Sei sulla pagina 1di 38

LEZIONE 4 OTTOBRE: Definizione Diritto e di cosa studiamo

Il diritto può essere uno strumento di oppressione, di subordinazione e di punizione ma può anche essere
uno strumento di rivendicazione, che si pone al servizio delle minoranze. È uno strumento che è in stretta
relazione con il potere perché anche quando il diritto è al servizio dei più deboli e non dei potenti, cambia i
rapporti di potere grazie a trasformazioni sociali che mutano l’equilibrio dei rapporti di potere stessi. Se
avviene un mutamento il diritto cristallizza e consolida la trasformazione. Ma la domanda sociologica è: è il
diritto che trasforma una società o la società che trasforma il diritto? Oggi assumono rilevanza crimini che per
molto tempo non sono stati riconosciuti come tali, come gli eco-crimini o i crimini di genere. È rilevante
anche il rapporto tra devianza e straniero. Simmel sosteneva che il concetto di “straniero” è una categoria
discorsiva che usiamo, ma nessuno è straniero in assoluto perché tutti siamo stranieri da qualche parte. Se
non c’è un contesto, se non c’è una relazione sociale non c’è lo straniero. È una costruzione sociale e
giuridica. Anche Basaglia pensava che dietro a ogni pazzo ci fosse un villaggio, perché se non c’è il villaggio
non c’è un pazzo. Nessuno è pazzo in assoluto, ma se messo in relazione ad una comunità con delle norme
consolidate, allora lo diventa. Ma come interviene il diritto? Più avanti tratteremo anche del Carcere, della
sua storia e delle trasformazioni, ma soprattutto vedremo come il Diritto si approccia e quali sono i diritti
dei detenuti, e quando inizia a formarsi l’idea di carcere come riabilitativo. Come pensava Goffman, la Pena
è uno strumento sociale di esclusione sociale, di degradazione di status e di etichettamento, un modo con
cui la società si difende da chi infrange le sue norme. Ma qual è il limite in un paese democratico oltre il
quale perde di senso il tema? La scommessa del diritto è quella di diversificarsi dalla violenza perché il diritto è
violenza ma è una violenza legittima, una violenza messa in forma, che è regolata e che deve strutturare i rapporti
sociali.

LEZIONE 5 OTTOBRE: Prospettiva Conflittualista


La Prospettiva conflittualista presta attenzione ai rapporti di potere, e parte dal presupposto che dove c’è
potere c’è anche resistenza, anche dove sembra che non ci sia la possibilità di reagire, come pensava
Foucault. Le persone credono nelle norme e vogliono trovare spiegazioni tramite un approccio eziologico,
che è un approccio che mira a rilevare le cause della criminalità. Le norme sono istituzioni, sono vincoli
sociali che vengono trasmessi di generazioni in generazioni, ma sono anche veicoli di socializzazione ,
modi in cui gli attori sociali trasmettono e ricevono valori. Le Istituzioni sono vincoli sociali depositati, che
vengono trasmessi, perché la loro funzione è quella di dare risposte preconfezionate alle questioni sociali
interpretandole come problemi, e anche perché si presentano come la soluzione per eccellenza. La
domanda, quindi, è: rispetto al disordine sociale, alla devianza e in particolare rispetto alla criminalità, che tipo di
soluzione ha trovato la nostra società? Ne può trovare altre? La pena si presenta come una soluzione ideale, così
come il carcere, ma esistono altri tipi di risposta o altre soluzioni? Foucault sosteneva che la riforma del
carcere nasce con il carcere stesso. A cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, nasce il Sistema Penitenziario in
senso riabilitativo. Prima era solo un sistema di reclusione. Tuttavia, oggi il tasso di recidiva è il 70%. Inoltre,
esistono tantissime variabili che il diritto, nel suo “gioco”, non prende in considerazione, che non considera
rilevanti, ma che poi, rispetto alla sua efficacia, sono determinanti.

LEZIONE 6 OTTOBRE: Seminario Cultura Giuridica e Sociologia del diritto


Il Seminario è incentrato sulla Cultura giuridica e sulla ricerca empirica che sono dei temi piuttosto centrali
nella Sociologia del diritto già da diversi anni. Il problema è di provare a guardare a questi concetti
attraverso dagli spunti della ricerca empirica qualitativa. Oggi faremo una lezione introduttiva su quello di
cui si occupa la sociologia del diritto, che tipo di ricerche vengono fatte in questo campo di studi, mentre
nella prossima approfondiremo alcuni concetti e parleremo in particolar modo sia di Cultura giuridica
definendo più precisamente il concetto su cui andremo a lavorare, sia di Campo giuridico, ovvero
cercheremo di capire quali sono i contorni del campo di studi. La prima questione da cui partiamo è: Cosa
significa guardare al diritto con uno sguardo sociologico? Qual è il ruolo della sociologia nei confronti del diritto?
Quale posizione ricopre il diritto nelle relazioni sociali? Cosa differenzia lo studio sociologico del diritto da quello
giuridico? In che modo il diritto cerca di ordinare la società e quali sono i suoi obiettivi? La Sociologia del diritto è
quella scienza che si occupa del diritto come modalità di azione sociale, ovvero studia il diritto come
fenomeno sociale (Ferrari). È un approccio che cerca di:
- comprendere come le norme influenzano la società;
- capire quali sono le ricadute che queste norme producono sui contesti entro i quali hanno vigore;
- qual è l’efficacia rispetto agli obiettivi che si prefigge;
- chi ha il potere di emanare le norme;
- capire come sono costruite le norme;
- quali variabili influenzano sia la formulazione sia l’applicazione delle norme.
Tutte queste questioni sono molto evidenti all’interno del discorso sul diritto penale e nel collegamento
diretto che c’è con la sociologia della devianza quando si affronta il tema della criminalizzazione, di
selettività del diritto e di come diversi livelli si situano tra la produzione del diritto e la sua concreta
applicazione. Quando si parla di Cultura giuridica si parla di attitudini, rappresentazioni, dei sentimenti dei
soggetti nei confronti del diritto, ovvero si parla sostanzialmente di come noi guardiamo al diritto, che
aspettative abbiamo nei confronti del diritto e come usiamo il diritto per dare significato alle nostre azioni.
Ma quando si parla di Cultura giuridica una delle domande che ci si pone è quale ruolo ricopre il diritto nelle
relazioni sociali, cioè qual è il ruolo del diritto nei confronti dell’uguaglianza o della riproduzione di posizionamenti di
classe, ma anche quanto il diritto è condiviso. La questione della condivisione, il fatto di credere nel diritto e
nella legittimità delle norme è importante ed è quello che ci permette di registrare lo scarto del paradigma
sociologico che vede la società come un insieme coeso, dove gli interessi sono condivisi, dove esiste
consenso nei confronti dell’ordine sociale, e in cui agiamo tutti nella stessa direzione per raggiungere degli
obiettivi comuni. Questo quadro, nella realtà empirica, crolla, perché in determinati gruppi una
determinata norma o uno specifico ordinamento potrebbe essere delegittimato e ritenuto non valido. Ad
esempio, la legge prevede norme specifiche sull’uso dei cannabinoidi, ma una determinata subcultura per
diversi motivi, potrebbe ritenere quelle norme ingiuste o non così legittime da essere rispettate. L’altra
questione che viene discussa all’interno del campo giuridico è il tema dello scarto tra la law in books e la
law in actions, cioè lo scarto tra il testo giuridico e gli effetti che la normativa produce concretamente
all’interno dei contesti sociali. L’altra questione che abbiamo anticipato è la differenza tra un sociologo del
diritto e un giurista. Principalmente il giurista vede il diritto come qualcosa di statico. Tendenzialmente nella
prospettiva giuridica il diritto è effettivamente inquadrato come una costante nella ricerca, una costante
non nel senso che rimane sempre uguale, ma nel senso che diventa quell’elemento sul quale si concentra
l’attenzione nel momento in cui vado a fare una ricerca. Il compito del giurista è fondamentalmente quello
di risolvere i quesiti interpretativi, di interpretare il linguaggio che il diritto usa. Da un punto di vista
sociologico invece il diritto viene percepito come una variabile che interviene con pesi, misure ed effetti
diversi all’interno dei diversi contesti sociali e cerca di comprendere quali sono gli effetti concreti del diritto.
L’esempio riportato oggi è il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri emanato il 26 aprile 2020,
appena dopo il periodo di lockdown, quando si erano delineate le prime misure di uscita, ad esempio
quando si potevano andare a visitare i congiunti, si poteva fare attività fisica all’aperto, e altre prime
aperture. Questo decreto è stato discusso molto anche e soprattutto dai giuristi. I primi punti del decreto
affermavano che ci si poteva muovere solo per comprovate esigenze lavorative o di necessità, che si poteva
andare a trovare i congiunti una volta al giorno mantenendo il distanziamento sociale con i dovuti dispostivi
di protezione con almeno un metro di distanza. In questo caso potremmo dire che uno dei temi più discussi
tra i giuristi riguardava la definizione di congiunti, perché si tratta di una definizione vaga. Oltre al coniuge si
può intendere anche come partner abituale, e se si cosa si intende per partner abituale? Questi tentativi di
precisare e di rendere il diritto più puntuale nel normare una determinata situazione e di provare a una sua
regolarizzazione, sono questioni tipiche e diffuse nell’analisi giuridica dei testi normativi. Cosa si intende per
assembramento, come si può produrre un ragionamento sulla gerarchia delle fonti, ovvero come questa si
situa nella gerarchia delle norme superiori, sono state questioni molto discusse durante tutto il periodo di
lockdown. Ma la domanda sociologica non riguarda direttamente questo, perché l’interesse sociologico è
capire cosa succede nel momento in cui si proibiscono gli assembramenti. Insieme alla norma però c’è
anche la dimensione del controllo, e il controllo è orientato sullo spazio pubblico, per cui l’assembramento
che non posso fare non posso farlo negli spazi pubblici, non in quelli privati. Un’altra questione che
riguardava il tema dei congiunti era che secondo il decreto era sempre consentito fare ritorno alla propria
residenza. Molti soggetti hanno quindi adottato uno stratagemma, cioè hanno cambiato residenza
indicando quella del congiunto, ma hanno tenuto il proprio domicilio, così da poter avere maggiore
flessibilità di movimento nel rispetto della legge scritta. Una buona parte della ricerca, storicamente, si
confronta con il modo in cui le norme vengono percepite dalla comunità, cioè indagano le opinioni riguardo
la legittimità delle norme. Si fanno queste ricerche a volte per criticare una o più norme esistenti, mentre
altre volte per affermare il consenso rispetto alla norma perché queste hanno bisogno di legittimarsi, hanno
bisogno di dimostrare che sono in grado di aggregare una certa dose di consenso.

LEZIONE 11 OTTOBRE: Ehrlich e la nascita della Sociologia del Diritto


Libro “Diritto come questione sociale” Il sociologo del diritto, a differenza del giurista, ha uno sguardo
interno al problema e pensa che non ci sarebbe crimine senza diritto, così come non ci sarebbe diritto senza
crimine. Il primo giurista e sociologo austriaco del diritto, che si interroga sulla distanza tra diritto reale e
diritto scritto è Eugen Ehrlich (1862 – 1922). La sociologia del diritto è la vera scienza del diritto e ha per
oggetto non solo il diritto valido per i tribunali e per gli organi di autorità, ma anche e specialmente il Diritto
Vivente che, non formulato in proposizioni giuridiche, regola tutta la vita sociale. Ehrlich quindi nella sua
opera “I fondamenti della sociologia del diritto” affronta alcune delle problematiche principali:
1) Il problema della determinazione dell’oggetto che caratterizza la sociologia giuridica, quindi che cosa è
diritto e cosa non è diritto.
2) Il problema dell’influenza dei valori sociali sullo sviluppo del diritto, quindi come il diritto evolve difronte
al mutamento sociale.
3) Il problema dell’effettiva rilevanza del diritto come strumento del mutamento e di controllo sociale,
ovvero se il diritto può produrre mutamento sociale e se è poi nella realtà efficace.
4) Il problema del potere di definizione di quali sono i reati, di che cos’è crimine e cosa no, cosa è diritto e
cosa no, quali sono le norme, e di stabilire soprattutto che questo è legittimo.
Cap. 1 La teoria delle Istituzioni
Il diritto è importante perché attraversa tutti i temi della sociologia, ma soprattutto perché crea delle
Istituzioni intorno alle quali si presume che si crei consenso sociale. Le istituzioni sono depositate nel
tempo, durano nel tempo e sono stabili e sacralizzate. Sono vincoli sociali e veicoli di socializzazione, e
formano identità collettiva con una cultura condivisa. Il ruolo del diritto nella società è di stabilire le
aspettative sociali e di far sì che si sviluppi senso di appartenenza e di integrazione sociale. Ma esiste una
differenza tra le aspettative sociali e le normative, così come esiste una differenza tra devianza e
criminalità. Noi ci aspettiamo che gli attori sociali si comportino secondo norme sociali che poi vengono
rese norme giuridiche e che si cristallizzano. Inoltre, un'altra domanda che la sociologia del diritto si pone è:
come si crea integrazione in un contesto di differenziazione profonda? La devianza disturba l’ordine sociale,
lo mette in discussione e in crisi. Apparentemente non ha funzioni positive. Tuttavia, Durkheim dimostra
che invece serva a rafforzare le norme vigenti.

LEZIONE 12 OTTOBRE: Integrazione sociale e Sociologia Carceraria


Nelle lezioni precedenti che fanno riferimento al Capitolo 1 e 2 del libro “Diritto come questione sociale”
abbiamo parlato di Integrazione sociale e di differenziazione sociale. Il problema sociale è come si fa ad
avere la prima se c’è la seconda? Come si costruisce e come si mantiene l’ordine sociale anche se le società
si differenziano? Come si mantiene l’ordine se non è più possibile dare per scontato che i valori e le
comunità siano omogenee? Quando si inizia a parlare di questo problema se ne parla perché è questo il
problema dell’epoca. La Rivoluzione francese e poi i movimenti dell’Ottocento mutano profondamente la
società e questo non spaventa solo gli studiosi ma l’intera società in generale. Se crollano le ideologie e le
istituzioni come si analizza la società? Quali sono le strategie che la società mette in atto o dovrebbe
mettere in atto per mantenere coesione sociale? La differenziazione sociale è il problema dell’epoca perché
la realtà si disfa, e il tema delle istituzioni diventa centrale, e il tema del diritto in quanto strumento che
rafforza e consolida e cristallizza le istituzioni diventa centrale a sua volta. In particolare, diventa rilevante
come le istituzioni acquistano solidità nel tempo e come si tramandano senza che nessuno le metta in
discussione. Tutti gli autori condividono l’idea che non è solo attraverso il diritto che noi riusciamo a
consolidare le istituzioni e mantenere l’ordine sociale. Il diritto dà solo, non è sufficiente per mantenere
coesione sociale, così come da sola non lo è la forza, perché il diritto è, nella forma della pena, forza e
violenza, ma è una violenza legittimata. La Sociologia carceraria nasce perciò dalla domanda seguente: in
un contesto in cui c’è una subordinazione netta di alcuni soggetti su altri, e in cui sembra che non ci sia
alcuna libertà di movimento e possibilità di rivendicazione, apparendo quasi come uno Stato Totalitario, c’è
resistenza? Foucault ci spiega che dove c’è potere c’è sempre resistenza, e se la resistenza non si vede non
è perché non c’è, ma è perché in quel momento non ha ancora trovato lo spazio per manifestarsi. Non
esiste quindi una condizione di potere assoluto. Le istituzioni sociali sono vincoli sociali perché danno una
gamma di possibilità di ipotesi d’azione, ma sono anche veicoli di socializzazione perché non le mettiamo in
discussione, perché ci vengono presentate come modalità di agire sociale preconfezionate e naturali.
Un’altra questione è che esiste una differenza tra problema sociale e sociologico, e questo diventa evidente
quando si discute di criminalità. Il problema sociale sottende una descrizione di valore, mentre l’analisi
sociologica deve indagare i fenomeni, deve essere avalutativa. La teoria costruttivista, infatti, prova a
spiegare questa differenza servendosi della differenza che esiste tra Criminologia e Criminologia Critica. La
Criminologia classica indaga le cause di un comportamento diverso dalle norme, ma sottende un’adesione
a valori comuni e naturalizza la definizione di reato. La Criminologia Critica invece si interroga sulla
definizione di reato e sulla definizione dei comportamenti come criminali. Parsons (1902 – 1979) si
interroga principalmente su come le norme sociali diventino giuridiche. Le istituzioni definiscono i limiti
all’interno dei quali è possibile scegliere cosa vogliamo e dei mezzi per raggiungerlo. Sono modelli normativi
che definiscono come bisognerebbe agire, e che sottintendono fini o valori comuni e omogenei alla
maggioranza degli individui. Il controllo istituzionale ha due funzioni principali: Primaria, perché le
istituzioni morali fanno sì che le persone siano motivate a seguire determinate norme e che le
interiorizzino. La Secondaria invece usa due strategie: quella premiale e quella punitiva.

LEZIONE 13 OTTOBRE: Luhmann


Luhmann definisce la società come un organismo complesso, cioè come un insieme di parti interconnesse.
A differenza degli altri autori mantiene la funzione puramente descrittiva della sociologia. Elabora quella
che ha chiamato la Teoria sistemica della società, in cui riformula il problema del se è possibile l’ordine
sociale. Le istituzioni non sono tanto un insieme di norme sociali, ma sono piuttosto un complesso di
aspettative di comportamento che diventano attuali in relazione ad un nucleo sociale e contano sul
consenso sociale. Un comportamento, quindi, può essere legale ma non legittimo. Da un punto di vista
sociologico le istituzioni sono un complesso di comportamenti stabilizzati e generalizzati: sono stabili e sono modelli
di azione condivisi e che godono del consenso sociale; sono vincoli sociali cioè definiscono i limiti entro i quali è
ammessa la scelta dei fini e quella degli strumenti utilizzabili considerati legittimi; sono risposte preconfezionate e
veicoli di socializzazione perché trasmettono norme che sottintendono valori.

LEZIONE 18 OTTOBRE: Nuovi e Vecchi diritti


Nel momento in cui il diritto viene legittimato il diritto diventa positivo. I diritti umani sono riconosciuti a
tutti in quanto appartenenti ad una società umana, e trascendono la cittadinanza. I diritti fondamentali
invece sono diritti che gli Stati riconoscono alle persone appartenenti alla propria comunità. Ci sono poi i
diritti civili, che sono diritti umani che garantiscono le libertà umane come il diritto di parola, e poi ancora i
diritti politici che sono diritti del singolo in quanto appartenente a una comunità come il diritto di eleggere
e di essere eletti; i diritti economici sociali che sono stati creato dal secondo dopoguerra al 1980, che sono
diritti per i quali lo Stato è chiamato a fare qualcosa, come ad esempio il diritto alla salute. Se manca una
cultura diffusa dei diritti nella società questi non verranno rispettati. Esistono tre categorie che definiscono
il diritto: la Legittimità, la Legalità e l’Efficacia. Come si fa a far sì che i diritti vengano rispettati? È il diritto
che influenza la società o viceversa? Il diritto è una costruzione sociale perché è la società che costruisce il
diritto. La sociologia del diritto studia la sua nascita e la sua istituzionalizzazione, perché esiste una
relazione molto stretta tra mutamento sociale e la nascita di un nuovo diritto . Essendo i diritti un prodotto
sia storico che sociale, esiste una differenza tra i vecchi diritti e quelli nuovi. I vecchi diritti nascono intorno
al concetto di uguaglianza di fronte alla legge, e ignorano la disuguaglianza economica e sociale e la
accettano; I nuovi diritti invece nascono intorno al concetto della valorizzazione delle differenze,
ricollocando l’individuo nel suo contesto sociale, storico ed economico. Tutelano la diversità e le
riconoscono. Tutto l’Ottocento fu caratterizzato da movimenti che chiedevano un cambiamento per portare
reale uguaglianza (Suffragette). A metà del Novecento invece nascono i nuovi diritti, che sono diritti
economici e sociali.

LEZIONE 19 OTTOBRE: Seminario su storia della Sociologia del Diritto e definizione


