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La devianza è qualche cosa di relativo

 Indispensabile uno sguardo comparativo, in senso:


– diacronico: nella stessa società / cultura in epoche diverse
– sincronico: nello stesso periodo in società / culture diverse
Le norme sono regole che guidano i comportamenti sociali e la cui violazione dà luogo a sanzioni
– Norme prescrittive: impongono i comportamenti da tenere (obblighi)
– Norme proscrittive: delineano i comportamenti da evitare (divieti)
– Norme giuridiche : enunciati linguistici posti da istituzioni legittimate a formularli, provviste di
sanzioni predefinite formalmente, esistenti/vincolanti fino a quando non abrogate, anche se
diffusamente eluse o non applicabili
– Norme sociali : orientamenti di azione trasmessi culturalmente e accettate/condivise, provviste di
sanzioni predefinite informalmente, esistenti/vincolanti fino a quando sono seguite dalla collettività (o
dalla maggioranza)
– A seconda della teoria a cui si fa riferimento, alle sanzioni sono attribuite diverse funzioni:
– retributiva à la sanzione deve servire a “restituire” al colpevole il male provocato dalla sua azione
illecita
– deterrente (generale o speciale) à la sanzione deve impedire che il reato venga reiterato
– rieducativa à la sanzione deve servire a “cambiare”, riabilitare, risocializzare il reo
– incapacitante (neutralizzazione) à la sanzione serve ad escludere il reo dalla società e impedirgli di
fare il male
– Il concetto di paradigma è stato introdotto da Thomas Khun nel 1962 nel testo La struttura delle rivoluzioni
scientifiche: con questo nome si indica ciò che (in termini di teorie, spiegazioni, metodi di ricerca) è condiviso
– in un determinato periodo – dai membri di una comunità scientifica alle prese con una determinata questione
o problema.
Il paradigma classico e le teorie della scelta razionale
Il contributo degli esponenti della Scuola Classica (i più importanti sono Beccaria e Bentham) rappresenta il primo
tentativo di rispondere alla domanda perché certi individui commettono atti devianti o criminali.
Tale Scuola nasce nel XVIII secolo sulla scorta del movimento di pensiero illuminista.
I valori principali a cui si fa riferimento sono :
• Il primato della ragione
• La libertà dei cittadini
L’uguaglianza di tutti di fronte alla legge
1. l’uomo è immaginato come essere libero, razionale e calcolatore che agisce spinto da interessi e desideri,
sulla base di un calcolo del rapporto tra costi e benefici (Teoria dell’homo oeconomicus);
2. lo Stato è concepito come il prodotto di un contratto sociale, in base al quale gli individui decidono di privarsi
di parte della propria libertà individuale per garantire la pace sociale, l’ordine interno e la sicurezza esterna.
Questa posizione teorica ha tre implicazioni immediate:
1. il crimine è una normale opportunità di azione;
2. il criminale è un individuo “normale”;
3. il reo è totalmente responsabile delle proprie azioni.
4. A garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge la giustizia penale deve essere amministrata
secondo il modello del “giusto processo”, per il quale:
5. i reati e le pene devono essere stabiliti per legge
6. la discrezionalità dei giudici deve essere ridotta dalla determinazione normativa delle relative pene;
7. i giudici devono agire in modo imparziale al di sopra delle parti (accusa e difesa);
8. le prove devono essere raccolte a partire dai fatti rispettando determinate procedure;
9. le persone inquisite, per le quali vige la presunzione di innocenza, devono essere informate in merito alle
prove raccolte a loro carico;
10. i processi sono pubblici.
La pena deve “rispondere” all’agire razionale dell’uomo.
Deve essere giusta e utile.
La pena deve:
• minimizzare il ricorso alla violenza ma garantire l’ordine sociale.
• procurare all’individuo un danno maggiore rispetto ai benefici, in modo tale che non sia più conveniente,
utile o desiderabile trasgredire la legge.
La pena ha una funzione deterrente.
La pena giusta e utile deve possedere alcune caratteristiche fondamentali:
 Prontezza: ad un reato deve seguire immediatamente una sanzione;
 Infallibilità: ad una violazione della legge penale deve corrispondere sempre una pena;
 Certezza : la pena una volta comminata deve essere scontata interamente senza possibilità di
accedere a clemenza o perdono;
 Dolcezza: la pena deve risparmiare al condannato ogni inutile sofferenza;
Deterrenza à punizione intesa come freno efficace alle azioni criminali. Esistono due tipi di deterrenza:
• Deterrenza speciale: scoraggiare i criminali dal commettere nuovamente un reato;
• Deterrenza generale: scoraggiare la popolazione dall’intraprendere scelte criminali.

In una concezione utilitaristica della pena questa si giustifica solo come mezzo di difesa e prevenzione
sociale.
Toerie strutturali: per spiegare i fenomeni sociali è necessario escludere ogni riferimento alle disposizioni e
alle motivazioni individuali e studiare le condizioni strutturali in cui gli individui sono posti e che ne
determinano le scelte;
Teorie dell’azione: per spiegare i fenomeni sociali è necessario partire dal punto di vista degli attori, dal
significato che questi danno al loro agire e alle loro strategie (individualismo metodologico)
ß
I teorici che riprendono l’impostazione di Beccaria si situano all’interno del paradigma dell’azione.
Un’azione è razionale quando l’attore sociale, di fronte a diversi corsi d’azione intraprende quello che, a
proprio giudizio, darà il risultato migliore.
Un’azione razionale viene determinata da:
1. esame di vincoli/opportunità;
2. scelta tra le opportunità ritenute tali (credenze) in base a regole sociali (che indicano quali opportunità è
giusto/lecito cogliere in certe situazioni) e/o desideri
Quindi:
a) l’azione è uno strumento per realizzare determinati fini;
b) gli individui scelgono l’alternativa secondo loro migliore;
c) nessun individuo è in grado di raccogliere tutte le informazioni possibili per scegliere l’azione
migliore né di prevedere con certezza gli esiti di quanto scelto.
È possibile definire un’azione deviante come razionale, se questa appare ad un attore, in base al proprio
ordine di preferenze, la scelta più adeguata per raggiungere determinati fini.
In particolare tre teorie hanno applicato questa impostazione allo studio della devianza:
 La teoria della scelta razionale
 La teoria delle attività abituali
 La teoria degli stili di vita
 I teorici della scelta razionale elaborano un modello di spiegazione del processo decisionale che conduce un
individuo a compiere un reato.
 Partono dalla elaborazione economica di Becker (i criminali, così come i consumatori nel libero mercato, sono
attori razionali mossi dal desiderio di massimizzare il proprio benessere).
 Ne individuano i limiti e la adattano al tema della devianza rilevando due assunti fondamentali:
 1) La razionalità dell’uomo è limitata;
 2) I vantaggi che le persone possono ottenere dal loro comportamento non sono solo
strumentali;
Il processo decisionale del criminale deve essere scomposto in due distinti momenti:
1. le decisioni di coinvolgimento (relative alle scelte di essere coinvolti, continuare o desistere nell’attività
criminale)
2. e le decisioni di evento (sono di carattere strategico, tattico, finalizzate a commettere uno specifico reato).
ß
I teorici della scelta razionale si focalizzano sulle decisioni di evento, differenziandosi dalla maggior parte
delle teorie criminologiche.
Rilevanza particolare è assegnata alla situazione in cui si prendono certe decisioni e si sceglie di agire in un
determinato modo.
Il focus è posto sulle variabili di contesto, peculiari della situazione nella quale l’attore sceglie, e non già sulle
motivazioni o inclinazioni ad agire degli individui astrattamente considerati.
Ne consegue che si interviene per modificare la struttura di opportunità.
Questa teoria cerca di spiegare la variazione nello spazio e nel tempo dei tassi di criminalità e di
vittimizzazione.
Le attività abituali sono quelle attività che facciamo regolarmente per soddisfare i nostri bisogni e
che nel caso si verifichi la convergenza di alcune caratteristiche possono mettere in contatto gli aggressori con
le vittime.
Vengono dunque individuate le condizioni minime perché possa svilupparsi l’evento:
• una persona disposta a commettere un reato;
• un bersaglio interessante, sia esso un bene da danneggiare o sottrarre o un individuo da aggredire;
• l’assenza di un guardiano in grado di impedire la commissione del reato;
E di conseguenza individuati i criteri che spiegano la variabilità dei tassi di criminalità e vittimizzazione:
• Prossimità;
• Remuneratività;
Accessibilità;
Se il criminale è un individuo razionale che infrange le norme per massimizzare i benefici ricavabili dalla
propria azione,allora le politiche di contrasto della criminalità devono fare in modo che le conseguenze del
comportamento criminale procurino un danno maggiore dei benefici che si possono ottenere con tale atto.
Quindi si alzano i costi del comportamento criminale.
Secondo queste teorie di impostazione utilitaristica i comportamenti criminali si possono prevenire attraverso
due strumenti:
 La punizione (l’efficacia deterrente della pena);
 La prevenzione situazionale;
I principi della certezza, prontezza e severità della pena sono gli elementi fondamentali di ogni strategia di
prevenzione della criminalità che si fondi sulla deterrenza.
I potenziali criminali e i criminali condannati, essendo attori razionali, eviterebbero di infrangere le norme
penali - o di ritornare ad infrangere le norme - per la paura delle conseguenze.
• Certezza e prontezza à la sanzione è conosciuta e la probabilità di essere sanzionati elevata;
• Severità à costi del reato sono elevati e quindi è più vantaggioso mantenere una condotta conforme;
L’efficacia della pena varia in relazione a:
• natura dell’atto (se strumentale o espressivo)
• grado di coinvolgimento nel delitto come stile di vita da parte del criminale.
Ne consegue che:
la pena ha maggiore efficacia quando l’atto è strumentale e il potenziale reo ha un basso livello di
coinvolgimento nel delitto come stile di vita;
la pena ha minore efficacia quando l’atto è espressivo (es.. danneggiamento, violenza) e il potenziale reo ha un
alto livello di coinvolgimento nel delitto come stile di vita (es. subculture criminali)
È possibile ampliare l’efficacia deterrente della sanzione operando sull’efficacia deterrente del controllo
sociale informale.
Il danno alla propria reputazione sociale, la disapprovazione dei familiari e degli amici, l’esclusione
dal gruppo l’eventuale perdita di un lavoro, possono rappresentare conseguenze importanti che influenzano
significativamente la scelta di mantenere una condotta non deviante.

Si possono distinguere diversi programmi di prevenzione situazionale:


• programmi di “design ambientale”: ristrutturare gli spazi rendendoli maggiormente difendibili e quindi
riducendo la possibilità di vittimizzazione;
• programmi di “protezione dei bersagli” rendendoli più difficilmente raggiungibili dai potenziali criminali
motivati;
• programmi che coinvolgono i cittadini residenti nella sorveglianza del loro territorio;
• programmi che prevedono un maggior controllo da parte della polizia;
• programmi che informano i cittadini, attraverso i mass media, sugli accorgimenti che si possono adottare per
evitare di essere vittimizzati nelle diverse situazioni.
• Principale critica alla teoria: questi interventi possono ridurre il rischio di vittimizzazione del singolo, ma non
è detto che riducano il numero degli atti criminali che si verificano in una data collettività.
• Questo perché non viene sufficientemente tenuto in considerazione il potenziale effetto spostamento
innescato da tali politiche. Ovvero la possibilità che il criminale, invece di rinunciare a commettere il crimine,
scelga di orientare diversamente la propria strategia attraverso uno:
• - spostamento temporale
• - spostamento geografico
• - spostamento tattico
• - spostamento di obiettivo
• - spostamento nell’attività delinquenziale

Il paradigma sociale I
- Durkheim e la Scuola di Chicago

Nel corso del XIX secolo emerge una visione che considera la devianza - come ogni altro
comportamento - un prodotto sociale, un “fatto sociale”.
Il “paradigma sociale” che raccoglie numerosi contributi che si rifanno ad una stessa concezione
di fondo rispetto a quali sono le motivazioni alla base del comportamento deviante.
Il paradigma sociale, rifiutando la spiegazione utilitarista, individua le radici del comportamento
deviante in quelle condizioni (sociali, materiali ed ambientali) che gli individui non possono controllare e
che li predispongono a certi comportamenti.
prima caratteristica importante che distingue il paradigma sociale
prendere in considerazione non più solo la criminalità, ma di focalizzare l’attenzione sulla devianza in
generale.
La differenza tra devianza e criminalità:
 Devianza àil concetto di devianza può essere definito in diversi modi, in questo caso si
fa riferimento in generale a quei comportamenti che violano sia le norme giuridiche che
quelle sociali e che per le loro particolari caratteristiche verranno definiti come “social
problems” dagli autori della Scuola di Chicago.
 Criminalità à si definiscono come criminali tutti quei comportamenti che infrangono
una norma di legge (la criminalità è un sottoinsieme della devianza).

All’interno del paradigma sociale possiamo ritrovare tre importanti tradizioni teoriche:
 La prima interpretazione sociologica della devianza nella società industriale ad opera
di Durkheim
 Il contributo teorico e metodologico della Scuola di Chicago
 La teoria struttural-funzionalista
Secondo Durkheim: il crimine è “un atto che offende gli stati forti e definiti della coscienza collettiva. In
altri termini, non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale
perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo
biasimiamo”
Si propone una concezione relativistica della criminalità in base alla quale un atto può essere
considerato deviante solo facendo riferimento al contesto storico, sociale e culturale in cui si manifesta.
La concezione relativistica della devianza: qualche esempio
Relatività in base alla situazione:
 Un uomo e una donna che hanno un rapporto sessuale in un parco pubblico rischiano
di essere accusati del reato di atti osceni in luogo pubblico, mentre a casa non
compierebbero nessun atto illegale.
Relatività in base allo status di chi compie l’atto:
 Uccidere in guerra un nemico vestendo una divisa militare non è considerato omicidio
Relatività in base alla cultura o al gruppo sociale cui si fa riferimento:
 La mutilazione genitale femminile in alcune culture è considerata una pratica religiosa
e rituale
Relatività storica
 Fino al 1978 l’aborto era considerato un reato in Italia
 La devianza è un concetto relativo ma è anche universalmente presente in tutte le società.
 La devianza è un “fatto sociale normale”, presente in tutte le societàà “il reato non si riscontra soltanto
nella maggior parte delle società di questa o quella specie bensì in tutte le società di tutti i tipi”.
La criminalità e la devianza, nella misura in cui non sorpassino “un certo livello”, svolgono una funzione
sociale specifica:
 Per il mantenimento della coesione sociale à attraverso il riconoscimento e la punizione
dei criminali si rinsalda la forza della coscienza collettiva e l’identificazione dei membri
della società con i valori di riferimento
Come fattore di mutamento sociale àla trasgressione diffusa dell’ordine morale condiviso può portare in
diversi casi ad un cambiamento degli orientamenti normativi.
Se la devianza è un fenomeno sociale normale e funzionale, ciò che deve essere considerato un fatto
sociale patologico è il rapido incremento del tasso di devianza nell’ambito di una determinata società.
Cosa spiega l’aumento del tasso della devianza per Durkheim è l’anomia.
L’anomia (da a-nomos, ovvero “mancanza di regole”) è la deregolamentazione che avviene nella società
quando i legami sociali si indeboliscono e la società stessa non è più in grado di regolare i sentimenti e le
attività degli individui.
Durkheim sviluppa il concetto di anomia nel suo studio sul suicidio (Durkheim, 1897). In questo testo,
egli studia l’andamento dei tassi di suicidio ed elabora una tipologia del suicidio (egoistico; altruistico;
anomico).
L’uomo ha bisogno di un’autorità morale che regoli la sua condotta e agisca da freno: quando una
società non agisce più come potere che regola il comportamento dei suoi membri e non è più in grado di
imporre loro alcun limite, si cade in una condizione di anomia.
La condizione di anomia è il fatto sociale che spiega l’aumento dei tassi di criminalità.
La prospettiva teorica di Durkheim è la prima spiegazione della devianza che focalizza l’attenzione sui
meccanismi sociali che inibiscono il comportamento deviante.
Secondo questa prospettiva teorica (teoria del controllo sociale) non ci si deve interrogare sulle ragioni
per cui le persone diventano criminali, ma spiegare come i membri di una società vengano inibiti
dall’adottare comportamenti devianti.
Secondo Durkheim gli uomini sono esseri viventi i cui desideri non sono limitati né dalla costituzione
organica (come gli animali) né da quella psicologica, ma la società è l’unica forza che può porre dei limiti
alle inclinazioni egoistiche degli individui.
Alcuni studiosi del secondo dopoguerra hanno ripreso ed elaborato la teoria del controllo sociale
durkhemiana.
• La teoria del controllo sociale di Travis Hirshi
• La teoria del controllo sociale informale di Sampson e Laub

La teoria del controllo sociale di Hirshi

Parte dall’assunto che l’uomo è un essere egoista, il cui comportamento sarebbe orientato al perseguimento dei
propri interessi se non vi fosse la società a contenerlo. Quando il legame con la società è debole o assente, si ha
il comportamenteo deviante.
Secondo Hirschi i legami sociali sono caratterizzati da quattro elementi:
 Attaccamento à rappresenta l’essenza dell’interiorizzazione delle norme. Quanto più un individuo è
legato ad amici parenti etc.. Tanto più è improbabile che metta in atto comportamenti che potrebbero
essere stigmatizzati;
 Coinvolgimento à riferimento alla dimensione temporale: quanto più tempo un individuo trascorrerà
nello svolgimento di attività convenzionali tanto meno ne avrà per attività illecite;
 Impegno à investimento in termini di tempo ed energia nello svolgimento di attività convenzionali;
Convinzione à riconoscimento del fatto che le norme sociali siano valide e vadano per questo rispettate.

La teoria del controllo sociale informale di Sampson e Laub

Sampson e Laub hanno elaborato una teoria del controllo sociale informale per spiegare lo sviluppo delle
carriere criminali.
Questi autori sostengono che in ogni fase del corso di vita gli individui sono potenzialmente soggetti
a differenti forme di controllo sociale informale a seconda dei diversi legami sociali ritenuti importanti.
Le discontinuità nelle carriere criminali (come la desistenza dal crimine o la ripresa di una condotta
criminale) sono dovute ad eventi salienti del corso di vita (“punti di svolta”) che, determinando cambiamenti
di status (trovare un lavoro, perdere un lavoro, sposarsi, separarsi, diventare genitore, ecc.), favoriscono il
formarsi di nuovi legami sociali o la rottura di quelli precedenti che a loro volta possono inibire o favorire il
comportamento deviante.

