di un provvedimento definitivo, che nei
confronti di un provvedimento non definitivo.

Nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, la tutela giurisdizionale è devoluta di
regola al giudice ordinario: in questi casi il ricorso amministrativo ordinario in genere è
facoltativo. Se la tutela giurisdizionale è devoluta al giudice ordinario, non è consentito il
ricorso straordinario.

Rimedi eliminatori (o cassatori) e Rimedi rinnovatori

Alcuni ricorsi amministrativi possono comportare solo l’eliminazione (l’annullamento) del


provvedimento impugnato. L’eliminazione dell’atto impugnato non comporta necessariamente la
conclusione della pratica: si pensi al caso dell’annullamento di un diniego di autorizzazione, che
comporta la necessità, da parte dell’autorità di primo grado, di prendere nuovamente in esame la
richiesta di autorizzazione (cd rinnovazione del procedimento). L’eliminazione del
provvedimento impugnato, di regola, fa salva pertanto la possibilità di ulteriori provvedimenti
amministrativi sulla medesima pratica; questi provvedimenti attengono non alla decisione del
ricorso, ma all’esercizio di funzioni di amministrazione attiva. È solo eliminatorio il ricorso
straordinario: all’organo competente è attribuito solo il potere di decidere il ricorso.

Altri ricorsi amministrativi comportano, invece, la devoluzione dell’intera pratica all’organo


competente a decidere il ricorso: tale organo, se così viene richiesto nel ricorso, non solo può
eliminare l’atto impugnato, ma può anche modificarlo o sostituirlo con un altro. Nella decisione
del ricorso, in questo caso, non solo sono effettuate le verifiche circa la legittimità o l’opportunità
dell’atto impugnato, ma anche è assunta una determinazione concreta sulla pratica. Col ricorso si
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avvia un procedimento che comporta, oltre all’eliminazione dell’atto, anche la sua sostituzione
con un altro (riforma). Di regola sono rinnovatori i ricorsi diretti ad un organo che è anche di
per sé competente a provvedere sulla pratica in questione e che quindi è titolare sia della
funzione giustiziale (di decisione del ricorso), sia della funzione di amministrazione attiva
inerente all’atto impugnato, pertanto sono sempre rimedi rinnovatori:

- Ricorso gerarchico proprio

- Ricorso in opposizione

Il ricorso gerarchico improprio ha normalmente carattere eliminatorio; in alcuni casi, però, il


legislatore l’ha configurato come rimedio anche rinnovatorio.

Ricorsi ammessi solo per vizi di legittimità (straordinario) e Ricorsi ammessi anche per vizi
di merito (gerarchico)

Il ricorso gerarchico è il rimedio attraverso il quale viene richiesto un nuovo esercizio del potere
amministrativo all’organo gerarchicamente sovraordinato, per qualsiasi ordine di censure
prospettate da un cittadino. L’utilità del ricorso non è circoscritta ai soli vizi di legittimità, perché
l’organo adito col ricorso ha già di per sé una capacità di provvedere che si estende a qualsiasi
profilo dell’atto impugnato, proprio in virtù del rapporto gerarchico che lo collega con l’organo
che ha emanato l’atto di primo grado. Questa caratterizzazione del ricorso gerarchico permane
ancora oggi, anche se si è assistito, nell’ambito della riforma dell’organizzazione amministrativa, a
un depotenziamento del rapporto gerarchico e a una maggiore valorizzazione delle competenze
esclusive di ciascun organo dell’amministrazione. Non è più un riflesso dei poteri riconosciuti al
superiore gerarchico, ma è esso stesso strumento per introdurre un potere di ingerenza
dell’organo superiore rispetto all’operato dell’organo di primo grado.

Il ricorso straordinario è invece rimedio ammesso solo per i vizi di legittimità. Un sistema
amministrativo fondato sulle ragioni delle autonomie e del decentramento sarebbe incompatibile
con un sindacato generale esteso al merito, esercitato dell’amministrazione statale nei confronti di
amministrazioni regionali o di altri enti territoriali. Il ricorso in opposizione segue le medesime
logiche del ricorso gerarchico. Per il ricorso gerarchico improprio la limitazione a vizi di
legittimità non rappresenta una regola assoluta. La situazione soggettiva qualificata fatta valere
dal ricorrente non rappresenta un elemento discriminante rispetto ai ricorsi amministrativi: tale
situazione può corrispondere indifferentemente a un diritto soggettivo o a un interesse legittimo.
La ragione dei ricorsi amministrativi non è la tutela di una particolare situazione soggettiva, ma è
la garanzia del cittadino che assume di essere stato leso da un provvedimento illegittimo
dell’amministrazione e che ne chiede perciò la rimozione. L’esclusione degli interessi semplici o di
fatto appare coerente con la constatazione che nel nostro ordinamento i rimedi giuridici sono di
regola strumenti “a legittimazione limitata”, proponibili cioè solo da parte di certe categorie di
soggetti, selezionati in base agli interessi di cui assumono di essere titolari. I rimedi “a
legittimazione diffusa” sono eccezionali e corrispondono alle cd azioni popolari.

Tutti i ricorsi amministrativi hanno carattere di rimedi formali: sono assoggettati a modalità
particolari di presentazioni e a termini tassativi di proposizione.

 Il ricorso gerarchico: procedimento e decisione

Il d.p.r. 1199/1971 detta una disciplina del ricorso gerarchico. Il ricorso deve essere diretto
all’organo gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto impugnato e va
proposto entro 30 gg dalla notificazione, o comunicazione, o pubblicazione o piena
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conoscenza dell’atto da impugnare. Entro questo termine il ricorso deve essere trasmesso o
all’organo cui è diretto o all’organo che ha emesso l’atto impugnato. La presentazione è
agevolata dal fatto che può avvenire anche a mezzo del servizio postale e in tal caso, in deroga
alle regole generali, la data di spedizione con raccomandata a/r vale come data di presentazione.
Il ricorso erroneamente rivolto a un organo diverso da quello competente, ma appartenente alla
stessa amministrazione di quest’ultimo, non è irricevibile: l’organo che lo ha ricevuto provvede
d’ufficio a trasmetterlo all’organo competente. Anche il ricorso gerarchico non sospende
l’efficacia del provvedimento impugnato: per gravi motivi l’organo competente per la decisione
del ricorso può sospenderne l’esecuzione, anche d’ufficio. Dopo aver acquisito le eventuali
deduzioni dei controinteressati e aver effettuato gli adempimenti istruttori che ritiene opportuni,
l’organo competente decide il ricorso, esercitando, nel caso di accoglimento, anche poteri
rinnovatori.

Individuazione dell’organo cui è diretto il ricorso gerarchico (organo sovraordinato) – art. 1,


comma 1 d.pr. 1199/1971

In seguito alla riforma del 1971, il ricorso gerarchico è ammesso in unico grado all’organo
gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l’atto impugnato. Se una legge
speciale non prevede diversamente, la competenza a decidere il ricorso gerarchico non spetta più
all’organo situato al vertice dell’amministrazione. La relazione di gerarchia che rileva ai fini
dell’ammissibilità del ricorso gerarchico è solo quella di ordine esterno, cioè la gerarchia fra
organi, e perciò di rilevanza esterna, e non quella che attiene a rapporti di grado e di qualifica fra
i funzionari, detta anche gerarchia interna, o personale. La gerarchia esterna è tipica
dell’amministrazione statale. In seguito alla distinzione affermatasi fra compiti di indirizzo
politico-amministrativo e compiti di gestione, oggi non è più configurabile una relazione di
gerarchia esterna fra Ministri e dirigenti statale, con la conseguenza che gli atti di questi ultimi,
in genere, non sono più suscettibili di ricorso gerarchico al Ministro. La gerarchia esterna può
sussistere anche in amministrazioni diverse da quella statale; invece, di regola, non è
configurabile nei rapporti fra gli organi di un ente locale o di una Regione.

Tutela del contraddittorio – art. 4, commi 1 e 2 d.p.r. 1199/1971

Il ricorrente non è tenuto a dare notizia del ricorso né all’organo che ha emesso l’atto di primo
grado, né ai cd controinteressati (ossia i soggetti che hanno un interesse qualificato alla
conservazione dell’atto impugnato). Rispetto all’organo di primo grado non è prevista alcuna
forma di contradditorio: nel ricorso gerarchico l’interesse istituzionale dell’amministrazione è
già garantito dal fatto che il ricorso sia diretto all’organo sovraordinato a quello che ha emanato
l’atto impugnato. Per quanto riguarda i controinteressati, l’art. 4 impone all’organo adito con il
ricorso di comunicarlo ai controinteressati stessi, per consentire ad essi di presentare deduzioni
(memorie scritte) e documenti. Nel ricorso gerarchico non vi è una garanzia piena del
contraddittorio. La previsione di un termine tassativo per la decisione esclude, per esempio, che
la decisione del ricorso possa essere rinviata fino all’esaurimento degli scambi di memorie fra le
parti; anzi, non è neppure garantito al ricorrente il diritto di replicare alle deduzioni dei
controinteressati. Le difese delle parti non hanno come destinatari le altre parti, ma sono dirette
esclusivamente all’autorità competente per la decisione; fra l’altro, non è prescritta l’istituzione di
una sorte di fascicolo del ricorso gerarchico, e l’esame delle memorie e dei documenti acquisiti
dall’amministrazione è possibile per tutte le parti, ma rappresenta mera facoltà, rimessa nel suo
esercizio all’iniziativa di ciascuna parte. Non è prevista alcuna forma di tutela del diritto alla
difesa nel caso di espletamento di adempimenti istruttori.

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Istruttoria – art. 4, comma 3 d.p.r. 1199/1971

I poteri istruttori sono definiti molto sommariamente nell’art. 4, comma 3 d.p.r. 1199/1971:
l’amministrazione può disporre tutti gli accertamenti utili ai fini della decisione. Il contenuto dei
mezzi istruttori non è definito dalla norma: il termine accertamento non designa solo gli
accertamenti tecnici, ma ha una portata generale, estesa a qualsiasi ordine di strumento
istruttorio. Restano però fermi tutti i limiti generali posti all’amministrazione per l’esercizio dei
suoi poteri istruttori (art. 13 legge 689/1981): non sono ammessi i mezzi istruttori che incidano su
diritti costituzionalmente garantiti (perquisizioni domiciliari, ispezioni personali ecc), né i mezzi
istruttori che producano effetti sulla decisione incompatibili con i caratteri di un procedimento
amministrativo (interrogatorio formale, giuramento). Fermi restando questi limiti, si ritiene che
l’amministrazione possa disporre ogni mezzo istruttorio opportuno, purché sia congruente con le
questioni sollevate nel ricorso. Sulle parti (e, in particolare, sul ricorrente) non grava alcun onere
della prova, e perciò la verifica dei fatti segnalati dalle parti è a carico esclusivo
dell’amministrazione.

Decisione – art. 5 d.p.r. 1199/1971

L’art. 5 individua i contenuti possibili della decisione del ricorso gerarchico. Tali contenuti
riflettono la distinzione generale fra:

- Decisioni di rito, rispetto alle quali è assorbente una questione attinente alle condizioni di
ammissibilità del ricorso

- Decisioni di merito, ossia decisioni sulla fondatezza o meno dei motivi del ricorso

- Il carattere rinnovatorio del ricorso gerarchico: è contemplata espressamente la riforma dell’atto


di primo grado

- La pregnanza del principio della domanda: l’autorità competente può decidere il ricorso
esercitando poteri rinnovatori solo se in tal senso sia richiesto nel ricorso stesso; altrimenti è
necessario il rinvio dell’affare all’autorità di primo grado.

La formulazione dell’art. 5 consente di ritenere superata una discussione sul rapporto fra poteri
decisori dell’organo competente e poteri di amministrazione attiva dello stesso organo. Infatti, in
passato, il ricorso gerarchico era stato frequentemente configurato come fosse una sorta di
strumento preordinato ad ottenere un nuovo esercizio di potere di amministrazione attiva: in
questa logica, il carattere giustiziale del ricorso si sarebbe esaurito nel trasferimento della
competenza all’autorità di secondo grado nella costituzione, a carico di essa, di un dovere di
decisione. Il contenuto della decisione avrebbe potuto essere determinato, oltre che dalle
valutazioni conseguenti ai motivi del ricorso, anche da valutazioni d’altro genere concernenti la
medesima pratica, ancorché estranee al ricorso in questione. In sostanza l’autorità competente,
decidendo il ricorso, avrebbe potuto esercitare legittimamente anche propri poteri d’ufficio, di
riesame della pratica. La formulazione dell’art. 5, che elenca i contenuti possibili della decisioni di
un ricorso senza neppure contemplare l’esercizio di poteri di amministrazione attiva, risulta del
tutto incompatibile con questa interpretazione. Ciò significa che l’organo adito con il ricorso sia,
per ciò solo, privato dei suoi poteri di amministrazione attiva: essi rimangono fermi e possono
senz’altro essere esercitati, ma deve essere assicurata una chiara distinzione fra poteri di
amministrazione attiva e poteri di decisione del ricorso, in modo che la decisione del ricorso non
diventi essa stessa un atto di amministrazione attiva. La giurisprudenza ha affermato che è
essenziale, quando un organo adito con un ricorso gerarchico intenda esercitare anche poteri di
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amministrazione attiva, che tale organo ne dia atto e dia conto della sussistenza di tutti i
presupposti specifici per l’esercizio di tali poteri, evitando qualsiasi confusione con la decisione
del ricorso.

Rapporti con il ricorso giurisdizionale

Se nei confronti dello stesso atto venga proposto, dal medesimo cittadino, sia il ricorso gerarchico
che quello giurisdizionale, secondo la giurisprudenza prevale sempre il ricorso giurisdizionale,
con la conseguenza che il ricorso gerarchico, se proposto per primo, diventa improcedibile,
ovvero, se proposto dopo quello giurisdizionale, è inammissibile. L’incompatibilità dei due rimedi
era sancita dall’art. 20, comma 2 legge Tar, con riferimento al caso di un atto che avesse leso gli
interessi legittimi di più cittadini. L’amministrazione era obbligata ad informare i ricorrenti in
sede gerarchica della pendenza del ricorso giurisdizionale. Questa disposizione, però, è stata
abrogata con l’entrata in vigore del cpa (art. 4, n. 10, allegato n. 4 al d.lgs. 104/2010), senza essere
sostituita da altre. La tesi della prevalenza del ricorso giurisdizionale non sembra invece
considerare l’ipotesi della contemporanea pendenza dei due ricorsi, quando essi abbiano
contenuti diversi.

Rimedi ammessi contro la decisione del ricorso gerarchico

La decisione del ricorso gerarchico costituisce un provvedimento definitivo. Essa pertanto è


impugnabile con ricorso straordinario oppure, se lede interessi legittimi, anche con ricorso al
giudice amministrativo (e fatta salva, in ogni caso, la tutela dei diritti davanti al giudice civile).
In quest’ultimo senso disponeva espressamente l’art. 20, comma 1 legge Tar, che però è stato
abrogato, senza che sia stata introdotta nel cpa una disciplina sostitutiva. Pertanto oggi la
possibilità di impugnare in sede giurisdizionale la decisione del ricorso gerarchico si fonda sui
principi generali sulla tutela giurisdizionale contro gli atti amministrativi. L’impugnazione della
decisione segue comunque le regole ordinarie. La giurisprudenza sostiene che il ricorso
straordinario o giurisdizionale proposto contro la decisione di rigetto di un ricorso gerarchico
non può contemplare motivi di impugnazione per vizi dell’atto di primo grado non dedotti in sede
gerarchica. Questa giurisprudenza però considera il procedimento introdotto col ricorso
gerarchico come una sorta di giudizio di primo grado rispetto all’impugnazione successiva in sede
giurisdizionale o straordinaria. La dottrina prevalente è contraria a questa impostazione, perché
gli elementi di diversità fra la tutela in via gerarchica e quella in via giurisdizionale impediscono
l’assimilazione fra i due rimedi. Se viene accolta in sede giurisdizionale l’impugnazione di una
decisione di rigetto di un ricorso gerarchico, secondo una parte della giurisprudenza il giudice
dovrebbe emettere una sentenza di annullamento con rinvio e restituire gli atti all’autorità adita
con ricorso gerarchico, se il ricorso in sede giurisdizionale sia stato accolto per motivi di forma o
di procedura della decisione amministrativa.

 Il ricorso gerarchico: il problema del silenzio

Uno dei temi centrali per lo studio dei ricorsi gerarchici è costituito dal tema del cd silenzio.
Carattere essenziale dei ricorsi amministrativi è la costituzione di un dovere di provvedere.

Art. 6 d.p.r. 1199/1971: decorso il termine di 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso
senza che l’organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli
effetti e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso ordinario all’autorità
giurisdizionale competente o quello straordinario al Presidente della Repubblica.

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Da questa disposizione si desume la fissazione di un termine di 90 giorni perché
l’amministrazione decida il ricorso gerarchico. La questione del rilievo da riconoscere al silenzio
su un ricorso gerarchico si impose praticamente subito dopo l’istituzione della Quarta sezione del
Consiglio di Stato: se il ricorso alla Quarta sezione era ammesso solo contro un provvedimento
definitivo, il silenzio poteva costituire per l’amministrazione un comodo espediente per evitare il
sindacato giurisdizionale sui propri atti. L’amministrazione, non decidendo il ricorso gerarchico,
poteva evitare l’emanazione di un provvedimento definitivo. Questa soluzione, però, risultava
profondamente ingiusta. La prima giurisprudenza della Quarta sezione prospettò la conclusione
che, in concorso con altre circostanze (in particolare, in presenza di una diffida a provvedere
notificata dal privato al cittadino), il silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non precludesse
la possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale. La Quarta sezione affermò che il ricorso
giurisdizionale doveva ritenersi ammissibile, anche nel caso in cui l’amministrazione competente,
benché diffidata, non avesse preso in esame il ricorso gerarchico del cittadino. Secondo la
dottrina e la giurisprudenza il ricorso giurisdizionale doveva ritenersi possibile, perché il silenzio
mantenuto dall’amministrazione doveva interpretarsi come reiezione del ricorso. Nel silenzio si
doveva individuare una decisione di rigetto: da qui il termine silenzio-rigetto.

Oggi in genere questo modo di ragionare non viene più condiviso, perché l’amministrazione che
tace su un ricorso non assume alcuna determinazione; perciò, nel silenzio dell’autorità adita con
un ricorso gerarchico non si può identificare alcun atto. Tuttavia non si può dimenticare che
l’interpretazione del silenzio come atto realizzava una precisa utilità, perché consentiva la tutela
giurisdizionale in casi in cui essa, altrimenti, sarebbe risultata esclusa. Nella seconda metà del 900,
soprattutto a partire dagli anni 60, il superamento dell’interpretazione tradizionale del silenzio-
rigetto, come decisione tacita di rigetto del ricorso gerarchico, ha condotto in un primo tempo ad
elaborazioni diverse ad opera del Consiglio di Stato. Soprattutto dopo la riforma del 1971
emergevano posizioni molto eterogenee: alcuni consideravano la decorrenza del termine come
una decadenza dal potere di provvedere, altri riconducevano la disciplina del silenzio su un
ricorso in quella del cd silenzio-rifiuto (o silenzio-inadempimento su una richiesta di
provvedimento, altri ancora ipotizzavano che la nuova disciplina assegnasse sì alla decorrenza del
termine un valore di rigetto, ma che comunque questa conclusione fosse temperata dalla regola
della inimpugnabilità di un tale rigetto. Finalmente, nel 1978 l’adunanza plenaria riprendeva in
esame la questione, alla luce specificamente dell’art. 6 d.p.r. 1199/1971 e di una analoga
disposizione della legge istitutiva dei Tar. L’adunanza plenaria prospettava le seguenti
conclusioni:

- Nel silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è identificabile un provvedimento di


rigetto: la legge si limita ad attribuire valore di rigetto alla decorrenza del termine

- In ogni caso, una volta formatosi il silenzio-rigetto, il ricorso giurisdizionale si può proporre
solo contro l’atto di primo grado, già impugnato in via gerarchica

- Proprio perché la decorrenza del termine ha pur sempre valore equipollente a una decisione di
rigetto, ogni eventuale decisione successiva di accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima,
perché assunta in violazione del principio ne bis in idem

- Viceversa, la decisione successiva di rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi improduttiva di
effetti giuridici nuovi e, quindi, deve considerarsi come atto meramente confermativo, di per sé
non impugnabile perché meramente riproduttivo di effetti precedenti.

Una decisione tardiva di rigetto non comportava l’inammissibilità, per sopravvenuta carenza
d’interesse, del ricorso proposto al giudice amministrativo dopo la formazione del silenzio-rigetto:
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se la decisione tardiva di rigetto deve intendersi meramente confermativa, essa non comporta
alcun onere d’impugnazione, perché non introduce elementi di novità sostanziale rispetto alla
situazione precedente. Altri problemi, però, non venivano risolti. Nel 1989 il tema fu nuovamente
preso in esame dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato: ha sostenuto che la formazione del
silenzio-rigetto non priva l’amministrazione del potere di decidere il ricorso gerarchico (e quindi
le decisioni tardiva non sono di per sé illegittime), ma consente al ricorrente di scegliere fra la
possibilità di un ricorso giurisdizionale o straordinario contro l’atto impugnato in via gerarchica,
e la possibilità di attendere la decisione del ricorso gerarchico. In questo secondo caso, alla
scadenza del termine di 90 giorni si configurava una situazione affine a quella del silenzio-rifiuto
(o silenzio-inadempimento): il cittadino, se l’amministrazione tarda a decidere, può notificare una
diffida e poi tutelarsi come nei confronti di un silenzio-rifiuto. In questo modo il cittadino può
assicurarsi una decisione sul ricorso gerarchico. È rimasto però controverso se la decisione
tardiva di rigetto comporti un onere di impugnazione.

Il silenzio-rigetto assume il ruolo di rimedio idoneo a garantire una tutela estesa al merito anche
se il ricorso giurisdizionale rimane circoscritto ai profili di mera legittimità.

È da rilevare che una giurisprudenza recente nel caso di inerzia della amministrazione sul ricorso
gerarchico tende ad escludere in ogni caso una tutela nelle forme del silenzio.

 Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione

Fra i ricorsi ordinari il ricorso gerarchico proprio è l’unico di ordine generale: non è necessario
che una disposizione di legge lo preveda, ma la sua esperibilità si desume dalla semplice
previsione di un ordinamento gerarchico fra organi. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in
opposizione sono invece rimedi eccezionali: la loro esperibilità presuppone una specifica
previsione normativa.

L’art. 1, comma 2 d.p.r. 1199/1971, sul ricorso gerarchico improprio, esclude che una tale
disposizione normativa debba essere costituita necessariamente da una disposizione di legge:
infatti sono contemplati espressamente, in alternativa alla legge, gli ordinamenti dei singoli enti.
Ciò induce a concludere che, per il legislatore italiano, le previsioni di ricorsi amministrativi non
siano oggetto di riserva di legge.

Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono modellati sul ricorso gerarchico:

- Il ricorso gerarchico improprio si caratterizza per essere diretto a un organo non


gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l’atto impugnato

- Il ricorso in opposizione è diretto allo stesso organo che ha emanato l’atto impugnato

La disciplina dei due rimedi è quella prevista per il ricorso gerarchico, salvo che per quanto
diversamente previsto da singole normative speciali. Il ricorso gerarchico improprio è previsto in
alcune materie particolari, in ipotesi nelle quali l’atto da impugnare sarebbe stato, alla stregua dei
principi, già di per sé definitivo. In queste ipotesi talvolta è ammesso ugualmente un ricorso ad
un organo diverso, anche se manca una giustificazione in un rapporto gerarchico. Sembra logico
concludere che il ricorso gerarchico improprio debba essere ammesso solo nell’ambito di una
identica amministrazione, o nell’ambito di amministrazioni riconducibili ad Enti diversi,
legati però da rapporti funzionali. Questa impostazione non è accolta, però, dal Consiglio di
Stato, che in sostanza tende a considerare con una certa larghezza la possibilità di ricorsi che
coinvolgano amministrazioni diverse. La decisione del ricorso non atterrebbe alla funzione

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amministrativa coinvolta dall’atto di primo grado, ma atterrebbe a una funzione diversa, neutra,
di garanzia del cittadino (cd funzione giustiziale).

Il ricorso in opposizione rappresenta uno strumento di limitata utilizzazione, previsto in ipotesi


molto particolari, che ricorrono soprattutto nel pubblico impiego. Lo scarso sviluppo di questo
modello di ricorso si ricollega, probabilmente, alla diffidenza verso la capacità dell’autorità che
abbia emanato l’atto impugnato di valutare in modo effettivamente imparziale il ricorso diretto
contro il proprio atto. Anche in questo caso, comunque, il ricorso dà inizio a un procedimento
contenzioso, di secondo grado, e non a un procedimento di amministrazione attiva. Appare
ragionevole che anche per il ricorso in opposizione valga la distinzione fra elementi rilevanti per
la decisione (solo quelli desumibili dal ricorso) ed elementi che possono essere presi in
considerazione solo alla luce di una funzione distinta (quelli estranei al contenuto del ricorso e
possono giustificare l’esercizio di poteri ordinari di amministrazione o di annullamento d’ufficio).

 Il ricorso straordinario

Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è ammesso contro provvedimenti


definitivi, in relazione soltanto a censure di legittimità, per l’annullamento dell’atto
impugnato. L’art. 7, comma 8 cpa ne ha circoscritto la portata alle sole vertenze che risultino
devolute al giudice amministrativo. Il ricorso straordinario è ammesso solo se la controversie sia
devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il ricorso straordinario si
caratterizza inoltre per l’attuazione più puntuale della garanzia del contraddittorio e, soprattutto,
per l’introduzione di uno strumento specifico di garanzia, rappresentato dall’intervento del
Consiglio di Stato (del Consiglio di giustizia amministrativa, nel caso di ricorso straordinario al
Presidente della Regione siciliana). La decisione del ricorso deve essere preceduta dal parere del
Consiglio di Stato (carattere vincolante). Il termine per proporre il ricorso è di 120 giorni dalla
comunicazione, notificazione, pubblicazione o piena conoscenza del provvedimento definitivo,
ovvero dalla formazione del silenzio-rigetto. Entro tale termine il ricorso straordinario, a pena di
inammissibilità, deve essere notificato ad almeno uno dei controinteressati e presentato
all’autorità amministrativa che ha emanato l’atto impugnato o al Ministero competente per
materia. Se la presentazione avviene mediante l’invio del ricorso con raccomandata a/r, la data di
spedizione vale come data di presentazione. I controinteressati, entro 60 giorni dalla
notificazione del ricorso, possono presentare deduzioni e documenti ed eventualmente un
ricorso incidentale (col quale possono contestare a loro volta la legittimità del provvedimento
impugnato). Se il ricorso è stato notificato ad almeno uno dei controinteressati, il Ministero
competente dispone l’integrazione del contraddittorio, indicando le modalità attraverso le quali
il ricorrente deve portare a conoscenza degli altri controinteressati il ricorso stesso. Su richiesta
del ricorrente, il Ministro adito può sospendere, in via cautelare, l’atto impugnato, previo parere
conforme del Consiglio di Stato. Una volta presentato il ricorso ed integrato il contraddittorio, il
Ministro competente deve procedere all’istruzione del ricorso, raccogliendo tutti gli elementi utili
per la valutazione del ricorso. L’istruttoria va completata nei 120 giorni successivi al termini per
le deduzioni dei controinteressati. Scaduto inutilmente tale termine, è consentito al ricorrente
procedere all’interpello del Ministero e successivamente depositare direttamente il ricorso presso
il Consiglio di Stato, per il parere prescritto. Una volta concluso l’istruttoria, il ricorso, con tutti
gli atti relativi, è trasmesso dal Ministro al Consiglio di Stato per il suo parere, che viene emesso
da una sezione consultiva, o dall’adunanza generale, o da commissioni speciali costituite ad hoc.
Sulla base del parere del Consiglio di Stato, il Ministro formula la sua proposta di decreto al PdR.
La decisione del ricorso straordinario è assunta con decreto del PdR, di cui, ovviamente, il
Ministro proponente assume la responsabilità. Il Ministro non ha più un effettivo potere
decisorio e la sua proposta al Presidente della Repubblica si riduce a un adempimento formale. Si
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è attribuita al Consiglio di Stato, ai fini della decisione del ricorso straordinario, la capacità di
sollevare questioni di legittimità costituzionale. La decisione del ricorso è impugnabile per
revocazione: la revocazione va proposta con ricorso da proporre nelle stesse forme del ricorso
straordinario. Inoltre, nei confronti della decisione, è ammessa l’impugnazione in sede
giurisdizionale. La legge assicura che a quanti ricevono un vantaggio qualificato dal
provvedimento impugnato debba essere notificato il ricorso, o all’inizio del procedimento, o in un
secondo tempo, in seguito a un ordine di integrazione del contraddittorio.

La garanzia del contradditorio nei confronti dei controinteressati riflette l’obiettivo di tutelare,
anche in questo procedimento, il diritto alla difesa. Il ricorso, ove non venga presentato
direttamente all’autorità non statale che abbia emanato l’atto impugnato, debba comunque essere
notificato ad essa, nello stesso termine e con le stesse modalità previste per la notifica al
controinteressato. La Corte costituzionale affermò che le stesse garanzie previste per i
controinteressati dovevano valere per l’amministrazione non statale che avesse assunto il
provvedimento impugnato. L’intervento della Corte contribuì a riconoscere un sistema di
pluralismo amministrativo: il ministro, nel decisione del ricorso straordinario, non rappresenta
l’amministrazione nel suo complesso. Il profilo più peculiare della disciplina del ricorso
straordinario è costituito dalla sua alternatività con il ricorso al giudice amministrativo: non
solo i due rimedi non possono essere proposti contro il medesimo atto, ma non vale neppure un
criterio di preferenza per il ricorso giurisdizionale e la presentazione del ricorso straordinario
preclude la proposizione del ricorso giurisdizionale. L’alternatività si spiega con l’esigenza di
evitare contrasti fra il Consiglio di Stato in sede consultiva (che deve esprimere il suo parere sul
ricorso straordinario) e il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (che in passato si pronunciava
in unico grado e oggi si esprime in grado d’appello sui ricorsi giurisdizionali). L’alternatività fra il
ricorso straordinario e il ricorso giurisdizionale comporta l’inammissibilità del ricorso al giudice
amministrativo, proposto contro il medesimo atto impugnato in via straordinaria. La preclusione
della tutela giurisdizionale non lede i diritti costituzionali del ricorrente, perché in definitiva è
riconducibile a una sua scelta, quella di agire in via straordinaria; potrebbe ledere, però, i diritti
dei controinteressati, i quali sarebbero assoggettati alla scelta del ricorrente di ottenere una
decisione in sede straordinaria e, in base al principio di alternatività, non potrebbero quindi
ottenere, sul medesimo provvedimento, una decisione giurisdizionale. Per evitare questa
conseguenza, l’art. 10 d.p.r. 1199/1971 contempla l’istituto dell’opposizione dei controinteressati:
essi, entro 60 giorni dalla notificazione del ricorso straordinario, possono chiedere che il ricorso
sia deciso in sede giurisdizionale. A questo punto il ricorrente, se vuole insistere
nell’impugnazione, ha l’onere di costituirsi entro 60 giorni avanti al Tar e di notificare avviso alle
altre parti. La facoltà riconosciuta dalla legge ai controinteressati può essere esercitata anche
dall’amministrazione non statale che abbia emanato il provvedimento impugnato. L’art. 48 cpa,
nel riconoscere la facoltà di proporre opposizione alla parte nei cui confronti sia stato proposto
ricorso straordinario, non limiti la legittimazione ad alcune amministrazioni soltanto. Si deve
pertanto concludere che oggi l’opposizione possa essere proposta anche dalle amministrazioni
statali. L’impugnazione della decisione avanti al giudice amministrativo (il Tar) è ammessa
solo per vizi di forma o di procedimento (art. 10, comma 3 d.p.r. 1199/1971): coerentemente con
le ragioni del principio di alternatività, la norma viene interpretata nel senso che tali vizi possano
riguardare solo adempimenti successivi al parere del Consiglio di Stato. La limitazione del diritto
d’azione è giustificata, nel caso del ricorrente, per il fatto che essa consegue alla sua scelta di
proporre il rimedio straordinario (anziché quello giurisdizionale) e, nel caso del controinteressato,
per il fatto che essa consegue alla scelta di non proporre l’opposizione appena esaminata. Nel
caso, invece, della parte che non sia stata posta nelle condizioni di poter proporre l’opposizione,
la regola dell’alternatività recede rispetto alla garanzia costituzionale del diritto d’azione: in
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questo caso particolare l’impugnazione è possibile per qualsiasi ordine di vizi di legittimità. Il
Consiglio di Stato è intervenuto per accelerare l’istruttoria sul ricorso straordinario, soprattutto
nei confronti dei ministeri competenti per l’istruttoria, ed ha rafforzato la garanzia del
contraddittorio. In particolare, ha riconosciuto alle parti il diritto di richiedere copia degli atti
dell’istruttoria e di ottenere la fissazione di un termine congruo per presentare successivamente
documenti e memorie. È stata introdotta così, nel procedimento, una dialettica fra le parti simile a
quella propria di un processo. Negli ultimi anni le analogie con i rimedi giurisdizionali sono state
prospettate in termini ancora più stretti: all’origine di questi sviluppi è stato il dibattito
sull’esecuzione della decisione del ricorso straordinario. In passato non era stato ammesso per
eseguire le decisioni del ricorso straordinario, proprio perché non si trattava di sentenze. Più di
recente, invece, la Cassazione e il Consiglio di Stato hanno sostenuto che il ricorso per
l’ottemperanza potrebbe essere proposto anche per l’esecuzione della decisione del ricorso
straordinario: è stato sostenuto che la decisione del ricorso straordinario, in seguito
all’attribuzione del carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, dovrebbe essere
assimilata a un atto giurisdizionale. La Cassazione parla in proposito di atto sostanzialmente
giurisdizionale; la Corte costituzionale ha parlato più prudentemente di rimedio giustiziale, con
caratteristiche però in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo.
L’assimilazione agli atti giurisdizionali sarebbe ormai così stretta da comportare che anche sulla
decisione del ricorso straordinario si formi la cosa giudicata. Nella stessa logica, la Cassazione ha
ammesso che anche le decisioni del ricorso straordinario potrebbero essere impugnate per motivi
di giurisdizione ai sensi dell’art. 111, ultimo comma Cost. La stessa possibilità per il Consiglio di
Stato, in occasione del parere sul ricorso straordinario, di sollevare una questione di legittimità
costituzionale. Questa giurisprudenza ha suscitato però alcune perplessità: è stato obiettato che il
ricorso straordinario rappresenta tipicamente un rimedio amministrativo e che la sua decisione,
nonostante le innovazioni recenti, non costituisce una pronuncia giurisdizionale. L’intervento del
Consiglio di Stato, benché sia divenuto vincolante ai fini dell’esito del ricorso, è pur sempre un
parere, e il decreto del PdR che lo recepisce non è un atto giurisdizionale.

CAPITOLO OTTAVO – QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE


AMMINISTRATIVA

 Premessa

Il ricorso alla Quarta sezione fu introdotto per estendere la tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione, offrendogli la possibilità di ottenere dal Consiglio di Stato una pronuncia
costitutiva, di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo. Il ricorso al giudice
amministrativo fu configurato innanzi tutto come mezzo di impugnazione dell’atto
amministrativo. Accanto a questo primo obiettivo, il ricorso al Consiglio di Stato ha assicurato
un obiettivo ulteriore: la garanzia dell’interesse legittimo. La configurabilità di un interesse
legittimo è il criterio fondamentale che definisce e incardina la giurisdizione amministrativa
rispetto ad una determinata controversie. Questo carattere risulta sancito dall’art 103 Cost, che
identifica la competenza generale del giudice amministrativo con la tutela nei confronti della
Pubblica amministrazione degli interessi legittimi. Di conseguenza il complesso rappresentato
dai Tar e dal Consiglio di Stato identifica il giudice ordinario degli interessi legittimi, nel senso
che rispetto agli interessi legittimi la sua competenza non può dirsi più speciale, perché è prevista
come generale dalla norma costituzionale. La tutela degli interessi legittimi è devoluta al giudice
amministrativo anche quando non sia possibile l’impugnazione di un provvedimento
amministrativo. Per le controversie sul silenzio dell’amministrazione rispetto a istanze del
cittadino venne ammesso un giudizio che prescindeva da un’impugnazione, ancorché fittizia, di
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un atto amministrativo e fu costruita un’azione dichiarativa, anche se non prevista da alcuna
disposizione di legge. Sul piano legislativo una tutela non impugnatoria nei confronti del silenzio
fu introdotta dalla legge 205/2000; oggi trova piena conferma negli artt. 31 e 34 cpa. Nel codice è
contemplata anche un’azione per la condanna al rilascio del provvedimento richiesto dal cittadino
all’amministrazione. La tutela impugnatoria risulta sostanzialmente estranea al giudizio di
ottemperanza, che è diretto a garantire l’esecuzione di una sentenza (art. 114 cpa).

Un altro elemento di complessità è rappresentato dalla giurisdizione esclusiva. In proposito, uno


dei principali obiettivi del codice è stata l’introduzione di modalità di tutela più congrue per i
diritti soggettivi: in particolare è stata prevista in via generale un’azione autonoma di condanna.
Il Consiglio di Stato aveva riconosciuto che la tutela dei diritti del cittadino, nei casi di
giurisdizione esclusiva, potesse prescindere dall’impugnazione di un provvedimento. Nel cpa
sono previste azioni diverse, talvolta articolate distinguendo fra tutela degli interessi legittimi e
tutela dei diritti soggetti, e a tali azioni corrispondono contenuti diversi delle sentenze di merito.

 Le classificazioni generali: la giurisdizione di legittimità

L’art. 7, comma 1 cpa definisce l’ambito della giurisdizione amministrativa, con formule generali
che vanno lette alla luce dell’art. 103 Cost e della giurisprudenza costituzionale recente. Lo stesso
articolo, al comma 3, conferma comunque l’articolazione tradizionale della giurisdizione
amministrativa in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito. L’art. 7,
comma 4 cpa prende in considerazione la giurisdizione di legittimità: ne definisce l’ambito
attraverso il riferimento alle vertenze concernenti atti o provvedimenti delle pubbliche
amministrazioni, a quelle concernenti omissioni e a quelle concernenti il risarcimento dei danni
per lezione di interessi legittimi. La giurisdizione di legittimità è generale proprio perché ha ad
oggetto la garanzia degli interessi legittimi, compito assegnato dalla Costituzione in via generale
alla giurisdizione amministrativa. L’art. 7, comma 4 cpa assegna in via generale al giudice
amministrativo la giurisdizione per le vertenze risarcitorie per lesioni di interessi legittimi,
anche quando esse siano proposte in via autonoma. Le domande risarcitorie, anche quando sia
stato leso un interesse legittimo, hanno ad oggetto un diritto soggettivo: il diritto al risarcimento
dei danni. Perciò il giudice amministrativo può sempre pronunciarsi con forza di giudicato sul
diritto al risarcimento dei danni cagionati dall’amministrazione in violazione di interessi legittimi.
L’assegnazione di queste vertenze risarcitorie al giudice amministrativo è coerente con la
concezione secondo cui anche il risarcimento dei danni attiene, su un piano generale, alla
garanzia degli interessi legittimi lesi. Inoltre consente di concentrare in un’unica giurisdizione le
vertenze derivanti dalla lesione di un interesse legittimo, indipendentemente dal tipo di azione
(impugnatoria o risarcitoria) concretamente esperita dal cittadino. Nei casi di giurisdizione di
legittimità, la decisione sugli interessi può comportare la necessità di un esame e di una
pronuncia anche rispetto a diritti soggettivi. La giurisprudenza si era orientata nel senso di
ammettere in questi casi un sindacato in via incidentale del giudice amministrativo sui diritti.
Oggi l’art. 8, comma 1 cpa stabilisce che, quando non vi sia giurisdizione esclusiva, il giudice
amministrativo conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o
incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione
principale. Pertanto in questi casi, anche se la questione concernente i diritti costituisce un
logico e necessario antecedente rispetto alla decisione sugli interessi legittimi, sui diritti non si
forma giudicato: il giudice amministrativo può pronunciarsi su di essi solo in via incidentale.
Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone (fatta eccezione per la
capacità di stare in giudizio, di cui ciascun giudice può decidere in via principale) e per
l’incidente di falso, ogni decisione è riservata al giudice ordinario. Infatti, si tratta di questioni
che possono essere decise solo con efficacia di giudicato; perciò non possono essere oggetto di
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cognizione, neppure soltanto in via incidentale, da parte di un giudice diverso da quello
istituzionalmente competente. Rispetto all’incidente di falso, la riserva al giudice ordinario
comporta inconvenienti non indifferenti: il giudice amministrativo, se ritiene che il documento sia
rilevante, deve sospendere il giudizio, fino a quando non passi in giudicato la sentenza del giudice
ordinario sul falso. Rispetto alla giurisdizione estesa al merito, la giurisdizione di legittimità
appare invece qualificata nel codice da una minore ampiezza dei poteri decisori del giudice. Nei
casi di giurisdizione di legittimità il giudice amministrativo, che accolga un ricorso proposto
contro un provvedimento, di regola può annullare l’atto impugnato, se lo ritenga viziato per
incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere e in alcuni casi può ordinare
all’amministrazione di emanare un provvedimento, ma non può anche sostituire l’atto impugnato
con un proprio atto.

(Segue): la giurisdizione esclusiva

Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcuni casi è assegnata al giudice
amministrativo una giurisdizione anche sui diritti soggettivi (cd giurisdizione esclusiva). In
questi casi il cittadino può agire davanti al giudice amministrativo non solo per tutelare i suoi
interessi legittimi o per ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più
in generale per tutelare i diritti soggettivi che egli vanti nei confronti di un’amministrazione. Il
giudice può quindi vertere anche su diritti soggettivi diversi dal risarcimento dei danni per
lesione di interessi legittimi. Le materie di giurisdizione esclusiva sono sempre più numerose e
importanti, come risulta anche dal loro elenco nell’art. 133 cpa.

Le ipotesi più significative di giurisdizione esclusiva oggi concernono:

- Le controversie già assegnate alla giurisdizione esclusiva dalla legge 241/1990, e succ modif (art.
133, lett. a e a-bis cpa).