di Cultura e Campo giuridico
Oggi ci concentriamo sulla storia della Sociologia del Diritto: La scorsa volta abbiamo provato a definire la
specificità dello sguardo sociologico socio-giuridico rispetto a quello del giurista, cioè abbiamo visto come lo
sguardo del giurista vede il diritto come costante, che cerca di risolvere i quesiti interpretativi rispetto alla
norma. Lo sguardo sociologico invece guarda al diritto come una variabile e cerca di comprendere gli effetti
concreti del diritto. A questo proposito avevamo usato come esempio il decreto del 26 aprile 2020 e
avevamo provato a riflettere su cosa potrebbe chiedersi un giurista e cosa invece potrebbe chiedersi il
sociologo. Abbiamo visto quindi gli effetti che quel decreto ha prodotto rispetto agli obiettivi che si poneva.
La sociologia del diritto nasce in un certo senso quasi prima della sociologia, nel senso che già prima i
giuristi e gli scienziati politici si interrogavano sul diritto e si ponevano domande sul diritto nella società,
cioè cosa succede nel momento in cui viene emanata una norma, e domande sulla società nel diritto. La
sociologia del diritto è una scienza che studia il diritto come modalità di azione sociale, ovvero come le
azioni umane si ispirano e si significano rispetto al diritto, ma studia anche la posizione che il diritto
ricopre nelle relazioni sociali e quanto è condiviso. In poche parole, la sociologia del diritto studia la law
in action. Lo studio del diritto è perciò affrontato dai tecnici del diritto, dai giuristi che lo studiano in quanto
costante, con lo scopo di risolvere i quesiti interpretativi e hanno un compito sia descrittivo che prescrittivo.
Ma è anche affrontato dai sociologi invece studiano il diritto in quanto variabile, e cercano di comprenderne
gli effetti concreti, e il loro compito è tecnico e descrittivo. Per fare ricerca in sociologia del diritto è
necessario fissare l’oggetto di ricerca, esplorare il campo teorico in cui l’oggetto si situa, elaborare
domande e ipotesi di ricerca e individuare le tecniche con cui condurre la ricerca stessa. Un sociologo del
diritto italiano ha suddiviso la storia della sociologia del diritto in quattro fasi: La prima è collocata tra gli
anni 40’ e 50’ in cui la Sociologia americana, quindi l’Interazionismo, l’etnometodologia e in particolar modo
il funzionalismo, hanno una fortissima influenza. Queste guardano a dinamiche macrosociologiche in cui la
società è vista come un insieme organizzato e coerente. Ci si inizia a porre delle domande sulla legittimità
delle norme e su chi le produce, su chi le emana e come la società reagisca a queste. Alla fine degli anni 60’
poi invece gli approcci sono fortemente tecnici e politicamente impegnati, ed è in questi anni che avviene la
reale nascita della Sociologia del diritto. Negli anni 60’ le cose cambiano perché avvengono cambiamenti
importanti nella società che culminano nel 68’. In questo periodo si inizia a mettere in discussione l’ipotesi
funzionalista che vede la società come un insieme coeso. Inizia a essere riconosciuto il tema del conflitto
sociale, il tema delle disuguaglianze e questi macro-temi politici tendono a riflettersi anche su quella che è
l’approccio della sociologia. Nascono i primi Critical Legal Studies che sono approcci giuridici e socio-
giuridici che guardano al diritto da una prospettiva conflittualista, spesso marxista e che mirano a guardare
come il diritto riproduca il sistema sociale, come riproduca le disuguaglianze e come questa riproduzione
non sia a favore dei diritti. Si parla infatti di riproduzione di diritto borghese che legittima l’esistenza delle
disuguaglianze e di povertà.
Nella seconda metà degli anni 70’ la riflessione teorica generale funzionalista viene ripresa da autori come
Luhmann e Friedman, e viene trasformata. Friedman è il primo che prova a sistematizzare il concetto di
Cultura Giuridica, cioè prova a definirne i contorni. Secondo Friedman il termine è stato definito in maniera
molto vaga, per cui cerca di definire di cosa si sta parlando. Anche in questo caso la riflessione è molto
generale, ma iniziano a esserci qualche esempio su culture giuridiche di diversi paesi rispetto alla cultura
giuridica classica di matrice anglosassone. Ma solo negli anni 90’ la ricerca ritorna ad essere empirica
qualitativa perché il diritto inizia ad affrontare temi nuovi, come il diritto di cittadinanza in relazione
all’immigrazione, i diritti dell’ambiente e sulla diffusione delle tecnologie e quindi che impatto ha la
tecnologia sul diritto.
Autori come Garfinkel e Sacks hanno condotto ricerche sul ruolo dell’avvocato nel processo giuridico,
tramite osservazione partecipante, guardando alle dimensioni micro del diritto. In tutte queste ricerche, per
quanto ci siano approcci molto diversi tra loro tanto da sembrare discipline diverse, le domande sono più o
meno comuni: che effetti produce il diritto, quali dinamiche sociali vengono attivate in seguito
all’emanazione di una norma, quando la norma è condivisa, quanto è efficace, come si compongono le
deviazioni rispetto alle norme ovvero perché qualcuno decide di non rispettare la norma e come viene
sanzionato socialmente e istituzionalmente. Alcune riflessioni partono proprio dai concetti che usiamo, in
particolare partono dal concetto di Cultura Giuridica: è un concetto vasto, ma in generale studia i
comportamenti, gli atteggiamenti sociali propri del diritto. La Cultura giuridica è inserita organicamente
all’interno della cultura generale e indaga il rapporto tra norme e cultura. Nelken ci spiega che la Cultura
giuridica, fondamentalmente è nel suo senso più generale, un modo per descrivere delle modalità di
rivolgersi al diritto, dei comportamenti sociali, degli atteggiamenti sociali nei confronti sociali nei confronti
del diritto. È usato per studiare fenomeni diversi e eterogenei. Una prima distinzione è la differenziazione
tra Cultura giuridica Interna ed esterna. Quando pensiamo alla cultura giuridica interna noi facciamo
riferimento alla cultura giuridica propria degli operatori del diritto, che guardano ad esso da un punto di
vista tecnico (avvocati, giuristi, magistrati o legislatori). La cultura giuridica esterna è quella che possiamo
riconoscere al pubblico, che possiamo riconoscere a persone che inevitabilmente sono coinvolte nel diritto,
in quanto i loro comportamenti e la loro vita sociale sono regolati dal diritto, ma che non hanno nei
confronti del diritto questo approccio tecnico, cioè non maneggiano il linguaggio giuridico allo stesso modo
di chi è completamente inserito in quel campo, ovvero è una caratteristica delle persone che non sono
coinvolte nel campo giuridico in quanto specialisti del diritto. Ma quali sono in confini che delineano interno
ed esterno? Nelle teorie proposte vediamo che non è così semplice. Ci sono delle sfumature in mezzo. Ad
esempio, l’operatore di polizia locale ha a che fare con il diritto, lo conosce bene, ma non è un tecnico del
diritto. Il suo compito è quello di far rispettare la legge, ma non ha un approccio tecnico nei confronti della
norma in sé. Ci sono delle figure ibride che però non vanno a renderla completamente inutile la distinzione
tra interna ed esterna. In alcuni casi può essere utile perché gli atteggiamenti, le rappresentazioni, e le
pratiche che i soggetti mettono in atto variano a seconda del ruolo che questi ricoprono all’interno del
campo giuridico. Il modo in cui io mi comporto rispetto al diritto, l’immaginario che ho nei confronti del
diritto, ma anche le pratiche concrete che metto in atto sono diverse rispetto a quelle che potrebbero
essere proprie del giurista, perché il giurista ricopre posizioni diverse all’interno del Campo giuridico.
Riprendendo Bourdieu l’istituzione di uno spazio giuridico implica l’imposizione di un confine tra coloro che
sono preparati per partecipare al gioco e coloro che, quando vi si ritrovano gettati, ne restano di fatto
esclusi, privati della capacità di compiere la conversione dello spazio mentale, e privati anche della
posizione linguistica, che presuppone l’ingresso in questo spazio sociale. Fondamentalmente quello che ci
dice è che c’è un insieme popolato da soggetti che conoscono le regole del gioco e che hanno la capacità di
cambiarle, e che possono partecipare attivamente al gioco del diritto. Questi si differenziano da
quell’insieme di soggetti che, pur trovandosi gettati all’interno di quel campo perché coinvolti in un reato o
per un divorzio, non padroneggia i linguaggi, le modalità per usare il diritto e che perciò si trova nelle
condizioni di rivolgersi agli esperti. Quando abbiamo affrontato Luhmann abbiamo detto che secondo lo
studioso il diritto è uno strumento che riduce la complessità sociale. Questa definizione sottende l’idea che
entrare nel campo giuridico significhi tutelarsi, ma soprattutto l’idea che è fondante del diritto penale, che
ricorrere al diritto significa contenere o eliminare violenza che altrimenti si verificherebbe nel corpo sociale,
riducendo la potenzialità che questi si verifichino. Abbiamo anche detto che il gioco del diritto ha anche dei
limiti, perché il soggetto considerato è un soggetto astratto, e questo evidente nel caso ambientale o
tecnologico. In questo senso il diritto opera in relazione al nostro conflitto. Le prospettive che si sviluppano
in particolare sul diritto penale, di critica a questa prospettiva vanno in due direzioni: una è quella di
mettere in discussione che il diritto riduca la violenza, soprattutto nella logica secondo cui si riduce il
potenziale conflitto attraverso il diritto. Forse esistono altri modi di risoluzione, perché comunque la pena è
violenza legittimata. Il diritto quindi si autorappresenta come il sistema migliore per contenere la violenza,
ma è vero che se non ci fosse il diritto non si riuscirebbe a farlo? la seconda invece sostiene che questi
conflitti sono rubati dallo Stato, nel senso che l’interesse dello Stato è la riproduzione dell’ordine sociale e il
suo mantenimento anche a scapito degli interessi specifici della vittima. Lo scopo non è risarcire la vittima,
ma di riconvalidare in un qualche modo l’ordinamento giuridico. Lo scopo del diritto non è tutelare gli
interessi della vittima, perché i soggetti del e di diritto non è un conoscente, non è un parente, non è una
donna, non è un uomo. Quindi quando si entra nel gioco accettando di farne parte significa affidarsi al
diritto per regolare il conflitto. Ovvero io affido il mio problema allo Stato e accetto che lo traduca
attraverso il linguaggio giuridico in funzione dei suoi obiettivi, che sono quelli di ristabilire la norma, di
riconsolidare una norma che è stata empiricamente infranta. Molte delle prospettive abolizioniste del
diritto penale propongono l’idea che sarebbe opportuno a pensare altre soluzioni per risolvere i conflitti,
oltre a quelle giuridiche. È proprio questo che evidenzia la differenza tra Cultura interna ed esterna. La
ricerca sulle culture giuridiche aveva lo scopo di indagare la conoscenza del sistema giuridico, gli
atteggiamenti nei confronti del sistema giuridico da parte del pubblico e da parte degli operatori del diritto.
Ma come puoi pensare di risolvere il conflitto se non gestisci veramente quel conflitto? Perché attraverso il
linguaggio giuridico lo stai traducendo in un linguaggio semplicistico e non analizzi davvero le cause reali
che hanno fatto emergere quel conflitto. Quando parliamo di Cultura giuridica dobbiamo pensarla come
qualcosa che è organicamente inserito nella cultura generale, non è separata da quella che
sociologicamente e antropologicamente chiamiamo cultura. Attraverso questo concetto riusciamo a
riflettere se il diritto è trasferibile direttamente da un contesto all’altro. Ci si chiede se l’ordinamento
giuridico di un determinato paese può essere adottato da un altro paese immaginando che produca gli
stessi effetti. È evidente però che gli effetti che il diritto produce non sono uguali, perché il diritto viene
messo in pratica in maniera diversa. Il concetto di cultura giuridica è volta a indagare il rapporto tra norme
e culture, cioè tra aspetti giuridici e cultura generale.

LEZIONE 20 OTTOBRE: Seminario sul Caso ambientale


Come abbiamo accennato ieri oggi iniziamo la parte dedicata alle ricerche, andando un po' più a fondo sulle
tematiche che abbiamo introdotto. Oggi partiamo dalla questione dei nuovi diritti, iniziando intanto a
chiedere cosa e quali sono. Brevemente potemmo dire che sono anche definiti “Diritti della Terza
generazione”, e si distinguono da quelli della Prima e della Seconda in quanto si trattava di diritti individuali
e sociali. Vengono definiti di terza generazione perché i nuovi diritti prevedono nuovi soggetti del diritto ma
anche nuovi riconoscimenti a determinati soggetti. Marshall, che è un autore classico, parla di evoluzione
dei diritti in una prospettiva storica, e individua nel Settecento l’origine dei diritti individuali e il
riconoscimento della persona giuridica; nell’Ottocento individua invece la nascita dei diritti civili mentre nel
Novecento individua la nascita dei diritti sociali. Ma sono tutte categorizzazioni che sono utili fino ad un
certo punto, ma sono comunque diritti che nascono nella seconda metà del Novecento e che sono tuttora
oggetto di contese e di dispute. Oggi noi affrontiamo il caso ambientale. In particolare, ne parliamo in
riferimento ad un articolo di Rosalba Altopiedi che si chiama “Ambiente, giustizia e diritti”, e che offre una
panoramica su quanto è stato detto in tema dei diritti dell’ambiente. Riflette innanzitutto sul tema della
giustizia ambientale, che riguarda temi come lo smaltimento delle sostanze industriali come nel caso dei
pfas nel caso vicentino e gli effetti che questo comporta sulla salute sia della nostra generazione ma anche
futura. Da una parte c’è un tentativo di tutela dei diritti dell’ambiente attraverso normative che regolano il
rilascio rifiuti industriali; dall’altra parte c’è una rivendicazione collettiva di diritti dei soggetti che diventano
diritti dell’ambiente. La differenza chiave tra queste due cose è che ha a che fare con l’individuazione
dell’origine del danno. Da una parte c’è quello che potrebbe eventualmente declinarsi come crimine
d’impresa, mentre dall’altra la questione è più complessa, perché se noi pensiamo al problema del
riscaldamento globale, l’innalzamento delle acque o l’inquinamento atmosferico, sono elementi che sono di
forte rilevanza ma rispetto ai quali è difficile individuare una fattispecie di reato specifico, così come è
difficile individuare un responsabile e le vittime. Questi nuovi diritti e in particolare i diritti dell’ambiente
introducono nel campo giuridico dei soggetti nuovi, ed è un processo che testimonia la dinamicità del
campo giuridico. Le persone, le soggettività che oggi riteniamo soggetti di diritto non solo le stesse di ieri.
C’è un’evoluzione costante che tendiamo a vedere come estensiva nel campo dei diritti, anche se a volte è il
contrario nel senso che vengono attuati fenomeni di regressione, come nel caso dell’aborto. Questa
questione del soggetto di diritto è importante nel momento in cui iniziamo a guardare il diritto come
costruzione sociale. Essendo una costruzione sociale, viene a formarsi all’interno di dinamiche di potere e di
disuguaglianza, e questa in quanto costruzione sociale si estende in base a quello che succede, in base cioè
a quelle forze sociali che prendono forma all’interno della società. Un esempio sono i movimenti femministi
o ambientalisti. Riguardo i diritti dell’ambiente potremmo iniziare a chiederci che tipo di diritti vengono
riconosciuti all’ambiente, e soprattutto chi è il soggetto di diritto quando parliamo di giustizia ambientale, e
che tipo di forme di tutela vengono riconosciute. Il diritto in questo senso va a limitare determinate
condotte, ma il soggetto da tutelare non è sempre chiaro. Quando parliamo di introduzione dei nuovi diritti
sul tema ambientale, spesso di parla di un’introduzione di nuove forme di tutela che vengono configurate
sullo stesso piano dei diritti umani, come il diritto a vivere in un ambiente sano. In questo senso parliamo di
una novità abbastanza relativa perché il diritto all’ambiente non inquinato è da qualche anno che viene
rivendicato e praticato. Ricondurre il quadro dei diritti ambientali a quello dei diritti umani significa che in
un certo senso è l’ambiente stesso, o l’ecosistema a essere riconosciuto come soggetto giuridico, in quanto
meritevole di protezione. Questo è un salto paradigmatico rilevante, perché la questione è abbastanza
ambigua. La prima questione complessa è che non c’è una percezione diretta di quello che sta succedendo
e dei danni che questo produce a ciascuno di noi. Il tentativo di comprendere le dimensioni della
vittimizzazione, ovvero quanto qualcuno si percepisce come vittima, è complesso perché i rischi o i danni
non sono così facilmente conoscibili. Ad esempio, nel caso Eternit il riconoscimento del danno prodotto
dalla sostanza inquinante è stato riconosciuto molti anni dopo, perché lo svilupparsi della malattia non era
immediato. In questo caso quello che ci dice è che il diritto può cercare di regolare i fenomeni, ma fino a
che punto può intervenire? Anche quando consideriamo l’ambiente come vittima ci sono delle difficoltà
perché la natura non può difendersi e non può essere risarcita, inoltre è difficile definire la natura e
l’ambiente in termini giuridici. Nel caso pfas la definizione di cosa intendiamo come natura e cosa
intendiamo come ambiente; quindi, cosa consideriamo meritevole di tutela giuridica, si gioca sul piano della
contrattazione, sulla rivendicazione di necessità di tutela per determinati sistemi ambientali che sono legati
all’ecosistema, quindi alla salute e la possibilità di sopravvivenza della comunità. Se noi riconosciamo diritti
alla natura c’è una difficoltà nello stabilire quale sia il soggetto giuridico che può rivendicare il rispetto e
denunciare la violazione. La natura non può presentarsi in un’aula di tribunale . La seconda questione
complessa è che la natura non può agire autonomamente come attore giuridico, ma anche in questo caso il
ruolo delle comunità e dei soggetti che si sentono coinvolti in quanto parte di quel territorio ricoprono in un
certo senso il ruolo del mediatore. Quello di definire chi sia la vittima del reato ambientale resta uno dei
nodi nel dibattito sulla giustizia ambientale. Nel caso dei crimini di impresa invece c’è la possibilità che sia
riconosciuta una vittima e un colpevole. Nel caso pfas il processo si è appena avviato ma c’è un’ipotesi di sia
il colpevole. C’è uno stabilimento che ha versato dei rifiuti industriali nelle falde acquifere e nei fiumi, ed è
stato individuato un possibile responsabile, per quanto i processi del diritto in questo campo siano
abbastanza complessi. Però la cosa interessante è il fatto che nonostante sia possibile individuare un
colpevole noi tendiamo a pensare al crimine ambientale in termini di eventi che sfuggono ad alcune
normative, soprattutto nei processi. Però spesso il danno prodotto dai crimini d’impresa non ha a che fare
con un evento specifico, ma è parte del business as usual, cioè dell’andamento normale dell’attività
d’impresa. C’è un rischio calcolato rispetto a determinati tipi di produzione per cui c’è un potenziale di
rischio inquinante in un determinato processo produttivo e quello che si fa è di minimizzarlo pur sapendo
che il rischio esiste. Si parla in questi termini di conflitto tra economia e ecologia, ovvero qual è il sistema
valoriale a cui facciamo riferimento nello stabilire un grado di rischio o un danno accettabile, calcolando il
danno che possiamo permetterci. Ma anche qui, la definizione continua di questo danno si gioca su una
continua contrattazione tra chi produce quel danno e chi invece si percepisce come vittima . Inoltre, i danni
ambientali, sul piano macro, non sono tutti uguali, ma ripercorrono una certa geografia delle
disuguaglianze, tanto che si parla di zone sacrificabili, per parlare proprio dell’istituzionalizzazione delle
norme nelle forme di discriminazione ambientale. È reso accettabile, ad esempio, ridurre le precauzioni sul
lavoro, non limitare la costruzione di stabilimenti industriali e piantagioni, al di là del danno che queste
producono. Questo a che fare con la difficoltà di percezione di essere vittima, ma anche con la nostra
condizione di privilegio. Non si tratta solo di percezione, ma ha anche a che fare con la geopolitica della
distribuzione del danno. Ma quali sono i limiti del diritto quando si parla di giustizia ambientale? Le istanze
di giustizia ambientale per quanto siano continuamente rivendicate in questi ultimi anni, restano spesso
disattese perché il diritto è inadeguato a farvi fronte, ovvero non riesce a rispondere a questioni che hanno
a che fare con fenomeni complessi e a volte controversi. Pensiamo al dibattito sul riscaldamento globale e
quali siano le cause antropiche del riscaldamento globale. Come dicevamo prima c’è una difficolta a
individuare delle fattispecie di reato ed è anche difficile cristallizzare in fattispecie giuridica dei fenomeni
che sono appunto controversi. Al di là dei crimini d’impresa, ci sono alcuni temi che sfuggono molto di più.
Come può il diritto intervenire sul riscaldamento globale? Quando si parla di giustizia ambientale, come
dicevamo all’inizio, si va ad individuare quali siano i nuovi soggetti giuridici e quale sia l’oggetto ritenuto
meritevole di tutela. Questi nuovi soggetti giocano un ruolo importante nel processo di definizioni di cui
stiamo parlando, cioè da un lato c’è l’ambiente come entità giuridica, mentre dall’altra c’è un soggetto che
entra in maniera un po' marginale nel campo giuridico. Da un lato il diritto tende a riconoscere come
legittimo il ruolo della scienza e del sapere esperto che calcola l’entità del danno; dall’altra parte il ruolo
delle comunità tende va a controbilanciare questa definizione tecnicista del danno, ed evidenzia come il
danno non sia oggettivabile. Anche in questo caso il diritto si trova in difficoltà perché o fa riferimento alla
scienza che è riconosciuta come legittima, oppure si affida alle comunità per provare ad avere una risposta .
L’ultima questione ha a che fare con i tentativi di cambiare il diritto, il tentativo di creare un’ecologia del
diritto, cioè di cambiare quelli che sono le cornici normativi esistenti e di andare a scuotere questa stabilità
del soggetto giuridico e la modalità di rivendicazione del danno subito. Attraverso le prospettive della Deep
Ecology, un quadro teorico che riconosce un valore intrinseco agli esseri viventi e all’ambiente,
indipendentemente dal ruolo che questi svolgono rispetto all’umano. Dobbiamo tutelare l’ambiente in
quanto tale, non per le ripercussioni che potrebbe avere su di noi. Un esempio attuale è quello del disegno
di legge che tutela le aragoste, i polpi, i gamberi e le seppie in quanto esseri senzienti che provano dolore.

LEZIONE 25 OTTOBRE: Ordine e Norme sociali e introduzione agli autori


L’ordine sociale è un assetto normativo, è un Insieme di norme sociali socialmente e storicamente condivise
che ci permette di gestire le nostre interazioni quotidiane in base alle aspettative sociali. Il rispetto
dell’ordine sociale, quindi, permette di mantenere lo Status quo. Le Norme sociali definiscono la possibilità
di agire socialmente entro contesti precostruiti, la possibilità di agire in modi socialmente condivisi
limitando così l’incertezza. Le norme sono stabilizzate storicamente attraverso il diritto e la definizione di
devianza si fonda proprio su questo, perché è definito devianza ciò che viola dagli assetti normativi. La
Devianza è una violazione che incide sugli aspetti normativi dei rapporti sociali perché viola le aspettative
della norma sociale, ma perché vi sia devianza è necessaria una punizione, è necessaria una reazione
sociale. In caso contrario è solo un comportamento bizzarro. Nell’Approccio Interazionista e Costruzionista
di Goffman, nessun comportamento è intrinsecamente deviante e criminale. Non esiste il soggetto
deviante, esiste un contesto che definisce chi sono i devianti. La devianza è perciò relativa, perché non esiste
in natura, così come non esiste in natura la criminalità. Un soggetto può appartenere a contesti sociali
diversi con norme sociali diverse e risultare deviante in un gruppo ma non in un altro. Ciò significa che la
devianza per esistere necessita di una interazione sociale. L’approccio conflittuale di Becker invece spiega
che un individuo devia all’interno di un assetto di potere. Quelli che sono ai margini del potere sono i
devianti. È chi ha il potere, infatti, a stabilire cosa è deviante e cosa non lo è, in questo caso gli uomini
decidono per le donne, i bianchi decidono per i neri e gli adulti per i bambini. Chi dispone di più risorse può
agire al di fuori di un contesto sociale senza suscitare una reazione sociale. Durkheim, dopo aver
identificato nella rottura del legame sociale l’elemento costitutivo di ogni comportamento criminale, coglie
nella sanzione inflitta al reo una sorta di rituale collettivo, in grado di ripristinare simbolicamente questo
legame. Lo scopo più profondo della sanzione non è quindi quello di punire i soggetti, ma piuttosto quello di
rafforzare i vincoli sociali, riaffermando il valore delle norme condivise dei comportamenti individuali a esse
conformi.