La Scuola di Chicago
I sociologici della Scuola di Chicago studiano il comportamento umano adottando una prospettiva
ecologica.
Secondo questa prospettiva teorica gli esseri umani sono visti come “animali sociali” modellati
dalla loro interdipendenza con gli altri e dalla loro dipendenza dalle risorse dell’ambiente in cui vivono.
La comunità umana che essi studiano è quella della città.
Gi studiosi della Scuola di Chicago analizzano il processo di sviluppo della città che viene utilizzata come
un “laboratorio naturale” ideale per studiare cause e dinamiche del comportamento umano.
La città, come ogni sistema ecologico, non si espande in modo casuale ma tende ad espandersi in
modo concentrico, seguendo un modello di sviluppo naturale, basato sui processi di invasione e dominio.
Il modello a cerchi concentrici dalla zona centrale rivela anche la caratteristica dell’espansione, la
tendenza di ogni zona interna a estendere la propria superficie invadendo la zona esterna
immediatamente successiva.
All’interno di ogni “area naturale” si sviluppano relazioni simbiotiche e organiche che uniscono gli
individui tra di loro e li rendono simili (setacciamento della popolazione).
Un importante concetto elaborato a partire dagli studi sulla città è quello di “contagio sociale” che serve
a spiegare il processo attraverso cui i devianti tendono a concentrarsi in alcune aree della città.
Secondo Park la città “è un mosaico di piccoli mondi” che offre agli individui l’opportunità di
trovare il proprio “mondo”. In alcune particolari regioni morali della città i devianti si associano ad
altri individui devianti rafforzando così disposizioni innate e offrendo razionalizzazioni e modelli
normativi differenti da quello dominante (si ritrovano questi concetti in Sutherland).
Si osserva che i tassi di criminalità e i “problemi sociali” sono più elevati nella zona di transizione tra la
zona centrale e le zone residenziali, e diminuiscono progressivamente allontanandosi dal centro della
città.
Le variazioni nei tassi di devianza e criminalità non possono essere spiegate facendo riferimento
alle caratteristiche degli individui, poiché nella zona di transizione vi è un costante ricambio nella
popolazione.
Tali variazioni si spiegano facendo riferimento alle caratteristiche dei diversi contesti territoriali
ed in particolare è il livello di disorganizzazione sociale della zona di transizione che determina tassi di
criminalità e devianza elevati.
Disorganizzazione sociale (Thomas e Znaniecki): situazione caratterizzata dalla“diminuzione
dell’influenza delle regole sociali di comportamento esistenti sui membri individuali del gruppo” e
dall’assenza di nuovi modelli normativi e nuove istituzioni in grado di sostituire le regole esistenti.
E’ questa condizione della società che spiega la correlazione tra i vari problemi sociali (la povertà,
l’instabilità residenziale, ecc.) e la criminalità.
Questo concetto ricorda molto il concetto di anomia elaborato da Durkheim per cui “la delinquenza è
(…) la misura del mancato funzionamento delle istituzioni della comunità”

La posizione relativista sui valori e sul comportamento che assumono i sociologi della Scuola di Chicago,
li porta a riconoscere che il conflitto è diffuso in tutta la società e ad analizzare il legame tra i conflitti
interculturali e la devianza.
L’osservanza delle norme di condotta della propria cultura possa indurre i soggetti ad adottare
comportamenti che violano le norme di condotta della cultura dominante all’interno della quale quel
comportamento sarà definito come atto deviante.
La teoria del conflitto culturale è successivamente elaborata da Sellin (1938): le definizioni legali, di ciò
che è criminale e di ciò che non lo è, sono “relative” poiché cambiano nel tempo come risultato dei
cambiamenti nelle norme di condotta.
Il contenuto di tali norme varia da cultura a cultura. All’interno di un una cultura sono i gruppi sociali
che detengono il potere politico impongono le proprie norme di condotta ai gruppi subordinati.
Secondo la teoria del conflitto culturale, quindi, il deviante non è un soggetto “patologico”, ma è un
individuo che si è conformato alle norme di condotta della propria cultura.
Sellin distingue due tipi di conflitto culturale:
 primario à si verifica quando le norme di una determinata cultura sono considerate devianti
nell’ambito di un’altra cultura
 secondario. à si verifica nell’ambito di una stessa società quando alcuni membri di essa
considerano normale un comportamento che altri membri definiscono come deviante
 Secondo Thomas e Znaniecki i fenomeni sociali e i comportamenti individuali hanno sempre una causa
composita che contiene sia un elemento soggettivo, sia un elemento oggettivo, che influenza dall’esterno
l’azione degli individui.
 Ogni azione è sempre preceduta da un atto di valutazione in cui l’attore definisce la propria
situazione. Il comportamento degli individui non dipende cioè soltanto dalle caratteristiche oggettive
della situazione in cui si trovano, ma anche dal significato che essi attribuiscono alla stessa. Ogni azione
è sempre preceduta da una definizione della situazione,
 “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni esse saranno reali nelle loro conseguenze”
(“teorema di Thomas”).
Partendo dal presupposto che qualsiasi azione è sempre preceduta da un momento di valutazione in cui
l’attore definisce la propria situazione sulla base di significati che sono attribuiti ad essa,per studiare i
comportamenti devianti si deve “entrare a far parte del mondo deviante”
I sociologi della Scuola di Chicago in molti dei loro studi adottano una metodologia di tipo qualitativo
che consente loro di osservare il fenomeno deviante “dal di dentro” (assumendo come importante il
punto di vista dei soggetti – sviluppando metodologie come l’osservazione partecipante) e nella sua
dimensione temporale (carriera deviante).
Attraverso la conoscenza dei significati che i soggetti attribuiscono al loro mondo, la devianza cessa di
essere considerata una patologia individuale.
Il concetto di patologia, che è stato mutuato dalla biologia e dalla medicina, indica “una variante o un
mutamento insostenibile” (Matza).
Si contrappone il concetto di diversità, intesa come “variante o cambiamento sostenibile”.
Premessa teorica àLa società produce devianza:
• Quando diminuisce l’influenza delle norme sociali che dovrebbero regolare il comportamento
dei suoi membri;
• Nei contesti sociali e culturali caratterizzati dalla disorganizzazione sociale in cui si sviluppa
una tradizione delinquenziale che viene trasmessa ai più giovani;
• La disorganizzazione sociale oltre che per l’indebolimento delle relazioni sociali primarie può
dipendere anche dalla presenza di conflitti culturali.
Quindi à la devianza si previene e si controlla intervenendo sulla società o su parti di essa non sui singoli
individui
Le politiche, ispirate alle prospettive teoriche hanno le seguenti finalità:
 promuovere lo sviluppo di programmi che abbiano lo scopo di riorganizzare le condizioni di
vita in particolari contesti territoriali per rafforzare i legami sociali e rendere più efficace il
controllo sociale informale;
 promuovere lo sviluppo di programmi che rimuovano o riducano il conflitto culturale,
favorendo l’integrazione degli immigrati nella società in cui vivono.
Si ispirano alle teorie ecologiche e della disorganizzazione sociale tutte quelle iniziative che hanno lo
scopo di rendere più efficace il controllo sociale informale intervenendo su:
 le condizioni che consentono di rafforzare i legami sociali tra i membri di una stessa comunità;
 le capacità di empowerment della comunità;
 l’ambiente fisico, riorganizzando gli spazi di vita dei membri della comunità.
 Se la devianza è il prodotto di un conflitto culturale, le politiche finalizzate ad affrontare il conflitto
culturale devono promuovere il processo di integrazione degli immigrati nelle società riceventi
favorendo l’acquisizione dei valori e delle norme di condotta della cultura dominante.
 La socializzazione culturale può avvenire in molteplici ambiti della vita sociale, ma deve essere
accompagnata da una effettiva integrazione sociale, altrimenti genera una situazione di tensione che può
favorire la devianza.

Il paradigma sociale: la teoria della tensione e le teorie delle subculture

Lo struttural-funzionalismo è una teoria che si sviluppa negli Stati Uniti a partire dagli anni ’30 del
secolo scorso.
La società è vista come una “totalità di strutture sociali e culturali (…) tra loro interdipendenti,
ciascuna delle quali fornisce un particolare contributo – detto funzione – a favore del mantenimento di
una o più condizioni essenziali per l’esistenza e la riproduzione del sistema sociale osservato” (Gallino).
Il sistema sociale è quindi in uno stato di equilibrio, paragonabile alla condizione sana di un
organismo.
Lo stato di equilibrio del sistema sociale si caratterizza per:
- un sistema normativo condiviso dai propri membri;
- il ruolo della socializzazione primaria e secondaria attraverso cui si apprende come agire in
modo conforme alle aspettative di ruolo.
Ne consegue che il deviante è un soggetto che, per una socializzazione inadeguata, agisce violando tali
aspettative.

La teoria della tensione di Merton - la devianza prodotto della struttura sociale

Per Merton il comportamento deviante deve essere considerato un prodotto della struttura sociale e
culturale allo stesso modo in cui lo è il comportamento conformista.
I membri di una società non sono liberi di perseguire qualsiasi fine e non possono scegliere
(legittimamente) qualunque mezzo per raggiungere le proprie mete.
In ogni società sono definiti culturalmente sia le mete a cui gli individui possono legittimamente aspirare
sia i mezzi legittimi attraverso cui tali mete possono essere perseguite.
Il criterio dell’accettabilità dei diversi mezzi per raggiungere le mete “non è dato dall’efficienza
tecnica”, ma da norme istituzionalizzate a cui la maggioranza dei membri della società attribuisce valore
e che definiscono i mezzi legittimi.
Se la struttura culturale definisce mete e mezzi è l struttura sociale (ruoli / status), ossia la stratificazione
sociale
che offre agli individui un differenziato accesso ai mezzi legittimi.
Partendo da questo presupposto Merton riformula la teoria dell’anomia di Durkheim.
Per Merton l’anomia
non è una condizione che mini la capacità di una società di regolare il comportamento degli individui
(cfr. Durkheim)
ma è una condizione della società in cui vi è un contrasto tra l’enfasi che si attribuisce alle mete
culturalmente indotte dal sistema sociale e la scarsa importanza che si riserva ai mezzi legittimi che
devono essere utilizzati per raggiungerle.
L’anomia è quella condizione della società in cui si ha la dissociazione fra le mete prescritte
culturalmente e i mezzi istituzionali disponibili per agire in modo conforme alle mete.
La devianza è “un sintomo” di tale dissociazione: quando mete e mezzi istituzionali sono poco integrate,
si verifica la demoralizzazione (le norme perdono il loro potere di regolare il comportamento degli
individui) --> ogni mezzo può diventare ammissibile per raggiungere i propri obiettivi.
Il deviante è un soggetto che, in seguito ad una socializzazione inadeguata, agisce violando le aspettative
di ruolo.
Gli individui, che vivono in un contesto culturale nel quale vi sia una tensione tra le mete da raggiungere e le
procedure istituzionalizzate per realizzarle, possono reagire a questa tensione in cinque modi.
Questi tipi di adattamento non sono categorie che si riferiscono a particolari caratteristiche psicologiche degli

Modi di adattamento Mete Mezzi

Conformità + +

Innovazione + -

Ritualismo - +

Rinuncia - -
Ribellione -/+ -/+

individui, ma al comportamento di ruolo in situazioni specifiche.


Il contesto di questa tipologia costruita da Merton è riferito ad una meta culturale, importante rispetto
al contesto storico: il successo economico.

 Conformità à gli individui si conformano tanto al criterio del successo quanto ai mezzi
necessari per conseguirlo; (individuo non deviante)
 Innovazione à l’individuo rifiuta i mezzi legittimi per conseguire il successo economico
e si affida a quelli illegittimi, in particolare al crimine; (il criminale “classico”)
 Ritualismo à l’individuo abbandona la meta del successo economico ma continua a
rimanere vincolato alle norme istituzionali; (il “burocrate”)
 Rinuncia à si abbandonano sia le mete che i mezzi; (il barbone)
 Ribellione à l’individuo rinuncia a mete e mezzi istituzionali, ma per sostituirli con
altri. (il rivoluzionario)
 Vi sono alcuni tipi di devianza che non possono essere spiegati dal modello mertoniano, tra questi in
particolare la devianza collettiva (quella delle bande), la violenza giovanile e la condotta deviante
espressiva.
 Negli anni ’50 queste forme di devianza divennero sempre più oggetto di attenzione.
 In particolare, diventò sempre più rilevante una particolare forma di devianza: la delinquenza dei
membri delle bande giovanili.
I contributi più importanti che hanno analizzato questo fenomeno sono stati quelli di:
• Cohen
• Cloward e Ohlin:
Come Merton, questi autori ritenevano che l’origine della devianza fosse determinata da una tensione
strutturale esistente tra mete e mezzi, ma – a differenza di Merton – consideravano il comportamento
deviante un adattamento collettivo piuttosto che individuale, appreso e consolidato all’interno di un
gruppo.

La teoria della subcultura di Cohen

Cohen evidenzia come molti comportamenti criminali


• siano commessi da gruppi di ragazzi piuttosto che da singoli individui;
• come tali gruppi spesso condividano una subcultura.
La subcultura è un insieme di norme e di valori che orienta le loro azioni e che si differenzia dalle norme
e dai valori della cultura dominante.
Il primo livello da cui si deve partire per cercare di analizzare il fenomeno della bande giovanili è quello
dell’individuazione del comportamento che vogliamo spiegare.
Cohen sottolinea come i comportamenti dei ragazzi delle gangs non siano comportamenti razionali,
motivati dalla ricerca dell’utile, bensì
si può notare come essi siano orientati dalla gratuità, dalla malignità e dalla distruttività.
Merton non riesca a spiegare il carattere espressivo, non utilitaristico di questi comportamenti.
Cohen lo spiega attraverso due concetti chiave:
- Frustrazione di status
- Adattamento collettivo
L’origine della devianza è strutturale (come in Merton) ma la fonte principale di tensione non è legata
alla difficoltà di raggiungere il successo economico, ma a quella di raggiungimento di uno status da cui
ne derivi considerazione sociale.
I giovani della classe operaia faticano a raggiungere una condizione sociale di riguardo secondo i criteri
di valutazione della classe media (diversi da quelli della classe operaia ma di cui i giovani di classe
operaia sono partecipi).
Vengono individuate tre possibili soluzioni al problema di adattamento per cui i ragazzi della classe
operaia:
• possono impegnarsi nello studio per ottenere le credenziali che apriranno la porta del successo;
• in seguito all’insuccesso scolastico, possono adottare lo stile di vita della classe operaia senza però
entrare in aperto conflitto con i valori della cultura dominante (è la soluzione del ragazzo di strada);
• possono, infine, adottare la soluzione delinquente.
• Cloward e Ohlin, partendo dagli assunti di Merton e Cohen sulla tensione, aggiungono a questa teoria
una riflessione su quella che chiamano la struttura illegittima delle opportunità che si pone alla base
dell’accesso differenziato alle opportunità illegittime.
• Gli autori evidenziano, infatti, come al soggetto che ritiene di non potercela fare con i mezzi legittimi non
siano “ugualmente accessibili una miriade di mezzi illegittimi”, ma come a seconda del quartiere in cui
questi ragazzi risiedono vi siano diverse possibilità apprendere ruoli criminali e di essere sostenuti in
essi.
• A differenza di Cohen, Cloward e Ohlin non ritengono che una frustrazione di status conduca
necessariamente a soluzioni delinquenti di tipo collettivo, ma che questo avvenga solo quando i fallimenti
personali vengano attribuiti all’ordinamento sociale anziché a difetti o incapacità personali.
• In questo caso l’individuo mette in discussione la legittimità del sistema e può alienarsi dalle regole
sociali convenzionali.

Le subculture di Cloward e Ohlin

Perché i crei una subcultura è necessario che si verifichino alcuni presupposti:


• In primo luogo, i giovani “devono liberarsi della adesione e della credenza nella legittimità di certi
aspetti della esistente organizzazione dei mezzi”.
• In secondo luogo, si devono unire ad altri nella ricerca di una soluzione dei loro problemi di
adattamento anziché tentare di risolverli da soli.
• In terzo luogo devono essere forniti di mezzi adeguati per controllare le emozioni di colpa che
esperiscono in seguito al compimento degli atti devianti.
• Infine è necessario che non siano ostacolati dal ricorso ad una risoluzione collettiva dei problemi.
Due altri fattori possono contribuire alla stabilizzazione di queste subculture:
1. Il tipo di organizzazione sociale dello slums che in base al:
• grado di integrazione tra trasgressori di differenti livelli di età
• grado di integrazione tra criminali e non-criminali.
tende a promuovere subculture delinquenziali distinte.
2. La reazione sociale degradante ed escludente degli adulti e delle istituzioni della comunità agli atti
collettivi di devianza contribuisce al consolidamento della subcultura delinquente
Cloward e Ohlin esaminano tre possibili tipi di subcultura giovanile:
• la subcultura criminale, che consiste in un tipo di banda i cui membri utilizzano mezzi illegali (furto,
estorsione, rapina, ecc.) per procurarsi il denaro;
• la subcultura conflittuale, che è caratterizzata da un tipo di banda i cui membri ricorrono alla violenza
per acquisire uno status;
• la subcultura astensionista, che consiste in un tipo di banda in cui si consumano droghe.
• La subcultura criminale tende a nascere negli slums integrati in cui vi sono stretti legami tra i criminali
di differenti livelli di età e fra soggetti criminali e soggetti non criminali.
• Il comportamento criminale è considerato un mezzo per raggiungere lo scopo del successo.
• Il comportamento criminale viene appreso interagendo con i membri adulti delle organizzazioni
criminali.
• Lo stretto legame dei criminali con la società convenzionale favorisce la stabilità del ruolo criminale.
• L’organizzazione criminale è stratificata in base all’età e gli adulti criminali esercitano un efficace
controllo sociale sulla condotta dei giovani.
• La subcultura conflittuale si sviluppa negli slums caratterizzati da una organizzazione sociale precaria
ed instabile.
• La “comunità non organizzata” non è in grado di fornire ai giovani l’accesso ai mezzi legittimi per
perseguire lo scopo del successo economico.
• Non si può sviluppare una struttura illegale di opportunità.
• La precarietà e l’instabilità della vita sociale producono sui giovani forti pressioni verso il
comportamento violento.
• Le bande combattono per acquisire una reputazione.
• La subcultura astensionista è principalmente caratterizzata dal consumo di droghe. Comportamento
tendenzialmente scoraggiato sia dalle subculture criminali sia da quelle conflittuali.
• I membri della subcultura astensionista vivono una condizione di doppio fallimento in quanto
hanno fallito nel tentativo di perseguire il successo sia con i mezzi legittimi sia con quelli illegittimi.
• Le attività svolte dai membri della subcultura astensionista sono finalizzate ad ottenere il
denaro necessario all’acquisto di droghe.
Partendo dai presupposti della teoria struttural-funzionalista ci sono due possibili livelli di intervento,
entrambi con l’obiettivo di ridurre o rimuovere la dissociazione tra mete e mezzi.
1. Livello strutturale interviene sulla ineguale distribuzione delle opportunità per rendere più accessibili i
mezzi legittimi a tutti i gruppi sociali;
2. Livello culturale evita di promuovere aspirazioni che enfatizzino il perseguimento del successo personale
“a qualsiasi costo”.
Il terreno su cui si interviene è quello della ineguale distribuzione delle risorse.
L’obiettivo di tale politiche quindi è quello di contrastare le cause della criminalità intervenendo sulla
struttura delle opportunità attraverso:
• la creazione di posti di lavoro,
• il miglioramento del rendimento scolastico dei ragazzi e la riduzione della dispersione scolastica,
• l’offerta di servizi sociali agli individui, alle famiglie, nonché ai membri delle bande,
• l’istituzione di programmi di formazione professionale per soggetti svantaggiati, ecc.
Il terreno su cui si interviene è quello culturale:
• di contrasto ai valori che inducono le persone ad attribuire molta più importanza alle mete che alle
procedure istituzionalizzate che si dovrebbero seguire per raggiungerle;
• di modifica dei valori sociali che una società deve perseguire.
La prima finalità la si può conseguire intervenendo nel processo di socializzazione degli individui che
appartengono ai gruppi sociali meno avvantaggiati, aiutandoli ad interiorizzare l’importanza dell’uso
dei mezzi istituzionali nel perseguimento delle proprie mete
La seconda finalità la si può perseguire modificando le mete che la società prescrive.

