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Diritto:
1. Legge
2. Consuetudine
3. Giurisprudenza
4. Contratto
Noi abbiamo una visione molto “legi-centrica”: fondata sull’idea di norme scritte, editate
(emanate) in maniera molto precisa. Abbiamo una gerarchia delle fonti à Costituzione, leggi
formali, regolamenti, atti amministrativi, contratti, atti di diritto civile… In fondo a questa
gerarchia, stando alle preleggi del Codice civile italiano, abbiamo che in maniera residuale si può
far riferimento alla consuetudine. In realtà la consuetudine è stata l’origine del diritto, nel mondo
intero inizialmente ci si è regolati in base a consuetudini, il fare in maniera ripetuta certe cose era
la base per rendere una norma vigente e applicabile. Un’altra forma di diritto a cui bisogna essere
molto sensibili è il diritto pronunciato dai giudici, la giurisprudenza, che nasce della decisione del
caso singolo (sia essa una questione penale, civile, amministrativa o internazionale) e fornisce una
lettura dei fenomeni giuridici. Questo tipo di decisione, il precedente giuridico, continua
formalmente ad essere rispettato e ci si può richiamare.
Accanto alla legge (tutte le forme di codificazione, dalle costituzioni ai regolamenti, quindi non
solo legge in senso formale) c’è il contratto: è una forma di regolazione, di accordo e scambio tra
soggetti. Mentre la legge è un atto riconosciuto come legittimamente autoritativo (è decisione
presa dall’alto), il contratto è l’incontro di volontà orizzontali tra soggetti diversi che stabiliscono
che per loro diventa legge, quindi il contratto vincola solo chi ne è parte.
Il tutto è l’ambiente giuridico, la rete dei rapporti giuridici nella quale siamo immersi.
In questi anni ci si accorge che il diritto è condizionato da fenomeni culturali profondi, ma anche
personali. L’idea che gli operatori del diritto facciano solo operazioni meccaniche è stata ormai
superata, quindi tornano utili apporti di vari studi (storici, economici, antropologici, sociologici,
linguistici, letterari…). Ci sono fenomeni di aspettativa di genere differenti circa la tematica
ambientale, ma ci sono da tenere in considerazione anche dimensioni istituzionali, ideologiche e
politiche. Le nuove comunicazioni che operano sulla dorsale di internet hanno un impatto
importante; il cambio di opinione sui fenomeni ambientali viaggia sul filo di input che ci arrivano
attraverso questi strumenti piuttosto che su canali politici.
Quindi i fenomeni giuridici non sono neutrali, sono condizionati, sintesi di spinte molto diverse e di
fenomeni complessi.
Il formante è la base da cui prende forma l’ordinamento giuridico, fatto di linee identificabili, di
basi normative su cui andiamo a costruire. Ci sono tre tipi di formanti giuridici basilari:
1) Formante giurisprudenziale – forma che prende il diritto classica è la decisione di un giudice
(soggetto terzo, esterno alla questione in discussione tra due parti che deve stabilire qual è la
corretta soluzione di una controversia)
2) formante legislativo – è il modello della legge formale sostanzialmente
3) formante dottrinale – il diritto è fatto di decisione su casi singoli, di prescrizione o di
interpretazione, perché sia le decisioni dei giudici che il contenuto di una legge non sono di per
sé immediatamente comprensibili e applicabili a tutto il contesto sociale se non c’è un lavoro
d’interpretazione. Tutti i fenomeni giuridici vanno accompagnati da un’illustrazione del loro
significato vero, perché possono assumere anche un significato diverso nel tempo.
Comparazione à Si può fare microcomparazione su singoli istituti, poi c’è l’approccio più globale
che valorizza dati quantitativi generali o culturali (macrocomparazione). Perché ci muoviamo nel
solco della comparazione? Il diritto comparato è una scienza relativamente recente, che ha delle
finalità particolari:
- finalità scientifica, speculativa, di conoscenza dei sistemi
- interesse nell’avvicinare le normative, nel far sì che siano transnazionali e sempre più in
interazione le une con le altre
- miglioramento della legislazione e della giurisprudenza
Il diritto è perlopiù imitazione, perché è bene vedere se ha funzionato in altri sistemi, se un certo
tipo di risposta è stato efficace in un contesto…
Tutto il sistema delle famiglie giuridiche è in continuo movimento, come testimonia ad esempio il
diritto islamico, in forte rilancio e che si trova anche a combattere però battaglie delicate al suo
interno, di compatibilità del modo di pensare molto antico con le esigenze della modernità.
Esempio concezioni dell’acqua come bene comune (global common) che è fortemente presenze
nel discorso coranico, e gli interpreti di Maometto riconoscevano che tra gli appartenenti alla
umma, la comunità dei credenti, non ci dovesse essere chi è proprietario dell’acqua e chi no.
Questo non è in realtà esattamente rispettato nei codici anche di matrice islamica, per cui bisogna
riconoscere che tanti sistemi giuridici fanno i conti con l’emergenza di bisogni nuovi e con le
pressioni del mercato. Un altro dato molto importante da tenere presente sta nella
decolonizzazione: sono rimaste tracce di strutture che continuano a funzionare bene, però con la
decolonizzazione non si ha un taglio del cordone ombelicale così immediato. I giuristi boliviani e
sudamericani, ad esempio, hanno continuato gli scambi con i loro omologhi delle università
europee, così come hanno iniziato poi, soprattutto negli ultimi 50 anni, ad avere contatti con i
giuristi delle scuole americane: c’è quindi una continua contaminazione. In questa contaminazione
c’è anche l’esperienza dei sistemi latinoamericani che più risentono dell’ispirazione antica, arcaica,
precolombiana, che riportano in auge anche istituti giuridici particolari come il buen vivir, l’idea
del vivere in armonia con la natura. Questo riporta alla luce un modo di pensare ctonio, ad
esempio a rispolverare il concetto giuridico di terra madre.
La nozione di ambiente
L’idea di “ambiente” è una nozione-camaleonte, cangiante, rispetto alla quale dobbiamo poter
seguire la sua trasformazione, anche fotografandola di momento in momento. I giuristi devono
avere la capacità di indicare delle vie nuove per regolare i fenomeni giuridici e nel caso
dell’ambiente, rispetto all’Italia gli studi principali vengono da altre scuole, dall’esperienza
dell’ambientalismo nordamericano e da studi che vengono fatti in altre parti d’Europa, tra cui la
Francia e la Germania, con punte d’eccellenza nei paesi scandinavi, dove la filosofia dell’ambiente
ha dato eccellenti risultati e dove la sensibilità ambientale è particolarmente marcata. Gli studiosi
del diritto dell'ambiente sono molto creativi, ma anche pronti ad avventure culturali molto
avanzate in tutta la latino-americana e ci sono scuole di pensiero molto vivaci anche in quella
parte. In questa nozione cangiante del diritto dell'ambiente andiamo anche a utilizzare qualche
strumento concettuale che ci viene da altre culture e da altre lingue:
• ambiente – termine che indica una mobilità: ambiente è il participio presente di un verbo che
vuol dire andare intorno (dal latino ambiens). Quindi è quello che vediamo tutto intorno a noi.
• environnement – ciò che ci sta intorno, qualcosa che sta al di fuori dello spazio regolato dalla
cultura e dalla tecnica umana. Non si parla di natura, ma di una sorta di entità immobile che
sta al di fuori dello spazio da noi occupato.
• environment – anche qui non abbiamo una definizione tanto differente: ciò che sta intorno o
condizione in cui viviamo e operiamo. Ci dice qualcosa di più rispetto alla materia amorfa: può
essere anche il modo in cui si atteggia questa realtà esterna in cui persone, animali e vegetali
vivono e operano.
• Umwelt - Il termine mondo (welt) è un termine che viene agganciato dal concetto di ambiente
quando lo si declina in tedesco; in questo caso welt è il mondo che ci sta intorno, ma è un
universo soggettivo. È qualcosa di più che una materia generica che ci sta intorno e verso la
quale noi ci avventuriamo, “è il fondamento biologico che sta all’epicentro della
comunicazione e del significato dell’animale-uomo”. E un mondo che percepiamo in una
dimensione soggettiva, quasi romantica, di una grande sorpresa nel cogliere ciò che ci sta
intorno.
• Medio ambiente – dalla lingua spagnola: la radice è la stessa, ambiens, ma questo è un
pleonasmo perché aggiunge una parola, che è questa parola medio, che in realtà non sarebbe
necessaria, viene aggiunta quasi come rafforzativo della parola ambiente.
Quindi abbiamo diverse definizioni di ambiente:
- definizione generale che vede l'ambiente come lo spazio circostante, considerato con tutte o
con la maggior parte delle sue caratteristiche
- in biologia ed ecologia è tutto ciò con cui un essere vivente entra in contatto influenzando nel
ciclo vitale. Quindi quello che ci sta intorno non solo ha relazioni intense e continue tra le
diverse sue parti, ma la nostra componente animale ne trae sostentamento, rifugio. È un
ambiente in movimento e che ha dei cicli.
- in senso figurato è complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale una persona si
trova, si forma, si definisce. È un’idea più culturale dell’ambiente.
Ambiente in senso giuridico à definizione di Giannini, grande giurista: “Ambiente non è una
nozione giuridica, ma la somma di una pluralità di profili giuridicamente rilevanti”; si intende che si
può apprezzare l'ambiente come somma di elementi. Pluralità di profili giuridicamente rilevanti
vuol dire pluralità di aspetti che hanno un significato per il diritto; l’aspetto estetico è uno,
l’aspetto della sicurezza è un altro, l’aspetto della salvaguardia di determinate risorse è un altro
ancora. Giannini diceva che quando parliamo di ambiente dobbiamo parlare di questa somma di
aspetti che a mano a mano il diritto coglie e viene a mettere in evidenza. Siamo ancora abbastanza
lontani dalla visione sistemica che è la nostra e che si alimenta dell’idea che non possiamo
intervenire in maniera regolativa su singoli aspetti di questo fenomeno senza tenere conto ogni
volta di tutto quello che ci sta intorno. Oggi abbiamo una sensibilità sistemica che non era ancora
propria degli anni ’60 e ’70, dove stava appena muovendo i primi passi la sensibilità ecologica e
ambientalista. L'ambiente sta diventando un diritto soggettivo, non sempre riconosciuto ma
sempre di più preservato e tutelato dal diritto. Diritto soggettivo vuol dire che ho non solo delle
facoltà, ma posso esigere da altre persone, o dallo stato, o dagli enti pubblici dei comportamenti
che mi consentono una certa soddisfazione; il diritto soggettivo è un diritto pieno a cui
corrisponde un dovere di qualcun altro, questo lo schema generale in cui si muove buona parte
del diritto. L’ambiente sta diventando sempre di più un bene, un valore tutelato sotto molteplici
forme e indicato come tale per esempio dal Trattato dell’Unione europea, che mette questo
valore al centro dell’azione UE. Ma se c'è diritto ad avere un ambiente più salubre, dall'altra parte
c'è anche una responsabilità giuridica per la sua tutela. Il discorso che faceva Giannini ormai è
superato, siamo ormai approdati all'idea che l'ambiente è un bene sistemico e in quanto tale va
curato e rispettato.