LEZIONE 26 OTTOBRE: Teorie della Devianza


Capitolo 1 Sociologia della Devianza: Nelle lezioni precedenti abbiamo detto che per l’approccio
interazionista la devianza e la criminalità si costruiscono solo all’interno di una interazione sociale, mentre
per l’approccio conflittualista la società non è ordinata anzi il conflitto è un elemento che in società è
sempre e da sempre presente, conflitto inteso nel senso che tra le parti che compongono la società c’è una
profonda differenziazione sociale e questa che comprende cultura, valori e norme, si colloca all’interno di
una struttura sociale che è ovviamente differenziata dal punto di vista delle risorse, non solo materiali ma
anche simboliche. Ma prima di questi due approcci, quello Funzionalista era dominante. Questi due
approcci sono riconducibili ad alcune domande che gli autori si pongono: che funzione ha la devianza, a
cosa serve, perché in tutte le società sono presenti comportamenti devianti, come il sistema reagisce ai
comportamenti devianti. Non dicono semplicemente che la devianza è un problema, ma articolano la
questione. Durkheim, infatti, riconosce nella devianza una funzione positiva in quanto mantiene l’ordine
sociale, ma anche prescrittiva grazie all’uso della sanzione e alla funzione della pena. Ma Durkheim
riconosce che la definizione di devianza è ambivalente, perché il criminale è un elemento costitutivo
dell’ordine sociale. Non si chiede quali siano le cause ma si chiede quali siano i suoi effetti sui processi
sociali che definiscono i valori di una determinata società. Parlare di conflittualità da un punto di vista
sociologico non significa semplicemente individuare gli aspetti e i problemi che, all’interno della società,
creano una situazione di conflitto tra individui o gruppi, ma significa cogliere la natura sociale di questi
aspetti e problemi, cioè significa individuare nella società non solo un luogo in cui il conflitto si manifesta,
ma anche da quale complesso di fattori si genera. Durkheim nei suoi studi introduce il termine di Anomia,
indicando con questo uno stato di carenza normativa che si crea quando in una società si indebolisce la
coesione tra i suoi membri, che non è altro che il presupposto necessario per la formazione di valori e
sentimenti comuni. L’anomia priverebbe gli individui di quelle direttive in grado di mantenerne la condotta
entro limiti appropriati e favorirebbe la disgregazione morale della società e l’insorgere di comportamenti
pericolosi per sé e per gli altri. La concezione di Anomia contiene alcuni spunti importanti per lo studio del
conflitto sociale perché ci suggerisce che la causa profonda di questi eventi risiede nella società e non
nelle persone. Anomici non sono gli individui con i loro comportamenti o i loro tratti di personalità, ma
piuttosto i contesti sociali in cui vivono. Durkheim pensava che questa condizione di carenza normativa non
fosse strutturalmente connessa alla vita sociale, ma che potesse verificarsi in determinate momenti storici
caratterizzati da mutamenti particolarmente rapidi e radicali, ma questa è la condizione che lui vive. Il
compito della sociologia dal punto di vista funzionalista è di riaffermare la fondamentale coesione e unità
organica del corpo sociale, contro ogni tendenza anomica.
Nel primo capitolo si affronta il rapporto tra devianza e ordine sociale, ovvero come la devianza emerge
come oggetto specifico della sociologia, e non della criminologia o del diritto o della psicologia. Gli autori
che si affrontano nel primo capitolo sono: Durkheim che tratta di differenziazione sociale, di coscienza
collettiva, dell’anomia come mancanza di leggi ma anche dell’ambivalenza che riconosce al concetto di
devianza come fatto sociale. Cerca di rispondere alla domanda che assilla anche gli altri autori, cioè a cosa
serve la devianza, se serve per la coesione sociale, per il cambiamento sociale e quali funzioni ha. La
devianza per Durkheim paradossalmente riproduce la realtà sociale perché se non c’è violazione della
norma non c’è cambiamento, ma è anche rendere più coeso il gruppo sociale. Il criminale è un elemento
costitutivo dell’ordine sociale, perché nell’opposizioni definisce altre norme che rendono quelle condivise
più solide. La cosa importante del concetto di anomia che nasce a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, e
che diventerà poi devianza, è che per la prima volta la devianza viene indagata come fatto sociale. Quello di
Durkheim è il primo tentativo sistematico di analisi dell’anomia come assenza di riferimenti normativi che
superi lo schema positivista che ricercava le cause della devianza. A Durkheim non interessa perché i singoli
violano le norme ma quali siano gli effetti sui processi sociali che definiscono i valori di una determinata
società e quindi che cosa la devianza è. L’anomia, perciò, può essere definita come inadeguatezza rispetto
alle norme morali e questa è causata dal passaggio dalla solidarietà meccanica alla solidarietà organica, in
cui le parti sono insieme per interdipendenza. Nella società moderna mantenere l’ordine e i legami sociali è
sempre più difficile perché le parti sono sempre più diverse tra loro, perché la differenziazione sociale
moltiplica i valori e gli interessi. Nella Società Moderna come dirà Weber l’individuo è molto più libero ma
anche molto più solo. La devianza promuove il cambiamento ma ha una funzione anche conservativa per la
reazione che provoca nel corpo sociale. Il concetto di anomia viene affrontato anche da Merton e da
Parsons. Secondo la prospettiva funzionalista di Parsons il comportamento deviante sia dovuto ad un
deficit di socializzazione; quindi, ad una socializzazione primaria difettosa corrisponde in un rapporto di
causa effetto, ad un assetto psicologico disfunzionale che adotta quindi un comportamento deviante. La
devianza non è una patologia medica ma sociale. Le istituzioni per reazione andranno a correggere o a
contenere o a neutralizzare i soggetti che violano le norme. Quello che manca in questa prospettiva di
Parsons che verrà rispera poi dal funzionalismo critico di Merton, è quello che riguarda la disuguaglianza
sociale. La devianza in realtà potrebbe essere causata da un eccesso di socializzazione, perché le mete
dominanti sono condivise, ma in cui le norme morali non ci sono più, non sono più condivise a causa del
processo di differenziazione che analizzava Durkheim. Secondo Merton, all’interno di ogni società esiste un
divario tra gli scopi che vengono proposti e i mezzi effettivamente disponibili per conseguirli. La devianza
rappresenta perciò un tentativo di appropriarsi delle mete socialmente desiderabili tramite vie diverse. Le
mete culturali diffuse se non trovano il sostegno di norme morali interiorizzate non sono sufficienti a
produrre delle condotte conformi alla legge. Quello che fa Merton è introdurre il tema del conflitto e della
differenziazione sociale. La società inizia a essere vista non come ordinata, ma coinvolta in conflitti
strutturali che si riversano sui conflitti sociali e viceversa. Secondo Merton, a differenza di Parsons, esiste
uno scarto tra aspirazioni e possibilità effettive anche se non tutte le persone che avvertono lo scarto
mettono in atto devianza. Ma non tutti i soggetti quando avvertono lo scarto mettono in atto devianza,
esistono altri tipi di adattamento allo scarto. Il punto è che esistono altre possibilità di reazione sociale e
sono conformità, ritualismo, rinuncia e ribellione. Quello che introduce Merton è l’idea di una
deprivazione relativa, cioè non c’è un difetto di interiorizzazione ma piuttosto un deficit legato alle risorse
messe a disposizione per raggiungere le mete condivise. Introduce quindi due temi: quello di giustizia
sociale, nel senso che non tutti abbiamo a disposizione le stesse risorse, ma introduce anche quello della
razionalità della devianza, ovvero la decisione che il soggetto innovatore può prendere di percorre dei
percorsi alternativi per raggiungere gli obiettivi dominanti. Già Durkheim ne aveva parlato quando aveva
discusso del rapporto tra anomia e innovazione. Una delle figure dell’adattamento di Merton, pone il
conflitto al centro della sua modalità di adattamento, ed è l’individuo che non solo non possiede le risorse
per raggiungere gli obiettivi ma nemmeno sostituisce quegli obiettivi con altri. Merton differenzia anche il
risentimento dalla ribellione e dice che nel risentimento si condanna quello che in segreto si desidera,
mentre nella ribellione è il desiderio stesso a essere condannato. Un'altra cosa interessante su questa figura
del ribelle, è che introduce elementi prettamente sociali, non di natura psicologica come quelli di Parsons.
Quando il sistema sociale è considerato come una barriera che si contrappone alla soddisfazione di mete
legittime, la ribellione diventa uno strumento di adattamento. È come dire, se il sistema sociale non
distribuisce egualmente le risorse per ottenere gli obiettivi dominanti attraverso strumenti legittimi la
ribellione diventa una reazione di adattamento. Da questo tipo di intuizioni nasceranno poi alcune teorie
sul ribellismo sottoculturale giovanile, sulle gang che coinvolgono minori, che sottendono questo tipo di
prospettiva. Riassumendo: uno stesso fatto sociale può essere funzionale e disfunzionale, può al contempo
contribuire alla conservazione e al mutamento; il conflitto sociale e l’esistenza di una struttura di classe, che
si consumano in relazione alle gerarchie sociali che non sono solo economiche ma anche culturali, di
genere, di razza ecc.; introduzione dei temi che apriranno gli studi ai fenomeni devianti di gruppo. La
differenza tra questi due autori è che secondo Parsons il comportamento deviante è dovuto da un deficit di
socializzazione primaria, mentre per Merton è esattamente il contrario, ovvero c’è un eccesso di
socializzazione. Passiamo al paragrafo sulle teorie sulle cattive compagnie e sulla devianza di gruppo: Il
paragrafo introduce le teorie delle subculture che sono teorie che non riguardano solo la devianza, ma
sono fondamentali nell’interpretazione storico del comportamento deviante. L’idea è che l’appartenenza
ad una subcultura si basi sul riconoscimento di modelli valoriali e di riferimento normativi diversi. La
questione che ci interessa in una prospettiva ricostruttiva, il fatto che le subculture mettono in crisi l’idea di
Parsons, che la devianza dipenda da un deficit di socializzazione. Il punto di vista di Parsons appartiene alla
cultura dominante, ma il problema della devianza delle subculture non è dovuto ad un deficit, ma è il
prodotto di una socializzazione perfettamente riuscita. La patologia non riguarda il soggetto, ma riguarda il
gruppo. Secondo le teorie delle subculture le motivazioni che spingono un individuo a deviare, che si
generano sulla base di un paradigma eziologico, sono da ricercare all’interno dei gruppi di appartenenza.
Partendo dalla definizione stessa di sociologia riflettono sul fatto che le appartenenze mutano e possono
essere molteplici sia da un punto di vista sincronico sia da un punto di vista diacronico. Riprendendo
Sutherland e Cressey: in un’area dove il tasso di criminalità giovanile è elevato, un ragazzo socievole,
amante dell’aria aperta e della compagnia, è molto probabile che entri in contatto con i ragazzi del
quartiere e che impari da loro dei modelli di comportamento delinquente divenendo così autore di reati.
Nello stesso quartiere un ragazzo introverso, isolato e poco attivo può restarsene a casa, non entrare in
contatto con gli altri ragazzi e non diventare mai un delinquente minorile. Il loro tentativo è quello di
mettere in discussione quelle relazioni di cause ed effetto proprie della prospettiva eziologica e l’idea che ci
sia una propensione a delinquere. Ma lo stesso soggetto in un contesto differente può prendere una strada
diversa. Nel corso della nostra esistenza e della nostra quotidianità noi entriamo continuamente in contatto
con gruppi sociali le cui norme e i cui valori sono diversi da quelli socialmente condivisi. Citando Erikson: è
più facile che il comportamento deviante si verifichi se le sanzioni che governano le condotte appaiono
contraddittorie. Se sono ambigue l’individuo viene posto davanti ad un dilemma perché anche se questo è
attento a rispettare le aspettative normative, corre comunque il rischio di violarne altre, cioè rischia di
essere deviante anche se ha cercato in tutti i modi di evitarlo. Le teorie delle subculture sottendono che
tutta la società è attraversata da conflitti normativi. Questa idea ci condurrà progressivamente allo sviluppo
delle teorie conflittualiste, in cui si mette insieme la diversità culturale e delle risorse. Un’importante teoria
è quella dell’Associazione differenziale, cioè il fatto che i soggetti interiorizzano le norme non solo della
società nel suo complesso, ma le norme e i valori del gruppo di appartenenza e poiché appartengono a
diversi gruppi sociali vivono sistematicamente situazioni di conflitto normativo e valoriale. Questa teoria
dice anche che all’interno dei gruppi sociali noi impariamo quali obiettivi prefiggerci e quali strumenti
utilizzare per raggiungerli. Questa verrà applicata da Sutherland alla teoria dei colletti bianchi, secondo cui
anche le persone che sono in una condizione di privilegio violano le norme e imparano a violarle all’interno
dei gruppi di appartenenza, cioè i gruppi legati alla loro professione, imparando così a adottare altri
strumenti. Tuttavia, facendolo in un modo per così dire più raffinato, si rendono quasi invisibili. C’è un altro
elemento che la teoria delle subculture introduce, anche se era già stato affrontato dalla Scuola di
Chicago, ovvero il fatto che se vedo che il comportamento deviante è legato all’appartenenza plurale a
diversi sociali, ai conflitti normativi che il soggetto vive nella propria quotidianità, allora per capire il
comportamento deviante è necessario rivolgersi alla storia individuale del soggetto, ricostruire la biografia
del soggetto. La società non è omogenea, ma è differenziata al proprio interno ed è inflitta da sempre da
conflitti. Che cos’è il diritto in una prospettiva di questo tipo? Il diritto diventa la cristallizzazione del
conflitto in un determinato momento storico e in un determinato contesto. Il diritto diventa l’espressione
dei rapporti di potere, ovvero riguarda quella parte di società che in quel momento detiene il potere ed è in
grado di imporre le proprie norme e i propri obiettivi, facendoli passare come se fossero nell’interesse di
tutti. In questa prospettiva il diritto cambia quando cambiano gli assetti del potere all’interno di una
società, quando cambiano le gerarchie sociali. In sostanza le teorie delle subculture ci dicono che: la
società è differenziata ed è attraversata da conflitti; criticano l’analisi eziologica della devianza, ovvero
l’idea che esistano rapporti di causa ed effetto; superano l’idea che la devianza corrisponda
necessariamente ad un deficit valoriale; fanno emergere l’idea del conflitto normativo; evidenziano che non
c’è un nesso necessario tra vantaggio sociale e comportamento deviante.

LEZIONE 27 OTTOBRE: Seminario sulle Subculture


Oggi introduciamo il tema delle sottoculture giovanili. Partiamo da una domanda: Ci sentiamo di fare parte
di una subcultura? Ma cosa intendiamo per sottocultura e quali sono le sue caratteristiche? La definizione
da cui parte la nostra riflessione è una definizione che va a leggere la questione delle subculture da un
punto di vista della sociologia culturale, non necessariamente dal punto di vista della sociologia della
devianza. Le subculture formano una struttura che in un qualche modo si distingue, rispetto a quella che
invece normalmente chiamiamo cultura. Le subculture sono forme di aggregazione, forme culturali che
nascono all’interno della cultura generale. Queste subculture si concentrano attorno ad alcune attività
specifiche, ad alcuni valori e ad alcuni spazi, che li differenziano dalla cultura generale. Le subculture
prendono perciò forma attorno a specifici interessi di alcuni gruppi. Queste sviluppano degli schemi
culturali, delle identità, delle strutture specifiche che si differenziano molto oppure che si differenziano
meno. Gli autori presi in considerazione analizzano delle subculture che hanno dei confini abbastanza
identificabili, che si differenziano dalla cultura generale in maniera abbastanza netta. Ad esempio,
analizzano i rocker e gli skinhead in virtù anche di una differenziazione identificabile esteticamente. Queste
si differenziano per stili e pratiche diverse, pur vivendo nelle stesse famiglie, negli stessi quartieri e nelle
stesse scuole degli altri intesi come appartenenti alla dimensione della cultura generale condivisa. Il
contributo di Valerio Marchi è importante perché ci permette di leggere le subculture e pratiche
subculturali al di fuori della lente della devianza, pur tenendo presente il rapporto tra cultura egemone e
subcultura dal quale nasce un’identificazione delle subculture come devianti. I sociologi della devianza
ritornano anche implicitamente nei testi di Marchi. Quello che ad esempio Merton ci dice, e che possiamo
ritrovare nei testi di Marchi, è l’idea che all’origine del comportamento deviante potrebbe esserci non sono
un deficit di socializzazione, ma anche un eccesso. Il soggetto deviante risulta essere troppo socializzato.
Quello che indaga Merton è il rapporto tra gli orizzonti valoriali dei soggetti e le strutture di opportunità che
si trovano difronte. Nel momento in cui il soggetto interiorizza i valori della cultura dominante ma a questa
interiorizzazione di valori manca un’interiorizzazione delle norme o di quelli che sono i mezzi legittimi, si
può verificare devianza. Riprendendo Simmel, Merton spiega che la cultura prevalente continua a dare
forte importanza alla ricchezza come simbolo del successo, ma non attribuisce importanza alle vie legittime
da percorrere. Le caratteristiche di astrattezza e di impersonalità del denaro inteso come la meta più
ambita, fanno sì che si crei una dissociazione, perché con il denaro, che sia legale o no, posso procurarmi le
stesse merci e gli stessi servizi. L’anomia in questo caso non è la completa mancanza di norme, ma è lo
scarto che c’è tra le aspirazioni prescritte e le vie strutturate socialmente per la realizzazione delle
aspirazioni. Il secondo autore ripreso è Sutherland, il quale introduce le teorie dell’apprendimento nella
spiegazione dei fenomeni devianti. Quello che ci dice è che chi frequenta gruppi devianti rischia di assorbire
i codici e i sistemi valoriali di quel gruppo. L’idea è che ci entra in un gruppo devianze finisca a adeguare il
suo comportamento a quelli che sono gli orizzonti culturali che sono propri del gruppo. Il gruppo diventa
quindi riproduttore e promotore di adattamenti devianti. Questa teoria viene anche definita
dell’Associazione differenziale perché sottolinea come l’intera società sia attraversata da un conflitto
normativo. La società è frammentata nel suo codice normativo e valoriale. Altri autori ripresi sono Oward e
Ohlin. Questi due autori ci dicono che dobbiamo smettere di guardare in termini oppositivi alla distinzione
tra conformità e devianza perché queste due cose si situano in una linea di continuità. Dicono che la
conformità risulta un fondamento cruciale nel processo attraverso il quale si definisce la devianza, perché
nel momento in cui identifichiamo in alcuni gruppi e in alcune subculture determinati valori, l’adesione a
questi è il vettore dell’adattamento deviante. Merton diceva che l’adattamento a determinati codici
produce devianza. Oward e Ohlin invece parlano di tre tipi di subculture: quella criminale, conflittuale, e
quella del ritiro. In quella conflittuale, più che il raggiungimento di un obiettivo condiviso, c’è un uso
strumentale della violenza. Le subculture del ritiro invece sono quelle che si sottraggono dai valori della
società, senza opporsi come ad esempio i fumatori di cannabis di cui parlava Becker. Valerio Marchi ha
lavorato principalmente sulle subculture skinhead di estrema destra, e indaga da un punto di vista della
storia sociale, quali siano i meccanismi e le pratiche che vengono messi in atto. Altri si concentrano sul
mondo calcistico quindi sulle Curve e sugli Ultras. Uno dei testi su cui ci concentriamo è Teppa pubblicato
nel 1998, che tratta della storia del conflitto giovanile dal rinascimento ai giorni nostri.

LEZIONE 3 NOVEMBRE: Seminario sulle Subculture


Oggi continuiamo a parlare del tema delle subculture a partire da una serie di articoli della “Tavola
Rotonda” a cura di Fabio Bertoni, Andrea Caroselli e Luca Sterchele. La scorsa lezione abbiamo provato a
definire le subculture in una cornice un po' diversa, che andasse oltre la definizione della sociologia della
devianza, attraverso uno sguardo che è invece proprio degli studi culturali. Abbiamo ripreso un po' le
prospettive della Sociologia della devianza in particolare quella di Sutherland e di Oward e Ohlin. Poi
abbiamo iniziato a parlare di Valerio Marchi e di quali erano le finalità delle ricerche che conduceva e delle
sue pubblicazioni. Abbiamo citato Teppa che è il testo su cui ci concentreremo di più. Lo stesso Marchi
sottolinea quanto Teppa fosse diverso dai classici testi accademici, perché ci sono pochi riferimenti
bibliografici, era molto snello per quanto si proponesse di ricostruire la storia dei conflitti giovanili dal
rinascimento ad oggi (150 pagine), e usa un linguaggio abbastanza semplice e diretto. Teppa era un libro
fatto per i partecipanti della sua ricerca partecipante, era un libro che ambiva a spiegare a qualsiasi giovane
teppista qual era la cornice di questo agire e di come le sue pratiche potessero essere inserite in un quadro
storico e politico più ampio. A partire da alcuni autori come Sutherland e Oward e Ohlin, abbiamo detto
che guarderemo a Teppa e al fenomeno delle subculture, in rapporto alla cultura egemone. Il centro dei
lavori di Marchi è proprio il rapporto tra l’atto teppistico e la cultura dominante, che permette di leggere in
questo modo quali sono le influenze politiche, leggendo così in una chiave più complessa quelle che sono i
fenomeni del teppismo giovanile andando oltre ad una lente che schiaccia questi fenomeni semplicemente
come fenomeni devianti. Marchi cerca di capire quali sono i significati di queste pratiche, il modo in cui
queste vengono messe in atto in determinati contesti e con determinati stili, e il modo in cui sono
interpretati dalla cultura egemone che reagisce in modi diversi, perché può sanzionarle ma anche
assorbirle. Quello che Marchi fa è vedere come la messa in atto di un comportamento non intenzionato in
senso politico, vada a produrre delle conseguenze politiche rilevanti, proprio nella reazione che questo
comportamento suscita nella cultura egemone in termini di reazione sociale. L’atto teppistico agisce senza
avere consapevolezza dei significati sociali dell’agire. Come diceva Durkheim, il criminale è un elemento
costitutivo dell’ordine sociale. La pena, la sanzione e la reazione sociale rispetto un comportamento
deviante o criminale, sono rivolti più che al soggetto che devia al resto della popolazione, perché essendo in
uno stato di opposizione fa sì che vengano rivalutate le norme sociali condivise, le rinforza e le riconferma.
In questo senso Marchi si concentra su quale sia la funzione storica della Teppa, ovvero si interroga se il
fenomeno teppistico è soltanto demonizzato, cioè come viene percepito nelle diverse epoche storiche e nei
diversi contesti. Da un punto di vista storico il fenomeno teppistico ha avuto anche una funzione centrale, o
perlomeno integrata in quelle funzioni del mantenimento dello status quo. Quello che fa Marchi è di
analizzare come ci sia una fuga, una pratica di conflitto e di rifiuto degli strumenti del potere, ma anche
come contribuiscono a riprodurre quegli stessi strumenti su altre linee. Questo meccanismo di resistenza
nei confronti del potere ha delle ambivalenze interne che riproducono quello stesso potere. Le gang, ad
esempio, sono misogine al loro interno, sono strutturate così, e questa struttura riproduce comunque la
struttura patriarcale. Se da un lato c’è un elemento di rottura nei confronti della cultura egemone, dall’altro
c’è anche riproduzione e mantenimento dello status quo. Nel ventesimo secolo i giovani intesi come
categoria sociale, divengono dei catalizzatori di panico morale. Il giovane diventa la figura minacciosa, più
temuta, perché presenta caratteristiche che nel nascente capitalismo industriale e poi nel modo in cui si
strutturano le città, ha una presenza particolare nello spazio pubblico. In questo secolo iniziano ad avere
molto tempo libero, si ritrovano nello spazio pubblico e si ritrovano in grandi gruppi.