L’apprendimento del comportamento deviante

Una teoria procedurale della devianza


risponde alla domanda come gli individui diventano devianti.
L’assunto principale di questa teoria è che: il comportamento deviante è appreso nello stesso modo con
cui gli esseri umani apprendono i comportamenti conformi, in interazione con gli individui in un
processo di comunicazione (interazione sociale).
I contenuti, di ciò che si apprende, dipendono dai modelli di comportamento che sono trasmessi.
Il fondamentale presupposto teorico di questi autori è che il comportamento conforme e quello deviante
sono appresi nello stesso modo: attraverso l’interazione sociale.
Questa considerazione ha il grande merito di mettere in crisi una delle assunzioni maggiormente diffuse
in precedenza: quella relativa al nesso di causalità intercorrente tra marginalità e devianza.
Se il comportamento deviante è appreso come tutti gli altri comportamenti questo processo può essere
messo in atto in qualunque situazione sociale.

Sutherland e la teoria dell’associazione differenziale


Sutherland si pone l’obiettivo di elaborare una teoria generale della criminalità che non si basi sulla
inferiorità psicologica e biologica del criminale.
La sua prospettiva si basa su tre concetti:
• Conflitto normativo
• Organizzazione sociale differenziale
• Associazione differenziale
Attraverso questi concetti si propone di spiegare sia le variazioni dei tassi di criminalità in una società
sia il comportamento criminale individuale.
Il pensiero di Sutherland si rifà alla teoria del conflitto culturale. Questa teoria parte dal presupposto
che le società moderne sono caratterizzate dalla presenza di gruppi sociali che esprimono differenti
tradizioni culturali.
Diversi gruppi sociali possono fare riferimento a diverse culture che a loro volta fanno riferimento a
diversi interessi e valori da tutelare (e quindi ad una diversa organizzazione normativa) che possono
entrare in conflitto tra loro.
Il gruppo che detiene il potere, per tutelare i propri valori e interessi, è in grado di determinare quali
comportamenti sociali debbano essere considerati devianti. In questo senso il crimine per Sutherland è
un fenomeno connotato politicamente.
Quanto più una società è socialmente differenziata tanto maggiore è la possibilità che si verifichino
conflitti normativi in merito al giusto atteggiamento da tenere nei confronti della legge.
I tassi di reato sono più elevati nelle società con maggiore conflitto normativo.
Per organizzazione sociale differenziale si intende la presenza in una stessa società di gruppi sociali che
fanno riferimento a “culture differenti” da quella dominante.
Queste culture offrono ai membri del gruppo valori, interessi e modelli di riferimento “altri”, ma del
tutto analoghi a quelli della “società ufficiale”.
Secondo Sutherland questo concetto è da preferirsi a quello di “disorganizzazione sociale” (cfr. Scuola di
Chicago) perché il tasso di criminalità non è il prodotto di un qualche deficit sociale (disoccupazione,
dispersione scolastica, ecc.), ma è funzione della organizzazione sociale dei diversi gruppi.
Con questo termine Sutherland indica il processo attraverso il quale gli individui apprendono il
comportamento criminale.
Il processo di apprendimento è lo stesso che si mette in atto nell’apprendimento di comportamenti
conformi: un processo di interazione e comunicazione con altri individui i soggetti permette di
apprendere le tecniche di comportamento e le motivazioni relative ad esso
ß
un individuo diventa criminale quando le interpretazioni sfavorevoli nei confronti della legge sono più
forti di quelle favorevoli.
Nella vita ci si associa a gruppi differenti e si è esposti a definizioni normative diverse. Ci sono quattro
modalità che devono essere valutate:
• Frequenza, ovvero tempo trascorso interagendo con gruppi che incoraggiano il comportamento
criminale
• Durata nel tempo della esposizione ai modelli criminali
• Priorità,ovvero momento in cui nella storia della persona si è verificata l’associazione
Intensità emozionale dell’associazione
Nella sua spiegazione del comportamento criminale Sutherland individua:
• i processi che agiscono nel momento in cui il reato si verifica (spiegazione situazionale o
dinamica) à focus sulla situazione
• i processi che agiscono nella storia antecedente dell’autore del reato (spiegazione storica o
evolutiva) à focus sulla persona
Le spiegazioni devono essere considerate entrambe: un atto criminale viene compiuto quando, nella
definizione dell’individuo che lo mette in atto, si presentano situazioni considerate appropriate ad esso
Il processo attraverso cui il singolo individuo giunge a intraprendere un comportamento criminoso si
spiega attraverso 9 punti
1. Il comportamento criminale è appreso.
2. Il comportamento criminale è appreso attraverso l’interazione con altre persone in un processo di
comunicazione.
3. La parte fondamentale del processo di apprendimento del comportamento criminale si realizza all’interno
di gruppi di persone in stretto rapporto tra loro.
4. Quando si apprende il comportamento criminale, l’apprendimento include: a) le tecniche di commissione
del reato, che sono talvolta complesse, talvolta molto semplici; b) lo specifico indirizzo dei moventi, delle
iniziative, delle razionalizzazioni e degli atteggiamenti.
L’indirizzo specifico dei moventi e delle iniziative viene appreso attraverso le definizioni favorevoli o
sfavorevoli ai codici della legge.
6. Una persona diviene delinquente perché le definizioni favorevoli alla violazione della legge superano le
definizioni sfavorevoli alla violazione della legge. Questo è il principio dell’associazione differenziale.
7. Le associazioni differenziali possono variare in frequenza, durata, priorità ed intensità.
8. Il processo di apprendimento del comportamento criminale attraverso l’associazione con modelli di
comportamento criminale ed anti-criminale coinvolge tutti i meccanismi che sono coinvolti in ogni altro
apprendimento.
9. Benché il comportamento criminale sia espressione di bisogni e valori generali, questi bisogni e valori
non possono spiegarlo, dato che il comportamento non criminale è espressione dei medesimi bisogni e dei
medesimi valori.

La criminalità dei “colletti bianchi”


Con l’espressione “criminalità dei colletti bianchi” Sutherland definisce tutti i reati commessi da
persone rispettabili e di elevata condizione sociale nel corso della propria occupazione.
nessun gruppo sociale è immune dal fenomeno criminale.
Rientrano in questo tipo di criminalità tutti quei reati “di tipo economico”, o comunque commessi con
finalità di tipo economico, come la corruzione o la bancarotta fraudolenta, ma anche altri
comportamenti come l’infrazione delle norme per la sicurezza sul lavoro o delle norme che tutelano
l’ambiente.
Il criminale “dal colletto bianco” – come tutti gli altri criminali – apprende il proprio comportamento a
contatto con il suo gruppo sociale di riferimento (che d’altra parte è anche l’unico in grado di
insegnargli le tecniche da mettere in atto) interagendo con soggetti che lo definiscono favorevolmente ed
è isolato dalle definizioni sfavorevoli di esso.
Una particolarità che distingue questo tipo di criminale dagli atri “comuni” è data dalla sua capacità di
impedire/contrastare la reazione sociale e conservare la propria reputazione anche al di fuori della sua
organizzazione.
Questa capacità è strettamente legata alla sua appartenenza di classe che gli consente sia di opporsi
efficacemente all’azione delle agenzie di controllo sia di “operare alla base” impedendo che determinati
comportamenti vengano classificati come reati sia a livello normativo sia per quanto riguarda la
percezione dell’opinione pubblica.

La teoria della neutralizzazione di Matza e Sykes

Matza e Sykes sviluppano l’idea di Sutherland dell’importanza delle razionalizzazioni, che rendono
possibile la trasgressione della norma.
Tali razionalizzazioni possono essere messe in pratica:
• dopo che l’atto è stato compiuto (ex post);
• prima del compimento (ex ante), rendendo possibile il comportamento deviante.
Lo spunto per studiare questi meccanismi viene preso dallo studio di quella che Matza e Sykes chiamano
una “subcultura della delinquenza”, distinguendola dalla “subcultura delinquente”.
La chiave dell’analisi della subcultura della delinquenza è nella “considerevole integrazione della
subcultura nella società e non nella sua debole differenziazione”.
I meccanismi che permettono tale integrazione sono:
• la neutralizzazione delle norme che si intendono violare mantenendo contemporaneamente
l’adesione al sistema normativo e valoriale della società;
• la convergenza sotterranea tra i valori della subcultura della delinquenza e quelli della cultura
dominante.
• Molta delinquenza è basata su forme di giustificazione della devianza.
• Le tecniche di neutralizzazione permettono al deviante di essere liberato dal legame morale con le leggi
che intende violare (o che ha violato) e costituiscono una componente fondamentale – e che viene
appresa nella relazione con il gruppo sociale di riferimento – delle definizioni favorevoli alla violazione
della legge.
Matza e Sykes individuano e analizzano 5 tecniche di neutralizzazione:
• negazione della responsabilità: le azioni realizzate sono il prodotto di forze incontrollabili;
• negazione del danno: le azioni realizzate non recano alcun danno;
• negazione della vittima: la vittima meritava di subire il danno;
• condanna di chi condanna: chi condanna è parziale e ingiusto;
• richiamo a lealtà più alte: infrangere la norma era necessario per conformarsi a richieste del
gruppo di appartenenza.
• Secondo Matza e Sykes la subcultura della delinquenza non è qualcosa di completamente estraneo alla
vita sociale convenzionale ma ne rappresenta una sotterranea tradizione.
• La presenza di questi “valori sotterranei” che enfatizzano il divertimento e l’avventura, l’uso di alcol e
droghe illegali, ecc. fa si che questi comportamenti vengano ritenuti ammissibili se praticati nell’ombra
(in modo sotterraneo, quindi non pubblicamente), in determinati contesti (particolari luoghi del
divertimento) e fasi del corso di vita (periodo adolescenziale e giovanile).
• Attraverso l’utilizzo delle tecniche di neutralizzazione è possibile che vi sia un allentamento del legame
morale, motivo che pone il soggetto in una condizione di deriva (drift) che rende la delinquenza possibile.
• Tale condizione non è però, sufficiente a spingere il soggetto verso l’atto deviante, ma in tale
condizione il soggetto può scegliere tra due strade: può scegliere di infrangere la norma oppure può
scegliere di non infrangerla.
• La spinta, attraverso cui l’atto deviante si realizza, è fornita dalla volontà dell’attore.
Nessuno è “costretto” a diventare un deviante, la scelta dipende dalle condizioni e dei problemi dati
dalla realtà concreta che il soggetto si trova ad affrontare.
L’agire del deviante è “socialmente situato”, la libertà di cui dispongono le persone è variabile e
non è uguale per tutti (alcune persone sono “più libere di altre”)
La volontà può essere attivata da due condizioni:
• la preparazione, che fornisce l’impulso per la ripetizione di vecchie infrazioni;
• la disperazione, che offre la spinta per commettere nuovi reati mai messi in atto
precedentemente.
Se il comportamento deviante è appreso interagendo con persone che professano norme e valori
devianti, le politiche di intervento dovranno essere caratterizzate da due finalità:
• preventiva: isolare gli individui dai modelli normativi non convenzionali e/o favorire
l’associazione con modelli normativi convenzionali;
• educativa: allontanare gli individui devianti dai modelli normativi non convenzionali, facendoli
entrare in contatto con soggetti e/o gruppi “rispettosi della legge”, o modificare i contenuti dei
modelli normativi (subculture) di quei gruppi che promuovono condotte devianti.
La teoria di Sutherland non si concentra sulle caratteristiche delle persone che si associano, ma sui
modelli di comportamento che tali associazioni forniscono agli individui. E sul fatto che non ci sono
gruppi sociali immuni dalla devianza.
In sintesi le implicazioni operative di questo modello esplicativo sono:
• Oggetto di prevenzione non deve essere soltanto la criminalità di strada, organizzata, ecc. ma si
deve anche prevenire quella dei colletti bianchi.
• Le attività di prevenzione non si devono rivolgere solo ai soggetti deprivati o provenienti dalle
classi inferiori. In ogni ambito dell’aggregazione adolescenziale e giovanile (sportiva,
associativa, scolastica) si devono promuovere modelli di ruolo in grado di attribuire valore ai
comportamenti conformi.
Per la teoria dell’associazione differenziale:
• Individuare i soggetti che rischiano, nel contesto sociale in cui vivono, di essere affiliati a gruppi
o persone da cui potrebbero apprendere il comportamento deviante.
• Prevenire le associazioni precoci con modelli devianti.
Per la teoria della neutralizzazione:
• Rendere inefficaci i meccanismi di razionalizzazione attraverso la promozione di processi di
comunicazione che veicolino messaggi costruiti in modo tale da rendere inefficaci tali tecniche.

Per la teoria dell’associazione differenziale:


si può intervenire sul contesto sociale e culturale attraverso i programmi di comunità che hanno lo
scopo di promuovere una organizzazione sociale in cui prevalgano i modelli normativi favorevoli alla
legge, contribuiscono a prevenire il comportamento criminale.
Per la teoria della neutralizzazione:
bisogna intervenire a livello sociale e culturale per veicolare credenze, spiegazioni, valori che riducano
gli ambiti in cui il legame morale possa essere neutralizzato.
Le politiche promosse da questo tipo di impostazione teorica puntano su una possibile rieducazione del
deviante che si può ottenere attraverso due processi generali:
• l’alienazione dell’autore del reato dai gruppi che sostengono i valori che conducono alla
criminalità;
• l’assimilazione dell’autore di reato ai gruppi che sostengono valori che conducono ad un
comportamento rispettoso della legge.
Affinché il trattamento sia efficace è comunque necessario che si modifichino le relazioni sociali
del deviante. Gli interventi potranno incidere sulla carriera deviante nella misura in cui consentono al
soggetto di cambiare i propri gruppi di riferimento.

La teoria della reazione sociale e dell’etichettamento

Anche questi teorici partono dal presupposto che i confini tra ciò che è lecito e ciò che non lo è sono relativi,
riprendendo l’impostazione teorica di Durkheim e del paradigma sociale.
Questi teorici ribaltano però il ragionamento secondo il quale la reazione sociale alla devianza
dovrebbe ridurre i comportamenti criminali e quindi rafforzare la coesione sociale.
il controllo sociale nella loro visione non è più concettualizzato come la risposta della società al
comportamento deviante ma diventa un fattore criminogeno, che spiega il comportamento deviante stesso.
I teorici dell’etichettamento spostano l’analisi dai comportamenti e dalle caratteristiche di quelli che
infrangono le norme ai processi attraverso i quali certi individui finiscono con l’essere definiti devianti da altri.

Basandosi su questa impostazione teorica, la devianza:


• è una qualità che viene conferita ad alcuni atti dalla reazione sociale di coloro che vengono a
contatto (diretto e/o indiretto) con essi.
• è il prodotto del processo interattivo tra coloro che creano e fanno applicare le norme e coloro che
le infrangono e che vengono etichettati e trattati come devianti.
Adottando questa prospettiva teorica il focus dell’analisi si concentra su tre importanti aree tematiche:
• la formazione delle norme
• l’applicazione delle norme
le conseguenze dell’etichettamento sugli individui.
Abbiamo due possibili spiegazioni sociologiche del processo che analizza la formazione delle norme,
spiegazioni che:
• sottolineano la natura consensuale delle norme, per cui la devianza è un fenomeno “oggettivamente
dato”;
• ne evidenziano l’origine conflittuale, che evidenziano la natura politica della devianza e del crimine.
All’interno di questa seconda impostazione teorica si possono poi distinguere due filoni teorici:
• Le teorie del conflitto pluraliste che vedono il conflitto tra diversi gruppi sociali che tendono a
tutelare i propri valori e interessi
• Le teorie del conflitto radicali che fondano il conflitto sulla disparità delle risorse economiche
(teorie del conflitto marxiste)
Se le norme sono il prodotto dell’azione sociale di gruppi sociali e attori collettivi, si deve descrivere e
spiegare il processo attraverso cui questi definiscono come deviante e/o criminale un determinato
comportamento sociale.
Questo vuole dire ragionare su:
• quali attori sociali hanno assunto l’iniziativa (in particolare quelli che Becker definisce imprenditori morali)
• quali sono gli interessi ed i valori di cui sono portatori
• Gli imprenditori morali sono coloro che orientano il contenuto e la promulgazione della legge.
• Un’esemplificazione del processo di formazione delle norme e del ruolo degli imprenditori morali in
esso Becker lo fornisce con la descrizione dell’approvazione del Marijuana Tax Act, documento approvato
nel 1937 dal Congresso degli Stati Uniti.
Nel suo lavoro Becker si concentra in particolare sul ruolo che alcuni dirigenti del Bureau of Narcotics ebbero
nell’approvazione del testo di legge.
La loro azione si orientò su due fronti:
• Assicurandosi l’appoggio di altre organizzazioni interessate alla promulgazione di una
legge proibizionista
• Influenzando l’opinione pubblica attraverso mezzi di comunicazione di massa
Come sottolinea l’autore nessun posto fu concesso nel dibattito pubblico né nelle udienze parlamentari
al punto di vista dei consumatori di marijuana
L’applicazione delle norme è selettiva: la reazione sociale non è orientata da criteri oggettivi ma è espressione
delle scelte e degli interessi di coloro che hanno il potere di “etichettamento”, delle prassi e dei vincoli
organizzativi che regolano l’attività delle istituzioni deputate al controllo sociale.
Non tutti coloro che violano le norme sono etichettati come devianti, così come occasionalmente possono
essere etichettate come devianti persone che non hanno violato le norme.
L’esistenza di un comportamento che viola una norma è solo uno dei fattori che può scatenare una reazione
sociale.
Occorre inoltre l’attivazione diretta di un membro della società o l’attivazione dell’intervento delle
agenzie deputate al controllo sociale.
Si ha quindi reazione sociale quando si crea una etichetta deviante, e questa viene applicata.
Sulla base di queste riflessioni Becker costruisce una tipologia dei comportamenti devianti che
considera come variabili:
- l’effettivo comportamento messo in atto
- la percezione sociale dello stesso.

Comportament Comportamento
o conforme deviante
Percepito Falsamente Deviante puro
come accusato
deviante

Non Conforme Segretamente


percepito deviante
come
deviante

Dagli studi di questi autori emergono alcuni gruppi che sarebbero più esposti di altri alla reazione sociale:
• gli individui che appartengono a gruppi sociali che sono dotati di minore potere nella società (per ragioni di
razza, genere, età, classe sociale, livello di istruzione);
• i membri di gruppi che risiedono in ambiti territoriali ritenuti criminogeni;
• gli individui dal cui aspetto e comportamento si può inferire che sono portatori di valori diversi da quelli
dominanti;
• le persone che sono già state stigmatizzate (per esempio, gli ex-detenuti).