Lo studio di questi complessi fenomeni di interrelazioni all’interno del vivente è stato qualificato
come “discorso sulla nostra casa”, quindi l’ecologia. L'ecologia è soprattutto uno studio degli
ecosistemi, e questo studio comprende all'interno dell’ecosistema tanto la parte vivente quanto la
parte non vivente. Quindi abbiamo una base scientifica nel nostro lavoro di giuristi dell'ambiente,
base che ci viene dagli studi ecologici. Abbiamo delle correnti filosofiche, etiche e politiche che
mettono al centro della loro attenzione le problematiche degli ecosistemi, quindi l’ecologia è un
tentativo di stabilire delle linee di condotta che siano eticamente, filosoficamente e politicamente
congrue per rispondere a questi fenomeni. C’è una dimensione scientifica, di studio dei fenomeni,
e una meno scientifica che è quella della valorialità etica e politica di questi fattori.
Oggi si usa il termine ecologia anche applicato ad altri aspetti: ci può essere una prospettiva di
ecologia integrale se vengono abbracciati diversi ambiti di sviluppo del pensiero ecologico à
ecologia ambientale, economica e sociale. C’è anche un versante culturale dell’ecologia che si sta
manifestando come crescente bisogno. C’è poi il principio del Bene Comune, principio conosciuto
fin dal Medioevo (cfr. San Tommaso che lo declinava come bene collettivo superiore), ma si è
anche diffusa l’idea che siamo detentori e gestori di beni comuni che sono sempre di più oggetto
di una corresponsabilità. Fino ad una trentina di anni fa sembrava che altri paradigmi, come quello
della competizione e dello sviluppo ad ogni costo fossero dominanti.
Infine, quando si tratta di fare delle norme abbiamo un soggetto in più che va tenuto presente nel
momento in cui si decide e si tratta delle future generazioni, che si troveranno inevitabilmente
pregiudicate nelle loro opportunità di vita qualitativamente buona se noi faremo scelte sbagliate;
è un problema etico ma sta diventando anche un problema giuridico, che si inizia a regolare anche
attraverso il diritto.
Il soggetto che più di ogni altro si è fatto portatore di un’idea di ecologia integrale è papa
Francesco, che con l’enciclica “Laudato si” ha scritto una pagina sulla conservazione della terra
come casa comune e sui doveri custodiali dell’umanità.
Il punto di arrivo riguarda un modo particolare di utilizzare la sensibilità che ci viene dalle scienze
ecologiche per rileggere il nostro diritto. Tutto il diritto dal ‘700 in poi è stato fortemente
influenzato dalla crescita tecnologica, scientifica, dallo sviluppo delle scienze nel mondo
occidentale; il nostro approccio alla regolazione normativa risente di questo senso quasi di
onnipotenza dell'uomo, che ha enormemente rafforzato la sua capacità di vedere lontano con i
telescopi, di vedere nell’infinitamente piccolo con i microscopi, di sentire dei rumori che non udiva
prima… L'uomo ha incominciato a ritenere di essere regolatore nei suoi rapporti con la natura in
maniera assolutamente libera. Il diritto quasi come una tecnica meccanica attraverso la quale
l'uomo sempre di più regola i fenomeni e può permettersi di organizzare la società umana verso
uno sfruttamento adeguato delle risorse che gli stanno intorno, senza curarsi se queste risorse
sono finite o infinite. Adesso anche il giurista è tenuto ad occuparsene e a dare una dimensione
più ecologica al suo diritto, ma non è solo perché il suo diritto sia più rispettoso delle dinamiche
ambientali: qui siamo a cercare di darci un modo di fare diritto che sia più ecologico esso stesso.
Noi non abbiamo più la possibilità, a tempo indeterminato, di utilizzare il diritto solo al servizio di
una società estrattiva.
Fritjof Capra e Ugo Mattei hanno scritto un libro significativo per capire come bisogna
riposizionarsi rispetto al diritto: dall’idea di un diritto puramente meccanico, applicativo di una
visione del mondo lineare, verso non un diritto dell’ambiente, ma un diritto ecologico esso stesso.
Le fonti internazionali del diritto dell’ambiente
Il diritto dell’ambiente è per sua natura sovranazionale: riguarda tutte dinamiche che devono
essere gestite in cooperazione fra gli stati. Molte questioni di carattere ambientale trovano
addirittura le loro prime soluzioni nel diritto internazionale. Il diritto ambientale ha avuto una
prima ondata di soluzioni più localizzate nella definizione in particolare nelle questioni che
riguardano determinate risorse condivise, quindi condivisione multilaterale.
È una gerarchia molto mobile, non corrispondente all’idea piramidale del diritto, quella che
riguarda gli ordinamenti giuridici del diritto dell’ambiente.
Quando c’è un’origine abbastanza identificabile in questo diritto, lo facciamo attraverso
fondamenti empirici: la necessità di gestire le risorse comuni è un fattore di grande rilevanza,
soprattutto in relazione ad alcuni ambiti (ultramarini, spaziali, antartici ecc), dove trovavamo in
passato una difficoltà estrema dell’uomo a raggiungerli. Si pensava che saremmo sempre potuti
approdare a nuove soluzioni, che le risorse limitate non sarebbero state un problema, in una
logica sempre estrattiva, per cui si può chiedere sempre di più alla natura. Questa lettura si è però
interrotta negli anni Settanta; l’umanità si è trovata a dover fare i conti con i limiti della crescita,
che sono limiti di risorsa ma anche di contraccolpo rispetto all’abuso di determinate risorse. Si è
dovuto fare marcia indietro e iniziare a contenere questo sviluppo, con una problematica anche
molto complessa legata alla sovranità degli stati e alle ideologie di tipo liberistico. In particolare,
con i paesi di socialismo reale e URSS hanno fatto credere dagli anni Settanta in poi all’assoluta
maggior rispondenza ai bisogni dell’uomo da parte del mercato. Si pensava che si potessero
affidare al mercato le soluzioni migliori, ma ciò ha esposto grandissimi rischi, così come ha esposto
a rischi una gestione arretrata di alcune attività come lo sfruttamento dell’energia atomica. Nel
caso dell’Union Carbide, multinazionale statunitense specializzata nella produzione di fitofarmaci,
abbiamo un tipico esempio di delocalizzazione di attività chimiche pericolose in paesi meno
attrezzati. Nella città di Bhopal, 40 tonnellate di isocianato di metile si sono disperse nell’aria,
portando a circa 3000 morti, cresciuti poi a 15.000 secondo le stime, senza contare le centinaia di
migliaia di persone che poi hanno avuto conseguenze sulla propria salute. A Chernobyl una
centrale nucleare fugge al controllo dei suoi tecnici, portando all’esplosione di uno dei reattori e
gli interventi sono tardivi per una mancata coordinazione. Per i fenomeni delle correnti aeree la
radioattività è stata portata anche verso di noi e verso il Nord America.
La vicenda ambientale, proprio in relazione a fenomeni come questi, ha fatto nascere strutture e
procedure di governance transnazionale à governance = insieme regolazioni esplicite ed implicite
che sottendono alla generale gestione di un’azienda, un paese o di un settore di attività umane; si
distingue dal governo perché non è fatta di elementi formali e regolati dal diritto. L’ambiente
quindi ha un suo regime di funzionamento, che in parte trascende il ruolo dei soggetti che vi sono
deputati perché coinvolge anche altri soggetti: dobbiamo prendere in considerazione i grandi
player del mercato, il negoziato con i governi, le ONG, alcune organizzazioni internazionali le cui
decisioni sono di straordinario impatto anche se non sono deputate alla tutela dell’ambiente, e poi
il mondo della scienza. Perché è importante questo ruolo? La sigla IPCC (Intergovernmental Panel
on Climate Change) indica un soggetto che è salito agli onori della cronaca, che è stato
internazionalmente riconosciuto nella sua importanza quando nel 2007 gli è stato conferito,
insieme all’ex presidente USA Al Gore, il premio Nobel per la pace per i suoi impegni nel
contrastare il riscaldamento globale. Era stato voluto sul finire degli anni ’80 come attività
collaterale dell’UNEP (programma ONU per l’ambiente) per essere una specie di monitor sullo
stato attuale della conoscenza degli impatti che il cambiamento climatico può avere sulla nostra
società. L’IPCC non è un centro di ricerca, ma è una rete di studiosi che vengono organizzati per
fare una validazione scientifica del lavoro di molti studiosi, impegnati per capire i cambiamenti
climatici. È indispensabile che la scienza non sia al servizio di una potenza, ma che sia condivisa e
letta in maniera quanto più possibile ed aperta. L’IPCC è un soggetto internazionale emergente,
come interlocutore molto importante.
Ci sono molti attori nuovi sulla scena mondiale: la WTO (organizzazione mondiale per il
commercio), soggetto regolatore di grandissima importanza perché le regolazioni che promuove
per esempio nel favorire lo spostamento su larga scala di determinati prodotti ha influenze molto
nette sulla dimensione ambientale. Determinati prodotti agricoli possono essere messi in difficoltà
da un commercio non inquadrato e che favorisce lo spostamento di derrate alimentari, o ancora
spingere sull’industrializzazione ha una conseguenza notevolissima. Anche la ICAO (organizzazione
internazionale aviazione civile) deve farsi carico delle conseguenze ambientale del suo settore.