LEZIONE 8 NOVEMBRE: Scuola di Chicago e teorie dell’etichettamento


La Teoria Ecologica della Scuola di Chicago riconduce i comportamenti prevalenti di un dato gruppo sociale
all’ambiente socioculturale nel quale è collocato. Ovvero esiste un rapporto tra concentrazione urbana, lo
sviluppo metropolitano e le forme di devianza. La prospettiva Interazionista è anche detta “New Chicago”
in quanto esistono delle continuità tra i due approcci pur essendo distanti di 40 anni. L’interazionismo
recupera, dopo l’egemonia funzionalista, alcuni concetti tralasciati dalla Scuola di Chicago che a sua volta
aveva recuperato gli studi di Simmel sulla figura dello straniero. Simmel aveva usato un metodo diverso da
quello positivista, ovvero non ricercava i rapporti di causa-effetto ma mise in evidenza le corrispondenze.
Come Simmel riteneva che nessuno fosse straniero se non in un contesto relazionale, gli interazionisti
sostengono che nessuno è deviante se non c’è qualcuno che lo definisce come tale. La devianza quindi si
costruisce in un contesto sociale, perché non esiste devianza in assoluto e soprattutto non esiste devianza
in natura, superando così l’approccio eziologico . L’Interazionismo simbolico si sviluppa negli Stati Uniti negli
anni 60’, e si oppone alla visione di una società consensuale, integrata in cui tutte le parti collaborano per il
raggiungimento di fini comuni. A determinare le trame della società, cioè i rapporti sociali, sono le relazioni
tra gli individui, sono i micro-processi. Questo approccio si rifà alle teorie fenomenologiche che centravano
le loro teorie sui micro-processi delle relazioni quotidiane. La fenomenologia sosteneva che le azioni sociali
devono essere interpretate attraverso l’intenzionalità del soggetto e che il discorso sulle regole dipende da
chi detiene il potere di preservare gli universi simbolici di significato congruenti con la propria visione del
mondo (Berger e Lukman). Ma l’Interazionismo si rifà anche all’approccio Etnometodologico, il quale
sosteneva che la realtà viene costruita nel corso della vita quotidiana attraverso l’attività interpretativa dei
soggetti coinvolti (Garfinkel). Secondo l’approccio fenomenologico in primis, e poi per quello interazionista,
bisogna capire l’intenzionalità che il soggetto dà ai propri comportamenti. Questo è un concetto a sua volta
ripreso da Weber per cui le azioni vanno interpretate anche in base alla relazione di senso. La visione del
mondo che il soggetto ha è influenzata da una parte di società che riesce, ideologicamente, a rappresentare
i propri interessi come interessi della collettività. Per l’Interazionismo i significati attribuiti alle cose sono il
prodotto dell’interazione sociale, sono il risultato di processi interpretativi dei soggetti che danno un senso
a quello che fanno. L’individuo si specchia sempre nell’immagine che gli altri hanno di lui e questo è
centrale per la Teoria dell’etichettamento. La stigmatizzazione informale e anche istituzionale (ovvero la
pena) che ricade sul soggetto, si riflette sull’identità di quel soggetto, il quale per primo inizia a
interiorizzare l’etichetta, riconoscendosi nella stessa. A questo punto è importante distinguere la differenza
che esiste tra devianza primaria e secondaria. Secondo Lemert la devianza primaria è il risultato di
un’etichetta riferita ad un soggetto, mentre si parla di devianza secondaria quando è il soggetto stesso che
fa propria l’etichetta, reinterpretando la sua identità sulla base di quella definizione. Tra devianza primaria
e secondaria ci sta il processo di stigmatizzazione teorizzato da Goffman in “Stigma” e in “Asylum”, che fa sì
che nei confronti di una persona che è stata etichettata come deviante o che ha ricevuto una condanna, noi
abbiamo già delle aspettative particolari. I fenomeni devianti devono essere studiati solo nel contesto in cui
si sviluppano.
Gli Interazionisti studiano come le agenzie del controllo sociale attribuiscono o meno l’etichetta deviante.
Non c’è un rapporto di causa-effetto: una persona viola la norma e di conseguenza interviene il controllo
istituzionale! NO! C’è un rapporto di reciprocità: una persona viola la norma, c’è un controllo istituzionale
che etichetta il soggetto e costruisce socialmente la devianza. Questo è un processo ciclico. La violazione
della norma porta alla reazione istituzionale nella stessa misura in cui la reazione istituzionale porta a nuove
violazioni delle norme, perché porta il soggetto a re-interpretare la propria identità attorno all’etichetta.
L’approccio interazionista sviluppa la teoria dell’etichettamento a partire da 3 autori fondamentali:
Goffman con la sua opera “Stigma” nel quale ci spiega che ciò che conta è il linguaggio dei rapporti e non
quello degli attributi e che la definizione di devianza dipende dall’interazione dal contesto; Becker con la sua
opera “Outsiders” nel quale ci spiega che la devianza non è una qualità dell’atto, ma una conseguenza
dell’applicazione da parte di altri, di regole e sanzioni ad un trasgressore, e che quindi il comportamento
deviante non esiste; Infine, Erikson, il quale spiega che la devianza non è una proprietà relativa a certe
forme di comportamento perché non ci sono forme di comportamento intrinsecamente devianti. È una
proprietà conferita a queste forme da coloro che ne sono indirettamente o direttamente testimoni.
La prospettiva interazionista ad un certo punto incontrerà inevitabilmente quella conflittualista perché ciò
che i teorici interazionisti oppongono al funzionalismo non è solo la dimensione relazionale dell’etichetta,
ma anche le diverse visioni della realtà. Il conflitto non è una patologia, ma un aspetto normale e
permanente della vita sociale, così come diranno Collins e Dahrenford. Il conflitto è la normalità mentre i
funzionalisti pensavano che la normalità si basasse sul consenso. Perciò non solo il conflitto è una costante,
ma questi sono anche legati agli assetti produttivi e del potere così come teorizzano i Marxisti, la Scuola di
Francoforte e Wright Mills. Considerazioni fatte fino ad ora:
1) La devianza è una proprietà conferita ad un comportamento, non esistono comportamenti devianti così
come non esistono in natura comportamenti criminali.
2) La devianza è una conseguenza di etichette e sanzioni da parte di alcuni su altri , è la conseguenza di una
relazione. Questo è un argomento già trattato da Durkheim quando diceva che il criminale è un elemento
costitutivo della vita sociale. Non è proibito perché è crimine, ma è crimine perché è proibito.
3) È necessario quindi abbracciare una prospettiva sequenziale perché la costruzione della devianza avviene
attraverso processi. Le carriere devianti non sono altro che il risultato di un ripetuto processo di
etichettamento.
4) Differenza tra devianza primaria e secondaria elaborata dalla Teoria dell’Etichettamento per cui la
devianza primaria consiste nella trasgressione della norma, e la devianza secondaria si costituisce in seguito
all’etichettamento sociale.
5) Il deviante sviluppa un percorso esistenziale definibile in termini di carriera che porta all’interiorizzazione
di un’identità deviante, ed è il passaggio che sta tra devianza primaria e secondaria.
6) Le norme che sono alla base della definizione del comportamento deviante sono oggetto di conflitto
politico perché non c’è più l’idea di una società consensuale, ordinata in cui tutti sono d’accordo e se uno
non lo è, è perché è malato ed è questo quello che emerge negli anni 70’ che sono gli anni del conflitto, con
i movimenti femministi e l’emancipazione dei neri. Lo stesso Becker affermava che le norme sono fatte dai
vecchi per i giovani, dagli uomini per le donne, e dai bianchi per i neri.
7) Anche l’applicazione delle norme è espressione di scelte e di interessi specifici. La definizione delle
norme è oggetto di conflitto perché è selettiva perché chi ha più potere di definizione all’interno di una
società tutelerà solo ciò che gli interessa. Ma è anche il modo in cui viene applicata ad essere oggetto di
diatriba perché anche il modo in cui le norme vengono erogate non è neutro ma è espressione di scelte e
interessi specifici. Non esiste una differenza solo tra devianza primaria e secondaria, ma anche tra
Criminalizzazione primaria e secondaria. La prima fa riferimento a quei processi attraverso cui si
definiscono selettivamente i beni che si vogliono proteggere definendo la legge, e quali beni sono rilevanti
all’interno di una società. Ad esempio, il diritto alla proprietà che si tutela con il diritto penale, o il diritto di
eredità, sono fondanti per questa società. Con la seconda invece si fa riferimento a quei processi attraverso
cui noi riconduciamo la definizione di criminalizzazione primaria (che è astratta) a comportamenti e
individui in carne ed ossa. Il furto rientra nella definizione di Criminalizzazione primaria mentre quello che
ha rubato nella seconda.
8) Le definizioni ufficiali dipendono dalla distribuzione del potere perché c’è chi ha il potere di definire cosa
è normale e cosa no, e poi c’è chi subisce questa definizione ( Becker).
9) Nell’acquisizione di un’identità deviante un ruolo importante p giocato dalle istituzioni totali, termine
che deriva da Goffman e dalla sua opera “Asylum: i meccanismi sociali dell’esclusione e della violenza”.
Citando Lemert “la sociologia tradizionale tendeva a rimanere ancorata all’idea che è la devianza a dare
luogo al controllo sociale. Io sono giunto alla conclusione opposta, e cioè che è il controllo sociale a dare
luogo alla devianza, ed è altrettanto sostenibile”. Secondo Lemert esiste un rapporto di reciprocità, perciò,
è valido dire che è la devianza a far luogo al controllo sociale ma è altrettanto valido il contrario.
La stessa Angela Davis successivamente cercò di spiegare che il presupposto da cui parte sia la gente
comune sia il mondo accademico, è che sia il delitto a produrre il castigo. Ma il castigo potrebbe essere la
conseguenza di altre forze, anziché una conseguenza inevitabile. In America le pene detentive aumentano
perché aumenta la sorveglianza e questa, negli Stati Uniti, è razzializzata. È questo il motivo per cui la
maggior parte dei detenuti è nera o latina o afroamericana. Il controllo non è neutro ma è razzializzato.
Continua la Davis “piuttosto che costruire alloggi, buttiamo i barboni in carcere, anziché costruire e
potenziare la pubblica istruzione gettiamo gli incolti in prigione e mettiamo in prigione chi perde il lavoro a
causa della de-industrializzazione, della globalizzazione e facciamo sparire le persone nella speranza che
spariscano i problemi sociali.”

LEZIONE 9 NOVEMBRE: Crimine e Criminologia Critica


Non è possibile guardare al crimine come ad un fenomeno naturale, indipendentemente da quel processo
pienamente sociale che conduce alla sua definizione, perché si tratta di un processo di definizione molto
particolare. Ferraioli scrive che “il reato e/o qualunque fatto offensivo denotato da una legge anteriore alla
sua commissione (che è uno dei principi del diritto pensale – ovvero che nessuno può essere punito per la
violazione di una norma posteriore al suo comportamento) come presupposto di una pensa, è ascrivibile
mediante un giudizio alla responsabilità di una persona fisica imputabile e colpevole.” Questa è una delle
definizioni giuridiche di reato, ad esempio oggi parliamo di crimine ambientale ma nessuno è imputabile
per i reati che sono stati commessi prima. Ci vuole una norma anteriore al comportamento e c’è bisogno di
una previsione di reazione istituzionale e quindi di una pena, ma se non c’è pena non c’è reato, e la pena
non si esaurisce necessariamente nel carcere, ma esistono altre forme, come i lavori socialmente utili. La
responsabilità penale è perciò personale e individuale. La concezione socio-giuridica della criminalità
richiama le stesse teorie di Durkheim e interazioniste che era più che altro interessata ai processi micro-
sociali di relazione: la criminalità e il diritto sono costruzioni sociali. Inoltre, non solo la criminalità e la
devianza sono relative, ma sono anche interattive, ovvero si costruiscono in una relazione dove c’è chi ha il
potere di definizione e chi subisce l’applicazione di un’etichetta. Secondo Durkheim non bisogna dire che
un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma piuttosto che è criminale perché urta la
coscienza comune. Non biasimiamo un atto perché è reato, ma piuttosto quell’atto diventa reato perché
noi lo biasimiamo.
Questa visione della criminalità relativa e interattiva la collochiamo anche in una prospettiva conflittualista
che si concentra sulla dimensione della diversità e della diversa distribuzione del potere di definizione e
dell’applicazione di un’etichetta all’interno di una società. Come spiega Quinney, il diritto è prodotto da
uomini che rappresentano interessi specifici e che hanno il potere di tradurre i propri interessi in termini di
politica pubblica, cioè hanno la capacità di far passare i propri interessi come gli interessi di tutti.
Una questione altrettanto importante è che esiste una distinzione tra la concezione socio-giuridica e la
concezione criminologica della criminalità. La differenza sta che la definizione e quindi la costruzione
sociale di che cosa è crimine per la sociologia è fondamentale, ed è oggetto di ricerca. Che cosa e in che
momento qualcosa viene definito come crimine, e da chi? Questo aspetto alla criminologia non interessa.
La criminologia è stata definita dagli stessi criminologi come una scienza dell’orizzonte artificiale, ovvero
assume come indiscussa la definizione di criminalità e conduce la propria ricerca sulle cause di quest’ultima.
La criminologia indaga i processi sociali e psico-sociali che coinvolgono i soggetti che abbracciano delle
scelte criminali. Ma la definizione dell’oggetto di studio della criminologia non è della criminologia ma è del
diritto. Il Codice penale definisce cosa è rapina, cosa è furto, cosa è violenza sessuale, cosa è omicidio, cosa
è sequestro di persona ecc., ma le definizioni sono mutevoli, perché la violenza sessuale oggi è diversa da
quella che era ieri. Fino a pochi anni fa la violenza sessuale era considerata una violenza morale, non una
violenza contro la persona. Con questa differenza tra Criminologia e Criminologia Critica ci si riferisce
anche alla differenza tra Criminalizzazione primaria e secondaria perché la prima è la definizione della
fattispecie giuridica che definisce il crimine, come nasce, come si costruisce e come cambia, mentre la
seconda ci spiega come si applica l’etichetta, a chi si applica e perché alcuni attori sociali riescono a
neutralizzarla. L’approccio criminologico critico tenta di superare questo limite: la definizione di
criminologia critica è una definizione che vuole indicare una criminologia sociologica, e per questo si
potrebbe anche chiamare sociologia criminale. In questo approccio si indaga il crimine da un punto di vista
sociologico, ma non da un punto di vista criminologico. Nasce in Italia negli anni 70’-80’ e nasce con la
pubblicazione di un libro di Alessandro Baratta, che era un filosofo del diritto, intitolato “Criminologia
critica e critica del diritto penale”. In questo testo introduce lo studio della sociologia all’interno degli studi
criminologici che avevano fino a quel momento un approccio eziologico classico. Baratta era anche un
giurista e poco sapeva di sociologia, ma negli anni precedenti si era molto interessato alle teorie, in
particolare a quelle interazioniste (ma non solo) che si stavano sviluppando negli Stati Uniti. Baratta in
questo testo prova a mettere in discussione i principi su cui si basa il diritto penale contemporaneo
utilizzando quindi le teorie sociologiche. È stato ovviamente molto criticato, in particolare dai giuristi che
pensavano che non si potesse assolutamente mettere in discussione il diritto penale tramite elementi
empirici. Ma secondo Baratta il dover essere e quello dell’essere sono due dimensioni diverse. Lui prende i
principi penali e inizia a discuterli utilizzano i risultati delle ricerche empiriche e le prospettive sociologiche.
I principi sono:
1) Il principio del bene e del male per cui secondo l’ideologia del diritto moderno, qualsiasi comportamento
che si definisce come reato implica un atteggiamento colpevole e riprovevole del soggetto, ovvero c’è una
volontà a fare del male;
2) Il principio di legittimità per cui lo Stato incarna il volere di tutti e il bene di tutti, ed è quindi
legittimatamene chiamato ad intervenire con una sanzione, con una pena nei confronti di chi viola le sue
norme;
3) Il principio di colpevolezza per cui chi compie un reato violando la norma è intrinsecamente colpevole;
4) Il principio dello scopo o della prevenzione, ovvero l’idea che la sanzione penale serva per prevenire il
compimento di ulteriori reati e che quindi ha lo scopo di prevenire la criminalità futura;
5) Il principio di uguaglianza per cui la legge è uguale per tutti, o almeno è quello che si legge nelle aule dei
tribunali;
6) Il principio degli interessi sociali, ovvero l’idea che il diritto penale tutela gli interessi di tutti, che tutti
abbiano interesse all’interno della società, affinché l’interesse del diritto penale venga rispettato perché
esso incarna valori e normi che sono nell’interesse di tutti. Ma siamo sicuri che la legge sia uguale per tutti?
Baratta, riprendendo la teoria dei colletti bianchi di Sutherland, dimostra che non è così, ma che ci sono
soggetti che riescono in maniera molto più facile a disinnescare i meccanismi che portano ad una condanna
penale, che hanno in primis la possibilità e il potere per il ruolo che ricoprono, di influenzare i processi di
criminalizzazione primaria e quindi le leggi. In secondo luogo, hanno anche la possibilità di neutralizzare i
processi di etichettamento e di sfuggire perciò alla condanna. Ciò significa che esiste un processo nella
costruzione dell’identità deviante, e questo ci viene esposto da Becker. Un altro esempio riguarda il
principio di prevenzione, ovvero l’idea che la sanzione penale serva e che sia fondamentale per prevenire
ulteriori reati e crimini. Per farlo utilizza un metodo deterrente, perché il diritto penale e quindi la pena
devono fare paura, devono spaventare. Ma come diceva Durkheim, la paura non basta perché il criminale è
un elemento costitutivo della società. Baratta usa la teoria dell’etichettamento e mette in discussione
questo principio, perché secondo questa teoria è esattamente l’opposto. Laddove si sanziona un soggetto
che ha violato la norma si rinforza l’identità deviante e criminale del soggetto, ed è qui che inizia la carriera
criminale. La pena, perciò, può diventare una delle variabili, uno dei fattori che promuovono il compimento
di reati. Come abbiamo già detto, i processi di criminalizzazione sono selettivi, nel senso che selezionano
soggetti. Non tutti i comportamenti potenzialmente dannosi sono definiti come reati, non tutti assumono
rilevanza penale. Degli studiosi in Inghilterra, negli ultimi 10-20 anni hanno proposto di fondare una nuova
disciplina: la Zemiologia, che etimologicamente significa “lo studio del danno sociale”. Questa disciplina ha
un intento critico rispetto alla criminologia che pretende di trovare una ragion d’essere nella definizione del
comportamento criminale, ma questa come abbiamo già detto deriva da un’altra scienza, che è il diritto.
Con questo approccio si vuole studiare il potenziale crimine, al di là della definizione che il diritto dà, e si
vuole studiare quell’insieme di comportamenti che producono danni sociali. Un'altra questione importante
è che i crimini sono molto più diffusi rispetto a quello che ci mostra la statistica, perché questa riporta solo
quello che viene individuato e denunciato, e quindi rilevato dalle forze dell’ordine. Esiste un Dark Number
che è molto elevato, soprattutto per alcuni tipi di reato. Nelle Inchieste definite di autoconfessione in cui si
chiede ai soggetti se hanno mai violato la legge senza essere denunciati per diverse motivazioni, quello che
risulta è che quasi la totalità dei soggetti ha compiuto comportamenti potenzialmente denunciabili senza
poi essere scoperto. Le forze dell’ordine trovano la droga nei ghetti di colore perché non la vanno a cercare
nei campus universitari. Ciò significa che è dove concentri il controllo e l’osservazione che pescherai
maggiormente comportamenti criminali rafforzando così l’immagine che tutti hanno. È lì che si trova
perché è lì che si cerca. Questi processi sono selettivi perché pescano dove buttano le reti. Inoltre, anche
l’attività dei tribunali attua dei processi per cui stigmatizzano selettivamente alcuni soggetti piuttosto che
altri: ad esempio si possono avere avvocati di fiducia e avvocati d’ufficio, si possono avere risorse
economiche diverse, la possibilità di potersi presentare in aula in maniera adeguata, ma anche la possibilità
di poter dimostrare di avere reti sociali e di avere un lavoro, una casa o una famiglia. Queste sono le prove
di affidabilità sociale che ci si aspetta, ovvero la prova di essere perfettamente integrati all’interno di un
determinato contesto. Questo è significativo perché a parità di reato, soggetti che hanno risorse diverse
ricevono condanne diverse, e ciò significa che i processi di criminalizzazione sono selettivi anche nel
passaggio in giudizio.

LEZIONE 15 NOVEMBRE: Femminismo Giuridico


Capitolo 3 del testo “Sociologia devianza e della criminalità”: Femminismo Giuridico
I primi due capitoli di entrambi i testi trattano del diritto come strumento di integrazione sociale, di come è
stato interpretato il diritto nelle prospettive classiche, l’evoluzione dei diritti, e di cos’è il diritto e di come
emerge in relazione al mutamento sociale. Ma lo strumento giuridico è effettivamente in grado di
rispecchiare la complessità delle situazioni individuali e sociali? Le può promuovere con maggiore equità e
giustizia? Per quel che riguarda i primi due capitoli del testo “Sociologia della devianza”, abbiamo detto che
da una parte la devianza è una costruzione sociale, e questo è valido per l’approccio interazionista e
conflittualista; dall’altra parte questi approcci hanno applicato questa costruzione al tema della criminalità
e quindi al tema del diritto penale. Quindi dal punto di vista della sociologia del diritto, la stessa sociologia
del diritto penale non è altro che una branca di un discorso più complessivo che riguarda sia il ruolo del
diritto sia come questo costruisca determinati fenomeni. Per la Sociologia del diritto non esiste un discorso
sulla criminalità che non includa la definizione della criminalità stessa come costruzione sociale. Il primo
tema introdotto dal capitolo sul Femminismo giuridico riguarda proprio il femminismo in sé, che cos’è il
genere e come va intesa la categoria del genere e la questione del diritto, ovvero come il femminismo ha
interpretato i diritti, e che posizioni sono nate sul ruolo del diritto all’interno della società. La prima
questione che emerge è che il Femminismo non è propriamente una scuola di pensiero, ma sia innanzitutto
un movimento politico. Il femminismo cioè, è stato un movimento prima di essere una teoria. Il primo
femminismo nasce nell’Ottocento e rivendicava l’uguaglianza di diritto rispetto ad una normativa che
discriminava le donne. La seconda ondata si verifica nel Novecento, e sorge soprattutto nei paesi dove, dal
punto di vista del diritto all’uguaglianza, era stato raggiunto. Ma ci si rende conto che nonostante questo in
realtà l’uguaglianza di fatto è ancora lontana, perché esiste una differenza tra diritti reali e diritti sulla carta.
Il primo elemento che accompagna l’evoluzione del femminismo è una differente concezione del tema
dell’uguaglianza e il tema della differenza. Il primo femminismo ottocentesco trattava l’uguaglianza, cioè si
basava sull’idea che bisognerebbe ottenere il pieno riconoscimento, esattamente come gli uomini. Ma
progressivamente questa idea cambia, perché non è più solo questione di ottenere il pieno riconoscimento,
perché dal punto di vista formare si hanno già. Si tratta di capire come il diritto e il suo linguaggio
costruiscano la realtà. Interrogare la logica dei diritti significa riconoscere che le donne e anche gli uomini,
di fatto, sono immersi in un mondo che è costruito al maschile, non solo perché è dominato dagli uomini,
ma anche perché tutte le categorie con cui noi pensiamo e il modo in cui sono costruite, sono fatte per e
dagli uomini. La seconda ondata decostruisce queste categorie, le mette in discussione e afferma che esiste
la possibilità di pensarsi altrimenti rispetto a quelle che sono le categorie dominanti con cui siamo abituati a
pensarci. Per decostruire il genere, che è un’istituzione, prima di tutto bisogna vederlo, bisogna rendersi
conto che esiste in quanto categoria. Le istituzioni, come il diritto e il carcere, sono caratterizzate dal fatto
di rendersi invisibili, perché siamo immersi dentro queste e non riusciamo a immaginare un mondo diverso
o a guardarlo da fuori, perché queste sono il modo in cui pensiamo noi stessi. In questo ripensamento il
diritto è centrale perché i modelli maschili e femminili non sono solo modelli culturali, ma anche giuridici e
sociali, e il diritto li cristallizza e li rafforza, definendo il modo in cui non solo pensiamo, ma il modo in cui ci
comportiamo e le aspettative che abbiamo sugli altri e viceversa. Tra le caratteristiche principali del genere
è che esiste una simmetria tra i due generi. Il maschile è costruito come superiore, ma non è questa la
questione. La vera questione è che il femminile è costruito come altro rispetto ad una norma, che è quella
maschile. Questo significa che il soggetto di diritto, quello immaginato dal diritto come soggetto neutro, è in
realtà soggetto maschile bianco adulto occidentale. Carole Pateman, che è una politologa, prova a
ricostruire criticamente la logica e le origini del diritto e ci spiega che l’individuo, all’origine dell’idea del
contratto sociale, è incarnato in un corpo maschile. Rivendicare la logica dei diritti significa doversi adattare
a una rappresentazione specifica, ovvero che il soggetto di diritto è un soggetto solo, individuale, senza reti,
senza emozioni e senza relazioni, ed è questa la norma. Per poter veramente aprire il discorso sui diritti di
genere bisognerebbe ripensare all’origine stessa del soggetto di diritto nella misura in cui, nella dimensione
del genere femminile, c’è un riconoscimento più o meno esteso di alcune dinamiche che riguardano la loro
collocazione all’interno delle reti sociali. Una seconda autrice afferma che pensare che la complessità
dell’esistenza e la complessità delle relazioni e del mondo possa essere riconosciuta e tradotta nel
linguaggio del diritto, è un’illusione. Rivendicare un proprio bisogno in termini di diritto significa ridurre la
complessità di questo bisogno. Ma il diritto è un codice che colonizza e ingabbia, perché il diritto deve
tradurre qualcosa di molto complesso nel linguaggio semplicistico e riduttivo del diritto stesso. Per il diritto
c’è sempre un vincitore e un vinto, ma siamo sicuri che in una prospettiva futura e di pacificazione sociale la
cosa migliore sia definire un vincitore e un vinto? Siamo sicuri che lo strumento giuridico sia lo strumento
ideale per contenere la violenza, per derimere i conflitti, per promuovere modalità di convivenza pacifiche?
La seconda autrice, Elizabeth Wolgast, spiega che la logica dei diritti semplifica le relazioni e le riduce a
rapporti di potere, intrinsecamente avversarie, ovvero c’è chi ha ragione e chi ha torto. Nel caso
dell’aborto, ad esempio: il feto ha dei diritti? I diritti prioritari sono del feto o della madre? Il feto è
proprietà della madre? È la madre ad essere al servizio del feto? Un altro tema importante che il
femminismo giuridico evidenzia è che esiste una differenza tra la sfera pubblica e quella privata: il problema
è che da una parte il diritto è un efficiente strumento di riconoscimento dei bisogni, stabilizza le aspettative
e riduce le incertezze, e come diceva Luhmann il diritto riduce la complessità sociale . Dall’altra parte invece
il problema è l’ambiguità dei temi che ruota attorno a questa definizione di diritto perché noi abbiamo
bisogno di ridurre la complessità sociale perché ciò significa ridurre l’incertezza e avere dei modelli d’azione
condivisi e riconosciuti, ci permette di costruire le aspettative sociali e normative sulla base di principi
condivisi. Ma questa funzione può essere svolta solo tramite la traduzione e la riduzione delle istanze
esterne al diritto, ovvero dentro il Codice penale stesso. Significa che da una parte bisogna ridurre la
complessità ma bisogna anche riconoscerla. Buona parte dei conflitti presenti in società e buona parte dei
conflitti di genere si combattono proprio attorno all’interpretazione e dalla negoziazione di che cosa è
pubblico e di cosa è privato. I concetti di pubblico e privato non sono concetti univoci ma esistono diversi
significati. Quando pensiamo a qualcosa di privato pensiamo a qualcosa di separato, che non è dello Stato,
che si tratta di qualcosa di esclusivo, personale, segreto e invisibile. Quando invece pensiamo al concetto di
pubblico pensiamo a qualcosa che è invece visibile e politico, nel senso che interessa la comunità e non il
singolo soggetto. I conflitti nell’accesso ai diritti, in relazione alla variabile del genere, riguardano la
collocazione dei generi in un'unica dimensione che può essere privata o pubblica.
LEZIONE 16 NOVEMBRE: Seminario Sul Genere
Il genere è una costruzione sociale che descrive uomini e donne in un certo modo, ma quando parliamo di
genere implicitamente parliamo anche di sesso. Che differenza c’è però tra genere e sesso? Il sesso e il
genere sono concepiti come se fossero un binomio, come se fossero strettamente correlati e questo
binomio rappresenta il rapporto che esiste tra cultura e natura. Solitamente la risposta a questa domanda è
che il genere è una costruzione sociale mentre il sesso è una caratteristica biologica. Ma come vedremo
natura e cultura sono essi stessi dei concetti strutturati e costruiti storicamente e socialmente, nel senso
che sono concetti stratificati. Il concetto di sesso è stato prodotto dalla biologia, dalla medicina, dalla
filosofia, dalla demografia e dalla sociologia, e questo porta, traduce e trasmette il significato storico che gli
è stato assegnato. Il sesso però è stato naturalizzato , nel senso che esiste un processo che lo costruisce
come natura, ma la natura non è in sé, perché è essa stessa costruita. Questo processo di naturalizzazione e
culturizzazione è ciò che accompagna il discorso sul genere e sul sesso. I concetti di natura e cultura però
non sono mai neutrali. Il genere può essere considerato come una variabile oggettiva e soggettiva, ovvero
un attributo, ed è anche considerato come una categoria analitica che descrive il rapporto di potere tra
generi e sessi. Il genere si fa, è una performance, un comportamento che ci permette di rispondere
continuamente alle aspettative sociali sul nostro genere. Il genere si può dire che sia una norma che viene
continuamente modificata e definita dalla società, dai soggetti e dalle relazioni, alla quale bisogna adeguarsi
perché altrimenti si rischia di deviare. Ad esempio, essere violenti è un modo di performare la mascolinità.
La norma eterosessuale è un ulteriore attributo che si dà al genere, come categoria analitica. Questa,
infatti, definisce il rapporto tra i sessi e tra i generi ed è un paradigma che ordina tutta la nostra società. Ma
ci sono alcune questioni fondamentali che hanno permesso di elaborare una critica e una ricostruzione del
discorso dei e sui diritti: la prima questione riguarda chi definisce e chi costruisce il sapere, ovvero chi ha il
potere di costruire il soggetto di diritti. Silvia Federici, per rispondere a questo quesito, ricostruisce la storia
del capitalismo dal punto di vista della storia delle donne, che storicamente sono state escluse. Il
capitalismo, dice, si è costruito sulla caccia alle streghe. Noi quando pensiamo alla caccia alle streghe la
collochiamo sempre nel medioevo, ma non è così. Questa, infatti, coincide con la nascita del razionalismo e
del capitalismo, ovvero si colloca tra il Cinquecento e il Seicento . Dopo aver bruciato le streghe, le donne
rimaste sono state rinchiuse nella sfera privata e domestica. La separazione tra il pubblico e il privato la
definizione del privato come luogo di riproduzione della famiglia, e la definizione di pubblico come luogo
della politica e del diritto, della scienza è qua che si colloca, nasce qui. Questa definizione è funzionale per il
capitalismo perché la funzione delle donne diventa quella di fare figli per creare forza lavoro, così come nel
mondo islamista la donna serve a creare militanti per la Jihad. Questo processo è stato naturalizzato per
giustificare la natura del sistema capitalista. Il pensiero femminista a partire dagli anni 60’ e 70’ affermerà
infatti che le minoranze sono state sacrificate, e che l’Uomo non è universale così come non è universale il
soggetto di diritto. Questo soggetto, qualunque sia, ha un corpo e su questo si definisce. A partire da questa
considerazione tutti i femminismi, anche se diversi tra loro, iniziano a decostruire il soggetto neutro. La
medicina di genere, ad esempio, metteva sullo stesso piano uomini e donne, e su questa base le medicine
venivano testate sugli uomini, ma poi venivano somministrate anche alle donne. Gli uomini e le donne però
non sono morfologicamente e biologicamente uguali, si tratta di corpi diversi che hanno bisogno di cure
diverse. Carol Pateman, infine, ci spiega che il contratto sociale esiste, ma è fondato su un contratto
sessuale, cioè sulla messa a disposizione sessuale forzata dei corpi delle donne, come corpi riproduttivi.