Lo studio di Chambliss

Un buon esempio del funzionamento di questi meccanismi di reazione sociale è dato dallo studio di
Chambliss (1973) che esamina l’atteggiamento tenuto da una comunità nei confronti di due bande di ragazzi
(The Saints e The Roughnecks).
L’autore nota come solo i membri di una banda, quella dei Roughnecks ricevono una notevole
attenzione da parte della scuola e delle principali agenzie di controllo e questo secondo Chambliss dipende
da:
• Maggiore visibilità
• Diversa reazione agli interventi della comunità nei loro confronti
• Pregiudizi della comunità
Risposta della comunità che rafforza il comportamento deviante.
Il controllo sociale dunque non è una risposta oggettiva al comportamento deviante, ma piuttosto una attività
selettiva, questo fa si che:
i tassi ufficiali che vengono registrati per quanto riguarda la devianza e la criminalità sono il prodotto delle
pratiche quotidiane delle agenzie deputate al controllo sociale stesso.
Quindi le statistiche ufficiali non ci consentono tanto di descrivere le caratteristiche della criminalità quanto
piuttosto le modalità con cui viene esercitato il controllo sociale.
Lemert descrive il processo attraverso cui la persona etichettata riorganizza la propria identità e la propria vita
intorno ai fatti della devianza.
Nel suo lavoro questo autore individua due “momenti” di questo processo:
• devianza primaria à allontanamento più o meno temporaneo, più o meno importante di chi lo attua
da valori o norme sociali e/o giuridiche
• devianza secondaria à esito del processo di interazione tra il deviante e coloro che lo stigmatizzano.
La devianza diventa mezzo di attacco, difesa o di adattamento nei confronti del problema
• L’obiettivo della sociologia diventa a questo punto quello di spiegare come funziona il processo attraverso cui
le persone etichettate acquisiscono progressivamente uno status ed una identità “deviante”.
• Per fare questo il comportamento deviante deve essere studiato ricorrendo a modelli processuali (ovvero
diacronici).
• Un concetto molto utile elaborato nell’ambito di questa teoria è quello di carriera deviante.
• Con il concetto di carriera si fa riferimento al percorso seguito da una persona in una determinata posizione o
esperienza con il trascorrere del tempo.
• La carriera deviante rappresenta il processo attraverso cui un individuo arriva a vivere la propria
devianza come elemento naturale della propria identità.
• I mutamenti di stato nell’ambito di una carriera (cioè i passaggi da una posizione all’altra) possono
anche dipendere da fattori casuali e contingenti (“contingenze di carriera”) e possono essere più o meno
improvvisi e radicali.
Becker presenta un modello di carriera deviante articolato in quattro fasi:
• Prima fase: la violazione della norma (devianza primaria)
• Seconda fase: sviluppo di motivazioni favorevoli alla devianza
• Terza fase: l’etichettamento (passaggio dalla devianza primaria a quella secondaria).
Quarta fase: l’affiliazione ad una subcultura deviante.
Nella terza fase di sviluppo della carriera deviante, quando la devianza diventa status egemone ogni aspetto
della vita del deviante viene reinterpretato alla luce della nuova etichetta per trovare una conferma della sua
diversità, della sua “natura deviante”.
Questo processo si configura come una vera e propria profezia che si autoadempie (la definizione è
di Merton) e, come descritto dal teorema di Thomas, la persona etichettata come deviante finisce assumere in
sè le caratteristiche che gli sono state attribuite.
Anche il trattamento può contribuire ad ampliare la devianza.
Da un importante studio di Goffman sul funzionamento delle “istituzioni totali” emerge come queste tendano
a consolidare lo status e l’identità deviante dei soggetti che trattano:
• impedendo loro lo scambio sociale e l’uscita verso il mondo esterno;
• spogliandoli dei ruoli sociali abituali a causa delle barriere che li separano dal mondo esterno;
• mortificando il loro sé in quanto li privano della possibilità di gestire la propria “facciata” essendo
sottratto loro il corredo e gli strumenti necessari per tale gestione;
• attribuendo loro l’etichetta di persone istituzionalizzate
• limitandone in questo modo le opportunità di vita anche quando saranno uscite dall’istituzione.
• Visto in quest’ottica il trattamento, trasmettendo agli utenti/clienti alcune ben determinate definizioni della
situazione, può influenzarne le credenze fornendo loro delle razionalizzazioni per spiegare e giustificare ex-
post i loro comportamenti devianti.
• Uno dei meccanismi di razionalizzazione dei comportamenti devianti tipico della nostra epoca è il processo di
medicalizzazione attraverso cui si cerca di spiegare e trattare il comportamento deviante come il prodotto di
una patologia.
La carriera deviante non è solo discendente.
È un processo dialettico in cui:
• i fattori ambientali ed individuali influenzano e condizionano, ma non determinano, le traiettorie future
dell’azione;
• le persone “reagiscono” all’etichettamento interpretando, e non assorbendo semplicemente, la definizione
della situazione proposta dagli agenti della reazione sociale.
• Gli sviluppi delle carriere devianti sono condizionati dalla capacità dei soggetti di contrastare i processi di
criminalizzazione primaria e secondaria.
• Corridoio della devianza
• Una teoria che considera il controllo sociale un fattore criminogeno nel settore delle politiche sostiene la
necessità di ridurre l’intrusione delle istituzioni nella vita dei devianti.
• Anche la prevenzione, se individua - sulla base di determinati “deficit” psicologici, familiari, sociali -
soggetti potenzialmente devianti che si differenziano dai soggetti “non a rischio”, può generare processi di
etichettamento e di stigmatizzazione.
La teoria dell’etichettamento ha ispirato tre tipi di politiche:
1. la depenalizzazione,
2. la diversion,
3. la deistituzionalizzazione.
2. le norme penali sono il prodotto storicamente determinato dell’azione sociale di attori collettivi, di cui
riflettono gli interessi e le visioni del mondo.
3. Alcune di esse sono espressione di un consenso diffuso (in un determinato momento storico) e riflettono la
necessità di tutelare determinati “beni”, “interessi” (l’integrità fisica della persona, la proprietà privata, ecc.)
e quindi proibire e sanzionare determinati comportamenti (la violenza sessuale, l’omicidio, la rapina, ecc.).
4. Vi sono anche altre norme che proibiscono e sanzionano comportamenti con lo scopo di proteggere “beni”,
“interessi” che sono ritenuti degni di tutela soltanto da alcuni gruppi sociali che hanno il potere di imporre la
propria visione del mondo a tutti membri di una determinata collettività.
5. Appartengono a questa categoria i cosiddetti “reati senza vittima” come ad esempio il consumo di sostanze
psicoattive illegali, la prostituzione, il gioco d’azzardo, ecc… Secondo i teorici dell’etichettamento si
dovrebbero depenalizzare i reati senza vittima.
La criminalizzazione dei “reati senza vittima” produce il crimine:
• la legge crea i criminali;
• la criminalizzazione spinge coloro che adottano il comportamento proibito a commettere reati che
sono collegati ad esso;
• la criminalizzazione, proibendo l’acquisizione legale di beni e prestazioni che sono desiderati da un
numero consistente di persone, sviluppa i mercati illegali gestiti dalla criminalità organizzata;
• l’esistenza di tali mercati illegali rappresenta un forte incentivo per la corruzione degli agenti
deputati al controllo sociale;
• le persone, entrando nel circuito penale, subiscono un processo di stigmatizzazione.
Non tutti i reati possono essere depenalizzati. Per evitare gli effetti più deleteri del controllo sociale occorre
allontanare le persone dal sistema penale, al fine di evitare:
• l’esperienza stigmatizzante del procedimento penale
• (per le persone condannate) l’esperienza negativa del carcere attraverso misure alternative alla
detenzione.
Alcuni studi hanno però mostrato gli effetti negativi delle politiche di diversion:
• l’allargamento della rete del controllo sociale
• il carattere selettivo delle misure di diversion.
• Allargamento della rete del controllo sociale à secondo alcuni autori le politiche della diversion non hanno
ridotto il ricorso a politiche di tipo penale ma si sono aggiunte ad essere allargando il numero di persone
sottoposte a controllo.
• Carattere selettivo delle misure di diversion à da alcuni studi è emerso come le politiche di diversion sono
utilizzate tendenzialmente nei confronti di alcuni gruppi sociali ed in particolare degli individui che si trovano
in condizioni meno deprivate dal punto di vista familiare, economico e sociale.
• Le istituzioni totali sono luoghi in cui le persone rinchiuse sono impossibilitate allo scambio sociale e all’uscita
verso il mondo esterno.
• In questi contesti sociali le persone subiscono un processo di mortificazione del sé (l’identità, di cui sono
portatori, viene sostituita dall’identità dell’istituzione) ed un processo di spoliazione dei ruoli (perdita
progressiva della capacità di interpretare adeguatamente i ruoli abituali es. lavoratore, genitore, studente, ecc.).
• Uno dei processi tipici dell’istituzionalizzazione è quello della “spersonalizzazione”: le persone internate, una
volta etichettate, assumano lo status collegato alla definizione della situazione e della identità che ne dà
l’istituzione, mentre tutte le altre caratteristiche personali sono messe in ombra.
Le politiche di deistituzionalizzazione propongono contesti più “naturali” e aperti per “gestire” le persone
• Pratiche di lavoro sociale che consentono alle persone di essere curate e assistite rimanendo a vivere nel
proprio ambiente sociale e familiare (assistenza domiciliare, servizi di educativa territoriale, servizi
psichiatrici territoriali, ecc.);
• Luoghi “aperti” di trattamento (comunità alloggio protette per pazienti psichiatrici, comunità alloggio per
minori, ecc.), luoghi in cui è favorito lo scambio sociale con il mondo esterno; tali luoghi sono destinati a
quelle persone che non possono, per varie ragioni, essere curate ed assistite nel proprio ambiente.
Alcuni assunti finali della teoria dell’etichettamento:
• La devianza è un comportamento diffuso in tutti i gruppi sociali
• con essa “è possibile convivere”.
• I teorici dell’etichettamento invitano alla tolleranza, a “non reagire in modo eccessivo” poiché il problema
non è la devianza ma la reazione sociale ad essa.
• Essi prendono in considerazione soprattutto i reati senza vittime

La misurazione della criminalità

Tre livelli di analisi della criminalità


Criminalità ufficiale: insieme delle condotte criminali registrate dalle forze dell’ordine, dalla magistratura e
dal sistema penitenziario.
Criminalità nascosta: insieme dei reati commessi in un certo contesto e periodo, ma non registrati e quindi
non conosciuti dalle forze dell’ordine.
Criminalità reale: insieme di tutti i reati commessi in un determinato periodo e in un certo luogo,
indipendentemente dal fatto che siano o meno oggetto di denuncia, di indagine da parte forze dell’ordine, di
condanna. Insieme di criminalità ufficiale + nascosta escluso gli eventi riportati come crimini, ma che non
risultano tali.
Ci sono cinque tipi principali di statistiche criminali ufficiali

Statistiche della delittuosità


Statistiche della criminalità
Statistiche processuali penali
Statistiche degli imputati condannati
Statistiche penitenziarie.
Statistiche della delittuosità: prodotte dalla Polizia, Carabinieri e dalla Guardia di finanza che mensilmente
trasmettono all’ISTAT l’elenco dei reati che hanno comunicato alla Autorità giudiziaria. Sono escluse le
contravvenzioni nonchè i delitti denunciati alla suddetta Autorità da altri pubblici ufficiali e da privati. Dal
2004 sono estratti dal sistema informativo Sdi della banca Dati Interforze e comprendono, oltre ai delitti
rilevati dalla Polizia di Stato, Arma dei carabinieri, Guardia di finanza anche quelli del Corpo forestale dello
Stato, della Polizia penitenziaria,della Direzione investigativa antimafia e di altri uffici.
Statistiche della criminalità: gestite dall’autorità giudiziaria che trasmette ogni trimestre i dati all’ISTAT. I
dati riguardano i delitti per i quali l’Autorità Giudiziaria ha iniziato l’azione penale. Sono desunti direttamente
dal sistema informativo per la gestione dei procedimenti in funzione presso gli Uffici Giudiziari (Re.Ge).
Sono poco utili nel rivelare il profilo degli autori dei reati in quanto un gran numero di denunce (nel 2000 il
77%) viene solitamente effettuato contro autore ignoto. Allo stesso modo l’86% dei reati per i quali l’autorità
giudiziaria ha iniziato l’azione penale nel 2000 era di autore ignoto.
Il problema della categoria “altri delitti”, che contiene tutti i reati non previsti dal codice penale, ma
istituiti attraverso leggi speciali. La categoria “altri delitti” raccoglie, in base ai dati del 2000, il 30% dei delitti
denunciati e il 3% dei reati per i quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale.
Difficili da comparare a livello internazionale.
Difficili considerazioni di lungo periodo o longitudinali.
Statistiche processuali penali: insieme dei procedimenti che costituiscono l’attività degli uffici dei tribunali
penali.
Statistiche imputati condannati: l’insieme degli individui condannati in qualsiasi fase o tipo di giudizio, con
riferimento al momento in cui, divenuto irrevocabile il procedimento di condanna, viene iscritto al Casellario
giudiziario centrale
Statistiche penitenziarie: dati raccolti dall’amministrazione penitenziaria sulla popolazione detenuta in
carcere, sulla sua variazione nel tempo, sul movimento dei prigionieri in entrata e in uscita dagli istituti di
pena, sullo status giuridico (quanti sono i detenuti condannati in via definitiva e quelli in attesa di giudizio) e
altre caratteristiche socio-demografiche di chi sconta la pena detentiva (sesso, età, titolo di studio, professione,
cittadinanza).
Due approcci possibili:
Approccio realista: le statistiche ufficiali, pur con dei limiti, possono costituire una buona descrizione della
criminalità reale e della propensione a commettere reati di certi gruppi (Coleman & Moynihan, 1996)
Approccio costruttivista: le statistiche ufficiali non possono descrivere la criminalità reale o la propensione a
commettere reati perché hanno troppi limiti (Kitsuse & Cicourel, 1963)
Si può sostenere in linea generale che le statistiche giudiziarie forniscono indicazioni dirette circa l’attività del
sistema di controllo formale della delinquenza, mentre le indicazioni circa la criminalità reale da esse fornite
devono essere attentamente vagliate e ponderate, e ciò specie nei campi in cui il numero oscuro è più elevato.
Regola di Sellin: la validità delle statistiche criminali come base per la misurazione della criminalità all’interno
di determinate aree geografiche diminuisce man mano che le procedure ci portano lontano dal reato stesso
Attori che “denunciano”: vittime/cittadini o forze dell’ordine, a seconda del reato.
Vittime/cittadini decidono di denunciare quando si spera:
 di ritrovare i beni sottratti
 di ottenere il risarcimento dell’assicurazione o il rilascio di un nuovo documento
 di favorire la cattura del reo.
Essendo espressione di un calcolo razionale, maggiore è la percezione della gravità del torto subito, più sarà
probabile la denuncia.
Ma sono anche rilevanti:
 lo spirito civico dei cittadini, vittime o meno
 il loro atteggiamento nei riguardi della polizia e delle autorità in genere (fiducia)
 le relazioni sociali che legano le vittime alle persone potenziali oggetto di denuncia
L’azione delle forze dell’ordine è selettiva, ovvero si concentra:
 su alcune fattispecie di reato,
 su alcuni ambiti territoriali
 su alcune categorie di soggetti.
Motivi:
 mantenimento di criteri di efficienza interni all’organizzazione
 motivi simbolici e di immagine
 cultura e prassi professionale operatori di polizia
Dopo la “denuncia”…
Registrazione;
Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità;
Processo penale;
Esecuzione della pena.
Le statistiche criminali non sono certamente la semplice espressione della criminalità reale, ma neppure una
concretizzazione dell’implementazione meccanica del diritto da parte di polizia e magistratura, perché
l’applicazione del diritto soprattutto in organizzazioni burocratiche di tale complessità, è sempre soggetta a
negoziazioni tra gli attori, a relazioni di potere, a interpretazioni spesso complesse dagli esiti non sempre
prevedibili.
Gli studi autoconfessione: indagini campionarie che utilizzano solitamente questionari strutturati e
autosomministrati attraverso cui determinati gruppi sociali “vengono invitati a rilevare la loro eventuale
partecipazione ad attività delinquenziali e, in caso affermativo, a fornire informazioni circa la frequenza e le
caratteristiche di tali attività, nonché eventualmente, le reazioni sociali e giudiziarie ad esse conseguenti.
Le indagini di vittimizzazione: indagini condotte intervistando un campione rappresentativo di persone di una
determinata popolazione (...) per individuare quali di queste siano state vittime, in un determinato periodo di
tempo (ad esempio, un anno o tre anni), di alcuni reati, per sapere se hanno sporto denuncia, per raccogliere
informazioni sulla dinamica del fatto (su quando, dove e come è avvenuto) e sulle conseguenze che esso ha
avuto.
Le finalità degli studi di auto confessione
Mostrare come la criminalità sia un fenomeno sociale ben più vasto e diffuso di quello raffigurato nelle
statistiche ufficiali
Ricostruire la distribuzione della delinquenza nei diversi gruppi sociali in base al genere, alla classe sociale,
all’età e all’appartenenza etnica, confrontandola con quella che emerge dalle statistiche ufficiali
Verificare la plausibilità empirica di determinate teorie sul comportamento deviante ed in particolare sulla
devianza primaria, ovvero quella che non è stata seguita da una reazione sociale stigmatizzante
Fare analisi comparate sulla distribuzione sociale della criminalità in vari paesi e valutare l’efficacia di
politiche di prevenzione in integrando il semplice indicatore della recidiva e fornendo utili indicazioni sui tassi
di prevalenza e di incidenza.
I limiti degli studi di auto confessione
Sotto/sovravalutazione degli eventi confessati
Metodo di campionamento e la numerosità del campione che spesso ha prodotto gruppi poco rappresentativi
Gli illeciti individuati nel questionario sono essenzialmente triviali, di scarsa gravità, mentre uno spazio
minore viene dato a reati importanti e questo può portare ad una distorsione nella rappresentazione finale. Altre
volte non viene esplicitato chiaramente il criterio per cui si selezionano determinati reati rispetto ad altri.
Pochi di essi riguardano crimini di impresa o familiari
Le finalità delle indagini di vittimizzazione
Indagare il numero oscuro per alcuni reati, l’estensione della vittimizzazione e la propensione alla denuncia
delle vittime
Scoprire chi sono le vittime di alcuni reati rispetto a sesso, età, classe sociale e appartenenza etnica
Capire perché alcuni soggetti vengono vittimizzati più frequentemente rispetto ad altri e perché altre persone
sono vittime ripetute di reati.
Raccogliere informazioni sulla paura personale del crimine, sulla preoccupazione sociale rispetto alla
criminalità, sulle esperienze di vittimizzazione, ovvero sui danni, economici, psicologici, materiali prodotti dal
crimine, sulle reazioni delle vittime e sul loro trattamento nell’ambito del processo di criminalizzazione, sul
significato che le vittime assegnano alla loro esperienza.
In alcuni casi forniscono indicazioni anche sull’autore del reato, se vi è stato contatto tra autore e vittima, e sulle sue
capacità professionali (ad esempio attraverso il rapporto tra delitti tentati e consumati). Sono infine utili perché
consentono, se ripetute nel tempo, uno studio diacronico dei tassi di vittimizzazione.
I limiti delle indagini di vittimizzazione
Possono essere condotte solo riguardo a reati chiaramente definiti dei quali la vittima ha conoscenza diretta,
come ad esempio lo scippo, la rapina, il borseggio o il furto di una bicicletta. Queste rilevazioni non sono
invece possibili per i reati senza vittima o a vittima anonima, quelli dai colletti bianchi (l’appropriazione
indebita o la corruzione) o i reati di controllo (i furti nei grandi magazzini e nelle aziende).
Spesso la numerosità del campione non è sufficientemente elevata per fornire indicazioni rispetto ad alcuni
reati non particolarmente frequenti e talvolta è alto il numero di persone che si rifiuta di rispondere al
questionario.
Vi sono dubbi sulla loro capacità di cogliere le diverse dimensioni del concetto di sicurezza.
SECONDA MODERNITA’ E NORMALITA’ DELLA DEVIANZA
i comportamenti considerati come problematici e/o meritevoli di controllo trovano radicamento all’interno dei
“normali” meccanismi di funzionamento del sistema sociale
Globalizzazione e seconda modernità
I comportamenti in questione vanno collocati nello scenario delle tensioni di tipo strutturale e culturale che
caratterizzano le società contemporanee.
Facciamo qui riferimento alle analisi della grande trasformazione che – in questa “seconda modernità” (Beck,
2000) – investe, in forme e intensità diverse, tutte le società: il “processo di globalizzazione”.
I caratteri di fondo della globalizzazione
 l’abbattimento dei confini per la finanza, le merci e le persone
 l’estensione delle possibilità di conoscenza e di esperienza
 la trasformazione del mondo in un villaggio globale (che consente cioè la partecipazione corale, attraverso i
media, agli avvenimenti ovunque accadano)
 la possibilità di comunicazione interpersonale senza ostacoli, senza tempi di attesa, senza discontinuità
 il mantenimento dei legami nonostante le distanze (con l’importanza delle comunità virtuali tra persone che
vivono lontano, come i migranti).
l’esaltazione del viaggio e dell’altrove
I tratti delle società post-moderne
(la modernità “liquida”)
superamento del modello di società industriale
 esaltazione della flessibilità e la perdita delle sicurezze (a partire dal posto di lavoro fisso)
 riduzione del sistema di garanzie (del Welfare State: la pensione, la sanità pubblica per tutti, servizi estesi e
gratuiti, ecc.)
 ridefinizione delle caratteristiche dei legami (durata, stabilità, interesse, contenuto)
 perdita dei riferimenti di valore condivisi per la pluralizzazione dei sistemi culturali cui ognuno può guardare
 riduzione di forza regolativa dei sistemi normativi (per venir meno dell’adesione morale).