L’IMO riguarda il trasporto marittimo, la FAO è anche molto importante come formula
internazionale nello studio e nella regolazione delle problematiche legate all’alimentazione e
all’agricoltura. Quindi ci sono una serie di organizzazioni internazionali, come chiaramente l’ONU.
Sottese all’operato di tutti questi organismi ci sono due possibili filosofie:
• dare priorità alla regolazione ambientale, quindi alla limitazione di determinate attività umane,
e comunque mettere come condizionante di alcune politiche la protezione ambientale
• prima pensiamo a mangiare, commerciare, viaggiare… fare le attività umane che debbano
precedere qualsiasi cosa, e poi andiamo ad occuparci dell’ambiente. Questo trova poi spesso
chiusura nella formula dello sviluppo sostenibile che dovrebbe rendere compatibili tra di loro
la crescita economica con la protezione dell’ambiente.
Come sono in relazione con il mondo della produzione normativa internazionale i soggetti non
statali? Le ONG sono dei soggetti privati, fondati in genere su basi associative più libere intorno ad
un progetto dalla conferenza di Rio in poi. La conferenza di Rio del 1992 è il primo grande
momento di presa di coscienza e di dialogo; qui è apparso chiaro che i soggetti che dovevano stare
al tavolo perché si facesse qualcosa di buono nella regolazione dei fenomeni ambientali erano
diversi, pur essendo prioritario l’incontro dei capi di governo di tutto il mondo. Le ONG vedono
riconosciuto una specie di diritto di tribuna, quindi non partecipazione politica o di voto alla
decisione, ma di esprimere il proprio punto di vista con una risonanza esterna adeguata. Accanto
al ruolo collaborativo, di stimolo e critica che svolgono le ONG, c’è da sottolineare come in campo
ambientale queste organizzazioni svolgano un ruolo di primo piano anche nel contenzioso
internazionale, cioè nella decisione di questioni che riguardano la responsabilità di alcuni stati
sovrani circa alcuni fenomeni ambientali. Le ONG si sono proposti in molti casi come soggetti che
portano maggiori argomenti ai fini di una decisione giudiziale, proponendosi come amicus curiae,
facendo ammettere formalmente all’interno di questi procedimenti il loro ruolo di expertise, di
rappresentanza generale dell’opinione pubblica su questi temi.
Un altro fenomeno a cui abbiamo assistito ha riguardato il coinvolgimento applicativo dei privati
nel campo dell’attuazione del diritto internazionale. Il protocollo di Kyoto riguarda la regolazione
di emissioni di CO2 attraverso lo scambio di quote nel mercato. In questo campo gli stessi
destinatari di tali regolazioni devono essere coinvolti, diventano essi stessi operatori di
regolazione, perché non tutto può essere fatto attraverso decisioni autoritative e controllo.
Poi c’è un ricorso a risorse non statali per quanto riguarda tutta la dinamica consultiva, con
soggetti che possono intervenire per individuare le soluzioni migliori che alleggeriscano il segno
che noi lasciamo costantemente sul nostro pianeta.
Spesso laddove non arriva l’intesa tra gli stati, anche per effetto di situazioni contingenti, le corti
hanno la possibilità di rappresentare un punto alto di definizione di determinati meccanismi
regolatori, per cui la loro giurisprudenza è sicuramente fondamentale.
Evoluzione delle fonti internazionali à le fonti internazionali hanno seguito nel tempo uno
sviluppo graduale. Negli anni immediatamente successi la Seconda guerra mondiale, la nascita
delle Nazioni Unite era stata vista come un momento di grande armonia a livello internazionale,
seppure con due blocchi che si confrontavano in maniera molto energica tra loro e poi con
l’emergere anche dei cosiddetti non allineati, ma la nascita delle Nazioni Unite non ha avuto
immediatamente un mandato e una priorità d’azione per l’ambiente. All’epoca c’era la necessità di
regolare la virulenza bellica, l’espansione dei paesi più forti a discapito di quelli emergenti… Le
questioni relative alla qualità della vita e ai meccanismi della vita sul pianeta erano questioni
apparentemente assenti dalla discussione generale, infatti non ve n'è quasi traccia nelle carte
fondative di questi organismi. È negli anni Settanta che la partita inizia a giocarsi a livello
internazionale; gli anni 70 sono degli anni di grande ripensamento delle società occidentali, siamo
all’indomani delle contestazioni studentesche che scuotono il sistema, siamo in presenza di una
crescita imponente dal punto di vista demografico, di forti rivendicazioni sociali, ma questo si
scontra con l’emergere dei primi fenomeni di degrado ambientale. Inizia a diffondersi un pensiero
ecologico, di attenzione ai sistemi della vita e non solo di posizione centrale dell’uomo nel
soddisfacimento dei suoi interessi. Sono gli anni tra l’altro del primo shock petrolifero del ’73,
momento nel quale di colpo soprattutto in Europa ci si è trovati piuttosto in difficoltà e si è avuta
la percezione dell’impatto anche economico dell’indisponibilità di determinate fonti. Il mix di
queste situazioni ha portato ad un primo momento di risveglio dell’attenzione con la conferenza
internazionale di Stoccolma nel 1972 e si è aperto così un ventennio di iniziale posizionamento
internazionale su questi temi. Ad esempio, un momento alto di coscienza è stata la commissione
Brundtland e si è arrivati così al vero turning point, che è stata la conferenza di Rio, il summit della
terra. Si è avuto per un decennio il tentativo di ricucire l’opinione pubblica internazionale e l’agire
degli stati intorno al riequilibrio dei rapporti tra i paesi “del Sud del mondo” e i paesi più avanzati,
perché il rischio era che si attrezzassero per far fronte a questi problemi i paesi più evoluti, che
dispongono di maggiori tecnologie, e che dopo si mettono a dettare regole di contenimento
dell’inquinamento senza tenere conto del fatto che si sono messi in moto i meccanismi per lo
sviluppo di questi paesi meno favoriti e che si vedrebbero pregiudicati le loro possibilità di ridurre
il deficit di sviluppo. Questo problema di uguaglianza di opportunità è stato fortemente
sottolineato nell’ambito della conferenza internazionale di Johannesburg, che ha fatto il punto a
10 anni di distanza da Rio.
Il principio “sic utere tuo ut alienum non laedas” (utilizza ciò che è di tua proprietà senza ledere
quello dell’altro) è considerato una norma consuetudinaria del diritto internazionale. Uno stato
sovrano, secondo questo principio, può usare il proprio territorio e quindi le proprie risorse
naturali in maniera assolutamente libera, compreso il diritto di degradarle, purché non porti
danno ad un altro stato. È un principio apparentemente sano ma con un’enorme zona d’ombra
legata a come viene usato il territorio all’interno dello stato, e con il problema che non possiamo
ignorare comunque gli effetti che un certo tipo di uso delle risorse provoca all’interno dell’altro
paese. Esempio di un fiume internazionale: l’utilizzo delle acque a monte porta conseguenze nello
stato vicino, quindi contravvengo al principio generale. Quindi l'idea che ognuno possa fare nel
suo territorio quello che vuole ha iniziato a vacillare; tuttavia, per lungo tempo questo concetto
del non nuocere agli altri, che poi è anche alla base della strutturazione di tutto il diritto penale
(nella Common law in maniera molto più evidente ma anche nel nostro nel nostro diritto come
principio fondatore), è ancora presente e da luogo ad un raccordo continuo tra il diritto all’uso
della risorsa e l’uso della stessa. Quindi binomio diritto-responsabilità. C'è un dovere di non
ingerenza nelle vicende dello Stato vicino, che vuol dire che in base al diritto internazionale io non
posso venire a controllare e correggere determinati processi di abuso delle risorse naturali e di
depauperamento delle condizioni ambientali che si producono nello stato vicino. Si sta
affermando progressivamente un diritto di ingerenza umanitaria se all’interno di qualche paese la
situazione diventa così grave da portare danno ad intere parti della popolazione, per difendere il
diritto alla vita, ma da questo punto di vista c’è un diritto di ingerenza a scopo ambientale? Se ci
fermiamo al principio del “sic utere tuo” non abbiamo molte carte da giocare. Il diritto
internazionale sta cercando di muoversi in questa direzione, provando a superare i limiti di questo
che è stato il pilastro di formazione del diritto internazionale dell’ambiente.
Conferenza di Stoccolma
Nella Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972 un numero molto elevato di paesi
delle Nazioni unite (oltre 110 paesi) converge insieme alle agenzie specializzate e ad altre
organizzazioni internazionali (all'epoca non siamo ancora in presenza di mobilitazioni popolari di
grande portata). Il tutto si svolge proprio come una classica conferenza internazionale per tentare
di avviare una cooperazione tra gli stati in materia ambientale. A questa conferenza si produce una
dichiarazione di principi, testo privo di valore giuridico cogente, non è uno strumento vincolante,
ma è comunque il punto di riferimento centrale del successivo sviluppo del diritto internazionale
in questa materia. Siamo in presenza di linee guida che ispireranno i negoziati successivi. Questa
dichiarazione di principi ha il connotato della visione antropocentrica, considera che la tutela
dell’ambiente è subordinata all’interesse esclusivo della specie umana ed è quindi tutelato come il
luogo in cui deve vivere l’uomo e non come fine in sé. Sui principi di libertà e uguaglianza
dell’uomo di fonda una responsabilità a preservare l’ambiente non solo per i viventi, ma anche per
coloro che verranno. Qui vediamo per la prima volta le generazioni future e c'è anche una prima
individuazione del bene giuridico ambiente ma non ancora con una sua autonomia rispetto agli
interessi umani, e comunque con l'idea di un iniziale distacco dell’ambiente dall’interesse statale
cioè si inizia a pensare che l’ambiente è qualcosa che deve entrare in una logica di regolazione più
larga del singolo stato, quindi un bene sovrastatale. Si inizia a parlare di una tutela ambientale
degli spazi esterni (l’alto mare, lo spazio extraatmosferico ecc.) e l’umanità ha percezione di un
problema che va regolato collettivamente. Si dà così il via ad un’azione nella quale si pensa che
l’ONU debba avere un ruolo importante. All’interno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
prende corpo un programma speciale dedicato all’ambiente. Gli anni ‘70 sono un momento di
avvio di un ramo della sua politica di dialogo tra le nazioni, finalizzata ad una regolazione migliore
e che in qualche modo vuole fare la sintesi anche da interventi regolativi che c'erano già stati negli
anni precedenti. Già a Ginevra nel 1958 si era parlato dell’alto mare, della convenzione per la sua
gestione; già nel 1959 a Washington si era iniziato a santuarizzare l’Antartide; già negli anni
Sessanta lo spazio era stato oggetto di un trattato sulla sua esplorazione e in quest’ultimo caso
appare evidente che sono le due grandi potenze a monopolizzare il discorso perché gli altri stati
non disponevano di strumenti tali per iniziare l’avventura spaziale. È più l’interesse tra alcuni
competitor a non portarsi danno piuttosto che un interesse complessivo alla salvaguardia di un
bene naturale. Stoccolma inizia ad avviare invece tavoli di lavoro e strumenti come il programma
delle Nazioni Unite sull’ambiente per gettare le basi di una regolazione comune e condivisa.