LEZIONE 22 NOVEMBRE: Immigrazione


Il tema rifugiati e dei richiedenti asilo è un tema attuale rispetto a dieci anni fa. Prima questa figura era
pensata come un migrante economico ed era considerata una risorsa, mentre ora invece è considerata una
minaccia e proprio per questo il discorso si interseca con il tema della sicurezza urbana. Fino a dieci anni fa
questo tema non era centrale nella dimensione dell’ordine pubblico. Le categorie che usiamo però sono
relative, distorcono la realtà rinforzando le differenze. Infatti, oggi si distingue il migrante politico dal
rifugiato, dai richiedenti asilo, dal migrante economico, e dal migrante irregolare e regolare, ma queste
categorie non si riscontrano empiricamente nella realtà. Due terzi degli immigrati irregolari, infatti, erano
regolari fino a quando non hanno perso il lavoro; perciò, non si parla di soggetti diversi, ma di momenti
diversi nella vita dello stesso soggetto. La prima questione quando si parla dell’immigrazione come
questione sociale, riguarda la legge tra la regolarizzazione e la criminalizzazione. È un tema importante
perché le categorie che usiamo producono la realtà, nel senso che quando definiamo un fenomeno e gli
attori coinvolti, produciamo realtà su questo fenomeno. Ma la definizione normativa e la realtà dei
fenomeni spesso non sono sovrapponibili. Il discorso migrazione ha cambiato diverse direzioni in questi
anni: prima era una risorsa, poi una minaccia e poi ancora diventa contemporaneamente entrambi, ma in
tutti i casi resta comunque funzionale. Il migrante è funzionale per ragioni economiche ma si questa figura
anche per ragioni politiche e la si rappresenta apposta come minaccia e come problema,
strumentalizzandolo per l’ordinamento pubblico. Pur essendo invisibili sono funzionali alla riproduzione
economica e quotidiana della nostra società.
La Legge Turco-Napolitano del 1998 fu un primo tentativo di regolamentare il flusso perché prima l’Italia
non era una delle destinazioni. Il numero di fa sempre più significativo e ciò genera ovviamente maggiore
attenzione. Dal 1998 al 2002 gli ingressi aumentano sempre di più, ma l’Italia dal punto di vista economico -
lavorativo riesce a integrare significativamente gli stranieri. Questo è fondamentale perché è attraverso il
lavoro che si costruiscono poi tutte le reti sociali, le occasioni di integrazione culturale che permettono ai
migranti di avere più diritti e più riconoscimento sociale, e di permettere anche agli italiani di entrare in
contatto con queste persone. Il problema era che il lavoro doveva essere cercato quando si era ancora nel
paese d’origine. Nasce quello che possiamo definire un Mercato del Lavoro internazionale. Ma se un
italiano avesse voluto assumere uno straniero avrebbe dovuto cercarlo nel paese d’origine tramite una
lista, fungendo da sponsor per il soggetto chiamandolo in Italia. Ma quello che succedeva è che le persone
entravano in Italia senza permesso di soggiorno e trovavano lavoro tramite contatti sul posto, che è quello
che farebbe chiunque. In ogni caso, una volta che il datore avesse fatto richiesta, i soggetti coinvolti
aspettavano di essere regolamentati tramite una sanatoria, che veniva poi usata dal datore per
regolarizzare il soggetto. Quando questa possibilità è venuta meno, il datore di lavoro faceva finta di
chiamare il soggetto dall’estero, ma questo aveva delle vicissitudini anche abbastanza ridicole, perché il
soggetto era magari costretto a ritornare nel suo paese per poi tornare legalmente in Italia e tutto questo
succedeva perché mancava un timbro sul passaporto. Tuttavia il meccanismo della chiamata tramite una
lista, all’estero, è un sistema complesso perché innanzitutto nessuno assume una persona che non conosce;
inoltre se il datore di lavoro avesse avuto bisogno di un lavoratore in un momento specifico dell’anno,
avrebbe comunque dovuto attendere il gennaio dell’anno successivo, ovvero quando sarà consentito
l’accesso alla quota dei lavoratori prevista dal decreto; i posti inoltre una volta aperte le liste saranno
esauriti in pochissime ore e infine il rapporto di lavoro non poteva essere restituito prima di 6 o 7 mesi. In
tutto questo meccanismo sono due le possibilità: la prima è che o chi fa la legge non conosce la realtà con
cui ha a che fare, oppure questa distorsione è voluta, nel senso che si vuole che sul territorio nazionale
siano presenti stranieri non regolarizzati perché questa fascia di persone è maggiormente sfruttabile perché
continuamente ricattata e quindi disposta ad accettare lavori che nessuno farebbe.

LEZIONE 23 NOVEMBRE: Seminario sull’Immigrazione


Oggi sembra che gli unici migranti siano i richiedenti asilo, ma l’articolo di Santoro ci ricorda che in Italia ci
sono leggi che riguardano l’immigrazione che non riguardano strettamente i richiedenti asilo. Ci sono
milioni di migranti che hanno delle condizioni giuridiche di permanenza sul territorio diverse dai richiedenti.
Alcune cose che riguardano i governi dei richiedenti asilo sono in verità in tendenziale continuità con il
passato: la legge Martelli e la Legge Bossi-Fini hanno degli elementi continui nel senso che la permanenza
del migrante non è legata ad un diritto che una persona ha di migrare in un altro paese per migliorare le sue
condizioni, ma il pacchetto dei diritti che riguardano il migrante è legato alla sua posizione lavorativa. La
Legge Martelli del 1990 sistematizza l’immigrazione, connette l’ottenimento del permesso di soggiorno con
il contratto di lavoro, provando a regolamentare la presenza sul territorio. Il datore di lavoro dovrebbe,
prima dell’arrivo del migrante, rivolgersi ad uno sportello unico provinciale e dare una richiesta, garantendo
vitto e alloggio in caso di rimpatrio e poi, se dopo 20 giorni nessuno ha fatto richiesta sul territorio, allora il
migrante può andare al consolato italiano più vicino e creare l’aggancio. La Legge Bossi-Fini del 2002 rende
però questo meccanismo ancora più restringente, rendendolo un contratto di soggiorno. Il datore di lavoro,
infatti, non solo deve esprimere la volontà ma deve anche presentare un contratto di lavoro, cioè deve
mostrare che il migrante che entra è già stato assunto. Questa legge allunga i tempi del trattenimento nei
Cpt (centri di permanenza temporanea) ovvero strutture amministrative di carattere detentivo, in quanto
solitamente si tratta di ex caserme militari. Chi non riesce ad entrare tramite quel canale, o viene
rimpatriato o gli viene dato un foglio di via in cui lo si obbliga ad allontanarsi dal territorio entro tot anni,
oppure viene mandato nei Cpt. Di fatto le leggi attuali però non consentono un accesso regolare e questo
ha una serie di conseguenze: l’irregolarità, il clandestino è classicamente al centro di paure e di senso di
allarme sociale e di minaccia della sicurezza, ma questa figura da temere è prodotta dalla stessa normativa,
producendo irregolarità. In questo senso, spiega Santoro, la marginalità diventa una zona socialmente
organizzata. Questa umanità discriminata, marginalizzata, non lo è perché non ci sono abbastanza risorse
economiche o perché c’è una crisi economica, ma lo sono perché ci sono normative e politiche che la
producono e la riproducono. La Legge 125/2008 è importante ma è stata abrogata dalla Corte
costituzionale perché incostituzionale: se rubo e sono un immigrato irregolare, infatti, subisco un
aggravante della pena. Perciò non solo viene prodotto l’immigrato ma lo si criminalizza ulteriormente. La
legge 94/2009 sancisce la gestione di questa marginalità: essere immigrato irregolare diventa un reato di
clandestinità. Ma questo è un paradosso perché la legge non permette un’entrata regolare, se non a cerchi
ristretti, ma attorno a quella stessa figura produce criminalizzazione e ciò significa che esiste e che è
presente un razzismo istituzionalizzato.
Inoltre, c’è un'altra questione: quasi tutte le persone che approdano in Italia passano alternativamente
periodi in cui sono regolari a periodi in cui non lo sono e questo significa che non si tratta di una condizione
fissa ma mobile. Lo stesso Foucault spiegava a questo proposito che il potere non vuole tenere fuori le
persone, ma anzi preferisce che entrino perché vuole controllare e governare i soggetti, ma li fa entrare
entro a certe condizioni e non nella pienezza dei diritti. Ma i soggetti non subiscono e basta, non sono
passivi perché dove c’è potere c’è resistenza. Infatti, nonostante i rischi i migranti continuano a migrare.
Dal 2015 il tema inizia a essere al centro del dibattito pubblico, politico e mediatico perché non ci sono più
le sanatorie e i decreti flussi, che per quanto opinabili, di fatto cercavano di regolarizzare il fenomeno.
Perciò i migranti migrano servendosi della richiesta d’asilo perché è l’unico canale rimasto. Il problema
della richiesta d’asilo però è che una volta fatta non posso più tornare nel mio paese, perché questa
rappresenta un’accusa nei confronti del proprio paese d’origine. Fare richiesta d’asilo in un certo senso ti
intrappola, ti immobilizza. Quando arrivi e fai richiesta, senza scegliere, finisci in una struttura d’accoglienza
e sei obbligato a restare lì finché la tua domanda d’asilo viene analizzata e questo spesso richiede anche
due o tre anni. Nella migliore delle ipotesi si finisce nelle SAI (strutture di accoglienza e integrazione) che
sono poche in Italia. Sono governate dai comuni e oltre a vitto e alloggio sono previsti dei progetti di
inclusione sociale. Ma queste sono spesso lontane dal centro urbano, ciò significa che si sta parlando anche
di segregazione geografica. Per due o tre anni quindi sei sottoposto a regole che sono simili a quelle dei
collegi. Foucault studiò i collegi per esemplificare anche altre strutture di controllo: in questo senso i centri
di accoglienza più piccoli, gestiti secondo un approccio definito umanitario, sono infantilizzanti: si torna ad
una certa ora, non ci si allontana dal luogo se non facendo delle richieste, non si fuma, non si beve, non si
hanno ospiti e soprattutto la sfera intima e sessuale non è neanche pensata o presa in considerazione.
Quello che emerge sia nel caso precedente al 2015, sia nel caso in cui sbarchi e fai o non fai richiesta
d’asilo, è che non ci sono diritti chiari e acquisiti una volta per tutte, ma sembra che debbano essere
conquistati. L’accoglienza da diritto diventa un dono che viene concesso. Il modello italiano segue una
logica secondo cui il migrante non deve integrarsi ma deve assimilare la cultura che riceve e a questo punto
il problema non è più come si escludono i soggetti ma come si includono perché quando arrivano i migranti
per essere considerati come tali devono prolungare il loro stato di vittima.

LEZIONE 29 NOVEMBRE: Campo giuridico nel Penitenziario §


Oggi introduciamo l’ultimo capitolo del libro “Diritto come questione sociale” che si intitola: Il campo
giuridico nel penitenziario. Domani invece incontreremo Elton Kalihza che ha svolto in carcere il dottorato
di ricerca delle scienze sociali a Padova, ed è uno dei primi esponenti della Convitte Criminolgy, ovvero la
possibilità di coinvolgere chi ha fatto esperienza di detenzione nell’analisi e nell’interpretazione dei dati sul
penitenziario. Partiamo innanzitutto da un articolo che ha scritto la professoressa Vianello che introduce
dati relativi al penitenziario, e che sono anche cambiati a causa del coronavirus. Il capitolo sul campo
giuridico nel penitenziario è stato scritto da Claudio Sarzotti, che insegna all’Università di Torino. Noi
trattiamo il tema con un approccio sociologico giuridico, per quanto il professore Sarzotti appartiene ad
una branca della sociologia del diritto che è più filosofico giuridica. Questo evidente quando parlerà del
diritto nel campo penitenziario. Il Capitolo è diviso in due parti: la prima parte tratta secondo Sarzotti, di
come funziona il diritto all’interno del penitenziario: le questioni che saltano all’occhio sono:
1) c’è un enorme differenza tra ciò che è previsto dal diritto sulla carta e come è invece applicato e
percepito. C’è una distanza tra law in books e law in fact. In questo senso possiamo dire che nel
penitenziario questa distanza è particolarmente problematica. Questa distanza, come abbiamo visto anche
nel caso dell’immigrazione e del genere, è una distanza che noi troviamo sempre tra diritto e realtà sociale.
È questo l’oggetto principale della sociologia del diritto, ovvero l’enorme scarto che c’è tra il testo giuridico
e la vita quotidiana. Il penitenziario in questo senso è un osservatorio privilegiato, come se fosse un
laboratorio in cui si vedono delle dinamiche tra il diritto e realtà sociale, in modo più evidente. Ma sono le
stesse che ci sono anche fuori dal penitenziario. Questo osservatorio può essere quindi utilizzato per capire
meglio il rapporto tra il diritto e la realtà sociale;
2) La difficoltà del diritto ad imporsi all’interno del penitenziario. Da una parte c’è una distanza che riflette
quella che è la distanza tra norma e realtà sociale, dall’altra c’è un tentativo del diritto di entrare dentro al
carcere, tentativo che è stato portato avanti con una serie di interventi, riforme, ma si tratta di un processo
che ad oggi non è ancora compiuto.
Quando il testo parla di attori della storia del campo giuridico nel penitenziario (p.184) divide questi attori
in quattro categorie:
a) Dogmatico, giuridico e potere giudiziario;
b) Scienze criminologiche penitenziarie;
c) Apparato Burocratico e Amministrativo;
d) Infra-diritto delle pratiche detentive.
Questi quattro elementi, insieme, costituiscono il diritto penitenziario vivente. Quando parliamo di campo
giuridico penitenziario dobbiamo tenere conto di una serie infinita di norme, in particolare la legge
penitenziaria la cui definizione contemporanea risale al 1975, in cui avviene una riforma importante
dell’ordinamento penitenziario, ed è la base dell’attuale ordinamento penitenziario. Cambia moltissime
cose rispetto all’ordinamento precedente. Poi abbiamo dei regolamenti di esecuzione dell’ordinamento
penitenziario, quello più innovativo risale agli anni 2000, che è il Dpr 230. Abbiamo poi una serie di altre
normative di cui tenere conto, come la Costituzione. L’articolo 27 recita che la pena deve tendere alla
rieducazione del condannato; abbiamo anche delle normative europee e internazionali sui diritti dei
detenuti, sul regolamento in relazione a come deve esser eseguita la legge detentiva; e poi abbiamo invece
anche delle norme di fonte inferiore, come i regolamenti interni delle stesse istituzioni penitenziarie, o
possono provenire da circolari del Dap, che è il dipartimento centrale dell’amministrazione penitenziaria a
Roma, che arrivano alle sedi decentrate. Al di là del fatto della complessità e della gerarchia delle fonti
normativi, la questione è che il carcere, come dice Sarzotti, è un mondo saturo di norme ufficiali. Noi
abbiamo un’intensa produzione di norme che regolano il penitenziario e che sembrano che da una parte
regolino il minimo movimento all’interno del carcere, ma dall’altra parte molte di queste molto raramente
risultato rispettate. La loro efficacia dipende dall’intersezione di queste norme con questi aspetti che
stanno in questo schema: cioè da una parte c’è la dogmatica giuridica e il potere giudiziario, ovvero
l’ordinamento del 1975, il regolamento del 2000 e le altre riforme. Dall’altra parte però ci sono gli altri tre
elementi di questo schema: le scienze criminologiche penitenziarie è una prospettiva positivista legata alla
criminologia classica. L’apparato burocratico amministrativo secondo cui il carcere è un’istituzione molto
particolare, perché in quanto istituzione totale ha delle leggi proprie di funzionamento, ha delle necessità
proprie. Ha delle contrapposizioni e delle gerarchie interne che strutturano i rapporti sociali all’interno del
penitenziario, e costruisce attraverso questo tipo di organizzazione anche paradossalmente una pericolosità
specifica che può influire sul modo in cui il diritto può essere o meno applicato all’interno del penitenziario.
La decisione fondante del penitenziario e del sistema di esecuzione della pena moderna di concentrare
insieme tanti soggetti in un unico luogo, considerati socialmente pericolosi, crea questa decisione opinabile
perché potrebbero esserci delle alternative, perché crea una pericolosità in più, ed è una pericolosità
costruita. In sintesi: un numero ristretto di operatori deve controllare e gestire un numero molto più
elevato di persone in esecuzione di pena. Che tipo di limiti impone una situazione di questo tipo
all’applicazione del diritto? Un'altra questione è: di quante risorse dispone l’apparato burocratico
amministrativo in termini di operatori, e di risorse economiche e sociali, e come la scarsità strutturale di
queste risorse influisce sull’applicazione del diritto? L’infra-diritto delle pratiche detentive è tutto ciò che
riguarda le norme da un punto di vista sociologico giuridico, cioè sono le norme sociali che vigono
all’interno del penitenziario, ovvero le norme che escono dalla negoziazione tra detenuti reclusi e operatori
e amministratori del carcere. Si tratta di norme anti-informali, che costituiscono comunque degli
orientamenti di azione, delle modalità per interpretare la realtà e per rapportarsi alle aspettative degli altri.
Rappresentano quindi delle generalizzazioni dell’agire. Tra l’informalità delle pratiche detentive e
l’ordinamento penitenziario c’è un mondo di norme sociali che vigono all’interno della comunità che
ovviamente sono rilevanti per interpretare e analizzare la realtà del penitenziario. La sociologia del carcere
si pone un problema che è della sociologia stessa: come si mantiene l’ordine sociale? Gresham Sykes, che
è il primo sociologo ad occuparsi del carcere, nel 1958, si è domandato: come è possibile che il
penitenziario non sia una situazione di rivolte continue? Come è possibile che all’interno della comunità
detenuta non esploda continuamente la violenza? La risposta ovvia che a tutti verrebbe in mente è che c’è
ordine perché i detenuti sono minacciati con la forza e con la violenza. Quello che Sykes indaga è che
questa idea non trova riscontro nella realtà. Non si può mantenere a lungo un ordine attraverso la
minaccia. La violenza non è sufficiente per mantenere l’ordine sociale. Se questo non è possibile in carcere,
non è possibile da nessuna parte. Nessun potere assoluto può mantenere l’ordine sociale solo attraverso la
minaccia e la violenza. Ci sono altre risorse che vengono utilizzate per mantenere l’ordine. Un elemento
fondamentale è quello della legittimazione: come si legittima un determinato ordine sociale? Anche in
questo caso l’osservatorio particolare si pone la stessa domanda: i detenuti pensano che la situazione in cui
sono sia legittima o no? Quando pensano che sia legittima? E se non credono che lo sia perché non attuano
delle rivolte? E se invece pensano che sia legittima, in che termini lo pensano? Riassumendo la prima parte
dell’ultimo capitolo: il campo giudiziario si struttura come l’intersezione di tutti questi elementi: da una
parte il diritto e le decisioni giudiziarie che applicano e che definiscono come valide. Ma dall’altra parte
questo diritto si interseca continuamente nella realtà del modo in cui si struttura il penitenziario con le
scienze criminologiche che fanno riferimento a concetti giuridici con cui il diritto però deve confrontarsi,
con apparati burocratici e amministrativi che per il modo in cui si è costruito nel tempo ha delle sue
necessità, e delle sue leggi e dei suoi limiti, e infine con l’infra-diritto delle pratiche detentive ovvero la
negoziazione informali delle norme tra reclusi e operatori, cioè tra controllori e controllati. Ma da dove
nasce questa difficoltà del diritto nel penitenziario? A questa domanda prova a rispondere Foucault nel suo
testo “Sorvegliare e punire”. Questo testo è citato anche nell’articolo di Sarzotti che dice il rapporto tra
diritto e carcere sono stati assai problematici sin dal periodo storico della sua prima istituzione come
modalità di esecuzione penale. Quest difficoltà del diritto ad imporsi all’interno del penitenziario è
costitutiva del penitenziario. La prigione ha da sempre cercato di sottrarsi ai controlli della legge e dei suoi
principi attraverso la proclamazione dell’autonomia del carcerario rispetto al potere giudiziario. Foucault in
“sorvegliare e Punire” quando ricostruisce la genesi della struttura penitenziaria, dice fondamentalmente
che a cavallo tra Settecento e Ottocento, ovvero quando assistiamo al superamento del potere assoluto e
alla nascita di forme di potere parlamentari, in realtà si sta consumando il confronto dal punto di vista
teorico e filosofico tra diversi concetti del potere . Da una parte i riformatori illuministi come Beccaria,
sostengono che il potere deve essere limitato e che la pena deve essere proporzionale al danno subito,
che deve essere certa e prevedibile, e che il potere deve essere in un qualche modo imbrigliato dal
diritto, deve essere condizionato, messo in forma e limitato dal diritto; Dall’altra parte la prospettiva
conflittualista immagina che il diritto siano a disposizione della parte dominante della società, e non a
tutti. Il diritto è discriminatorio, è selettivo. È un arbitrio messo in forma, un arbitrio prevedibile e
regolato. Quello che dice Foucault è che il potere assoluto vorrebbe continuare ad imporsi. Questa riforma
illuminista, questo progetto sul diritto ha avuto successo nelle società contemporanee ma fino ad un certo
punto, perché c’è un posto in cui questo processo non è avvenuto. Questo contesto in cui rimane il potere
assoluto che è arbitrario e che non ha bisogno di essere legittimato e che decide sulla vita e sulla morte, è il
penitenziario. Il diritto non ce l’ha fatta a seguire il colpevole in prigione, il diritto per molto tempo non ce
la fa. Citando Sarzotti che cita a sua volta Foucault: si tratta di quell’alternativa tra città punitiva prevista
dai giuristi, e istituzione punitiva prevista dal carcere, che i riformatori settecenteschi si trovarono a dover
risolvere, ovvero il dissidio tra la strategia dei giuristi riformatori per i quali la punizione è una procedura
che serve a riqualificare gli individui come soggetti di diritto, cioè a rieducare i soggetti perché ritornino ad
essere parte del corpo sociale; e invece quella dei fautori dell’istituzione penitenziaria per i quali la
punizione è semplicemente una tecnica di coercizione degli individui. La città punitiva per Foucault è la
pena che deve essere esemplare e visibile a tutti, cioè deve fungere da deterrente, che deve fare paura agli
altri. Come diceva Durkheim la pena deve avere la funzione della prevenzione nei confronti della recidiva e
del crimine. Ma in realtà la legge non riesce ad entrare dentro al carcere. La società contemporanea invece
della città punitiva ha mantenuto l’istituzione punitiva, cioè una pena che si nasconde, e che fisicamente si
svolge in modo invisibile all’interno di mura invalicabili. Per Foucault c’è un conflitto tra i riformatori
illuministi e i teorici della pena come coercizione, come addomesticamento. In questo contesto la riforma
illuminista vince dappertutto ma non vince nel carcere.
La seconda parte di quest’ultimo capitolo racconta fondamentalmente il tentativo del diritto di inserirsi
all’interno di questo contenitore. Racconta l’emersione della prospettiva giuridica e il suo confronto con le
scienze criminologiche e penitenziarie, racconta il tentativo di regolare l’apparato burocratico
amministrativo, e il tentativo di imporsi sull’informalità delle norme sociali all’interno del carcere. La
seconda parte racconta del progressivo tentativo di istituzionalizzazione giuridica nel penitenziario. In
questo tentativo ci sono due elementi che vengono evidenziati: il primo riguarda la magistratura di
sorveglianza, che nasce con la riforma del 1975. Foucault dice espressamente che: il magistrato di
sorveglianza è il figlio illegittimo della prigione. È l’idea di un giudice dedicato alla esecuzione della pena
che provi in un qualche modo a far entrare il diritto all’interno del carcere. Il magistrato di sorveglianza, è
una particolare figura della magistratura, ma è un giudice che è piuttosto marginalizzato. Ha una carriera
particolare, e si occupa dell’esecuzione della pena, cioè dei diritti dei detenuti nel loro percorso di
esecuzione. La figura nasce come un magistrato che deve controllare che l’ordinamento penitenziario e che
tutte quelle norme di cui è composto vengano applicate e implementate. Originariamente nasce quindi a
tutela dell’esercizio dei diritti da parte del detenuto ed è un primo tentativo di seguire il colpevole in
prigione, cioè di mettere a disposizione un operatore giuridico che provi ad applicare il diritto all’interno del
carcere. Che cosa viene però denunciato dai teorici della pena sia dai detenuti stessi? Progressivamente
questa figura che è immaginata come una sorta di mediatore tra la popolazione detenuta e gli operatori
penitenziari, si dimostra particolarmente incline a dare ragione all’amministrazione penitenziaria. Il
secondo elemento riguarda l’introduzione di nuove figure sempre nel tentativo di introdurre il diritto, che
siano a servizio dei detenuti in una posizione esterna rispetto al carcere e al sistema penale e giudiziario nel
suo complesso, ovvero la figura del Garante dei diritti dei detenuti. Fondamentalmente è un difensore
civico esterno agli enti locali, collocata sui territori comunali e regionali. In che misura si strutturano i
rapporti tra la magistratura di sorveglianza e il garante dei diritti dei detenuti? Perché c’è bisogno di un
garante di diritti laddove il sistema penitenziario prevede già una figura giudiziaria di tutela dei diritti dei
detenuti? La risposta va ricercata nella struttura stessa del penitenziario ovvero nelle logiche informali e
nell’infra-diritto delle pratiche detentive e nelle organizzazioni specifiche degli apparati amministrativi
singoli. Data la rilevanza di questi elementi, ogni carcere è un mondo a sé.