Sono quelle in tema di:

a. Risarcimento del danno per inosservanza del termine per la conclusione del procedimento e
di indennità per mero ritardo nell’ultimazione del procedimento

b. Accordi pubblici

c. Segnalazione certificata di inizio attività, o di dichiarazione o denuncia di inizio attività

d. Silenzio-assenso

e. Indennizzo dovuto per la revoca di provvedimenti

f. Nullità dei provvedimenti adottati in violazione o elusione del giudicato

g. Accesso ai documenti amministrativi

- Le controversie concernenti la concessione di beni pubblici (art. 133, lett b cpa). La


giurisdizione esclusiva, che in questa materia era già stata introdotta dalla legge istitutiva dei Tar,
non si estende alle controversie concernenti indennità, canoni o corrispettivi, per le quali vale il
criterio generale di riparto fondato sulla distinzione fra le situazioni soggettive. Inoltre non si
estende alle controversie sulle concessioni di beni del demanio idrico, per le quali è competente
un giudice speciale, il Tribunale superiore delle acque

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- Varie controversie in materia di pubblici servizi (art. 133, lett c cpa). L’ambito della
giurisdizione esclusiva, in questo caso, segue i limiti imposti da Corte cost 6 luglio 2004, n 204,
che aveva circoscritto la giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi alle vertenze sulle
concessioni dei servizi (escluse quelle per indennità, canoni ed altri corrispettivi), alle vertenze
sui provvedimenti dell’amministrazione o del gestore di un pubblico servizio, alle vertenze per
l’affidamento di un pubblico servizio, nonché a quelle concernenti la vigilanza e il controllo
dell’amministrazione nei confronti del gestore. Inoltre sono assegnate alla giurisdizione esclusiva
le vertenze in tema di vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare e quelle sul
servizio farmaceutico, sui trasporti, sulle telecomunicazioni e sugli altri servizi di pubblica utilità

- Le controversie relative alle procedure per l’affidamento di contratti di lavori, servizi o forniture
da parte delle amministrazioni, ovvero da parte di soggetti privati che siano però tenuti, in base
alla legge, ad applicare la normativa comunitaria o procedimenti di evidenza pubblica nella scelta
del contraente o del socio (art. 133, lett e cpa). La giurisdizione esclusiva riguarda solo le
procedure di affidamento: non si estende alle vertenze relative all’esecuzione del contratto. Si
estende alla dichiarazione di inefficacia del contratto in seguito all’annullamento
dell’aggiudicazione, nonché alle sanzioni cd alternative applicate anche d’ufficio dal giudice che
accerti l’omissione delle procedure di evidenza pubblica

- Le controversie concernenti atti o provvedimenti in materia di urbanistica e di edilizia (art. 133


lett f cpa). La giurisdizione esclusiva è prevista sia per le vertenza con l’amministrazione in
materia di edilizia (permessi di costruire, contributi, sanzioni amministrative ecc), sia per quelle
in materia urbanistica (piani regolatori, convenzioni urbanistiche ecc)

- Le controversie in materia di occupazioni d’urgenza o espropriazioni per pubblica utilità,


escluse le vertenze in tema di indennità di occupazione o di esproprio (art. 133, lett g cpa). Sono
devolute alla giurisdizione esclusiva anche le vertenze concernenti i comportamenti delle
amministrazioni pubbliche che siano però riconducibili almeno in via mediata all’esercizio del
potere amministrativo

- Le controversi relative ai rapporti di lavoro del personale in regime pubblicistico (cd pubblico
impiego) (art. 133, lett. i cpa). La disciplina del pubblico impiego ormai riguarda solo i
dipendenti (di enti pubblici) con un rapporto di lavoro non contrattuale

- Le controversie concernenti i provvedimenti adottati dalla Banca d’Italia, da alcune Autorità


indipendenti (Autorità garante per la concorrenza e il mercato, Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, Autorità per l’energia elettrica e il gas, Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici ecc), da alcuni organismi del settore finanziario, e da alcune agenzie nazionali (art. 133,
lett l, z-ter e z-quater cpa). La giurisdizione esclusiva non si estende però ai ricorsi contro
provvedimenti sanzionatori della Consob e della Banca d’Italia.

- Le controversie concernenti i provvedimenti dell’Autorità per le garanzie nelle


telecomunicazioni e i provvedimenti adottati dal Ministero delle comunicazioni in base al Codice
delle comunicazioni elettroniche, nonché le controversie in tema di assegnazione delle frequenze
televisive (art. 133, lett m cpa)

- Le controversie concernenti le procedure amministrative in tema di impianti di produzione e


infrastrutture di trasporto di energia (art. 133, lett o cpa)

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- Le controversie concernenti i provvedimenti commissariali nelle situazioni di emergenza
dichiarate ai sensi della legge 225/1992, in tema di protezione civile, e quelle concernenti l’azione
amministrativa complessiva di gestione del ciclo dei rifiuti (art. 133, lett p cpa)

- Le controversie concernenti i provvedimenti del Sindaco in materia di ordine e sicurezza


pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di edilità e polizia locale, d’igiene
pubblica e dell’abitato (art. 133, lett q cpa)

- Le controversie concernenti provvedimenti ministeriali di ripristino ambientale e di


risarcimento di danni ambientali (art. 133, lett v cpa)

- I ricorsi contro gli atti del CONI e delle Federazioni sportive che non abbiano una rilevanza
circoscritta solo all’ordinamento sportivo e che perciò non siano riservati agli organi di giustizia
sportiva (art. 133, lett z cpa)

- Le controversie concernenti la concessione di aiuti di Stato in violazione del TFUE e quelle


relative ai provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione della Commissione europea di
recupero di tali aiuti (art. 133, lett z-sexies cpa) Inoltre sono devoluti alla giurisdizione esclusiva i
ricorsi previsti dal d.lgs. 198/2009, per porre rimedio all’inefficienza dell’amministrazione e dei
concessionari di pubblici servizi. Questi ricorsi, però, non sono presi in considerazione nel cpa.

Nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo può pronunciarsi, con efficacia di


giudicato, sia su interessi legittimi che su diritti soggettivi, ferma restando la competenza del
giudice ordinario per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per l’incidente
di falso. La competenza del giudice amministrativo, nelle materie devolute alla giurisdizione
esclusiva, si estende inoltre alle domanda risarcitorie, sia per lesione di diritti soggettivi che per
lesione di interessi legittimi. In base al codice la giurisdizione esclusiva non incontra come limite
il carattere perfetto o costituzionalmente tutelato del diritto fatto valere in giudizio. L’ampiezza
raggiunta dalla giurisdizione esclusiva comporta con maggiore frequenza che il giudizio
amministrativo sia promosso non da un soggetto privato contro un’amministrazione, ma da
un’amministrazione contro un privato, o da un soggetto privato contro un altro privato. Questi
casi meritano particolare attenzione, dato che la norma costituzionale assegna al giudice
amministrativo la tutela nei confronti della Pubblica amministrazione. Di conseguenza
l’assegnazione al giudice amministrativo di vertenze promosse contro soggetti privati va valutata
sulla base di canoni rigorosi di coerenza e di ragionevolezza: in pratica, può ammettersi solo in
casi particolari, rispetto ai quali sia tendenzialmente indifferente che il rapporto controverso
intercorra con amministrazioni o invece con privati. In altri casi l’assegnazione al giudice
amministrativo di vertenze promosse contro privati è giustificata dal fatto che il privato svolge
attività omogenee a quelle che può svolgere tipicamente un’amministrazione. In questi casi
l’attività del privato è soggetta a una disciplina pubblicistica; perciò è ragionevole che sia
assoggettata anche alla tutela giurisdizionale prevista nei confronti degli atti amministrativi. Ne è
esempio la devoluzione al giudice amministrativo in via esclusiva delle controversie sul diritto
d’accesso, anche quando siano promosse nei confronti di privati gestori di pubblici servizi, o
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario.

 La giurisdizione esclusiva nel cpa: problemi aperti e nuove prospettive

Il riparto fra giudice amministrativo e giudice ordinario, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva,
segue il criterio della materia (art. 7, comma 5 cpa). Le vertenze riconducibili a quella certa
materia vanno proposte avanti al giudice amministrativo, anche se il cittadino faccia valere in
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giudizio un diritto soggettivo. Non è sempre agevole, però, stabilire se la vertenza inerisca o
meno a una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva. Anche nel codice le disposizioni sulla
giurisdizione esclusiva non sono omogenee e rispecchiano una nozione di materia non uniforme.
Nell’art. 133 cpa in alcuni casi la devoluzione al giudice amministrativo è prevista rispetto a una
generalità di controversie, definite semplicemente per l’inerenza a un istituto generale,
comprensivo di una serie di rapporti giuridici diversi (es pubblico impiego); in altri casi, invece, è
disposta rispetto a istituti specifici (es tutela del diritto d’accesso) o rispetto a singoli
procedimenti o provvedimento). Anche gli istituti contemplati non sono omogenei: sono
considerati atti e provvedimenti unilaterali, ma anche accordi, in alcuni casi semplicemente
condotte comunque riconducibili a espressioni del potere amministrativo, talvolta vertenze di
ogni genere purché inerenti alla materia; compare anche una figura marcatamente non
provvedimentale e posta in essere da un privato, come la segnalazione certificata di inizio attività.
Anche rispetto a situazioni simili le previsioni di giurisdizione esclusiva risultano invece
eterogenee: per esempio, la giurisdizione esclusiva in materia di contratti pubblici non si estende
alla fase esecutiva del contratto, mentre nel caso degli accordi pubblici non incontra limiti
analoghi e nel caso delle concessioni amministrative incontra limiti di tutt’altro ordine. Di fronte
a queste difficoltà in passato Cassazione e Consiglio di Stato avevano dibattuto soprattutto sulla
possibilità di adottare criteri estensivi o restrittivi per la lettura delle previsioni di giurisdizione
esclusiva. In realtà centrale fu l’intervento alla Corte costituzionale, che con la sentenza 6 luglio
2004, n 204, sottolineò l’esigenza di una interpretazione della giurisdizione esclusiva rispettosa
dell’art. 103 Cost. Secondo la Corte, l’assegnazione di materie, da parte del legislatore, alla
giurisdizione esclusiva deve presupporre una relazione fra l’ambito devoluto alla giurisdizione
esclusiva e un potere amministrativo. Lo stesso criterio fu confermato da Corte cost 11 maggio
2006, n. 191, che però ritenne sufficiente che tale relazione fosse mediata. Alla luce di quanto
affermato dalla Corte costituzionale nel 2004, appare più difficile ammettere, nei casi dubbi, la
devoluzione di una vertenza al giudice amministrativo, quando rispetto all’oggetto della vertenza
non sia rilevante l’espressione di un potere dell’amministrazione.

Questa conclusione richiede, però, alcuni chiarimenti. In primo luogo la Corte costituzionale non
ha considerato come potere amministrativo solo quello che si esprime in via unilaterale,
attraverso provvedimenti. La Corte ha riconosciuto espressamente che anche gli accordi pubblici
sono riconducibili al potere amministrativo. In secondo luogo la Corte non ha inteso limitare la
giurisdizione esclusiva alle sole vertenze che investano direttamente un potere amministrativo.
Salvo che nel caso di accordi pubblici o di altri istituti analoghi, il potere amministrativo si
esprime normalmente attraverso atti amministrativi e rispetto ad essi la situazione soggettiva del
cittadino è in genere di interesse legittimo, non di diritto soggettivo. La possibilità di una
giurisdizione amministrativa estesa ai diritti è ammessa espressamente dalla Costituzione e della
giurisdizione esclusiva è ormai una componente naturale anche la tutela rispetto agli atti
paritetici, che non sono esercizio di un potere. I problemi maggiori in tema di giurisdizione
esclusiva concernono però l’ampiezza e l’effettività della tutela dei diritti soggettivi nella
giurisdizione amministrativa. Il criterio della materia, per la giurisdizione esclusiva, comporta che
tutte le vertenza fra il cittadino e l’amministrazione inerenti a quella materia siano devolute al
giudice amministrativo, senza che sia determinante l’individuazione di un interesse legittimo o di
un diritto soggettivo. Infatti, se il cittadino è leso in un suo interesse legittimo da un
provvedimento, la sua impugnazione secondo le regole generali non subisce deroga per il fatto
che la vertenza inerisca a una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva. Inoltre il giudice
amministrativo, anche quando sussista la giurisdizione esclusiva e siano in gioco diritti, non è
soggetto alle limitazioni stabilite dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo, perché esse sono dettate per il giudice ordinario. Di conseguenza il giudice
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amministrativo, anche nelle materia di giurisdizione esclusiva, se accoglie il ricorso contro un
provvedimento, annulla l’atto impugnato e non può procedere alla disapplicazione, che è rimedio
alternativo all’impugnazione e all’annullamento. La giurisprudenza amministrativa ha parlato di
una possibilità di disapplicazione di atti regolamentari, specie nelle vertenze su diritti soggetti,
ma riferendosi in genere a casi nei quali l’atto regolamentare risultava già di per sé improduttivo
di effetti, perché era in contraddizione con quanto disposto puntualmente per la medesima
situazione da una legge (cd disapplicazione normativa). Maggiori problemi sono sorti nel caso in
cui il cittadino sia leso non da un provvedimento, ma da comportamenti non riconducibili alla
titolarità di un potere: si pensi all’inadempimento di un’obbligazione da parte
dell’amministrazione. La disciplina del processo amministrativo, allora dettata dal tu Cons Stato
del 1924, prevedeva sempre che il giudizio fosse introdotto con un ricorso contro un
provvedimento, da proporre entro un termine di decadenza, decorrente dalla comunicazione o
dalla conoscenza del provvedimento lesivo. Nessuna disposizione considerava, invece, l’ipotesi di
un diritto fatto valere senza che vi fosse un provvedimento da impugnare. Il Consiglio di Stato
superò l’equivalenza fra ricorso al giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento,
elaborando la distinzione fra provvedimenti e atti paritetici. Quando sia in discussione un diritto
soggettivo del cittadino e l’atto dell’amministrazione non costituisca l’esercizio di un potere, ma
sia meramente ripetitivo di un assetto già stabilito dalla norma, allora non è richiesta
l’impugnazione dell’atto, perché comunque la posizione soggettiva fatta valere in giudizio non
dipende da esso. Si pensi alla vertenza promossa dall’impiegato pubblico nei confronti
dell’amministrazione che si rifiuti di corrispondergli la retribuzione dovuta. Il rifiuto
dell’amministrazione, in questo caso non è un provvedimento che esprima la posizione di potere
di un’autorità pubblica, ma è un ATTO PARITETICO, ossia un atto o un comportamento posto
in essere dall’amministrazione come avrebbe potuto porlo in essere un soggetto di diritto comune.
In presenza di un atto paritetico non vi è necessità di impugnare l’atto dell’amministrazione e il
ricorso non è neppure soggetto a un termine di decadenza. La vicenda degli atti paritetici
rifletteva la difficoltà di una tutela adeguata dei diritti soggettivi nel processo amministrativo. Il
Consiglio di Stato, con la sua innovazione pretoria, attraverso la nozione di atto paritetico
configurò, in un ambito non marginale, un processo svincolato da un rigido modello
impugnatorio e superò, per le vertenze concernenti diritti soggettivi non pregiudicati da
provvedimenti, la necessità di proporre ricorso entro termini di decadenza. Tuttavia il termine
per il ricorso non era l’unico elemento della disciplina del processo amministrativo che non
risultava adeguato per la tutela dei diritti. Oggi, soprattutto per l’estensione della giurisdizione
esclusiva operata nell’ultimo ventennio, solo parzialmente circoscritta dagli interventi della Corte
costituzionale degli anni 2004-2006, l’esigenza di assicurare una tutela efficace dei diritti anche
nella giurisdizione esclusiva è diventata ancora più stringente. A tale esigenza ha dato una prima
risposta il codice, riprendendo e sviluppando motivi già presenti nella legge 105/2000. La tutela
dei diritti è arricchita dall’ampiezza riconosciuta alle misure cautelati, dal nuovo quadro dei
mezzi istruttori, dalla disciplina del procedimento per ingiunzione, soprattutto dalla previsione
generale di sentenze di condanna. In questo modo sembra trovare riscontro il criterio secondo
cui la tutela dei diritti soggettivi assegnati alla giurisdizione esclusiva non deve essere
qualitativamente inferiore a quella offerta dal giudice civile. In una prospettiva analoga l’art 12
cpa consente la devoluzione ad arbitrato (rituale di diritto) delle vertenze su diritti assegnate alla
giurisdizione esclusiva. Queste innovazioni non comportano, però, che nel giudizio
amministrativo possano essere esperite, a tutela dei diritti, tutte le azioni ammesse dal cpc: alcuni
istituti specifici della tutela dei diritti rimangono ancora oggi circoscritti al processo civile.
L’assegnazione della tutela di un diritto al giudice amministrativo può quindi incidere tuttora sui
contenuti della tutela. La devoluzione di una vertenza su diritti alla giurisdizione esclusiva
comporta che l’ultima parola sull’interpretazione delle norme applicabili alla vertenza spetti al
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Consiglio di Stato, e non alla Cassazione. Infatti, in base all’art. 111 Cost, il ricorso contro le
decisioni del Consiglio di Stato alla Corte di cassazione è ammesso solo per motivi di
giurisdizione, e non per violazione di legge.

 Le classificazioni generali: la giurisdizione estesa al merito

La legge Crispi del 1889 e soprattutto la riforma del 1907 consideravano, accanto all’ipotesi
generale costituita dalla giurisdizione di legittimità, anche ipotesi particolari, rappresentate da
controversie per le quali il giudice amministrativo decide pronunciando anche in merito ed aveva,
perciò, poteri più ampi di quelli ordinari. Dopo l’istituzione della giurisdizione esclusiva, in
alcuni casi particolari anche la giurisdizione sui diritti fu associata alla giurisdizione di merito. In
questo modo, mentre la giurisdizione di legittimità identificava la modalità generale di tutela degli
interessi legittimi, la giurisdizione di merito identificava una modalità particolare di tutela che
poteva riguardare, oltre agli interessi legittimi, anche diritti soggettivi. La stessa soluzione è stata
attuata nel cpa, dove l’estensione della giurisdizione al merito non è limitata alla tutela degli
interessi legittimi. L’estensione riguarda ipotesi particolari, corrispondenti alla cd giurisdizione di
merito, rappresentate da alcuni ordini di controversie inerenti spesso a diritti soggettivi. Il codice
le ha sensibilmente ridotte di numero e le ha elencate tassativamente nell’art. 134 cpa.

I casi di giurisdizione di merito hanno pertanto carattere di eccezionalità e non sono passibili di
interpretazione analogica.

- I ricorsi per l’attuazione delle pronunce giurisdizionali del giudice civile o del giudice
amministrativo (art. 134, lett a cpa). Sono i ricorsi che introducono il giudizio di ottemperanza,
disciplinato oggi dagli artt. 112 ss cpa

- I ricorsi contro gli atti e le operazioni in materia elettorale, quando il contenzioso sia devoluto al
giudice amministrativo (art. 134, lett b cpa)

- I ricorsi contro le sanzioni amministrative pecuniarie, nei casi particolari in cui la tutela rispetto
ad esse sia devoluta al giudice amministrativo (art. 134, lett c cpa). La giurisdizione sulle sanzioni
amministrative pecuniarie di regola spetta al giudice ordinario, perché concerne diritti soggettivi;
tuttavia in alcune ipotesi, come nel caso delle sanzioni di competenza di Autorità indipendenti, è
devoluta in via esclusiva al giudice amministrativo

- I ricorsi in materia di contestazioni sui confini degli enti territoriali (art. 134, lett d cpa)

- I ricorsi contro il diniego di nulla-osta per la cd censura cinematografica (art. 134, lett e cpa) I
caratteri generali della giurisdizione di merito non erano chiari e furono oggetto di varie
interpretazioni, riconducibili a due concezioni diverse:

Una prima interpretazione riteneva che la giurisdizione di merito si caratterizzasse, rispetto alla
giurisdizione di legittimità, per il fatto che l’impugnazione del provvedimento amministrativo
sarebbe stata ammessa, oltre che per vizi di legittimità (incompetenza, violazione di legge ed
eccesso di potere), anche per vizi di merito.

Una seconda interpretazione prendeva invece le mosse dalla distinzione istituzionale fra
amministrazione e giudice amministrativo. Nei casi di giurisdizione di merito il giudice
amministrativo non potrebbe conoscere e decidere su vizi diversi da quelli di legittimità. I poteri
più ampi riconosciuti al giudice amministrativo consentirebbero al giudice, oltre che annullare
l’atto impugnato, anche di introdurre lui stesso nell’atto le modifiche direttamente conseguenti
all’accertamento delle legittimità riscontrate. Nel cpa la giurisdizione di merito risulta
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caratterizzata per l’ampiezza dei poteri decisori del giudice: nell’esercizio della giurisdizione di
merito, il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione (art. 7, comma 6 cpa). Di
conseguenza negli stessi casi il giudice, se accoglie il ricorso, adotta un nuovo atto, ovvero
modifica o riforma quello impugnato (art. 34, comma 1 lett d cpa).

In conclusione la giurisdizione di merito è contraddistinta oggi dalla capacità del giudice


amministrativo di adottare pronunce che possono sostituire il contenuto dell’atto impugnato, e
non solo di annullare l’atto impugnato o di ordinare all’amministrazione di emanare un
provvedimento dovuto. Viceversa, per quanto attiene all’oggetto della cognizione, le differenze
rispetto alla giurisdizione di legittimità sembrano limitate. Il riferimento ai vizi di merito, come
oggetto del sindacato del giudice, appare superato. Non è invece superato il problema di fondo
che attiene ai rapporti fra giurisdizione amministrativa e attività amministrativa, nei casi di
giurisdizione di merito. Il tema ha un rilievo attuale essenzialmente per il giudizio di
ottemperanza (gli altri casi di giurisdizione di merito non vertono su attività discrezionali
dell’amministrazione): nel giudizio di ottemperanza in discussione può essere anche una
inottemperanza a un giudicato che richieda attività discrezionali. Anche in questi casi il giudice
amministrativo può intervenire in via sostitutiva. Il cpa non pone limiti particolari al potere del
giudice di adottare pronunce sostitutive in sede di ottemperanza.

CAPITOLO NONO – L’AZIONE NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

 Le condizioni generali per l’azione nel processo amministrativo

Tradizionalmente, per il processo amministrativo la dottrina e la giurisprudenza richiamano,


come condizioni generali per l’azione, l’interesse a ricorrere e la legittimazione a ricorrere in capo
a chi promuova il giudizio (ricorrente). Sono designate condizioni generali dell’azione perché il
giudice, una volta verificata la valida instaurazione del processo, deve accertare la loro
sussistenza al fine di poter procedere poi all’esame del merito della domanda.

Legittimazione a ricorrere. La legittimazione a ricorrere è ricondotta in genere alla titolarità di


posizioni di INTERESSE QUALIFICATO: interesse legittimo (ivi compreso l’interesse
collettivo) o anche diritto soggettivo nel caso della giurisdizione esclusiva. Nel codice talvolta
queste posizioni sono designate in modo generico: dal contesto si desume, però, che si tratta
sempre di un interesse qualificato. La legittimazione a ricorrere viene interpretata dalla
giurisprudenza amministrativa non come affermazione della titolarità della posizione qualificata
necessaria ai fini del ricorso (ossia, di regola, l’interesse legittimo, nei casi di giurisdizione
esclusiva anche il diritto soggettivo), ma come effettiva titolarità di tale posizione. Pertanto il
giudice amministrativo, quando accerta che il ricorrente non è titolare di tale posizione
qualificata, dichiara il ricorso inammissibile, e non infondato. In questo modo la pronuncia di
inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione a ricorrere non è semplicemente una
pronuncia di rito, ma comporta un accertamento negativo di una posizione soggettiva di ordine
sostanziale. In alcune ipotesi la legittimazione a ricorrere è costituita semplicemente da una
condizione formale del ricorrente, e non dall’affermazione o dalla titolarità di un interesse
qualificato. Ciò si verifica, in particolare, nel caso delle AZIONI POPOLARI, per le quali la
legittimazione a ricorrere si identifica con la qualità generica di cittadino, o con l’iscrizione nelle
liste elettorali di un determinato Comune. Queste azioni si riscontrano in particolare nel
contenzioso elettorale: l’attribuzione della legittimazione a ricorrere a ciascun elettore attua
un’esigenza essenziale per un ordinamento democratico, di garanzia della legalità nelle operazioni
elettorali.

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Alle azioni popolari vengono accostate alcune previsioni sulla tutela di INTERESSI DIFFUSI.
In queste ipotesi la legittimazione a ricorrere è talvolta attribuita direttamente dalla legge ad
associazioni operanti nel settore, identificate sulla base di criteri oggettivi. In questo modo la
legge ha inteso assegnare alle associazioni una particolare legittimazione ad agire.

La rilevanza riconosciuta a certe associazioni ai fini della legittimazione a ricorrere a tutela degli
interessi diffusi può richiamare, per alcuni profili, la situazione esaminata a proposito della tutela
degli INTERESSI COLLETTIVI: anche in presenza di interessi collettivi frequentemente ad
agire è l’associazione che rappresenta gli interessi della categoria in questione. I due modelli, però,
presentano divergenze sostanziali: - Nel caso dell’interesse collettivo la legittimazione
riconosciuta all’associazioni si cumula con quella del singolo appartenente alla categoria
interessata: è perciò una legittimazione aggiuntiva, dato che ciascun appartenente alla categoria
può ricorrere autonomamente, a tutela del proprio interesse legittimo

Nel caso dell’interesse diffuso la legittimazione dell’associazione non è fungibile con quella del
singolo, perché l’interesse diffuso riguarda la generalità dei soggetti e pertanto non ha un titolare
individuale. L’attribuzione della legittimazione a ricorrere ad alcune associazioni qualificate vale
appunto ad evitare che interessi importanti possano rimanere privi di una garanzia
giurisdizionale. Ovviamente, ciò non esclude che in concreto l’atto amministrativo possa risultare
idoneo a ledere, oltre un interesse diffuso, anche un interesse legittimo del singolo: in questo caso,
oltre all’associazione, può agire in giudizio anche il singolo cittadino. Nella legislazione più
recente si riscontra anche una tendenza ad assegnare ad alcune associazioni di categoria una
legittimazione più ampia rispetto alla mera tutela di interessi collettivi: a queste associazioni viene
conferito un ruolo suppletivo di portata più generale. Il cd statuto delle imprese (legge 180/2011),
dopo aver assegnato alle associazioni di categoria rappresentate in almeno 5 camere di
commercio o nel C.n.e.l. la legittimazione a ricorrere a tutela degli interessi della generalità dei
soggetti appartenenti alla categoria, ha stabilito che l’azione può essere proposta anche a tutela di
interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti, ed ha attribuito alle associazioni di categoria
maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale la legittimazione ad
impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi. Infine, alcune disposizioni
attribuiscono a determinati organi amministrativi la possibilità di impugnare un atto di
un’amministrazione avanti al Tar, indipendentemente dal coinvolgimento di un loro interesse
specifico (cd legittimazione ex lege).

Interesse a ricorrere. Richiamandosi al principio sancito dall’art. 100 cpc la giurisprudenza


amministrativa identifica, come condizione generale per l’azione, un interesse a ricorrere, inteso
non genericamente nei termini della idoneità dell’azione a realizzare il risultato perseguito, ma
più specificamente come interesse proprio del ricorrente al conseguimento di una utilità o di
un vantaggio (materiale o, in certi casi, morale) attraverso il processo amministrativo.
Secondo il Consiglio di Stato nel processo amministrativo l’interesse a ricorrere assumerebbe
sempre una rilevanza concreta, eccettuato forse il caso dell’azione di condanna, nella quale risulta
sempre implicito. In particolare, secondo la giurisprudenza amministrativa, l’interesse a ricorrere
avrebbe una specifica rilevanza anche nelle azioni costitutive, con la conseguenza che in alcune
ipotesi, pur essendo configurabile la legione di un interesse legittimo, non sarebbe assicurata una
tutela giurisdizionale per mancanza dell’interesse a ricorrere. Il risultato utile che il ricorrente
deve dimostrare di poter conseguire ai fine dell’interesse a ricorrere non si identifica con la
semplice garanzia dell’interesse legittimo. Risultato utile potrebbe essere solo il conseguimento di
una posizione di vantaggio, non necessariamente identificabile con la ripristinazione dell’interesse
legittimo. Un risultato utile, per il ricorrente, può essere anche soltanto il ripristino della
possibilità di ottenere il bene cui egli aspira.
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Dell’interesse a ricorrere vengono predicati gli attributi di:

- Personalità: il risultato di vantaggio deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente)

- Attualità: l’interesse deve poter sussistere al momento del ricorso. Non è sufficiente configurare
l’eventualità o l’ipotesi di una lesione

- Concretezza: l’interesse a ricorrere va valutato con riferimento a un pregiudizio concretamente


verificatosi ai danni del ricorrente

Sulla base di questi elementi viene ricondotta alla carenza d’interesse l’esclusione della possibilità
di impugnare in via autonoma o immediata alcuni atti amministrativi, come gli atti preparatori
(pareri), gli atti interni (circolari), gli atti non ancora efficaci (atti ancora soggetti a controllo
preventivo), gli atti normativi (regolamenti), gli atti confermativi di atti precedenti. In tutti questi
casi l’interesse a ricorrere sarebbe insussistente, rispettivamente, perché la lesione può essere
prodotta solo dal provvedimento conclusivo del procedimento, ovvero solo da un atto produttivo
di effetti esterni, ovvero solo da un atto che sia divenuto efficace, ovvero solo in presenza di un
atto applicativo, ovvero perché l’impugnazione dell’atto confermativo non travolgerebbe l’atto
precedente, col risultato che gli effetti lesivi dell’atto confermato resterebbero comunque fermi.
Se l’atto amministrativo non produce effetti giuridici esterni o non ha comunque un’attitudine
lesiva, non viene riconosciuto neppure un interesse a ricorrere nei suoi confronti. Inoltre,
l’interesse deve permanere fino al momento della decisione del ricorso (cd interesse alla
decisione). L’interesse processuale del ricorrente condiziona l’esercizio dell’azione in ogni
momento, anche nelle fasi successive alla presentazione del ricorso. Pertanto, se nel corso del
giudizio di verifica un mutamento della situazione di fatto o di diritto, tale da escludere che
l’accoglimento del ricorso possa comportare un risultato utile al cittadino, il ricorso viene
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse. Tuttavia, da quando si ammette
il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, l’improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza d’interesse dovrebbe essere dichiarata più raramente. E il codice ha
riconosciuto che l’interesse alla decisione può essere costituito anche solo dall’interesse
all’accertamento della illegittimità del provvedimento ai fini di un risarcimento del danno.
Pertanto, se l’atto impugnato ha esaurito i suoi effetti, ma ha comunque prodotto un pregiudizio,
il ricorrente in molti casi conserva un interesse a una decisione sul merito del ricorso, seppur
circoscritta all’accertamento della illegittimità dell’atto. Queste considerazioni evidenziano la
problematicità della figura dell’interesse a ricorrere nel processo amministrativo.

Alcuni hanno proposto o l’assimilazione delle due figure (interesse a ricorrere e interesse
legittimo) o una nozione di interesse legittimo tale da assorbire quella tradizionale di interesse a
ricorrere. Quest’ultima tesi si ricollega particolarmente alla teoria dell’interesse legittimo inteso
come posizione di vantaggio che comprenderebbe, come proprio bene della vita, quell’interesse a
un risultato utile che viene risolto tradizionalmente nell’interesse a ricorrere. Tale interesse
dovrebbe rilevare su un piano diverso, e precisamente ai fini della identificazione e della titolarità
dell’interesse legittimo. Di conseguenza, i casi in cui l’inammissibilità dell’azione viene ricondotta
alla carenza di interesse attuale ad agire dovrebbero essere meglio ricondotti o a una mancanza di
interesse legittimo, o al fatto che la lesione dell’interesse legittimo non si è ancora perfezionata.

La giurisprudenza e la dottrina prevalente sono invece ferme nel distinguere fra i due ordini di
interesse e nel ritenere l’interesse a ricorrere una figura rilevante in una logica specificamente
processuale. Appare comunque superflua la verifica dell’interesse a ricorrere nel caso di
impugnazione di provvedimento che abbiano comportato l’estinzione di diritti. In questo caso,
infatti, l’annullamento del provvedimento determina sempre un’utilità per il ricorrente,
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rappresentata dal ripristino del suo diritto originario, rendendo così del tutto inutile ogni
ulteriore indagine sull’interesse a ricorrere.

 La tipologia delle azioni nel processo amministrativo

Anche nella giurisdizione amministrativa si possono identificare un processo di cognizione e un


processo di esecuzione (che si identifica col giudizio di ottemperanza). Nel processo di
cognizione può avere ingresso una fase cautelare. Nel corso della redazione del cpa fu proposto
di accogliere abbastanza fedelmente la classificazione del processo civile (azioni di mero
accertamento, azioni costitutive e azioni di condanna), che era richiamata anche nella legge di
delega: l’art. 44 legge 69/2009 stabiliva che avrebbero dovuto essere previste le pronunce
dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Nel teso finale del codice:

- Nel capo dedicato alle azioni di cognizione è scomparso il riferimento all’azione di accertamento
in generale (è disciplina invece l’azione per la declaratoria di nullità dell’atto amministrativo)

- L’azione costitutiva è risolta nell’azione di annullamento

- È considerata l’azione di condanna

- È disciplinata autonomamente l’azione nei confronti del silenzio Il quadro nel codice è
completato da alcune azioni previste dal libro quarto nei riti speciali (nel giudizio sull’accesso; nei
giudizi sulle procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici, ecc).

Il codice, negli articoli dedicati specificamente alle azioni (artt. 29-31), non ha carattere di
sistematicità e di completezza. In particolare l’azione di accertamento dei diritti non è neppure
menzionata: questa azione, però, si deve ammettere anche oggi, perché era già assolutamente
consolidata e non è pensabile che il codice abbia inteso escluderla. Alcuni autori hanno sostenuto
che si dovrebbero ammettere tutte le azioni più appropriate per la tutela delle pretese giuridiche
del ricorrente, indipendentemente dal fatto che tali azioni siano espressamente previste dal codice
o da altre leggi. L’azione ha come obiettivo istituzionale quello di consentire alla parte di
ricorrere al giudice per vedere riconosciuto e realizzato un interesse qualificato che sia rimasto
insoddisfatto (cd principio di effettività della tutela giurisdizionale).

Secondo altri autori, invece, la circostanza che nel testo del codice promulgato nel 2010 non fosse
stata prevista, in via generale, un’azione di adempimento avrebbe avuto un significato pregnante,
perché nel nostro ordinamento la definizione dei modelli di tutela è demandata al legislatore. Sul
piano pratico il dibattito ha perso rilievo in seguito alla modifica all’art. 34, comma 1 lett c) cpa,
introdotta dal d.lgs. 160/2012. Per effetto di questa modifica l’azione di adempimento risulta
prevista in termini inequivocabili.

L’assetto delle azioni esperibili nel processo amministrativo va definito tenendo comunque conto
del principio, sancito dal codice (art. 34, comma 2 cpa), in base al quale in nessun caso il giudice
può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Sono escluse
azioni dirette ad accertare le modalità di un’azione amministrativa futura, o comunque non
attuale. Il giudizio sul silenzio attiene alla inosservanza di un dovere di provvedere già
pienamente maturato; di conseguenza anche in questo caso la tutela giurisdizionale nei confronti
di un potere amministrativo è successiva e il requisito dell’attualità è rispettato. Nel processo
amministrativo assumono rilievo anche fattori ulteriori, attinenti, oltre che alle ragioni specifiche
degli interessi legittimi, anche alla presenza, per l’esecuzione, del giudizio di ottemperanza. In
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particolare, quest’ultimo si differenzia sensibilmente dal giudizio civile di esecuzione forzata,
quanto a presupposti: non è necessario un titolo esecutivo (come invece richiede l’art. 474 83 cpc),
e di conseguenza non è neppure necessario che la sentenza da eseguire sia una sentenza di
condanna. Inoltre ha modalità di attuazione specifiche: inerisce alla giurisdizione di merito e
perciò consente un intervento tipicamente sostitutivo del giudice amministrativo rispetto
all’amministrazione. Nei giudizi promossi a tutela di interessi legittimi l’azione costitutiva si
risolve nell’impugnazione del provvedimento lesivo. In questo modo col ricorso viene richiesto
al giudice amministrativo l’annullamento del provvedimento impugnato (art. 29 cpa). Nei casi di
giurisdizione di merito, inoltre, può essere richiesta una sentenza costitutiva che si traduce in un
intervento sostitutivo del giudice, con le caratteristiche già descritte. Sempre nei giudizi promossi
a tutela di interessi legittimi, prima del codice la giurisprudenza escludeva l’azione di
accertamento nei casi in cui fosse stata esperibile l’azione di annullamento e questo principio è
oggi sancito puntualmente nel codice: art. 34, comma 2 cpa il giudice non può conoscere della
legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento. La
contestazione della legittimità di un provvedimento amministrativo può essere svolta solo
attraverso un’azione costitutiva, impugnando il provvedimento per chiederne l’annullamento,
e se è ammessa un’impugnazione non è consentita un’azione di mero accertamento.

Inoltre il codice ammette che un’azione diretta ad ottenere una pronuncia del giudice che
imponga all’amministrazione di emanare il provvedimento richiesto. Essa ha specifico rilievo nel
giudizio sul silenzio ed oggi anche nel giudizio promosso contro un provvedimento negativo. In
quest’ultimo caso, però, può essere proposta solo congiuntamente all’azione di annullamento.

Rispetto ai giudizio promossi a tutela di diritti soggettivi, il codice contempla espressamente


un’azione di condanna per l’adempimento delle obbligazioni (art. 30 comma 1 cpa). Nel testo del
codice l’attenzione per questa azione si concentra soprattutto sulle vertenze risarcitorie.
Un’azione di accertamento del diritto non è contemplata espressamente dal codice, ma è
ammessa da tempo, per lo meno da quando fu elaborata la figura degli atti paritetici. Dopo il
codice, la giurisprudenza ha riconosciuto che nel processo amministrativo devono ritenersi
esperibili tutte le azioni, di accertamento, costitutive e di condanna che sono ammesse nel
processo civile a tutela dei diritti omologhi. Si tenga presente che, in generale, nel processo
amministrativo è ammesso il cumulo delle domande, purché connesse (art. 32, comma 1 cpa).

L’errore della parte nella qualificazione dell’azione proposta non comporta, di per sé, alcuna
particolare conseguenza negativa: la qualificazione dell’azione proposta è demandata al giudice,
in coerenza con il principio iura novit curia.

 L’azione di annullamento

Il ricorso al giudice amministrativo è intesto innanzitutto come strumento per impugnare un atto
amministrativo al fine di ottenerne l’annullamento (o, nel caso di giurisdizione di merito, anche la
modifica o riforma). Si tratta perciò di una tutela tipicamente successiva, perché presuppone che
l’amministrazione abbia già leso l’interesse del cittadino. Nel caso in cui la lesione sia determinata
da un provvedimento amministrativo, all’effetto costitutivo del potere corrisponde il carattere
costitutivo della tutela offerta all’interesse legittimo: la sentenza, infatti, deve elidere i risultati
giuridici prodotti dall’attività illegittima dell’amministrazione. Il risultato offerto dalla tutela
costitutiva nel processo amministrativo è l’annullamento del provvedimento impugnato; solo nei
casi di giurisdizione di merito è ammessa anche la riforma. In entrambi i casi la domanda
giudiziale va proposta entro un termine di decadenza, normalmente di 60 giorni (art. 29 cpa).
L’azione di annullamento si presenta, con caratteri sostanzialmente identici, anche quando sia

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contestato, anziché un provvedimento amministrativo, il silenzioassenso. L’annullamento
d’ufficio del silenzio-assenso è contemplato espressamente dall’art. 20, comma 1 legge 241/1990:
per identità di ragioni, si deve ammettere anche la possibilità di un annullamento giurisdizionale.
D’altra parte il silenzio-assenso, anche se non è un atto amministrativo, produce gli stessi effetti
di un provvedimento.

Nel processo amministrato l’azione di annullamento ha carattere GENERALE: essa è sempre


ammessa, ogni qualvolta assuma rilievo un provvedimento lesivo dell’amministrazione. Al
carattere generale si associa il carattere di NECESSARIETÀ dell’azione di annullamento.
Questa regola in passato era stata applicata dalla giurisprudenza amministrativa anche rispetto
alla tutela risarcitoria degli interessi legittimi, attraverso la cd pregiudizialità amministrativa:
l’annullamento del provvedimento lesivo era ritenuto una condizione essenziale per ottenere il
risarcimento dei danni provocati dallo stesso provvedimento. Oggi il carattere di necessarietà è
confermato nei suoi termini generali nell’art. 34, comma 3 cpa, che però ha anche individuato
alcune eccezioni, rappresentate principalmente proprio dalla tutela risarcitoria degli interessi
legittimi. L’annullamento del provvedimento illegittimo non è un risultato infungibile, che può
essere raggiunto solo attraverso il processo, come è invece nel caso delle cd azioni costitutive
necessarie (si pensi allo scioglimento degli effetti civile del matrimonio ecc). L’annullamento
d’ufficio ha presupposti diversi e ulteriori rispetto al riscontro, da parte dell’amministrazione
competente, della sussistenza della lesione di un interesse legittimo: in genere, richiede un
interesse pubblico specifico.

 L’azione di mero accertamento

Di azione di mero accertamento (o azione dichiarativa) nel processo amministrativo si parla


propriamente con riguardo a vertenze per diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva.
Invece, un’azione di mero accertamento a tutela di interessi legittimi è esclusa nei casi in cui
sia possibile l’impugnazione di un provvedimento. Il cpa non contempla espressamente
un’azione generale di accertamento: si limita, infatti, a prevedere un’azione per la declaratoria
della nullità di atti amministrativi (art. 31, comma 4 cpa). L’ammissibilità dell’azione di
accertamento, a tutela dei diritti, si ricava però dai principi generali ed è sostenuta da un’ampia
tradizione giurisprudenziale. Anche la previsione, nel codice, di un’azione di condanna conferma
la bontà di questa conclusione, dato che di ogni condanna è componente necessaria
l’accertamento del diritto fatto valere in giudizio. Oggetto di accertamento può essere sia un
diritto patrimoniale, che un diritto non patrimoniale. La giurisprudenza ritiene che l’azione di
accertamento non sia soggetto al termine di decadenza di 60 giorni previsto invece per
l’impugnazione dei provvedimenti. Naturalmente sono fatti salvi tutti gli effetti della prescrizione
del diritto.

Nelle vertenze con l’amministrazione, si deve considerare anche il principio sancito dall’art. 4
legge del 1865, secondo cui l’amministrazione è sempre tenuta a conformarsi al giudicato. Di
conseguenza, nei confronti di qualsiasi sentenza l’amministrazione è tenuta ad adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto affermata nella sentenza. Il dovere di conformarsi al
giudicato è configurabile anche in presenza di una sentenza di annullamento o di mero
accertamento. Nel caso di inosservanza del dovere dell’amministrazione di conformarsi al
giudicato, è esperibile il giudizio di ottemperanza, che assicura l’esecuzione della sentenza e di
tutti gli obblighi che ne derivano. In questo modo, anche una sentenza di accertamento nei
confronti di una amministrazione può essere idonea ad innescare una tutela esecutiva.