Quali sono i principi della dichiarazione di Stoccolma? Il taglio di questa dichiarazione è
antropocentrico, già il primo principio mette l’uomo all’origine della regolazione del fattore
ambientale, mettendo come un a priori assoluto la libertà fondamentale dell’essere umano, che
possa vivere nella dignità e nel benessere. Dall’altra parte un dovere solenne di proteggere
l’ambiente per le generazioni future; spesso questi doveri solenni sono doveri poco assistiti da
sanzioni o da interventi di implementazione normativa, fanno parte di un impegno sull’onore ma
quanto sia sentito dalla grande industria, dalle grandi compagnie… sappiamo che non è così
sentito. In applicazione del principio “sic utere tuo” il principio n. 21 della dichiarazione di
Stoccolma riconosce agli Stati il diritto di sfruttare le risorse in loro possesso e di controllare solo
entro la propria giurisdizione che non si rechino danni all’ambiente degli altri stati.
Rapporto Brundtland
Dopo Stoccolma abbiamo una fase di approfondimento della problematica internazionale
dell’ambiente ed è di nuovo una personalità del mondo scandivano ad essere in evidenza
all’interno della commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, dove viene
approfondita la questione relativa al nostro “futuro comune”: Our Common Future è proprio il
titolo di questo rapporto conosciuto anche come Rapporto Brundtland, dal nome del PM
norvegese che era capo di questa commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, risalente al
1987. Il binomio ambiente-sviluppo sarà un po’ l'asse portante del diritto internazionale e in
questo in questo campo nel corso dei decenni successivi. L'ambiente non è in questo momento
svincolato nella sua protezione dalla necessità di tenere alto il livello di sviluppo economico dei
paesi; non si vuole sacrificare alle esigenze di sviluppo economico la dignità della persona,
l’uguaglianza tra i generi, i diritti ala vita ecc, ma nel caso dell’ambiente lo si protegge, ma sempre
in maniera che sia compatibile con lo sviluppo economico.
Nel Rapporto Brundtland non si parla di ambiente in quanto tale ma ci si riferisce ancora sempre al
benessere delle persone, anche se viene però messo in fronte risalto il principio etico e la
responsabilità di chi oggi agisce nei confronti delle generazioni future.
Nel complesso il Rapporto Brundtland, pietra miliare dal punto di vista dell’approccio
internazionale a queste tematiche, rimane fondamentale per questo accostamento ambiente-
sviluppo e per la genesi dell’ossimoro dello “sviluppo sostenibile”, ovvero uno sviluppo che
soddisfa il bisogno del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
soddisfare i propri. La presenza del genere umano sulla terra è una presenza che pone oggi dei
problemi assolutamente inediti, perché noi abbiamo sfruttato in maniera assolutamente limitata
fino a tre secoli fa le risorse; adesso invece siamo addirittura venuti a creare un’altra era
geologica, un’era nella quale è l’uomo a lasciare un segno visibile sull’andamento dei cicli naturali.
Se questo è il punto è molto complesso sapere se e in che misura stiamo compromettendo il
diritto delle generazioni future.
Secondo la linea interpretativa dello sviluppo sostenibile abbiamo il diritto di sfruttare le risorse
naturali, dobbiamo lasciare intatte delle possibilità future ma non riconosciamo un diritto alle
generazioni future di godere di un certo livello di qualità ambientale. Se si scrive invece che le
generazioni future hanno il diritto di soddisfare i propri bisogni almeno allo stesso livello a cui li
soddisfiamo noi, automaticamente impongo delle responsabilità alle generazioni attuali e dei limiti
allo sviluppo futuro. Siamo in una logica di inizio di contenimento del fattore umano sulla terra,
non ancora di piena responsabilizzazione e di inibizione di determinate attività, inibizione che
rimane puramente teorica nel momento in cui lo sviluppo sostenibile viene declinato in maniera
diversa rispetto alle nuove cognizioni scientifiche. Non c’è comunque documento politico, carta di
intenti o accordo internazionale che oggi non abbia al suo interno l’espressione “sviluppo
sostenibile”, perché è diventato un passe-partout, visto che non ha al suo interno dei criteri
rigorosi di applicazione.
Comunque, Brundtland ha fatto un po’ muovere le fila della comunità internazionale in questo
ambito e questo documento ha soprattutto una valenza preparatoria, di base concettuale,
attraverso la quale si è giunti al turning point del diritto dell’ambiente, ovvero la Conferenza di Rio
su ambiente e sviluppo del 1992.
Conferenza di Rio de Janeiro
Si trattò di un summit veramente mondiale, con 172 governi e 108 capi di stato presenti nelle due
settimane in cui si è svolta questa iniziativa, con un impatto mediatico straordinario perché siamo
in un momento di fibrillazione dell'umanità intera intorno a queste tematiche. Si è appena girata la
pagina sulla corsa agli armamenti nucleari, stoppata con accordi intervenuti nei primi anni
Ottanta, e quindi Rio è il momento in cui per la prima volta vengono discussi aspetti anche inediti
della questione ambientale. In quelle giornate ci si orienta a scavare sui modelli di sviluppo, si
fanno i conti con la governance generale dell’ambiente su scala planetaria e vengono alla luce
quattro temi, che poi troveranno declinazione nei principi sull’integrazione tra ambiente e
sviluppo. Quali sono questi temi?
1. C’è una lunga discussione sui modelli tecnici di produzione, perché si deve riconoscere che il
mondo sta cambiando il modo di produzione, dalla produzione meccanica dello sviluppo
industriale della prima metà del Novecento verso tecnologie nuove che producono tossine,
emissione di metalli pesanti, dell’accumulo dei rifiuti ecc.
2. Questo è il primo momento in cui appare chiaro che bisogna risolvere congiuntamente il
problema della tutela dell’ambiente e del corretto utilizzo delle energie che sono fortemente
dannose per gli equilibri ambientali (à tema rinnovabili era ancora sconosciuto in quegli anni
ed è merito di questo evento internazionale averlo portato all’attenzione dell’opinione
pubblica).
3. Problema dei trasporti, in particolare i trasporti pubblici, per ridurre le emissioni che stanno
provocando congestionamenti nelle realtà umane e problemi enormi dal punto di vista dello
smog e della salute umana.
4. Problematica dell’acqua, di uso delle acque dolci (si dispone che è bene limitato, 2% risorsa
idrica mondiale e distribuito in maniera ineguale).
Il diritto dell’ambiente è un diritto molto giovane e in quanto tale ancora fresco, in formazione ma
anche in urgente necessità di sviluppo.
La conferenza di Rio, così come aveva fatto la Conferenza di Stoccolma, produce una
dichiarazione, molto più articolata della dichiarazione di Stoccolma, che riguarda l’integrazione
ambiente-sviluppo e questo fare i conti con una realtà in forte movimento. Oltre ad essere
declaratoria di questi principi, la dichiarazione di Rio ci apre la strada ad un programma di azione
strutturato in maniera piuttosto significativa, con appositi capitoli che declinano gli obiettivi di
sviluppo sostenibile e gli interventi necessari per la loro attuazione. Rio è anche il luogo e il
momento in cui intorno al tavolo si delinea in maniera molto netta questa dualità tra paesi in via di
sviluppo, che ambiscono a vedere crescere il loro livello di sviluppo, e i paesi sviluppati, con
esigenze diverse. Quindi con una necessità di trovare un punto di equilibrio tra le risorse
disponibili, le volontà degli uni e degli altri e un bisogno anche di giustizia ambientale diversa
rispetto al passato.
In questo calderone di Rio maturano anche due documenti che invece avranno, diversamente
dalle pure dichiarazioni di principio, una destinazione più pratica: sono la Convenzione sui
cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica. La Convenzione sui cambiamenti
climatici rimarrà la matrice di sviluppo delle conferenze delle parti (le COP), degli appuntamenti
annuali nei quali viene fatto il punto sul cambiamento climatico e sulle strategie in atto, e vengono
proposti strumenti di regolazione. Il protocollo di Kyoto nascerà nell’ambito di una COP, così come
l’accordo di Parigi. Sono accordi internazionali a tutti gli effetti che producono conseguenze
giuridiche necessarie nei confronti di chi vi ha aderito.
Limiti della Dichiarazione di Rio: non è un atto vincolante, non è diritto cogente che fissa diritti e
doveri, ma è una soft law. È sostanzialmente una mera raccomandazione non direttamente
applicabile, gli standard e i divieti verranno dopo.
Protocollo di Kyoto
Il termine protocollo si può assimilare a quello di un accordo formale, che è stato effettivamente
sottoscritto da un numero elevato di soggetti. Ma questo si inserisce nel solco della Convenzione
sui cambiamenti climatici, uno dei due documenti vincolanti stipulati in occasione della conferenza
di Rio e che farà da convenzione madre per i due protocolli applicativi successivi. Questa
Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici è stata adottata in seno alla
conferenza delle parti, COP 3, a Kyoto in Giappone nel 1997. I paesi si sono ritrovati per stabilire
riduzioni delle emissioni di gas serra, in particolare per i paesi che ne sono maggiori produttori. I
gas serra fanno una specie di velo interno alla crosta terrestre, provocando degli effetti molto
simili a quelli che provoca il fatto di coprire con del vetro una serra: il risultato è che la
temperatura cresce progressivamente. Appare già chiaro alla comunità internazionale che l’uomo
sta provocando alterazione climatica e che si deve intervenire. Kyoto a tal proposito introduce dei
meccanismi flessibili, non rigidi di limitazione, paese per paese; la grande trovata degli attuatori di
questo regime è lo scambio di quote di emissione. Quote di “diritto di inquinare” trasferendolo ad
altri soggetti, purché nel complesso non ci si sfori la quantità complessiva contemplata.