L’individuo “ideale” della società


post-moderna
 libero (in quanto non più costretto a permanere in confini relazionali e culturali predefiniti)
 artefice e responsabile unico del proprio destino
 flessibile, che accetta cioè pienamente le sfide dell’incertezza, che accetta il rischio come condizione di
realizzazione
 slegato dai vincoli interpersonali impegnativi e duraturi
 insofferente verso vincoli sociali (le regole, le norme, i doveri)
 autoreferenziale ed egoista, in quanto titolare di diritti illimitati
 consumatore insaziabile di beni, ma soprattutto di sensazioni, che si devono rinnovare costantemente e che
debbono essere disponibili senza tempi di attesa.

Le conseguenze della postmodernità


Conseguenze a livello individuale, l’individuo è:
– smarrito, per l’eccedenza di stimoli, di opportunità
– inappagato, per il sentimento assoluto di deprivazione relativa
– incerto, per la pluralizzazione delle appartenenze
– solo, per la più frequente rottura dei legami interpersonali, e dunque più esposto al rischio di derive
sociali che portano alla marginalizzazione
– responsabile unico – agli occhi propri e a quello degli altri – del proprio fallimento
– fragile, più esposto al rischio di depressione, di disagio psichico, delle forme di automedicazione
Conseguenze sul piano sociale:
 il venir meno del senso di responsabilità verso gli altri, verso il bene comune, verso la società
 l’interesse strumentale per l’altro (meritevole di considerazione solo se è utile, se si può acquistare, se è
sfruttabile, …)
 l’assenza di identificazione forte, assoluta in qualunque istituzione (trionfo dei legami “deboli”)
 la percezione delle istituzioni come utili se rispondenti con immediatezza alle esigenze sentite di volta in
volta.
 la crisi della legalità percepita come ostacolo alla libertà individuale o al raggiungimento degli obiettivi di
possesso che paiono non comprimibili
 Conseguenze sul piano relazionale:
 la difficoltà nella comunicazione interpersonale profonda, (non ascoltare e non essere ascoltati, non
considerati
 l’indisponibilità verso le ragioni dell’altro in caso di disaccordo o di conflitto
 la considerazione della forza come mezzo per sciogliere nodi complessi, per risolvere conflitti
 la rabbia per le fonti di sofferenza, possibilmente da eliminare dall’orizzonte della relazione, da sopprimere
 la violenza (verso le cose, verso gli altri, verso se stessi) anche come forma di comunicazione (della propria
esistenza, del proprio malessere)

L’assoluta deprivazione relativa dell’individuo consumatore


Retorica della seconda modernità à esaltazione della libertà, ma di una libertà “condizionata”
dall’imperativo valido per tutti ad essere consumatori.
Partendo da questo presupposto possiamo parlare di “assoluta deprivazione relativa”.
Con il termine deprivazione facciamo riferimento al sentimento all’origine del tentativo di
procurarsi con mezzi illegali beni e sensazioni non accessibili diversamente.
Parliamo dunque di deprivazione relativa in quanto si fa riferimento a beni e sensazioni che non sono
“primarie” per l’esistenza umana (acqua, cibo), ma contemporaneamente consideriamo questa come
assoluta in quanto parte integrante della “normalità” in cui si muovono gli individui ai giorni nostri.
L’isolamento nel consumo e la necessità di accedervi nei tempi più rapidi possibili (con il
sentimento di ansia associato) diventa quindi un utile strumento di lettura di comportamenti violenti
spesso incomprensibili per le letture “classiche”.

L’esaltazione del viaggio e dell’altrove


Il tema del viaggio è importante in molte analisi della società globalizzata e si lega al discorso fatto sulla
totale esaltazione della libertà come principio assoluto della “modernità”.
In particolare siamo di fronte ad un discorso che esalta tutto ciò che evita la fissità, la stabilità, i
legami.
Questo tipo di riflessione contestualizzato in una situazione di evidente disparità nell’accesso alle
risorse ci porta ad individuare due modelli paradigmatici:
 Il turista à colui che viaggia perché lo vuole e per il quale il mondo è veramente
accessibile in modo globale
 Il vagabondo à colui che viaggia perché non ha altra scelta di fronte al quale si tendono
ad “alzare le barriere”
La “questione del rischio”
Il concetto di rischio tende spesso ad essere utilizzato quando si analizzano i “comportamenti
problematici”
Anche questo concetto come altri visti in precedenza appare come costitutivo nella “seconda
modernità”, tanto della devianza quanto della normalità.
In questa seconda accezione il rischio appare infatti come una delle caratteristiche fondamentali
della realizzazione dell’individuo postmoderno.
Tuttavia le diversità nelle situazioni concrete che si trovano a vivere gli individui fanno si che il
rischio possa essere vissuto:
 Come scelta per esistere
 Come condanna
Il rischio come scelta per esistere
 In questo senso definiamo il rischio come “scelta per uscire dalle routines, per ricercare un senso al
vivere”.
 In questo senso il rischio diventa un elemento di produzione di identità (Le Breton) le cui
componenti essenziali sono il viaggio e la ricerca dell’avventura, o, più in generale, la ricerca di luoghi e
scenari d’azione sia naturali che artificiali nei quali “attivare aspetti occulti ed inattivi del proprio
carattere” (Bauman)
 In questo scenario ritroviamo pienamente l’idea della violazione delle norme (sia giuridiche che
sociali) come caratteristica “naturale” della seconda modernità.

Il rischio come condanna


In questo senso consideriamo il rischio come “elemento che intrinsecamente connota il percorso
esistenziale dei poveri, degli esclusi, di coloro che sono costretti in una situazione di marginalità”
Questi individui sono condannati a correre rischi, sia di tipo materiale che di tipo psicologico, in
quanto sradicati dal proprio territorio di appartenenza (pensiamo qui in particolare agli immigrati),
privi di tutele e di riferimenti sociali.
Anche questi processi si inseriscono pienamente nel discorso sulla seconda modernità, in particolare
laddove si applicano alla condizione dei migranti che “creano problemi non perché diversi, ma perché
cercano di essere uguali”

La crisi della legalità


Crisi generata dall’ampia messa in discussione di ideologie e valori nella società occidentale à regole e
norme sono percepite come intralcio alla propria affermazione e ai propri interessi.
Attraverso l’applicazione efficace delle tecniche di neutralizzazione, di negazione e di
giustificazione alcuni crimini e criminali vengono percepiti come semplici “illeciti di mera trasgressione”
senza particolare riferimento al disvalore effettivo dei comportamenti messi in atto né alle conseguenze
dannose o offensive per le vittime.
In un contesto in cui l’atteggiamento culturale complessivo è fortemente improntato dal relativismo
morale, l’idea di bene comune diventa per molti vuota e insensata e la diffusione dell’illegalità viene
alimentata da:
– L’esaltazione dell’autonomia di scelta da parte del privato cittadino.
– La tendenza alla facile autoassoluzione
– La legittimizzazione alla disobbedienza alle leggi vissute come ingiuste
Presunzione dell’impunità

La violenza come mezzo di comunicazione e di soluzione dei conflitti


Molteplici forme di violenza che permeano i sistemi sociali e culturali:
 Violenza strutturale àesercitata da chi ha il potere economico e politico e dispone a suo
piacere di chi da quel potere dipende per la sua sopravvivenza;
 Violenza simbolica à imposizione arbitraria di categorie di pensiero e orientamenti di
valore e azione funzionali agli interessi dominanti
 Violenza istituzionale àstrumento utilizzato dalle istituzioni per imporre la propria
forza normativa
Nella “seconda modernità” queste forme di violenza, lungi dallo scomparire, si rinnovano,
divenendo meno visibili, più nascoste.
Le forme di violenza postmoderna nascono dalla privatizzazione, deregolamentazione e
decentralizzazione dei problemi di identità e dalla impossibilità di realizzare pienamente la libertà
agognata.
La violenza appare dunque sempre di più come forma di realizzazione di un sé che si sente
minacciato e che la considera un “normale” strumento di risoluzione dei conflitti.
A ciò si aggiunge l’influenza delle rappresentazioni mediatiche della violenza dove questa
appare sempre più come fatto normale.

Disagio del globale ed esaltazione del locale


Tendenze al rifiuto dell’altro, del “diverso”, dello “straniero”:
 che pure è ugualmente alla ricerca di realizzazione nel viaggio e nell’incertezza
 cui si attribuisce la responsabilità del proprio malessere (funzione di capro espiatorio),
soprattutto se troppo vicino
Rinascita dei localismi, di forme di aggregazione escludenti chi non è “dei nostri” (per nascita, per
cultura, per cittadinanza).

Tendenze al rifiuto dell’altro, del “diverso”, dello “straniero”:


 che pure è ugualmente alla ricerca di realizzazione nel viaggio e nell’incertezza
 cui si attribuisce la responsabilità del proprio malessere (funzione di capro espiatorio),
soprattutto se troppo vicino
Rinascita dei localismi, di forme di aggregazione escludenti chi non è “dei nostri” (per nascita, per
cultura, per cittadinanza).

La “normalità” della devianza


l’osservazione di alcuni dei meccanismi del normale funzionamento della società consente di
comprendere i connotati delle più diffuse forme di devianza.
Molti dei contributi sociologici hanno consentito non solo di riconoscere il carattere di “costruzione sociale”
di ciò che ogni società considera “deviante”, ma anche di leggere i fenomeni di devianza come articolazioni di
dinamiche sociali normali e di evidenziare la “continuità tra il  comportamento criminale e quello
«rispettabile»” (A. Giddens). 
A. Ogien: “Il sociologo ammette così una idea apparentemente incongrua: la normalità della devianza”.

La distinzione tra normalità e devianza


Il terreno su cui ci muoviamo affrontando questo discorso è un terreno insidioso e pieno di ambivalenze:
 Da un lato, osserviamo una perdita di confini netti e di differenze nelle motivazioni che sottendono i
comportamenti individuali, siano essi virtuosi o, al contrario, inaccettabili o illegali;
 Da un altro lato, tuttavia, non potremo ignorare che la distinzione tra normalità e devianza segna i
giudizi, le definizioni, le istituzioni e di conseguenza le relazioni sociali e i trattamenti rivolti a chi
con l’etichetta di deviante è connotato.
In una società che alimenta, nelle prescrizioni di ciò che è normale, auspicabile e doveroso per tutti, viene
compreso l’orientamento:
– alla trasgressione,
– alla ricerca del rischio,
– alla violazione delle norme,
– alla prevaricazione e alla violenza nelle relazioni interpersonali.
Questo fa sì che alcuni comportamenti messi in atto da determinate persone (o categorie di individui)
vengono dunque colti come meritevoli di riprovazione e trattamento (penale o terapeutico), mentre
comportamenti “sostanzialmente” simili oppure posti in essere da altri non vengono percepiti e trattati come
tali.

La costruzione sociale dei problemi


Differenze sostanziali esistono se si passa ad analizzare le modalità di costruzione sociale dei problemi
(ossia di definizione dei comportamenti e delle reazioni sociali conseguenti), nella loro selettività. 
Infatti, se…
– sempre più labili paiono essere i confini tra le motivazioni dei comportamenti conformi o,
all’opposto, dei comportamenti non conformi,
– sempre più numerosi i soggetti che nelle loro scelte quotidiane oscillano tra il permanere nella
legalità e il varcare il sempre più indefinito limite dell’illegalità…
… tuttavia
– ben diversi sono le conseguenze e i destini di chi quei comportamenti mette in atto a seconda della
sua collocazione sociale, del suo potere economico o della sua marginalità sul piano culturale e
relazionale.
– Si tratta dunque della nota distinzione tra aspetti sostanziali ed aspetti di “costruzione sociale” dei fenomeni e
delle categorie interpretative: le etichette di normalità (e la conseguente accettabilità) o, all’opposto, di
devianza (e la conseguente inaccettabilità) si applicano a comportamenti che, da un punto di vista sostanziale,
possono essere oggettivamente simili.
– Quello che cambia sono le definizioni che si applicano ai comportamenti stessi e la differenza nei
giudizi ad essi attribuiti con le conseguenze che questi hanno sui destini delle persone a cui si applicano.
“situazioni-problema” o “comportamenti problematici” determinano danni o disagi all’autore degli stessi o
ad altri, che ne divengono vittime.

Il processo di selezione dei problemi e dei comportamenti meritevoli di controllo


Se infatti esiste area estesa di comportamenti, espressione di adeguamento ad imperativi sistemici,
oggettivamente “problematici” (provocano danni concreti, definiscono situazioni di difficoltà o di rischio
vissute da vittime reali, limitano la libertà di altri individui, ecc.)…
… assolutamente non oggettivi sono invece i processi attraverso cui una parte di tali comportamenti
sono definiti e trattati come devianti o illeciti, mentre altri – oggettivamente altrettanto, se non più
problematici – vengono occultati, tollerati, a volte apertamente rivendicati come necessari o funzionali alle
stesse esigenze sistemiche.

Non solo l’appartenenza di classe …


Nella selezione dei comportamenti meritevoli di controllo sono considerati sia la qualità dei comportamenti,
sia (soprattutto) i soggetti che li pongono in atto.
Tuttavia, se il possesso o la mancanza di risorse economiche è ancora il criterio “principe” di
selezione dei destini individuali, elementi di complessificazione vanno segnalati:
 molti comportamenti problematici sono tollerati indipendentemente da chi li pone in essere, in quanto
coerenti e funzionali agli imperativi sistemici;
 alcuni comportamenti, caricati di valenze simboliche, rendono inevitabile il giudizio di condanna e
l’azione di repressione e/o trattamento indipendentemente dalle risorse di cui i protagonisti
dispongono (si pensi ai reati di abuso nei confronti di minori, alla pedofilia o ai fatti di sangue più
gravi).
… ma anche altri criteri di selezione
Al fianco del fattore “classe sociale”, altri criteri sovrintendono alla selezione delle devianze meritevoli di
attenzione, controllo, prevenzione, repressione, trattamento. Possiamo indicarne almeno sei, riferibili:
– tre alla natura dei comportamenti in sé considerati:
 la visibilità: la microcriminalità, i reati compiuti in strada
 l’espressione di disordine: le “inciviltà” come fonte di insicurezza
 l’eccezionalità, la “mostruosità” del fatto
– tre alle caratteristiche e agli atteggiamenti dei protagonisti:
 la ribellione e l’irriducibilità politica
 l’appartenenza alla categoria degli stranieri
 l’indisponibilità al ravvedimento

All’origine delle politiche di controllo


 Attenzione dedicata agli attori ed agli elementi che entrano in gioco nel formarsi o nel modificarsi degli
orientamenti delle politiche istituzionali di controllo dei comportamenti problematici, nel contesto
contemporaneo.
 Definizione di “politiche”: indirizzi e orientamenti operativi che uno Stato (nelle sue articolazioni di poteri e
istituzioni) assume in una determinata materia attraverso la sua funzione di legislazione, di governo e di
amministrazione nei contesti territoriali.

Law making / policy making


 Non coincidenza tra la produzione di norme e la produzione di politiche
 Distinguere tra le politiche enunciate, spesso definite da norme e leggi, e le politiche praticate.
 Le leggi possono essere sostanzialmente inapplicate o, all’opposto, si possono sviluppare politiche incisive
anche in assenza di una specifica legge o in presenza di una legge obsoleta.
 In qualsiasi settore si perviene a considerazioni diverse se si valuta l’impatto delle leggi che lo regolano o
invece l’impatto delle politiche poste in essere per fronteggiarlo.
 Le politiche come risultato di elementi diversi:
 gli indirizzi (intesi come vincoli e come risorse ed opportunità) contenuti nelle normative penali o
amministrative (quali quelle a carattere socio-sanitario) che regolano la materia o che, anche
indirettamente, possono riguardarne alcuni aspetti;
 i processi di applicazione di ogni specifica norma, ossia l’osservanza formale dei suoi dispositivi,
anche senza attenzione agli effetti che ciò produce e al raggiungimento o meno degli obiettivi
dichiarati;
 i processi di implementazione di ogni specifica norma, ossia la messa in atto da parte degli attori
istituzionali (dal decisore locale all’operatore impegnato nei singoli servizi) di strategie d’azione che
interpretandone le indicazioni e la ratio, perseguono gli obiettivi definiti nel dispositivo formalizzato
in un testo giuridico.
 non sempre una politica è qualcosa di così lineare: spesso essa è frutto della messa in campo, da parte di
istituzioni diverse, di un complesso di risorse, tecniche ed azioni che permette di perseguire determinati
obiettivi, in una sorta di “bricolage” estemporaneo che attinge a fonti normative diverse.
 Non bisogna dimenticare l’importanza delle prassi innovative che forzano i confini delle norme esistenti – in
forme e gradi diversi, fino a quella che è definita esplicitamente come “devianza amministrativa” (De Nardis,
1977) – o anticipano, in assenza di norme, quelli che potranno essere gli orientamenti istituzionali futuri.

Forme delle politiche


In senso forte ¨ In senso debole

Nazionali ¨ Locali

Pubbliche ¬® Espressione di società civile

Organiche ¨ Emergenziali

Reali ¨ Simboliche

Praticate ¨ Enunciate

Specifiche ¨ A-specifiche

Per capire le politiche occorre guardare…


 alle forme di “costruzione sociale” dei problemi, alla percezione degli stessi e delle loro cause a
livello di senso comune ed al ruolo che in tale costruzione svolgono i media;
 alle domande che, a partire da tale percezione, provengono dalle collettività locali in termini di
sicurezza, di controllo del territorio, di risposta a comportamenti considerati intollerabili;
 alle teorie scientifiche di interpretazione dei fenomeni di devianza e criminalità che appaiono in quel dato
momento più utili e funzionali;
 alle esigenze ed agli interessi che si esprimono nell’ambito del sistema politico e dei decisori pubblici a
diversi livelli;
 agli interessi ed alle prassi delle istituzioni chiamate ad attuare le diverse politiche ed in particolare alle
modalità in cui, nella fase di implementazione delle policies decise, si pongono i servizi e gli operatori che in
essi agiscono.