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In conclusione, nelle vertenze su diritti devolute alla giurisdizione esclusiva, l’azione di
accertamento può rappresentare il rimedio a una lesione di un diritto soggettivo provocata
dall’amministrazione e può essere esperita anche in vista di una esecuzione attraverso il giudizio
di ottemperanza. Un’azione di accertamento deve inoltre ammettersi, in base ai principi generali,
quando la vertenza abbia ad oggetto un provvedimento nullo. In questo caso non vi è spazio per
un’azione costitutiva: l’atto nullo non produce effetti giuridici, mentre l’azione costitutiva
presuppone sempre la suscettibilità dell’atto impugnato a produrre effetti giuridici. Un’azione di
accertamento rispetto ad un atto amministrativo nullo appare di minore rilievo pratico nei casi di
giurisdizione di legittimità: in particolare, se il cittadino sia titolare di un diritto soggettivo, un
provvedimento nullo non può estinguere quel diritto e pertanto la vertenza in genere è devoluta
al giudice ordinario. Invece l’azione risulta di maggior rilievo nelle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva, dato che in queste materie al giudice amministrativo spetta anche
accertare la nullità di un provvedimento.

Il codice ha introdotto una disciplina speciale dell’azione per l’accertamento della nullità di un
provvedimento o di un atto amministrativo. In particolare ha previsto che il relativo ricorso
vada proposto nel rispetto di un termine di decadenza di 180 gg (per la decorrenza del termine,
vale la disciplina generale stabilita dall’art. 41, comma 2 cpa). Questa previsione non si applica
però alla deduzione della nullità dell’atto per elusione o violazione del giudicato, che è oggetto del
giudizio di ottemperanza. La decorrenza del termine non ha però riflessi sull’efficacia dell’atto
perché anche il provvedimento nullo è, per definizione, improduttivo di effetti giuridici. Di
conseguenza, anche dopo la scadenza del termine per il ricorso, la nullità dell’atto amministrativo
è sempre rilevabile d’ufficio da parte del giudice. Questa previsione finisce con l’assorbire, anche
sul piano prativo, la previsione che anche la parte resistente può opporre la nullità dell’atto.

 L’azione di condanna

Nel processo amministrativo l’azione di condanna fu introdotta dalla legge 1034/1971 (legge
istitutiva dei Tar, art. 26, comma 3). La legge istitutiva dei Tar, però, ammetteva una sentenza di
condanna soltanto nei casi di giurisdizione esclusiva ed esclusivamente per il pagamento di
somme di denaro dovute dall’amministrazione. Per effetto della prima limitazione, nei
confronti di un privato poteva ammettersi soltanto un’azione di mero accertamento. Essa, però,
risultava di scarsa utilità: non consentiva di promuovere una esecuzione civile e non poteva
sfociare in un giudizio di ottemperanza, dato che il giudizio di ottemperanza normalmente non
era esperibile nei confronti di soggetti privati. Il codice non contempla più tale limitazione; di
conseguenza si deve ritenere senz’altro che, nelle materia di giurisdizione esclusiva, l’azione di
condanna possa essere proposta anche dall’amministrazione, per l’adempimento di
obbligazioni di un privato nei suoi confronti. La legge istitutiva dei Tar, inoltre, limitava la
condanna soltanto all’adempimento di obbligazioni pecuniarie. In realtà, però, nelle materie
demandate alla giurisdizione esclusiva, il cittadino può essere titolare anche di obbligazioni
diverse da quelle pecuniarie. Il cpa attribuisce rilievo al contenuto pecuniario dell’obbligazione ai
fini della formula esecutiva sulle sentenze e della conseguente esperibilità dell’esecuzione forzata
nelle forme previste dal cpc; ciò non significa, però, che negli altri casi non possa ammettersi una
sentenza di condanna del giudice amministrativo. Nel capo del codice dedicato alle azioni, la
condanna è prevista oggi in termini più generali (art. 30, comma 1 cpa). Per l’adempimento di
obbligazioni non risulta più limitata né alle pronunce contro l’amministrazione, né alle
pronunce a contenuto pecuniario.

Nella giurisdizione di legittimità la condanna all’adempimento di obbligazioni è ammessa


solo per il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, ma nelle materia di
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giurisdizione esclusiva può riguardare l’adempimento di qualsiasi obbligazione inerente alla
materia devoluta alla giurisdizione esclusiva.

L’art 115, comma 2 cpa sulla idoneità delle sentenze amministrative a costituire titolo esecutivo ai
fini dell’esecuzione civile, menziona soltanto le condanne al pagamento di somme di denaro.
Emerge la volontà di sottrare alla disciplina comune dell’esecuzione le sentenze di condanna a
prestazioni non pecuniarie e di riservare anche l’esecuzione di queste sentenze al giudice
amministrativo, attraverso il giudizio di ottemperanza. Un’attenzione particolare è riservata
all’azione di condanna nelle vertenze risarcitorie (art. 30 cpa). In particolare sono affrontati
due profili di rilievo:

Viene precisato che la domanda di risarcimento del danno può avere ad oggetto, oltre che il
risarcimento per equivalente, anche il risarcimento in forma specifica. A questo proposito
viene espressamente richiamato l’art. 2058 cc. Pertanto risulta chiarito che il giudice
amministrativo può pronunciare sentenze di reintegrazione in forma specifica negli stessi casi in
cui avrebbe potuto pronunciarle il giudice civile. Il riferimento al risarcimento del danno e all’art.
2058 cc consente di superare la tesi, molto diffusa prima del codice, secondo cui con l’istituto in
esame sarebbe stata introdotta una tutela specifica degli interessi legittimi, soprattutto nel caso di
cd interessi pretensivi. Per esempio, nel caso in cui l’amministrazione avesse respinto una
richiesta di autorizzazione del cittadino, era stato sostenuto che il ricorrente avrebbe potuto
chiedere al giudice amministrativo, a titolo di reintegrazione in forma specifica, il rilascio
dell’autorizzazione richiesta.

Il secondo profilo di rilievo è rappresentato dai rapporti fra tutela impugnatoria e tutela
risarcitoria, ossia fra la domanda di annullamento di un provvedimento lesivo e la domanda
di risarcimento dei danni provocati da quel provvedimento.

Il giudice amministrativo aveva elaborato la teoria della pregiudizialità amministrativa, in base


alla quale la domanda di risarcimento avrebbe potuto essere accolta solo se il provvedimento
lesivo fosse stato impugnato e annullato. Invece la giurisprudenza civile sosteneva in prevalenza
la tesi della autonomia delle due tutele. La discussione sembra superata dal codice, che
ammette in via di principio l’autonomia della domanda risarcitoria. Al giudice amministrativo
può essere richiesto il risarcimento dei danni per lesione a interessi legittimi, anche se l’atto
amministrativo lesivo non sia stato impugnato. Pertanto, anche se non sia stato impugnato il
provvedimento lesivo, il giudice amministrativo può ugualmente conoscere la sua illegittimità.
Ove essa assuma rilievo ai fini della pronuncia sulla domanda di risarcimento dei danni.
L’autonomia della domanda risarcitoria è temperata dall’introduzione di uno specifico termine di
decadenza per l’azione risarcitoria nel caso di lesione e interessi legittimi. L’azione va proposta
entro un termine di 120 giorni che decorre dal momento in cui è verificato il fatto o, nel caso di
danno derivante direttamente da un provvedimento, dalla conoscenza del provvedimento stesso.
Se il provvedimento lesivo sia stato impugnato, la domanda risarcitoria può essere formulata nel
corso del giudizio (evidentemente, anche dopo la scadenza del termine di 120 giorni) o
successivamente alla sentenza di annullamento, fino a 120 giorni dal suo passaggio in giudicato.

Una disciplina simile è dettata anche per il risarcimento del danno cagionato dall’inosservanza
del termine di ultimazione del procedimento. Per valutare il rapporto fra le due tutele, è però
opportuno considerare anche i criteri dettati dal codice per la liquidazione del danno: il codice
esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza,
anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti. Di conseguenza l’impugnazione
del provvedimento lesivo non rappresenta una condizione necessaria per la domanda risarcitoria,

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ma può incidere sulla misura del risarcimento nella liquidazione del danno: il cittadino non può
ottenere a titolo di risarcimento la rifusione del danno che avrebbe potuto evitare attraverso
l’impugnazione e l’annullamento del provvedimento lesivo. Anche questa previsione è molto
discussa.

 La tutela nei confronti del silenzio; l’azione di adempimento; la tutela del diritto
d’accesso

Nel processo amministrativo, come nel processo civile, la nozione di azione di condanna non è
pacifica. Chi ritiene che la condanna sia preordinata alla formazione di un titolo esecutivo, che
consenta l’esecuzione forzata nelle forme previste dal cpc, considera come azioni di condanna
solo quelle che possono condurre a un titolo esecutivo. Altri, invece, accolgono una concezione
più ampia e considerano come azioni di condanna tutte quelle dirette ad imporre un
comportamento specifico, che soddisfi la pretesa violata dal ricorrente, indipendentemente dalla
loro idoneità ad essere titolo esecutivo. Il codice ha considerato espressione dell’azione di
condanna anche la domanda del giudice amministrativo di ordinare all’amministrazione il rilascio
di un provvedimento. In questi casi la sentenza non impone una mera condotta materiale, ma
impone di emanare un provvedimento.

Non è idonea per un’esecuzione forzata nelle forme previste dal cpc: per l’esecuzione può essere
esperito il giudizio di ottemperanza. Il cd silenzio (o silenzio-rifiuto) è la situazione che si
verifica quando un’amministrazione, nel termine prescritto, non abbia assunto alcun
provvedimento, pur essendo tenuta a provvedere. Condizione fondamentale è pertanto la
configurabilità, a carico dell’amministrazione, di un dovere di provvedere: un dovere del genere
manca quando la legge rimette alla piena discrezionalità dell’amministrazione la decisione anche
sull’an del provvedere. Il ricorso giurisdizionale presuppone in ogni caso una legittimazione da
identificare con la titolarità di un interesse legittimo: chi agisce nei confronti del silenzio deve
vantare una posizione differenziata a qualificata rispetto al potere amministrativo. Il codice
prevede che il silenzio si formi alla scadenza del termine per la conclusione del
procedimento stabilito ai sensi dell’art. 2 legge 241/1990 e senza la necessità di alcuna diffida
(art. 31 cpa).

In origine il Consiglio di Stato aveva finito con l’accogliere una interpretazione che assimilava il
silenzio a un provvedimento negativo. Secondo questa lettura l’amministrazione, non
provvedendo, avrebbe espresso direttamente o implicitamente la volontà di respingere l’istanza o
la domanda e nei confronti di questa sorta di atto negativo il cittadino avrebbe dovuto proporre
impugnazione. Superata l’assimilazione fra silenzio e provvedimento negativo, l’azione nei
confronti dell’amministrazione ha assunto, per alcuni profili, un carattere preventivo: non viene
impugnato un provvedimento e non è intervenuto alcun provvedimento che possa ledere
l’interesse del cittadino. Anche nel caso di silenzio è configurabile comunque una lesione di un
interesse legittimo: anche la tutela nei confronti del silenzio-rifiuto viene quindi configurata come
una forma di tutela successiva, che pone rimedio a una lesione già avvenuta.

Una volta superata la concezione che assimilava il silenzio a un provvedimento negativo, il


giudizio nei confronti del silenzio fu ricondotto a lungo ad un’azione dichiarativa. La tutela
dell’interesse legittimo non poteva realizzarsi con l’azione di annullamento, perché nel silenzio
non era identificabile un atto amministrativo: la tutela poteva ammettersi solo nelle forme di
un’azione di accertamento.

A partire dalla legge 205/2000 la tutela nei confronti del silenzio dell’amministrazione ha però
assunto caratteri nuovi, che sono confermati nel codice. In base al codice il ricorso può essere
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proposto finché l’amministrazione ometta di provvedere, purché entro un anno dalla
scadenza del termine per l’ultimazione del procedimento. Il giudizio verte innanzitutto
sull’accertamento del dovere dell’amministrazione di provvedere e sul suo inadempimento. Il
giudice, se accoglie il ricorso, ordine all’amministrazione di provvedere entro un termine
congruo, di regola non superiore a 30 gg. L’ordine di provvedere può anche avere contenuto
specifico: il giudice infatti, su richiesta del ricorrente, può pronunciare sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio. In questo caso la sentenza può condannare l’amministrazione a
rilasciare un provvedimento determinato. Il giudice amministrativo non può sostituire proprie
valutazioni a quelle che la legge demanda alla discrezionalità amministrativa; di conseguenza,
l’ordine all’amministrazione di provvedere in un modo specifico può intervenire solo rispetto
a profili vincolanti dell’azione amministrativa. Inoltre il codice identifica come ulteriore limite
la necessità di adempimenti istruttori che siano riservati all’amministrazione. La disciplina dettata
dal codice per l’azione nei confronti del silenzio si applica anche negli altri casi previsti dalla
legge (art. 31, comma 1). La disposizione si riferisce essenzialmente alla tutela rispetto alla
segnalazione certificata d’inizio attività prevista dall’art. 19 legge 241/1990: anche in questo caso
le controversie con l’amministrazione sono devolute in via esclusiva al giudice amministrativo.
L’art. 6 d.l. 138/2011, conv in legge 148/2011 precisa che nei confronti della segnalazione
certificata non è ammessa alcuna impugnazione (la segnalazione certificata di inizio attività, la
denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente
impugnabili): la segnalazione certificata è un atto del privato e perciò non può essere assimilato a
un atto amministrativo. Il terzo interessato, pertanto, non può che sollecitare l’amministrazione a
verificare la conformità della segnalazione certificata rispetto alla legge e, nel caso di inerzia,
ricorrere con le modalità previste per il silenzio. Secondo una concezione rigorosa, ove sia
decorso il termine per le verifiche imposte dall’art. 19, comma 3 legge 241/1990, l’amministrazione
è tenuta a intervenire soltanto nei casi particolari stabiliti dalla legge; in ogni altro caso dispone
invece soltanto del potere discrezionale riconosciuto dall’art. 21-nonies legge 241/1990. Una
giurisprudenza di merito ha sostenuto che il ricorso nei confronti della segnalazione certificata
potrebbe essere proposto anche prima della scadenza del termine per le verifiche imposte
all’amministrazione, quando ancora l’intervento dell’amministrazione abbia carattere vincolato,
per ottenere dal giudice una pronuncia alla quale non possano essere opposti margini di
discrezionalità amministrativa. In questo senso è stato invocato il testo dell’art. 31, comma 1 cpa,
secondo cui l’azione nei confronti del silenzio può essere proposta, oltre che decorsi i termini per
la conclusione del procedimento amministrativo, anche negli altri casi previsti dalla legge.

Il giudizio sul silenzio non si risolve più in un’azione di mero accertamento: se accoglie la
domanda, il giudice ordina all’amministrazione di provvedere. L’ordine di provvedere può essere
generico (e diretto soltanto ad assicurare che l’amministrazione si pronunci) oppure può essere
specifico (e identificare il provvedimento da emanare in concreto, una volta accertata la
fondatezza della presa dedotta in giudizio dal cittadino). Alla seconda ipotesi si riferisce anche
l’art. 34, comma 1 lett c cpa, come modificato dal d.lgs. 160/2012. Per effetto di tale modifica la
condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è ammessa non soltanto nel giudizio sul
silenzio, ma anche in presenza di un’azione di annullamento. Chi impugni il provvedimento col
quale l’amministrazione abbia respinto una sua istanza (cd provvedimento negativo) oggi può
pertanto chiedere al giudice amministrativo non solo l’annullamento di quel provvedimento, ma
anche l’ordine all’amministrazione di rilasciare il provvedimento illegittimamente negato. Questa
modalità di tutela è stata designata tradizionalmente come azione di adempimento (nel codice è
designata come azione di condanna). L’azione di adempimento non può comunque essere
proposta autonomamente: nel codice ha un carattere accessorio. Se l’amministrazione ha negato
il provvedimento richiesto, è sempre onere del ricorrente proporre l’azione di annullamento. Di
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conseguenza chi lamenti il rigetto di una sua istanza, può chiedere al giudice amministrativo
di condannare l’amministrazione al rilascio del provvedimento positivo solo se abbia chiesto
l’annullamento del diniego. Il codice, anzi, esige la contestualità delle due azioni: di conseguenza
la domanda di adempimento deve essere proposta nel medesimo ricorso proposto contro
l’annullamento di un atto o nei confronti del silenzio dell’amministrazione, pertanto risente
anche del regime processuale delle azioni principali: in particolare, la domanda di adempimento è
inammissibile, se il ricorso per l’annullamento non sia stato proposto nel prescritto termine di
decadenza. Naturalmente la condanna a rilasciare il provvedimento richiesto può ammettersi solo
quando il giudice abbia potuto verificare che l’amministrazione avrebbe dovuto procedere al sua
rilascio.

L’azione a tutela del diritto d’accesso ai documenti amministrativi fu introdotta dall’art. 25


legge 241/1990, e successivamente più volte modificata. Se l’amministrazione nega l’accesso a un
documento o non risponde a una richiesta di accesso (il silenzio si forma qui per il mero
decorso di un termine di 30 gg dalla presentazione della richiesta), il cittadino interessato può
ricorrere al Tar; il giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, ordine all’amministrazione di
esibire il documento (art. 116 cpa). Dunque il giudizio, in caso di accoglimento del ricorso, non
attua una tutela costitutiva, di annullamento del diniego di accesso, né si risolve, nel caso di
silenzio, in un ordine generico di provvedere, ma si conclude con una sentenza che contiene un
ordine specifico: all’amministrazione è imposto di esibire il documento del cui accesso si
discuteva. Anche il ricorso a tutela del diritto d’accesso va proposto entro un termine breve di 30
gg, stabilisco a pena di decadenza. Il titolare di un interesse specifico alla riservatezza di un
documento amministrativo è ad ogni effetto controinteressato nel giudizio per l’accesso a quel
documento. Il ricorso, entro il termine fissato per promuovere il giudizio, deve essere notificato
ad almeno uno dei controinteressati a pena di inammissibilità.

 L’azione per l’efficienza dell’amministrazione

Il d.lgs. 198/2009 ha introdotto un’azione particolare per porre rimedio all’inefficienza


dell’amministrazione e dei concessionari di pubblici servizi, introducendo anche in questo caso
un nuovo rito speciale. Il giudizio verte sulla pretesa dei cittadini al corretto svolgimento di
una funzione amministrativa (nel caso di mancata emanazione di atti generali) o alla corretta
erogazione di un servizio (nel caso di inosservanza di obblighi o standard stabiliti per quel
servizio). L’azione è promossa, davanti al giudice amministrativo, da chi, vantando un interesse
legittimo o un diritto soggettivo, lamenti una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri
interessi per effetto di inadempimenti di un’amministrazione o del concessionario di un
pubblico servizio. Gli inadempimenti possono riguardare:

- La mancata emanazione di atti generali (escluso il caso di atti normativi)

- La violazione di obblighi stabiliti nelle carte dei servizi

- La violazione degli standard qualitativi ed economici fissati per un pubblico servizio

È però sempre necessario che il ricorrente vanti un interesse omogeneo a quello di una
pluralità di utenti o di consumatori: può agire solo se faccia valere un interesse che non sia
esclusivo di lui stesso, ma che sia condiviso da altri e che abbia perciò una dimensione più
generale. Per questa ragione il giudizio in esame è stato accostato a una class action. Il ricorso
può essere proposto, oltre che dal singolo, anche da associazioni o comitati di utenti o
consumatori, a tutela dei propri associati. Le associazioni, pertanto, in questo caso agiscono come
rappresentanti dei propri associati; in ogni caso, la loro legittimazione concorre con quella dei
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singoli cittadini. Il ricorso deve essere preceduto da una fase amministrativa, che richiede la
notifica di una apposita diffida all’amministrazione o al concessionario inadempiente, perché
rimedi all’inefficienza lamentata: il ricorso può essere proposto solo dopo che siano decorsi
invano 90 giorni dalla notifica, ed entro un anno da tale scadenza. La presentazione del
ricorso è sottoposta a particolari forme di pubblicità. Il giudice, se accoglie la domanda, ordina
all’amministrazione o concessionario di porre rimedio, entro un congruo termine,
all’inadempimento; in mancanza può essere proposto il giudizio di ottemperanza. Il giudice
amministrativo, nel giudizio in esame, non può disporre alcune risarcimento del danno. Inoltre
non può adottare misure che possano comportare nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica.
Una disposizione transitoria ha subordinato la concreta applicazione della disciplina in esame ad
alcuni decreti del Presidente del consiglio dei ministri, mai emanati. È stato sostenuto, però, che
l’azione sarebbe esperibile già oggi nei cosi in cui non siano concretamente necessari decreti
attuativi. In particolare, sarebbe esperibile nel caso in cui l’amministrazione non abbia emanato
atti generali che avrebbe dovuto emanare entro scadenze precise stabilite dalla legge, perché in
questo caso l’inefficienza sarebbe già patente. Questa soluzione è stata accolta anche dal
Consiglio di Stato.

CAPITOLO DECIMO – ELEMENTI PRELIMINARI PER LO STUDIO


DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

 Il giudice amministrativo e la sua competenza

La giurisdizione amministrativa è esercitata in primo grado dai Tribunali amministrativi regionali


(Tar), in secondo grado dal Consiglio di Stato e dal Consiglio di giustizia amministrativa per la
Regione siciliana. I Tar sono istituiti in ogni Regione e hanno sede nei rispettivi capoluoghi. In 8
regioni (Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) sono
istituite anche sezioni staccate che hanno sede in un capoluogo di provincia. Nella Regione
Trentino-Alto Adige, in base allo Statuto speciale, sono stati istituiti un Tar con sede a Trento e
una sua sezione autonoma a Bolzano. Alla sezione autonoma di Bolzano, oltre alle competenze
comuni ai Tar, sono devolute l’impugnazione di provvedimenti ritenuti lesivi del principio di
parità fra i gruppi linguistici nella Provincia autonoma, nonché la procedura di approvazione dei
bilanci regionali e provinciali, e infine le impugnazioni dei provvedimenti concernenti la
maggiore rappresentatività di associazioni sindacali tra lavoratori appartenenti ai gruppi
linguistici tedesco e ladino. In questi casi particolari la sezione autonoma esercita una
competenza di carattere funzionale: rispetto ad essa anche l’incompetenza del Tar con sede a
Trento è rilevabile d’ufficio. Inoltre negli stessi casi la sezione autonoma di Bolzano è giudice di
unico grado: la sua pronuncia è designata come lodo arbitrale non soggetto ad alcuna
impugnazione. Le altre pronunce della sezione autonoma sono impugnabili avanti al Consiglio di
Stato: nel collegio giudicante del Consiglio di Stato deve far parte, però, almeno un consigliere
appartenente al gruppo di lingua tedesca della provincia di Bolzano.

I criteri generali di riparto della competenza fra i Tar sono disciplinati dall’art. 13 cpa. È dato
rilievo alla sede dell’organo che ha emanato l’atto impugnato: il Tar è competente per
l’impugnazione di atti emessi da organi che hanno la loro sede nella sua circoscrizione (criterio
della sede dell’organo). Il criterio della sede dell’organo è però temperato da quello della
efficacia dell’atto: se gli effetti diretti dell’atto impugnato sono limitati al territorio di una
Regione o di una parte di essa, è competente il Tar nella cui circoscrizione si producono tali
effetti, anche se l’atto è stato emanato da organi dello Stato o di enti pubblici che hanno sede in
altre circoscrizioni. Gli stessi criteri sono estesi alle controversie concernenti accordi o
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comportamenti di pubbliche amministrazioni. L’art. 13, comma 3 cpa prevede che negli altri casi
è competente il Tar Lazio, se sono impugnati atti statali, e il Tar nella cui circoscrizione ha
sede l’ente, se sono impugnati atti di altre amministrazioni (conferma del criterio della sede).
Per i ricorsi proposti in materia di pubblico impiego dal personale in servizio, è competente il
Tar nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio del pubblico dipendente (cd foro del pubblico
impiego) (art. 13, comma 2 cpa). Per quanto riguarda il criterio dell’efficacia dell’atto, il codice dà
rilievo agli effetti propri e diretti dell’atto impugnato. Il criterio dell’efficacia dell’atto non è
stato ritenuto applicabile nel caso di impugnazione di atti di enti locali o di organi periferici
dello Stato: in queste ipotesi è applicato soltanto il criterio della sede dell’organo che ha emanato
l’atto. Il criterio del foro del pubblico impiego è stato ritenuto speciale, e perciò prevalente
rispetto agli altri. Tuttavia non è stato ritenuto applicabile all’impugnazione di un atto di un ente
ultraregionale che abbia un contenuto inscindibile diretto alla generalità dei dipendenti, ovvero
diretto a una pluralità di dipendenti con sedi di servizio comprese nelle circoscrizioni di più Tar
(in questi casi è stata riconosciuta la competenza del Tar Lazio). Il criterio del foro del pubblico
impiego ha comunque una portata tassativa: vale soltanto per le controversie fra l’impiegato
e l’amministrazione che abbiano ad oggetto pretese inerenti specificamente al rapporto
d’impiego.

Nel caso di ricorso proposto da più ricorrenti (cd CUMULO SOGGETTIVO), la competenza
del Tar periferico in base al criterio dell’efficacia dell’atto o al foro del pubblico impiego
presuppone che per tutti i ricorrenti l’atto impugnato esaurisca la sua efficacia nell’ambito della
circoscrizione del Tar o, rispettivamente, che tutti i ricorrenti prestino servizio presso uffici con
sedi comprese nella circoscrizione di quel Tar.

Più complesso è il caso del ricorso proposto con atti connessi (cd CUMULO OGGETTIVO). Il
codice, all’art. 13, comma 4 bis cpa, considera soltanto il ricorso proposto contro due atti, di cui il
primo sia un atto presupposto e l’altro sia un atto applicativo. In questo caso, se rispetto a
ciascuno dei due atti sarebbe competente un Tar diverso, il ricorso va diretto al Tar competente
per l’impugnazione dell’atto da cui deriva l’interesse a ricorrere: tale è tipicamente l’atto
applicativo. Tuttavia, se l’atto presupposto è un atto normativo o generale, la competenza va
determinata secondo le regole che valgono per l’impugnazione di tale altro atto: in questo caso la
competenza rispetto all’atto presupposto prevale, perché il suo annullamento comporta in genere
effetti più ampi rispetto a quelli propri dell’atto applicativo. Secondo la giurisprudenza, l’art. 13,
comma 4 bis non detterebbe una regola generale per ogni ricorso proposto contro due atti
comunque connessi, ma varrebbe soltanto per l’impugnazione contestuale di un atto
presupposto e di un atto applicativo. Con riferimento agli altri casi l’identificazione di un
criterio per determinare la competenza risulta problematica. Di recente la giurisprudenza
amministrativa ha sostenuto che anche nel processo amministrativo la causa accessoria sarebbe
attratta nella competenza del giudice cui è devoluta la causa principale. Infine, se il cumulo
oggettivo si verifica in seguito all’impugnazione successiva di atti sopravvenuti, resta ferma la
competenza del giudice competente rispetto all’impugnazione del primo atto, salvo che non si
configuri rispetto agli atti sopravvenuti la competenza funzionale di un altro Tar. Il codice, ai fini
della competenza territoriale per le vertenze devolute alla giurisdizione esclusiva, disciplina
puntualmente solo i giudizi nel pubblico impiego. Rimane controverso sulla base di quali criteri
debba essere identificato il Tar competente per i ricorsi proposti negli altri casi di giurisdizione
esclusiva, quando siano in questioni diritti soggettivi, anche se il codice menziona espressamente
i giudizi nei confronti di accordi o comportamenti (art. 13, comma 1 cpa). Una giurisprudenza di
merito sostiene che di regola dovrebbe darsi rilievo al luogo in cui l’obbligazione avrebbe dovuto
essere adempiuta. Infine, per le vertenze risarcitorie per lesione di interessi legittimi sembra

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consolidarsi la soluzione secondo cui sarebbe competente lo stesso Tar cui spetterebbe decidere il
ricorso sul silenzio o per l’annullamento del provvedimento lesivo.

Le regole sulla competenza territoriale hanno CARATTERE INDEROGABILE: la loro


violazione può essere rilevata anche d’ufficio dal Tar e può costituire motiva d’appello (se
l’appello viene accolto, il Consiglio di Stato non decide nel merito il ricorso, ma rimette gli atti al
Tar competente – art. 105, comma 2 cpa).

Quando il Tar dichiara la propria INCOMPETENZA si pronuncia con ordinanza (art. 33,
comma 1 cpa), in cui viene anche indicato quale sia il Tar ritenuto competente. Se la causa è
riassunta tempestivamente (entro 30 gg dalla comunicazione dell’ordinanza) avanti al giudice così
indicato, il giudizio prosegue e non matura alcuna decadenza. In base al codice, l’incompetenza
può essere rilevata dal Tar finché la causa non è decisa in primo grado (art. 15, comma 1 cpa).
La verifica della competenza è preliminare rispetto a qualsiasi pronuncia cautelare. Il codice
prevede che, se il Tar adito è dichiarato incompetente, le misure cautelati adottate dal Tar hanno
una ultrattività e conservano la loro efficacia per 30 gg dalla pubblicazione dell’ordinanza dello
stesso Tar o del Consiglio di Stato che dichiara l’incompetenza. I rapporti fra i Tar con sede nel
capoluogo regionale e i Tar nel sedi staccate sono regolati da principi almeno parzialmente
diversi. In genere le regolative questioni non sono neppure considerate questioni di competenza
in senso tecnico: devono essere sollevate dalle parti entro termini perentori e sono risolte dal
Presidente del Tar che ha sede nel capoluogo regionale (art. 47 cpa). La previsione, nel codice,
della inderogabilità della competenza ha reso necessaria l’introduzione di una serie di rimedi, per
il caso che il ricorso sia presentato a un Tar incompetente. Ne è risultata una disciplina
complessa, che ha richiesto una ulteriore messa a punto ad opera del d.lgs. 160/2012, che ha
sostituito gli artt. 15 e 16 cpa. In primo luogo, il Tar rileva la propria incompetenza anche
d’ufficio: se si ritiene incompetente, è tenuto a dichiararlo e lo dichiara con ordinanza. La
verifica della competenza è inevitabile per il Tar ed è preliminare rispetto a qualsiasi pronuncia
non solo di merito, ma anche di ordine cautelare. In particolare, se nel giudizio sia stata proposta
un’istanza cautelare, il Tar, se ritiene di essere incompetente, non può accogliere l’istanza, ma
deve dichiarare la propria incompetenza. Infine, le parti diverse dal ricorrente, se ritengono
che il Tar adito sia incompetente, possono eccepirlo nei termini fissati per la costituzione in
giudizio (termine perentorio). L’eccezione viene trattata con una procedura accelerata (cd rito
camerale) e decisa con ordinanza. L’ordinanza del Tar che si pronuncia sulla competenza in
sede cautelare o in seguito a un’eccezione di incompetenza può essere impugnata dalle parti con
regolamento di competenza (art. 15, comma 5 cpa). Se però il Tar si sia dichiarato competenza e
abbia pronunciato una ordinanza cautelare, e la parte intenda contestare anche tale pronuncia, la
questione della competenza viene attratta nell’appello cautelare. Il regolamento di competenza è
diretto al Consiglio di Stato ed è assoggettato a una procedura accelerata (art. 16 cpa). Il
Consiglio di Stato decide con una ordinanza, vincolante per i Tar, nella quale indica quale Tar sia
competente per la controversia e provvede sulle spese. Anche in questo caso, se il giudizio viene
riassunto tempestivamente avanti al Tar dichiarato competente, non si verificano decadenze.
Invece la pronuncia del Tar che rilevi d’ufficio l’incompetenza all’esito del giudizio di primo
grado è soggetta ad appello. Se il Tar adito abbia declinato la competenza e l’ordinanza non
sia stata impugnata con regolamento di competenza, ma la parte abbia riassunto il giudizio
avanti al Tar dichiarato competente, il secondo Tar non è vincolato dall’ordinanza del primo
Tar (il Tar è vincolato soltanto da una pronuncia sulla competenza del Consiglio di Stato). Il
secondo Tar a sua volta può ritenersi incompetente, ma in tal caso deve richiedere d’ufficio il
regolamento di competenza (se non lo richiede, la competenza è definitivamente radicata).
Tuttavia, in pendenza del regolamento di competenza, il secondo Tar deve comunque provvedere

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sulle istanza cautelari eventualmente proposte. La regola della inderogabilità della competenza fu
introdotta nelle ultime fase di redazione del codice. Nelle fasi precedenti l’inderogabilità era
circoscritta ad alcune ipotesi particolari e solo rispetto ad esse sarebbe stata configurabile una
competenza funzionale di determinati Tar.

Nel testo finale le ipotesi di competenza funzionale sono rimaste (art. 14 cpa): si caratterizzano
ormai non tanto per l’inderogabilità della competenza, che è assurta a principio generale, quanto
per il fatto che la competenza territoriale del Tar si fonda in questi casi su norme speciali, che
prevalgono sui criteri generali già descritti. Nei casi di competenza funzionale, anche il riparto
fra Tar con sede nel capoluogo regionale e Tar con sede staccata è considerato a tutti gli effetti
questione di competenza (inderogabile) ed è assoggettato alla relativa disciplina (art. 47 cpa). I
casi di competenza funzionale nel codice rispecchiano una tendenza di riservare al Tar Lazio
varie controversie in relazione al coinvolgimento di interessi generali e non frazionabili (es
espulsione di stranieri extracomunitari per motivi di sicurezza) o di particolare delicatezza per
gli interessi locali coinvolti (es impugnazione dei provvedimenti concernenti gli impianti di
energia nucleare). Questi casi, elencati nell’art. 135 cpa, per frequenza e importanza finiscono
con l’attribuire al Tar Lazio, rispetto agli altri Tar, un ruolo di preminenza che almeno in alcuni
casi sembra incompatibile con l’art. 125 Cost. La Corte costituzionale ha concluso che ogni
deroga alla ripartizione ordinaria di competenza dei Tar debba rispondere a una giustificazione
apprezzabile; altrimenti risulta illegittima.

Altri casi di competenza funzionale sono rappresentati da:

- Competenza del Tar Lombardia per i ricorsi proposti contro i provvedimenti dell’Autorità per
l’energia elettrica e il gas

- Competenza territoriale del giudice dell’ottemperanza

- Competenza territoriale per i giudizi abbreviati contemplati nell’art. 119 cpa

Infine il codice qualifica come funzionale qualsiasi altra ipotesi di competenza assegnata dalla
legge a un Tar in deroga ai tre criteri generali.

Nel caso di impugnazione di atti connessi (cd CUMULO OGGETTIVO), che sarebbero di per
sé oggetto della competenza di Tar diversi, la competenza funzionale prevale rispetto alla
competenza inderogabile.

Per quanto riguarda il Consiglio di Stato, va ricordato che per le funzioni giurisdizionali erano
state istituite 3 sezioni (Quarta, Quinta e Sesta). A queste 3 sezioni giurisdizionali si è aggiunta
dal gennaio 2011 la Terza sezione, che originariamente esercitava funzioni consultiva, ma alla
quale il Presidente del Consiglio di Stato ha assegnato compiti giurisdizionali. L’art. 54 aveva
infatti conferito al Presidente del Consiglio di Stato la facoltà di articolare diversamente l’attività
delle singole sezioni. Il compito più importante assegnato alle sezioni giurisdizionali è quello di
giudice d’appello nei confronti delle pronunce dei Tar. Se la questione sottoposta al Consiglio di
Stato può dar luogo a contrasti di giurisprudenza o risulti di particolare importanza, la decisione
può essere rimessa all’Adunanza plenaria. Essa è costituita da componenti delle diverse sezioni
giurisdizionali e svolge un’importante funzione nomofilattica e di raccordo nella giurisprudenza
amministrativa. Nei confronti delle sentenza del Tar Sicilia l’appello va proposto al Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione siciliana. Un utile strumento di coordinamento tra il
Consiglio di Stato e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana è
rappresentato dalla possibilità riconosciuta anche a quest’ultimo di rimettere all’Adunanza
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plenaria del Consiglio di Stato i ricorsi che abbia dato luogo o possono dar luogo a contrasti
giurisprudenziali. Anche gli eventuali conflitti di competenza sono decisi dall’Adunanza plenaria.

 Le parti: le parti necessarie

Anche nel processo amministrativo vale la distinzione fra parti necessarie e parti non necessarie:
la garanzia del contraddittorio rispetto alle prime costituisce una condizione per la validità della
sentenza, mentre nei confronti delle seconde è consentita la partecipazione al giudizio, ma non vi
è alcun obbligo di portare a loro conoscenza il ricorso né di integrare rispetto ad essi il
contraddittorio. Nel processo amministrativo parti necessarie sono, oltre al ricorrente, anche
l’amministrazione resistente e i controinteressati, soggetti titolari di un interesse qualificato
che può essere pregiudicato dal ricorso e su cui può avere incidenza diretta il giudicato; le altre
parti possono essere titolari solo di un interesse diverso, che le legittima solo a interventi.

Il ricorrente fa valere in giudizio un proprio interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione


esclusiva, una proprio diritto soggettivo. L’interesse qualificato del ricorrente identifica la
posizione soggettiva su cui verte il giudizio. Questa posizione del ricorrente emerge nel fatto
che l’introduzione del giudizio dipende da un suo atto di iniziativa: il ricorso. Emerge anche nel
fatto che tale atto di iniziativa individua l’oggetto su cui verterà il giudizio e che il ricorrente ha la
disponibilità dell’azione proposta, nel senso che può anche ad essa rinunciare, senza che le altre
parti possano opporsi, lavo il caso che abbiano un interesse alla prosecuzione del giudizio. Si
tanga presente che il ricorso può essere proposto anche da più soggetti congiuntamente fra loro
(ricorso collettivo), purché le loro posizioni siano omogenee.

Parte necessaria nel processo amministrativo è anche l’amministrazione che ha emanato l’atto
impugnato, o rispetto alla quale è maturato il silenzio, o nei cui confronti viene fatto valere il
diritto soggettivo, in caso di giurisdizione esclusiva. Per amministrazione deve intendersi l’ente
pubblico (o, nel caso dell’amministrazione statale, il ministero), e non un organo di essa.
L’amministrazione resistente, nel processo, è parte e non autorità: è soggetta in tutto e per tutto
alle regole del processo, su un piano di parità rispetto alle altre parti, senza immunità o privilegi.
Questa regola ha rilevanza costituzionale. Anche il ruolo dell’amministrazione in giudizio è
quello di un soggetto che è parte perché il giudizio inerisce a un suo proprio interesse: l’interesse
al mantenimento di un suo atto, impugnato dal ricorrente. Il ricorso al giudice amministrativo
può essere proposto, in alcune ipotesi, anche nei confronti di un soggetto privato. In questa
ipotesi, anche la posizione processuale di tale soggetto viene modellata su quella
dell’amministrazione resistente.

Infine, sono parti necessarie i controinteressati. Sono tali i soggetti ai quali l’atto impugnato
conferisce un’utilità specifica. Di conseguenza essi sono titolari di un interesse qualificato alla
conservazione dell’atto impugnato. Nel caso in cui vi sia più di un controinteressato, il ricorso è
ammissibile anche se notificato a uno solo di essi; nei confronti degli altri, però, deve essere
effettuata l’integrazione del contraddittorio, nei tempi e con le modalità disposte dal Tar,
sempre che essi non siano già intervenuti spontaneamente in giudizio. Se intervengono
spontaneamente in giudizio, ad essi non può essere opposta alcuna preclusione conseguente
all’avanzamento del processo. I controinteressati sono in una posizione simmetrica rispetto al
ricorrente: se il ricorrente lamenta una lesione a un suo interesse legittimo, determinata da un
provvedimento amministrativo, i controinteressati invece traggono dall’atto impugnato la
realizzazione del loro interesse legittimo. Questa simmetria di posizioni implica una parità di
trattamento nel processo. Anche la disciplina del processo amministrativo contempla istituti volti
specificamente a garantire la parità di posizione dei controinteressati rispetto al ricorrente: ne è

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esempio il ricorso incidentale, col quale essi possono a loro volta proporre censure nei confronti
del provvedimento impugnato dal ricorrente principale o contro atti presupposti. Per
l’identificazione dei controinteressati non è sufficiente il requisito di ordine sostanziale
rappresentato dall’attribuzione a tali soggetti di un’utilità specifica ad opera del provvedimento
impugnato. La giurisprudenza ritiene necessario anche un requisito di ordine formale, e cioè
che il controinteressato sia identificato o facilmente identificabile alla stregua dell’atto
amministrativo stesso. I controinteressati non identificabili nell’atto amministrativo (cd
controinteressati non intimati o controinteressati sostanziali) possono intervenire nel processo
amministrativo e proporre ogni difesa ammessa per i controinteressati; inoltre, se intervenuti,
possono proporre un ricorso incidentale. Il giudice può ordinare la loro chiamata (cd intervento
iussu iudicis). Infine possono impugnare la sentenza con il rimedio dell’opposizione di terzo.

(Segue): le parti non necessarie

Il codice definisce in termini omogenei le modalità per l’ingresso nel processo di una parte non
necessaria, stabilendo che tale ingresso deve avvenire con la notifica di un atto di intervento in
giudizio. Le parti diverse da quelle necessarie sono identificate nel cpa solo in modo generico:
chiunque… vi abbia interesse, può intervenire… in giudizio (art. 28, comma 2 cpa). Prima del
codice, la giurisprudenza tendeva ad escludere che potessero partecipare al giudizio i
cointeressati, e cioè i soggetti titolari di un interesse legittimo analogo a quello del ricorrente. Essi,
in quanto titolari di un interesse analogo a quello del ricorrente, avrebbero potuto impugnare
autonomamente l’atto amministrativo. La possibilità di un loro intervento in giudizio veniva
negata con l’argomento che altrimenti essi avrebbero potuto eludere il termine di decadenza
stabilito per l’impugnazione del provvedimento amministrativo. La giurisprudenza, però, per gli
stessi soggetti, escludeva anche la possibilità di un intervento adesivo.