Questo sistema è entrato in vigore nel 2005: otto anni di tempo prima di avviare il sistema con le
ratifiche dei paesi (192), anche se gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro. Il sistema è ancora
attivo ma ha dato risultati piuttosto deludenti, perché questi meccanismi che dovevano consentire
la realizzazione di progetti anche di lunga durata e che consentiva un mercato vero e proprio alla
fine ha dato risultati nettamente al di sotto delle attese. Il meccanismo di Kyoto non era dotato di
meccanismi sanzionatori adeguati.
L’Europa è stata la regione del mondo che ha applicato anche al suo interno la logica di Kyoto,
ottenendo dei risultati significativi.
In qualche caso le decisioni del diritto internazionale sono state efficaci; circa 20 anni fa ci fu una
fortissima preoccupazione ambientale legata al buco nell’ozono. L’accordo di Montreal per
mettere al bando i gas serra che causavano questo si è dimostrato efficace, cosa che non è stata
per il protocollo di Kyoto. La COP 21 di Parigi invece ritornerà sull’argomento e imposterà in
maniera diversa una possibile soluzione.
Convenzione di Aarhus
È stata fatta nel 1998 e dà attuazione a quei principi proclamati a Rio de Janeiro di informazione,
partecipazione e ricorso all’autorità giudiziaria in materia di ambiente. È una pietra miliare e uno
strumento legalmente vincolante, per cui in assenza di determinati strumenti partecipativi,
informativi e di giustizia si ha diritto al riconoscimento di particolari diritti in capo alle persone, per
cui questo che sembrerebbe un riconoscimento di diritti solo individuali si sostanzia si sostanzia in
un processo di democrazia ambientale. Questo è un aiuto sostanziale a processi virtuosi anche
nelle dinamiche transfrontaliere che riguardano l’ambiente. L’Italia l’ha ratificato nel 2001 questo
dispositivo normativo vincolante e utilizzabile nelle aule di giustizia. Il pilastro di questo trattato
copre sia il diritto passivo, sia vale come apertura di una richiesta individuale di fornire dettagli che
aggiornino e diffondano informazioni che riguardano l’ambiente. L’informazione ambientale
prende uno spazio molto ampio e copre una serie di fenomeni, risorse che possono essere
influenzati negativamente da determinate misure. Questo obbligo informativo non deve essere
protratto oltre determinati limiti, è accelerato e può assumere forma diversa (filmica, fotografica,
di tabulati…) e copre molte situazioni per cui qualunque persone può attivarsi.
Quale sfondo diamo ala proiezione di Johannesburg? Gli diamo l’obiettivo che l’ONU si è dato con i
cosiddetti 8 Obiettivi di sviluppo del Millennio, che sono diventati patrimonio praticamente di
tutta l’umanità, con un impegno a raggiungerli nel 2015. Questi 8 obiettivi sono:
• sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo
• rendere universale l’istruzione primaria
• promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne
• ridurre la mortalità infantile
• ridurre la mortalità materna
• combattere HIV/AIDS, la malaria e altre malattie
• garantire la sostenibilità ambientale
• sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo
Il diritto dell’Unione è anch’esso in qualche modo una forma di diritto transnazionale, attraverso
un’unione di stati che conserva comunque la propria sovranità.
Quadro generale
I programmi di azione pluriennali dell’UE hanno uno sviluppo abbastanza lungo, oggi viaggiamo
nell’ordine dei 6-7 anni. Il contenuto di questi programmi è cresciuto nel tempo e ha assunto
caratteri di grande apertura e di grande larghezza.
Nel 1973 abbiamo avuto il primo momento di considerazione del “Our common future” con la
conferenza di Copenaghen, e in questo contesto i programmi pluriennali di azione hanno scandito
lo sviluppo dell’azione dell’Unione europea, hanno permesso a tutti di ritrovarsi in questa logica.
Quindi proprio nel 1973 abbiamo l’inizio dei PPA (programmi d’azione) prodotti dalla Commissione
europea. Adesso viviamo gli ultimi anni del piano d’azione “Vivere bene, entro i limiti del nostro
pianeta” (Living well, within the limits of our planet”), il VII piano d’azione (2013-2020), un piano
molto intenso con delle iniziative in 9 obiettivi strategici che coinvolgono tutti i settori di azione
dell’UE: protezione della natura; maggiore resilienza ecologica; crescita sostenibile, efficiente e a
basse emissioni di carbonio; lotta contro le minacce alla salute legati all'ambiente…
Adesso siamo alla vigilia di un ulteriore salto in avanti, di un nuovo programma ancora più
ambizioso sul quale per la prima volta la Commissione ha deciso di farne l’oggetto di un’azione
prioritaria, anche se con la pandemia le tematiche ambientali hanno perso visibilità. La transizione
verso un sistema di minor o addirittura nessuna emissione di CO2 richiede il drenaggio di
un’enorme quantità di risorse per una ristrutturazione degli impianti produttivi, dei sistemi di
trasporto ecc, e questo drenaggio è in controtendenza con la necessità di avere maggiori risorse
per fronteggiare la pandemia e per non lasciar cadere il livello di benessere raggiunto in questi
anni.
Dagli anni Settanta in poi l’Unione europea ha fatto molto, perché gli interventi che si sono attuati
all’interno dei programmi ma con strumenti di carattere legislativo sono operanti in tutti i campi,
in particolare acqua, atmosfera, suolo, fauna e flora. La conservazione diretta di ambienti naturali
ha già una storia antica nell’Unione e ha portato all’istituzione di strumenti omogenei tra i paesi: ci
sono i programmi life e molti programmi di tutela che riservano, attraverso le decisioni che
prendono i singoli stati, spazi molto ampi per salvaguardare spazi molto ampi. La politica
ambientale non si esaurisce nell’istituzione di parchi e aree protette, ma è un passo importante. Il
nostro continente ha una storia diversa rispetto al continente americano, dove si è sviluppata la
tecnica giuridica moderna di tutela dell’ambiente; le scelte che sono state fatte sono andate nella
direzione di mantenere enormi spazi di natura libera dal condizionamento, spazi che nell’Unione
non ci sono. In questi spazi è rifiutato l’intervento dell’uomo anche a ripristino di determinate
funzionalità (es. no reazione di rimboschimento o contenimento di incendi, si pensa che la natura
debba fare il suo corso). Il nostro contesto invece è con presenze antropiche anche massicce,
all’interno di determinati spazi, quindi siamo più proiettati ad una convivenza tra questi due
momenti, ma le direttive dell’UE puntano a salvaguardare alcuni spazi di tutela cosiddetta
integrale, siano essi ambienti boschivi, marini ecc.
Uno dei campi da cui è partita la lotta all’inquinamento è stato l’inquinamento acustico: una
protezione della salute umana attraverso la lotta all’inquinamento acustico, e su questo l’UE ci ha
indirizzato ad un livello alto di tutela. In questo possiamo riconoscere una sorta di avanguardia
nella legislazione europea a cui si sono poi ispirati moltissimi paesi. Ci sono dati risalenti
addirittura al 1970 per la lotta all’inquinamento acustico; fronte della lotta per l’inquinamento
acustico c’è stata la lotta all’inquinamento atmosferico. Gli anni ’70 vedono diffondersi una
fortissima preoccupazione per l’inquinamento nei fiumi e nella rete delle acque, questo per effetto
di sversamenti incontrollati sia di carattere urbano (con il diffondersi di malattie), sia di sostanze
chimiche trattate dall’industria e non oggetto di una depurazione prima dell’immissione nei corsi
d’acqua. Negli anni Settanta ci furono prima interventi robusti da parte della magistratura: si parlò
di pretori d’assalto perché usavano strumenti che non erano stati concepiti per il diritto
ambientale. Però a livello europeo si è sviluppato il problema dell’inquinamento atmosferico, con
un effetto molto visibile sulle foreste dell’area continentale, in Germania in particolare, per effetto
del trasferirsi di grandi quantitativi di emissione di carbone dall’Europa dell’Est sulle foreste
tedesche: furono le cosiddette piogge acide, che determinarono l’UE ad adottare un quadro
normativo efficace, stringente, nel quale tutti i paesi potessero fare la loro parte assumendo
iniziative coordinate e ben definite.
Si è poi mossa in questa linea l’Unione anche sul terreno che si è manifestato a partire dagli anni
’90 dell’allarme suscitato dall’emissione dei gas serra. Nel trattare del diritto internazionale ci
siamo concentrati sul tentativo, sviluppato nella COP 3 di Kyoto, di trovare un meccanismo di
contenimento dei gas serra attraverso lo scambio delle quote. Questo meccanismo di scambio ha
avuto proprio nell’UE il suo soggetto più convinto e la direttiva 2003/87/CE è frutto di questa
scelta di combattere il cambiamento climatico attraverso tale sistema. È già diritto dell’UE la
limitazione dei gas a effetto serra, gli impegni vengono presi in un quadro coordinato.
Un passaggio fondamentale nel predisporre strumenti di tutela ambientale, che funge anche da
supporto a tutte le politiche dell’Unione (politica agricola, industriale...) è il meccanismo REACH,
istituito nel 2006 per la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e restrizione delle sostanze
chimiche. L’opinione pubblica non ha la percezione di quante diverse sostanze chimiche siano
utilizzate e del danno che possono portare all’ambiente e alla specie umana stessa in seguito alla
loro diffusione nella natura. Determinati rifiuti risultano difficilmente trattabili, risultano di durata
secolare o millenaria nel corso del tempo e non si rimettono in un circolo naturale. La
registrazione di questi nuovi prodotti, l’eventuale autorizzazione al loro utilizzo, i limiti che
possono essere prescritti rappresentano uno sforzo che solo un organismo di carattere tecnico
particolare qualificato, ma anche che opera a livello molto ampio, può affrontare. Pensare che
Malta, Cipro e Lussemburgo riescano singolarmente ad avere strumenti informative di
monitoraggio adeguati è pura illusione. Nell’ambito di un normale sviluppo del principio di
sussidiarietà l’Unione deve farsi carico di cosa può essere invece affrontato a livello comunitario, e
la REACH ne è la risposta.