COMPORTAMENTO SUA DEFINIZIONE


COME DEVIANZA
PROBLEMATICO
COME PROBLEMA SOCIALE

REAZIONI SOCIALI
INFORMALI

INTERPRETAZIONI COLTE INTERPRETAZIONI DI SENSO COMUNE


PARADIGMI SCIENTIFICI E ASPETTATIVE DI SOLUZIONE
SAPERI TECNICI

MOVIMENTI SOCIALI
IMPRENDITORI MORALI
 Per ognuno degli elementi
SISTEMA POLITICO E
dello schema …
RELATIVI INTERESSI INTERESSI FORTI  media e senso
(CONSENSO / POTERE)
comune
 movimenti sociali
 saperi scientifici
PRODUZIONE NORMATIVA  sistema politico
(nazionale / locale)
ISTITUZIONI DELEGATE:
AGENZIE DI CONTROLLO
ISTITUZIONI DI TRATTAMENTO

APPLICAZIONE E IMPLEMENTAZIONE DELLE POLITICHE


 agenzie di controllo e istituzioni sociali chiamate a implementare le norme e a attuare le politiche
 … è rilevante osservare:
 come si configurano (ossia quali peculiarità li caratterizzano) nel contesto della società post-moderna
quali interessi, di conseguenza, li animano nell’affrontare i problemi socialmente costruiti come meritevoli di controllo
e dunque oggetto di politiche di prevenzione, repressione, trattamento

I contenuti delle politiche di controllo


I punti che caratterizzano gli orientamenti delle politiche di controllo nelle società contemporanee sono, in sintesi:
 il cambiamento nel “tono emotivo” della politica criminale, con l’enfasi sulla paura del crimine, che viene
nuovamente “drammatizzato”;
 la rivalutazione delle vittime, ma soprattutto il loro utilizzo strumentale come elemento di supporto a politiche
repressive;
 la politicizzazione della questione e la sua centralità nelle contese elettorali, in cui assumono rilievo crescente
parole d’ordine di stampo populista;
 sul piano dell’opinione corrente, l’abbandono della visione del delinquente come svantaggiato e bisognoso di
aiuto a favore di una immagine dello stesso come pericoloso e incorreggibile;
 anche nell’ambito del pensiero criminologico, il prevalere delle correnti di pensiero che vedono il criminale
come essere normale che razionalmente sceglie il male per una predisposizione a compierlo e per le
opportunità che gli si presentano;
 la diffusione delle posizioni (la cosiddetta criminologia attuariale) che teorizzano l’esistenza una diversificata
diffusione del rischio di commettere reati in gruppi diversi: le politiche di controllo vanno dunque orientate
prevalentemente verso quei gruppi;
 il riemergere del carattere essenzialmente punitivo della sanzione, della sua finalità retributiva e di una
giustizia che valorizza gli aspetti simbolici, espressivi e comunicativi della punizione;
 la rinascita della prigione come istituzione non più da superare o riformare, ma da valorizzare come strumento
di incapacitazione e di punizione, indispensabile per l’ordine sociale contemporaneo;
 il declino dell’ideale riabilitativo a favore del perseguimento di obiettivi come l’incapacitazione e la gestione e
riduzione dei rischi (politica attuariale)
 la protezione della sicurezza pubblica, la difesa dai potenziali rischi, come priorità, anche a costo del sacrificio
dei diritti civili e della tutela della libertà di coloro che sono sospettati metterla in pericolo;
 lo sviluppo di iniziative di prevenzione attraverso la valorizzazione delle capacità di autodifesa delle comunità
locali, la polizia di prossimità e i controlli di vicinato;
 il superamento del monopolio pubblico nel campo del controllo penale a favore del coinvolgimento degli
individui, delle comunità e delle imprese private nello sviluppo e nella gestione di attività e strutture di
prevenzione e punizione.
Le tendenze si concretizzano
… negli Usa, in Gran Bretagna, in altri Paesi dell’Europa occidentale in forme e gradi diversi, attraverso:
 gli orientamenti selettivi nel controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine (perseguimento di alcune
categorie di persone – in quanto, ritenute potenzialmente pericolose o anche solamente fastidiose – più che dei
comportamenti definiti come reati in astratto);
 l’estensione della logica della “tolleranza zero” a contesti e problemi diversi;
 la crescita dell’investimento di risorse nelle politiche penali a scapito delle politiche sociali
(ridimensionamento del Welfare – promozione del Workfare, come corollario del penale);
 l’enfatizzazione della paura del crimine nel discorso politico e lo sviluppo del cosiddetto “governo attraverso la
paura”;
 le trasformazioni del sistema carcerario:
 estensione della sua capienza (più carceri per più detenuti)
 cambiamento delle caratteristiche strutturali delle prigioni: strutture pensate per
l’immobilizzazione dei detenuti e il risparmio dei costi; privatizzazione della loro gestione;
 orientamento delle sue funzioni i direzione della incapacitazione (immobilizzando i reclusi)
e non più di riabilitazione
 gli investimenti nella ricerca sulle possibilità di controllo e di incapacitazione degli individui e delle categorie
pericolose in un contesto di rinnovata medicalizzazione della devianza (neuroscienze – genetica)
E in Italia…
 Segnali di “deriva” verso le prospettive sopra richiamate non mancano e sono – pur in misura diversa –
espressione di tutte le culture politiche
 Al proposito si veda, ad esempio:
 la rilevanza del tema della sicurezza (sempre declinata nel senso della insicurezza generata dalla
microcriminalità) nel dibattito politico
 i forti indizi di uso strumentale della “paura” e delle vittime per il governo delle contraddizioni sociali
 l’individuazione degli stranieri come “nemici opportuni”
 i contenuti dei cosiddetti “pacchetti sicurezza” e la centralità in essi delle azioni finalizzate a
reprimere i comportamenti delle figure del cosiddetto “disordine urbano”, in primis gli immigrati
 la drammaticità delle condizioni delle carceri che si popolano in maniera crescente di tali figure
 la risposta penale ai reati commessi da minorenni
 il trattamento dei consumatori di sostanze psicoattive illegali
 le modalità di considerazione e controllo della prostituzione di strada
 Ma significativi sono anche:
 i processi di decriminalizzazione dei reati dei “potenti”
 la perdita di incisività delle politiche di contrasto degli illegalismi diffusi
 gli scarsi controlli per i danni che si producono in contesti diversi da quelli della strada (es. sui luoghi
di lavoro)
 le forme di sfruttamento grave di persone approfittando della loro fragilità e marginalità sociale
IL TRATTAMENTO DISEGUALE DI MINORI ITALIANI E STRANIERI

MINORE ITALIANO MINORE STRANIERO

ARRESTO ARRÊSTO
 
C.P.A. C.P.A.
 
MISURE CAUTELARI: MISURE CAUTELARI:
- LIBERTÀ CON PRESCRIZIONI - AFFIDAMENTO A COMUNITÀ
- PERMANENZA IN CASA - CUSTODIA CAUTELARE IN IPM
- AFFIDAMENTO A COMUNITÀ
- CUSTODIA CAUTELARE IN IPM
 
INDAGINI: INDAGINI:
- SUI FATTI - SUI FATTI
- SULLA PERSONALITÀ
- SUL CONTESTO

- EVENTUALE MEDIAZIONE
RICONCILIAZIONE/RIPARAZIONE
 
PROCESSO: PROCESSO:
- VERIFICA DEI FATTI - RICHIAMO DEI FATTI
- ANALISI DELLA PERSONALITÀ - PRESUNZIONE CARATTERI
- LIMITI/RISORSE DEL CONTESTO DI PERSONALITÀ (sulla base di categorie - stereotipi -
pregiudizi)

ESITO : 
- IMMATURITÀ (INCAPACITÀ DI INTENDERE E DI ESITO :
VOLERE) - IMMATURITÀ (INCAPACITÀ DI INTENDERE E DI
- IRRILEVANZA DEI FATTI VOLERE)
- PERDONO GIUDIZIARIO - PERDONO GIUDIZIARIO
- MESSA ALLA PROVA - CONDANNA CON SOSPENSIONE
- CONDANNA CON SOSPENSIONE CONDIZIONALE CONDIZIONALE DELLA PENA
DELLA PENA - CONDANNA A PENA DETENTIVA
- CONDANNA A PENE ALTERNATIVE
CONDANNA A PENA DETENTIVA
GLI INDIZI DI DERIVA VERSO IL SENSO COMUNE PENALE

1. RAFFORZAMENTO DEL “DOPPIO PROCESSO PENALE MINORILE” CON MISURE PIÙ RIGIDE PER I MINORI STRANIERI
(ANCHE ESTERNE ALLA PROCEDURA PENALE MINORILE)
2. CAMBIAMENTI DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE MINORILE
 riduzione dei margini di discrezionalità nell’applicazione delle misure (ad esempio esclusione della possibilità
di messe alla prova per certi reati; maggiore definizione dei criteri per l’irrilevanza; ecc.)
 venir meno degli automatismi nelle attenuanti di un terzo per minore età;
 abbassamento dell’età dell’imputabilità;
 passaggio al carcere adulti al compimento del 18° anno se ritenuto utile
 ….

3. RIDEFINIZIONE DELLE FUNZIONI E DELL’ORGANIZZAZIONE INTERNA DEGLI ISTITUTI PENALI MINORILI


 minore apertura alle presenze esterne
 maggiore attenzione alle esigenze di sicurezza
 marginalità della componente trattamentale
4. PERDITA DI SPECIFICITÀ DEL SISTEMA GIUDIZIARIO E DEL SISTEMA AMMINISTRATIVO CHE GESTISCE LA DEVIANZA
MINORILE
 ridimensionamento competenze Tribunale per i minorenni (sua possibile definizione come sezione
specializzata del Tribunale ordinario)
 proposte di ridimensionamento Dipartimento della giustizia minorile
 collocamento dei CGM in contesto organizzativo non specifico

Ricerche e studi sulla prostituzione


Le ricerche e gli studi sulla prostituzione sono collocabili essenzialmente in due aree.
• 1. Ricerche e studi che hanno come oggetto gli aspetti fenomenologici della questione, con attenzione a:
– la quantificazione e le caratteristiche delle persone che si collocano nel mercato della prostituzione
– lo studio delle condizioni in cui vivono ed esercitano la prostituzione tali persone
– l’individuazione dei fattori che sono oggi all’origine di una domanda sempre rilevante di prestazioni
prostituzionali
– le reazioni e gli effetti sociali della presenza in molti contesti locali di un così evidente ed esteso
fenomeno.
• 2. Analisi degli aspetti di costruzione sociale del problema e delle conseguenti opzioni politico-normative,
con riferimento, in sintesi, a tre ordini di tematiche:
– le conseguenze in termini di allarme sociale della rappresentazione della prostituzione come problema
di rilevante gravità e come minaccia alla sicurezza della maggioranza dei cittadini
– gli orientamenti del dibattito circa le opzioni possibili e/o auspicabili in ordine ai quadri normativi di
riferimento
le concrete politiche di contrasto, controllo e intervento che attori istituzionali e sociali pongono in essere, a partire
dagli elementi di costruzione sociale del problema e nel quadro dei riferimenti normativi, interpretati alla luce degli
interessi di cui gli stessi attori sono portatori.
Gli aspetti meritevoli di attenzione
• Il fenomeno:
– a. l’offerta: i soggetti, le condizioni
– b. la domanda: i soggetti, i caratteri, le cause di persistenza
– c. i fattori causali
– d. le rappresentazioni del fenomeno
• Il quadro normativo:
– a. i modelli di rapporto stato – prostituzione
– b. l’evoluzione della normativa in Italia
– c. la legge Merlin
– d. le ipotesi di mutamento legislativo
– e. le innovazioni normative realizzate
– f. tra norme specifiche e norme “a-specifiche”
• Le politiche
– a. il rapporto tra retoriche e orientamenti delle politiche
– b. le strategie locali: i modelli
c. gli interventi sul campo: tipologie di azioni
L’offerta
L’offerta si caratterizza per una elevata differenziazione.
Le singole presenze sono il risultato dell’intreccio di elementi quali:

Femminile
Genere Maschile
Transessuale
Infantile
Età Adolescenziale
Adulta
Italiana
Straniera Est-europa (Albania / Romania /
Moldavia / Russia)
Nazionalità Africa sub-sahariana (Nigeria)
Centro e Sud-America (Caraibi / Brasile)
Altri (Maghreb / Cina)
Autonoma
Condizione MOTIVAZIONE
SOGGETTI in CONDIZIONE
Semi-autonoma FORME
(per bisogni/pressioni BENEFICIARI
psicologiche)
rapporto a scelta
COINVOLTI Coatta (coazione fisica/minaccia/patto vincolante)
BAMBINE/I E Impossibilità di Assente Tratta - coazione – “Professionali”: Terzi organizzati
Sfruttamento di terzi In contesto relazionale (compagno / marito / parente / amico)
ADOLESCENTI sottrarsi ad adulti violenza (in
Organizzato fisica e trattain/ strada
ambito o in
criminalità) - partner -
STRANIERE/I interessati a psicologica
Eterosessuale appartamenti famiglia
Destinatarisfruttamento
/clientela Omosessuale
Bisessuale
sistematico
Modalità di proposta a Diretta (strada)
BAMBINE
clienti / IE Coinvolgimento Induzione
Intermediata in “Artigianali”: in
(passaparola/mediatori/gestori Famiglia -
locali)
Mediatizzata (annunci/linee telefoniche/internet)
ADOLESCENTI in “lavoro contesto segnato da strada o in casa partner -
Strada
ITALIANE/I sessuale” per Casa bisogni
privataeconomici e propria o altrui minorenne
Luogo di esercizio Locali specifici (case di appuntamento)
assicurare deprivazione socio-
Locali a-specifici (club / massaggi / altri)
stessa/o
reddito ad adultiProfessionale
culturale
Forme di esercizio vicini e per la Saltuariamente regolare
Occasionale
sua stessa Tradizionale
Tipo di sopravvivenza
prestazioni
Le tipologie di prostituzione minorile:Innovativa
ADOLESCENTI Attività Specializzata
Autodeterminazione “Amatoriali”: in Minorenne
Basso / popolare
STRANIERI /E occasionale che Medio
Costo prestazione - marginalità
(per ambiente sociale strada o a
/ prestazioni) stesso/a -
affianca e integra - solitudine in
Elevato (per costi diretti e domicilio del
indiretti) occasionalmente
guadagni (scarsi) contesto migratorio clienteamici o altri
ottenuti in adulti -
contesto di indirettamente
economia famiglia
informale d’origine
ADOLESCENTI Offerta Autodeterminazione “Amatoriali”: in Minorenne
ITALIANE/I autonoma, - integrazione socio- strada, a stessa/o -
saltuaria o culturale - domicilio del occasionalmente
continuativa, di deprivazione relativa cliente o in amici o altri
scambio sesso- ambiti ad hoc adulti
denaro da (massaggi,
soggetti locali...)
La domanda
Sociologicamente i clienti non sono “segnati” da caratteristiche particolari, né sotto il profilo dell’età, né sotto quello
della classe sociale o della condizione personale. Si parla di “normalità” dei clienti e dell’appartenenza degli stessi ad
una pluralità di categorie.
L’interrogativo di fondo: come si può spiegare la persistenza di una forte domanda di prostituzione in un tempo in cui
sembrano essere venute meno pressoché tutte le condizioni che giustificavano la sua esistenza? Ad esempio, mancanza
di libertà nelle relazioni tra ragazzi e ragazze, assenza di educazione sessuale, indissolubilità dei legami matrimoniali,
ecc..
Le funzioni tradizionali della prostituzione erano, infatti:
- soddisfacimento dei bisogni “naturali” degli uomini, in tutte le circostanze in cui non potevano essere soddisfatti nel
contesto matrimoniale;
- iniziazione ed educazione sessuale;
- risposta a bisogni di categorie particolari;
- difesa della moralità;
- difesa sociale;
- difesa della stabilità delle famiglie.
Individui e sostanze psicoattive nella prospettiva sociologica
Quando analizziamo il consumo di droghe secondo una prospettiva sociologica, dobbiamo considerare tre elementi:
 le droghe (meglio le sostanze psicoattive) che vengono assunte dai consumatori al fine di sperimentare
determinati effetti psico-fisici.
 i soggetti che fanno uso di droghe
 il contesto sociale, culturale e normativo in cui avviene il consumo
Per comprendere, dal punto di vista sociologico, la questione bisogna quindi considerare che:
 il consumo di droghe illegali è un fenomeno sociale che coinvolge centinaia di migliaia di persone;
 le persone assumono le diverse sostanze psicoattive per ottenere determinati effetti;
 tale comportamento suscita differenti tipi di reazione sociale da parte dei membri non consumatori della
collettività;
 la nostra reazione al consumo di droghe dipende dai valori e dalle norme sociali a cui facciamo riferimento
quando valutiamo questo comportamento.
Di quali sostanze parliamo?
Ogni sostanza che la gente ritenga capace di alterare, quando è assunta, le normali (dal punto di vista della cultura
studiata) funzioni del corpo (fisiologiche e/o psicologiche) (Knipe).
Questa definizione consente di differenziare:
 le sostanze (come l’insulina, la penicillina, ecc.) usate con lo scopo di ripristinare o mantenere il normale
funzionamento del corpo,
 da quelle (come il caffè, il tabacco, ma anche i placebo) che sono assunte per modificare le normali funzioni
del corpo
E’ sociologicamente rilevante il concetto di “credenza” in merito al potere psicoattivo di una sostanza
Le sostanze psicoattive:
 sono assunte per ottenere determinati effetti
 gli effetti dipendono dalle proprietà farmacologiche della sostanza stessa.
Tali effetti sono però sempre mediati:
 dalle aspettative del consumatore,
 dal significato che egli attribuisce al consumo,
 dalle sue condizioni psico-fisiche,
 dalle modalità di assunzione adottate (via orale, via endovenosa, ecc.),
 dalla situazione in cui avviene l’uso,
 dalle norme e dai valori che regolano il consumo,
dalla reazione sociale attesa e/o sperimentata
 Il soggetto che fa uso di una o più sostanze psicoattive deve essere concettualizzato come un attore sociale
che agisce attribuendo alle proprie azioni un significato soggettivo (Weber).
 Agisce sulla base dell’intreccio tra:
 conoscenze, credenze e valori
 desideri e bisogni
 condizioni e opportunità
Ogni attore sociale è inserito ed agisce nell’ambito di un determinato contesto sociale e culturale che influenza i suoi
comportamenti.
Facendo riferimento a questa dimensione del fenomeno, l’attenzione si focalizza su (cfr. Teorie sociologiche):
 come la struttura sociale e culturale esercita “una pressione ben definita su certi membri della società tanto da
indurli ad una condotta non conformista anziché ad una conformista” (Merton 2000, 298);
 come le connessioni sociali (relazioni, gruppi, reti, organizzazioni), che collegano tra di loro gli attori, possono
favorire il consumo di droghe (si pensi, per esempio, al ruolo che si attribuisce al gruppo dei pari), come
comportamento che si apprende;
 come i meccanismi di interazione sociale ed i processi di stigmatizzazione del consumatore influenzano la sua
carriera di consumo;
 quali sono le norme sociali e i valori che influenzano il consumo di droghe nelle diverse situazioni sociali e
culturali.
Vi sono due modi rilevanti per classificare i diversi tipi di droghe:
 