Un modello differente sembra accolto nel cpa: ai fini dell’intervento, il codice assegna rilievo alla
circostanza che il soggetto non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni. Di conseguenza, è
da ritenere che anche i cointeressati possano intervenire in giudizio, purché prima della scadenza
dei termini per un loro ricorso principale: il loro intervento dovrebbe essere di tipo litisconsortile.
Naturalmente, se preferiscono intervenire nel giudizio promosso da altri, accettano lo stato e il
grado in cui il giudizio si trova e non possono mettere in discussione e far riaprire fasi processuali
già concluse. Si ammette la partecipazione al giudizio per chi subisca gli effetti del
provvedimento impugnato solo in via indiretta, in virtù di una relazione giuridica con una parte
necessaria. In questo caso il provvedimento ha un’incidenza diretta sulla parte necessaria, ma
produce un effetto riflesso anche sul terzo interventore. L’intervento è ammesso così a tutela
di un interesse dipendente. Si discute se a questi fini sia sufficiente, per l’intervento, un interesse
semplice o di fatto: se a questo interrogativo venisse data una risposta affermativa, allora sarebbe
possibile sostenere che l’intervento nel processo amministrativo avrebbe ingresso anche gli
interessi non qualificati. La giurisprudenza più recente sembra orientata favorevolmente, ma è
forte il dubbio che in realtà, nei casi ammessi dalla giurisprudenza, l’interesse di fatto avrebbe
carattere di interesse giuridico, seppur inerente ad un ordine di rapporti diverso rispetto alla
situazione su cui interviene il provvedimento impugnata. È invece pacifico che non sia sufficiente
l’interesse ad ottenere un precedente favorevole. In questi casi la giurisprudenza ammette un
intervento adesivo dipendente: il soggetto che intervenga a favore del ricorrente (interventore
ad adiuvandum) può solo introdurre argomenti a sostegno dei motivi di impugnazione proposti
dal ricorrente stesso. Invece il soggetto che intervenga in una posizione dipendente da quella
della parte resistente o di un controinteressato (interventore ad opponendum) non incontra
particolari limitazioni in merito alle conclusioni. Si è notato che, oltre ai soggetti titolari di una
posizione giuridica dipendente da quella dell’amministrazione o dei controinteressati, possono
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proporre intervento ad opponendum anche i soggetti titolari di un interesse giuridico
autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, diversi dai controinteressati.

Si tratta di soggetti direttamente interessati, che non sono però destinatari di specifiche utilità
giuridiche assegnate loro dal provvedimento amministrativo. Pur non essendo parti necessarie
del processo di primo grado, se siano intervenuti in giudizio possono impugnare la sentenza loro
sfavorevole. A maggior ragione, si deve ritenere che, quando siano intervenuti in giudizio, il loro
intervento non abbia carattere dipendente e possano proporre perciò ogni ordine di difesa, dar
corso ad atti d’impulso del processo, ecc.

 La capacità processuale e il patrocinio legale

Per quanto riguarda la capacità processuale, vigono, nel processo amministrativo, i principi
vigenti anche per il processo civile (art. 75 cpc). In particolare, le persone giuridiche, sia
pubbliche che private, stanno in giudizio a mezzo dei loro legali rappresentanti. Frequentemente,
però, il rappresentante legale dell’ente può stare in giudizio solo se è autorizzato da un altro
organo dell’ente, cui spetta decidere se l’ente debba agire o resistere in giudizio. La delibera che
autorizza a stare in giudizio, secondo la giurisprudenza, può intervenire anche in un momento
successivo alla costituzione in giudizio, perché rileverebbe come condizione di efficacia. Nel
processo amministrativo è obbligatorio il patrocinio di un avvocato (art. 22 cpa): solo nel giudizio
di primo grado in materia elettorale, nel giudizio in materia di accesso a documenti
amministrativi e in altre ipotesi minori (art. 23 cpa) la parte può stare in giudizio personalmente.
Nel giudizio avanti al Consiglio di Stato la parte non può mai stare in giudizio personalmente e
deve essere assistita da un avvocato abilitato al patrocinio avanti alle giurisdizioni speciali (art. 22,
comma 2 cpa). Il codice precisa che la procura conferita all’avvocato lo abilita di regola, anche a
proporre per la parte il ricorso incidentale e i motivi aggiunti: è consentito al difensore proporre
per la parte assistita anche domande nuove. La procura, se non sia disposto diversamente, non
abilita, invece, il difensore al compimento di atti di disposizione del ricorso e dell’interesse
dedotto in giudizio (come la rinuncia al ricorso). Per le forme della procura speciale, valgono le
regole stabilite nel cpc (art. 83 cpc). L’amministrazione statale è rappresentata e assistita
dall’Avvocatura dello Stato.

 I principi generali del processo

Il processo amministrativo è soggetto al cd PRINCIPIO DELLA DOMANDA. A questo


principio vengono ricondotti 3 ordini fondamentali di profili:

1. Il primo attiene all’iniziativa processuale. Il giudice amministrativo non può esercitare le sue
funzioni giurisdizionali d’ufficio: l’esercizio delle sue funzioni presuppone sempre il ricorso
proposto dalla parte.

2. Il secondo attiene all’oggetto del giudizio. Il giudice amministrativo è tenuto a pronunciarsi


sulla domanda: essa è formulata nel ricorso principale e può essere integrata solo dai motivi
aggiunti e dal ricorso incidentale, e nei giudizi su diritti devoluti alla giurisdizione esclusiva, dalle
domande riconvenzionali. Il principio della domanda ha come corollario il divieto di
ultrapetizione: il giudice non può pronunciarsi oltre i limiti della domanda, né può pronunciarsi
su eccezioni che siano riservate dalla legge alle parti (cd eccezioni in senso stretto o in senso
tecnico). Nei giudizi in materia di contratti pubblici in alcuni casi il codice assegna al giudice
poteri peculiari, esercitabili anche d’ufficio. La giurisprudenza ha però escluso che questi poteri
possano essere esercitati in altre vertenze: in particolare ha escluso che anche nelle altre vertenze
il giudice possa assegnare d’ufficio al ricorrente il risarcimento dei danni, invece di procedere
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all’annullamento dell’atto impugnato. Nel processo amministrativo, le eccezioni di rito solo in casi
particolari sono riservate alle parti. Per quanto riguarda le eccezioni di merito, esse devono
ritenersi assoggettate alla disciplina loro propria in base al diritto sostanziale.

3. Il terzo profilo riconducibile al principio della domanda è rappresentato dal diritto della parte
di disporre della propria domanda: il ricorrente mantiene la disponibilità dell’azione anche
dopo l’introduzione del processo amministrativo. Di conseguenza, una volta proposto il ricorso,
può sempre rinunciare a sinoli motivi di impugnazione e può anche rinunciare al ricorso stesso.
In base all’art. 84 cpa le altre parti possono opporsi alla rinuncia al ricorso solo se hanno interesse
alla prosecuzione del giudizio.

Nel processo amministrativo vige, inoltre, il PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO,


previsto dall’art. 101 cpc e garantito dall’art. 111 Cost: il giudice non si può pronunciare sulla
domanda, se prima non sia stato integrato il contraddittorio rispetto a tutte le parti necessarie del
giudizio. Di regola il ricorso al giudice amministrativo deve essere previamente notificato, a pena
di inammissibilità, all’amministrazione che ha emanato l’atto impugnato (se l’atto è imputabile a
più di una amministrazione, va notificato a ciascuna di esse) e ad almeno uno dei
controinteressati. Se vi sono anche altri controinteressati, il giudice amministrativo, prima di
procedere alla decisione del ricorso, deve ordinare al ricorrente di integrare il contraddittorio con
la notifica del ricorso agli altri controinteressati e il ricorso può essere deciso solo dopo che a tutti
i controinteressati sia stata data la possibilità di costituirsi in giudizio.

Rispetto al principio del contraddittorio meritano di essere richiamati ulteriori elementi di rilievo,
introdotti dal codice:

1. Il primo è rappresentato dal bilanciamento fra la garanzia del contraddittorio e l’esigenza di


assicurare una celere definizione del giudizio. L’art. 49, comma 2 cpa stabilisce che nel giudizio
di primo grado l’integrazione del contraddittorio non è necessaria, nei casi in cui il ricorso sia
manifestamente irricevibile, inammissibile o infondato; analogamente dispone l’art. 95, comma 5
cpa per il giudizio di appello.

2. Un’altra previsione di rilievo è rappresentata dalla regola in base alla quale il contraddittorio
deve essere assicurato in modo pieno, oltre che ai fini della decisione sul ricorso, anche ai
fini della pronuncia sull’istanza cautelare. Prima di adottare una pronuncia sull’istanza
cautelare, il collegio deve verificare che tutte le parti necessarie siano state evocate in giudizio e,
in caso contrario, deve disporre l’integrazione del contraddittorio. Prima dell’integrazione del
contraddittorio, possono essere concesse misure cautelari provvisorie.

3. Anche nel processo amministrativo è stata affermata la regola secondo cui il giudice, se ritiene
di adottare una decisione del ricorso sulla base di una questione rilevata d’ufficio, deve
sottoporla previamente alle parti. Lo svolgimento del processo amministrativo è assoggettato a
un IMPULSO DI PARTE: una volta depositato il ricorso, la decisione può intervenire solo se
una delle parti costituite abbia fissata l’istanza per la fissazione dell’udienza di discussione. Se
l’istanza non è presentata entro 1 anno dal deposito del ricorso, matura la PERENZIONE e va
dichiarata l’estinzione del giudizio (artt. 71 e 81 cpa). L’istanza deve essere rinnovata nel caso di
cancellazione della causa da ruolo. L’istanza non è richiesta, invece, per i giudizi assoggettati al
cd rito camerale, come quelli in materia di silenzio, di accesso ai documenti amministrativi e per
l’ottemperanza. In questi casi la decisione del ricorso è assunta dopo una camera di consiglio che
è fissata d’ufficio. Se il giudizio non è stato ancora definito dopo 5 anni dal deposito del
ricorso, è richiesto un nuovo atto d’impulso processuale. È disposto che alla scadenza dei 5
anni la segreteria del giudice amministrativo comunichi un apposito avviso al ricorrente. Se
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questi ha ancora un interesse alla decisione, deve depositare entro 180 gg una nuova istanza di
fissazione d’udienza, che in questo caso particolare deve essere sottoscritta, oltre che dal
difensore, anche dalla parte personalmente (art. 82 cpa). In mancanza della nuova istanza, il
giudizio si estingue per perenzione.

Il giudice ha il dovere di motivare i propri provvedimenti decisori in maniera chiara e sintetica.


Il criterio della sinteticità nella redazione degli atti di parte è stato ricondotto dalla giurisdizione
a doveri più generali di lealtà processuale e di cooperazione per attuare il principio della
ragionevole durata del processo.

 Il rapporto con la disciplina del processo civile

In vari casi il cpa rinvia espressamente a disposizioni del cpc. Ciò vale, in particolare, per:

- La disciplina del regolamento di giurisdizione (art 10)

- Le cause di astensione e di ricusazione del giudice (artt. 17 e 18)

- Le cause di ricusazione del verificatore o del consulente tecnico (art 20)

- Le spese di giudizio (art 26) - Le modalità di notificazione degli atti processuali (art 39)

- La notificazione degli atti nel corso del giudizio alle parti costitute (artt 42, 43 e 50)

- Le modalità di determinati adempimenti istruttori (artt. 63 e 68)

- Le cause di sospensione del processo (art. 79)

- I casi di revocazione (artt. 58, 92 e 106)

- Le tipologie di impugnazioni incidentali delle sentenze (art 96)

- L’efficacia come titolo esecutivo delle sentenze che condannino al pagamento di somme di
denaro (art. 115)

- Il decreto ingiuntivo (art. 118) In molti casi le disposizioni del cpa riproducono il testo di
articoli del cpc: ciò si riscontra soprattutto nel terzo libro, dedicato alle impugnazioni delle
sentenze, ma anche in altri casi.

L’art. 39 cpa introduce anche un rinvio più generale: le disposizioni del cpc si applicano al
processo amministrativo per quanto non disposto dal presente codice e in quanto compatibili o
espressione di principi generali (cd rinvio esterno). L’art. 39 cpa solleva vari interrogativi: essi
nascono innanzitutto dalla difficoltà di individuare l’effettiva portata del rinvio. Per valutare l’art.
39 è utile considerare alcuni elementi emersi nel dibattito precedente al codice. Le leggi sul
processo amministrativo non contemplavano disposizioni analoghe, ma la frammentarietà e
l’incompletezza della disciplina comportavano spesso l’esigenza di fare riferimento ad altre
discipline processuali per colmare le lacune. Il problema assumeva un rilievo particolare nelle
controversie in materia di diritti devolute alla giurisdizione esclusiva, dato che per esse a
disciplina positiva del processo amministrativo era del tutto carente e il cpc sembrava identificare
gli strumenti di tutela più appropriati per i diritti. Il cpc avrebbe identificato la legge processuale
generale e di conseguenza rispetto ad essa le disposizioni sul processo amministrativo si
sarebbero caratterizzate solo come norme speciali. Nel dibattito precedente al codice è maturata
una soluzione differente. È prevalsa la convinzione che, di regola, il rinvio alla norma processual-

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civilistica non potesse operarsi indiscriminatamente, neppure nel caso di lacune, ma richiedesse
una valutazione di compatibilità dei due ordinamenti processuali rispetto a un determinato
istituto o in un determinato settore. Il processo amministrativo costituisce un sistema processuale
autonomo e distinto da quello civile. Di conseguenza i rapporti fra i due sistemi processuali non
possono essere risolti nei termini del rapporto fra una disciplina generale e una disciplina speciale.
In questo modo viene meno anche la ragione di un rinvio automatico e generale al codice di rito.
Solo quando le regole del cpc riflettono principi e istituti che sono accolti nei medesimi termini
anche nel processo amministrativo, allora è corretto fare riferimento ad esse. La possibilità di
trasporre nel processo amministrativi interi istituti del processo civile, anche se manchino
richiami o previsioni di coordinamento, deve tendenzialmente essere esclusa. Il confronto col cpc
è invece centrale quando vengano affrontate questioni interpretative di disposizione del cpa
concernenti istituti comuni, o affini.

CAPITOLO UNDICESIMO – IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

 L’introduzione del giudizio

Il secondo libro del cpa è dedicato al giudizio di primo grado. Viene dettata una disciplina di
carattere generale: in base all’art. 38 cpa (sul cd rinvio interno), per tutto quanto non
diversamente disposto dal codice, vale anche per i giudizi d’impugnazione, per i riti speciali e per
il giudizio di ottemperanza. Il giudizio avanti al Tar è introdotto con la notifica di un ricorso (art.
41, comma 1 cpa). Il ricorso è semplicemente l’atto introduttivo del processo amministrativo e col
quale è proposta la domanda giudiziale, indipendentemente dai contenuti della domanda o dagli
interessi tutelati. Nel processo amministrativo, di norma, il ricorso viene prima notificato alle
altre parti e solo successivamente viene depositato (art. 45 cpa).

Contenuti necessari. I contenuti necessari del ricorso sono descritti nell’art. 40 cpa. Il
ricorso deve indicare:

- L’organo giurisdizionale cui è diretto

- Le generalità del ricorrente, del suo difensore e delle altre parti necessarie

- L’oggetto della domanda, identificando, nel caso dell’azione di annullamento, l’atto impugnato

- L’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici su cui si fonda la domanda

- I mezzi di prova

- I provvedimenti richiesti al giudice Il ricorso è sottoscritto dall’avvocato, con l’indicazione della


procura speciale, ovvero (nel caso in cui la parte stia in giudizio personalmente) della parte stessa.

L’art. 44, comma 1 cpa stabilisce che il ricorso è NULLO in caso di difetto di sottoscrizione e di
incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto della domanda, e tale nullità è rilevabile
d’ufficio. In ogni altra ipotesi, il collegio, se riscontra un’irregolarità, può assegnare un termine
alla parte per rinnovare l’atto. Nell’azione di annullamento, la domanda è identificata dalla
richiesta di annullamento di un certo atto in relazione alle censure proposte; in difetto
dell’enunciazione di un vizio, il ricorso contro un provvedimento è inammissibile. Le censure
sono i motivi del ricorso e consistono nella deduzione dei vizi dell’atto impugnato, che ne
giustifichino l’annullamento. Il giudice può accertare l’illegittimità dell’atto impugnato solo in
relazione ai vizi dedotti nel ricorso: il divieto di ultrapetizione comporta non solo che il giudice
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non può annullare atti diversi da quello impugnato, ma anche che non può annullare un atto
impugnato per vizi diversi da quelli dedotti dalla parte. In genere, per vizio dell’atto impugnato si
fa riferimento a uno dei tre ordini tradizionali di vizi di legittimità richiamati oggi anche dall’art.
21 octies legge 241/1990, ma enunciati in origine proprio dalla legge istitutiva della Quarta
Sezione: incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere. Rispetto all’eccesso di potere si
dovrebbe fare riferimento distintamente alle ipotesi di sviamento di potere, di disparità di
trattamento, di ingiustizia manifesta ecc. In realtà, ai fini della identificazione dei motivi del
ricorso, per vizio dell’atto va inteso il profilo specifico in cui si sia storicamente concretato il
contrasto fra l’atto impugnato e l’ordinamento giuridico. Di conseguenza, per esempio, se
l’atto amministrativo è impugnato per violazione di legge, è necessario anche individuare la
norma che si ritiene concretamente violata. Certi vizi possono essere individuati semplicemente
negando la sussistenza, nel caso concreto, di un elemento dell’atto amministrativo: per esempio,
se è dedotto il vizio di incompetenza, la censura si risolve nella negazione della competenza
dell’organo ad emanare l’atto impugnato. Di conseguenza, se l’incompetenza viene affermata nel
ricorso sostenendo che l’emanazione di quell’atto sarebbe spettata a un certo altro organo,
mentre poi emerge nel giudizio che la competenza spettava in realtà a un terzo organo, la
domanda deve essere accolta ugualmente, perché la competenza del secondo o del terzo organo
non è un elemento che identifichi il vizio dedotto, ma è solo un argomento a sostegno della
incompetenza dell’organo che ha emanato l’atto impugnato. Per altri vizi, invece, è necessaria
l’affermazione di un fatto specifico che deve essere allegato dal ricorrente. Il vizio di
contraddittorietà consiste proprio nella incoerenza con la decisione espressa in uno specifico altro
atto. Ciò che rileva a pena di inammissibilità è che il vizio sia oggettivamente identificato nei suoi
elementi concreti, in relazione al provvedimento impugnato (art. 40, comma 2 cpa). Invece un
errore nella qualificazione del vizio non ha rilevanza decisiva, perché il giudice non è vincolato
dalla qualificazione formale del vizio proposta dalla parte.

Il rapporto fra la domanda di annullamento e la singola censura è stato oggetto di letture


diverse. In particolare si contrappongono tesi che danno rilievo all’atto di cui si chiede
l’annullamento (pertanto, quando sia impugnato un solo atto, anche se proponendo censure
diverse, si identificherebbe un’unica domanda) e tesi che invece danno rilievo alle censure
proposte (pertanto, se sia impugnato un unico atto proponendo più censure, si identificherebbe
un a pluralità di domande). Alcune disposizioni del codice accolgono la prima soluzione e su
questa base il Consiglio di Stato ha concluso che il potere della parte di disporre della domanda
comporta anche la possibilità, se sia stato proposto ricorso contro più provvedimenti, di istituire
un ordine vincolante per l’esame dei provvedimenti impugnati da parte del giudice. Dopo un
ampio dibattito, la giurisprudenza di recente ha riconosciuto che la parte, in via di principio,
può graduare le censure secondo l’ordine che ritenga più conveniente, purché lo dichiari in
modo esplicito. Ha però precisato che, indipendentemente da ogni graduazione, alcune
censure avrebbero comunque la precedenza: fra esse, in particolare, l’illegittimità dell’atto
per il vizio di incompetenza. Nel giudizio sul silenzio non è proposta alcuna impugnazione
(perché non vi è alcun atto impugnabile) e di conseguenza non sono neppure configurabili
censure per vizi di legittimità di un atto: la lesione dell’interesse legittimo è causata in questo caso
dall’omissione del provvedimento in una certa situazione o in presenza di una data istanza e nel
ricorso dovranno essere allegate le relative circostanze. Inoltre, sempre nel caso del silenzio e nel
caso dell’azione di adempimento, il cittadino, quando richieda un ordine di provvedere secondo
certe modalità specifiche, come l’ordine di adottare un certo provvedimento, deve dar conto delle
condizioni necessarie per l’emanazione del provvedimento richiesto. Nei casi di giurisdizione
esclusiva, quando non sia impugnato un provvedimento e la controversia verta su diritti
soggettivi, nel ricorso deve essere identificato il diritto fatto valere in giudizio. Quando sia
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necessario, il ricorrente deve indicare anche il titolo o fatto costitutivo del suo diritto. Il codice
non contiene disposizioni particolari sulle modalità di redazione del ricorso. Stabilisce, però, che
le parti devono redigere i loro atti in maniera chiara e sintetica. Questa regola è stata sancita
in termini più rigidi dall’art. 120, comma 6 cpa per i giudizi sull’attività contrattuale
dell’amministrazione: è stato demandato a un decreto del Presidente del Consiglio di Stato di
fissare un limite alla lunghezza dei principali atti processuali.

Notifica. Il ricorso per l’annullamento di un provvedimento amministrativo deve essere


notificato, a pena di inammissibilità, all’amministrazione che ha emanato il provvedimento
impugnato e ad almeno uno dei controinteressati, entro 60 giorni (termine perentorio) dalla
comunicazione, o pubblicazione o piena conoscenza del provvedimento stesso. La notifica a
un’amministrazione statale deve essere effettuata presso l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto
ha sede il Tar competente; se giudice competente è il Tar Lazio o il Consiglio di Stato, la notifica
deve essere effettuata presso l’Avvocatura generale dello Stato, che ha sede a Roma. Il termine di
60 giorni per il ricorso decorre dalla comunicazione (o notificazione) dell’atto amministrativo, per
i diretti destinatari; dalla pubblicazione su albo o pubblicazione ufficiale per i non diretti
destinatari. La comunicazione o pubblicazione dell’atto amministrativo ha come equipollente la
sua piena conoscenza: essa viene identificata con la conoscenza dei contenuti essenziali dell’atto,
in modo che l’interessato sia in grado di coglierne la lesività. La nozione di piena conoscenza
accolta tradizionalmente non appare del tutto coerente con la disciplina introdotta con la legge
241/1990. Questa legge, infatti, da un lato ribadisce il dovere per l’amministrazione di comunicare
ciascun provvedimento ai cittadini che ne siano gli specifici destinatari, dall’altro lato impone
all’amministrazione di porre comunque a disposizione del cittadino il testo dell’atto
amministrativo lesivo di un suo interesse giuridico. La legge assicura al cittadino la conoscenza
effettiva dell’atto lesivo nel suo testo integrale. Per questa ragione, dopo la legge 241/1990, una
parte della giurisprudenza sostenne che la piena conoscenza avrebbe richiesto anche una
conoscenza più completa del provvedimento. La giurisprudenza prevalente appare allineata in
prevalenza sulla posizione tradizionale, che viene ritenuta ancora attuale, anche alla luce del fatto
che il codice non ha dettato in proposito disposizioni nuove e ha concluso che per la decorrenza
del termine del ricorso è sufficiente la mera conoscenza della lesività del provvedimento.

Il codice ha confermato espressamente che la tardività può essere rilevata anche d’ufficio dal
giudice. Naturalmente il giudice può rilevarla solo quando emerga dagli atti del giudizio, mentre
a carico della parte che ne abbia interesse graverebbe l’onere di provare la tardività del ricorso
stesso.

Il termine per la notifica del ricorso è SOSPESO da 1 al 30 agosto di ciascun anno, per le cd ferie
giudiziarie. Solo i termini concernenti azioni cautelari non sono sospesi. Per i giudizi proposti a
tutela di diritti soggettivi che non comportino l’impugnazione di provvedimenti non opera un
termine di decadenza per il ricorso. Il codice ha accolto una soluzione contraria per il silenzio
dell’amministrazione e ha stabilito che nel caso di silenzio il ricorso può essere proposto
fintantoché dura l’inadempimento. È stato però introdotto uno specifico termine decadenziale
di un anno, decorrente dalla scadenza del termine per l’ultimazione del procedimento.

Un termine particolare, pari a 180 gg, è stato introdotto dal codice per la notifica del ricorso
diretto a far dichiarare la nullità di un atto amministrativo, fatto salvo quanto previsto per il
giudizio di ottemperanza. Per la notifica degli atti il cpa richiama la disciplina del processo civile.
Nel caso di nullità della notifica del ricorso, la costituzione delle parti intimate ha effetto
sanante. L’effetto sanante, però, nel processo amministrativo incontra un limite, rappresentato
dalla salvezza dei diritti acquisiti anteriormente alla comparizione. A questa stregua, nel caso di
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nullità del ricorso, la costituzione delle parti intimate, se interviene dopo il termine di 60 giorni
stabilito per la notifica del ricorso, non preclude di rilevare l’inammissibilità del ricorso, per
essere decorso il termine per l’impugnazione del provvedimento. L’art. 44, comma 4 cpa ammette
la rinnovazione della notifica nulla solo se il giudice ritiene che l’esito negativo della notificazione
dipenda da causa non imputabile al notificante. Nel caso che sia autorizzata la rinnovazione della
notifica, la sua effettuazione preclude la decadenza.

Deposito. L’originale del ricorso, con la prova della notifica, deve essere depositato, a pena
di irricevibilità, entro 30 gg dal perfezionamento dell’ultima notifica, presso la segreteria del
Tar adito (art. 45 cpa) (la parte, però, può procedere al deposito già dopo aver richiesto la
notifica, e cioè senza attendere che la notifica si sia perfezionata nei confronti del destinatario).
Questi adempimenti vanno effettuati con modalità telematiche, a partire dall’avvio del cd
processo amministrativo telematico (art. 38 d.l. 90/2014). Con il deposito del ricorso si attua la
costituzione in giudizio del ricorrente. L’amministrazione resistente, all’atto della costituzione,
è tenuta a depositare l’atto impugnato e gli altri atti del relativo procedimento. Il deposito del
ricorso determina la pendenza del giudizio.

Rimessione in termini. Nel caso di impugnazione di un provvedimento, l’assoggettamento


della notifica del ricorso a un termine perentorio dovrebbe comportare sempre l’inammissibilità
del ricorso, quando il termine non sia stato rispettato. In realtà si ammette che, quando
l’inosservanza del termine sia stata determinata da un errore scusabile, il giudice amministrativo
possa concedere alla parte la rimessione in termini per consentirle di procedere a una nuova
notifica. L’istituto della rimessione in termini per errore scusabile era stato previsto dal testo
unico del Consiglio di Stato solo per alcuni casi eccezionali. La giurisprudenza amministrativa
aveva però finito con l’assegnargli una portata generale, ogni qualvolta l’inosservanza del termine
per la notifica del ricorso fosse riconducibile a ragioni oggettivamente apprezzabili, e l’ha
ammesso anche nel caso di inosservanza del termine per la notifica del ricorso incidentale e dei
motivi aggiunti. Il codice ha accolto le esigenze della giurisprudenza, assegnando all’istituto una
portata generale. Inoltre ha esteso la possibilità della rimessione in termini anche alle
inosservanze determinate da gravi impedimenti di fatto, introducendo così un ulteriore margine
per un apprezzamento equitativo del giudice.

 I motivi aggiunti

L’assoggettamento dell’azione d’annullamento a un termine perentorio comporta che, una volta


proposto il ricorso e decorso il termine di 60 giorni per l’impugnazione, siano precluse ulteriori
censure nei confronti dell’atto impugnato. Spesso, però, per rispettare il termine di 60 giorni, il
ricorso viene proposto senza che il ricorrente abbia potuto conoscere in modo completo gli atti
impugnati. Per rimediare a questo grave inconveniente, la giurisprudenza ha ammesso che il
ricorrente che abbia già impugnato un provvedimento e solo successivamente venga a
conoscenza di un vizio possa integrare il ricorso originario con i cd motivi aggiunti.
Originariamente i motivi aggiunti erano pertanto l’atto processuale col quale il ricorrente
modificava la domanda, facendo valere anche i vizi del provvedimento impugnato dei quali
egli fosse venuto a conoscenza solo dopo la notifica del ricorso. Il cittadino con i motivi
aggiunti poteva chiedere che l’annullamento fosse pronunciato anche per tali altri vizi. Una parte
della giurisprudenza ritenne che il ricorrente, con i motivi aggiunti, potesse introdurre nel
giudizio non solo vizi ulteriori dell’atto già impugnato, ma anche l’impugnazione di altri
provvedimenti, purché connessi con quello impugnato. L’impugnazione con motivi aggiunti,
anziché con un ricorso separato, realizzerebbe un’economia processuale. Queste esigenze sono
state recepite anche nel codice, come risulta dall’ampia definizione dettata dall’art. 43, comma 1
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cpa. Tale articolo, infatti, oltre ad ammettere che con i motivi aggiunti possono essere
proposte nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, stabilisce che con le stesse
modalità possano essere proposte domande nuove purché connesse a quelle proposte. Nel
giudizio d’annullamento, domande nuove sono anche quelle proposte contro atti sopravvenuti
nel corso del giudizio, ovviamente purché connessi con quello impugnato nel ricorso
principale. Il codice esclude che di norma l’impugnazione di un atto sopravvenuto con un ricorso
autonomo, anziché con motivi aggiunti, determini irregolarità processuali. Unica conseguenza di
un ricorso autonomo, nel caso di impugnazione di atti connessi, è l’esigenza per il giudice di
procedere alla riunione dei ricorsi.

Nel codice la disciplina dei motivi aggiunti è modellata su quella del ricorso: in particolare per
quanto concerne la notifica all’amministrazione e ai controinteressati, i termini processuali da
osservare per la notifica, i termini per il deposito ecc. I motivi aggiunti devono essere notificati
alle altre parti del giudizio e il termine per la notifica, a sua volta perentorio, ed è pari a 60 giorni
dalla conoscenza dei nuovi documenti. Il cpa stabilisce che, quando l’amministrazione depositi
documenti in giudizio, la segreteria del Tar dia comunicazione del deposito alle parti costituite.
Entro 30 giorni dalla notifica i motivi aggiunti vanno depositati al Tar.

 La costituzione delle altre parti e il ricorso incidentale

Entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, l’amministrazione resistente e le altre parti
intimate (nell’azione di annullamento si tratta tipicamente dei controinteressati, che abbiamo
ricevuto la notifica del ricorso) possono costituirsi in giudizio, depositando una memoria con le
loro difese e istanze istruttorie (cd controricorso) e i relativi documenti. Se il ricorso principale
non è stato notificato a tutti i controinteressati, ma è stato notificato ad almeno uno di essi,
ovvero, nei casi di giurisdizione esclusiva, se non è stato notificato a tutti i litisconsorti necessari,
il giudice amministrativo ordina l’integrazione del contraddittorio. A tal fine fissa il termine
(perentorio) ed eventualmente le modalità per la notifica del ricorso da parte del ricorrente alle
altre parti (art. 49 cpa). Di particolare rilievo è il deposito dei documenti da parte
dell’amministrazione. L’art. 46, comma 2 cpa conferma che l’amministrazione è tenuta a
procedere al deposito del provvedimento impugnato e degli atti del procedimento, anche se non
si costituisca in giudizio. In ogni caso, se l’amministrazione non provvede spontaneamente al
deposito, il giudice le ordina di procedere all’adempimento. Del deposito dei documenti da parte
dell’amministrazione la segreteria del Tar deve dare notizia alle parti costituite. In relazione ai
vizi o atti non precedentemente noi, possono essere proposti motivi aggiunti. Il termine di 60
giorni per la notifica dei motivi aggiunti decorre pertanto da tale comunicazione. Entro 60
giorni dalla notifica del ricorso, le parti resistenti e i controinteressati possono proporre
ricorso incidentale (art. 42 cpa). Originariamente, il ricorso incidentale era l’atto con il quale il
controinteressato poteva impugnare, nel medesimo giudizio, lo stesso provvedimento già
impugnato dal ricorrente, facendo valere però vizi il cui accertamento avrebbe potuto
comportare, anche nel caso di accoglimento del ricorso principale, un risultato a lui favorevole.
La giurisprudenza, già prima del codice, aveva esteso ulteriormente la portata del ricorso
incidentale, riconoscendo al controinteressato la possibilità di proporlo anche per impugnare un
atto diverso da quello impugnato dal ricorrente principale. Prima del codice il ricorso incidentale
era riservato ai controinteressati, sull’argomento che l’amministrazione resistente che avesse
ritenuto illegittimo l’atto impugnato dal ricorrente principale avrebbe potuto senz’altro annullarlo,
nell’esercizio dei suoi poteri di autotutela, e perciò non avrebbe mai potuto proporre un ricorso
incidentale. Oggi, invece, il codice riconosce anche alle parti resistenti la legittimazione a
proporre il ricorso incidentale, e tale espressione è idonea a designare anche l’amministrazione
che abbia emanato l’atto impugnato. In effetti, se si tratta di atti assunti da altre amministrazioni,
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l’amministrazione resistente non dispone di poteri di annullarlo d’ufficio, e l’unico strumento di
cui dispone per contestarli è il ricorso incidentale. Il ricorso incidentale trova fondamento nel
principio della parità delle armi, affermato oggi nell’art. 111 Cost: controinteressati e
amministrazione resistente devono disporre di strumenti processuali, per la loro difesa,
equivalenti a quelli di cui dispone il ricorrente. Il ricorso incidentale va proposto entro un
termine perentorio di pari durata, e cioè di 60 giorni (muta però la decorrenza, che è
rappresentata dalla notifica del ricorso principale). Entro tale termine deve essere notificato
all’amministrazione e alle altre parti. Nei successivi 30 giorni deve essere depositato al Tar. La
presentazione del ricorso incidentale contro atti diversi da quelli impugnati nel ricorso principale
incide anche sulla disciplina della competenza territoriale. Se per l’atto impugnato col ricorso
incidentale è competente il Tar Lazione, oppure è competente un altro Tar in forza di una
competenza funzionale, la cognizione dell’intero giudizio è demandata a tale Tar. In ogni altro
caso rimane ferma la competenza del Tar competente per il ricorso principale.

Nelle controversie su diritti demandate alla giurisdizione esclusiva, la parità fra le parti è
garantita anche attraverso la possibilità di proporre domande convenzionali: esse sono
espressamente ammesse dal codice (art. 42, comma 5 cpa), che assoggetta la loro presentazione
alle stesse modalità e agli stessi termini stabiliti per il ricorso incidentale.

Nel giudizio proposto per l’annullamento di un provvedimento, i termini per il ricorso principale,
i motivi aggiunti e il ricorso incidentale, sono tutti perentori e di uguale durata: sono pari a 60
giorni. L’identità dei termini rispecchia l’esigenza di assicurare la parità delle parti nel processo.
Invece i termini stabiliti per la costituzione delle parti diverse dal ricorso tradizionalmente non
vengono ritenuti perentori: la costituzione può intervenire fino all’udienza di discussione del
ricorso, fermi restando i termini di legge per la presentazione di documenti o di difese scritte. Le
parti intimate si possono costituire fino all’udienza di merito. Le parti costituite sono senz’altro
gravate dall’onere di contestare specificamente i fatti dedotti dalle altre parti.

Una volta instaurato il giudizio, chi vi abbia interesse può intervenite. L’intervento va proposto
con apposito atto, che deve essere notificato alle altre parti e poi depositato presso il Tar avanti al
quale pende il giudizio, almeno 30 giorni prima dell’udienza di discussione (art. 50 cpa). Il codice
prevede espressamente anche l’intervento iussu iudicis: il giudice può ordinare la chiamata in
causa di un terzo, in tutti i casi in cui ritenga opportuno che il processo si svolga nei confronti di
un terzo. Le ragioni di economia processuale che sono alla base dell’intervento iussus iudicis
esigono che anche il giudice amministrativo possa disporre tale intervento, per lo meno rispetto ai
soggetti che avrebbero potuto proporre l’opposizione di terzo. Altrimenti, nei casi in cui si possa
profilare la possibilità di una opposizione di terzo, il giudice sarebbe stato obbligato ad emettere
la sentenza anche in assenza del contraddittorio con un soggetto che successivamente, attraverso
l’opposizione, avrebbe potuto porre in discussione la sua sentenza.

 L’istruttoria: i principi

L’istruzione è l’attività del giudice diretta a conoscere i fatti rilevanti per il giudizio.
L’attività del giudice comporta normalmente, oltre alla valutazione dei termini di diritto della
controversia, anche la conoscenza della vicenda o della situazione in termini di fatto, che è
essenziale per stabilire quali norme siano effettivamente attinenti a quella vicenda o a quella
situazione. La necessità di un’indagine particolare è esclusa quando i fatti non siano controversi,
perché le parti ne forniscono una rappresentazione coincidente. Un’attività istruttoria non è
necessaria anche rispetto ai fatti che siano stati allegati da una parte e che non siano stati
puntualmente contestati dalle altre parti: il codice ha sancito un onere di specifica contestazione

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dei fatti a carico delle parti costituite, con la conseguenza fra l’altro che la parte è esonerata
dall’onere di fornire la prova rispetto ai fatti non contestati. Naturalmente, se tali fatti sono
comunque smentiti da altre risultanza processuali, la circostanza che non fossero stati contestati
non comporta per il giudice l’obbligo di attenersi ad essi. Un’attività istruttoria può svolgersi,
senza soluzione di continuità, anche nel corso della trattazione della controversia davanti
all’organo decidente, e questo è appunto l’assetto cui si conforma il processo amministrativo. Il
tema dell’istruzione probatoria ruota nel processo amministrativo intorno a 3 profili fondamentali:

Rapporto fra le allegazioni di fatti riservate alle parti e i poteri di cognizione del giudice. Il
primo profilo di rilievo concerne l’individuazione dei fatti che possono essere allegati (e cioè
introdotti e fatti valere nel processo) solo dalle parti. Si ricorre molto spesso alla distinzione fra
fatti principali (o primari) e fatti secondari. I fatti principali sono descritti come quei fatti
materiali che identificano la pretesa fatta valere concretamente in giudizio: essi perciò
ineriscono strettamente alla domanda e, in un processo che si basi sul principio della
domanda e, perciò, sulla riserva alla parte della introduzione della domanda nel processo, a loro
volta possono essere introdotti solo dalla parte. L’allegazione dei fatti principali, quindi, non
attiene propriamente al tema dell’istruttoria: attiene piuttosto al tema della domanda. I fatti
secondari, invece, sono costituiti dai fatti materiali la cui dimostrazione consente di
verificare o meno la sussistenza o meno dei fatti principali o la loro rilevanza o operatività.
Anche nel processo amministrativo si tende ad accogliere la distinzione fra fatti principali e fatti
secondari. Però non è chiaro che cosa si debba intendere per fatto principale nel giudizio di
impugnazione di un provvedimento amministrativo; ovviamente l’incertezza su questo punto
condiziona anche l’individuazione dei fatti secondari. Nel caso dell’azione di annullamento
appare logico aderire all’interpretazione secondo cui i fatti principali corrispondono ai fatti
materiali su cui si fonda la pretesa dell’annullamento dell’atto impugnato. Essi, quindi, si
identificano innanzitutto con gli elementi di fatto costitutivi del vizio dedotto in giudizio. Di
conseguenza nel caso in cui si impugni un provvedimento discrezionale per il vizio di
contraddittorietà rispetto a un altro provvedimento, assurge a fatto principale anche il
provvedimento preso a confronto. Costituiscono invece fatti secondari le circostanze di fatto
sussistenti in occasione del secondo provvedimento. È pacifico che nel processo amministrativo i
fatti principali possono essere introdotti solo dalle parti, altrimenti sarebbe messa in discussione
la vigenza del principio della domanda. Si discute, invece, se i fatti secondari possono essere
introdotti anche dal giudice. Nella giurisprudenza e nella dottrina prevale l’orientamento
negativo: di conseguenza anche la loro allegazione doveva essere riservata alle parti. Questa
conclusione appare rafforzata dal codice, che identifica a carico della parti un vero e proprio
onere della prova. I vincoli e gli effetti che comportano, per i poteri istruttori del giudice, le
istanze istruttorie delle parti. Il secondo profilo di rilievo attiene invece alla prova dei fatti.

Nel processo amministrativo (art. 63, comma 1 cpa) vale il principio generale sancito dall’art.
2697 cc sull’onore della prova. Esso comporta, fra l’altro, che la parte che contesta la legittimità
di un provvedimento deve fornire la prova dei fatti posti a fondamento della sua
contestazione e che la regola di giudizio, nel caso di incertezza su un fatto, è contraria alla parte
che avrebbe dovuto fornire la prova di quel fatto.

La mancanza della prova determina la SOCCOMBENZA. In passato si è ritenuto che il cd


principio dispositivo imponesse, accanto al principio della domanda, anche la riserva alle parti
della richiesta dei mezzi di prova: il giudice non può disporre mezzi di prova se non in base a
richieste delle parti (cd principio della trattazione). Alla disponibilità della domanda sembrava
dovesse corrispondere, almeno tendenzialmente, l’iniziativa per la prova di tali fatti. Tuttavia si
riteneva anche che il processo amministrativo non fosse ispirato a criteri del genere, perché il
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giudice amministrativo poteva disporre anche d’ufficio tutti i mezzi istruttori a sua disposizione,
ferma restando che oggetto di prova potevano essere solo i fatti allegati dalle parti. Il processo
amministrativo per quanto concerne l’istruttoria sarebbe stato caratterizzato da tale potere
d’ufficio del giudice nella iniziativa per la prova dei fatti. In ciò consiste il cd metodo acquisitivo.
Nel codice la materia viene affrontata in alcune disposizioni imprecise e contraddittorie. L’art. 64,
comma 2 cpa, che riproduce sostanzialmente l’art. 115, comma 1 cpc, vincola il giudice alle prove
proposte dalle parti, e sembra così alludere al principio della trattazione; analogamente l’art. 65,
comma 1 cpa richiede per i provvedimenti istruttori una istanza motivata di parte. Tuttavia l’art.
63 cpa, per i singoli mezzi di prova, e l’art. 64, comma 3 cpa, per la richiesta di informazioni e di
documenti all’amministrazione, prevedono che il giudice possa procedere anche d’ufficio; unica
eccezione è, nell’art. 63, comma 3 cpa, la prova testimoniale, che può essere ammessa solo su
istanza di parte, ma che nel processo amministrativo è soggetta a limitazioni sostanziali.
L’istruttoria nel processo amministrativo si ispira anche al metodo acquisitivo: in generale vale
sempre il principio della officiosità dell’iniziativa istruttoria del giudice. In genere è
l’amministrazione che dispone della prova dei fatti rilevanti, che ha acquisito nel corso del
procedimento amministrativo, mentre conformemente ai principi generali l’onere della prova dei
fatti su cui si fonda il ricorso grava sul ricorrente. Il giudice amministrativo molto spesso esercita
i suoi poteri istruttori richiedendo all’amministrazione di esibire certi documenti, o di fornire
chiarimenti, o di svolgere verificazioni, e così finisce col gravare l’amministrazione dell’onere di
fornire la prova di determinati fatti che sono nella sua disponibilità. Si tenga presente che
l’inadempimento al provvedimento istruttorio può essere considerato dal giudice come elemento
per accogliere la ricostruzione di quei fatti proposta dal ricorrente. In particolare l’art. 64, comma
4 cpa riconosce espressamente anche al giudice amministrativo di desumere argomenti di prova
dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo.