LEZIONE 30 NOVEMBRE: Garante dei detenuti §


Oggi abbiamo come ospite il dottore Bincoletto, Garante delle persone private o limitate della libertà
personale, nel comune di Padova. Una figura che è stata istituita a Padova molto recente, ma che segue le
scie di un percorso che ha visto una progressiva diffusione di questa figura sul territorio nazionale, partendo
proprio dalla dimensione locale. Questo è un corso della sociologia del diritto e della devianza, e in
particolare ci stiamo interessando alla dimensione giuridica, ovvero di come interviene la dimensione
giuridica nelle questioni sociali. Il sociologo del diritto ha innanzitutto guarda al diritto con uno sguardo
diverso da quello del giurista, che vede il diritto come una costante, non come una variabile. La sociologia
del diritto si interroga sul rapporto, sempre se c’è, tra il diritto e il modo in cui si strutturano i fenomeni
sociali, e il modo in cui la società li affronta. In particolare, abbiamo anche parlato anche dei processi di
criminalizzazione, come si definisce la devianza dal punto di vista sociologico, cos’è la criminalità e come
interviene il diritto penale nella gestione di questo fenomeno. Infine, abbiamo affrontato tre ambiti: il
genere, l’immigrazione e il carcere. Ci interessa particolarmente come interviene il diritto in questi ambiti.
Abbiamo ripreso Claudio Sarzotti, il quale scrive che: quando si guarda al campo giuridico del penitenziario
noi abbiamo una serie di elementi che si intersecano e che fanno sì che il diritto riesca ad agire solo entro
certi limiti: le leggi penitenziarie, le scienze criminologiche, la questione dell’organizzazione amministrativa
del penitenziario cioè tutti i problemi relativi alla carenza di risorse, di personale o la burocratizzazione di
tutti i procedimenti, e infine l’informalità, nel senso che il carcere è un ambiente in cui i compromessi sono
costitutivi della quotidianità detentiva. Il dottore Bincoletto è stato a lungo un insegnante di letteratura e
storia; perciò, attinge a questa esperienza e parte da Dante. Nella divina commedia Dante rappresenta il
mondo dell’aldilà, rappresenta i tre regni dell’oltretomba che sono l’inferno, il purgatorio e il paradiso.
Dante distribuisce le anime a seconda delle colpe che hanno commesso o dei meriti che hanno acquisito
durante la vita nei tre regni, seguendo una legge che è quella del contrappasso. Ad una colpa corrisponde
una pena, ed è una legge molto semplice per certi aspetti. In base a quello che uno ha commesso durante la
vita viene assegnata una sofferenza, una pena particolare che nell’inferno patirà per tutta l’esistenza,
mentre nel purgatorio fino a quando non raggiungerà il paradiso. Quella del contrappasso è una legge che
si basa su un principio che può essere o di analogia o di contrapposizione. Chi pecca di Lussuria, che il caso
di Paolo e Francesca, sono trascinati eternamente da tempeste infernali. Chi ha peccato di Gola, chi ha
dedicato tutta la vita al vizio è condannato a vivere in una condizione disgustosa immerso nel fango. Chi si è
suicidato, chi ha rinunciato alla vita spirituale vengono trasformati eternamente in alberi. Dante nel 1300
non faceva altro che tradurre in termini poetici quella che era una concezione ormai diffusa nelle culture
umane, ovvero una concezione occhio per occhio, dente per dente. Se uccidi una persona, allora sai a tua
volta ucciso. Questa è l’idea originaria della pena, e la ritroviamo un po' in tutte le culture. È una visione per
certi aspetti innata nell’animo umano, che è quella della vendetta. Nell’antichità la pena fisica poteva anche
essere sostituita con una pena pecuniaria. Anche il codice di Hammurabi lo prevedeva. Le quote erano
diverse a seconda delle condizioni sociali della persona e ovviamente c’era una discriminazione nei
confronti dei poveri o degli schiavi. Se andiamo a vedere come nel corso delle epoche si è sviluppata la
giustizia umana, potremmo verificare che si è concentrata su questo principio. La tortura e la pena di morte
sono sempre state praticate, diventavano anzi spettacolo pubblico, così da poter riaffermare il potere del
sovrano sul suddito. Questo è un tema che viene affrontato da Foucault il quale ci mostra come fino
all’inizio dell’Ottocento ci fosse questa consuetudine del pubblico supplizio. È solo alla fine del Settecento
che le cose iniziano a cambiare, ovvero quando a questa visione di tipo meramente afflittivo, punitivo o
retributivo, se ne contrappone un'altra. Il concetto utilitaristico e quello razionalistico della pena. Avviene
infatti durante l’era illuminista, ovvero l’era della ragione. Significa che da qui in poi la percezione e la
descrizione della pena inizia a cambiare. Inizia ad essere letta in altri termini perché la pena deve essere
utile socialmente e deve avere un significato che non sia solo di vendetta ma che sia di utilità sociale.
Beccaria, ad esempio, dimostra che la tortura, non solo è moralmente condannabile ma è nociva da un
punto di vista della giustizia. La tortura fa vincere il reo resistente e fa condannare invece l’innocente
debole. Inoltre, per la prima volta si mette in discussione la pena di morte, che da quel momento è stata
presa in considerazione e poi abolita nella maggior parte dei paesi del mondo. Oltre a questo, nella stessa
epoca, inizia a diffondersi l’idea dei diritti del cittadino universale. Tutti gli uomini, persino gli schiavi che
non erano neanche considerati uomini, hanno eguali diritti. La nuova visione porta a concepire la pena non
più come semplice retribuzione di un male commesso, ma inizia a concepirla come un percorso che deve
essere funzionale alla prevenzione e alla utilità della società. Alla fine, la pena viene concepita
essenzialmente non più come pena fisica ma come privazione della libertà. Sono due le scuole di pensiero
su cui noi concentreremo l’attenzione: La Scuola Classica, che ha una visione statica e retributiva della pena.
Anche se le cose sono mutate, quello che rimane costante nella Scuola Classica è l’idea che la giustizia deve
innanzitutto punire. L’altra scuola è la Scuola Positiva, che assume invece una visione dinamica, per cui si
può arrivare attraverso una riforma del sistema penale ad un cambiamento. Il fine rieducativo e l’esclusione
dall’ordinamento della tortura sono due principi che sono entrati nella nostra Costituzione. Come abbiamo
detto ieri, il diritto per inserirsi nel carcere introduce delle figure di garanzia. Ma cosa significa parlare di
figure di garanzie e quando nasce questa figura? La figura del Garante nasce quando questa concezione
dei diritti universali dell’uomo si diffonde, insieme a cui si diffonde il modello democratico stesso. La
prima figura di garanzia si identifica nel ombudsman (difensore civico) che nasce nel Nord Europa, per la
precisione in Svezia all’inizio dell’Ottocento, per rendere effettivamente effettivo il funzionamento del
sistema parlamentare, che si era in un qualche modo ingrippato a causa di uno scontro tra governo e
parlamento. In questo scontro era necessaria quindi una figura terza che mediasse. Una prima figura di
Garante appare quindi agli inizi dell’Ottocento in quel contesto. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, si
arriverà alla definizione di una dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quella del 1948, con la quale la
comunità degli Stati, proclama l’universalità dei diritti dell’uomo e con questo la necessità di difendere
questi diritti creando delle figure nuove, per far sì che vengano rispettati non solo in tutti i paesi ma in tutte
le diverse stratificazioni sociali. Si passerà quindi dalla figura del difensore civico a quella del Garante,
perché questo tratta temi specifici e cerca di mantenere il corretto funzionamento del sistema. I garanti
non sono figure giurisdizionali, non sono uomini di legge in senso stretto, non sono giudici o avvocati, ma
sono figure extra giurisdizionali che però possono avere un ruolo estremamente importante per garantire il
corretto funzionamento. In Italia la figura del Garante è aumentata, specialmente dagli anni 70’, e
trattano temi specifici quali: dell’infanzia e dell’adolescenza, della privacy, della comunicazione. Un
aspetto importante dei Garanti e specialmente di quelli che si occupano dei diritti universali dell’uomo, è
che sono collegati ad una rete non solo nazionale, ma internazionale. Dal Novecento in poi è andato
crescendo questo sistema giuridico internazionale, attraverso organi quali l’ONU, il Consiglio d’Europa, la
Corte Europea dei diritti umani. I garanti dei detenuti in questo caso fanno ampio riferimento a quel corpo
giuridico e a quelle istituzioni. In alcuni casi fanno anche parte di quelle istituzioni. È il caso del garante
nazionale Mauro Palma che è la figura ufficiale all’interno dell’ONU ed è colui che garantisce il rispetto dei
protocolli. In questo senso la prospettiva in cui si collocano i garanti è una prospettiva glocale, cioè sia
globale che glocale. I garanti territoriali rappresentano perciò la parte più vicina alla realtà locale, ma non
per questo scollegata dal resto. Parlando in maniera più specifica del ruolo del garante, i punti di
riferimento per chi opera nell’ambito della detenzione, sono innanzitutto la Costituzione italiana (Art. 27),
poi le carte dei Diritti e dei Doveri del detenuto, una legge dell’ordinamento penale del 1975 in cui prima
nell’articolo 18 e poi nell’articolo 68 viene introdotta la figura del garante con diritto di entrare e di visitare
in qualunque momento gli istituti carcerari e di avere colloqui con i detenuti per verificarne le condizioni. Ci
sono molti regolamenti istitutivi che sono comunque dei riferimenti giuridici per la figura del garante. Ogni
comune in cui c’è un istituto di pena ha la possibilità, anche se in molti casi non viene esercitata, di
nominare o di eleggere un garante, istituendo un regolamento che è veicolante per il garante stesso.
Quando si parla di organi territoriali si intende il Comune, la Provincia, la Regione e lo Stato. Nel caso di
Bincoletto, il dottore è stato eletto ad aprile del 2021 dal Consiglio Comunale. Resta in carica per 5 anni e il
suo compito è quello di tutelare le persone che sono private o limitate della libertà . Spesso si parla di
garante per i detenuti in maniera semplificatoria, ma si possono anche includere anche chi è
temporaneamente recluso in camere di sicurezza, chi è sottoposto al Tso ovvero il trattamento sanitario
obbligatorio, oppure i Cpr che sono i Centri di Permanenza e di Rimpatrio, oppure i Cpt che sono invece i
centri di permanenza temporanea, ovvero tutti i luoghi in cui le persone sono private o limitate della
propria libertà. In generale queste sono le categorie che rientrano nell’ambito. Padova è uno degli ultimi
comuni ad aver adottato un garante, manca ancora Treviso. Nel Veneto a livello comunale ci sono al
momento sei garanti, mentre a livello regionale ce n’è uno. Padova è un caso importante dal punto di vista
carcerario perché c’è la casa di reclusione, che è uno dei penitenziari più densi d’Italia. Attualmente ci sono
550 circa detenuti ma ci sono stati momenti in cui ha sfiorato le 1000 presenze, tenendo in conto il fatto
che i posti letti disponibili in totale sono circa 500. Ora con il covid i numeri si sono contenuti rispetto ai
picchi più alti; tuttavia, siamo sempre sopra quella che dovrebbe essere la cifra massima. Il dottor
Bincoletto ha lavorato principalmente nel carcere, sia nella casa di reclusione sia nel centro circondariale.
La differenza tra i due istituti è che la casa di reclusione è il luogo in cui vengono mandati i detenuti che
hanno avuto una condanna definitiva, superiore ai 5 anni. Il carcere circondariale invece è il luogo in cui
vengono i detenuti in attesa di giudizio oppure quelli che hanno condanne brevi fino ai 5 anni. La realtà
del circondariale di Padova è una realtà molto più contenuta rispetto alla Casa di reclusione, perché
attualmente sono circa un centinaio. C’è ovviamente in quel caso un turn over più veloce rispetto alla casa
di reclusione, anche se nell’ultimo periodo la tendenza è stata quella di trasferire detenuti con condanne
brevi dal circondariale alla casa di reclusione. Questo ha comportato delle difficoltà, perché sono due
tipologie diverse di reclusi: da una parte c’è chi sa che deve stare in carcere per molti anni se non per tutta
la vita e dall’altra che chi sa che potrebbe anche essere assolto, in attesa di giudizio o ha una condanna
breve. Sono sorti perciò dei problemi relazionali e di convivenza. Oltre a questo, poi chi viene anche
condannato in maniera definitiva entra in un percorso che prevede secondo l’ordinamento penitenziario
delle tappe e delle opzioni di vario genere: una di queste è lo sconto di pena per buona condotta, ovvero se
un detenuto si comporta bene può avere una riduzione di pena (45 giorni ogni semestre), ma ovviamente
basta un rapporto negativo per fare saltare questa possibilità. Quando il detenuto esce dal carcere però
può accedere a una forma di penalità, perché non esce libero. Quando si parla nel senso comune si sente
spesso dire “questo soggetto ha ucciso una persone ed è fuori solo dopo dieci anni”. Quello che noi
indaghiamo è che si è fuori, ma in che senso? Perché l’individuo non è libero, questa è solo una misura
alternativa. Le misure alternative sono le semi-libertà, i domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali, la messa
in prova. Tutte queste sono diverse configurazioni di pene alternative in cui il detentivo può lavorare fuori
di giorno ma deve tornare in carcere la notte, oppure è affidato ai servizi sociali e deve seguire un
determinato percorso controllato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna, che dovrebbe la correttezza del
percorso stesso. Questo è previsto perché il Carcere in Italia è regolato da una Costituzione che tiene conto
dell’aspetto trattamentale, rieducativo e preventivo di quel criterio che è di tipo utilitaristico e razionalistico
della pena. La pena non è solo retribuzione, ma è anche un momento di possibile cambiamento, di possibile
percorso di reinserimento sociale. Le statistiche, le ricerche recenti dimostrano che quei detenuti che
riescono a fare un percorso efficace di questo tipo alla fine ricadono nel reato, nella recidiva, in una
percentuale estremamente ridotta (20%) rispetto a coloro che nel corso della loro detenzione non
usufruiscono in alcun modo delle misure alternative o di percorsi di questo genere, e in quel caso la recidiva
schizza all’80%. Se si riuscisse a far funzionare il sistema penale in maniera efficiente ed effettivamente
trattamentale, si ridurrebbe molto il tasso di recidiva. Ritornando al tema del garante, il garante ha il
compito di ascoltare, osservare e se necessario di denunciare le strutture nel funzionamento del carcere,
sia nel caso si tratti di mancate risorse sia nel caso in cui riguardi un abuso. Un esempio è il caso del
carcere di Santa Maria Capua in cui dei gruppi di agenti, dopo una rivolta che c’era stata, sono entrati nel
carcere e hanno pestato buona parte dei detenuti, che però si erano già ritirati dalla rivolta. C’è stata una
vendetta, una ripresa di territorio. Questo è stato un episodio che indica un certo modo di intendere la
prigione e il ruolo degli agenti carcerari, che in realtà sono importantissimi, sia nel bene sia nel male. Gli
agenti sono quelli che hanno a che fare tutti i giorni con i detenuti. Il garante è importante perché spesso le
istituzioni totali vengono cancellate anche dall’immaginario collettivo. Tornando alla storia della figura del
garante possiamo dire che: i difensori civici nascono negli anni Settanta e Ottanta, e solo nel 1998 si
introduce una proposta di legge per l’istituzione di un difensore civico per le persone private della libertà.
Però poi questa proposta viene cassata, quindi nel Novecento non è esistita la figura del Garante. Questa
compare per la prima volta nel 2003, nel comune di Roma che istituisce il primo garante dei detenuti, per
iniziativa di una amministrazione comunale. Poi nel 2006 alcune Regione e altre città istituiscono e
nominano il Garante dei diritti e quindi inizia a diffondersi questa figura sul territorio. Ma ancora oggi, in
tutta Italia, non sono neanche un centinaio, rispetto ai penitenziari presenti che sono invece circa 190 sul
territorio. Solo nel 2013 nasce il Garante Nazionale, quasi 10 anni dopo, e inoltre entra davvero in
funzione solo nel 2016. Non c’è proprio un rapporto tra garante nazionale e territoriale. Ognuno si muove
in autonomia però in maniera coordinata. Il Garante comunale ultimamente si sta diffondendo, al
momento in Italia sono 56. È un’autorità di controllo dotata di autonomia e di indipendenza. È una figura
che promuove i diritti umani, ed è l’anello di congiunzione tra l’interno e l’esterno del carcere e il territorio
circostante. Le prerogative del garante sono riconosciute dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario,
riformato dal decreto legislativo 128/2018, anche dall’articolo 67 e 67 bis e inoltre anche dall’articolo 35
che cita il garante nazionale e regionale. Beccaria con “Delitti e delle pene”, ha smosso per la prima volta a
livello internazionale il sistema penale. In conclusione, Beccaria dice che: è meglio prevenire i delitti
piuttosto che punirli. Questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli
uomini al massimo della loro felicità, o al minimo di infelicità possibile. Siano dunque inesorabili le leggi,
inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari, ma sia dolce, indulgente e umano il legislatore. Qui si
rivolge l’idea della crudeltà della pena. La legge deve essere inflessibile ma la pena non deve essere
crudele. Continua dicendo: perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molto contro un privato
cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria la minima delle possibili, nelle date
circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi. Le modalità con cui entrare in rapporto con il
garante e comunicare con questa figura sono essenzialmente tre: il detenuto può scrivere una lettera e
inviarla; può inviare una e-mail in quanto c’è un servizio ovviamente controllato, di e-mail attraverso cui il
detenuto può trasmettere una richiesta; l’ultima modalità è quella della domandina, che è la modalità
standard di comunicazione o di non comunicazione all’interno del carcere. È un foglietto in cui il detenuto
può chiedere di comunicare con un garante, con un educatore, con uno psicologo. È di non comunicazione
perché spesso queste richieste non si sa che fine facciano. Per quel che riguarda le problematiche che
vengono sollevate i temi sono: la richiesta di un lavoro, perché nel carcere è fondamentale perché togli
l’individuo dalla condizione di inerzia, dal tempo indistinto della cella; l’altro tema è quello della salute sia
in senso fisico che psicologica, e spostare fuori i detenuti è sempre estremamente complicato quindi spesso
si tamponano le situazioni con degli antidolorifici ma ci sono anche situazioni pesanti che faticano a trovare
una rapida soluzione; un altro tema riguarda il rapporto tra detenuti o fra detenuti e gli agenti o con gli
educatori perché ci sono difficoltà relazionali che a volte dipendono dall’appartenenza etnica, di classe, di
genere; un altro tema riguarda la comunicazione con l’esterno perché alcune volte accade che un detenuto
appena arriva non riesca a comunicare neanche con l’avvocato per circa un mese. La circolazione delle
informazioni non è così veloce.