Sul tema delle acque, si tratta di un settore in cui l’azione dell’Unione ha armonizzato molto
efficacemente gli interventi; deve essere un’azione che abbracci il diffondersi delle acque dolci
sulla superficie terrestre, a partire dai ghiacciai fino alla foce, con tutto quello che questo
comporta in termini di sicurezza del genere umano. I fenomeni dei disastri naturali dimostrano
cosa comporta una non corretta gestione del sistema idrico nel suo sviluppo sul territorio, ma
andando a declinare il problema nella qualità delle acque, nella loro distribuzione corretta, nel
monitoraggio del loro stato di salute, nella tecnica e nella capillarità dei servizi di depurazione e
così via, la capacità dei paesi dell’UE di governare questo sistema individualmente si è rilevata
bassa. L’UE, che non interferisce nelle scelte del singolo stato nel dettaglio, ha posto delle
metodiche d’azione molto efficaci: ha stabilito che si debba ragionare per bacini, cioè che la
gestione delle acque non avvenga in funzione di competenze amministrative localizzate. Non tutti i
paesi erano dotati di questo approccio, è stata una scelta forte dell’Unione europea, contenuta
nella direttiva 2000/60/CE, che ha dato come obiettivo uno stato buono di qualità delle acque
entro il 2015. Non è stato esattamente raggiunto da tutti entro quell’anno, ma l’indicazione è stata
massicciamente recepita e il sistema può dirsi oggi in marcia; siamo per esempio di fronte ad una
riorganizzazione del sistema di depurazione delle acque, di cui una parte dei paesi era
particolarmente carente all’inizio.
Altra parte riguarda i rifiuti, il cui smaltimento è solo uno dei problemi, perché è questione di non
produrli, o di produrre sostanze che possano rientrare in un circuito di economia circolare ed
essere recuperati. Siamo di fronte ad una selezione molto attenta delle modalità di smaltimento
dei rifiuti non riciclabili, con tecniche che vengono privilegiate rispetto ad altre. L’Unione europea
ha dato un quadro concettuale a tutta questa operazione, che è l’acceleratore delle nostre
politiche ambientali (nel codice dell’ambiente in Italia) e che tutti i paesi membri hanno dovuto
fare proprio.
Ogni progresso in ambito ambientale che facciamo a livello UE diventa parte dell’acquis
comunitario, ovvero ciò che è consolidato e a cui si devono riferire i paesi di nuovo ingresso.
Ci sono stati dei passi avanti fatti dall’UE per l’etichettatura dei prodotti con marchio di qualità
ecologica dell’Unione europea. L’UE non è un soggetto che si è dotato di apparati burocratici
enormi, per esempio in questo campo utilizza un criterio più morbido che è quello di favorire la
scelta ecologica da parte del cittadino. L’Ecolabel UR è una sorta di spiga verde, un marchio che
riconosce che questo prodotto è stato creato seguendo determinati canoni, che ha un’alta
digeribilità dal punto di vista del suo involucro, che non contiene sostanze pericolose per la salute
umana e dell’ambiente ecc. si tratta di un’etichetta “verde” su base volontaria (reg. n. 66/2010).
Poi ci sono dei quadri di protezione ancora non totalmente normati, ma in corso di normazione,
che riguardano la responsabilità sociale delle companies, quindi una Corporate Social
Responsibility che guarda a tutta la filiera di produzione. un’azienda può avere le mani pulite ed
essere responsabile di grandi scempi ambientali perché opera attraverso delle società collegate,
controllate, o attraverso delle scelte di filiera facendo produrre da altri un prodotto e ritenendosi
totalmente svincolata da responsabilità. Un’azienda può essere responsabile circa la produzione
del prodotto, ma magari non nel suo trasporto, o fa scelte sconsiderate sulla sua durata. La
problematica della responsabilità delle companies si sta iniziando ad affrontare e fa parte di una
logica avviata fin dal Libro verde del 2001. I libri verdi non sono un libro ecologico, ma documenti
dell’UE che hanno un carattere divulgativo e che tendono a spiegare il senso di alcuni cambiamenti
strategici dell’Unione, non solo in ambito ambientale; sviluppano il dibattito nella società europea
intorno a queste scelte future.
Programmi d’azione
Sono azioni abbastanza circoscritte, delle iniziative pianificatori che riguardano alcuni segmenti del
nostro vivere. Nel caso dell’Unione europea i programmi di azione hanno un carattere molto
omnicomprensivo e sono come dei grandi contenitori nei quali trovano posto varie iniziative che
hanno un carattere strategico per l’Unione nel suo complesso. Sono declinati anche degli obiettivi
da raggiungere, sia entro termini brevi che con orizzonti molto lontani.
L’approccio europeo rispetto all’ambiente è più efficace perché tiene in alta considerazione la
necessità di un’azione continua, non è una questione che si risolve con un intervento “a spot”: si
accompagna una seria politica ambientale solo se si mette davanti a sé il tempo necessario per
raddrizzare o contenere determinati fenomeni che possono rivelarsi pericolosi.
Abbiamo il VII programma di azione e molte delle trasformazioni che registriamo oggi nella politica
nazionale (ad esempio lotta sulle plastiche) stanno a valle di un programma d’azione generale e
più puntualmente, di singole direttive che armonizzano le decisioni dei paesi dell’Unione. L'Unione
europea privilegia lo strumento della direttiva rispetto al regolamento perché quest'ultimo è
l'equivalente di una nostra legge, ha un carattere rigido ed entra nell’ordinamento come norma
che prevale sulla legge dello stato. Spesso l’Unione predilige il ricorso alle strategie di
armonizzazione con la direttiva, che vuol dire dare un obiettivo che deve essere raggiunto nel
termine di x anni e ogni stato membro fa con i suoi strumenti quanto necessario. È un approccio
meno impattante sulle sovranità dei singoli stati, ma che comunque consente dei risultati
eccellenti, anche con un sistema di salvaguardia che mette in atto l’Unione (non manda ispettori
ma è nella responsabilità dei singoli stati fornire elementi informativi). Spesso è un’azione
collaborativa che mette allo scoperto alcuni fattori: sono ONG, sindacati, associazioni… sono loro
che segnalano l’esistenza di alcune violazioni.
Accanto al discorso generale sul programma d’azione abbiamo anche delle strategie orizzontali,
cioè modi di integrare lo sforzo dei singoli paesi in maniera da raggiungere degli obiettivi comuni.
Quindi programma di azione generale e al suo interno delle strategie orizzontali. Il temine
strategia si riferisce ad un’idea coordinata di azioni diverse, di strumenti normativi e non normativi
di finanziamento, di sostegno, di creazione di strumenti tecnici (vedi REACH). Alcuni esempi sono
la Strategia per lo sviluppo sostenibile (SSS) del 2001, che riguarda in la particolare la crescita e
l'occupazione nel quadro di una dimensione ambientale sostenibile; abbiamo la Strategia di
crescita intelligente, la strategia Europa, che è stata attivata nel 2010 e per un’evoluzione
ulteriore della crescita economica. È una strategia di crescita intelligente perché utilizza le nuove
tecnologie, in particolare le tecnologie dell’informazione, come leva per un cambiamento
sostenibile. La Strategia per la biodiversità del 2011 indica una serie di azioni puntuali, concrete,
da mettere in atto perché non sia ulteriormente pregiudicata. C’è un dato sostanziale da tenere
presente: la perdita del 50% della biodiversità nell’arco di appena due generazioni. Il farsi carico di
questa biodiversità è proprio di un’entità come l'Unione europea, che può guardare le cose in una
dimensione larga, perché la stessa percezione non ce l'ha né singolo cittadino, né la comunità
locale, né uno stato.
Dinamica di partecipazione
Un altro versante nel quale il diritto dell’UE si è rivelato fondamentale è la questione della
partecipazione. La Convenzione di Aarhus è fondamentale in materia di informazione,
partecipazione e giustizia ambientale; in questo quadro si inserisce una tipologia di azione molto
importante, che è quella della valutazione dell’impatto ambientale. La valutazione degli impatti,
cioè delle conseguenze in termini sociali, ambientali, economici fa parte di un nuovo approccio
culturale che si è sviluppato orientativamente a partire dagli anni ‘50 negli Stati Uniti e che ha
fatto strada. Un tempo le decisioni venivano assunte esclusivamente sulla base di intuizioni, era
privilegio del governante e poi dei parlamenti di individuare degli obiettivi, di fare delle scelte, ma
negli anni ’50 si è arrivati a considerare fondamentali in ogni decisione strategica la valutazione
sincera dei costi e dei benefici. Nel corso degli anni la valutazione si è estesa anche agli aspetti
ambientali, si è capito che realizzare un’opera aveva un costo termini di materie prime, in termini
di perdita di superficie agraria, di superficie boscata… e che avrebbe poi sviluppato delle
conseguenze nel tempo. Chi valuta però? L’idea iniziale era che gli scienziati, i tecnici avrebbero
valutato meglio di chiunque altro le conseguenze. Questo affidarsi alla tecnologica, alla scienza, è
stato un aspetto fortemente criticato perché si è ritenuto che la valutazione dovesse avere un
carattere più inclusivo. In questo l'Unione europea è stata pioniera di scelte importanti che hanno
consolidato il nostro modo di vedere e di disciplinare l'organizzazione e la realizzazione di questi
manufatti, di queste opere (di elevato impatto), articolando questa dinamica attraverso dei
momenti partecipativi da parte dei cittadini. Partecipazione ai processi decisionali, accesso alle
informazioni e diritto alla giustizia: la valutazione dell’impatto ambientale ha questo carattere di
previsione ma anche di accompagnamento della decisione con l’emergere delle valutazioni che
vengono dal pubblico. Se c'è una comunità che vede dei problemi nella costruzione delle grandi
opere può essere informata e ha il diritto di vedere i progetti che vengono presentati, avrà tempo
per discutere e presentare le sue osservazioni, avrà diritto di richiedere e tutti gli approfondimenti
necessari e semmai poi avrà anche il diritto di ricorrere ingiustizia contro le decisioni che vengono
assunte. Il terreno ambientale è un terreno su cui si sviluppa un approccio per dichiarare che
questo diritto vede coinvolta in prima persona l’opinione pubblica.