Le parti, naturalmente, sono pienamente legittimate a formulare istanza istruttorie: su di essere il


giudice è tenuto a provvedere. Il giudice non è vincolate ad essere, perché può disporre mezzi
istruttori anche in assenza di una specifica istanza delle parti. L’esercizio dei poteri istruttori del
giudice richiede che la parte abbia fornito un principio di prova dei fatti da dimostrare. Alcuni
intendono per “principio di prova” la verosimiglianza dei fatti, altri hanno affermato che consiste
in meri argomenti di prova o generiche presunzioni, altri ancora hanno ritenuto che fosse
sufficiente l’allegazione dei fatti ad opera delle parti.

Per quanto riguarda il terzo profilo fondamentale relativo al vincolo che comporta il risultato
dell’istruttoria per la decisione del giudice, va tenuto presente che il processo amministrativo si
basa sul principio del libero apprezzamento del giudice: le prove accolte nel giudizio sono
rimesse, quanto alla loro valutazione, al prudente apprezzamento del giudice. Questo principio
comporta l’esclusione delle prove legali, come il giuramento e la confessione, che si
caratterizzano invece per vincolare il giudice alla verità di un certo fatto, precludendogli di
assumere una decisione difforme. All’esclusione delle prove legali, fa eccezione la disciplina
dell’atto pubblico, che anche nel processo amministrativo ha l’efficacia prevista dall’art. 2700 cc.

(Segue): i provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori

L’istruttoria nel giudizio ha come obiettivo non la revisione o la correzione del procedimento
amministrativo, ma l’acquisizione di tutti gli elementi di fatto utili per la decisione giurisdizionale.
Se il giudice amministrativo ravvisa una inadeguatezza nell’istruttoria svolta
dall’amministrazione nel procedimento, non restituisce gli atti all’amministrazione perché
provveda a integrare l’istruttoria, ma assume egli stesso le conseguenti decisioni in ordine alla
legittimità dell’atto impugnato. I poteri istruttori del giudice amministrativo si estendono a tutti i
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mezzi di prova previsti dal cpc, fatti salvi il giuramento e l’interrogatorio formale. Sono
confermati nel codice i tre mezzi istruttori tradizionalmente contemplati dalle leggi sul processo
amministrativo.

La richiesta di chiarimenti consiste nella richiesta all’amministrazione di informazioni su


fatti rilevanti per il giudizio. Nel processo amministrativo può essere indirizzata anche nei
confronti di un’amministrazione che sia parte in causa.

La richiesta di documenti. La richiesta di documenti può avere per oggetto qualsiasi


documento inerente alla materia del contendere che risulti nella disponibilità
dell’amministrazione. Il giudice amministrativo può richiedere l’esibizione dei documenti anche
nei confronti delle altre parti e nei confronti di terzi.

Le verificazioni. Le verificazioni possono avere contenuti molto ampi e in particolare possono


riguardare anche l’accertamento di fatti o di situazioni complesse. Il giudice può acquisire in
questo modo anche gli elementi tecnici che sono necessari per un apprezzamento dei fatti. Il
giudice amministrativo ordina l’espletamento della verificazione a un organismo, e il termine
organismo prospetta una portata più ampia, che non dovrebbe circoscriversi ai soli soggetti
pubblici. Inoltre il codice ha valorizzato la figura del funzionario o del tecnico incaricato di
eseguirla, il cd verificatore, dandogli specifico rilievo ed estendendo nei suoi confronti le cause di
incompatibilità e di ricusazione previste dal cpc per il 111 consulente tecnico. L’estensione
dell’ambito dei soggetti (organismi) cui demandare la verificazione non impedisce che della
verificazione possa essere incaricata un’amministrazione interessata al giudizio; il richiamo al
sistema delle cause di incompatibilità e di ricusazione non è decisivo, se si ammette ancora che
verificatore possa essere anche un dipendente di una parte in causa. In considerazione di questi
limiti sarebbe logico assegnare uno spazio più ampio alla consulenza tecnica, introdotta dalla
legge 105/2000 ed espressamente contemplata anche dal codice. La consulenza, infatti, è affidata
a un perito che deve essere in condizioni di terzietà rispetto alle parti, proprio come è
richiesto nel processo civile. Il codice ha stabilito che la consulenza tecnica possa essere disposta
solo eccezionalmente. La consulenza tecnica non è normalmente un mezzo di prova: dovrebbe
consentire di acquisire gli elementi tecnici necessari per comprendere il significativo e il valore di
quel fatto. Ciò non significa, però, che tutte le valutazioni tecniche effettuate
dall’amministrazione possano essere riesaminate dal giudice attraverso una consulenza o una
verificazione. Attraverso la verificazione o la consulenza il giudice può verificarne l’attendibilità,
o la coerenza con criteri essenziali, ma non può spingersi fino al punto di verificarne la loro
intrinseca esattezza o la loro concreta condivisibilità.

Il codice prevede che, su istanza di parte, il giudice amministrativo possa ammettere la prova
testimoniale. L’introduzione in via generalizzata di questa prova è accompagnata però da una
significativa riserva. La prova testimoniale, infatti, è ammessa solo in forma scritta. Obiettivo del
codice era di introdurre nel processo amministrativo una prova testimoniale necessariamente in
forma scritta, per accelerare lo svolgimento dell’istruttoria nel processo amministrativo e per
evitare l’impegno richiesto dall’audizione diretta del teste da parte del giudice. Infine, il giudice
amministrativo, in qualsiasi fase del giudizio, può chiedere alle parti chiarimenti sui fatti che
ritenga rilevanti. In generale i provvedimenti istruttori del giudice possono essere adottati dal
Presidente o da un magistrato da lui delegato, in qualsiasi momento del processo fino all’udienza
di discussione. Inoltre possono essere adottati dal collegio nel corso o in esito alla trattazione
dell’istanza cautelare o all’udienza di discussione. Soltanto la verificazione e la consulenza tecnica
sono sempre riservati al collegio. I provvedimenti istruttori sono adottati con ORDINANZA (art.
36 cpa).
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 Gli incidenti del giudizio

Una serie di eventi può incidere sullo svolgimento del giudizio, condizionandone l’ulteriore corso
a procedimenti avanti ad altri giudici o comunque impedendo la prosecuzione del giudizio, fino al
compimento di ulteriori atti di impulso processuale delle parti. Questi eventi possono
determinare la sospensione o l’interruzione del giudizio. In generale sono richiamate le
disposizioni del cpc (art. 79, commi 1 e 2 cpa). Per quanto concerne la sospensione necessaria
per ragioni di pregiudizialità, vanno considerate:

- Le questioni inerenti allo stato e alla capacità delle persone

- L’incidente di falso La decisione su queste questioni è riservata al giudice civile e il giudice


amministrativo non può provvedere su di esse neppure in via incidentale.

In questi casi la sospensione del giudizio deve essere disposta sulla base di una semplice
valutazione della rilevanza della questione rispetto al giudizio amministrativo.

La sospensione è invece rimessa a una valutazione di opportunità del giudice amministrativo


quando sia pendente un procedimento penale relativo ai medesimi fatti di cui si controverte nel
processo amministrativo. Il processo amministrativo deve essere sospeso quando il collegio abbia:

1. Sollevato una questione di legittimità costituzionale

2. Deferito alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale, di interpretazione di una norma
comunitaria

In tali ipotesi e in ogni altra ipotesi di sospensione necessaria del giudizio, la sospensione viene
disposta con ORDINANZA APPELLABILE e non preclude comunque la possibilità di
richiedere al giudice amministrativo pronunce cautelari. Il Consiglio di Stato ammette, inoltre,
una sospensione facoltativa del giudizio quando una questione di legittimità costituzionale
astrattamente rilevante per una vertenza sia stata sollevata in altro giudizio.

Anche nel processo amministrativo è ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione (art


41 cpc): il regolamento è proposto dalle parti, con istanza diretta alla Corte di cassazione, finché
sul ricorso non sia intervenuta una decisione del Tar. La proposizione del regolamento non
comporta però automaticamente la sospensione del giudizio: la sospensione è disposta dal
Tar, solo dopo aver verificato che l’istanza di regolamento non sia manifestamente
inammissibile o infondata. Il codice non contempla espressamente la sospensione su richiesta
concorde delle parti: oggi il richiamo ampio nel codice alla disciplina della sospensione nel
processo civile consente di dare spazio alla soluzione affermativa.

La sospensione è disposta dal Tar con ORDINANZA. Anche il cpa ha introdotto la possibilità di
un gravame: ha stabilito che le ordinanze di sospensione del processo siano suscettibili di appello
al Consiglio di Stato. Nel cpa è richiamato anche l’istituto dell’interruzione del processo, per il
quale è fatto rinvio alla disciplina del cpc. Quando sia cessata la causa di sospensione del giudizio
o si sia prodotta l’interruzione, per la prosecuzione del giudizio è necessario un nuovo atto di
impulso. Nel processo amministrativo tale atto si identifica normalmente con una ISTANZA DI
DISCUSSIONE DEL RICORSO, da presentare in un termine breve. Un vero e proprio atto
di riassunzione, che deve essere notificato alle altre parti, è richiesto soltanto nel caso di
interruzione, se la parte nei cui confronti si sia verificato l’evento interruttivo non abbia già
presentato una nuova istanza di fissazione d’udienza.

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 La decisione

Perché il ricorso possa essere esaminato dal giudice è richiesto di norma un atto d’impulso
processuale, costituito dalla domanda al Presidente di fissare l’udienza di trattazione del ricorso.
L’istanza di fissazione dell’udienza va presentata entro un anno dal deposito del ricorso, a
pena di perenzione del giudizio. In caso di urgenza, la parte può chiedere al presidente del Tar
di anticipare la fissazione dell’udienza, rispetto al normale criterio di trattazione secondo l’ordine
cronologico: a tal fine deve presentare un’ulteriore domanda, l’istanza di prelievo. Una volta
presentata tale istanza, il Tar può fissare una camera di consiglio, in esito alla quale, dopo aver
accertato la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e dopo aver sentito sul punto le
parti costituite, può decidere il ricorso con una SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA.
Per agevolare la definizione del contenzioso, è assegnata priorità, nella fissazione dell’udienza, ai
ricorsi che concernono una sola questione di diritto, purché le parti concordino sui fatti rilevanti
per la controversia. In seguito alla presentazione dell’istanza, il Presidente fissa l’udienza di
discussione del ricorso, di cui deve essere data comunicazione alle parti con un preavviso pari di
norma ad almeno 60 giorni. Il codice ha stabilito che l’ordinanza del Tar che disponga una
misura cautelare deve anche fissare l’udienza di discussione; se non sia stata fissata l’udienza, è
ammesso anche solo a questi fini l’appello al Consiglio di Stato. Le parti costituiste possono
depositare:

a. Documenti fino a 40 giorni liberi prima dell’udienza

b. Memorie conclusionali fino a 30 giorni prima

c. Memorie di replica fino a 20 giorni prima

Si tenga presente che questi termini, così come i termini per la fissazione dell’udienza, possono
essere anche abbreviati fino alla metà, in caso di urgenza, su istanza di parte. Nell’udienza, che è
pubblica, ciascuna delle parti può intervenite, attraverso il proprio difensore, per illustrare
sinteticamente le proprie ragioni al collegio. Il Consiglio di Stato ha ritenuto che nell’udienza
possa intervenire anche la costituzione in giudizio dell’amministrazione resistente o dei
controinteressati, fermo restando che essi possono svolgere le loro difese soltanto in forma orale,
essendo scaduti i termini per il deposito di documenti e per le difese scritte. Dopo l’udienza, il
collegio, se non ritiene di dover adottare pronunce interlocutorie o pronunce istruttorie, procede
alla decisione del ricorso e pronuncia la SENTENZA. Il collegio, ove rilevi, anche dopo
l’udienza di discussione, che per la decisione sia rilevante una questione rilevata d’ufficio e mai
trattata dalle parti nel corso del giudizio, deve sottoporre previamente la questione alle parti
perché possano trattarla.

In base all’art. 74 cpa in alcuni casi il giudice amministrativo può decidere il ricorso, con una
SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA. Essa si caratterizza per una motivazione sintetica,
incentrata sui soli profili decisivi della vertenza, o costituita dal rinvio a precedenti pronunce in
vertenze analoghe.

È ammessa in via generale quando il ricorso risulti:

I.Manifestamente fondato

II.Manifestamente infondato

III.Inammissibile

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IV.Improcedibile

V.Irricevibile

E perciò quando, per il carattere evidente della decisione, sia superflua un’ampia motivazione. La
decisione del ricorso può intervenire, sempre con una sentenza in forma semplificata, anche in
via anticipata, nella fase cautelare. Se nella camera di consiglio per l’esame dell’istanza cautelare
l’esito finale del ricorso risulta già chiaro, non ha senso prolungare ulteriormente il giudizio.
Infine, la sentenza in forma semplificata è prevista in alcuni casi, anche in esito a controversie
potenzialmente complesse e del tutto indipendentemente da ogni carattere manifesto della
decisione o dall’anticipazione della decisione alla fase cautelare: in questi casi la previsione della
sentenza in forma semplificata risponde, essenzialmente, ad una esigenza di celerità nella
definizione di quel tipo di giudizio. La previsione della sinteticità della motivazione della
sentenza non può mai andare a pregiudizio dei principi sulla funzione giurisdizionale: di
conseguenza non può sacrificare valori, come quello della pronuncia del giudice su tutta la
domanda, che sono essenziali per la garanzia del diritto d’azione, né può derogare a canoni
fondamentali sanciti dal cpa, come quello della necessità della motivazione per ogni
provvedimento decisorio. Quando sia possibile la decisione del ricorso in esito all’istanza
cautelare, la sentenza può intervenire prima che siano scaduti tutti i termini concessi dalla legge
alle parti per l’esercizio dei loro poteri di difesa. Per la decisione del ricorso è sufficiente che sia
verificata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e che siano decorsi almeno 20gg
dall’ultima notifica del ricorso (art. 60 cpa). Il collegio può decidere il ricorso in esito all’istanza
cautelare solo se prima sul punto ha sentito le parti, che possono quindi segnalare la necessità di
particolari attività istruttorie o di difesa. Il collegio non può procedere alla decisione del ricorso
se le parti dichiarino di voler proporre motivi aggiunti, o ricorso incidentale, o regolamento di
giurisdizione o di competenza. Nella sentenza il Tribunale provvede anche sulle spese processuali,
secondo le regole stabilite nel cpc. Nel cpa alla condanna alle spese processuali si associa la
possibilità di un’ulteriore condanna pecuniaria, diretta a sanzionare la condotta della parte
soccombente, che abbia agito o resistito in giudizio temerariamente: il relativo importo viene
corrisposto oggi all’erario. La sentenza deve essere sottoscritta dal presidente del collegio
giudicante e dall’estensore e viene depositata, unitamente al dispositivo, presso la segreteria del
Tar.

Il deposito comporta la pubblicazione della sentenza: da quel momento la sentenza produce i


suoi effetti e decorre il termine semestrale per l’eventuale impugnazione. Del deposito della
sentenza la segreteria dà comunicazione alle parti; la notifica della sentenza costituisce un
adempimento della parte e determina la decorrenza del termine breve per l’eventuale
impugnazione. Il codice ammette che in taluni casi il giudizio sia definito con un DECRETO
PRESIDENZIALE, senza che vi sia la necessità di alcuna udienza. La definizione del giudizio
con decreto è prevista nel caso che si sia verificata l’estinzione del giudizio, o nel caso che il
ricorso sia improcedibile. In questi casi alla relativa declaratoria provvede direttamente con
decreto il Presidente del Tar, o un magistrato da lui delegato. Negli stessi casi, se la controversia
è già all’esame del collegio, provvede il medesimo collegio con una SENTENZA DI RITO. Nei
confronti del decreto presidenziale le parti possono proporre opposizione al collegio; il
provvedimento è soggetto al rito camerale. Il collegio decide con un’ORDINANZA suscettibile
di appello. Se accoglie l’opposizione dispone che il ricorso sia nuovamente iscritto nel ruolo dei
ricorsi pendenti.

 Il rito camerale

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Il cpa prevede uno svolgimento più celere, che viene designato nella prassi come rito camerale,
per alcune controversie (art. 87 cpa). Si tratta di:

1. Giudizio di ottemperanza

2. Giudizio sul silenzio

3. Giudizio in materia di accesso

4. Opposizioni ai decreti presidenziali di estinzione o improcedibilità del giudizio

5. Alcune ulteriori controversie in grado d’appello

Gli adempimenti delle parti sono assoggettati a termini abbreviati: tutti i termini processuali sono
ridotti a metà, salvo quelli per la notifica di:

- Ricorso principale

- Ricorso incidentale

- Motivi aggiunti in giudizio di primo grado (nonché del regolamento di competenza)

I tre atti appena richiamati rivestono un’importanza decisiva ai fini della difesa delle parti, perché
introducono le loro domande nel giudizio. Pertanto l’esigenza di garantire un termine adeguato
per il compimento di tali atti prevale anche sulle esigenza di accelerazione del giudizio. Rispetto a
questo criterio si distacca però la precisazione, nell’art. 87, comma 3 cpa, secondo cui l’esclusione
della riduzione varrebbe nei giudizi di primo grado. Alla luce di questa previsione la
giurisprudenza prevalente sembra orientarsi nel senso che invece l’impugnazione delle sentenze
pronunciate nel rito camerale sarebbe assoggettata a un termine dimezzato. Nei giudizi in esame,
per la decisione dei ricorsi non è necessaria una istanza di fissazione d’udienza e la trattazione è
fissata d’ufficio, con particolare celerità. Di regola il ricorso è trattato nella prima camera di
consiglio utile, decorsi 30 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti
intimate. Il giudice amministrativo decide il ricorso senza necessità di un’udienza pubblica, ma
semplicemente in camera di consiglio. Si tenga presente che i legali delle parti hanno comunque
diritto di essere sentiti e di discutere la controversia all’inizio della camera di consiglio, se ne
facciano richiesta.

CAPITOLO DODICESIMO – LA TUTELA CAUTELARE

 I caratteri generali della tutela cautelare nel processo amministrativo

La tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, ha sempre carattere di strumentalità: la


misura cautelare ha lo scopo immediato di assicurare la efficacia pratica del provvedimento
definito; realizza, così, l’interesse ad evitare che la durata del giudizio possa rendere
praticamente inutile per il ricorrente la decisione finale. Nel processo amministrativo, la
disciplina della tutela cautelare fu modellata in origine sul giudizio di impugnazione di
provvedimenti: era incentrata nella sospensione del provvedimento impugnato. La legge Crispi
del 1889 dettava la regola secondo cui l’impugnazione del provvedimento non ha effetto
sospensivo: il ricorso al giudice amministrativo non incide sull’efficacia e sull’esecuzione del
provvedimento impugnato. Tuttavia già subito dopo l’entrata in vigore della legge istitutiva della
Quarta sezione fu ammesso, in alcuni casi, che il ricorso al Consiglio di Stato sospendesse
l’efficacia del provvedimento impugnato. Il cpa si attiene alla regola secondo cui, nel giudizio
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promosso per l’annullamento di un provvedimento, la presentazione del ricorso non sospende
l’esecuzione del provvedimento impugnato. Di conseguenza spetta alla parte interessata richieder
una misura cautelare del giudice amministrativo, se vuole evitare che le sue ragioni possano
essere compromesse durante il tempo necessario per la decisione del ricorso. In base ai principi
generali, la concessione della misura cautelare da parte del giudice presuppone l’accertamento di
un fumus boni iuris e di un periculum in mora. Il fumus boni iuris (art. 55, comma 9 cpa)
consiste in una valutazione sommaria sul merito della pretesa fatta valere dal cittadino con
l’impugnazione. In passato era risoluto in un giudizio di probabilità di accoglimento del
ricorso, oppure in un giudizio di non manifesta infondatezza del ricorso stesso. Oggi l’art. 55,
comma 9 cpa sembra accogliere senz’altro la prima interpretazione: infatti la concessione della
misura cautelare è subordinata a una valutazione del giudice sulla ragionevole previsione
sull’esito del ricorso. Particolare rilievo assume, nel processo amministrativo, il profilo costituito
dal periculum in mora. L’art. 55, comma 1 cpa identifica questo elemento nella possibilità di
subire un pregiudizio grave e irreparabile dal provvedimento impugnato durante il tempo
necessario a giungere alla decisione del ricorso. Tale pregiudizio deve essere specificamente
allegato dal ricorrente nella istanza cautelare e perciò il giudice non può d’ufficio ipotizzarne
l’esistenza né introdurlo nel processo. Il pregiudizio che giustifica l’accoglimento dell’istanza
cautelare da parte del giudice amministrativo deve essere considerato in modo specifico, come
pregiudizio determinato dal provvedimento amministrativo a un interesse materiale
rilevante del ricorrente e qualificato dal carattere della gravità e della irreparabilità. Questo
carattere può essere verificato in senso assoluto (in relazione al tipo di interesse pregiudicato dal
provvedimento, indipendentemente dalle condizioni soggettive del ricorrente), ovvero in senso
relativo (in relazione all’incidenza del provvedimento alla luce delle condizioni soggettive del
ricorrente). Nello stesso tempo, però, il giudice amministrativo deve considerare anche i riflessi
che produrrebbe la misura cautelare rispetto all’amministrazione e rispetto ai controinteressati.
In ogni caso il giudice amministrativo, ai fini dell’accoglimento dell’istanza cautelare, deve
effettuare una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, secondo criteri non codificati
puntualmente dalla legge, e quindi, in definitiva, sulla base del suo prudente apprezzamento. A
questi fini non è decisivo il carattere irreversibile degli effetti che possono prodursi. L’art. 55,
comma 2 cpa precisa infatti espressamente che in casi del genere la concessione o il diniego della
misura cautelare può essere subordinato a cauzione, a garanzia del pregiudizio subito dalla parte
su cui grava la pronuncia del giudice. La cauzione non è ammessa, però, quando siano in gioco
interessi essenziali della persona, quali il diritto alla salute o all’integrità dell’ambiente, per evitare
che la tutela di questi interessi fondamentali possa risultare subordinata a fattori di ordine
economico.

 La tipologia e i contenuti delle misure cautelari

La tutela cautelare nel processo amministrativo si è incentrata a lungo in una misura tipica e
generale, la sospensione del provvedimento impugnato. Fino all’entrata in vigore della legge
205/2000 le altre ipotesi di misure cautelari erano del tutto eccezionali. Solo nelle controversie
patrimoniali nel pubblico impiego erano ammesse misure cautelari con un contenuto atipico,
corrispondenti a quelle contemplate dall’art. 700 cpc, e ciò per l’esigenza di evitare
un’irragionevole disparità di tutela fra i dipendenti pubblici e i dipendenti privati. Questa
configurazione della tutela cautelare risultava inadeguata già nel giudizio promossa a tutela di
interessi legittimi, che riguardasse provvedimenti negativi o il silenzio dell’amministrazione. Nei
casi in cui l’impugnazione investa un provvedimento che non comporti una limitazione di una
posizione giuridica preesistente ovvero concerna il silenzio-rifiuto, non avrebbe senso richiedere
la sospensione. La sospensione di un provvedimento negativo o del silenzio-rifiuto non

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comporta alcun beneficio per il ricorrente. L’inutilità della sospensione cautelare dei
provvedimenti negativi portava a concludere che nei confronti di questi provvedimenti non
poteva ammettersi, in pratica, alcuna tutela cautelare, da che l’unica misura cautelare prevista in
via generale nel processo amministrativo era costituita, appunto dalla sospensione. A partire
dagli anni 30 del 900 si affermò una giurisprudenza che cercava di individuare, nell’ambito dei
provvedimenti negativi, alcune categorie di atti assimilabili, dal punto di vista degli effetti, ai
provvedimenti positivi: era prospettata così la distinzione fra provvedimenti meramente negativi,
che non sarebbero passibili di sospensione cautelare, e provvedimenti negativi con effetti positivi,
per i quali invece la sospensione cautelare era ritenuta oggi possibile. In quest’ultima categoria
erano ricompresi, ad esempio, il diniego di rinnovo di concessioni di beni pubblici, il diniego di
esonero dal servizio militare, il diniego di ammissione a gare, esami, concorsi. Successivamente,
soprattutto negli anni 90 del secolo scorso, alcuni giudici amministrativi cercarono di estendere la
sospensione ai provvedimenti meramente negativi e al silenzio dell’amministrazione. Nei
confronti di atti meramente negativi o del silenzio-rifiuto, una tutela cautelare non può consistere
nella sospensione di effetti realizzati dal provvedimento, ma può consistere solo nella
introduzione di una nuova disciplina (ancorché provvisoria) del rapporto. Il d.lgs. 80/1998,
ampliando ulteriormente la giurisdizioni esclusiva, pose definitivamente in crisi il modello di
tutela cautelare fondato sulla sospensione del provvedimento impugnato.

Il cpa ha previsto che la tutela cautelare non si risolva più in una misura tipica, quella della
sospensione, ma si attui con misure di contenuto atipico, modellate sul caso concreto. Esse
possono consistere, infatti, nelle misure più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della
decisione sul ricorso. La portata dell’innovazione è chiarita ulteriormente dalla previsione che la
misura cautelare può tradursi anche in un ordine di pagamento di una somma di denaro. Rimane
comunque ferma l’esigenza di considerare alcuni limiti generali ai poteri cautelari del giudice
amministrativo:

- Una misura cautelare non può determinare, neppure in via di fatto, la definizione del giudizio

- Si dubita della possibilità per il giudice amministrativo di definire, seppur in sede cautelare,
l’assetto di interessi che sia demandato dalla legge alla discrezionalità amministrativo

 La procedura ordinaria

La disciplina della tutela cautelare nel processo amministrativo era costituita, fino all’entrata in
vigore della legge 205/2000, da poche disposizioni, che affermavano la necessità di una istanza del
ricorrente da notificare all’amministrazione e ad altre parti e sulla quale il collegio avrebbe
dovuto provvedere, dopo un certo termine dilatorio. Su questo assetto è intervenuta prima la
legge 205/2000, poi il cpa. Le innovazioni hanno riguardato principalmente 3 profili:

(1) La garanzia del contraddittorio

(2) La previsione di modalità più celeri e più semplici di accesso alla tutela cautelare, nei casi di
particolare urgenza

(3) La valorizzazione della fase cautelare del processo anche ai fini di una sollecita decisione del
ricorso

In gioco, rispetto a questi punti, sono pertanto alcuni principi fondamentali sulla tutela
giurisdizionale:

- La parità delle parti


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- L’irrinunciabilità di una tutela cautelare adeguata alla garanzia del diritto d’azione del
ricorrente

- La ragionevole durata del processo

La domanda di una misura cautelare è presentata dal ricorrente (o da altra parte interessata)
al giudice adito per il ricorso principale. È richiesta una istanza scritta (redatta nel ricorso
stesso o con atto successivo all’instaurazione del giudizio), che deve essere notificata
all’amministrazione resistente e ai controinteressati. Il giudice amministrativo può provvedere
definitivamente sull’istanza cautelare solo dopo l’integrazione del contraddittorio con tutte le
parti necessarie del giudizio. Prima dell’integrazione del contraddittorio, il giudice
amministrativo può assumere solo misure cautelari provvisorie, soggette necessariamente ad
essere riesaminate, una volta che tutte le parti necessarie siano state evocate in giudizio. Sulla
domanda di misura cautelare provvede ordinariamente il collegio, in camera di consiglio,
decorsi almeno 20 gg dalla notifica dell’istanza e 10 gg dal suo deposito. Le parti possono
depositare memorie e documenti fino a 2 gg prima della camera di consiglio, ma possono
costituirsi per la trattazione orale anche soltanto in camera di consiglio; nella camera di consiglio
sono sentiti i difensori delle parti, che ne abbiano fatto richiesta, per discutere l’istanza cautelare.
La richiesta di una misura cautelare non può essere trattata fino a quando non sia stata
depositata l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione (fatti salvi, ovviamente, i giudizi
assoggettati al rito camerale o per quelli la cui udienza di discussione debba essere fissata
d’ufficio). Il collegio chiamato a provvedere sulla domanda di misura cautelare innanzitutto deve
verificare la propria competenza. L’inderogabilità della disciplina della competenza territoriale
dei Tar comporta anche la preclusione per il giudice di adottare misure cautelari in controversie
demandate alla competenza di altro Tar e la violazione di questa regola costituisce motivo di
gravame contro l’ordinanza. Sulla richiesta di misura cautelare il collegio provvede con
un’ORDINANZA MOTIVATA, che viene pubblicata mediante deposito in cancelleria.
L’ordinanza è efficace fin dal momento del suo deposito. La motivazione deve estendersi alla
valutazione del pregiudizio allegato dalla parte istante (periculum in mora) e deve indicare i
profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso
(fumus boni iuris).

Nell’ordinanza che provvede sulla domanda cautelare il giudice liquida anche le spese della fase
cautelare del giudizio. Comunque, in casi particolari, la statuizione sulle spese può essere
modificata nella sentenza. Il codice ha previsto che nel corso dell’esame dell’istanza cautelare il
collegio possa adottare i provvedimenti istruttori utili per il giudizio e per l’integrità del
contraddittorio. Purtroppo, però, il codice subordina questa attività del collegio a una istanza di
parte, rendendola quasi eccezionale. Il collegio, se ritiene che l’istanza cautelare sia fondata e
nello stesso tempo che le ragioni per la tutela cautelare possano essere soddisfatte con una
decisione sollecita del ricorso, può limitarsi a fissare la data dell’udienza di discussione. Se si
verificano le condizioni stabilite nell’art. 60 cpa, il collegio può definire il giudizio in camera di
consiglio con sentenza in forma semplificata.

 La tutela cautelare nei casi di particolare urgenza

In caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data
della camera di consiglio, la misura cautelare può essere richiesta al Presidente del Tar o della
sezione cui il ricorso principale sia stato assegnato, previa notifica della relativa istanza alle altre
parti. Il Presidente, o il magistrato da lui delegato, dopo aver verificato la competenza del Tar
adito, provvede con un DECRETO MOTIVATO, non impugnabile ma revocabile. Il decreto

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che provvede su un’istanza cautelare è efficace fino all’ordinanza del collegio, al quale va
sottoposta l’istanza cautelare nella prima camera di consiglio utile: si tratta di una misura
cautelare meramente provvisoria. Il decreto presidenziale non può essere pronunciato se la
notifica del ricorso non si sia perfezionata nei confronti dell’amministrazione resistente e di
almeno un controinteressato. Il contraddittorio si attua pertanto in una forma limitata. I soggetti
cui sia stata notificata l’istanza cautelare possono chiedere di essere sentiti dal Presidente prima
del decreto, fuori udienza e senza formalità, anche separatamente. La disciplina appena descritta
si applica anche al giudizio avanti al Consiglio di Stato, nel caso in cui si prospetti una situazione
di estrema gravità e urgenza dopo la sentenza di primo grado. Il cpa ha esteso la possibilità di
una tutela cautelare ante causam ad ogni ordine di vertenze devolute al giudice amministrativo.
Infatti, in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la previa notifica
del ricorso, chi sia legittimato a proporre un ricorso può presentare un’istanza al Presidente del
Tar e richiedere l’adozione delle misure cautelari interinali, necessarie per assicurare la tutela
fino a quando non possa essere proposto il ricorso e non possa essere trattata l’istanza cautelare
nelle forme ordinarie. L’istanza comunque deve essere previamente notificata alle parti. Il
Presidente, dopo aver verificato la competenza del Tar, provvede con DECRETO sentite, ove
possibile, le parti, e omessa ogni altra formalità.

La misura cautelare è destinata a valere fino alla pronuncia cautelare collegiale, successiva
alla notifica del ricorso, e il relativo decreto deve essere notificato entro un termine
perentorio, non superiore a 5 gg. Nel caso di concessione della misura cautelare, il ricorso con
la domanda cautelare deve essere notificato alle altre parti e depositato presso il Tar nel rispetto
di termini molto ridotti.

 I rimedi ammessi nei confronti delle ordinanze cautelari

L’ORDINANZA CAUTELARE adottata dal collegio di regola ha effetto fino alla sentenza che
definisce quel grado di giudizio. Se il giudizio si estingue, la misura cautelare perde efficacia nel
momento in cui l’estinzione è dichiarata dal giudice. Una ultrattività, peraltro limitata, della
misura cautelare del giudice amministrativo è prevista nel caso in cui venga dichiarato il difetto
di giurisdizione o di competenza. In questi casi l’ordinanza cautelare conserva i suoi effetti per
un periodo stabilito dalla legge, pari a 30 giorni, così da consentire alla parte di riassumere
il processo avanti al giudice dotato di giurisdizione o di competenza, senza rimanere prive nel
frattempo della protezione offerta da una pronuncia cautelare. L’ordinanza è passibile di revoca,
su richiesta della parte che vi abbia interesse e, nel caso di rigetto dell’istanza cautelare, l’istanza
può essere riproposta. Può essere richiesta la revoca dell’ordinanza nel caso di sopravvenienza di
elementi nuovi, esterni rispetto al giudizio. Si tratta tradizionalmente del mutamento della
situazione di fatto o del mutamento della situazione di diritto. A questi due casi il codice ha
constato anche l’ipotesi che la parte venga a conoscenza di fatti precedenti e rilevanti solo
successivamente all’ordinanza cautelare, e le cause di revocazione previste dall’art. 395 cpc (art.
58 cpa).

Nei confronti dell’ordinanza del Tar che decide sull’istanza cautelare è consentito l’appello al
Consiglio di Stato. L’appello è ammesso non per fatti nuovi, ma per l’ingiustizia dell’ordinanza
stessa: con l’appello la parte contesta che il giudice di primo grado si sia pronunciato sull’istanza
cautelare in modo appropriato o corretto e chiede perciò il riesame dell’ordinanza da parte del
giudice di secondo grado. L’appello va notificato entro 30 giorni dalla notifica dell’ordinanza,
ovvero, in mancanza di notifica, entro 60 giorni dalla sua pubblicazione, e deve essere depositato
entro 30 giorni dalla notifica. Il giudizio prosegue poi secondo le regole già descritte per il
giudizio cautelare. Il Consiglio di Stato verifica anche d’ufficio l’osservanza delle regole sulla
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competenza territoriale del Tar e, se accerta una violazione di tali regole, regola d’ufficio la
competenza, indicando il Tar competente. La decisione sull’appello cautelare è assunta dal
Consiglio di Stato con ORDINANZA. Quando accoglie l’appello, il Consiglio di Stato provvede
sull’istanza cautelare con gli stessi poteri del giudice di primo grado. Se adotta una misura
cautelare, la sua ordinanza è comunicata al Tar che è tenuto a fissare a breve l’udienza per la
decisione del ricorso nel merito. Talvolta il Consiglio di Stato accoglie l’appello cautelare senza
disporre alcuna misura specifica, ma soltanto al fine di ottenere dal Tar la fissazione a breve
dell’udienza di merito. Ciò si verifica quando il giudice d’appello sia convinto che la fissazione
sollecita dell’udienza di discussione del ricorso possa soddisfare le esigenze pratiche dell’istanza
cautelare.

 L’esecuzione delle ordinanze cautelari

La sospensione del provvedimento impugnato può risultare talvolta già di per sé idonea ad
assicurare che l’interesse del ricorrente non sia irrimediabilmente pregiudicato dalla durata del
giudizio: ciò vale, in particolare, nei casi in cui la sospensione del provvedimento comporti, come
utilità, l’impossibilità per l’amministrazione di dar corso ad atti di esecuzione. Altre volte, invece,
la misura cautelare comporta la necessità per l’amministrazione di compiere una certa attività e
quindi di porre in essere un certo comportamento: si pensi alla sospensione di un provvedimento
di licenziamento di un pubblico dipendente, che obbliga l’amministrazione a riammettere il
dipendente in servizio. In questi casi, se l’amministrazione non compie l’attività necessaria per
attuare la misura cautelare, l’ordinanza rischia di rimanere improduttiva di risultati pratici. Per
assicurare l’esecuzione di una pronuncia del giudice amministrativo è istituito il rimedio del
giudizio di ottemperanza. L’art. 59 cpa precisa che, se l’amministrazione non ha eseguito
un’ordinanza cautelare, la parte interessata, con istanza che deve essere notificata alle altre parti,
può rivolgersi al giudice che ha emesso l’ordinanza. Il procedimento successivo si deve svolgere
con le stesse modalità previste per la trattazione di un’istanza cautelare. Il giudice amministrativo
adotta le misure necessarie per assicurare l’esecuzione dell’ordinanza cautelare e, a tal fine,
dispone di tutti i poteri che sono ammessi per il giudizio di ottemperanza: in particolare, può
dettare ordini all’amministrazione, può nominare Commissari che si sostituiscano all’organo
inadempiente, ecc.

CAPITOLO TREDICESIMO – LA SENTENZA E LE


IMPUGNAZIONI

 La sentenza

Il giudizio amministrativo è definito in genere da una SENTENZA che viene deliberata dal
collegio giudicante (art. 33 cpa). La pronuncia può riguardare l’intero contenuto della domanda
(cd sentenza definitiva), oppure soltanto una parte di essa (cd sentenza parziale). Solo in alcuni
casi, quando si sia verificata una causa di estinzione del giudizio, oppure il ricorso sia divenuto
improcedibile, alla relativa declaratoria provvede il Presidente con un DECRETO. Il decreto
presidenziale definisce il giudizio esattamente come una sentenza definitiva e, se non viene
opposto, passa in giudicato. Di conseguenza, le considerazioni che saranno svolte più avanti sulle
sentenza valgono anche per i decreti presidenziali. Le stesse considerazioni valgono, con gli
adattamenti del caso, anche per il decreto ingiuntivo; fra l’altro anch’esso, se non sia stato
opposto o se sia stata respinta l’opposizione, acquista autorità di giudicato. Il termine sentenza è
riservato alla pronuncia che definisce in tutto o in parte il giudizio. Inoltre, nel cpa, sentenza è
anche la pronuncia del giudice su questioni pregiudiziali attinenti al processo, nonché su

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questioni preliminari di merito, anche se non definisca il giudizio. In base al codice il termine
sentenza designa indifferentemente sia le pronunce del Tar che quelle del Consiglio di Stato.

Per le sentenza si è soliti distinguere fra sentenza di rito e sentenze di merito.

L’art. 35 cpa considera fra le sentenze di rito quelle che dichiarino l’irricevibilità (tardività della
notifica o del deposito del ricorso), l’inammissibilità (ragioni inerenti alla proposizione della
domanda, quali la carenza d’interesse e di legittimazione, o la precedente presentazione di un
ricorso straordinario ecc), o l’improcedibilità del ricorso (situazioni maturate dopo
l’introduzione del giudizio, come la sopravvenuta carenza d’interesse o la mancata integrazione
del contraddittorio nei termini fissati dal giudice), nonché quelle che dichiarino l’estinzione del
giudizio (omissione o tardività della riassunzione, o perenzione, o rinuncia). Alle sentenze di rito
il codice riconduce pertanto anche le sentenze sulle cd condizioni per l’azione (legittimazione a
ricorrere e interesse a ricorrere).

Invece il codice include fra le sentenze di merito anche quelle che dichiarino la cessazione della
materia del contendere. Essa si verifica quando nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente
risulti pienamente soddisfatta. Questa situazione si riscontra, nel giudizio per l’impugnazione di
un provvedimento, quando il provvedimento impugnato venga annullato d’ufficio
dall’amministrazione resistente in termini conformi all’interesse del ricorrente. Nel caso di
declinatoria della giurisdizione, dovuta al fatto che la vertenza inerisce alla giurisdizione di altro
giudice nazionale, il Tar deve indicare nella sua sentenza anche quale sia il giudice dotato di
giurisdizione. Se la parte ripropone tempestivamente la sua domanda, sono salvi gli effetti
sostanziali e processuali della domanda presentata avanti al Tar. Invece, eventuali decadenza
maturata prima di tale domanda rimangono ferme, fatta salva soltanto la possibilità per il
secondo giudice di valutare se ricorrano le condizioni per concedere alla parte la rimessione in
termini, per il caso di errore scusabile. Se la domanda è stata proposta tempestivamente, le prove
già eventualmente raccolte dal primo giudice possono essere valutate come argomento di prova
dal secondo giudice. Inoltre alle misure cautelati del primo giudice è attribuita una certa
ultrattività, nel senso che conservano la loro efficacia anche dopo la sentenza che dichiara il
difetto di giurisdizione, fino a 30 giorni dopo la sua pubblicazione. Il giudice che la sentenza del
Tar abbia indicato come fornito di giurisdizione non è vincolato da tale indicazione. Di
conseguenza, dopo la declinatoria di giurisdizione del Tar, il secondo giudice, adito
tempestivamente dalla parte, se ritiene a sua volta di essere privo di giurisdizione, nella prima
udienza può sollevare d’ufficio un conflitto di giurisdizione, sul quale si pronuncia la Corte di
cassazione.

Le sentenze di merito intervengono sul contenuto della domanda, accogliendola o dichiarandola


infondata. Nel caso di accoglimento del ricorso, le sentenza possono avere un contenuto
dispositivo diverso, in base alle domanda proposte, e cioè in base alle caratteristiche dell’azione
esperita. Possono disporre l’annullamento del provvedimento impugnato nell’ipotesi di azione di
annullamento nella giurisdizione di legittimità, o disporre la sua riforma o sostituzione nelle
ipotesi di giurisdizione di merito, ovvero ordinare all’amministrazione di provvedere in un certo
termine nel caso di un giudizio sul silenzio-rifiuto, o condannare l’amministrazione al rilascio di
un provvedimento nel caso di un’azione di adempimento, o dichiarare la nullità di un atto
amministrativo, o, nelle vertenze sul diritti, accertare un diritto soggettivo del ricorrente o
condannare all’adempimento di un’obbligazione, pecuniaria o non, o ancora adottare una
qualsiasi delle altre pronunce contemplate dalla legge.