 uno (di natura farmacologica) si basa sugli effetti che le diverse sostanze provocano sul sistema nervoso
centrale;
 l’altro (di natura sociale e culturale) si fonda sulla distinzione tra droghe il cui uso è legale e droghe il cui uso
è illegale.
Classificazione farmacologica
 Sostanze che deprimono il sistema nervoso centrale: bevande alcoliche, barbiturici, benzodiazepine, solventi. 
 Sostanze che riducono il dolore: oppiodi naturali (oppio, morfina, codeina) e di sintesi (eroina, metadone).
 Sostanze che stimolano il sistema nervoso centrale: anfetamine, cocaina, caffeina e nicotina.
 Sostanze che alterano la funzione percettiva: LSD (dietilamide dell’acido lisergico) e altri allucinogeni
sintetici, funghi allucinogeni, diversi tipi di cannabis.
Le funzioni sociali dell’uso di droga
Dal punto di vista dell’individuo, le droghe possono essere assunte per soddisfare svariati bisogni.
Il consumo di droghe può essere osservato anche “dal punto di vista della società” attraverso l’individuazione delle
funzioni sociali di tale comportamento.
Lo studio di differenti tipi di società ha consentito di individuare alcune funzioni (valori d’uso) prevalenti:
 terapeutica
 sociale
 strumentale
 rituale e religioso
alimentare
Il comportamento di consumo di droghe è sempre un atto a cui il soggetto attribuisce uno o più significati funzionali
(sia strumentali che simbolici) che possono cambiare nel corso della carriera di consumo.
Le persone assumono droghe per:
 facilitare le relazioni sociali
 appartenere ad un gruppo
 migliorare le prestazioni
 ricercare uno stato di eccitazione nelle attività di loisir
 ridurre stati di disagio
 modificare gli stati della coscienza
 sfidare valori dell’establishment
 L’Organizzazione Mondiale della Sanità (2004) definisce l’”uso” di droga un atto attraverso cui un soggetto si
“autosomministra una sostanza psicoattiva” senza subire effetti negativi.
 Tale comportamento diventa “abuso” nel momento in cui l’assunzione di droghe produce danni fisici,
psicologici e/o sociali sull’assuntore stesso.
 L’uso regolare e prolungato di determinate sostanze psicoattive può innescare nel consumatore il fenomeno
della dipendenza.
 Tre criteri sono utilizzati per definire il confine tra uso e abuso di droghe:
 Il criterio socio-culturale, viene definito abuso ogni comportamento che viola quelle norme sociali, ritenute
vincolanti dalla maggioranza dei membri di una collettività, che dovrebbero regolare - in una data società -
l’uso delle diverse sostanze;
 Il criterio legale, lo status del comportamento di consumo è definito dal sistema giuridico, cioè dalla norma
legale: viene etichettato come patologico l’uso di qualsiasi sostanza illegale, ignorando la dimensione storico-
culturale del fenomeno;
 Il criterio medico-biologico, è considerato un abuso ogni comportamento di consumo che si presume
determini un danno psico-fisico.
Distinzione tra problemi primari e problemi secondari.
Molti problemi connessi all’uso di sostanze psicoattive non risiedono nell’individuo o nel potere farmacologico
della sostanza ma rimandano all’interazione del soggetto con il contesto sociale.
Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM IV) individua gli indicatori della modalità compulsiva
d’uso della sostanza che è caratteristica della dipendenza:
 il soggetto può assumere la droga in quantità maggiori o per un periodo più lungo di quanto inteso in origine;
 Il soggetto, pur desiderandolo, non riesce a ridurre o controllare l’uso della sostanza;
Il soggetto spende una grande quantità di tempo nelle attività necessarie a procurarsi la droga, ad assumerla o a
riprendersi dai suoi effetti
Le attività sociali, lavorative e ricreative possono essere abbandonate o ridotte a causa dell’uso di droghe, in questo
modo tutte le attività quotidiane della persona ruotano intorno alla dipendenza
 La persona continua a fare uso di droga nonostante sia consapevole di avere un problema fisico o psicologico
causato verosimilmente dalla sostanza.
Gli effetti dannosi sull’organismo non dipendono soltanto dalle caratteristiche farmacologiche della sostanza assunta,
ma anche da una serie di specifici fattori che strutturano i diversi stili di consumo:
 la quantità di droga assunta (il dosaggio)
 la frequenza del consumo (episodica, saltuaria, regolare, ecc.)
 la modalità di assunzione (per via endovenosa, per inalazione, per ingestione, ecc.)
 la situazione in cui avviene il consumo
 le caratteristiche psicofisiche dell’assuntore
 la varietà delle sostanze assunte
 quando si assume una droga
 con chi si assume
Sono state elaborate diverse tipologie di consumatori che si basano (Ravenna 1997):
 sulle caratteristiche di personalità degli stessi,
 sul coinvolgimento nel consumo (consumatori saltuari, regolari, dipendenti),
 sul tipo di sostanza utilizzata (consumatori di droghe “leggere”, consumatori di “droghe pesanti”, ecc.).
Una distinzione rilevante da un punto di vista sociologico è quella che si fonda sul grado di coinvolgimento dei
consumatori nella subcultura della droga (Cloward e Ohlin) e sul grado di compromissione della loro funzionalità
sociale:
 i tossicodipendenti di “strada” (street addicts);
 i tossicodipendenti che sono in grado di mantenere uno stile di vita “convenzionale” durante la loro carriera
di consumo (sono in grado, cioè, di contenere l’impatto negativo della dipendenza sui loro funzionamenti
sociali) e di “entrare” ed “uscire” dalla dipendenza anche senza ricorrere al trattamento.
Non è vero, quindi, che la carriera dei consumatori di droga sia caratterizzata da un susseguirsi di fasi che conducono
inevitabilmente l’individuo alla dipendenza ed a “toccare il fondo”.
Fattori che possono aiutarci a comprendere le differenti traiettorie dei corsi di vita dei consumatori di droghe:
 il contesto sociale in cui la persona è collocata,
 le risorse di cui dispone ed è in grado di attivare,
il tipo di reazione sociale sperimentata.
tali soggetti sono in grado di gestire la propria “facciata” evitando di essere screditati in determinati ambienti sociali.
Può farlo nella misura in cui mette in atto strategie finalizzate ad esercitare un uso controllato.
Tale stile di consumo ha a che fare con:
 i metodi per procurarsi ed assumere la droga;
 i criteri per selezionare i momenti ed i luoghi in cui usare la sostanza;
 i modi per prevenire gli effetti indesiderati (malesseri, visibilità del consumo, ecc.).
I consumatori devono:
 organizzare la propria giornata in modo tale che il bisogno di assumere eroina sia fronteggiato senza
compromettere il regolare svolgimento delle normali attività quotidiane (necessario efficace
approvvigionamento della sostanza);
 maturare la consapevolezza e sviluppare la capacità di diversificare la quantità di droga da assumere
(dosaggio) in relazione ad ogni specifico contesto di consumo (tempi e luoghi).
 Studi realizzati sulla remissione spontanea e studi longitudinali realizzati su campioni di consumatori non
appartenenti a subculture devianti hanno evidenziato che quasi tutti i consumatori hanno mantenuto un’attività
lavorativa, pochissimi hanno avuto problemi con la giustizia: non hanno, cioè, compromesso i propri
“funzionamenti sociali”. Tali studi hanno dimostrato che la compromissione della “funzionalità sociale”
(spesso riscontrata nelle carriere degli ex-tossicodipendenti che si sono rivolti ai servizi) non è l’esito
inevitabile della carriera di un consumatore (anche di un tossicodipendente).
Tre fattori concorrono a determinare la condizione di vulnerabilità di un soggetto:

la disponibilità limitata di risorse di base necessarie alla sopravvivenza (reddito insufficiente, abitazione
inadeguata, ecc.)
la scarsa integrazione nelle reti sociali (lavoro, relazioni familiari e amicali): la disoccupazione o la
precarietà lavorativa, la scarsità di aiuti forniti dalla famiglia, dalle relazioni di vicinato, dalla rete dei servizi
rendono difficile l’integrazione sociale

le limitate capacità di fronteggiamento delle situazioni di difficoltà


Nelle società contemporanee le politiche sociali, sanitari e penali per affrontare il fenomeno del consumo di
droghe e delle dipendenze si strutturano in quattro modi (i quattro pilastri):
 la riduzione della domanda
 il contrasto dell’offerta
 il trattamento (cura e riabilitazione) dei tossicodipendenti
 la riduzione dei danni (dei rischi) associati all’uso di droghe
 I modelli di politiche(di rapporto tra Stati e sostanze psicoattive) oscillano tra
 Proibizionismo assoluto
 Proibizionismo “attenuato”
 Regolamentazione
 Nel dibattito scientifico e politico si discute dei vantaggi e svantaggi di
 Legalizzazione
 Liberalizzazione
 Per gli Stati obblighi derivanti da convenzioni internazionali
Le strategie di riduzione della domanda hanno lo scopo di evitare che le persone diventino consumatori di
droghe illegali:
 informando gli individui sui rischi e sui danni associati all’uso di sostanze illegali (il consumatore è un attore
razionale, se informato adeguatamente non adotta comportamenti dannosi alla salute)
 agendo sulle “cause” sociali del fenomeno per prevenire quelle condizioni che sono ritenute “fattori di
rischio”, “causa” del fenomeno stesso
 reprimendo l’offerta di determinate sostanze e sanzionandone il consumo (la sanzione dovrebbe avere uno
scopo deterrente)
Che cosa si intende prevenire?
Distinguere il piano morale da quello farmacologico, psicosociale e culturale
Opinioni diffuse ma scientificamente infondate:
 ogni uso di droga produce danni sia a livello individuale sia a livello sociale (ogni uso di droga è un abuso);
 l’uso di una sostanza psicoattiva illegale è sempre sintomo di una patologia sociale e/o individuale (paradigma
della patologia sociale);
 il consumo di droga è caratterizzato da un susseguirsi di fasi predefinite che conducono inevitabilmente
l’individuo alla dipendenza e a “toccare il fondo” (carriera “naturale”);
 esagerando i rischi connessi al consumo di determinate sostanze se ne scoraggia l’uso (significati del rischio).
Le strategie di prevenzione, che si basano su informazioni scientificamente fondate, devono innanzitutto
distinguere tra comportamenti di uso, abuso e dipendenza.
Le strategie di riduzione dei danni hanno lo scopo di contenere i danni ed i rischi, rendendo più consapevoli i
consumatori sui rischi ed i danni che sono associati ai diversi stili di consumo:
 evitando che i consumatori passino da stili di consumo non problematici a stili di consumo problematici (abuso
e dipendenza) (il passaggio non è inevitabile);
 evitando che i consumatori passino dall’abuso alla dipendenza;
 riducendo i danni associati alla dipendenza, evitando che i consumatori compromettano la loro condizione di
salute e la loro vita sociale e relazionale.
Possono essere distinte in:
 a. politiche “drug free”: i consumatori hanno il diritto di usufruire di determinate opportunità soltanto nel
momento in cui decidono di interrompere definitivamente l’uso di sostanze;
 b.politiche accompagnamento integrato: la presa in carico può prevedere interventi diversi in momenti
diversi della traiettoria di vita del soggetto, di tipo farmacologico e psico-sociale, con obiettivo primario la
tutela della sua salute e la maturazione di motivazioni.
Sono possibili forme di integrazione tra i due orientamenti.
Le politiche drug free spesso si fondano su una logica binaria (o sei malato o sei sano, o sei tossicodipendente
o sei astinente) esprimendo un modello normativo di salute come stato di completo benessere che è un
valore lontano dalla esperienza concreta di moltissime persone
La logica binaria non consente di cogliere un aspetto importante della salute: essa non è uno “stato”
ma una “capacità di risolvere i problemi e di gestire le emozioni, attraverso la quale si mantiene o si
ristabilisce una idea positiva di sé ed il benessere sia psicologico che fisico”
Tale capacità, nonché il capitale sociale necessario per risolvere determinati problemi variano da soggetto a
soggetto e possono essere conservati, distrutti o sviluppati durante il corso di vita.
Argomenti a favore del Proibizionismo
 Poiché i mercati legali promuovono la domanda di qualsiasi bene, il proibizionismo dovrebbe limitare la
produzione, il rifornimento e l’accesso alle droghe riducendo in questo modo i danni alla salute individuale e
pubblica;
 Sul piano simbolico la sanzione penale rafforzerebbe l’inaccettabilità sociale e morale del consumo di droga
Il proibizionismo, nel momento in cui “rende difficile” la vita ai consumatori, può favorire l’accesso ai servizi
sociali e sanitari
Argomenti a favore dell’antiproibizionismo
 I problemi collegati al consumo di droghe (come per esempio la criminalità) sarebbero in larga misura dovuti
al proibizionismo piuttosto che all’uso delle sostanze in sé;
 Un orientamento antiproibizionista risparmierebbe ai consumatori l’esperienza del carcere;
 Un orientamento antiproibizionista tutelerebbe i diritti civili dei consumatori;
 Un orientamento antiproibizionista consentirebbe di sottrarre la produzione, la distribuzione e la vendita delle
droghe all’attività criminale riducendo la violenza e la criminalità associate al consumo di droghe;
 Si ridurrebbe il sovraffollamento delle carceri;
 Il proibizionismo, “rendendo difficile la vita” dei consumatori e creando i presupposti per la costruzione
sociale di carriere devianti e criminali (street addict), distrugge quelle risorse (personali e sociali) che sono
indispensabili per affrontare adeguatamente le situazioni problematiche collegate al consumo di droghe
Le tappe della legislazione in Italia
 Legge 1041 del 1954
 Legge 685 del 1975
 Testo unico DPR 309 del 1990
 Referendum abrogativo di parti del testo unico del 1993
 Legge “Fini Giovanardi” Legge 49 del 2006