Attuazione
Gli Stati membri sono seduti al tavolo del Consiglio dei ministri dell'unione europea e condividono
queste scelte con le regole di maggioranza che oggi, dal trattato di Amsterdam in poi, sono
diventate la regola dominante all'interno dell'Unione europea; si procede per codecisione tra
Parlamento e Consiglio dei ministri, ma la maggior parte delle questioni e tra queste le questioni
ambientali, vengono approvate con regole di maggioranza. Questo fiume di norme, direttive,
decisioni, regolamenti in materia ambientale devono entrare nel diritto dei singoli stati e vi
entrano in vario modo:
- i regolamenti in maniera diretta
- le direttive attraverso un’attuazione legislativa statale e a volte questo avviene con una
lentezza o con un’incompletezza tale da provocare dei seri deficit attuativi. È un problema
molto serio, perché gli obiettivi più alti, magari condivisi da uno stato a livello del tavolo del
Consiglio dei ministri, poi non vengono conseguiti perché si sconta all’interno una resistenza
politica molto forte.
Nella nostra convivenza all'interno dell'Unione europea le decisioni di natura penale, che devono
essere efficaci, proporzionate e dissuasive, per i crimini ambientali più gravi vanno assunte a livello
del singolo stato e non a livello dell'Unione europea. Quindi possiamo immaginare una circolarità
di azione, che parte da stimoli che possono venire localmente, attraverso decisioni globali assunte
dall’UE e un percorso attuativo in sede locale a cui farà seguito ancora un monitoraggio. L'Unione
europea è un formidabile strumento di monitoraggio dello stato dell'ambiente, delle acque,
dell'aria, del suolo ecc. Il monitoraggio è la rete per il controllo del rispetto del diritto
dell’ambiente, diventa punto di convergenza e di afflusso di ondate continue di informazione e
rilevazioni che possono essere anche premonitrici (nella vicenda Chernobyl il ritardo nelle
informazioni è stato fatale). Il monitoraggio è un bene comune in qualche modo e l’IMPEL
(European Union Network for the Implementation and Enforcement of Environmental Law) è una
rete internazionale delle autorità ambientali statali per stimolare l'applicazione, scambiando idee
migliori passi. Il fatto di essere in rete consente ai paesi membri di sviluppare pratiche migliori e di
veder complessivamente migliorare la qualità del nostro ambiente grazie al fatto che ci comporta
meglio. Spesso, più che norme cogenti, divieti e sanzioni, può fare molto un momento imitativo e
di diffusione di come stanno operando bene altri governi.
Parlamento europeo
La Commissione europea un ruolo tecnico di grandissimo rilievo, ma un soggetto importante che è
entrato in campo negli ultimi anni, importante sia per la sua sensibilità particolare che per il
carattere fortemente innovativo delle soluzioni che propugna è il Parlamento europeo. Non è un
luogo di declamazione, è un Parlamento tra i più attrezzati al mondo dal punto di vista delle
competenze, tra i più capaci ad interloquire con una pluralità di soggetti competenti e un luogo nel
quale le politiche vengono elaborate in maniera molto articolata, in continua relazione con
l’opinione pubblica. Il diritto ambientale dell'Unione oggi risente molto di spinte che derivano dal
Parlamento europeo, per esempio la fortissima convinzione che si deve andare verso una
economia circolare, cioè un'economia che recupera come materia rinnovata i prodotti e non
lasciarli come rifiuti. Il Parlamento è un soggetto che ha fortemente spinto l'implementazione di
una legislazione più attente più completa in questi campi. L’altro versante per il quale è
significativamente all’avanguardia è quello relativo ai cambiamenti climatici, quindi tutta una
serie di innovazioni o di nuovi campi via via esplorati. Le associazioni ambientaliste, il mondo
scientifico-accademico, trovano spesso in questo Parlamento non un soggetto, come succede in
genere nel nostro Parlamento nazionale, presso il quale si va occasionalmente per un’audizione e
si viene ascoltati per dimenticarsene, ma ha una rete di collegamento, una trasparenza di azione
che sono straordinariamente vivi ed efficaci.
In alcuni campi e anche in conflitto con la Commissione europea, che è molto sensibile alle spinte
del mondo economico e finanziario, mentre in termini generali Parlamento europeo è forse più
sensibile alla spinta dell’opinione, del consumatore, ed è anche in grado di mettere in campo in
maniera più avvertita i rischi per le generazioni future.
Il Parlamento è promotore di legislazione derivata per quanto riguarda il piano d'azione
dell'Unione per l'economia circolare e problemi connessi ai cambiamenti climatici.
Green Deal
Il Green Deal europeo assume il carattere di momento di svolta dell’intera economia europea,
mettendo in strettissimo rapporto l’elemento della produzione, dello stile di vita, con l’elemento
della tutela dell’ambiente. Questo avviene nel momento in cui l’UE deve affrontare la crisi
climatica mondiale e ha deciso di non assistere impotente a quanto sta succedendo, di non
lasciare che i l libero mercato faccia il corso e che trovi le soluzioni quando e come potrà. La scelta
qui è molto diversa e stiamo puntando, se non proprio ad un governo totale della trasformazione,
ad una governance dell’evoluzione climatica. Ci troviamo a gestire questa trasformazione a partire
proprio dalla fase insediativa della nuova Commissione europea: siamo nell’ultimo scorcio
dell’anno passato e nel presentarsi al Parlamento europeo, Ursula Von der Leyen e il suo staff
indicano come tratto caratteristico per i prossimi 5 anni della loro attività un Green Deal.
L’alleanza tra l’economia e l’ambiente, la logica dello sviluppo sostenibile prende la
denominazione “Deal” e si accoglie una prospettiva che non è protezionistica in sé e per sé, ma è
molto legata allo sviluppo degli affari: l’idea di fondo che veicola la Commissione è che si deve
implementare ancora il livello di sviluppo, perché si pensa che solo sviluppando ulteriormente
attività di carattere economico, industriale ecc. orientate in altra direzione si possa raggiungere
questo obiettivo. Quindi la popolazione europea può, secondo questa filosofia, puntare ad un
orizzonte di zero emissioni nell’arco di un trentennio pur facendo più cose, sviluppando maggior
produttività; la convinzione di fondo è che la tecnologia consente di fare grandi salti in avanti e
facendo le scelte giuste dal punto di vista tecnologico, incrementando adeguatamente il sostegno
a determinate attività si possono raggiungere questi obiettivi. Accogliamo un certo aspetto
ideologico che è quello del messianismo della tecnologia, che risolve ogni cosa; l’accettazione pura
e semplice di questa progettualità è problematica, in questa scelta sono addirittura assenti i
risvolti sociali rivolti al fatto che una parte della popolazione gode di un livello di consumo delle
risorse molto alto e ha stili di vita molto poco rispettosi dell’ambiente, mentre una parte molto
ampia vive con un consumo irrisorio di risorse.
Benché il discorso di lotta agli sprechi sia presente nello spettro delle indicazioni del Green Deal
europeo non è la tonalità dominante, che è data dal fatto di dover in qualche modo sempre
incrementare l’approccio consumeristico, il miglioramento delle produzioni ecc. Non è una scelta
di filosofia più sobria come alcune parti dell’opinione pubblica, come quella cattolica attraverso le
opinioni espresse da papa Francesco, vorrebbero.
La Commissione Von der Leyen aveva bisogno di dare un segno diverso, anche di speranza per
tutto il continente europeo, e l’ha fatto attraverso una comunicazione al Parlamento, la
comunicazione 640 dell'11 dicembre 2019. La comunicazione è un documento formale attraverso
il quale sono enunciate da parte della Commissione delle linee di azione, delle linee di
comportamento che la Commissione ritiene di poter sviluppare come quadro generale di azione a
tutta l'Unione. La svolta del Green Deal nasce su questa base, sulla volontà di imprimere una
velocità nuova nel campo del diritto ambientale, ma anche nel campo complessivo delle politiche
dell’Unione, tutte intrise del principio di sviluppo sostenibile. Qui vediamo all’opera la natura
trasversale dell’ambiente: non c’è settore dell’economia che non sia toccato dalla necessità di uno
sguardo ambientale diverso.
Il Green Deal è una strategia: le strategie non sono dei disegni generali, sono dei complessi di
misure diverse, normative e non normative, spesso a carattere finanziario, sono dei dispositivi di
vario tipo che vengono messi in campo per perseguire un determinato obiettivo. Evidenza con la
quale la svolta viene portata all’attenzione dell’opinione pubblica. Ma in realtà non è la Von der
Leyen il motore propulsore, entra in gioco una dinamica tutta interna alla Commissione: nei
Trattati si fa riferimento al fatto che il Presidente della Commissione debba essere scelto tenendo
conto dei risultati delle elezioni europee, ma non è stato rispettato per l’elezione della Von der
Leyen, quando in presenza di una situazione di conflitto tra il Partito popolare e i progressisti la
Merkel è riuscita ad imporre la sua candidata. Nel bilanciamento delle forze, il candidato dei
socialisti europei, un uomo di peso della politica europea, un ex ministro degli Esteri olandese
Frans Timmermans è stato indicato come primo vicepresidente della Commissione e come
commissario europeo per il clima e il Green Deal europeo. Questo vuol dire che una parte molto
importante della Commissione è coordinata da questo vicepresidente che deve tirare le fila di
tutta una serie di politiche di interventi e che fanno capo a diverse direzioni generali e a diversi
commissari europei. La presenza dei commissari europei di nomina italiana non è molto spesso
una presenza incisiva, lo è stata al tempo della Commissaria Bonino per il grande carisma, ma
spesso l’Italia fornisce all’UE personalità che non hanno uno sviluppo di carriera europeo.