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Una sentenza di condanna con caratteri particolari è prevista dall’art. 34, comma 4 cpa per le
controversie relative ad obbligazioni pecuniarie. Il giudice amministrativo, quando accoglie la
domanda di condanna, se nessuna delle parti gli richiede espressamente di provvedere
direttamente alla liquidazione, può limitarsi a fissare nella sentenza i criteri per liquidare
l’importo dovuto. In questo caso, entro un termine fissato nella sentenza, la parte debitrice ha
l’onere di formulare, sulla base di tali criteri, una proposta di pagamento; in mancanza della
proposta, o se essa non viene accolta, o se essa sia stata accolta ma il debitore non abbia
adempiuto, la liquidazione può essere richiesta dalla parte creditrice nelle forme previste per il
giudizio di ottemperanza. Questa non è comunque una sentenza parziale in senso tecnico, tant’è
vero che esaurisce il giudizio di cognizione, e in ogni caso non è neppure una sentenza solo
sull’an (il giudice amministrativo è tenuto ad accertare la sussistenza del danno).

La decisione sull’intera domanda è garantita dal ricorso per l’ottemperanza: in questo modo,
pertanto, una parte della domanda originaria è decisa in un giudizio diverso da quello di
cognizione in cui la domanda era stata proposta. Il codice ha stabilito che ciascuna delle parti
può pretendere che alla liquidazione provveda direttamente il giudice. Il giudice amministrativo,
nelle vertenze risarcitorie, preferisce pronunciare sentenze limitate ai criteri. Con riferimento
sempre alla tematica del danno assume rilievo il potere del collegio di disporre una particolare
pubblicità della sentenza, ove possa contribuire a riparare il danno.

Ai fini della decisione della vertenza, nell’esame della domanda, il giudice amministrativo procede
secondo un ordine logico: decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o
rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa.

Di conseguenza deve esaminare:

- Prima le questioni di mero rito (nullità del ricorso, la tempestività o meno della sua
notificazione ecc)

- Quelle relative alla competenza e alla giurisdizione

- Quelle relative alle condizioni dell’azione

- E solo successivamente le questioni di merito

La decisione su questioni pregiudiziali può esaurire il giudizio (es la sentenza che dichiari
irricevibile il ricorso notificato tardivamente).

A questo proposito, anche di recente, è stato dibattuto quale dovesse essere l’ordine con cui il
giudice deve esaminare le questioni, in presenza di un ricorso incidentale. La discussione ha
riguardato il caso del ricorso incidentale cd escludente, con il quale cioè fossero state sollevate
questioni dirette a contestare la legittimazione o l’interesse a ricorrere del ricorrente principale.
Si consideri il caso di un concorso pubblico, che ammetta un unico vincitore, e il cui esito sia
impugnato dal secondo classificato. Il primo classificato, a sua volta, propone ricorso incidentale,
impugnando la clausola del bando che aveva consentito al secondo classificato di partecipare al
concorso. In questo caso, con il ricorso incidentale, viene posta in discussione la stessa
ammissibilità del ricorso principale: infatti il secondo classificato, se non poteva partecipare al
concorso, non era neppure legittimato ad impugnare l’esito finale del concorso stesso. In base a
un primo orientamento, in questi casi il giudice deve esaminare preliminarmente il ricorso
incidentale e, se lo ritiene fondato, non può procedere all’esame del ricorso principale perché
esso risulterebbe proposto da un soggetto carente di legittimazione o di interesse. Questo
orientamento recepisce il principio generale sancito dall’art. 276, comma 2 cpc, e richiamato
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dall’art. 76, comma 4 cpa: le questioni concernenti le condizioni dell’azione vanno esaminate
prima de merito della domanda. La mancanza di una condizione dell’azione risulta perciò
decisiva e assorbente. Questa soluzione è stata criticata da una parte della dottrina e della
giurisprudenza perché assegnerebbe al ricorrente incidentale una posizione di vantaggio
processuale rispetto al ricorrente, in contrasto con il principio della parità delle parti nel processo.
Di conseguenza, negli esempi sopra proposti, anche se l’attribuzione del primo posto in
graduatoria fosse stata disposta illegittimamente e il ricorrente principale ne avesse dedotto
ritualmente i vizi, al giudice amministrativo sarebbe precluso di valutare le censure proposte
contro la graduatoria e di annullarla.

Questa posizione critica è stata condivisa anche dalla Cassazione e dalla Corte di giustizia. Il
ricorso incidentale è espressione del principio della parità delle armi, sancito oggi nell’art. 111
Cost: ricorrente, controinteressati e amministrazione resistente devono disporre di strumenti
processuali equivalenti. Lo stesso Consiglio di Stato ha adottato una posizione più sfumata. Con
riferimento alle questioni sollevate con un ricorso incidentale, ha sostenuto che di regola esse
devono essere esaminate in via prioritaria, quando abbiano ad oggetto la contestazione della
legittimazione a ricorrere del ricorrente principale. Anche in questo caso, però, l’esame del
ricorso incidentale non precluderebbe l’esame del ricorso principale, se le questioni sollevate nei
due atti fossero attinenti alla medesima fase procedimentale e potessero risultare decisive ai fini
dell’esito positivo della procedura.

L’esame prioritario non sembra più riconosciuto, neppure in linea di principio, per il ricorso
incidentale con il quale siano state sollevate questioni che abbiano posto in discussione l’interesse
a ricorrere del ricorrente principale.

Anche nel processo amministrativo, ai fini della decisione, si ammette il cd assorbimento delle
questioni. Si verifica quando le questioni sollevate, pur non essendo collegate fra loro secondo
una relazione di pregiudizialità in senso tecnico, seguono comunque un preciso ordine logico, che
il giudice deve seguire ai fini della decisione. Il giudice amministrativo è solito disporre
frequentemente l’assorbimento dei motivi di ricorso anche senza che sia identificabile un preciso
ordine logico fra le questioni sollevate, talvolta sulla base di criteri di mera opportunità pratica.
Per esempio, in presenza di più censure proposte contro un unico provvedimento, spesso si limita
ad esaminare quella più facilmente verificabile, se da essa consegue l’annullamento del
provvedimento impugnato (cd assorbimento improprio). Il Consiglio di Stato sembra aver
accolto le critiche e ha affermato, in via di principio, il dovere per il giudice di pronunciarsi su
tutta la domanda, e perciò anche su tutte le censure proposte. Nella stessa pronuncia, però, ha
ammesso un assorbimento anche per ragione di economia processuale, se comunque non risulti
lesa l’effettività della tutela dell’interesse legittimo e della funzione pubblica.

 Gli effetti della sentenza di annullamento

Il nucleo della sentenza di annullamento è stato identificato a lungo con l’accertamento della
illegittimità del provvedimento impugnato, in relazione a determinati vizi enunciati nel ricorso.
La sentenza di annullamento contiene quindi un elemento significativo di accertamento, che
inerisce alla sussistenza di un certo vizio di legittimità di un provvedimento: l’illegittimità non è
accertata in modo generico, ma è tale per un vizio specifico. A questa concezione, in relazione
anche all’affermazione di interpretazioni diverse dell’azione nel processo amministrativo, col
tempo se ne è contrapposta soprattutto un’altra. Anch’essa identifica come centrale il momento
dell’accertamento, ma si concentra in modo particolare sulla situazione giuridica tutelata nel
processo amministrativo: la sentenza di annullamento accerta infatti la lesione di un interesse

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legittimo. L’illegittimità del provvedimento, determinata da un vizio specifico, rappresenta un
profilo dell’indagine, ma l’accertamento del giudice non riguarda fenomeni oggettivi, ma riguarda
innanzitutto una relazione giuridica e una posizione soggettiva: l’interesse legittimo. Secondo
questa concezione la posizione soggettiva non identifica un mero fattore di legittimazione, ma
assume un rilievo ulteriore: la lesione dell’interesse legittimo costituirebbe l’oggetto principale del
giudizio e della sentenza. Nel dibattito alcuni punti sembrano acquisiti. Innanzitutto, anche se
non sempre vi è piena consapevolezza, l’accertamento costituisce il nucleo essenziale e
ineliminabile della sentenza di annullamento del giudice amministrativo. Inoltre è maturato un
ampio consenso sul fatto che la sentenza di annullamento non può essere considerata solo nella
prospettiva della eliminazione di un atto amministrativo. In linea di principio, rimane fermo che il
potere dell’amministrazione, di cui era espressione il provvedimento impugnato, può essere
esercitato nuovamente dopo la sentenza di annullamento. Anzi, spesso un uovo esercizio del
potere è necessario per attuare la sentenza. Il riconoscimento della permanenza del potere
amministrativo e della (almeno tendenziale) inesauribilità di esso rispetto a una funzione
giurisdizionale concernente interessi legittimi pone d’altra parte l’esigenza di salvaguardare il
contenuto di accertamento della sentenza. Questa esigenza vale a maggior ragione se si ritenga
che tale contenuto inerisca a una lesione di un interesse legittimo (perché la possibilità di un
riesercizio del potere espone al rischio che vi sia una nuova lesione), ma vale indubbiamente
anche se si ritenga che l’accertamento inerisca solo al dato oggettivo rappresentato dal vizio del
provvedimento (perché anche in questo caso il riesercizio del potere può comportare una
riedizione del vizio). A tale esigenza sono state date varie risposte.

La risposta più radicale è rappresentata dalla introduzione dell’azione di adempimento e delle


altre ipotesi in cui il giudice amministrativo può condannare l’amministrazione (o imporle) di
adottare una condotta specifica o di emanare un certo provvedimento. In questi casi la sentenza
esaurisce il potere amministrativo o, per lo meno, lo ridimensiona drasticamente sul piano
sostanziale: l’amministrazione è tenuta a procedere nel modo stabilito dalla sentenza e non le è
riconosciuto alcun margine per riesaminare la pratica e per decidere diversamente. Rispetto
invece all’azione di annullamento, la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato di elaborare una
risposta all’esigenza in esame, identificando effetti della sentenza di annullamento ulteriori
rispetto all’eliminazione del provvedimento impugnato. Si tratta di effetti che hanno un carattere
obbligatorio, nel senso che costituiscono a carico dell’amministrazione doveri di condotta. In
questo modo la sentenza di annullamento del giudice amministrativo si configura come una
sentenza non meramente costitutiva. In argomento è significativa la sistematica proposta da
alcuni autori: questa sistematica individua 3 ordini di effetti della sentenza di annullamento:

(a) Effetto eliminatorio o caducatorio. La sentenza di annullamento comporta l’eliminazione


della cd realtà giuridica del provvedimento annullato e perciò la cessazione degli effetti prodotti
dal provvedimento. Si tratta dell’esito naturale dell’azione di annullamento: l’impugnazione di un
provvedimento è diretta innanzitutto ad ottenere una pronuncia del giudice che privi il
provvedimento dei suoi effetti.

(b) Effetto ripristinatorio. La sentenza di annullamento opera ex tunc: essa, pertanto, non solo
elimina dalla realtà giuridica attuale il titolo che determinava un certo assetto di interessi, ma
impone che quell’assetto di interessi sia eliminato fin dall’origine.

(c) Effetto conformativo. L’accertamento contenuto nella sentenza non può essere disatteso
dall’amministrazione. Per assicurare una utilità reale alla sentenza del giudice amministrativo è
necessario anche che tale accertamento non venga limitato a una singola espressione contingente
del potere amministrativo, ma vincoli l’amministrazione anche nella fase successiva, di riesercizio
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del potere. Pertanto nella rinnovazione del procedimento l’amministrazione non può riprodurre il
vizio già accertato nella sentenza: l’accertamento del vizio equivale all’affermazione di una regola
che l’amministrazione è tenuta a rispettare quando rieserciti il potere.

Con riferimento ai primi due ordini di effetti (eliminatorio e ripristinatorio) è evidente che
l’utilità offerta dall’azione di annullamento è rappresentata innanzitutto dalla eliminazione
dell’atto impugnato, con effetto retroattivo, ex tunc. Rispetto a questo risultato sono previste
alcune eccezioni. L’annullamento giurisdizionale del provvedimento di risoluzione di una crisi
bancaria può lasciare impregiudicati gli atti amministrativi o privati adottati in base al
provvedimento annullato. Ancora, l’accoglimento di un ricorso contro l’aggiudicazione di un
contratto pubblico non travolge sistematicamente gli atti adottati in base all’aggiudicazione. Più
in generale, la portata dell’effetto ripristinatorio va identificata sulla base della disciplina della
materia, che in taluni casi, per ragioni di interesse generale, può contemplare limiti rilevanti alla
ricostruzione della situazione giuridica precedente. Con riferimento al terzo ordine di effetti
(conformativo) va osservato che la regola enunciata nella sentenza di annullamento è spesso
identificata solo in negativo: il giudice dichiara che l’amministrazione non avrebbe dovuto
provvedere in quel certo modo (equivale ad affermare che l’amministrazione doveva provvedere
con altre modalità). Talvolta, comunque la regola per l’agire dell’amministrazione è identificabile
nella sentenza anche in positivo.

In ogni caso si tratta sempre di una regola vincolante per l’amministrazione. Nigro aveva
proposto una classificazione delle utilità conseguibili in questo modo attraverso la sentenza di
annullamento, ponendo in luce la loro relazione con il vizio accertato dal giudice amministrativo.
Se l’annullamento è stato disposto per un vizio di legittimità sostanziale (vizio che inerisce alla
illegittimità del contenuto in quando tale dell’atto impugnato) il vantaggio che ha ottenuto il
ricorrente è maggiore, perché l’annullamento per vizi di legittimità sostanziale impedisce
l’emanazione di un nuovo provvedimento con quel contenuto. Se invece l’annullamento è
disposto per un vizio di legittimità formale (vizio che attenga a un adempimento procedimentale,
o alla forma dell’atto, o alla motivazione), in genere il vantaggio che ottiene il ricorrente è minore,
perché l’annullamento non impedisce di per sé l’emanazione di un nuovo atto con lo stesso
contenuto, purché l’atto stesso sia emendato dai vizi accertati nella sentenza. Se però il potere
dell’amministrazione, in base a una norma sostanziale, è soggetto a un termine perentorio che ne
precluda la rinnovazione o comunque può essere esercitato una volta sola, allora in questo caso
anche l’annullamento per un vizio formale risulta pienamente satisfattivo per il ricorrente, perché
la rinnovazione del procedimento è preclusa. La sentenza che rigetti un ricorso perché infondato
contiene anch’essa, nei confronti delle parti, un accertamento: è l’accertamento della
insussistenza del vizio lamentato e della lesione prospettata all’interesse legittimo del ricorrente.
Ovviamente, la sentenza di rigetto non comporta invece in alcun modo un accertamento della
legittimità dell’atto: il giudice si pronuncia soltanto sulle censure proposte con un determinato
ricorso. Secondo una parte della dottrina, anche questa sentenza comporterebbe, comunque
vincoli sull’attività amministrativa successiva: infatti precluderebbe all’amministrazione di
annullare d’ufficio quel provvedimento, per il vizio dichiarato insussistente nella sentenza.

 Le impugnazioni (in generale)

Il libro terzo del cpa è dedicato alla impugnazione delle sentenza. Nei confronti delle sentenze del
giudice amministrativo sono previsti vari mezzi di impugnazione:

- Nei confronti delle sentenze dei Tar è ammesso l’appello al Consiglio di Stato (o al Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione siciliana, se sono impugnate sentenze del Tar Sicilia)

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- Nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato (o del Consiglio di giustizia amministrativa)
è ammesso il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione

- Nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato (o del Consiglio di giustizia
amministrativa) sono ammessi la revocazione e l’opposizione di terzo A questi mezzi di
impugnazione va accostato il regolamento di competenza, quando sia proposto nei confronti
dell’ordinanza del Tar che si pronunci sulla competenza.

Il cpa ha introdotto una disciplina più puntuale delle impugnazioni, con la quale è data risposta a
molti degli interrogativi ancora aperti; ad altri interrogativi è dato riscontro attraverso rinvii
espliciti alle disposizioni del cpc. Residuano comunque alcune lacune. Il cpa non ha disposto
alcunché, ma anche i primi interventi della dottrina sono concordi nel ritenere applicabili le
norme del cpc, anche sulla base dei criteri enunciati dall’art. 39 cpa per il rinvio esterno a tale
codice. In altri casi, invece, il silenzio del cpa sembra testimoniare una scelta deliberata, di non
introdurre alcuni istituti più particolari del processo civile. Alla disciplina concernente i singoli
mezzi di impugnazione della sentenza, il cpa ha premesso alcune disposizioni dedicate alle
impugnazioni in generale (artt. 91-99). I primi articoli sulle impugnazioni in generale, dopo
l’elencazione dei mezzi di impugnazione (art. 91 cpa), considerano alcuni profili di ordine
essenzialmente formale concernenti l’instaurazione del nuovo grado di giudizio. In particolare
sono disciplinati i termini entro cui vanno notificate le impugnazioni, il luogo in cui vanno
eseguite le notifiche e il termine per il deposito dopo la notifica.

I termini per proporre le impugnazioni sono di due ordini (art. 92 cpa):

- Il termine breve, che decorre dalla notifica della sentenza, è di regola pari a 60 giorni

- Il termine lungo, che rileva se non sia intervenuta la notifica della sentenza, è di regola pari a 6
mesi dalla pubblicazione di essa

Questi termini sono perentori; è però confermata la possibilità per la parte non costituita nel
grado precedente di giudizio, di dimostrare di non aver avuto conoscenza del processo per la
nullità del ricorso o della sua notifica. In tal caso è ammesso un’impugnazione tardiva.
L’impugnazione si propone con un ricorso che deve essere notificato alla controparte nei termini
appena indicati. La notifica va effettuata alla controparte presso la residenza dichiarata o il
domicilio eletto da essa nell’atto di notifica della sentenza o, in difetto, presso il difensore, o nella
residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Una disposizione particolare disciplina
la rimessione in termini, nel caso in cui il trasferimento del domiciliatario, non comunicato alle
parti, abbia reso impossibile la notifica tempestiva del gravame (art. 93 cpa). Alla notifica
dell’impugnazione deve seguire il suo deposito presso la cancelleria del giudice adito. Il deposito
dell’appello, della revocazione e dell’opposizione di terzo va effettuata entro 30 giorni dall’ultima
notifica (per il ricorso per cassazione, invece, vale la disciplina dettata dal cpc). Insieme con l’atto
di impugnazione notificato, va depositata anche una copia della sentenza impugnata (art. 94 cpa).

Il contraddittorio è disciplinato per due profili nodali:

Individuazione delle parti necessarie. Il codice identifica come parti necessarie del
giudizio di impugnazione tutte le parti in causa nelle impugnazioni di sentenze pronunciate in
causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, nonché le parti che hanno interesse a
contraddire negli altri casi.

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Rispetto alle cause inscindibili o tra loro dipendenti è trasparente il riferimento all’art. 331 cpc.
Questa disciplina va valutata alla luce della giurisprudenza precedente. Cons. Stato, ad. plen., 24
marzo 2004, n. 7, aveva escluso la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei cd
cosoccombenti, ossia di quelle parti che, risultate soccombenti nel giudizio del precedente grado,
avrebbero ben potuto proporre in termini una loro impugnazione e non l’abbiano però proposta.
I controinteressati soccombenti nel precedente grado del giudizio non sono considerati parti
necessarie nel successivo grado di giudizio promosso dall’amministrazione già resistente.
Modalità per evocarle in giudizio. Il codice ripropone le soluzioni accolte dalla giurisprudenza
precedente. Cons. Stato, ad. plen., 24 marzo 2004, n. 7, aveva dichiarato come per la regolare
introduzione del giudizio fosse sufficiente notificare l’impugnazione a una sola delle controparti e
non fosse necessaria la notificazione ad almeno uno tra gli eventuali controinteressati. Nei
confronti di tutte le altre parti l’integrazione del contraddittorio può essere ordinata
successivamente dal giudice.

Il tema delle impugnazioni incidentali rappresenta uno dei profili cruciali nella disciplina delle
impugnazioni delle sentenze. Nel processo amministrativo questo profilo è di particolare
importanza perché si verifica spesso, soprattutto nel caso dell’azione di annullamento, che il
giudizio di primo grado coinvolga una molteplicità di soggetti. Inoltre, accanto all’ipotesi di un
accoglimento pieno del ricorso nei termini più favorevoli per il ricorrente e di rigetto del ricorso
stesso, si possono presentare diverse situazioni intermedie di accoglimento parziale.
Analogamente al cpc, il cpa sancisce l’obiettivo della concentrazione delle impugnazioni di una
medesima sentenza, per realizzare una economia processuale, per ottenere che tutte le parti si
confrontino in un unico giudizio e, soprattutto, per evitare decisioni contrastanti. Infatti è
richiamato espressamente (art. 96, comma 2 cpa) l’art. 333 cpc, che impone a chi abbia ricevuto la
notifica dell’impugnazione di una sentenza di proporre le proprie doglianze nei confronti della
stessa sentenza mediante un’impugnazione incidentale nel medesimo processo. Di conseguenza,
anche nel processo amministrativo, vige la regola secondo cui tutte le impugnazioni successive
alla prima devono essere proposte dalle altre parti con una impugnazione incidentale, nel
giudizio promosso per effetto della prima impugnazione. Ciò vale indipendentemente da ogni
considerazione sulla soccombenza della parte che ha proposto l’impugnazione e anche in
presenza di un interesse autonomo all’impugnazione.

Nel caso si configuri un interesse autonomo della parte che propone l’impugnazione
incidentale, tale impugnazione riceve una considerazione specifica, ma solo nel senso che il suo
esame da parte del giudice non è condizionato all’accoglimento della prima impugnazione.

Per consentire alle parti di proporre un’impugnazione nel nuovo grado di giudizio, il cpc
considera due situazioni distinte. La prima situazione concerne la sentenza civile pronunciata fra
più parti in una causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti. Se l’impugnazione non sia
stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina l’integrazione del contraddittorio nei
confronti delle altre parti, fissando il termine per la notifica nei loro confronti; se la notifica non
viene effettuata, l’impugnazione è dichiarata inammissibile (art. 331 cpc). Questa previsione è
riproposta nel cpa, nell’art. 95. La seconda situazione concerne invece la sentenza pronunciata fra
più parti in causa scindibili (si pensi al litisconsorzio facoltativo, o all’azione promossa dal
creditorie nei confronti di più debitori solidali). Se l’impugnazione non sia stata notificata a tutte
le parti, il giudice civile ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti,
per consentire anche ad esse di proporre la loro impugnazione nel medesimo giudizio; a questo
scopo fissa il termine per la notifica nei loro confronti. Se però la notifica non viene effettuata,
il giudizio rimane sospeso fino alla scadenza del termine entro il quale la parte non intimata
avrebbe potuto a sua volta proporre impugnazione (art. 332 cpc). Questa ipotesi assume rilievo
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anche nel processo amministrativo. Manca però nel cpa una disposizione analoga a quella dettata
dall’art. 332 cpc e non è per nulla pacifico che tale disposizione possa essere estesa anche nel
processo amministrativo. Nel processo amministrativo, pertanto, appare maggiore il rischio che
nei confronti di un’identica sentenza sia proposta una pluralità di impugnazioni separate (in
particolare, su iniziativa di parti che non siano al corrente della prima impugnazione). D’altra
parte questo rischio sembra essere accettato dello stesso codice, che infatti tempera alcune delle
conseguenze previste nel processo civile per il caso di inosservanza dell’onere di appello
incidentale. In particolare, il cpa non sembra comminare alcuna decadenza, se una parte abbia
proposto la propria impugnazione in via principale, anziché il via incidentale, tant’è vero che
impone tassativamente al giudice di procedere alla riunione di tutte le impugnazioni proposte
separatamente contro la stessa sentenza. Inoltre, nel caso non sia stata disposta la riunione, la
decisione di una delle impugnazioni non determina l’improcedibilità delle altre. Di conseguenza
la prima decisione che intervenga su una delle impugnazioni non può essere opposta alle parti
che abbiano notificato una impugnazione separata contro la stessa sentenza: il coordinamento va
cercato sul piano sostanziale.

L’impugnazione incidentale di regola deve essere notificata alle altre parti nel termine di 60
giorni dalla notifica della prima impugnazione, e comunque prima della decorrenza dei termini
per il passaggio in giudicato della sentenza (art. 96, comma 3 cpa). L’impugnazione incidentale
proposta entro tale termine è tempestiva e può investire pacificamente qualsiasi capo della
sentenza impugnata; l’accoglimento dell’appello principale non è condizione per il suo esame da
parte del giudice. Il cpc ammette che la controparte alla quale sia stata notificata la prima
impugnazione e le parti nei cui confronti sia stata ordinata l’integrazione del contraddittorio
in cause inscindibili possano proporre le loro impugnazioni incidentali anche se per esse sia
decorso il termine per proporre l’impugnazione o se abbiano fatto acquiescenza alla sentenza
(si tratta della cd impugnazione incidentale tardiva). La giurisprudenza civile consente
l’impugnazione incidentale tardiva anche nei confronti di un capo di sentenza diverso da quello
censurato nella prima impugnazione. L’impugnazione tardiva perde però ogni efficacia se la
prima impugnazione sia dichiarata a sua volta inammissibile. Il cpa ha accolto questa soluzione
(art. 96, comma 4 cpa) e precisa espressamente che l’impugnazione incidentale tardiva può
riguardare anche capi autonomi della sentenza. L’impugnazione di una sentenza non deve
necessariamente riguardare l’intera sentenza impugnata, ma può riguardare anche una parte
soltanto di essa. È essenziale capire quale parte di una sentenza sia passibile di autonoma
contestazione: per questa ragione si suole identificare un’entità minima della sentenza, il cd capo
di sentenza.

L’impugnazione può riguardare uno o più capi di sentenza; rispetto a quelli non gravati da
impugnazione, in linea di principio, se non intervenga un’impugnazione incidentale, si forma il
giudicato. La nozione di capo di sentenza, molto dibattuta nel processo civile, risulta ancora più
controversa nel processo amministrativo. Risultato di queste incertezze è, in dottrina, la presenza
di interpretazioni che, con riferimento all’azione di annullamento, spaziano dalla tesi che
identifica il capo di sentenza in base al petitum del ricorso (= l’annullamento di un determinato
provvedimento) e che quindi delinea un ambito più ampio per la nozione di capo (= ad ogni
provvedimento impugnato corrisponde un capo di sentenza), a quella che invece identifica il
capo con il singolo profilo di illegittimità fatto valere nel ricorso (= a ciascun vizio esaminato nella
sentenza corrisponde un capo distinto).

Su una posizione intermedia si colloca la tesi (Nigro) secondo cui la nozione di capo di sentenza
dovrebbe essere conformata alle utilità che l’accoglimento di una sentenza comporta per il
ricorrente, tenendo conto di tutti gli effetti della sentenza di annullamento. Di conseguenza
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rispetto a censure equipollenti sarebbe configurabile un unico capo di sentenza, mentre
rispetto a censure idonee a determina per il ricorrente utilità diverse sarebbero configurabili
più capi di sentenza. In questo modo il capo di sentenza non corrisponderebbe al singolo motivo
di ricorso, né alla domanda complessiva di annullamento di un atto amministrativo, ma si
identificherebbe in base a una qualità degli effetti della sentenza. Nella giurisprudenza
amministrativa prevale la tendenza che identifica come unità minima della sentenza qualsiasi
pronuncia espressa su una questione sollevata dalle parti o rilevata d’ufficio nel giudizio di primo
grado. Capo della sentenza finisce così col risultare non solo la pronuncia sul singolo vizio, ma
anche il rigetto di ogni eccezione pregiudiziale o preliminare. Questa conclusione però non è
pacifica.

Nel processo amministrativo, nel giudizio di impugnazione, può intervenire chi vi ha interesse;
l’intervengo deve essere proposto con un atto da notificare alle altre parti (art. 97 cpa). In merito
alle situazioni che possono legittimare l’intervento in appello, la giurisprudenza ha fatto rinvio
alle soluzioni accolte per l’intervento ad adiuvandum (sostiene le ragione del ricorrente) o ad
opponendum (per contrastare il ricorso e conseguirne il rigetto) nel giudizio di primo grado. La
disciplina delle impugnazioni nel processo amministrativo, per questo profilo, si differenza da
quella del processo civile, che di regola ammette l’intervento solo dei soggetti che potrebbero
proporre l’opposizione di terzo. La divergenza si spiega probabilmente col fatto che il codice ha
preferito recepire una giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, che aveva escluso la
possibilità di estendere all’intervento nel processo amministrativo d’appello la disciplina del cpc
ed aveva ammesso l’intervengo in termini più brevi.

Nel giudizio promosso in seguito all’impugnazione della sentenza può essere richiesta la
sospensione dell’esecuzione della sentenza stessa (art. 98 cpa). La sospensione va richiesta con
le modalità e secondo i principi già esaminati a proposito delle misure cautelari nel giudizio di
primo grado.

 L’appello al Consiglio di Stato: considerazioni preliminari

In seguito all’istituzione dei Tar, che ha dato attuazione all’art. 125, comma 2 Cost, nel processo
amministrativo vige con carattere di generalità il cd doppio grado di giurisdizione: nei confronti
delle sentenze (parziali o definitive) dei Tar la parte soccombente può proporre appello al
Consiglio di Stato (art. 100 cpa). L’appello si presenta come rimedio a critica libera, concesso
alla parte soccombente per far valere, oltre agli errori e ai vizi, anche la semplice ingiustizia della
sentenza di primo grado. Ha carattere rinnovatorio (o sostitutivo), perché di regola la decisione
del Consiglio di Stato che accolga l’appello si sostituisce a quella del Tar: questa regola è
confermata nel cpa, che infatti elenca tassativamente i casi di rimessione degli atti al giudice di
primo grado. La disciplina dell’appello nel cpa è limitata a pochi articoli (artt. 100-105), che
vanno però letti alla luce degli articoli precedenti, dedicati alle impugnazioni in generali (artt. 91-
99), e alla luce di quelli sullo svolgimento del giudizio di primo grado (artt. 40-49), espressamente
richiamati anche per tutte le impugnazioni (art. 38).

Legittimate a proporre l’appello sono le parti necessarie nel giudizio di primo grado. La
legittimazione a proporre l’appello è riconosciuta dal codice anche all’interventore ad
opponendum nel giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione
giuridica autonoma rispetto alle altre parti. In ogni altra ipotesi l’interventore è legittimato a
proporre appello solo nei confronti dei capi di sentenza che lo riguardino direttamente, ossia nei
confronti dei capi che si pronuncino sull’ammissibilità dell’intervento o sulle spese. La
presentazione dell’appello presuppone che il soggetto legittimato abbia interesse ad appellare.

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Tale interesse va valutato in una prospettiva tipicamente processuale: è l’interesse a
impugnazione una sentenza che produce effetti sfavorevoli per la parte. Viene riconnesso
pertanto alla nozione di soccombenza: ha interesse ad impugnare la sentenza di primo grado
chi sia risultato soccombente (in tutto o in parte) in quel grado di giudizio. Rispetto all’azione
di annullamento, la configurabilità di una soccombenza risulta evidente in alcune ipotesi; in altre
ipotesi, invece, l’identificazione della soccombenza è più problematica: si pensi, con riferimento
all’azione di annullamento, al caso del ricorrente che in primo grado abbia ottenuto
l’accoglimento del suo ricorso per alcune soltanto delle censure proposte, mentre le altre censure
siano state dichiarate infondate. In questa ipotesi la giurisprudenza recente ha ammesso l’appello
della parte vittoriosa in primo grado, a condizione però che tale parte possa conseguire un
vantaggio maggiore dall’accoglimento delle censure respinte dal Tar.

Nei confronti delle sentenze non definitive la parte può proporre senz’altro l’appello nel rispetto
dei termini già segnalati, ma può anche riservarsi di impugnare la sentenza non definitiva
unitamente a quella definitiva. Il codice riconosce l’istituto della riserva d’appello anche nel
processo amministrativo. La riserva d’appello è proposta con un atto che va notificato alle altre
parti entro il termine fissato per l’appello e va depositato presso il Tar nei successivi 30 giorni.
L’appello al Consiglio di Stato deve essere proposto un ricorso, con i contenuti elencati dall’art.
101 cpa.

Richiede che siano:

a. Identificati il ricorrente e il suo difensore

b. Identificate le parti nei cui confronti è proposto l’appello

c. Identificata la sentenza di primo grado

d. Esposti sommariamente i fatti

e. Formulate le conclusione e prescrive che l’atto sia sottoscritto dal difensore con indicazione
della procura speciale a lui rilasciata dalla parte, ovvero che sia sottoscritto dalla parte
personalmente, se essa è un avvocato abilitato al patrocinio aventi alle giurisdizioni superiori.

Si tenga presente che nei giudizi di impugnazione è obbligatorio il patrocinio di un avvocato e


che avanti al Consiglio di Stato può esercitare soltanto un avvocato abilitato al patrocinio avanti
alle giurisdizioni superiori. Nel ricorso non solo devono essere identificati i capi di sentenza
gravati d’appello, ma anche devono essere enunciate le specifiche censure contro la relativa
pronuncia del giudice di primo grado. È necessario pertanto che l’appello, oltre a identificare
esattamente l’oggetto della domanda, e cioè a definire l’ambito della sentenza di primo grado
di cui si invoca il riesame, enunci anche la critica ai capi di sentenza appellati.

L’appellante deve formulare una critica specifica alla sentenza di primo grado: a pena di
inammissibilità, deve enunciare le ragioni per le quali ritiene che la sentenza non sia corretta
o condivisibile. L’appello si caratterizza tradizionalmente, fra i mezzi di impugnazione, per
essere diretto ad ottenere dal giudice di secondo grado il riesame della vertenza decisa del giudice
di primo grado. Pertanto il giudice d’appello deve poter conoscere e decidere la vertenza con la
stessa pienezza del giudice di primo grado. A questo proposito si parla di un effetto devolutivo
dell’appello: si designa la riemersione automatica, nel giudizio d’appello, delle questioni già
sollevate nel giudizio di primo grado e, conseguentemente, del relativo materiale di
cognizione e probatorio. L’esame delle relative questioni proposte nel giudizio di primo grado
non richiederebbe nessuna iniziativa della parte: la riemersione delle questioni si produrrebbe di
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diritto, solo in forza dell’appello. Per valutare la rilevanza nel processo amministrativo dell’effetto
devolutivo in senso proprio è opportuno ricordare che un effetto devolutivo si può produrre solo
nei limiti dell’impugnazione proposta: può riguardare solo questioni risolte nei capi di
sentenza che siano impugnati. L’ampiezza dell’effetto devolutivo risulta quindi condizionata
innanzitutto dalla nozione di capo di sentenza. Alla stregua della lettura accolta in prevalenza
dalla giurisprudenza amministrativa, nel processo amministrativo l’effetto devolutivo dell’appello
consentirebbe al giudice di secondo grado di conoscere d’ufficio i meri argomenti, di diritto e di
fatto, esposti dalle parti in ordine alle questioni esaminate e decise, di valutare gli elementi di
prova inerenti a tali questioni acquisiti nel giudizio di primo grado, di conoscere le istanze
istruttorie proposte dalle parti nel giudizio di primo grado.

Invece riguardo alle questioni sollevate dalle parti sarebbe difficilmente prospettabile un effetto
devolutivo. Di conseguenza, rispetto alle questioni, risulta tanto maggiore l’onere di proporre
appello incidentale, perché solo con l’appello incidentale esse possono estendere la cognizione
del giudice a capi della sentenza diversi da quelli censurati nell’appello principale. Infatti
l’appello incidentale è in stretto rapporto con l’effetto devolutivo.

Se opera l’effetto devolutivo, il giudice d’appello ha già di per sé la capacità (e il dovere) di


prendere in considerazione le ragioni e gli elementi non accolti dal giudice di primo grado; se la
parte intende richiamarli specificamente all’attenzione del giudice d’appello, può farlo nelle sue
normali difese, senza necessità di notificare un appello incidentale. Effetto devolutivo ed onere
di appello incidentale sono dunque in una relazione di alternatività: le conclusioni del
Consiglio di Stato sulla limitatezza dell’effetto devolutivo nel processo amministrativo
comportano, come necessaria conseguenza, la dilatazione dell’onere di proporre appello
incidentale. Il codice dispone che l’appellante ha l’onere di riproporre nel suo appello anche le
questioni assorbite e comunque non esaminate nella sentenza, precisando che altrimenti
devono intendersi rinunciate. Le altre parti possono riproporre le questioni assorbite o
comunque non esaminate con una memoria da depositare a pena di decadenza entro il
termine di costituzione in giudizio (termine perentorio).

Uno dei profili qualificante è rappresentato dalla disciplina dei nova, in particolare dalla
possibilità per la parte di porre rimedio alle manchevolezze delle sue difese nel precedente grado
di giudizio, proponendo censure, eccezioni o mezzi di prova che, pur potendo, non aveva
proposto in primo grado. Il codice conferma che con l’appello al Consiglio di Stato non è
ammessa la presentazione di nuovi motivi di ricorso contro il provvedimento impugnato in
primo grado, né di altre domande nuove.

Sono ammessi invece anche in grado di appello i cd motivi aggiunti: la possibilità di proporli in
appello, pur costituendo una deroga al principio del doppio grado, si giustifica per il fatto che essi
concernono vizi che emergono da documenti conosciuti per la prima volta in quel grado di
giudizio e la loro previsione costituisce quindi un corollario della garanzia del diritto d’azione.

Nell’appello al Consiglio di Stato possono essere richiesti gli interessi e gli accessori maturati
dopo la sentenza di primo grado, nonché il risarcimento dei danni subiti dopo tale sentenza e, a
maggior ragione, la restituzione di quanto corrisposto in base alla sentenza di primo grado. Si
deve invece escludere la possibilità che sia richiesto per la prima volta in grado d’appello il
risarcimento dei danni provocati dal provvedimento amministrativo impugnato aventi al Tar o da
altra circostanza.

Per quanto riguarda le eccezioni nuovi, il codice ammette in grado d’appello solo quelle
rilevabili d’ufficio. Infine il codice ha introdotto nel processo amministrativo il divieto per le
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parti di dedurre nuovi mezzi di prova e di produrre nuovi documenti. Il divieto ammette però
due deroghe:

(1) Le nuove prove sono ammesse nel caso in cui il collegio le ritenga indispensabili per la
decisione

(2) Le nuove prove sono ammesse nel caso in cui la parte dimostri di non averle potuto dedurre o
produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile

(Segue): lo svolgimento del giudizio e la decisione

Lo svolgimento del giudizio d’appello avanti al Consiglio di Stato è regolato dalle disposizioni sul
giudizio di primo grado, che sono espressamente richiamate anche per i giudizi d’impugnazione
(art. 38 cpa), nonché alcune disposizioni generali sulle impugnazioni.

In estrema sintesi, l’appello contro una sentenza del Tar va proposto con ricorso al Consiglio di
Stato in sede giurisdizionale. La distribuzione delle competenze fra le sezioni giurisdizionali del
Consiglio di Stato ha rilevanza solo interna: di conseguenza l’appello va diretto genericamente al
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. La notifica dell’appello deve essere richiesta, di regola,
entro 60 giorni dalla notifica della sentenza, o entro 6 mesi dalla data di pubblicazione della
sentenza, se non sia stata notificata. L’appello deve essere notificato alle parti del giudizio di
primo grado identificate nell’art. 95 cpa, siano esse costituite o non; se l’atto non è notificato a
tutte le parti, ma almeno ad una, l’appello non è inammissibile, ma il Consiglio di Stato ordina
l’integrazione del contraddittorio. Nei 30 giorni successivi alla notifica, il ricorso deve essere
depositato presso la segreteria del Consiglio di Stato; col deposito si determina anche la
costituzione in giudizio dell’appellante e la pendenza del giudizio. Dopo il deposito l’appello
viene assegnato d’ufficio a una sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato.

L’appello non comporta di per sé la sospensione dell’esecutività della sentenza: la sospensione


può essere disposta dal Consiglio di Stato, in seguito ad istanza dell’appellante contenuta
nell’appello o in altro atto notificato alle altre parti.

Gli appellanti possono costituirsi in giudizio, depositando una memoria di costituzione (cd
controricorso), entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’appello; questo termine di regola è
ordinatorio, mentre è perentorio per riproporre eventuali domande o eccezioni rimaste assorbite
o non esaminate nella sentenza di primo grado. È invece perentorio il termine di 60 giorni per
proporre l’appello incidentale. Quest’ultimo deve essere notificato all’appellante, presso il suo
difensore nel giudizio d’appello.

Nel giudizio d’appello è ammesso inoltre l’intervento di quanti avrebbero potuto intervenire
ad adiuvandum o ad opponendum nel giudizio di primo grado. Una peculiarità è prevista nei
giudizi contro le pronunce dei Tar che abbiano declinato la giurisdizione. In questi casi il giudizio
si svolge con il rito camerale. La stessa disciplina è dettata per il caso di appello contro le
pronunce del Tar che abbiano declinato la competenza all’esito del giudizio. L’art. 99 cpa
disciplina il deferimento di questioni all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Si riferisce al
giudizio d’appello promosso nei confronti di una sentenza.

Si applica anche a:

- Giudizi di revocazione o di opposizione di terzo, se competente a decidere sia il Consiglio di


Stato

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- Regolamenti di competenza

- Appello cautelare

L’adunanza plenaria si pronuncia su giudizi che le sono demandati o in seguito a una rimessione
disposta dalla Sezione del Consiglio di Stato cui era assegnato il giudizio o in seguito a
rimessione disposta dal Presidente del consiglio di Stato.

La rimessione è determinata nel primo caso dalla circostanza che in discussione sia un punto di
diritto che abbia dato luogo o che possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali, nel secondo caso
può essere disposta anche per la particolare importanza del punto di diritto da affrontare.

In seguito alla rimessione, l’adunanza plenaria si pronuncia sul punto di diritto segnalato
nell’ORDINANZA DI RIMESSIONE. Può provvedere sull’intera controversie, oppure
limitarsi ad enunciare il principio di diritto rispetto al punto oggetto di rimessione e restituire gli
atti alla singola sezione per la decisione sulla controversia. L’adunanza plenaria può enunciare un
principio di diritto nell’interesse della legge, quando ravvisi la particolare importanza della
questione sottopostale e, per ragioni processuali, non possa pronunciarsi sul merito. Rispetto a
un punto di diritto già oggetto di rimessione, le singole sezioni del Consiglio di Stato non possono
discostarsi nelle loro pronunce successive dall’interpretazione accolta dall’adunanza plenaria. Se
una sezione ritiene di non condividere tale interpretazione, deve rimettere il giudizio all’adunanza
plenaria, con un’ORDINANZA MOTIVATA. All’adunanza plenaria è assegnata una funzione
nomofilattica.