LEZIONE 1° DICEMBRE: Seminario Vivere il carcere §


Oggi introduciamo la distanza tra la rappresentazione giuridica del carcere e la realtà della quotidianità
detentiva. Oggi incontriamo Elton Kalica e introduciamo il tema degli spazi e delle culture nel penitenziario,
e lo facciamo partendo da un testo che è “Vivere il carcere” che è stato scritto dalla Professoressa Vianello,
l’ultima edizione nel 2019. Per parlare di questo libro Elton ci racconta qualcosa di sé. Dice che questo è un
libro particolare, unico almeno in Italia e forse anche in Europa. Si inserisce in questo quadro teorico e
metodologico che è la Convict criminology ovvero la Criminologia dei detenuti, manifestando l’esigenza di
fare della ricerca in carcere, di studiare il carcere coinvolgendo nella ricerca i detenuti stess i. Il detenuto è
un collaboratore, un collega. Elton è un ex carcerato e ha partecipato alla ricerca in prima persona. Offre
delle finestre, dei ritagli di carcere da un’altra prospettiva. Il testo è stato diviso per argomenti, si parla di
diritto al lavoro, del diritto alla sanità, del diritto all’istruzione, e all’interno di ognuno di questi temi ci sono
dei racconti più descrittivi da parte di Elton Kalica. La parte di analisi e la parte interpretativa è stata
lasciata volontariamente agli autori, contributi offerti, gli stralci di vita del carcere, sono invece offerti da
Elton, perché la ricerca che è stata condotta si basa sul fatto che se si guarda il carcere da entrambe le
prospettive forse si riesce ad ottenere una conoscenza migliore del carcere. Questo è l’obiettivo di questo
libro. La necessità di questa ricerca nasce innanzitutto dal fatto che c’è un grande problema, ed è sempre
emerso nei testi prodotti da chi fa ricerca in carcere e che studia la sociologia del diritto e del penitenziario,
ovvero che entrare in carcere è difficile. È difficile per via di una serie di ostacoli messi lì dall’istituzione
stessa. Le mura del carcere non hanno solo la funzione di primaria di evitare che i detenuti evadano, ma ha
anche una funzione secondaria che è di tenere nascosto quello che accade all’interno del carcere.
Scavalcare quelle mura ed entrare dentro quelle persone è difficile. Il motivo per cui gli studiosi, i ricercatori
si interessano al carcere è perché vogliono capire questa distanza, se esiste e quanto è profonda tra law in
books e law in fact all’interno del carcere, ma per l’istituzione penitenziaria spesso questo non è un motivo
abbastanza valido per aprire le porte e accogliere il ricercatore. Questo diciamo è una delle problematiche
principali. Chi riesce ad entrare fa ricerca però insomma i tempi e le burocrazie sono sempre lunghe. C’è
inoltre un altro problema che è altrettanto importante perché una volta che il ricercatore entra in carcere
deve fare i conti con quella che è la vita, le procedure all’interno del carcere. La cosa più difficile era il
tempo, perché il tempo che si ha a disposizione per condurre un’intervista o di o raccolta dati è ridotto. Le
persone stanno rinchiuse dentro le loro celle o all’interno del proprio reparto e al ricercatore non è
permesso entrare in questi luoghi. L’intervista viene spesso condotta in una stanza appositamente adibita.
Di solito le ore previste per condurre queste interviste sono 2 ore la mattina e 2 ore al pomeriggio, ma che
poi con il tempo di entrare a causa del trasferimento dei detenuti, si riduce sempre ad un’ora. Un ulteriore
difficoltà è quella di avere un campione di detenuti su cui lavorare, avere la possibilità di scegliere un
campione. Elton in questo lavoro ha anche fatto un po' da mediatore, perché quando la professoressa
Vianello o i laureandi in tesi avevano bisogno di fare ricerca, lui chiedeva agli altri detenuti se fossero
disponibili. Un’altra difficoltà, che è legata al processo di prigionizzazione che produce il carcere, è il fatto
che la cultura del carcere sia per il detenuto sia per le guardie produce una divisone netta tra loro. Questa
divisione è molto importante nel momento della relazione con il detenuto. Tornando un po' all’inizio quello
che abbiamo detto è che non solo il ricercatore fa fatica ad entrare, ma anche il detenuto fa fatica a
raccontare, di offrire quella conoscenza che solo lui ha. C’è anche da dire che il carcere istituzionalizza il
detenuto. Questo significa che il detenuto comincia a credere a quelle che sono le finalità dichiarate del
carcere, per cui inizia a pensare che c’è un motivo se è in carcere, che è lì per essere rieducato e che il
carcere offre degli strumenti che vanno sfruttati, e che l’obiettivo sia tornare in società cambiati e
migliorati. Tornando a quello che dicevamo prima, il ricercatore fa fatica ad entrare in carcere, ma c’è
anche da parte dei detenuti c’è una difficolta di raccontare. La Convict Criminology cerca di mediare un po'
di rimediare a queste difficoltà, chiedendo alle istituzioni che hanno interesse nello studio del carcere, di
offrire ai detenuti le competenze di analizzare il carcere. Il criminologo detenuto deve in un qualche modo
studiare, laurearsi, imparare la metodologia della ricerca, avere un quadro di quello che sono le teorie su
cui si basa la conoscenza del carcere, e questo non perché si posizionano in modo acritico i discorsi teorici
del carcere, ma perché vuole che si abbia una conoscenza adeguata. Per quel che riguarda l’istruzione in
carcere, il diritto allo studio nel carcere è identico a quello che vige all’esterno. Quello che cambia è che ci
sono delle difficoltà. Innanzitutto, si inizia dalla scuola elementare e dalla scuola media tenendo comunque
conto che si sta parlando con adulti, infatti a queste sono dedicate circa 50 ore, così da poter prendere il
diploma della terza media. Per quel che riguarda il diploma superiore l’ordinamento sul diritto allo studio
nel carcere dice che ci dovrebbe essere almeno una scuola superiore per Regione. Padova, Vicenza e
Treviso ne sono dotate, mentre intraprendere un percorso Universitario non è poi così tanto considerato,
non è strutturato come i precedenti percorsi scolastici. In ogni caso il detenuto può iscriversi grazie all’aiuto
dei volontari, che possono pagare le tasse e recuperare le dispense o i libri, o cercare qualcuno che il
detenuto possa contattare in caso di bisogno e che possa da fare da intermediario tra il detenuto e
l’università. L’università di Padova invece ha messo di sua volontà a disposizione dei tutor che entrano in
carcere, di cui la professoressa Vianello è la coordinatrice. Il detenuto studia da solo in cella, ovviamente
non può frequentare in dad, e quando è pronto scrive al direttore di essere autorizzato a sostenere l’esame
in carcere. Il direttore manda all’Università la richiesta, e quando questi due sistemi si mettono d’accordo
(da due settimane a due mesi) allora si può effettuare l’esame.

LEZIONE 6 DICEMBRE: Carcere e identità: il codice del detenuto


Oggi riprendiamo il quarto capitolo: La reazione istituzionale, carcere e identità deviante. Alcune questioni
che riguardano il diritto nel penitenziario le abbiamo viste la settimana scorsa. Abbiamo detto che
fondamentante c’è una distanza molto grande tra la norma e tra come si sviluppa concretamente
l’organizzazione all’interno del penitenziario. Questa distanza è quindi tra quelle che sono le previsioni
normative, quelle che sono le risorse che dovrebbero servire per la rieducazione e quello che si struttura
dentro il carcere. Come si riempie questa distanza? Un contributo importante che prova a riempire questa
distanza, e che prova a capire come si sviluppi l’ambiente penitenziario, è dato dalla sociologia carceraria.
Quello che interessava alla professoressa Vianello e ad Alvise Sbraccia era dare cittadinanza ad un discorso
sul carcere dentro un corso di sociologia della devianza e della criminalità. Questo capitolo si pone in stretta
relazione con i due capitoli precedenti. In quella sorta di imbuto con cui abbiamo schematizzato i processi
di criminalizzazione, il carcere si colloca alla fine dell’imbuto come involucro, come contenitore che in un
qualche modo raccoglie quelli che sono i risultati della selettività dei processi di criminalizzazione. Noi
abbiamo parlato di criminalizzazione primaria e secondaria come una serie di filtri, e abbiamo detto che
non tutto quello che potenzialmente è reato viene denunciato o viene scoperto. Inoltre, se viene scoperto e
denunciato comunque non tutto ciò che denunciato è declinato come reato e viene effettivamente trattato
come tale. Quando si arriva ad un processo penale non tutto quello che arriva al processo penale è
condannato, e quando c’è una condanna non tutti coloro che vengono condannati finiscono in carcere, ma
si possono adottare misure alternative al carcere. Quindi tutto ciò che scivola attraverso questo imbuto
arriva come un precipitato all’interno del carcere. L’altra questione di cui abbiamo parlato è che guardando
al carcere a ritroso è possibile verificare la selettività dei processi di criminalizzazione proprio perché la
composizione sociale della popolazione detenuta ovunque nel mondo ha delle caratteristiche ben precise,
caratteristiche che sono: estrazione sociale relativamente bassa, poca istruzione, poco lavoro, disagio
sociale esteso, spesso trascorsi di tossico dipendenza e di disagio psichico. Il carcere è quindi, in una
maniera spropositata rispetto alla presenza sui territori, popolato da stranieri o da minoranze etniche. Il
tema del carcere negli Stati Uniti è centrato sulla popolazione afroamericana, con delle statistiche che ci
dicono che tra i 18 e i 30 anni un afroamericano su tre farà esperienza di carcere. Anche in Italia la maggior
parte dei detenuti è di origine straniera. Abbiamo avuto, negli ultimi anni, un 10-12% di popolazione
straniera in Italia e un 35-37% di popolazione straniera detenuta in carcere. Per creare un collegamento con
questi processi di criminalizzazione di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo, ci concentriamo su questo
quarto capitolo su quelli che sono i principali concetti e le principali prospettive che la sociologia ci offre per
riempire la distanza tra la norma e la realtà carceraria. Il primo paragrafo parla della Criminalità punita e
del carcere e parlare di criminalità punita significa parlare del risultato dei processi di criminalizzazione,
definizione che ci è stata offerta da Massimo Pavarini che è stato un criminologo critico di Bologna. Questo
autore quando parlava di criminalità in carcere, essendo lui un penitenziarista, ovvero quando parlava di
detenuti parlava di criminalità punita. Il linguaggio che usiamo quando parliamo di questi argomenti è
importante, perché noi usiamo parole come categorie analitiche, ma ad esempio il concetto di detenuto è
relativo, è preferibile parlare di persone in regime in detenzione. Persone in regime di detenzione significa
che sono sottoposte a un determinato regime, ma non è una visione essenzialista come invece lo è la parola
“detenuti”. Una persona in sostanza non è un detenuto e basta. Massimo Pavarini in maniera originale
quando parlava di persone in regime di detenzione parlava di criminalità punita, il che sottende che c’è
un’ampia fascia di potenziale criminalità che non scorre attraverso i filtri dei processi di criminalizzazione, e
se ci scorre ci scorre fino a un certo punto ma non arriva in carcere. Che cosa ci dice fondamentalmente la
ricerca sul reale andamento del carcere, sulla reale funzione del carcere e sul modo in cui funziona? Una
frase che riassume la questione che è di Thomas Mathiesen tratta dal testo “Perché il carcere” dice che:
sono duecento anni, dal cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, che continuiamo ad affidarci e a legittimare
questa istituzione sulla base che sia capace di trasformare le persone, di rieducarle e di restituire alla
società un individuo, un soggetto migliore. Questa è l’idea del carcere moderno. Ma questo non è mai
successo: “l’idea che la riabilitazione consista nel rimettere il detenuto in condizione di funzionalità può
essere considerata un’ideologia” un’ideologia che illustra quello che si fa in carcere come se fosse
concepito per riportare il detenuto alla funzionalità, ma questa è antica quanto il carcere. De Beaumont e
Tocqueville, che sono stati i precursori della sociologia, vengono mandati nel 1831 in America dalla Francia,
per vedere i nuovi modelli di carcerazione che si stanno sviluppando in America. Quello che loro dicono
tornando è che il precedente sistema di reclusione si sta formando si sta formando in un sistema
penitenziario. L’idea della pena è proprio quella di trasformare l’individuo. Non si tratta più solo di
neutralizzarlo, contenerlo o giustiziarlo, ma la novità nell’idea della trasformazione. Quello che dice
Mathiesen è che in realtà questa idea non ha funzionato, ma non è l’unico a dirlo. Alla fine del Settecento il
primo osservatore che è andato a vedere lo stato delle carceri in Inghilterra già diceva che erano un
disastro, che non era possibile trasformare il soggetto attraverso quel meccanismo. Successivamente
Durkheim nel 1900 nel suo testo “Due leggi dell’evoluzione penale” scrive: vediamo tutti che il carcere non
funziona. È davanti ai nostri occhi da anni ma non riusciamo a immaginare di sostituirlo con niente di
migliore, con niente di diverso. Questa consapevolezza è una consapevolezza che nasce con il carcere
stesso, e accompagna anche tutti coloro che lo sostengono. Foucault nel 1971 dirà che la riforma del
carcere nasce con il carcere stesso. Quindi c’è un problema per un’istituzione che ha altissimi costi
economici, sociali e umani, e che non produce gli effetti desiderati e sui cui però continua a legittimarsi.
Quello che fa il capitolo è di associare la trasformazione che il carcere ha subito alla trasformazione della
definizione della pena, a partire dall’era illuminista con i “Delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Il carcere
diventa una specie di macchina burocratica che dovrebbe essere regolato dalla legge, salvo il caso in cui
si ammette che la legge, il diritto si ferma alle porte della prigione, non riesce ad entrare. Quello che
succede, come dice Foucault, è che il diritto non riesce a seguire il colpevole in prigione. Quello che succede
invece dentro al carcere è qualcosa di oscuro, qualcosa che la legge non riesce a raggiungere e a regolare, e
che nessuno può vedere, che si struttura su dinamiche di contrattazione e di compromesso, nel bilancio tra
convivenza e necessità di sicurezza. In sociologia ci sono alcuni concetti fondamentali, che sono quelli
ripresi appunto nel capito quattro: il primo è un concetto che appartiene a Goffman, il quale nel testo
“Stigma” tratta una definizione del concetto di stigmatizzazione che poi gli sarà molto utile quando parlerà
di istituzione totale nel testo successivo che è “Asylum”. In questo testo cerca di capire come funzionano le
istituzioni totali in generale anche se nello specifico in questo caso si tratta di un ospedale psichiatrico.
Quando abbiamo parlato di stigmatizzazione avevamo detto che un soggetto stigmatizzato è un soggetto la
cui identità non è più intatta, ma è un soggetto con un’identità segnata da quello stigma ed è sulla base di
questo stigma che noi ridefiniamo tutte le nostre aspettative sociali. La stigmatizzazione dice Goffman può
essere definita come un processo sociale attraverso il quale si connota negativamente chi rivela segni più o
meno visibili di una differenza rispetto alla norma. Il risultato è l’esclusione dell’individuo stigmatizzato
dalla piena accettazione sociale. Nel nostro testo si cerca di indagare quella che è la relazione tra reazione
istituzionale (pena), stigmatizzazione e processi di costruzione dell’identità. L’aspetto rilevante per quel che
riguarda il modo in cui funziona il diritto rispetto a questi fenomeni è il fatto che: l’identità sociale di un
individuo è il risultato di un gioco di specchi che riflette le percezioni di sé, quelle degli altri e le relazioni
tra i diversi gruppi sociali. Una realtà, dunque, che per quanto fatta spesso di semplificazioni e di
stereotipi, è oggetto di continua contrattazione e ridefinizione. Questo si può dire anche per l’identità
deviante. Qualcosa di nuovo e di diverso succede quando all’identità sociale si sovrapporre un’identità
giuridicamente definita. Le identità create dal diritto sono molto più rigide, sono sempre formali, generali e
astratte. Costituiscono delle figure ideali a cui vengono associate delle immagini definite. La principale
funzione delle norme giuridiche rispetto alle norme sociali è quella di semplificare la realtà, di dare stabilità
alle nostre aspettative sociali. Anche per quel che riguarda le identità giuridiche, il loro compito è quello di
offrire stabilità e affidabilità alle aspettative di ruolo e di status che sono connesse a quelle identità definite.
Il soggetto non viene solo etichettato e criminalizzato ma viene anche istituzionalizzato, cioè viene
trattato da un’istituzione sulla base dell’identità costruita prima socialmente e poi giuridicamente. Quello
che trasforma un deviante in un criminale, quello che trasforma una persona che ha un disagio psichico
in un pazzo, è questo processo di irrigidimento delle etichette e di progressiva istituzionalizzazione che
costruisce delle identità molto più resistenti al cambiamento. Secondo il processo di stigmatizzazione un
soggetto con una fedina penale sporca, con un trascorso psichiatrico certificato, un soggetto con una
segnalazione specifica per problemi comportamentali, non è più un soggetto che ha un’identità sociale
totale, ma è un soggetto che ha un’identità sociale stigmatizzata. Quando interviene la definizione giuridica,
la reazione istituzionale e maggior ragione i processi di istituzionalizzazione, questa stigmatizzazione si fa
più forte e le nostre aspettative rispetto a questo soggetto si ricollocano e si ridefiniscono attorno a questa
etichetta. Per Goffman un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di
gruppi di persone che tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a
dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e fortemente
amministrato. L’istituzione totale su cui per la prima volta fa ricerca etnografica Goffman è un ospedale
psichiatrico, ma anche la fa sfidando quella gerarchia della credibilità di cui parla Becker. Il suo testo si
struttura in due parti: in una c’è il mondo dell’internato, e nell’altro il mondo dello staff. Quello che fa
Goffman è provare a guardare i diversi punti di vista, cercare di capire come è vissuta l’istituzione totale sia
da una parte che dall’altra. Le caratteristiche specifiche di questa istituzione totale sono che: tutti gli aspetti
della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa unica autorità; ogni fase delle attività giornaliere si
svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone trattate tutte allo stesso modo e obbligate a fare
le medesime cose; le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente predefinite secondo un piano
posto dall’alto, da un sistema di regole formali, esplicite e da un corpo addetto alla loro esecuzione; le varie
attività obbligatorie sono organizzate secondo un unico piano razionale designato ad adempiere allo scopo
ufficiale dell’istituzione, che nel caso psichiatrico è la cura della malattia e nel caso del carcere è la
rieducazione del condannato. Goffman dice esplicitamente che si può trattare anche di caserme, di collegi
particolarmente rigidi, di campi di concentramento. Quando Goffman spiega cosa sia secondo lui il
processo di disculturazione, dice che le istituzioni totali sono tali per cui nel momento in cui ci si entra
all’interno, l’istituzione totale attua tutta una serie di meccanismi appositamente per distruggere l’identità
precedente, e rendere il soggetto che viene internato permeabile alla ricostruzione di un’identità nuova.
L’ingresso in un’istituzione totale comporta l’immediata perdita dei riferimenti che il soggetto aveva nella
sua vita precedente, una serie di umiliazioni, degradazioni e profanazioni del sé. Le procedure di
ammissione comportano una sostanziale perdita di tutto ciò che di personale l’individuo possedeva, e la sua
sostituzione con oggetti standardizzati e uniformi e di proprietà dell’istituzione. In una cultura in cui il
possesso di beni materiali fa parte in così larga misura della concezione che un individuo ha di sé stesso,
essere privati delle proprie cose personali colpisce livelli profondi di personalità, perché vengono privati dei
loro abiti, dei loro oggetti personali, del loro nome che viene sostituito con un numero di matricola.
Dopodiché il soggetto viene sottoposto a una serie di procedure che Goffman definisce test di obbedienza
che servono per comunicare subito al nuovo internato qual è il comportamento vantaggioso da tenere
all’interno del carcere se si vogliono minimizzare le sofferenze. Progressivamente, poi la vita quotidiana
all’interno del carcere, si struttura attraverso una serie di tentativi di rimodellare l’identità sociale
dell’individuo. Garfinkel nel 1956 parla del perché le cerimonie di degradazione dell’identità abbiano
successo. Attraverso queste cerimonie di degradazione l’identità pubblica di un attore sociale viene
trasformata in qualcosa considerato come inferiore nello schema locale dei tipi sociali. Le identità in
questione devono essere identità totali, cioè queste identità devono essere tipi motivazionali piuttosto che
tipi comportamentali. Questo significa che il soggetto non è più un soggetto che ha compiuto un reato, ma
è un soggetto deviante. Un soggetto la cui identità diventa connotata dal fatto di aver compiuto un
comportamento deviante. L’atto in sé non è più un comportamento, ma diventa l’essenza dell’individuo. È
qualcuno che vuole e che ha deciso di comportarsi così. Garfinkel dice che le cerimonie di degradazione
avvengono normalmente in arene appropriate. Nella nostra società la corte, i tribunali e i suoi addetti,
hanno su queste cerimonie qualcosa di simile ad un monopolio legittimo. L’individuo deviante e criminale è
costruito attraverso dei processi, ed è la stessa cosa che diranno Becker e Goffman nel momento in cui va a
vedere come si costruisce il detenuto, l’immagine dell’internato, come si assume l’identità del detenuto.
Quando abbiamo parlato dei crimini dei colletti bianchi e dei processi di resistenza alla stigmatizzazione dei
soggetti che invece hanno uno status privilegiato, abbiamo accennato al testo “Come si diventa non
devianti?” ovvero com’è che si resiste ai processi di criminalizzazione, com’è che nonostante si attuino
determinati comportamenti non si passa attraverso quei filtri selettivi che costituiscono i processi di
criminalizzazione? Tutta la realtà è pensata come un processo di costruzione sociale, e nel caso
dell’assunzione dell’identità di deviante, di criminale e poi di detenuto è pensata come un continuo
riflettersi di immagini sociali che vengono costruite attraverso processi di stigmatizzazione e vengono
cristallizzate attraverso identità giuridiche, cioè attraverso l’applicazione di determinate identità definite
dalla legge. Quello che Goffman dice è che progressivamente si va incontro ad una mancanza di
allenamento rispetto a quelle che sono le attività della vita quotidiana all’esterno del carcere che rende
l’individuo incapace di maneggiare alcune situazioni tipiche della vita quotidiana del mondo esterno, se e
quando vi farà ritorno. Anche se alcuni ruoli potranno essere ricostruiti dall’internato quando farà ritorno al
mondo esterno, è chiaro che altre perdite risultano irreversibili. Questo ci interessa perché da una parte ci
sono dei riscontri empirici che evidenziano come sia assolutamente vero che i detenuti vanno incontro a
dei processi di disculturazione; dall’altra ci interessa perché è del tutto contrastante con lo scopo
riabilitativo del carcere, perché non restituisce alla società un individuo migliore, più capace e più
disposto ad integrarsi, ma restituisce un soggetto che ha vissuto per molti anni all’interno di un
istituzione in cui la vita quotidiana è organizzata in modo del tutto diverso da quello esterno. Come si può
immaginare di risocializzare ad una comunità un individuo collocandolo in una situazione completamente
diversa rispetto a quella in cui dovrà poi ritornare? L’istituzione inoltre sottopone il soggetto a processi di
infantilizzazione e di mancanza totale di autonomia, perché c’è sempre qualcuno che decide per gli altri la
scansione della loro quotidianità: quando fare la doccia, quando mangiare per anni per un periodo
prolungato. Cosa capita quando un detenuto esce dopo molto tempo? Una l’aveva già accennata Elton che
diceva che le persone che sono sottoposte a dei regimi severi come l’isolamento, sono persone che non
sono in grado neanche più di comunicare, di rapportarsi con gli altri, e di organizzare un pensiero con l’idea
di avere un interlocutore difronte. Queste cose lui le ha viste provando ad intervistare soggetti sottoposti
ad isolamento per molto tempo. Ma ci sono anche aspetti molto più banali: alla professoressa Vianello è
capitato ad esempio di andare al bar per un caffè, o di andare a mangiare fuori per festeggiare l’uscita del
carcere dopo molto tempo e si vedono delle cose, ahimè, da un certo punto di vista interessanti nel senso
che per esempio una cosa che ha notato che ogni volta che si va a festeggiare con una persona che è uscita
dal carcere da poco dopo molti anni non sa cosa ordinare al ristorante. Questo capita sempre: tu ordini e
lui/lei dice “prendo quello che ha preso lei”. Questo è tipico a causa del processo di infantilizzazione,
perché è come un bambino che dice “prendo quello che ha preso la mamma. Questa persona adulta non è
in grado di decidere in autonomia che cosa mangiare. Ci sono problemi che riguardano la vista, la salute,
come la capacità di attraversare la strada. C’è senso di disorientamento e problemi di salute legati al fatto di
essere stati per molto tempo in un contesto in cui al massimo puoi fare solo pochi metri. Problemi di vista
perché non si ha la possibilità di utilizzare la vista all’aperto, oltre il muro della stanza e questo crea
problemi importanti anche sulla salute delle persone. Questo processo di disculturazione, questa
incapacità di rapportarsi con situazioni che sono normali nella vita quotidiana ma che invece diventano
impossibili, insormontabili, sono causati da problemi di adattamento, che poi dice Goffman, si portano
dietro, alcuni per un periodo mentre altri per sempre: “alcune perdite sono irreversibili”. Questi processi di
disculturazione sono processi di perdita, perché si perdono competenze. Ci sono però altri processi a cui
Goffman fa riferimento, ma più che Goffman soprattutto Clemmer ma lo vedremo domani. Goffman dice ci
sono processi di perdita, processi di disculturazione ma anche processi di acquisizione o assimilazione.
Cosa succede quando un individuo viene isolato da tutti i suoi affetti, dalle relazioni sociali, dal contesto in
cui viveva precedentemente, che viene spogliato di tutti i suoi averi e di tutto ciò che definisce la sua
identità specifica? Viene inserito in un processo di perdita dell’identità, e viene inserito in un nuovo
contesto. Clemmer nel suo testo “The prision community” definirà i processi di assimilazione come
processi di prigionizzazione, che non vuol dire altro che processi di assimilazione culturale. Il soggetto
passa da un contesto ad un altro e si deve adattare a questo nuovo contesto. Ed è per questo motivo che il
carcere è un osservatorio di processi e di dinamiche che sono veri anche in altri contes ti. Il processo di
assimilazione culturale funziona per il fatto che il soggetto arriva in un contesto in cui vige una nuova
cultura, una cultura diversa dalla sua e progressivamente deve inserirsi in questo nuovo contesto. Il
processo di assimilazione “è un lento graduale, e più o meno consapevole, processo durante il quale una
persona impara abbastanza elementi della cultura dell’unità sociale in cui si trova, da caratterizzarsi per
essa”. Il processo di assimilazione altro non è che un processo di prigionizzazione. L’idea è che esista
evidentemente una cultura specifica della prigione, l’idea che esista una comunità all’interno del carcere
che si definisce per una serie di dimensioni culturali tanto da poterla definire cultura carceraria. I primi
studi sociologici sul carcere sono stati condotti da Clemmer e da Sykes e riguardano proprio la cultura
carceraria, come si struttura veramente un carcere e come vive la popolazione detenuta al suo interno. I
due testi di Clemmer e Sykes hanno un nome molto simile: quello di Clemmer del 1940 si chiama abbiamo
detto “The prision community” che altro non è che uno studio qualitativo sulla comunità carceraria e sulle
relazioni tra detenuti e detenuti e staff. Clemmer riesce a condurre la ricerca perché è uno psicologo sociale
che interviene all’interno di quel carcere per un intervento di tipo psicologico. Non è un ricercatore ma è
parte dell’istituzione. Il testo di Sykes, il quale sviluppa una ricerca etnografica sulla comunità dei detenuti,
si chiama “La comunità dei detenuti”. È interessante perché c’è una contiguità tra il termine cattivo e
cattività. Essere in cattività significa essere chiusi dentro, l’essere chiusi in uno spazio. I cattivi invece sono
proprio coloro che sono chiusi in uno spazio. La radice etimologica è la stessa. Fare ricerca sui processi di
prigionizzazione significa fare ricerca su processi che riguardano la formazione e l’assunzione della cultura
carceraria. Ad esempio, alcuni colleghi hanno fatto una ricerca cercando di capire se quello che Sykes
definiva il codice del detenuto sia ancora valido. Il codice del detenuto è l’idea che esista una sorta di
codice all’interno della comunità carceraria, che definisce che cosa si può fare e cosa no e che dà alcuni
principi di orientamento per le azioni. Per fare questa ricerca si possono utilizzare interviste, si può fare
ricerca etnografica, si possono utilizzare una serie di metodologie. Questi colleghi hanno intervistato i
detenuti e hanno fatto domande del tipo: se io domani, senza avere nessuna esperienza di carcere, dovessi
entrare in carcere, in questo carcere in cui sto conducendo l’intervista, dimmi tre cose che non dovrei fare
assolutamente e tre cose che sarebbe meglio che facessi. Ci sono delle regole informali che regolano e
favoriscono l’adattamento alla cultura carceraria? Il codice del detenuto, dice Sykes, è una delle
fondamentali forme di controllo sociale interno alla popolazione dei detenuti. Esso ruota intorno alla
contrapposizione tra detenuti e personale dell’istituzione. Una delle prime norme è infatti: non
familiarizzare mai con il personale di sorveglianza. Viceversa, quando il ricercatore entra non deve mai
familiarizzare con i detenuti. Ciò significa che anche se c’è un detenuto che ti fa pena, anche se c’è un
detenuto che ti è più simpatico, o se c’è un poliziotto che ti tratta bene, con cui ti senti un po' di empatia,
non familiarizzare mai con l’altra parte, con l’istituzione. Questo è un aspetto che, nonostante i molti
cambiamenti del codice del detenuto, è rimasto costante nel tempo ed è ancora valido. La carcerazione, la
prigionizzazione è proprio la socializzazione al codice del detenuto. Secondo Sykes: il particolare sistema
sociale sviluppato dalla comunità dei detenuti, è una risposta difensiva alle restrizioni imposte
dall’istituzione. A fronte della degradazione di status subita attraverso la condanna e la carcerazione, la
subcultura della prigione consente al detenuto lo sviluppo di uno status all’interno del nuovo sistema. Di
questa definizione al momento ci interessa il fatto che la pena è sempre una degradazione di status, che il
soggetto detenuto è un soggetto stigmatizzato, che la pena infligge delle sofferenze alle persone internate
nell’istituzione, e che la cultura carceraria è una risposta nel tentativo di contenere queste sofferenze e di
minimizzarle. Il termine di assimilazione culturale, degradazione di status, reazione attraverso lo sviluppo
di norme e culture, sono termini che non si riferiscono solo al carcere, ma sono molto più ampi. Quello che
stiamo provando a fare è di analizzare un ambiente morale e sociale unico attraverso degli strumenti
sociologici, che sono strumenti che non sottendono il tema della colpa, della rieducazione, dell’uomo
criminale come avrebbe detto Cesare Lombroso. Il carcere è un ambiente specifico che può diventare un
osservatorio importante di alcune dinamiche sociali che vigono anche all’esterno del carcere. Ci sono stati
colleghi economisti che si sono interessati al carcere. In carcere non si possono avere soldi. A questo
proposito questi colleghi si sono domandati: come funziona un sistema di scambio in un ambito in cui il
denaro non c’è? Come si misura il valore di un oggetto se non è riconducibile al valore della moneta? Altri
ricercatori invece hanno paragonato il modo in cui il carcere è costruito alle politiche di costruzione della
città, alla dimensione urbana cioè a come vengono costruite le città oggi. In questo senso hanno correlato
gli studi sulla gestione del penitenziario agli studi sulla gestione della sicurezza urbana. Ci sono molte
applicazioni che ultimamente sono state tentate di parallelismo tra carcere altri ambiti della realtà sociale.