 Gli istituti penali minorili

Istituti penali minorili – IPM


Sono in genere abbastanza adeguate sotto il profilo strutturale3 e relativamente poco affollate,
gestite da operatori motivati o quanto meno sensibili, di solito “aperte” al territorio e dunque almeno in parte
“trasparenti” agli sguardi esterni.
i minori condividono con i migranti (a maggior ragione se le due identità, come succede spesso, si sommano) la
condizione di marginalità e l’impossibilità di far sentire la loro voce, anche quando oggetto di vessazioni o trattamenti
contrari ai principi del rispetto dei diritti. Non a caso della detenzione minorile si parla poco e le situazioni di acuto
disagio vissute dai detenuti in alcune
circostanze trovano modalità espressive solamente in episodi di autolesionismo o di ribellione diretta contro il
personale, mai in forme di protesta collettiva, come avviene a volte nelle carceri degli adulti.
a partire dall’inizio degli anni ‘90 è osservabile un andamento non lineare delle denunce, con alternanza di aumenti e
diminuzioni che tuttavia si sono verificati (ad eccezione degli anni 1999 e 2000) in misura abbastanza contenuta e che
dunque non segnano alcun serio aggravamento della problematicità della questione
La presenza di stranieri sul totale dei minorenni denunciati, se pur con qualche oscillazione, fino alla fine degli anni ’90
presenta un importante incremento, che si interrompe nel 2000 e 2001 per poi riprendere fino a sfiorare, nell’ultimo
anno disponibile, il 30% del totale.
a determinare l’alta percentuale di denunciati concorre sia il fatto che l’approdo alla devianza risulta fenomeno non
marginale nelle condizioni di molti ragazzi, soprattutto se privi del nucleo
familiare, sia che il rischio di denuncia per un minore straniero è decisamente più alto che per un minore italiano, per il
più intenso controllo sugli stranieri in generale e per la collocazione degli stessi in attività devianti più esposte
all’attenzione delle forze dell’ordine (si pensi allo spaccio in strada, frequentemente affidato a minori maghrebini).
La percentuale di femmine sul totale, in questi ultimi anni è oscillata tra il 20% dell’inizio degli anni ’90 al 16-17%
degli ultimi anni.
Quanto alla variabile età, possiamo affermare che, come non trova conferma l’allarme relativo ad un incremento globale
della delinquenza minorile, così non trova conferma la diffusa impressione di un costante abbassamento dell’età di
commissione di reati8: i dati disponibili relativi al numero di infraquattordicenni denunciati, pur con qualche
oscillazione, smentiscono questo allarme.
Per i minorenni italiani il discorso sull’abbassamento dell’età di commissione di reati è del tutto privo di fondamento,
almeno a osservare i dati delle denunce, sia in numero assoluto, sia in percentuale sul totale dei minorenni italiani
denunciati. E questo anche considerando l’andamento demografico, che anzi dimostra il contrario
Nel caso degli stranieri, nella determinazione del rapporto tra imputabili e non, risulta decisiva la presenza della
componente dei ragazzi Rom e Sinti, agli inizi degli anni 90 molto rilevante (tanto che vi erano più infraquattordicenni
che imputabili, con una forte presenza femminile), che progressivamente ha lasciato il passo a presenze di ragazzi
provenienti da paesi del maghreb e dell’est europeo, più grandi d’età.
Quanto ai Paesi di provenienza più rappresentati, nei dati sui minorenni denunciati è in forte crescita – negli anni più
recenti – la presenza di rumeni che costituiscono anche il gruppo più numeroso
Seguono i minori marocchini che tuttavia hanno una incidenza decrescente mentre molto rilevante è il cambiamento di
“peso” dei minorenni provenienti dalla ex-Jugoslavia (Rom essenzialmente)
Quanto agli albanesi, la loro presenza si è notevolmente ridimensionata
Centro di prima accoglienza10 (CPA
i CPA in Italia sono complessivamente 26 e, in rapporto agli IPM (che sono 18), sono più capillarmente
distribuiti sul territorio, essendo presenti in quasi ogni sede di Tribunale per i Minorenni (ad eccezione di
Bolzano, Brescia, Perugia e Campobasso)distribuzione geografica così sbilanciata verso il sud e le isole –
espressione della concentrazione di
situazioni di disagio e devianza in quelle aree Solo a Torino, Milano, Roma e Nisida (Na) sono presenti sezioni
femminili e dunque le pur poche minorenni in carcere rischiano facilmente di essere soggette ad
allontanamento dai contesti familiari e dai servizi del territorio in cui risiedono. I dati degli ingressi e delle
presenze medie offrono la possibilità di una analisi del ruolo delle istituzioni privative della libertà nel quadro
dell’insieme delle diverse risposte penali di cui il giudice minorile dispone e rappresentano dunque un
elemento essenziale del giudizio sulla efficacia dell’impostazione complessiva della procedura penale minorile
così come è stata elaborata alla fine degli anni ’80. Ne sono pilastri portanti la diversificazione delle risposte in
ragione non solo (o non tanto) del reato, quanto piuttosto della “personalità” del minore, e la “residualità” del
ricorso al carcere sia nella fase cautelare che come “pena” da comminare. I dati complessivi della numerosità
dei minorenni “ristretti” in Italia – se confrontati quelli di
alcuni altri Paesi europei12 – consentono di affermare che questi principi sono stati sostanzialmente rispettati.
Il più esteso ricorso al CPA per i minori stranieri è giustificato per il fatto che la decisione sul collocarvi o
meno un minorenne da parte del Procuratore, in caso di arresto o fermo, si gioca su pochi elementi, tra cui
ovviamente anche l’esistenza di genitori cui eventualmente – nel caso di reati di scarsa entità e gravità –
affidare il minorenne. L’assenza di documenti e di figure di riferimento fa sì che in molti casi sia inevitabile un
passaggio per il Centro, in cui effettuare almeno alcuni sommari accertamenti in attesa della decisione del
GIP sulle eventuali misure cautelari. la distribuzione dei ragazzi stranieri non è omogenea se si guarda alle
differenti realtà locali. Per questo è utile suddividere il totale nazionale per aree geografiche: mentre nel nord e
nel centro gli IPM sono quasi esclusivamente contenitori della devianza dei minorenni stranieri, nel sud e,
soprattutto, nelle
isole, permane una rilevante presenza di minorenni italiani implicati in forme diverse di attività illegali E’
facile constatare come sia diffusa l’immagine di istituti penali minorili che hanno obiettivi “rieducativi”,
essendo la finalità della sanzione – quando nella retorica pubblica si parla di minorenni – non tanto retributiva
o deterrente, bensì
appunto rieducativa. una rilevante maggioranza di minorenni sta in carcere in custodia cautelare, ossia in una
fase del processo in cui la sanzione non è stata ancora definita, la permanenza in carcere limitata nel tempo e
in, genere, motivata da esigenze di contenimento e da finalità connesse all’allarme sociale che le presenze di
minorenni che delinquono suscitano. la quota di individui presenti negli IPM pur avendo compiuto la maggiore
età (dunque i cosiddetti giovani adulti, 18-21enni) è piuttosto
rilevante. La presenza dei giovani adulti negli istituti per minorenni è oggetto da tempo – e con posizioni
piuttosto articolate – di riflessione. Se infatti non manca chi va sostenendo la linea del passaggio automatico
alle carceri per gli adulti di chi compie la maggiore età, molti altri – anche nell’ambito della giustizia minorile
– affermano l’esigenza di una riforma che eviti automatismi, consentendo una valutazione caso per caso,
soprattutto in aree in cui alcuni soggetti, anche giovani, presentano personalità e storie di rilevante “spessore”
criminale, e dunque possono influire molto negativamente sui “veri” minorenni con cui entrino in contatto.
Altri ancora sostengono l’esigenza di una più complessiva riflessione su possibili strutture per i giovani adulti,
considerando l’età 18-25 anni, con strutture e modalità trattamentali che maggiormente favoriscano processi di
reintegrazione sociale. Al 31/12/2007 il personale amministrativo e tecnico in servizio presso il Dipartimento
della Giustizia minorile era composto da circa 1500 unità (il 65% è personale femminile), con una copertura
dell’organico del 77%.Il personale di polizia penitenziaria ammontava a 852 unità (il 10% è personale
femminile) con una copertura dell’organico dell’85%. Ovviamente la presenza all’interno degli IPM di
operatori di area socio-psico-pedagogica è minoritaria in rapporto agli agenti di polizia penitenziaria, sia per
ragioni evidenti di copertura dell’orario complessivo, sia perché gli operatori dell’area, dipendenti dai Centri di
giustizia minorile (ad esempio gli Uffici di servizio sociale per minorenni – USSM), operano prevalentemente
nella cosiddetta “area penale esterna”. trasferimenti, la precarietà della presenza di alcune risorse formative e
di animazione esterne, la sanità e, infine, la difficile gestione dei conflitti, nella dialettica tra orientamenti
trattamentali e custodialistici. Dal punto di vista numerico, ossia delle presenze di detenuti negli istituti penali
minorili (una quota rilevante dei quali peraltro non più minorenni), l’Italia presenta numeri decisamente
inferiori a quelli di altri paesi e questo indubbiamente rende più gestibile il sistema nel suo complesso e le
singole strutture. Ciò non significa che non si verifichino a volte situazioni di momentaneo sovraffollamento
negli istituti minorili (con conseguenti trasferimenti). E proprio il tema dei trasferimenti sembra essere in
effetti uno degli aspetti che connotano criticamente il panorama che stiamo descrivendo17. Con queste misure
infatti rischia di essere messo in discussione il principio dell’importanza di mantenere e stimolare il
radicamento territoriale della presa in carico dei minorenni autori di reato, in una logica di collaborazione tra i
servizi della giustizia
minorile e i servizi sociali, formativi e sanitari degli enti locali. La questione riguarda in particolare i
minorenni stranieri, per i quali è più frequente che valgano le motivazioni che sovrintendono ai trasferimenti.
Essi avvengono infatti essenzialmente per motivi di sovraffollamento della struttura, per motivi di opportunità
o per motivi di
ordine e sicurezza (ovviamente previo nulla osta dell’A.G. che procede). Per quanto concerne gli sfollamenti,
sono richiesti quando il numero dei minori presenti supera la capienza complessiva dell'istituto e sono in
genere motivati non solo da motivi di vivibilità, ma dal rischio di tensioni e ingestibilità dell’organizzazione di
vita e delle attività all'interno dei gruppi in cui in genere sono suddivisi i minori. La scelta di chi inserire nelle
richieste di sfollamento, come previsto da apposita circolare ministeriale, tiene conto di diversi requisiti
(posizione giuridica, privilegiando appellanti o definitivi; assenza di colloqui diretti con familiari; mancata
elaborazione di percorsi educativi e di progettualità, cosa che riguarda in genere chi è entrato da poco tempo;
richiesta specifica da parte degli stessi minori per avvicinamento alla famiglia). L’allontanamento per motivi di
opportunità è richiesto per i minori la cui incolumità, all’interno di una certa struttura, potrebbe essere in
pericolo, mentre quelli per motivi di ordine e sicurezza hanno luogo quando avvengono episodi gravi che
turbano e mettono in crisi la sicurezza della struttura e dei minori presenti. Se i criteri che sovrintendono alle
scelte, nel caso dei minorenni italiani, appaiono sostanzialmente ragionevoli (soprattutto per quanto riguarda
gli sfollamenti e la protezione dei minori a rischio), per i detenuti stranieri si tratta di condizioni che spesso
rafforzano le difficoltà di relazione per l’avvio di una qualche progettualità condivisa che colga le esigenze
all’origine dei percorsi di devianza di molti di essi19. E’ vero infatti che proprio loro, certamente più degli
italiani, sono privi di riferimenti familiari e di radicamento sul territorio (almeno di un radicamento
“ufficiale”). Ma soprattutto, meno degli italiani, sono oggetto di una progettualità da parte dei servizi
ministeriali e territoriali, per le barriere culturali e relazionali che separano molto di frequente minorenni e
operatori. Di qui la presenza – spesso non problematizzata, ma assunta come “naturale” – di condizioni che
favoriscono i trasferimenti ordinari (in caso cioè di sfollamento). Peraltro le stesse barriere agiscono a volte
come elementi che scatenano reazioni di ribellione e prove di forza nei confronti dell’istituzione e del
personale di custodia precarietà, soprattutto in alcuni contesti20, delle presenze che svolgono funzioni di
animazione e attività di formazione professionale. Si tratta in genere di enti del territorio, pubblici o del privato
sociale, che operano attraverso opportune convenzioni e, spesso, nel quadro di protocolli di intesa formalmente
molto impegnativi per le parti contraenti. Il ridimensionamento delle risorse finanziarie che ha interessato in
questi anni sia l’amministrazione della giustizia, sia gli enti locali, ha progressivamente ridotto i margini di
disponibilità per queste convenzioni o per le iniziative sostenute dagli attori del territorio. A volte sostituite da
impegni di volontariato, di privati o di fondazioni, in alcuni contesti sono nettamente in sofferenza Sempre più
considerati indispensabili anche nella gestione delle dinamiche relazionali, sono invece spesso presenti solo “a
chiamata” e con funzioni più avvicinabili a quella del mediatore linguistico che a quella più complessa di
operatore coinvolto a tutti gli effetti. Il terzo fattore di problematicità riguarda lo stato della medicina
penitenziaria I problemi della sanità negli IPM si inseriscono all'interno della fase del passaggio di consegne
nella gestione della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Infine si possono
segnalare i problemi inerenti la gestione dei conflitti all’interno degli istituti penali minorili. Negli ultimi
tempi, in alcuni di essi, si sono prodotte situazioni di acuta crisi, rivolte e scontri aperti tra minori e agenti. Non
sono mancate forme di prevaricazione e negazione dei diritti minimi, quali quelle
che si producono nelle carceri per adulti il confronto di forza (in genere tra minorenni stranieri e polizia
penitenziaria) non è raro. Esso ha radici, spesso nella difficoltà di comunicazione tra due mondi che non
riescono a riconoscersi reciprocamente e dunque si scontrano alzando il livello del conflitto, con complesse
dinamiche di carattere pratico, ma soprattutto simbolico Tuttavia, in alcuni contesti, si tratta di conflitto più
profondo tra orientamenti, di scontro tra logiche trattamentali (sostenute dal personale dell’area socio-psico-
pedagogica) e logiche custodialistiche, con alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria in prima fila.
L’oggetto del conflitto, dal punto di vista formale, è di solito la non piena valutazione degli aspetti legati alla
sicurezza dell’istituto, che si tradurrebbe in una scarsa considerazione delle istanze della polizia penitenziaria
(che in genere denuncia l’insufficienza degli organici) a favore delle posizioni espresse dalla componente
trattamentale. La dinamica è solita: l’assegnazione alla polizia penitenziaria di incombenze connesse alle
attività trattamentali (in particolare di quelle che prevedono il frequente ingresso di soggetti esterni
all'istituzione) impongono impegni cui rinuncerebbero volentieri, soprattutto in presenza di detenuti più
problematici o valutati come non meritevoli della disponibilità dialogante, con conseguente irrigidimento del
sindacato che, in alcune occasioni, si traduce in un vero e proprio atteggiamento ostruzionistico, se non in
provocazioni nei confronti dei minorenni meno docili. Questo inevitabilmente fa aumentare la tensione,
produce episodi di ribellione e di violenza (quando non di autolesionismo) e di conseguenza giustifica la
richiesta di sospensione di certe attività, di rigidità delle procedure organizzative e di rafforzamento del ruolo
di contenimento. Si tratta di situazioni oggi ancora poco frequenti nelle istituzioni penali minorili, ma il rischio
che si intravede è che orientamenti culturali diffusi, quali quelli che si vanno delineando nella stagione
inaugurata dal nuovo governo, contribuiscano a fissare le relazioni – anche nelle istituzioni penali minorili – in
un circuito di rinforzo e di conferma dei ruoli (il detenuto e il suo custode) privo di sbocchi. Si pensi al
rafforzamento della percezione dello straniero come pericoloso e “nemico”, con l’implicita legittimazione delle
posizioni più rigide presenti tra le forze dell’ordine. Ma soprattutto si pensi alla legittimazione di
atteggiamenti, culturalmente e simbolicamente sostenuti, di rivalsa, di “retribuzione” e di espulsione di chi, in
un dato momento, è rappresentato come il male, la causa della insicurezza o comunque il non redimibile in
quanto troppo “lontano” sul piano della mentalità e degli stili relazionali o troppo problematico. E questo non
può che incrementare, da parte dei minori più difficili (stranieri o appartenenti alle culture mafiose), durezza e
provocatorietà negli atteggiamenti, mancanza di fiducia nell’istituzione e nei suoi rappresentanti e, di
conseguenza, assenza di interesse per proposte altre rispetto a quanto offre loro la permanenza nel circuito
delinquenziale. Dunque incrementare proprio l’insicurezza sociale che si vuol combattere.Il rischio di
consolidamento del “doppio processo”.
E’ ormai di alcuni anni la constatazione che esiste oggi, in Italia, un “doppio processo penale minorile”: uno che
riguarda i minorenni italiani, l’altro celebrato a carico dei giovani stranieri o nomadi. Tutti sanno quali sono le cause
della difficoltà di applicazione delle misure diverse dal carcere, previste dal codice, per soggetti che presentano
oggettive differenze di condizione rispetto ai ragazzi italiani (Scivoletto, 2000). Tuttavia questo dato appare spesso, per
routine o per convinzione, un paravento dietro cui nascondere la scarsa disponibilità alla ricerca di strade nuove e
possibili. I motivi sono diversi. Da un lato la presenza di problematiche non più interpretabili con le categorie
consolidate della cultura giuridica minorile, quali il disagio evolutivo, la responsabilità del contesto socioculturale, la
scarsa pericolosità sociale e la natura episodica del comportamento deviante. La giustizia minorile si trova cioè ad
affrontare e trattare un “oggetto” che si è andato differenziando secondo linee che si situano su piani diversi da quelli
più conosciuti. Dall’altro, la domanda sociale di controllo e contenimento delle forme nuove di marginalità e
trasgressione,
soprattutto quelle rappresentate dai soggetti non appartenenti alla cultura italiana, che attribuisce al giudice il compito di
rispondere ad esigenze di difesa sociale ed alla crescente domanda di sicurezza dei cittadini22. In questo contesto il
ruolo e la funzione del giudice minorile paiono sempre più caratterizzate da incertezza e oscillazione tra poli ideali di
riferimento contraddittori, tra percezione dell’inutilità e dannosità del carcere, aspettative rieducative riposte nel
contenimento, tentativi di favorire la responsabilizzazione dei soggetti, esasperazione per l’assenza di strumenti
adeguati, bisogno di riaffermare, attraverso la punizione, la norma violata, ecc. Egli avverte e misura concretamente che
la risposta flessibile e graduale, prefigurata dal codice con riferimento ai percorsi che soggetti, tendenzialmente simili,
possono compiere nel loro processo evolutivo, appare poco adattabile a percorsi diversi di soggetti la cui evoluzione
segue altre logiche, altri
tempi, altri bisogni. Attraverso le scelte della giustizia quotidiana (in particolare con riferimento ai “pesi specifici”
attribuiti ai diversi strumenti disponibili per rispondere al reato) si vanno modificando alcuni degli orientamenti
fondanti la cultura minorile più consolidata. Così è possibile osservare una ripresa della centralità del diritto penale, che
viene a costituire un “appiglio” apparentemente oggettivo e neutro, di riduzione della complessità, a fronte
dell’indeterminatezza dei riferimenti altri, ed una rivalutazione del ruolo del magistrato come titolare di funzioni
proprie, distinte da quelle di altre figure professionali, con un contestuale ridimensionamento della componente onoraria
Questa ripresa della centralità del diritto e del ruolo del giudice che lo amministra sembrano paradossalmente
manifestarsi contestualmente alla progressiva marginalizzazione del momento processuale vero e proprio (celebrato
sempre con molto ritardo e dagli esiti in genere poco significativi per lo più a causa dell’assenza degli imputati).
Non a caso assume rilevanza centrale la decisione in merito alla misura cautelare, assunta dal GIP
(monocratico) sulla base di scarni elementi tra i quali rischia di prevalere – secondo una logica “attuariale” diffusa nella
criminologia amministrativa contemporanea – l’appartenenza del soggetto alle categorie considerate fonte di problemi.
E sempre più spesso il richiamo retorico al carcere come occasione di aggancio e magari di riscatto per i minori più
inafferrabili sembra coprire l’obiettivo vero di contenere e limitare i danni sociali prodotti da soggetti sempre e
comunque considerati recidivanti e pronti a fuggire. La quotidiana esperienza dei Tribunali dimostra come si trattino i
soggetti stranieri e nomadi non in quanto individui ma in quanto appartenenti ad una specifica categoria. Dimostra come
la custodia cautelare in carcere sia il mezzo normale di trattamento della questione e che pressoché nessuno sforzo per
l’invenzione di percorsi diversi di interazione e di “patto” con questi individui così apparentemente “intrattabili” si stia
facendo seriamente. Dimostra come, al momento del processo, la personalità dell’imputato sia spesso “presunta” in base
alle caratteristiche attribuite in maniera stereotipata al gruppo di appartenenza. Dimostra come scarso o nullo sia
l’accompagnamento nelle fasi dell’iter processuale da parte dei servizi, assolutamente marginale sia, in genere, il ruolo
della difesa e la stessa presenza di interpreti non garantisca che l’imputato comprenda a fondo i significati delle fasi
processuali e delle misure adottate. Tutto ciò sostanzia e consolida un processo diseguale, nei fatti. Che potrebbe
diventarlo anche formalmente se, a fianco di una ripresa delle proposte quali quelle presentate nel 2003 dall’allora
Ministro di Giustizia Castelli, tendenti ad un irrigidimento della giustizia minorile (ridimensionamento del Tribunale
per Minorenni, riduzione delle attenuanti, limitazioni nella discrezionalità dei giudici, passaggio automatico dei
diciottenni al carcere per gli adulti), si introducessero novità prese magari a prestito dal “pacchetto” di misure in
discussione in questo periodo e che riguardano gli stranieri (aggravanti per clandestinità, espulsioni, restrizioni
nell’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative, ecc.). b) Il rischio di cambiamento nelle funzioni del
carcere minorile In questo contesto si avverte forte il rischio di un cambiamento delle funzioni degli istituti penali
minorili. Si tratta di processi già in corso in contesti nazionali diversi. In Italia possono essere ancora valutabili
solamente come orientamenti emergenti (su cui ho scritto in Prina, 2003), laddove la tutela degli interessi
dell’istituzione sembra prevalere sull’attenzione ai bisogni dei minorenni. Ne sono indizi preoccupanti l’enfasi sulle
esigenze di custodia e di ordine interno, la valorizzazione della componente del personale che ad esse è preposta il
frequente abbandono della logica del mantenimento quanto più possibile dei ragazzi detenuti nel territorio di origine, le
crescenti difficoltà a perseguire l’obiettivo di una integrazione dell’istituzione nel tessuto della comunità locale. E
d’altra parte, se la popolazione carceraria minorile è sempre più composta da individui senza radici e senza reti
relazionali (nelle realtà del centro-nord) e da minorenni coinvolti nelle pratiche dell’illegalità e – soprattutto – nella
cultura propria delle diverse forme di criminalità organizzata (nelle regioni del sud), è comprensibile che questi discorsi
possano facilmente attecchire e gli IPM possano, senza incontrare molte resistenze politico- culturali, cambiare la loro
natura e funzione. Così, nelle aree del Paese più toccate dalle trasformazioni dell’identità dei detenuti per quanto
riguarda la loro origine “etnica”, gli IPM rischiano di connotarsi in maniera pressoché esclusiva come contenitori
temporanei di gruppi di minorenni che recidivano nella commissione di furti (i Rom), nel piccolo spaccio di sostanze
stupefacenti (i maghrebini) o in altri reati predatori compiuti al traino di maggiorenni (i rumeni). Svolgendo
essenzialmente il proprio compito nella fase della custodia cautelare, con una funzione di mezzo di “neutralizzazione a
tempo”, di riduzione del potenziale offensivo degli appartenenti a categorie sociali considerate e rappresentate ad
elevata pericolosità sociale. In parte analogo e in parte diverso il discorso nelle aree segnate dalle presenze delle culture
dell’illegalità e del crimine organizzato, che accoglie ragazzi spesso aggregati in bande, sempre più frequentemente
oggetto di denunce per associazione a delinquere di stampo camorristico. un identikit del nuovo deviante: scarsissima
capacità dì comunicazione verbale e non verbale; assenza di etica; reazione violenta e quasi primordiale agli
avvenimenti; condizioni familiari e sociali disastrate; non di rado sottoposizione a situazioni di sfruttamento; sempre
più frequente collaborazione con adulti nella commissione di azioni delittuose; con la inevitabile conseguenza
dell'aggancio sistematico alle organizzazioni camorristiche. Una iniziazione che avviene il più delle volte in ambito
familiare, così come dalla famiglia i ragazzi sono addestrati ad azioni estorsive. Queste osservazioni sono confermate
dalla crescita di comportamenti caratterizzati da una forte carica di violenza e da una efferata crudeltà”.

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