L’appello nel processo amministrativo ha carattere rinnovatorio. Di conseguenza il Consiglio di


Stato, se accoglie l’appello, di regola decide anche sulla controversia. Il Consiglio di Stato non è
vincolato dalla regola del fatto enunciata nella sentenza impugnata. Nei casi ammessi dall’art. 204,
comma 2 cpa può anche acquisire nuovi elementi di prova. Il carattere rinnovatorio del giudizio
d’appello consente di richiamare per le sentenze del Consiglio di Stato quanto è stato già
presentato a proposito della sentenza del Tar, con alcune precisazioni, che riguardano:

- I vizi della sentenza appellata rilevabili d’ufficio dal giudice d’appello. Prima del codice, il
Consiglio di Stato riteneva di poter rilevare d’ufficio alcuni vizi della sentenza impugnata. Si
trattava in particolare del difetto di giurisdizione, della nullità, inammissibilità o irricevibilità
della domanda originaria, dell’irregolare costituzione del rapporto processuale. La
giurisprudenza prevalenze sosteneva che tali vizi fossero rilevabili d’ufficio da parte del Consiglio
di Stato, se non fossero stati oggetto di esplicita statuizione nella sentenza appellata. Se invece
fossero stati oggetto di esplicita statuizione, in mancanza di appello sul punto si sarebbe formato
il giudicato e quindi la questione sarebbe stata preclusa anche per il giudice di secondo grado. Il
Consiglio di Stato, invece, in genere sosteneva che, in mancanza di una statuizione esplicita nella
sentenza del Tar, la questione dovesse ritenersi non affrontata nel giudizio di primo grado e che
pertanto non vi fosse spazio per alcun giudicato.

Nel cpa il tema è affrontato rispetto alla questione della giurisdizione: viene stabilito che nel
giudizio d’appello il difetto di giurisdizione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il
capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione.
Il codice accoglie pertanto la figura del giudicato implicito sulla giurisdizione. In questo caso, in
mancanza di specifico gravame, il Consiglio di Stato non può pronunciarsi sulla questione di
giurisdizione. In alcune pronunce il Consiglio di Stato ha sostenuto che per le ipotesi diverse dal
difetto di giurisdizione sarebbe ancora attuale l’indirizzo accolto prima del codice.

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- I casi in cui la sentenza del Consiglio di Stato ha un contenuto solo demolitorio della
sentenza del Tar. L’art. 105 cpa prevede alcune ipotesi di decisioni del Consiglio di Stato di
annullamento (senza riforma) della sentenza appellata, con rinvio degli atti al giudice di primo
grado. Su questo punto si confrontano tradizionalmente due concezioni.

La prima è favorevole ad estendere le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo


grado, per realizzare nei termini più ampi il doppio grado di giurisdizione, intesi come garanzia
tendenziale della riproduzione di un giudizio sul merito della vertenza.

La seconda è favorevole a limitare le ipotesi di annullamento con rinvio, perché l’assunzione


diretta della decisione da parte del giudice d’appello assicura meglio le esigenze di economia e di
speditezza del giudizio e perché il principio del doppio grado non implica la necessità di un
esercizio, in doppio grado, di una cognizione di merito. Il cpa, come il cpc, aderisce alla seconda
concezione. Di conseguenza l’annullamento con rimessione degli atti al giudice di primo
grado è disposto in ipotesi tassative. Fra questi casi sono considerati innanzitutto:

(1) Il difetto del contraddittorio. A questa ipotesi sono state ricondotte, oltre che la mancata
integrazione del contraddittorio o la mancata instaurazione del giudizio nei confronti di una parte
necessaria, anche tutti i casi di nullità della notifica del ricorso di primo grado o di nullità di tale
ricorso che possano aver pregiudicato il diritto della parte di essere evocata in giudizio.

(2) La lesione del diritto di difesa di una delle parti. La violazione del diritto di difesa è stata
prospettata in altre situazioni: per esempio quando sia stata omessa la comunicazione dell’avviso
di fissazione dell’udienza, o quando sia stato assunto il ricorso in decisione in seguito alla
trattazione di un’istanza cautelare, anche se una parte avesse dichiarato di voler proporre motivi
aggiunti o ricorso incidentale. Un’ampia giurisdizione ritiene che il medesimo vizio si riscontri
anche quando il giudice di primo grado abbia omesso di segnalare alle parti una questione
rilevata d’ufficio, per assicurare il contraddittorio.

(3) La nullità della sentenza di primo grado. Questo termine è utilizzato in modo palesemente
improprio, perché qualsiasi vizio processuale nel giudizio di primo grado determina tecnicamente
la nullità della sentenza, mentre la rimessione al giudice di primo grado va disposta solo in casi
particolari. È stato perciò proposto di fare riferimento all’ipotesi più grave di nullità contemplata
dall’art. 161, comma 2 cpc, e spesso designata come ipotesi di inesistenza giuridica della sentenza.

(4) Il Consiglio di Stato riforma la sentenza del Tar che ha declinato la giurisdizione, o la
sentenza o l’ordinanza del Tar che ha pronunciato sulla competenza, o ha dichiarato
l’estinzione o la perenzione del giudizio

Il codice non considera invece l’ipotesi di annullamento senza rinvio. La mancanza di


riferimento dipende soltanto dalla circostanza che il cpa, seguendo l’indirizzo del cpc, ha
concentrato l’attenzione sul rapporto fra i giudice dei due diversi gradi. Il Consiglio di Stato si
limita ad annullare la sentenza di primo grado, senza un rinvio, se accerta che il Tar si è
pronunciato sul merito del ricorso:

1. 1Nonostante un vizio insanabile dell’atto introduttivo

2. Nonostante la presenza di cause impeditive o estintive del giudizio

3. In presenza di un difetto assoluto di giurisdizione

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4. In difetto delle condizioni per l’azione In questo caso il processo amministrativo si conclude
senza la rimessione degli atti ad altro giudice.

Il Consiglio di Stato, se annulla la sentenza del Tar che abbia ritenuto erroneamente di avere
giurisdizione su quella controversia, se ritiene che la giurisdizione sia devoluta a un altro giudice
nazionale, lo dichiara nella sua sentenza, indicando il giudice competente. In questo caso la
riproposizione tempestiva della domanda davanti a tale giudice comporta la salvezza degli effetti
sostanziali e processuali della domanda presentata inizialmente avanti al Tar privo di
giurisdizione.

La sentenza del Consiglio di Stato che riformi o annulli una sentenza di primo grado produce gli
effetti espansivi contemplati dall’art. 336 cpc. In particolare, oltre ai capi di sentenza riformati o
annullati, travolge anche:

- I capi di sentenza che di essi sono conseguenza necessaria e che pertanto non possono
conservare un’efficacia autonomia (cd effetto espansivo interno)

- Gli atti che la parte soccombente abbia poso in essere in esecuzione del capo stesso (cd effetto
espansivo esterno)

Il cpa non considera espressamente tali effetti espansivi, né richiama la disposizione del cpc che li
prevede, ma la dottrina ha subito preso posizione nel senso che tali effetti si producano anche nel
caso della sentenza amministrativa pronunciata in sede di gravame.

 La revocazione

L’art. 106 cpa ammette nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato il rimedio
della revocazione. Per quanto riguarda i casi di revocazione è fatto rinvio al cpc (art. 395 cpc),
mentre per quanto riguarda lo svolgimento del giudizio opera il rinvio generale alla disciplina di
primo grado (art. 38 cpa). I casi di revocazione previsti dall’art. 395 cpc riguardano:

1. La sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra

2. La sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza o che
la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate false prima della sentenza

3. Il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la parte non aveva
potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario. La
revocazione in questo caso presuppone che il ritardo nella scoperta del documento non sia
imputabile a colpa della parte e che il documento non fosse disponibile neppure nel giudizio di
appello.

4. La sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa.
L’errore di fatto che consente la revocazione deve essere stato determinante per la sentenza, e
non deve concernere le valutazioni dei fatti compiute dal giudice, ma deve consistere in una
errata od omessa percezione del contenuto materiale degli atti o dei documenti prodotti nel
giudizio.

5. La sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché non abbia
pronunciato sulla relativa eccezione.

Questa ipotesi di revocazione presuppone l’identità degli elementi di identificazione dell’azione


nei due diversi giudizi: pertanto è escluso che la revocazione per contraddittorietà fra giudicati
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potesse essere proposta da chi fosse rimasto estraneo ad uno dei due giudizi o che potesse essere
proposta rispetto a una decisione pronunciata in sede di giudizio di ottemperanza, invocando il
contrasto con quanto statuito nella sentenza che definitiva il medesimo giudizio in sede di
cognizione

6. La sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato

In tutti questi casi si configurano vizi che per la loro particolare gravità hanno giustificato la
previsione di un rimedio eccezionale ad hoc. Il cpa chiarisce il rapporto fra APPELLO e
REVOCAZIONE. La revocazione nei confronti delle sentenze dei Tar è ammessa se i motivi
non possono essere dedotti con l’appello (art. 106, comma 3 cpa). Dato che tutti i motivi di
revocazione sono astrattamente deducibili nell’appello, questa disposizione va interpretata nel
senso che la revocazione delle sentenze dei Tar è ammessa solo nei casi e alle condizioni
indicati dall’art. 396 cpc. Si tratta dei casi di REVOCAZIONE STRAORDINARIA,
corrispondenti alle situazioni elencate dall’art. 395 cpc, nn. 1, 2, 3, 6 (attinenti cioè a vizi non
percepibili immediatamente dal testo della sentenza), purché il fatto che determina la revocazione
sia stato scoperto o sia stato accertato solo dopo la scadenza del termine per l’appello. Rispetto
alle sentenza del Consiglio di Stato, invece, la revocazione è proponibile in tutti i casi elencati
nell’art. 395 cpc.

Il ricorso per revocazione si propone avanti al medesimo giudice che ha emesso la sentenza. Nei
casi di revocazione nn. 1, 2, 3, 6, il termine di 60 giorni per il ricorso decorre rispettivamente dal
giorno in cui:

- È stato scoperto il dolo o la falsità o la collusione

- È stato recuperato il documento

- È passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice

In tutti i casi la revocazione può essere richiesta anche se la sentenza impugnata sia già passata in
giudicato. In tutti i casi il giudice procede sia all’accertamento delle condizioni per la revocazione
(cd iudicium rescindens), sia, nel caso di accertamento positivo, al riesame del merito della
controversia già precedentemente decisa (cd iudicium rescissorium).

Il giudice si pronuncia sulla revocazione con unica SENTENZA. Nei confronti della sentenza
sono ammesse le impugnazione previste per la sentenza che era stata oggetto di revocazione. Non
è ammessa però una nuova impugnazione per revocazione.

 L’opposizione di terzo

La Corte costituzionale aveva introdotto nel processo amministrativo l’opposizione di terzo cd


ordinaria, prevista dall’art. 404, comma 1 cpc, attraverso la quale un terzo può porre in
discussione una sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva che pregiudichi i suoi diritti
e sia stata pronunciata in un giudizio cui sia rimasto estraneo. Il codice conferma l’istituto (art.
108, comma 1 cpa) e introduce un’OPPOSIZIONE REVOCATORIA, per i creditori o gli
aventi causa di una delle parti nei confronti della sentenza che sia il risultato di collusione o
di dolo a loro danno. L’opposizione può essere senz’altro proposta dal soggetto che era
contemplato in origine nel codice, ossia dal terzo titolare di una posizione autonoma e
incompatibile. Terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile è il soggetto:

- Al quale non sia opponibile la sentenza


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- Che sia titolare di una posizione giuridica non dipendente da quella delle parti in causa e non
passibile di essere soddisfatta unitamente a quella della parte vittoriosa

Prima del codice, parte della giurisprudenza amministrativa aveva ammesso anche l’opposizione
dei controinteressati che fossero tali solo in senso sostanziale, o dei soggetti legittimati
all’intervento ad opponendum in forza di una posizione autonoma. Nel processo amministrativo
il pregiudizio che può determinare l’opposizione di terzo non può identificarsi soltanto con la
lesione dei diritti del terzo, ma deve modellarsi anche sulla lesione di interessi legittimi.

La soluzione accolta dalla giurisprudenza sembra l’unica idonea a riconoscere una tutela concreta
a certi soggetti i cui interessi legittimi risulterebbero altrimenti compromessi da un giudizio cui
erano rimasti estranei e trova ampio riscontro nella giurisprudenza maturata sul nuovo testo
dell’art. 108, comma 1 cpa. Mentre il cc detta regole certe per risolvere i conflitti fra i terzi che
vantino diritti incompatibili su un identico bene, nel diritto amministrativo regole analoghe non
sono previste o, per lo meno, non sono di agevole identificazione. Unico criterio pacifico sembra
essere la preferenza per le pretese che trovino fondamento in situazioni di legittimità
amministrativa.

La giurisprudenza amministrativa, prima del codice, aveva sostenuto che la legittimazione a


proporre l’opposizione di terzo dovesse riconoscersi anche a un’altra categoria di soggetti: il
CONTROINTERESSATO PRETERMESSO (litisconsorte necessario). Nel processo civile è
stato sostenuto che il litisconsorte pretermesso, per ottenere l’eliminazione della sentenza che lo
pregiudica, potrebbe limitarsi a dedurre nell’opposizione la sua qualità: la sentenza opposta
risulterebbe viziata per il difetto del contraddittorio. È dubbio però se la stessa soluzione possa
valere nel processo amministrativo. Certamente il controinteressato pretermesso può limitarsi a
far valere la sua qualità nel caso in cui non sarebbe stata possibile neppure l’integrazione del
contraddittorio nei suoi confronti. Negli altri casi, è controverso se il terzo, oltre ad allegare la
propria situazione di controinteressato pretermesso, debba anche denunciare l’ingiustizia della
sentenza opposta.

Il codice non contempla disposizioni sui termini per proporre l’opposizione di terzo ordinaria. In
passato una giurisprudenza aveva applicato il termine di 60 giorni dalla conoscenza della
conoscenza della sentenza, e in varie pronunce successive al codice il Consiglio di Stato ha
confermato questa soluzione. Il codice ha disciplinato il rapporto fra OPPOSIZIONE DI
TERZO e APPELLO. In base al codice, nei confronti della sentenza, il terzo può proporre
soltanto l’opposizione; essa va diretta al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. La
soluzione accolta nel codice comporta però la possibilità che una sentenza di un Tar sia oggetto
insieme di appello al Consiglio di Stato proposta da una delle parti originarie e di opposizione
proposta da un terzo. Per evitare la pendenza di due gravami diversi, il codice assegna la
prevalenza al gravame ordinario. Pertanto, se sia già stato proposto appello, il terzo deve
introdurre la sua domanda intervenendo nel giudizio d’appello. Invece, se una parte
proponga appello dopo che il terzo abbia già proposto l’opposizione, il giudice
dell’opposizione deve fissare un termine al terzo perché intervenga nel giudizio d’appello e
l’opposizione diventa improcedibile.

Il codice ha introdotto nel processo amministrativo anche l’opposizione di terzo revocatoria.


Legittimati a proporla sono i creditori e gli aventi causa di una parte: sono tutelati così i titolari di
una posizione dipendente, che in quanto tali non possono proporre un’opposizione di terzo
ordinaria. Essi possono proporre opposizione soltanto nei confronti della sentenza che sia effetto
di dolo o collusione a loro danno.

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 Il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione

Nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato (nonché del Consiglio di giustizia
amministrativa per la regione siciliana) è ammesso il ricorso alla Corte di cassazione per motivi di
giurisdizione. Il ricorso alla Corte di cass è ammesso per denunciare la violazione dei limiti
esterni della giurisdizione amministrativa. La violazione dei limiti esterni può concretarsi in:

- Erronea declinatoria di giurisdizione

- Accoglimento del ricorso in ipotesi esorbitanti rispetto alla giurisdizione amministrativa

Di conseguenza il ricorso è possibile sia nel caso che il giudice amministrativo abbia deciso una
questione riservata all’amministrazione, o devoluta al giudice ordinario o a un altro giudice
speciale, sia nel caso che abbia declinato la propria giurisdizione in ipotesi in cui invece la
questione sarebbe stata di sua competenza. La Cassazione ha proposto un’interpretazione
estensiva della condizione rappresentata dai motivi inerenti alla giurisdizione: non ha identificato
questi motivi solo con profili inerenti alla distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi, o
fra interessi qualificati (= diritti soggettivi o interessi legittimi) e interessi non qualificati (=
interessi semplici o interessi di fatto); ha ritenuto invece che in essi fossero comprese anche altre
ipotesi, come la distinzione fra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, o come alcuni
gravi vizi formali, come la partecipazione al collegio giudicante di persone del tutto carenti di
legittimazione. Negli ultimi anni, nella giurisprudenza della Cassazione è rappresentato anche un
indirizzo diverso. Alcune pronunce, infatti, hanno prospettato un’ulteriore estensione del
sindacato per motivi di giurisdizione sulle sentenze del Consiglio di Stato. Questo indirizzo fu
inaugurato in alcune pronunce precedenti al codice, che avevano censurato l’indirizzo del giudice
amministrativo di dichiarare inammissibili le domande risarcitorie proposte senza che fossero
stati tempestivamente impugnati i rispettivi provvedimenti lesivi. La Cassazione sostenne che in
questo modo il Consiglio di Stato avrebbe rifiutato di esercitare la propria giurisdizione e che tale
rifiuto avrebbe identificato una questione di giurisdizione. La Cassazione ha confermato un
indirizzo analogo anche più di recente, esercitando un sindacato più ampio su pronunce del
Consiglio di Stato alle quali imputava il cd eccesso di potere giurisdizionale, ossia uno
sconfinamento del giudice amministrativo nell’ambito del merito riservato all’amministrazione.
Più di recente, ancora, la Cassazione ha identificato un eccesso di potere giurisdizionale in una
sentenza del Consiglio di Stato che avrebbe gravemente disatteso l’interpretazione di alcune
norme comunitarie resa dalla Corte di giustizia. Infine, è stato rilevato come, nella concezione
della Cassazione, finisca col configurarsi come motivo di giurisdizione il vizio di violazione di
legge che assuma determinati caratteri di particolare gravità.

La disciplina processuale del ricorso contro le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di
giurisdizione è dettata dal cpc (art. 362 cpc). Il ricorso va proposto nei termini previsti per il
ricorso per cassazione (art. 325 cpc), ossia nel termine di 60 giorni dalla notifica della decisione
del Consiglio di Stato, ovvero di 6 mesi dal deposito della decisione, nel caso che essa non sia
stata notificata.

Quando sia impugnata una sentenza del Consiglio di Stato, sulla questione di giurisdizione si
pronunciano di regola le sezioni unite della Cassazione; le sezioni semplici possono pronunciarsi
soltanto se si tratti di questioni di giurisdizione identica ad altra su cui si siano già pronunciate le
sezioni unite.

Il cpa ha introdotto la possibilità di una sospensione dell’esecuzione della sentenza del


Consiglio di Stato, in pendenza del ricorso per cassazione (art. 111 cpa). La sospensione,
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unitamente ad ogni altra misura cautelare opportuna, è disposta dallo stesso Consiglio di Stato,
su istanza di parte, in caso di eccezionale gravità ed urgenza.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO – I RITI SPECIALI

 I riti speciali

Fino alla legge istitutiva dei Tar, lo svolgimento del processo amministrativo fu assoggettato a
una disciplina unitaria. La legge istitutiva dei Tar (art. 3) introdusse un primo rito speciale,
stabilendo che le controversie per le operazioni elettorali fossero assoggettate alla particolare
disciplina stabilita precedentemente per i giudizi avanti alle Sezioni per il contenzioso elettorale.
L’eccezione sembrava giustificata dalla circostanza che il giudizio riguardava un evento
(operazioni elettorali) la cui regolarità era essenziale per il sistema democratico. Soprattutto a
partire dagli anni 90 del 900, questo assetto subì modifiche sostanziali. L’assegnazione al giudice
amministrativo di compiti nuovi e l’affinamento delle modalità di tutela favorirono l’introduzione
di una serie di discipline speciali, che si discostarono in diversi modi dalla disciplina processuale
ordinaria. Le ragioni che determinarono la previsione di riti speciali furono varie.

In alcuni casi la specialità della disciplina processuale rifletteva il particolare rilievo riconosciuto
ad alcune procedure amministrative (es contenzioso elettorale).

In altri casi rispecchiava la peculiarità di certe situazioni sostanziali, rispetto alle quali si
avvertiva l’esigenza di una disciplina tipica anche del processo (tutela in materia d’accesso,
funzionale al diritto del cittadino di conoscere un documento che lo riguardasse, ma anche con
riflessi più generali sulla trasparenza amministrativa, ed è stato per la tutela nei confronti del
silenzio). In questi giudizi, fra l’altro, sembrava che anche il valore riconosciuto alla pretesa del
ricorrente ed il tenore della controversia giustificassero uno svolgimento più rapido.

In altri casi ancora l’introduzione di una disciplina speciale trovava ragione essenzialmente
nell’esigenza di accelerare la decisione, per la particolare importanza di ordine economico, sociale
ecc delle vertenze e per evitare che la pendenza del giudizio potesse compromettere interessi
importanti, anche solo di ordine finanziario, dell’amministrazione o della collettività.

Il codice ha perseguito in questo ambito un obiettivo di semplificazione, riducendo il numero dei


riti speciali. Il codice non si è limitato, però, a riordinare l’assetto dei singoli riti speciali, ma ha
proposto anche la disciplina di alcuni profili comuni. In particolare per la prima volta è stato
disciplinato il cumulo delle domande che siano di per sé assoggettate a riti diversi. La diffusione e
la varietà dei riti speciali rende più concreta la possibilità che in un unico giudizio vengano
proposte domande corrispondenti a riti diversi. Il codice ammette oggi la possibilità del cumulo
delle domande in un identico giudizio e stabilisce in via generale la prevalenza del rito ordinario
(art. 32, comma 1 cpa): nel caso di domande connesse, di cui alcune assoggettate al rito ordinario
ed altre assoggettate a riti speciali, l’intero giudizio deve essere trattato e definito secondo le
regole del rito ordinario. Questa regola generale risulta limitata nella sua portata: se una
domanda sia assoggettata a uno dei riti abbreviati ex artt. 119 ss cpa, l’intero giudizio deve essere
definito secondo il rito speciale.

Il codice ha dedicato ai riti speciali il libro quarto (artt. 112 ss), oltre ad alcune disposizioni
sparse nei libri precedenti. Le disposizioni sui riti speciali hanno carattere derogatorio rispetto
alla disciplina generale del processo amministrativo. Di conseguenza, per tutto quanto non
diversamente disposto, anche alle controversie assoggettate ai riti speciali si applicano le
disposizioni del libro secondo del cpa sullo svolgimento del giudizio.
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 Il giudizio in materia di accesso

L’art. 116 cpa prevede una disciplina speciale per il giudizio a tutela del diritto d’accesso ai
documenti amministrativi. La legge 241/1990 ha riconosciuto nel nostro ordinamento il diritto
all’accesso ai documenti amministrativi. Il diritto è stato riconosciuto ai cittadini che siano titolari
di un interesse qualificato, per la cui realizzazione o tutela sia utile la conoscenza di un
documento amministrativo. A garanzia di tale diritto è stata prevista un’azione speciale, devoluta
al giudice amministrativo.

Tra il 2000 e il 2005 veniva inoltre introdotta una forma di tutela alternativa a quella
giurisdizionale, per evitare sia un aggravio eccessivo di ricorsi in capo ai Tar, sia il rischio che i
costi di un ricorso giurisdizionale potessero pregiudicare la garanzia del diritto d’accesso. Il
cittadino può presentare un’istanza amministrativa indirizzata alla Commissione per
l’accesso o al difensore civico, nel rispetto delle rispettive competenze, e diretta ad ottenere il
riesame della richiesta di accetto non accolta dall’amministrazione. L’istanza non comporta una
rinuncia all’azione giurisdizionale: il ricorso al giudice amministrativo può essere proposto in
un secondo tempo, dopo la decisione della Commissione o del difensore civico.

La disciplina del processo in materia di accesso è caratterizzata da vari elementi di


semplificazione: si segue il rito camerale, il ricorrente può stare in giudizio personalmente, senza
l’assistenza di un avvocato, e anche l’amministrazione può farsi rappresentare e assistere in
giudizio da un proprio dipendente, anziché da un legale. Il ricorso al Tar deve essere proposto
entro 30 giorni dalla comunicazione del rifiuto all’accesso, ovvero dalla formazione del silenzio
dell’amministrazione. Il silenzio si forma decorsi 30 giorni dalla presentazione dell’istanza di
accesso, se l’amministrazione non abbia dato risposta. Entro il suddetto termine di 30 giorni il
ricorso deve essere notificato all’amministrazione ed ad almeno uno dei controinteressati (nel
caso ve ne siano più di uno, il giudice dovrà ordinare l’integrazione del contraddittorio). Dato
che il giudizio si svolge secondo il rito camerale, il ricorso deve essere depositato presso il Tar
competente nei 15 giorni successivi all’ultima notifica. A un termine dimezzato rispetto a quello
ordinario, e cioè a un termine di 30 giorni è assoggettata anche la presentazione dei motivi
aggiunti e del ricorso incidentale. Il Tar decide in camera di consiglio, pronunciandosi sempre
con una SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA (motivazione limitata anche soltanto a un
profilo essenziale). Se accoglie il ricorso, il Tar ordina all’amministrazione l’esibizione dei
documenti richiesti (è imposta solo una condotta materiale). Il Tar, pertanto, si pronuncia
sulla fondatezza della pretesa del ricorrente all’accesso al documento, mentre il rigetto dellistanza
di accesso o il silenzio su di essa costituiscono solo un presupposto processuale.

L’appello al Consiglio di Stato contro le sentenza in materia di accesso è soggetto a un termine di


soli 30 giorni dalla notifica della sentenza del Tar. Il giudizio d’appello si svolge con le modalità
appena descritte per il giudizio di primo grado, fermo restando il dimezzamento dei termini
processuali, previsto per i giudizi soggetti al rito camerale. Per ragioni di economia processuale,
nel caso in cui sia già in corso fra le stesse parti un giudizio cui la richiesta di accesso è
connessa, il diritto d’accesso, nel caso di diniego o di silenzio dell’amministrazione, può essere
tutelato con un’apposita istanza da proporre nel giudizio pendente. L’istanza deve essere
previamente notificata alle altre parti e dopo la notifica va depositata in giudizio. Il giudice
provvede o con una specifica ORDINANZA o nella SENTENZA che definisce l’intero processo.

Per assicurare un livello più elevato di trasparenza dell’azione amministrativa, il d.lgs. 33/2013 ha
imposto una serie di obblighi di pubblicità agli enti pubblici. In questi casi ai cittadini è
riconosciuto un diritto di accesso civico, e cioè non subordinato alla dimostrazione di particolari

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requisiti di legittimazione. Anche le controversie relative a questi obblighi sono devolute al
giudice amministrativo, in via esclusiva. Al giudizio si applicano le disposizioni sul rito speciale
appena esaminate.

 Il giudizio nei confronti del silenzio

L’art. 117 cpa disciplina il giudizio nei confronti del silenzio (o silenzio-rifiuto)
dell’amministrazione. Il termine per il ricorso è pari a un anno. In particolare si è già visto come,
nel caso di accoglimento del ricorso, il giudice ordini all’amministrazione di provvedere. Inoltre,
se sia accertata la fondatezza della pretesa del ricorrente a un provvedimento favorevole, il
giudice, su domanda del ricorrente, può ordinare all’amministrazione di provvedere in un modo
determinato, e cioè può anche imporre all’amministrazione di adottare quel certo provvedimento.
Nel giudizio sul silenzio è ammessa in via generale una sentenza che ingiunge
all’amministrazione di provvedere comunque in quella certa situazione, ma senza nulla
disporre sull’esito finale del procedimento amministrativo. Se vi è stata una domanda
specifica del ricorrente e se ne sussistono le condizioni, è ammessa però anche una sentenza
più incisiva, che definisce le modalità concrete secondo cui l’amministrazione deve rinnovare
il procedimento e che stabilisce quale debba esserne l’esito. La sentenza che ordini
all’amministrazione di provvedere in un certo modo può incidere anche sulla situazione giuridica
di soggetti terzi. In questi casi si possono configurare soggetti controinteressati rispetto al
ricorso sul silenzio. Per l’azione di annullamento, il ricorso deve essere notificato anche ai
controinteressati, che vanno identificati sulla base degli effetti prodotti dall’atto impugnato. La
garanzia del contraddittorio e della difesa in giudizio comporta la necessità di notificare il
ricorso al soggetto nei cui confronti, nel caso di accoglimento del ricorso, la sentenza
determinerebbe effetti sfavorevoli.

In conclusione, il ricorso nei confronti del silenzio deve essere notificato, a pena di
inammissibilità, entro il termine annuale di decadenza, oltre che all’amministrazione rimasta
inerte, anche ad almeno uno degli eventuali controinteressati.

Anche il giudizio sul silenzio si svolge secondo le forme del rito camerale ed il giudice si
pronuncia sempre con SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA. Se accoglie il ricorso, il
giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine congruo, di regola non
superiore a 30 giorni, e può nominare già nella sentenza un commissario che si sostituisca
all’amministrazione se essa continui a rimanere inerte (in alternativa il commissario è nominato
dal giudice in un secondo tempo, su richiesta della parte interessata).

È stata posta in evidenza la differenza rispetto al modello riscontrabile nel giudizio di


ottemperanza: qui la nomina del d’immissione è una mera facoltà, mentre, nel giudizio del
silenzio la sua nomina è una soluzione OBBLIGATA.

Inoltre, nel giudizio di ottemperanza il ruolo del commissario sembra rispecchiare la distinzione
formale giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza. Invece, il codice sembra superare, nel
giudizio del silenzio, la distinzione formale fra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza:
invece di due giudizi distinti, è identificabile un unico giudizio sul silenzio, articolato in due fasi
distinte. Il commissario realizzerebbe quindi l’obiettivo di sostituire un organo rimasto inerte:
sarebbe in questo caso un organo straordinario dell’amministrazione. In realtà il commissario è in
entrambi i casi una figura di natura giuridica e la sua nomina trova ragione nell’esecuzione di una
sentenza e nel dover quindi eseguire tale sentenza in caso di amministrazione inadempiente.

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È assegnata al giudice che ha accolto il ricordo ed ha ordinato all’amministrazione di provvedere
anche la competenza ad affrontare tutte le questioni relative all’adozione del provvedimento
prescritto, ivi comprese quelle concernenti gli atti adottati dal commissario.

Il rito speciale sul silenzio fu introdotto dalla legge 205/2000. Nella vigenza di tale legge rimase
controversa la disciplina della connessione del ricorso sul silenzio con altre azioni. In
particolare si verifica tuttora con frequenza che l’amministrazione resistente, dopo la
presentazione del ricorso sul silenzio, comunichi un provvedimento formale di rigetto dell’istanza
del cittadino. Il codice, per apprezzabili ragioni di economia processuale, ha ammesso che in
questi stessi casi il ricorrente possa scegliere se:

- Impugnare l’atto sopravvenuto con un ricorso autonomo

- Impugnare l’atto sopravvenuto con motivi aggiunti nel medesimo giudizio già in corso sul
silenzio

Se il ricorrente si orienta nel secondo modo, l’intero giudizio prosegue con il RITO
ORDINARIO. Se il silenzio comporti per il cittadino anche un danno patrimoniale, il codice
ammette che la domanda risarcitoria possa essere proposta nello stesso ricorso sul silenzio. In
base al principio di prevalenza del rito ordinario, il giudice può pronunciarsi secondo le regole
del rito ordinario sia sulla domanda concernente il silenzio che su quella concernente il
risarcimento dei danni. In alternativa, però, è consentito al giudice di decidere le sue domande in
modo distinto, seguendo i rispettivi riti (camerale per il silenzio, ordinario per il risarcimento).

Il d.l. 69/2013, conv in legge 98/2013, nell’introdurre un indennizzo da ritardo nella conclusione
del procedimento, ha previsto che col ricorso nei confronti del silenzio dell’amministrazione può
proporsi anche la domanda per tale indennizzo. In questo caso entrambe le domande sono
trattate con il rito camerale e la decisione è assunta comunque con SENTENZA IN FORMA
SEMPLIFICATA.

 Il decreto ingiuntivo

Il cpc, all’artt. 633 ss., disciplina il procedimento d’ingiunzione. Chi è creditore di una somma
liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o ha diritto alla consegna di
una cosa mobile determinata, può, in alternativa, rispetto al giudizio ordinario di cognizione,
avvalersi di questo procedimento monitorio. Se fornisce una prova scritta del suo credito, può
ricorrere al giudice, chiedendo che sia ingiunto all’obbligato di provvedere al pagamento della
somma e alla consegna delle cose. Il giudice, sulla base di una cognizione sommaria, provvede
senza necessità di contraddittorio, con semplice DECRETO. La parte cui è stato notificato il
decreto ingiuntivo può proporre opposizione entro un termine perentorio: se non è proposta
opposizione il decreto acquista l’efficacia del giudicato; nel caos di opposizione, si apre invece un
normale giudizio di cognizione sulla pretesa del creditore. L’estensione della giurisdizione
esclusiva negli ultimi anni del 900 ha comportato l’esigenza di ammettere pronunce di questo
genere anche nel processo amministrativo: le ingiunzioni infatti sono importanti sono importanti
per la tutela dei diritti patrimoniali, perché consentono al creditore di acquisire un titolo
esecutivo in modo più semplice e più celere che attraverso un giudizio ordinario. La lacuna fu
colmata dalla legge 205/2000 che introdusse una disciplina specifica per le ingiunzioni nel
processo amministrativo, a garanzia dei diritti soggetti a natura patrimoniale, nelle vertenze
devolute alla giurisdizione esclusiva. Il codice all’art. 118 ha confermato l’istituto del decreto
ingiuntivo, ammettendo nel processo amministrativo nei casi previsti dall’art. 633 ss cpc. Pertanto
il decreto ingiuntivo può essere richiesto da chi (soggetto privato o amministrazione) sia
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creditore di una somma liquida di denaro, o di una determinata quantità di cose fungibili, o da
chi abbia diritto alla consegna di cose mobili determinate, e che fornisca del suo diritto un’idonea
prova scritta. Il ricorso va depositato presso il Tar competente e su di esso si pronuncia con
DECRETO, apposto in calce al ricorso, il Presidente del Tar, o un magistrato da lui delegato.
Una volta emesso, il decreto, unitamente al ricorso, deve essere notificato dalla parte al debitore.
Nei confronti del decreto, è ammessa opposizione, da proporsi con ricorso al medesimo Tar, da
notificare alla controparte nel termine di 40gg decorrenti dalla notifica del decreto stesso.

 Il rito abbreviato

L’art. 119 cpa disciplina una serie cospicua di ricorsi, che investono atti di particolare importanza
amministrativa, o economica e sociale. L’elemento comune a queste controversie è
l’accelerazione dei tempi del processo e della decisione: per questa ragione il codice ha coniato
il termine di rito abbreviato. Il rito abbreviato previsto dall’art. 119 riguarda, innanzitutto, i
ricorsi proposti contro provvedimenti in tema di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture
(ivi compreso l’affidamento dei relativi incarichi di progettazione e i provvedimenti connessi
dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici). Ai relativi giudizi si applica però anche una
disciplina in parte derogatoria e in parte del tutto particolare.

L’art. 119 cpa concerne inoltre:

1) I ricorsi al giudice amministrativo contro gli atti delle autorità amministrative (esclusi soltanto
gli atti relativi al rapporto d’impiego con i dipendenti)

2) I ricorsi contro gli atti di alcune Agenzie nazionali

3) I ricorsi concernenti provvedimenti di privatizzazione o dismissione di imprese o beni pubblici


e di costituzione, soppressione o modificazione di società, aziende o istituzioni degli enti locali

4) I ricorsi concernenti le nomine adottate previa delibera del Consiglio dei ministri

5) I ricorsi concernenti lo scioglimento di enti locali e quelli connessi concernenti la formazione o


il funzionamento degli organi

6) I ricorsi concernenti procedure espropriative o di occupazione d’urgenza

7) I ricorsi contro i provvedimenti del Coni e delle federazioni sportive

8) I ricorsi contro le ordinanze adottate nelle situazioni di urgenza dichiarate in base alla legge
sulla protezione civile e contro i conseguenti provvedimenti dei Commissari

9) I ricorsi contro determinati ordini di provvedimenti concernenti gli impianti e le infrastrutture


maggiori in materia di energia elettrica e le infrastrutture più importanti in materia di gas

10) I ricorsi contro determinati provvedimenti in materia di misure di protezione nei confronti
dei collaboratori o testimoni di giustizia

11) I ricorsi contro le discriminazioni di genere in ambito lavorativo, quando i giudizi siano
devoluti alla giurisdizione amministrativa

12) I ricorsi dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato contro gli atti amministrativi
che determinino distorsioni della concorrenza

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13) I ricorsi contro l’assegnazione a magistrati ordinari di incarichi direttivi o semidirettivi negli
uffici giudiziari

In molti di questi casi il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva. In tutti questi casi la
competenza territoriale del Tar ha carattere funzionale. Si tenga presente che per i ricorsi contro
gli atti dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas è competente il Tar Lombardia. L’obiettivo di
accelerare il giudizio è perseguito innanzitutto con la riduzione a META’ di tutti i termini
processuali, ad eccezione di quelli stabiliti per la notifica di:

- Ricorso principale

- Ricorso incidentale

- Motivi aggiunti

Anche i termini per l’appello cautelare non sono soggetti a dimezzamento.

L’obiettivo di celerità è perseguito inoltre nella fase cautelare del giudizio. Nelle controversie in
esame, se sia stata richiesta una misura cautelare, il Tar, nella camera di consiglio fissata per
l’esame dell’istanza (dopo aver verificato la completezza del contraddittorio o dopo aver disposto
l’integrazione dello stesso), se ritiene a un primo esame che il ricorso possa essere accolto e che vi
sia il rischio di un danno grave e irreparabile, dispone con ORDINANZA che la discussione del
ricorso nel merito si tenga nella prima udienza successiva alla scadenza del termine di 30 giorni
dal deposito dell’ordinanza stessa. Se siano necessari adempimenti istruttori, il collegio provvede
nella medesima ordinanza. La fissazione dell’udienza deve essere disposta anche quando il
Consiglio di Stato accolga l’appello contro il rigetto dell’istanza cautelare da parte del Tar. È
previsto che in caso di estrema gravità ed urgenza il collegio possa disporre subito le misure
cautelari opportune. Anche nei giudizi in esame rimane ferma la possibilità per il collegio di
definire il giudizio nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, e cioè con
SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA.

Il dispositivo della sentenza è pubblicato entro 7 giorni dopo che il collegio abbia maturato la
decisione del ricorso (normalmente, prima che sia stata redatta la motivazione), purché almeno
una parte ne abbia fatto richiesta nel corso dell’udienza. In questo caso il collegio potrà
provvedere in un primo tempo al deposito del solo dispositivo e in un secondo tempo al deposito
della motivazione.

In particolare, nel caso di dispositivo di una sentenza che accolga un’azione di annullamento,
cessano dalla sua pubblicazione tutti gli effetti del provvedimento impugnato.

È consentito alla parte interessata di proporre l’appello al Consiglio di Stato direttamente nei
confronti del dispositivo della sentenza, entro 30 giorni dalla sua pubblicazione, al fine di
ottenere la sospensione. In questo caso la parte ha l’onere di notificare in un secondo tempo i
motivi d’appello, una volta conosciuta la motivazione della sentenza. La parte può scegliere di
attendere per l’appello di conoscere la motivazione della sentenza (e anche in questo caso potrà
senz’altro richiedere la sospensione dell’esecutività della sentenza). La disciplina stabilita per il
giudizio di primo grado si applica anche nel giudizio avanti al Consiglio di Stato. È da ritenere
che anche nel giudizio d’appello siano dimezzati tutti i termini processuali, ivi compresi quelli per
la notifica dell’appello principale e dell’eventuale appello incidentale.

 Il giudizio sulle procedure contrattuali

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Per effetto del codice la disciplina del rito abbreviato si estende anche alle controversie
concernenti gli atti delle procedure di affidamento di:

- Contratti di concessione

- Contratti di appalti di lavori, servizi e forniture

Si tratta di contratti che l’amministrazione stipula per la realizzazione di lavori pubblici, o per
l’acquisizione di beni o servizi, e sono preceduti di regola da un’apposita procedura
amministrativa di aggiudicazione. Tali contratti sono regolati oggi dal d.lgs. 50/2016 (cd nuovo
codice dei contratti pubblici). Le controversie in esame, oltre che alle disposizioni sul rito
abbreviato, sono assoggettate anche a disposizioni del tutto particolari (artt. 120 ss.),
riconducibili in ampia misura alla direttiva comunitaria 2007/66/CE dell’11 settembre 2007. La
direttiva aveva perseguito l’obiettivo di rendere più efficace la tutela giurisdizione delle imprese
nelle vertenze in materia di appalti pubblici, introducendo e potenziando una serie di istituti di
garanzia. La sua disciplina era dettata solo per i contratti pubblici di valore più elevato (cd
appalti sopra-soglia), ma, nella recezione nel nostro Paese, intervenuta inizialmente con il d.lgs.
53/2010, venne estesa anche ai contratti di valore minore. Pochi mesi dopo il d.lgs. 53/2010
entrava in vigore il cpa, che cercò di amalgamare meglio la disciplina processuale di questi
giudizi con quella generale.

La disciplina processuale in esame si estende inoltre anche alle controversie concernenti le


procedure per l’affidamento degli stessi contratti da parte di soggetti privati che però, in forza di
una disposizione nazionale o comunitaria, siano tenuti ad applicare per le loro attività
contrattuali le procedure stabilite per l’amministrazione. La disciplina si ricava, oltre che dal cpa
(artt. 120 ss.), da alcune disposizione del codice dei contratti pubblici. Gli elementi più
significativi sono i seguenti:

Termine dilatorio della stipula del contratto. Di regola, una volta intervenuto
l’aggiudicazione a favore di un concorrente, l’amministrazione non può procedere alla stipula del
relativo contratto, se non sia decorso un termine dilatorio di 35 giorni dalla comunicazione
dell’aggiudicazione definitiva agli altri concorrenti (cd stand still). Questo termine dilatorio è
stato previsto proprio per consentire alle parti interessate di proporre ricorso prima che il
contratto sia stato stipulato e che sia dato inizio alla prestazione contrattuale.

No ricorso straordinario. Le controversie in esame possono essere oggetto soltanto di


ricorso al giudice amministrativo: non è ammesso il ricorso straordinario. L’esclusione del ricorso
straordinario si spiega non solo con la specialità della disciplina processuale, ma anche con la
peculiarità dei poteri attribuiti al giudice amministrativo in questi giudizi.