LEZIONE 7 DICEMBRE: Carcere e realtà quotidiana: Sykes e Clemmer


L’obiettivo è provare a capire quel è la realtà quotidiana del penitenziario. Il problema è sempre lo stesso
ovvero il rapporto tra la normativa, la legge e invece la realtà sociale. Da un punto di vista sociologico il
carcere può essere analizzato, studiato e interpretato secondo due prospettive: una è quella che vede la
prigione all’interno della società come istituzione particolare. Ad esempio, una domanda funzionalista
potrebbe essere: qual è la funzione del carcere all’interno della società? Che tipo di funzioni svolge, che
tipo di obiettivi si propone e se riesce a svolgere le sue funzioni e sulle quali si legittima. Le domande dei
teorici del conflitto invece sono diverse, e si domanderebbero: in che modo il carcere serve per la
riproduzione di classe? In che modo il carcere svolge una funzione selettiva all’interno della società? Se il
carcere, pur legittimandosi nell’idea che è utile a tutti, in realtà serva gli interessi di una parte di società.
Questa contrapposizione la ritroviamo continuamente nelle teorie sul carcere. Da una parte chi dice che
l’istituzione penitenziaria è necessaria ed utile per mantenere l’ordine sociale. Questo tipo di idea può
assumere diverse forme: abbiamo parlato delle teorie di integrazione sociale, della teoria riabilitativa
secondo cui l’individuo deviante va risocializzato alle norme, che è una teoria puramente funzionalista. Il
carcere serve per fare in modo che non ci siano altre violazioni, ha quindi una funzione preventiva, e serve
nei confronti nei confronti del condannato nella misura in cui gli fa vedere cosa succede nel momento in cui
viola le norme. Inoltre, serve come diceva Durkheim, più che al condannato al resto della società, perché
veda che cosa succeda o cosa potrebbe succedere nel momento in cui viola le norme. Quello che fa questa
prospettiva è di assumere come legittimo l’ordinamento delle norme e della legge definendo perciò la
violazione di queste norme come problema sociale e immagina un’istituzione che sia in grado di contenere
queste violazione ed eventualmente di recuperare i soggetti che violano le norme in modo che non le
violino più in futuro. Dall’altro lato c’è invece tutto un discorso sul carcere che mira piuttosto a far vedere
come esso sia lo specchio della selettività dei processi di criminalizzazione. Il carcere è uno strumento per la
riproduzione delle diseguaglianze sociali, uno strumento di riproduzione del potere e uno strumento che si
legittima sull’idea di essere funzionale per tutta la società, ma che in realtà è funzionale solo per una parte.
Da un punto di vista sociologico tutto questo discorso sulle funzioni, sull’evidenza del fallimento del carcere
nella misura in cui tutte quelle funzioni che afferma di avere, non resistono ad un riscontro empirico. Non
funziona la deterrenza perché i tassi di recidiva sono altissimi per le persone che escono dal carcere. In
Italia i tassi di recidiva sono intorno al 70%. Non funziona da un punto di vista preventivo, non funziona
dal punto di vista del recupero e della risocializzazione, non funziona dal punto di vista della deterrenza
perché non fa paura. Nessuna di queste regge ad una ricerca empirica. In più molti studiosi si concentrano
sul fatto che all’interno del carcere troviamo ovunque e continuamente una composizione sociale della
popolazione detenuta ben definita. Il carcere, quindi, può essere interpretato come il precipitato delle
politiche di criminalizzazione, e può essere lo specchio di quelle che sono le diseguaglianze sociali. Questo
discorso critico risale fino alla domanda: ma le norme all’interno della società che cosa difendono? Che
interessi specifici pretendono di difendere? E poi, la norma una volta definita come viene applicata
all’interno della società? Quello che vediamo oggi è come la sociologia carceraria, da un punto di vista
microsociologico, può essere utile nell’analisi sulla distanza tra law in books e law in fact. In questa seconda
prospettiva, che si affida spesso alla ricerca qualitativa e all’osservazione etnografica, quello a cui noi
guardiamo è la prigione come mondo sociale. Ieri abbiamo accennato a questo aspetto quando ci siamo
chiesti come si può guardare il carcere come un ambiente morale e sociale unico, all’interno del quale però
sono rinvenibili e osservabili, in maniera molto più chiara, alcune dinamiche tipicamente che in realtà
funzionano allo stesso modo anche all’esterno del carcere. § Quello che questo tipo di sociologia carceraria
vorrebbe fare, con un approccio microsociologico, è quello di fare la stessa cosa che i sociologi della Scuola
di Chicago hanno fatto con la città. Assumere la città come un osservatorio proprio perché ha dei confini
circoscritti e avendo questi confini è più facile individuare delle relazioni, delle corrispondenze tra variabili
osservabili, non tanto dei rapporti di causa ed effetto, come se fossimo in un laboratorio. Il carcere è un
osservatorio particolare, che ha confini evidentemente ristretti e che pone gli attori sociali (detenuti,
poliziotti, volontari, familiari) in un contesto particolare dove è possibile osservare dinamiche sociali
particolari che sono tipicamente oggetto dell’analisi sociologica. § In questo senso il carcere è inteso come
un laboratorio delle relazioni umane dove è possibile analizzare le conseguenze della diseguaglianza sociali:
come si stratifica la comunità carceraria, quali sono le variabili che fanno sì che alcune parti della
popolazione detenuta abbiano maggior potere rispetto ad altri, quali sono gli elementi che definiscono la
contrattazione tra polizia penitenziaria e detenuti, come funzionano le relazioni di potere in questa
comunità ristretta? Inoltre, è dalla metà degli anni 90 che il carcere è diventato il luogo per eccellenza della
multiculturalità. Come vivono insieme e che conflitti nascono, o come si definisce un ordine sociale? è
possibile l’ordine sociale in un contesto in cui su 200 persone ci sono 22 nazionalità diverse? Queste piccole
domande si focalizzano su un ambiente particolare, ma in realtà sono grandi domande. È chiaro che
esattamente come in un laboratorio, quello che noi rileviamo nel carcere non necessariamente è
estendibile nella stessa misura all’esterno del carcere perché in laboratorio vengono controllate alcune
variabili e altre sono escluse. I due precursori per questo tipo di approccio microsociologico sono Clemmer
con “the prision of community” nel 1940, e Sykes nel 1958 con “La società dei detenuti cattivi” (cattivi nel
senso in cattività). Su questi due autori possiamo sottolineare due questioni: la prima è che, possono essere
considerati studi, soprattutto quelli di Sykes, che hanno introdotto questo tipo di approccio ma anche che
hanno aperto tutti quelli che poi sono ancora oggi i principali ambiti su cui si concentra la sociologia
carceraria. Si indaga quindi il rapporto tra cultura carceraria e mondo esterno. Questi due testi sono testi
seminali, cioè testi che hanno introdotto i temi di studi su cui ancora oggi si concentra la ricerca. Entrambi
questi autori sono autori che non entrano in carcere come ricercatori, ma che entrano in carcere come
parte dell’istituzione. Entrano in carcere o come psicologi o come pedagogisti, come attori sociali che
intervengono nella e con l’amministrazione penitenziaria. Questo è importante perché è difficile fare
ricerca in carcere. L’istituzione penitenziaria è molto chiusa nei confronti della ricerca, nel nostro paese in
particolare e questo è un punto che rimane nel tempo, perché l’istituzione si difende dall’osservazione
esterna, anche quando questa osservazione si propone di essere importante sia come nel caso di Clemmer
e Sykes su come gestire meglio l’ordine carcerario, come organizzare meglio l’amministrazione
dell’istituzione totale. I temi rilevanti per il nostro corso sono: il rapporto tra cultura carceraria e mondo
esterno: in questo ambito si contrappongono due prospettive. Ci sono autori che sostengono sulla scia di
Sykes, che la cultura carceraria è una cultura specifica che si forma come risposta difensiva rispetto alle
procedure di disgregazione, di disculturazione della detenzione. La cultura carceraria è particolare ed è
come è perché quello è il modo per minimizzare le sofferenze, i problemi che l’internamento comporta.
Questo si chiama modello della deprivazione: cosa succede a degli attori sociali messi in condizioni di
subordinazione? La risposta è che sviluppano una serie di strategie difensive dell’identità, delle relazioni
sociali, rispetto alla stigmatizzazione. Altri autori invece dicono che in realtà in questo modello della
deprivazione bisogna anche tenere conto delle culture di provenienza, che hanno un impatto importante.
Non è la stessa cosa se in carcere entra il capo di una gang o un soggetto che non aveva mai violato le
norme fino a quel momento. Questi due soggetti non sviluppano le stesse strategie difensive. Questo si
chiama modello dell’importazione: come si interseca la cultura di provenienza con quelle particolari
caratteristiche che l’istituzione totale impone ai soggetti e come diversi attori sociali producono strategie
difensive differenti. Il secondo ambito di studi si concentra sui processi di adattamento e socializzazione alla
prigione: cosa devo fare e cosa non devo fare se entro in carcere stasera? Quali sono i processi di
assimilazione culturale della cultura carceraria? In sintesi, questa prospettiva come dicevamo ieri si
concentra sui processi di prigionizzazione. La domanda generale è: come funziona un processo di
assimilazione culturale quando deve avvenire in modo traumatico? Un terzo ambito riguarda le relazioni
sociali all’interno del carcere, e come queste strutturano la quotidianità detentiva. L’ultimo ambito studia il
potere, l’ordine e la resistenza. È quello di cui la professoressa e Alvise Sbraccia si occupano maggiormente.
La domanda è: come funzionano le dinamiche di oppressione? come vengono vissute dagli attori sociali?
Ma soprattutto, riprendendo la domanda di Sykes, è possibile un dominio assoluto di persone su altre ? È
possibile in una tirannia che ci sia un potere totale, una subordinazione totale oppure, come diceva
Foucault, dove c’è potere c’è sempre resistenza anche se questa resistenza non la vedi ? Come si mantiene
un potere assoluto, un controllo totale? È sufficiente la minaccia della forza e della violenza? Il testo di
Sykes è interessante perché Sykes non era interessato nello specifico al carcere. Non è uno studio sul
carcere, nonostante si chiami la società dei detenuti. È un testo che vuole indagare la natura, le
conseguenze e i limiti del controllo totalitario. Quello che Sykes si domanda è: può esistere un controllo
assoluto di uomini su altri uomini? Può esistere un dominio totale? E che tipo di conseguenze produce
sull’organizzazione sociale di questa comunità? Ed eventualmente, se può esistere, quali sono i limiti di
questo controllo totalitario? Quello che Sykes nel suo testo arriva ad affermare attraverso la sua analisi di
osservazione, è che se la domanda è se esiste un controllo totalitario, e questo in carcere non esiste, allora
non esiste neanche all’esterno del carcere. Il sistema di dominio è fittizio . In realtà nella quotidianità
detentiva le violazioni delle norme previste dai regolamenti sono all’ordine del giorno. Le norme vengono
continuamente violate e non è sufficiente la minaccia della forza per mantenere l’ordine. È necessario
contrattare con la popolazione detenuta. Le ricerche empiriche conferma questo tipo di deduzione. In
carcere, infatti, vige la necessità della premialità, che di per sé è una forma di contrattazione. Mai dire no
ad un detenuto, ma dire sempre forse, vediamo se è possibile, perché la disperazione, l’idea di non avere
niente da perdere è l’elemento che bisogna evitare in tutti i modi. Tutta la riforma del 1975 è costruita sulla
logica della premialità, proprio perché costruita come tentativo di mettere a disposizione delle risorse che
però vengono offerte selettivamente, a seconda di chi si adatta in maniera più pacifica alla quotidianità
detentiva. Le carceri su cui si inserisce la riforma del 1975 sono carceri in rivolta. L’idea nuova è l’idea di
mettere a disposizione qualcosa da guadagnare e qualcosa da perdere. L’idea della premialità è un’idea
che si basa sulla contrattazione, ovvero l’idea che ci vuole qualcos’altro perché la minaccia della forza
non è sufficiente a mantenere l’ordine sociale. Se uno non ha niente da perdere è disposto ad affrontare
anche la possibilità di andare incontro a forme di violenza o sopraffazione. Il sistema di dominio che la
prigione ostenta nei confronti dei detenuti è fittizio, le violazioni sono all’ordine del giorno, la
contrattazione per mantenere l’ordine è continua. La conclusione a cui arriva Sykes è che le fratture, in
questo monolite che è il dominio assoluto, sono intrinseche all’organizzazione dei sistemi di dominio e
portano a continui compromessi. In qualsiasi sistema che si autorappresenta o che si costruisce come un
sistema di controllo totale, in realtà ci sono delle fratture dove si rendono necessarie pratiche di
compromesso e di contrattazione. L’ordine è sempre negoziato, non può esistere socialmente un ordine
solo imposto. L’ordine è sempre negoziato, nel caso del carcere degli anni 50’, attraverso le gerarchie
interne alla popolazione detenuta. Il paradosso che è interessante dal punto di vista della sociologia del
diritto è che Sykes dice: i problemi dentro al carcere sorgono se il sistema di regole è troppo rigido. È
apparentemente paradossale. In realtà è la stessa cosa che dice Sarzotti nel libro “Diritto come questione
sociale”: il carcere è un mondo letteralmente saturo di norme ufficiali, ma queste norme non servono per
regolare l’attività all’interno del carcere, ma queste norme vengono usate a posteriori per giustificare le
proprie azioni. Le norme servono per una funzione legittimante, non in una funzione veramente
prescrittiva. Le norme sono usate per giustificare le proprie azioni, non per orientarle. Secondo Sykes
questo sistema funziona attraverso compromessi, attraverso contrattazioni, attraverso continui
aggiustamenti, attraverso quello che lui stesso definisce il codice del detenuto. Questo codice è un set di
norme, di valori, di prescrizioni che serve come orientamento all’agire per quelli che entrano a far parte
della comunità carceraria. È una serie di norme a cui bisogna socializzarsi nel momento in cui si entra in
carcere. Sono i detenuti stessi che affermano di adottare un codice per guidare il proprio comportamento e
si basa sulla lealtà tra detenuti e l’opposizione al personale di sorveglianza, sul non fraternizzare mai con i
rappresentanti dell’istituzione. La capacità di mantenere il controllo e dare prova di coraggio, quella che i
detenuti degli anni 50 chiamano “to be a real man”. Bisogna essere un vero uomo, non far vedere che si è
deboli, che si ha paura, non piangere, non far vedere che si è tristi, cercare di far vedere che si ha coraggio.
Infine, il rifiuto di qualsiasi forma di tradimento e sfruttamento nei confronti degli altri detenuti: non
rubare, pagare debiti, non fare la spia di quello che si vede anche se non si è d’accordo, mantenere la
parola data. Questo tipo di elementi sono interpretabili come una reazione culturale di risposta alla
situazione specifica in cui si ritrovano queste persone. La lealtà tra detenuti e l’opposizione al personale di
sorveglianza è necessaria per poter mantenere una coesione forte all’interno della comunità, perché la
contrapposizione aumenta l’integrazione nella comunità. La capacità di mantenere il controllo serve perché
non si vogliono aumentare le sofferenze, non si può fare pesare il proprio stare male perché sarebbe un
ulteriore carico di sofferenza in un contesto che è già molto problematico. Il rifiuto di qualsiasi forma di
tradimento e sfruttamento serve per non aggiungere altri problemi ad una situazione che è già carente di
risorse. Tutte le etichette che vigono in prigione sono deviazioni da questo codice ideale che i detenuti
affermano di dover seguire. È un po' quello che dicevamo riguardo il testo “Sapersi fare la galera”. Cosa
vuol dire sapersi fare la galera? Significa, secondo ricerche condotte, non creare problemi né con
l’istituzione né con gli altri detenuti, mantenersi forti, non deprimersi, non attuare forme di sfruttamento.
Vuol dire saper trascorrere il tempo in galera nel modo più indolore possibile. Sykes diceva che questa
contrattazione avveniva attraverso le gerarchie della comunità detenuta e individua quello che lui definisce
il the real man, che è quello che si sa fare la galera. Il the real man incarna questo codice ideale, è qualcuno
che segue quel tipo di norme e proprio perché incarna questo codice ideale ha un riconoscimento sociale
sia da parte della popolazione detenuta sia da parte dell’istituzione. Il the real man cammina su un delicato
confine tra il rifiuto e la cooperazione con l’istituzione. Cooperando con l’istituzione riceve dall’istituzione
tutta una serie di risorse a favoritismi che poi distribuisce alla comunità carceraria. Il the real man è il
referente dell’istituzione ma è anche il riferimento per la comunità detenuta, è una specie di mediatore tra
questi due mondi. Attraverso strumenti materiali, cioè la possibilità di ottenere dall’istituzione delle risorse
perché collabora per mantenere l’ordine per poi distribuirle all’interno della comunità, e attraverso
strumenti culturali, cioè incarnando questo codice ideale, impedisce che la comunità carceraria scoppi in
rivolta perché è lui che garantisce che ci sia questa contrattazione tra detenuti e istituzione. Questo insieme
di valori, il codice ideale dei detenuti si può sovrapporre a quello degli operatori di sorveglianza: ci deve
essere lealtà tra gli operatori e opposizione rispetto ai detenuti. Non fraternizzare mai con i detenuti.
Capacità di mantenere il controllo, non farsi mai vedere debole e dare sempre prova di coraggio. Rifiuto nei
confronti dello sfruttamento e del tradimento nei confronti dei compagni, anche se vedi cose su cui non sei
d’accordo non denunciare. Si tratta di strategie difensive rispetto ad un ambiente vissuto come minaccioso,
come problematico. Il codice del detenuto è in realtà il codice del carcere. L’ambiente penitenziario ha delle
caratteristiche, per com’è costruito, tali per cui bisogna vivere in quel modo. Quelle sono norme che
regolano l’intera istituzione. Sapersi fare la galera vuol dire per tutti la stessa cosa.

Potrebbero piacerti anche