Notifica. Il ricorso per l’annullamento di atti della procedura contrattuale va notificato entro un
termine di 30 giorni (no 60 giorni come è in generale). Il termine di regola decorre per
l’impugnazione di:

- Bando o avvisi di gara: dalla loro pubblicazione

- Esclusione o ammissione dalla procedura di gara: dalla pubblicazione sul sito internet dell’ente
committente

- Aggiudicazione (atto conclusivo): dalla comunicazione effettuata dall’amministrazione si


concorrenti

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In mancanza di queste forme di pubblicità o di comunicazione, il termine decorre dalla piena
conoscenza dell’atto. Se però l’omissione della pubblicità abbia carattere più grave, il ricorso non
può essere più proposto una volta trascorsi 6 mesi dalla data di sottoscrizione del contratto. Una
volta scaduto il termine di 6 mesi dalla stipulazione del contratto è preclusa comunque ogni
ulteriore impugnativa e la tutela può essere solo di ordine risarcitorio.

Effetto sospensivo. La notifica del ricorso che sia stato proposto contro l’aggiudicazione di
un contratto pubblico e che contenga l’istanza cautelare ha un effetto sospensivo. Di regola,
l’amministrazione per 20 gg dalla notifica non può stipulare il contratto. L’effetto sospensivo
dovrebbe saldarsi, in genere, con il termine dilatorio decorrente dalla comunicazione ai
concorrenti dell’esito dell’aggiudicazione, così da consentire al ricorrente di ottenere una
pronuncia sulla sua istanza cautelare prima che il contratto stia stato stipulato e soprattutto
prima che le prestazioni contrattuali abbiano potuto avere esecuzione. Il ricorso con istanza
cautelare che sia stato proposto contro un’amministrazione statale è soggetto a una duplice
notifica: oltre all’Avvocatura dello Stato, il ricorso va notificato anche direttamente all’organo
dell’amministrazione statale che ha proceduto all’aggiudicazione, presso la sua sede propria. In
mancanza di tale seconda notifica, il ricorso è validamente proposto, ma l’effetto sospensivo non
si produce.

Motivi aggiunti. Eventuali nuovi atti attinenti alla medesima procedura di gara vanno
impugnati con i motivi aggiunti, art. 120, comma 7 cpa: in questo caso la norma configura un vero
e proprio onere di impugnazione con motivi aggiunti, anziché con ricorso separato, anche se pare
irragionevole che l’impugnazione con ricorso separato possa essere dichiarata, solo per questa
ragione, inammissibile e si deve ritenere che la riunione dei ricorsi sia comunque consentita, con
effetti sananti. I motivi aggiunti vanno proposti nel termine di 30 giorni, ossia nello stesso
termine ridotto previsto anche per il ricorso principale. Un termine di 30 giorni dalla notifica del
ricorso principale vale anche per il ricorso incidentale.

Atti delle parti. Gli atti delle parti devono essere redatti in modo sintetico. I limiti alla
lunghezza degli atti sono stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato e il giudice è
tenuto ad esaminare soltanto le questioni trattate nel rispetto di tali limiti.

Istanza cautelare. Se sia stata proposta istanza cautelare, il giudizio può essere definito nella
fase cautelare. Il giudice, anche se dispone adempimenti istruttori, o concede termini per
l’integrazione del contraddittorio o altro, provvede sempre interinalmente sull’istanza cautelare.
La misura cautelare può essere subordinata alla prestazione di una cauzione.

Udienza di discussione. L’udienza di discussione è comunque fissata anche d’ufficio, senza


necessita d’istanza della parte, entro 45 gg dalla scadenza del termine per la costituzione
dell’amministrazione e dei controinteressati.

Dispositivo. Entro 30 giorni dall’udienza di discussione deve essere depositata la sentenza.


Ciascuna parte può però chiedere che sia pubblicato anticipatamente il 150 dispositivo, che in tal
caso va pubblicato entro 2 giorni dall’udienza. Nei confronti del dispositivo la parte può proporre
appello per ottenere una misura cautelare.

Sentenza. La SENTENZA è redatta IN FORMA SEMPLIFICATA. Il nuovo codice dei


contratti pubblici ha sancito l’immediata impugnabilità degli atti di ammissione dei concorrenti
alla procedura di affidamento (oltre che di quelli di esclusione), adottati in seguito alla verifica
dei requisiti soggettivi, economicofinanziari e tecnico-professionali prescritti per la gara. L’onere
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di impugnare direttamente gli atti di ammissione e di esclusione comporta ovviamente anche
l’onere di impugnare con tale ricorso anche gli atti precedenti della procedura di gara, quando
possano aver determinato l’ammissione o l’esclusione. I provvedimenti di esclusione o di
ammissione alla procedura di affidamento vanno impugnati entro 30 giorni dalla pubblicazione
dell’atto sul sito internet dell’ente committente; se non siano stati tempestivamente impugnati, le
questioni relative a tali provvedimenti non possono più essere sollevate (di conseguenza non
possono essere sollevate, con ricorso incidentale, nei giudizi concernenti i provvedimenti di
affidamento).

L’appello va proposto entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza (o dalla
notificazione della sentenza, se intervenuta in data anteriore). In passato un profilo critico della
tutela del ricorrente contro l’aggiudicazione illegittima di un contratto pubblico era rappresentato
dalla tesi secondo cui il contratto eventualmente sottoscritto dall’amministrazione nelle more del
giudizio non sarebbe stato travolto automaticamente dall’annullamento dell’aggiudicazione. La
giurisprudenza civile ammetteva in questi casi solo una possibilità di annullamento del contratto,
subordinata fra l’altro a un’iniziativa dell’amministrazione, e perciò nei fatti del tutto improbabile.
Prima il d.lgs. 53/2010 e poi il cpa hanno assegnato al giudice amministrativo che annulli
l’aggiudicazione anche il potere di dichiarare l’inefficacia del contratto. Il legislatore riconosce
pertanto che l’annullamento dell’aggiudicazione travolga il contratto, rendendolo inefficace.
La giurisdizione esclusiva, in questo particolare caso, si estende oltre che alle questioni
inerenti agli atti della procedura amministrativa, anche sulle conseguenza del loro
annullamento rispetto all’efficacia del contratto.

L’inefficacia del contratto non viene però dichiarata in modo indiscriminato, per il solo fatto che
sia stata annullata l’aggiudicazione. In alcuni casi il giudice è sempre tenuta a dichiararla (fatta
salva la possibilità per il giudice di limitare gli effetti della dichiarazione di inefficacia alle
prestazioni non ancora eseguite); in altri casi è precluso al giudice dichiararla (e di conseguenza il
contratto già stipulato continua a produrre tutti i suoi effetti fra le parti); in altri casi ancora è
rimesso al suo prudente apprezzamento se dichiararla o meno, in relazione al caso concreto e
sulla base di criteri stabiliti dalla legge e stabilendo se l’inefficacia travolga solo le prestazioni
ancora da eseguire o se operi invece anche in via retroattiva.

In tutti i casi in cui il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto, il rapporto contrattuale
prosegue fra le parti, senza che il ricorrente possa pretendere una rinnovazione della
procedura di aggiudicazione. Il pregiudizio subito dal ricorrente può essere oggetto solo di
risarcimento per equivalente.

La disciplina della dichiarazione di inefficacia del contratto accolta dal d.lgs. 53/2010 e
successivamente nel codice esprime la convinzione che tra il contratto pubblico e la procedura
amministrativa che lo deve precedere sussista un legame stretto, tale che l’annullamento
dell’aggiudicazione travolga, in via di principio, anche il contratto. La dichiarazione di inefficacia
del contratto, nella sentenza di accoglimento del ricorso, è dunque considerata come
l’enunciazione di una conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione. Non è ancora chiaro se
la dichiarazione dell’inefficacia del contratto sia subordinata a una domanda del ricorrente (come
appare coerente con il principio della domanda) o se possa intervenire d’ufficio (come è stato
sostenuto soprattutto per i casi in cui la legge non demanda all’apprezzamento del giudice la
dichiarazione di inefficacia). Il ricorrente, in ogni caso, può chiedere, oltre all’annullamento
dell’aggiudicazione illegittima, di conseguire l’aggiudicazione e il contratto. L’accoglimento di
tale domanda presuppone che il giudice dichiari l’inefficacia del contratto: se viene accolto il
ricorso contro l’aggiudicazione, ma non viene dichiarata l’inefficacia del contratto, il ricorrente ha
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diritto solo a un risarcimento per equivalente. Se però il ricorrente senza giustificato motivo, non
chiede di conseguire l’aggiudicazione e il contratto, o non si rende disponibile a subentrare nel
contratto che sia già in corso di esecuzione, in giudice ne tiene conto, ai fini della liquidazione del
risarcimento, perché la parte, attraverso il conseguimento dell’aggiudicazione e del contratto o il
subentro nel contratto, avrebbe potuto attenuare il danno subito. L’art 122 cpa precisa, ai fini
della decisione del giudice sulla declaratoria di inefficacia del contratto, che il giudice deve
considerare l’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi
riscontrati. Il giudice deve stabilire se, alla stregua di tali vizi, l’aggiudicazione avrebbe
potuto o dovuto intervenire a favore del ricorrente. La circostanza che la sentenza di
annullamento possa determinare la formazione di un vincolo contrattuale con il ricorrente induce
a ritenere che tale risultato si produca non semplicemente in forza di effetti propri della sentenza
di annullamento, ma anche in presenza di una domanda del ricorrente stesso.

Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto, o dichiara l’inefficacia in termini


temporalmente limitati (ossia, solo rispetto alle prestazioni ancora da eseguire), o accerta
l’inosservanza del termine dilatorio che deve intercorrere fra l’aggiudicazione e la stipula del
contratto o la violazione della sospensione derivante dalla notifica del ricorso, adotta un
provvedimento sanzionatorio nei confronti dell’amministrazione. Si tratta di una sanzione
pecuniaria di ammontare proporzionale al valore del contratto o, anche in via cumulativa,
della riduzione della durata residua del contratto. Si tratta di sanzioni dirette a reprimere o a
punire procedure scorrette di affidamento del contratto che siano state oggetto di un ricorso. Il
giudice è tenuto ad applicare queste sanzioni processuali d’ufficio, anche in assenza di una
domanda del ricorrente e non è prevista una parte pubblica che le richieda (sentenza senza
azione). Si tenga presente che l’applicazione della sanzione presuppone una ponderazione del
caso concreto, e la ponderazione risulta ancora più significativa per il fatto che la legge non
prevede una sanzione in misura fissa, ma si limita a stabilire un minimo e un massimo edittale.
L’art. 134, comma 1 cpa prevede oggi che la giurisdizione amministrativa in questo ambito
sanzionatorio sia estesa al merito.

La disciplina del giudizio sugli atti delle procedure contrattuali dell’amministrazione si estende,
in base al codice, anche ai giudizi concernenti le procedure di progettazione, approvazione e
realizzazione delle infrastrutture pubbliche ed insediamenti produttivi individuati oggi
dall’art. 200 del d.lgs. 50/2016, nonché ai giudizi concernenti le relative attività di
espropriazione, occupazione e asservimento. Per queste controversie è previsto che
l’annullamento dell’aggiudicazione determini l’inefficacia del contratto SOLO nei casi stabili
dalla legge: la dichiarazione di inefficacia non è mai rimessa a valutazioni puntuali del giudice. Il
ricorrente ha titolo al risarcimento dei danni per equivalente. Per i giudizi in esame il codice
richiede una valutazione più rigorosa dei presupposti per una misura cautelare. Nella pronuncia
sull’istanza cautelare il giudice amministrativo deve dare rilievo anche al preminente interesse
nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera e deve operare un bilanciamento fra:

- L’irreparabilità del pregiudizio allegata dal ricorrente

- L’interesse del soggetto aggiudicatore (che nel giudizio è controinteressato) a una sollecita
prosecuzione delle procedure amministrative

Rimane sempre ferma la possibilità per il giudice, ove non riscontri ragioni di estrema urgenza, di
fissare l’udienza di discussione, nei termini già richiamati per il rito abbreviato. La disciplina
prevista per i giudizi concernenti le grandi infrastrutture in esame è stata estesa anche ad altri
casi:

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- Procedure di affidamento di contratti pubblici in caso di fallimento dell’esecutore o di
risoluzione del contratto per grave inadempimento dell’esecutore

- Giudizi concernenti la progettazione, l’approvazione e la realizzazione degli interventi previsti


nel contratto istituzionale di sviluppo

- Giudizi concernenti l’Expo di Milano 2015

 Il contenzioso elettorale

Il contenzioso elettorale preso in considerazione nel cpa concerne lo svolgimento delle operazioni
elettorali:

a. Per le elezioni amministrative (ossia per il rinnovo degli organi elettivi dei Comuni e delle
Province)

b. Per le elezioni regionali

c. Per le elezioni dei rappresentanti italiani in Parlamento europeo Per tali elezioni il giudice
ordinario è invece competente per le questioni inerenti al diritto di elettorato attivo e passivo.

Per le elezioni politiche, invece, le vertenze inerenti allo svolgimento delle operazioni elettorali
sono riservate ancora oggi alla Camera della cui elezione si tratta. Novità importanti erano state
prospettate dalla delega al Governo per il riassetto del processo amministrativo, che aveva
previsto l’introduzione di un rito particolare, avanti al giudice amministrativo, per le controversie
concernenti atti per il procedimento elettorale preparatorio per le elezioni politiche.

Il cpa, però, non ha dato attuazione a questo oggetto della delega. Il codice ha delineato due
ordini diversi di contenzioso elettorale di competenza del giudice amministrativo:

(1) Il contenzioso relativo ad atti del procedimento preparatorio per le elezioni


amministrative e regionali. Il codice ha introdotto un rito speciale contro gli atti di esclusione di
liste o candidati dalle elezioni amministrative (comunali e provinciali) e regionali, nonché per il
Parlamento europeo. In questo caso il ricorso è proposto al Tar competente dai delegati che
rappresentano la lista esclusa o dai singoli candidati esclusi, entro un termine molto breve (3gg
dalla pubblicazione o dalla comunicazione dell’atto impugnato). Il ricorso è ammesso soltanto
nei confronti dell’atto di esclusione della lista o dei candidati: invece contro gli atti di
ammissione di liste o contro qualsiasi altro atti preparatorio del procedimento elettorale, il ricorso
può essere proposto solo dopo la conclusione del procedimento, impugnando anche l’atto di
proclamazione degli eletti. Il ricorso contro l’esclusione è soggetto a modalità di notifica
particolari e, una volta depositato, entro termini molte stretti, è discusso in pubblica udienza. Il
collegio decide all’esito dell’udienza, con SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA.
Trattandosi di un caso di giurisdizione di merito, se il ricorso viene accolto, il Tar può disporre
direttamente l’ammissione della lista o dei candidati alle operazioni elettorali. L’appello è soggetto
a un rito analogo a quello del giudizio di primo grado.

(2) Il contenzioso relativo alle operazioni elettorali. Il giudizio relativo alle operazioni elettorali
(art. 130 cpa) concerne qualsiasi altro atto del procedimento, successivo all’indizione dei comizi
elettorali. Può essere promosso solo dopo la conclusione del procedimento elettorale ed oggetto
di impugnazione deve essere anche l’atto di proclamazione degli eletti. Legittimato a ricorrere,
oltre che il candidato interessato, è qualsiasi elettore dell’ente interessato dalle elezioni. Si tratta
infatti di un’azione popolare. Per agevolare la tutela giurisdizionale, è consentito al ricorrente
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stare in giudizio personalmente. Il giudizio è introdotto con un ricorso che va depositato al Tar
competenze entro 30 giorni dalla proclamazione degli eletti.

Per i giudizi relativi alle elezioni amministrative e regionali, la competenza spetta al Tar nella cui
circoscrizione ha sede l’ente delle cui elezioni si tratta; per i giudizi relativi alle elezioni al
Parlamento europeo, la competenza è attribuita in via funzionale al Tar Lazio. Subito dopo il
deposito del ricorso, il Presidente del Tar fissa d’ufficio l’udienza di discussione; solo a questo
punto il ricorso, con il decreto di fissazione dell’udienza, va notificato all’ente della cui elezione si
discute e ad almeno uno dei controinteressati. Il ricorso può riguardare qualsiasi vizio del
procedimento elettorale che possa aver determinato un’alterazione nella individuazione degli
eletti. Il Tar, se accoglie il ricorso, può disporre la rettifica dei risultati elettorali, anche con la
sostituzione degli eletti. La sentenza è soggetta a particolari forme di pubblicità ed a
comunicazione d’ufficio alle parti. Nei suoi confronti l’appello al Consiglio di Stato va proposto
in un termine breve, di soli 20 giorni (che decorrono per le parti dalla notifica o comunicazione
della sentenza, e per i terzi dalla pubblicazione sull’albo pretorio dell’ente interessato).

In caso di appello l’udienza di discussione è fissata d’urgenza. Il giudizio di secondo grado si


svolge secondo le regole del rito ordinario. Per il giudizio relativo alle operazioni elettorali (primo
e secondo grado) tutti i termini processuali per i quali non sia disposto diversamente sono ridotti
a metà.

In entrambi i casi il giudice amministrativo esercita i poteri previsti per la giurisdizione di merito
e può perciò adottare atti in sostituzione di quelli dell’amministrazione dichiarati illegittimi, per
esempio correggendo errori dei risultati elettorali. È esclusa invece l’esperibilità del ricorso
straordinario.

La distinzione fra i due ordini di contenzioso è dovuta al fatto che tradizionalmente il contenzioso
elettorale davanti al giudice amministrativo era ammesso solo nei confronti dell’atto di
proclamazione degli eletti, perché era l’atto conclusivo del procedimento elettorale. Di
conseguenza sembrava che anche eventuali contestazioni contro l’esclusione di un candidato o di
una lista dalla competizione elettorale potessero essere promosse solo dopo la conclusione del
procedimento, impugnando l’atto lesivo unitamente alla proclamazione degli eletti.

 Il giudizio per l’efficienza dell’amministrazione

Il d.lgs. 198/2009 ha introdotto un rito speciale per i ricorsi per l’efficienza delle amministrazioni e
dei concessionari dei servizi pubblici. Le finalità di tale giudizio sono rappresentate dall’obiettivo
di assicurare un corretto svolgimento di una funzione amministrativa, nel caso di mancata
emanazione di atti generali, o una corretta erogazione di un servizio, nel caso di inosservanza di
obblighi o standard stabiliti per quel servizio. I soggetti legittimati sono i titolari di interessi
giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori (anche
associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati). Il processo in materia è
assoggettato a una disciplina particolare, per l’esigenza di assicurare la possibilità di intervenire
in giudizio sia per i soggetti che si trovano nella medesima situazione giuridica del ricorrente, sia
per il dirigente responsabile dell’ufficio coinvolto (il dirigente ha interesse a intervenire, perché la
sentenza di accoglimento potrebbe comportare l’avvio di azione di responsabilità o una
valutazione negativa nei suoi confronti). Pertanto è previsto che il ricorso sia sottoposto a forme
specifiche di pubblicità (di esso deve essere data notizia sul sito istituzionale Internet
dell’amministrazione o del concessionario) e a scadenze particolari (l’udienza di discussione deve
tenersi in una data compresa fra il 90 e il 120 giorno dal ricorso del deposito). Si tenga presente
che l’intervento di quanti si trovino nella medesima situazione giuridica del ricorrente ha
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carattere di intervento autonomo. I ricorsi in questa materia sono devoluti alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.

Le norme sulla competenza territoriale dei Tar sono inderogabili e la loro violazione è rilevabile
d’ufficio. Il giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, ordina all’amministrazione di porre
rimedio all’inefficienza accertata, entro un termine congruo.

CAPITOLO QUINDICESIMO – IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO


E L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA

 Il giudicato amministrativo

Il passaggio in giudicato (cd giudicato formale) di una sentenza del giudice amministrativo si ha
quanto nei suoi confronti non è più ammessa un’impugnazione ordinaria. Nei confronti della
sentenza del giudice amministrativo passata in giudicato sono proponibili solo il ricorso per
revocazione nei casi previsti dall’art. 395 n. 1, 2, 3, 6 cpc e l’opposizione di terzo. Per valutare
quali effetti comporti il passaggio in giudicato della sentenza del giudice amministrativo si suole
distinguere tra:

- GIUDICATO SOLO INTERNO. La sentenza comporta un vincolo (nel senso che la


questione decisa con forza di giudicato non può più essere posta in discussione) solamente
rispetto alle ulteriori fasi di quel giudizio. Le sentenze di rito comportano tipicamente solo vincoli
interni.

- GIUDICATO ANCHE ESTERNO. La sentenza comporta un vincolo anche rispetto a giudizi


diversi, che possano instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la medesima
questione.

Le sentenze di merito si caratterizzano per la loro idoneità a comportare vincoli esterni. Le


sentenze di merito si pronunciano sulla situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio. Col
passaggio in giudicato, le loro statuizioni acquistano pertanto valore di giudicato sostanziale.
L’identificazione delle statuizioni che acquistano questo valore ripropone problematiche comuni
al processo civile: si tratta del tema dei LIMITI OGGETTIVI del giudicato.

Ha suscitato dubbi, in questo contesto, la collocazione di alcuni tipi di sentenze. In particolare,


con riguardo all’azione di annullamento, la discussione ha riguardato:

- Le sentenze sulle condizioni generali dell’azione. La sentenza che dichiarasse inammissibile


un ricorso per mancanza di legittimazione a ricorrere non avrebbe per oggetto solo un fatto
processuale, ma riguarderebbe l’insussistenza della situazione sostanziale dedotta nel giudizio.

- Le sentenze che dichiarano la cessazione della materia del contendere. Analoghe


considerazioni varrebbero per la cessazione della materia del contendere, che viene dichiarata dal
giudice amministrativo se nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente
soddisfatta. Nel caso di un’azione di annullamento, questa situazione si verifica quando
l’amministrazione, nel corso del giudizio, abbia annullato o riformato l’atto impugnato in senso
conforme alla pretesa del ricorrente. Anche in questo caso si sostiene che l’accertamento
compiuto dal giudice non riguarderebbe un mero fatto processuale, ma si estenderebbe a profili
di ordine diverso, rappresentati dall’idoneità del nuovo provvedimento a soddisfare l’interesse
sostanziale del ricorrente. È stato sostenuto che, dopo una sentenza che abbia dichiarato la
cessazione della materia del contendere in considerazione degli effetti di un provvedimento
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sopravvenuto, l’amministrazione non potrebbe adottare propri atti sul presupposto che il
provvedimento sopravvenuto nei confronti del ricorrente non produca gli effetti che invece il
giudice nella sentenza ha accertato sussistenti.

Per quanto riguarda, invece, i cd LIMITI SOGGETTIVI del giudicato, una parte della
giurisprudenza amministrativa ritiene che il giudicato amministrativo di regola valga solo fra le
parti, i loro successori e aventi causa, ma che nel caso di annullamento dell’atto impugnato, se si
tratta di atto amministrativo con contenuto inscindibili o indivisibile, il giudicato varrebbe nei
confronti di tutti i soggetti destinatari degli effetti dell’atto annullato. A questa giurisprudenza,
che ammette con larghezza effetti ultra partes o erga omnes del giudicato amministrativo, si
oppone chi propone di affrontare i problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso
la distinzione generale fra effetti dell’annullamento e autorità di giudicato. La sentenza di
annullamento di un provvedimento con effetti inscindibili travolge tutte le utilità assegnate
dall’atto annullato e, quindi, necessariamente coinvolge anche tutti i soggetti che ne fossero
titolari: ciò attiene però agli effetti dell’annullamento. Diverso dal tema degli effetti
dell’annullamento è però il tema del giudicato, e cioè dei vincoli che esso comporta: il
giudicato ha autorità solo fra le parti processuali (nonché i loro eredi e aventi causa). Di
conseguenza, a quanti non siano anche stati parti nel giudizio, non potrebbe essere opposto il
giudicato.

Di recente il Consiglio di Stato ha riproposto la tesi dell’efficacia erga omnes del giudicato
amministrativo rispetto alle sentenze in materia di operazioni elettorali.

 L’esecuzione della sentenza (in generale)

La sentenza del Tar (parziale o definitiva) è immediatamente esecutiva: questa regola vale per
qualsiasi tipologia di sentenza. Se non sia intervenuta la sospensione della sentenza,
l’amministrazione è tenuta a dare esecuzione alla pronuncia del giudice, adottando tutti i
comportamenti e gli atti necessari per portare a compimento quanto in essa disposto, anche se
abbia proposto appello. Il dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla sentenza va
ricostruito considerando tutti questi effetti, e considerando perciò anche il cd effetto
conformativo. L’esecuzione della sentenza investe pertanto anche la fase di rinnovazione del
potere amministrativi dopo l’annullamento, aspetto questo che risulta di particolare rilievo
quando il giudizio abbia riguardato l’impugnazione di un provvedimento negativo o abbia
riguardato un’ipotesi di silenzio. In queste ipotesi, infatti, l’interesse legittimo del cittadino è
assicurato solo attraverso l’esercizio del potere dal parte dell’amministrazione dopo la sentenza.

Il dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla sentenza di annullamento si confronta


talvolta con un mutamento del quadro normativo che disciplina la materia oggetto del giudizio: si
tratta delle cd sopravvenienze. Si pensi all’impugnazione di un diniego illegittimo di
autorizzazione, quando nel corso del giudizio o dopo la sentenza venga modificata la disciplina
per quell’autorizzazione, con la conseguenza che essa non potrebbe più essere rilasciata. Ragioni
di effettività della tutela giurisdizionale indurrebbero a sostenere che, in casi del genere,
l’amministrazione sia tenuta a provvedere “ora per allora”, ossia a riesaminare la domanda del
cittadino già illegittimamente respinta e a dare esecuzione alla sentenza di annullamento
applicando la disciplina in vigore all’epoca della domanda stessa. La giurisprudenza invece
sostenne a lungo che l’amministrazione non poteva prescindere dall’applicazione della disciplina
sopravvenuta, ancorché successiva alla sentenza, perché il principio tempus regit actus non
ammetterebbe eccezioni. In un secondo tempo il Consiglio di Stato temperò questa conclusione,
con riferimento al caso delle modifiche dello strumento urbanistico introdotte dal Comune dopo

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il diniego di un permesso di costruire. L’adunanza plenaria affermò infatti tali modifiche
prevalgono solo se siano precedenti alla notifica della sentenza di primo grado; invece le
modifiche successive vanno considerate irrilevanti e non possono essere opposte al dovere di
eseguire la sentenza. Questa conclusione viene accolta ancora oggi da una parte della
giurisprudenza.

Altra giurisprudenza, invece, sostiene che le sopravvenienza possano incidere anche dopo il
passaggio in giudicato della sentenza, però solo sui profili dell’attività amministrativa che non
siano vincolanti della sentenza.

Più di recente, è stato sostenuto che discriminante sarebbe la notificazione della sentenza passata
in giudicato (irrevocabile): le sopravvenienze precedenti condizionerebbero tendenzialmente
anche gli obblighi di esecuzione dell’amministrazione, mentre quelle successive di regola
rileverebbero soltanto sulle vicende dei rapporti di durata.

In conclusione, la sentenza di annullamento non preclude di regola un nuovo esercizio del


potere amministrativo: il dovere dell’amministrazione di eseguire la sentenza comporta
soltanto il dovere di attenersi, nell’esercizio del potere, alle statuizioni contenute nella
sentenza, e perciò il dovere di non riprodurre i vizi che hanno determinato l’annullamento.
L’adunanza plenaria ha sostenuto che, in seguito a un annullamento giurisdizionale,
l’amministrazione, che adotti un nuovo provvedimento, debba dimostrarsi consapevole della
erroneità del provvedimento precedente e perciò debba darsi carico con attenzione delle ragioni e
degli interessi del ricorrente, ispirando il procedimento a canoni di leale cooperazione col
cittadino.

Se la sentenza non viene eseguita spontaneamente, è previsto un giudicato di esecuzione, che si


svolge davanti al giudice amministrativo: si tratta del GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA. Il
cpa ammette, per le sentenze del giudice amministrativo, anche una esecuzione nelle forme
stabilite dal III libro del cpc. Questa possibilità sembra però circoscritta alle sentenze di
condanna al pagamento di somme di denaro. Infatti solo in questa ipotesi il codice afferma che
la sentenza può essere titolo anche per l’esecuzione civile. Per le altre condanne pronunciate
dal giudice amministrativo, anche se concernono l’adempimento di obbligazioni, l’esecuzione
giurisdizionale è riservata al giudizio di ottemperanza.

L’esecuzione della sentenza del giudice amministrativo rappresenta, tradizionalmente, un dovere


per l’amministrazione. Il cpa testimonia ancora questa regola, per esempio quando stabilisce che
la sentenza deve contenere sempre l’ordine che la decisione sia eseguita dall’autorità
amministrativa. Il cpa afferma inoltre, in termini più generali, che il dovere di esecuzione delle
sentenze grave, oltre che sull’amministrazione, anche sulle altre parti. Di regola non è
configurabile a carico di soggetti privati un dovere di dare esecuzione alle sentenze. La
disposizione del codice intende piuttosto chiarire che la circostanza che parte soccombente sia un
soggetto privato non toglie nulla alla cogenza degli obblighi che derivano a suo carico dalla
sentenza del giudice amministrativo.

Se la sentenza del giudice amministrativo si risolve in una condanna al pagamento di somme di


denaro, nei confronti del privato può essere promossa l’esecuzione forzata nelle forme previste
dal cpc, ai sensi dell’art. 115, comma 2 cpa.

Se invece la sentenza contiene statuizioni di altro genere, l’esecuzione civile sembra esclusa.

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Lo strumento tipico per eseguire le sentenze del giudice amministrativo era il giudizio di
ottemperanza: questo giudizio, però, si risolveva in un intervento sostitutivo nei confronti di
un’amministrazione ed era per lo meno dubbio che un intervento del genere potesse ammettersi
anche nei confronti di un privato. Il cpa, però, ha attribuito al giudice dell’ottemperanza anche il
potere di imporre, alla parte che non esegua la sentenza, o che ne ritardi l’esecuzione, il
versamento di una somma di denaro al ricorrente. Si tratta di uno strumento di
ESECUZIONE INDIRETTA. La giurisprudenza successiva al codice ha precisato che questa
misura è ammessa nel processo amministrativo in via generale e perciò anche per eseguire
obblighi di pagamento di somme di denaro. L’introduzione di questa disciplina consente di
individuare un margine di efficacia del giudizio di ottemperanza anche nei confronti di soggetti
privati.

 Il giudizio di ottemperanza

Rispetto a sentenza del giudice amministrativo l’esecuzione richiede spesso l’adozione di


provvedimenti amministrativi. L’esecuzione della sentenza amministrativa, in questi casi,
coinvolge più direttamente il potere amministrativo. Se l’amministrazione non adempie al dovere
di eseguire la sentenza, è esperibile il ricorso per l’ottemperanza al giudice amministrativo. Nel
cpa il giudizio di ottemperanza è confermato e disciplinato nelle prime disposizioni del libro IV
(artt. 112 ss.). Il giudizio di ottemperanza non riguarda solo i casi di inesecuzione della sentenza
del giudice amministrativo o delle altre pronunce ad essa assimilate, ma assume contenuti più
variegati, che sono modellati sulle evenienze concrete che possano riguardate l’esecuzione di una
sentenza.

In particolare è ammesso il ricorso al giudice dell’ottemperanza anche soltanto per ottenere


chiarimenti in merito alle modalità dell’esecuzione. Il ricorso al giudice dell’ottemperanza, in
questo caso, non presuppone un’inottemperanza, ma presuppone incertezze sull’interpretazione o
sugli effetti della sentenza da eseguire, sugli adempimenti necessari per l’esecuzione, ecc. Il
ricorso in questi casi può essere proposto anche dalla parte tenuta a dare esecuzione alla sentenza,
quando abbia esigenza di chiarimenti sulla portata della sentenza al fine di procedere
all’esecuzione stessa.

Per l’esecuzione delle sentenza del giudice amministrativo, il ricorso per l’ottemperanza è
esperibile indipendentemente dal fatto che siano esse passata in giudicato o solamente esecutive;
inoltre, ai fini dell’esperibilità del ricorso, non rileva se rispetto a queste sentenze inadempiente
sia l’amministrazione o una parte privata. Il codice equipara la sentenza esecutiva alla sentenza
passata in giudicato ai fini dell’ammissibilità del giudizio di ottemperanza, ma precisa anche
che il giudice dell’ottemperanza, se la sentenza non sia passata in giudicato, determina le modalità
esecutive. Di conseguenza sembra riconosciuta la necessità che l’esecuzione della sentenza non
ancora passata in giudicato non pregiudichi le regioni di un eventuale appello. Il ricorso per
l’ottemperanza è esperibile anche per l’esecuzione delle sentenze passate in giudicato del giudice
ordinario e dei giudici speciali avanti ai quali non sia previsto un giudizio di ottemperanza,
nonché per l’esecuzione dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. In questi casi, però, è
ammesso solo nei confronti di un’amministrazione. Col ricorso per l’ottemperanza possono essere
richiesti anche gli interessi (e, ove dovuta, anche la rivalutazione monetaria) maturati
successivamente alla sentenza rimasta ineseguita. Può essere richiesto inoltre il risarcimento dei
danni provocati dall’inadempimento della sentenza, o comunque dalla impossibilità di ottenere
una tutela specifica.

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L’art. 134, comma 1 lett a) cpa conferma che il giudice amministrativo, nel giudizio di
ottemperanza, esercita una giurisdizione estesa al merito: il giudice amministrativo può
sostituirsi, direttamente o attraverso un commissario da esso eventualmente nominato,
all’amministrazione inadempiente. La possibilità di sostituzione identifica anche il perimetro dei
poteri del giudice dell’ottemperanza e comporta che nel giudizio di ottemperanza non può
opporsi al giudice alcuna riserva di potere dell’amministrazione.

Prima del cpa, al giudice dell’ottemperanza era riconosciuta la capacità di adottare anche misure
ordinatorie nei confronti dell’amministrazione dirette all’esecuzione, come la fissazione di termini
per provvedere, la precisazione di modalità esecutive, ecc. Questa possibilità è oggi contemplata
espressamente anche dal codice.

Il codice attribuisce al giudice dell’ottemperanza anche il potere di imporre alla parte


inadempiente il versamento al ricorrente di somme di denaro, che maturano periodicamente
in seguito al ritardo nell’adempimento. Tali misure di esecuzione indiretta sono disposte dal
giudice, su richiesta del ricorrente, sulla pase di una valutazione puntuale dei caratteri della
situazione.

Il codice riconosce espressamente al giudice dell’ottemperanza anche il potere di dichiarare la


nullità degli atti adottati in violazione o in elusione del giudicato. Analogamente è statuita
l’inefficacia degli atti adottati in violazione o in elusione di una sentenza esecutiva non ancora
passata in giudicato. La nullità può essere dichiarata d’ufficio e non è soggetta a termini del
genere di quelli contemplati invece dall’art. 31, comma 4 cpa per altre ipotesi di nullità.

Il dovere di esecuzione viene violato non solo quando l’amministrazione rimanga inerte o si
rifiuti di eseguire la sentenza o adotti atti in contraddizione logica con la sentenza, ma anche
quando proceda con comportamenti elusivi, per esempio, operando in modo da rinviare a un
momento successivo e incerto il pieno adempimento (cd atti soprassessori). Secondo alcune
interpretazioni, il giudizio di ottemperanza presenterebbe profili compositi, perché nel giudizio
confluirebbero profili propri dell’attività di cognizione oltre che quelli tipici dell’esecuzione. In
particolare si presenterebbero le caratteristiche dell’attività di cognizione per i profili dell’azione
amministrativa non predeterminati nei suoi contenuti dalla sentenza e perciò con carattere di
novità rispetto al giudicato.

Esecuzione è attuazione di una regola; laddove non è stata già definita una regola, non vi può
essere giudizio di esecuzione e si rientra nell’ordinaria attività di cognizione. In tutte le vertenze
che comportino una condanna pecuniaria (vertenze per risarcimento dei danni), se le parti non si
oppongano, il giudice amministrativo può limitarsi a fissare nella sentenza i criteri per la
liquidazione dell’importo dovuto, demandando alla parte debitrice di proporre, sulla base di
tali criteri, un’offerta alla parte vittoriosa. Se l’offerta non viene accolta, o se una volta
accolta non viene eseguita, la determinazione dell’importo dovuto può essere richiesta dalla
parte interessata al giudice, con il ricorso per l’ottemperanza. In deroga al principio che
impone al giudice di pronunciarsi su tutte le domande, al ricorrente che ha chiesto una condanna
al pagamento di una somma di denaro il giudice, nel processo di cognizione, si limita a
pronunciare una sentenza circoscritta alla fissazione dei criteri. Il codice ha riconosciuto
espressamente a ciascuna delle parti il potere di richiedere al giudice di provvedere direttamente
alla liquidazione dell’importo dovuto.

 Il commissario ad acta

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Il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una giurisdizione estesa nel
merito e, pertanto, può sostituirsi all’amministrazione che non abbia dato esecuzione alla
sentenza. L’intervento sostitutivo del giudice può avvenire in forma diretta o in forma
indiretta, attraverso la nomina del cd commissario ad acta che si sostituisce a sua volta
all’amministrazione. In genere il giudice amministrativo, adito con ricorso per l’ottemperanza,
non provvede direttamente ad adottare le misure di competenza dell’amministrazione rimasta
inadempiente, ma preferisce nominare un commissario ad acta che assuma tutti gli atti necessari
per dare esecuzione alla sentenza. Il commissario si sostituisce agli organi amministrativi
inadempienti. Una volta nominatolo, il giudice dell’ottemperanza non è esautorato: esercita
poteri di vigilanza anche d’ufficio sull’operato del commissario e al giudice vanno rivolte
eventuali contestazioni circa tale operato. Quando il commissario comunica di aver completato la
sua attività, alcuni giudici amministrativi fissano comunque un’udienza per verificare, con
l’intervento del ricorrente, che la sentenza sia stata correttamente eseguita. Secondo alcuni il
commissario ad acta avrebbe dovuto essere considerato come un organo straordinario
dell’amministrazione. Tuttavia, proprio perché organo straordinario dell’amministrazione, il
commissario avrebbe dovuto essere considerato come un’autorità amministrativa, con la
conseguenza, fra l’altro, che i suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, avrebbero dovuto
essere impugnati davanti al giudice amministrativo secondo le regole generali previste per
l’azione di annullamento.

Il commissario ad acta sarebbe stato in grado di effettuare le scelte anche di ordine più
spiccatamente discrezionale, senza coinvolgere una responsabilità del giudice, proprio perché
sarebbe stato sempre un organo dell’amministrazione. Tuttavia la soluzione prospettata circa il
trattamento processuale degli atti del commissario dava origine a inconvenienti e a critiche.

Nella giurisprudenza precedente al codice, sembrava prevalere la tesi che il commissario


operasse come ausiliare del giudice, in un ruolo non molto diverso da quello del consulente o
dell’esperto nel processo civile. I suoi atti non potevano essere atti giurisdizionali, ma dovevano
essere comunque inquadrati nelle vicende del giudizio di esecuzione. Di conseguenza, nei
confronti di tali atti, la tutela avrebbe dovuto attuarsi nell’ambito dello stesso giudizio di
esecuzione ed eventuali contestazioni avrebbero dovuto essere indirizzate al giudice
dell’ottemperanza.

Il cpa ha preso posizione su alcuni punti concreti:

- Ha considerato anche il commissario ad acta nel capo del primo libro dedicato agli ausiliari del
giudice ed ha chiarito che nei suoi confronti valgono gli stessi motivi di ricusazione previsti
dall’art. 51 cpc per il giudice ed estesi dall’art. 63 cpc al consulente tecnico (che a sua volta è
tipicamente un ausiliare del giudice). Il codice, pertanto, ha affermato nei confronti del
commissario criteri specifici di autonomia e terzietà rispetto alle parti. Il codice assegna un rilievo
centrale all’imparzialità del commissario.

- Ha assegnato al giudice dell’ottemperanza la competenza a pronunciarsi su tutte le questioni


insorte fra le parti concernenti l’esatta ottemperanza della sentenza, precisando espressamente
che fra essere cono comprese quelle inerenti agli atti del commissario e definendo la relativa
procedura. In particolare, ha stabilito che le contestazioni delle parti vadano proposte, entro
un termine perentorio di 60 giorni, con un reclamo che nello stesso termine deve essere
notificato alle altre parti e depositato al giudice dell’ottemperanza. Invece le contestazioni dei
terzi vanno proposte con l’azione ordinaria d’annullamento, davanti al giudice competente
secondo le regole generali previste per l’impugnazione di provvedimenti amministrativi.

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 Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza

Il ricorso per l’ottemperanza va proposto nelle forme ordinarie, e perciò va notificato


all’amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio di merito. In molti casi, dopo una sentenza,
possono presentarsi situazioni in cui è controverso se si configuri una inottemperanza o se invece
si configurino ordinari vizi di legittimità amministrativa. In casi del genere, per evitare di
promuovere due giudizi separati, l’adunanza plenaria ha riconosciuto la possibilità che sia
proposto un unico ricorso al giudice per l’ottemperanza, fatta salva la possibilità per esso, se ne
sussistano le condizioni, di disporre la conversione dell’azione in una impugnazione ordinaria,
ove non ravvisi alcuna violazione o elusione del giudicato.

Col ricorso per l’ottemperanza il ricorrente deve depositare una copia autentica della sentenza di
cui chiede l’esecuzione, con l’eventuale prova del passaggio in giudicato. Il ricorso non è soggetto
a termini di decadenza. Può essere proposto fino a quando non si sia prescritto il diritto
all’esecuzione della sentenza. Tale diritto è assoggettato alla prescrizione ordinaria di 10 anni,
decorrenti dalla data del passaggio in giudicato della sentenza.

Competente, se si tratta dell’esecuzione di una sentenza amministrativa, è il giudice che ha


pronunciato la sentenza: pertanto il Consiglio di Stato può essere competente anche in unico
grado. Tuttavia, se la sentenza del Tar è stata confermata in appello (o sia stata riformata in
termini che non ne modifichino il dispositivo, né gli effetti ivi compreso quello conformativo), la
competenza spetta ugualmente al Tar. Invece se si tratta della esecuzione della sentenza di un
giudice ordinario o di un altro giudice speciale diverso dal giudice amministrativo, la competenza
spetta sempre al Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza da
eseguire. Il riparto di competenza ha carattere funzionale.

Il processo si svolge secondo le regole generali stabilite per il giudizio di cognizione, con la
peculiarità previste per il rito camerale: pertanto i termini processuali sono ridotti a metà. Il
giudice si pronuncia sul ricorso sempre con una SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA.
Nei confronti delle decisioni assunte dal Tar in sede di ottemperanza sono ammessi l’appello al
Consiglio di Stato e agli altri gravami previsti dall’art. 91 cpa. La decisione del Consiglio di Stato
assunta in sede di ottemperanza, come ogni altra decisione del Consiglio di Stato, è impugnabile
avanti alla Corte di cassazione, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.

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