L’idea di fondo del Green Deal è di costruire un’Unione europea a emissioni zero, ovvero con un
livello pari a zero non delle emissioni in sé, ma del bilancio delle emissioni che vengono fatte. Ci
devono essere meccanismi compensativi che evitino un surplus di emissioni.
Questa transizione economica deve avere una sua adeguata sostenibilità sociale, cioè che costi di
questa trasformazione non vengano pagati in maniera sproporzionata da alcune fasce della
popolazione ed alcuni territori dell'Unione; quindi un percorso di trasformazione molto complessa
che ci porti grada gradualmente all'orizzonte indicato del 2050 alla neutralità climatica (fare in
modo che la componete umana non incida sull’andamento climatico in maniera rilevante). Ma
vediamo al tempo stesso che le trasformazioni indotte da questo progetto vogliono essere
trainante a livello internazionale, innestate sul meccanismo dell’economia circolare e in grado di
accrescere la nostra efficienza energetica, cioè l’adeguato rapporto tra la risorsa sfruttata il
risultato di questo sfruttamento con una dipendenza diminuita dalle risorse esterne. Noi siamo
un’unione di paesi che produce in minima parte risorse petrolifere e gassose, e questo fa sì che
siamo più esposti ad una dipendenza politica dall’esterno.
Lo slogan “Green European Deal” utilizza un termine su cui bisogna soffermarsi: in lingua inglese il
termine deal si può utilizzare in molte situazioni e ha una consonanza economica, mette l’accento
sui risvolti economici più che su risvolti etici o spirituali, politici, generali.
Obiettivi principali:
1) Iniziare percorso verso trasformazione economica e sociale per raggiungere la completa
neutralità climatica à un percorso di questo tipo è già stato fatto, in maniera anche piuttosto
significativa: l’UE è tra le aree più coscienziose nello sforzo che viene fatto. Visto dall’esterno,
dai nostri competitors, la bravura dell’Unione non è altro che il riflesso della nostra debolezza
nel disporre di risorse prime e voler quindi imporre anche agli altri continenti delle scelte che
loro non sentono di dover fare avendo una grossa disponibilità di materie prime ancora da
utilizzare nel circuito economico, prima di pensare a recuperi, ricicli ecc.
Neutralità climatica non vuol dire che non si emettono emissioni di carbonio, vuol dire che
le si bilancia con la cattura del carbonio attraverso meccanismi naturali (operato attraverso
le foreste ad esempio). Non si può pretendere di regolare il clima, ma se è vero che l’uomo
ormai è compartecipe del riscaldamento globale, quello che può fare è ridurre la propria
impronta sul pianeta e fare in modo che la natura segua un andamento più naturale.
2) Diventare motore trainante a livello globale verso un’economia verde à questa è l’idea forza
della strategia europea. Un’economia verde non è un’economia tradizionale su cui è stata
operata una “mano di pittura verde”, ma l’idea è di un’economia verde che non sia meno
performante e impattante dal punto di vista del benessere complessivo rispetto all’economia
tradizionale. La scelta di ridurre il quantitativo di merci prodotte e di operare scelte di maggior
sobrietà non sfiora l’Unione, è propria come parte del bagaglio culturale di alcuni paesi,
soprattutto del Nord Europa, ma non è assolutamente condivisa. L’idea è di un’economia che
sappia fare a meno di massicce emissioni di carbonio o che le riassorba creando nuove attività
che operino per bilanciarle e annullare l’impatto della trasformazione di materie prime da
parte dell’uomo. È un po’ il prolungamento della cosiddetta “Strategia di Lisbona” (che non ha
a che fare con il Trattato di Lisbona), definita come un insieme coordinato di programmi per
l’innalzamento del livello culturale e di conoscenza nella nostra Unione europea: oggi si indica
come obiettivo una società verde, verde perché i meccanismi dell’economica, della
produzione, dei servizi ecc. operano in maniera molto più soft nei confronti della natura.
L’ambizione è vedere l’Unione europea non esportatrici di materie prime, ma di nuove
tecnologie, nuovi modi di riscaldare le case, di produrre, nuovi modi di utilizzare la mobilità…
3) Attuare efficace e sostenibile strategia di economia circolare: i rifiuti non sono più visti come
tali, ma filosoficamente come risorse. È un’economia che lascia poca esternalità negativa e
chiude il cerchio della produzione andando a trovare nuova materia prima in questi processi.
4) Aumentare efficienza energetica e ridurre la dipendenza da fonti energetiche esterne: è il
fronte delicatissimo sul piano strategico dell’intera Europa, quello di non dover dipendere
dall’esterno. Fare in modo che l’energia necessaria sia un’energia più pulita ma anche utilizzata
meglio, con minor spreco. Oggi ci sono situazioni molto disarmoniche ed enormi fronti di
possibile risparmio. Notare come nell’enunciare questo proposito si parla esplicitamente della
dipendenza da fonti energetiche esterne come un vulnus dell’economia europea. L’UE è stato
uno dei massimi consumatori di energia e di produttori di beni, un insaziabile estrattore di
fonti energetiche. Oggi c’è l’idea di rendersi autonoma, brillante dal punto di vista della
modernità tecnologica, della capacità di innovazione e in grado di diventare un esempio su
scala mondiale.
Politiche trasformative
In fondo tutte le politiche dovrebbero essere trasformative, salvo si tratti di politiche puramente
conservative. La valenza trasformativa vuol dire che mette in campo un processo di cambiamento,
di passaggio ad una condizione diversa.
# Gli obiettivi più ambiziosi riguardano il clima, che sappiamo essere demandato come questione
da trattare, per il quale l’UE ha una delega di rappresentanza su scala internazionale e per il quale
deve promuovere necessarie intese con il resto della comunità internazionale. Gli obiettivi sono
scaglionati su due distanze: il 2030 e il 2050. L’Unione europea è uno strumento che pensa lungo,
mentre gli Stati nazionali hanno una retorica alta e una capacità di pianificazione molto limitata (ci
sono le elezioni ogni tot di anni). In materia climatica purtroppo la tendenza è quella sempre a
rinviare: il dato nuovo che emerge oggi è però che non abbiamo più tempo e secondo gli studiosi il
nostro orizzonte è molto breve, dell’ordine del 2030-’40 per dare i segnali necessari che invertano
la rotta e per dare un contenimento della fase crescente del clima.
# C’è poi l’obiettivo della politica dell’approvvigionamento dell’energia pulita, economica e sicura.
Abbiamo una triplice declinazione perché tre sono i problemi che abbiamo di fronte:
- problema ambientale, perché un’energia pulita vuol dire un’energia che non abbia delle
esternalità negative
- c’è il problema dell’economicità, perché se la sostenibilità economica non è garantita, un
pezzo della società potrebbe non riuscire a colmare il gap e a fare un’adeguata transizione. Nel
caso dei gilet gialli francesi c’è stata la richiesta di pagare meno il gasolio.
- energia sicura, per esempio con l’abbandono del nucleare. L’unico paese che ha avuto
un’uscita virtuosa dall’approvvigionamento nucleare civile è la Germania, che ha iniziato a
mettere mano al portafoglio e alle operazioni di abbandono dell’energia atomica alla fine degli
anni ’90 e ha praticamente concluso i propri programmi. In Italia ci sono stati due referendum
che hanno detto ‘no’ all’energia atomica.
Fin dagli anni ’80 l’Unione europea ha associato la questione energetica alla questione ambientale,
perché siamo in un terreno dalle problematiche comuni.
# In questa proposta di Green Deal, che è un insieme di atti che si presuppone potranno essere
adottati sotto forma di regolamenti, direttive, fondi ad hoc istituiti dall’Unione, raccomandazioni
ecc. l’industria dovrà raggiungere connotati di pulizia, e di circolarità.
# Un campo che andrà fortemente incentivato da parte dell'Unione europea riguarda la
costruzione e la ristrutturazione abitativa: siamo di fronte alla replica del problema che ha
conosciuto l’Europa nel secondo dopoguerra, con un boom demografico a cui ha fatto seguito la
necessità di insediamenti abitativi adeguati. Allora il problema era acqua in casa, una condizione
igienica accettabile e tutto sommato le esigenze erano ancora modeste, mentre adesso la richiesta
che fa l’emergenza climatica e la riconciliazione con il nostro ambiente non portano solo alla
questione di costruire del nuovo con caratteri molto più rispettosi dell’equilibrio ambientale, ma si
tratta di riconvertire tutto il patrimonio edilizio, perché sulla gran parte del patrimonio edilizio
occorre investire per una maggiore sostenibilità. Poi ci sono problematiche di quartiere, di
surriscaldamento dei centri abitativi… C’è poi il rischio che non ci siano coerenze adeguate, che si
agisca a macchia di leopardo.
# Accelerare transizione verso mobilità sostenibile e intelligente - l’unico vero alleato
dell’ambiente sugli impatti della mobilità umana è stata la pandemia: si è registrata una riduzione
dell’impronta ecologica grazie al ridotto ricorso alla mobilità automobilistica, agli aerei ecc.
La strategia della mobilità intelligente non è nuova, è già in corso da circa 10 anni da parte dell’UE,
che sta spingendo università e centri di ricerca ad occuparsi di ricerca applicata proprio con questi
obiettivi. L’Unione ha messo a disposizione fondi enormi per fare in modo che le aziende europee,
le università e in centri di ricerca si muovano sinergicamente nel trovare soluzioni migliori, mentre
non è stato speso per incentivare una sensibilità al minor spreco nella mobilità.
# Un ulteriore passaggio riguarda l’alimentazione: nell’indicare un sistema alimentare giusto, sano
e rispettoso dell’ambiente l’UE, che sta attivando in questi mesi il progetto “farm to fork” (dalla
fattoria alla forchetta), si sta orientando verso l’accettazione dei principi che ha enunciato un
grande pensatore contemporaneo, Carlo Perrini. Quest’ultimo, fondatore di slow food, un
movimento che ha sviluppato una consapevolezza sull’importanza di un ciclo alimentare virtuoso
ed ispiratore dello stesso pontefice per alcuni passaggi della sua enciclica “Laudato si”, scrisse un
libro (‘Buono, pulito e giusto’) in cui il cibo viene affrontato secondo queste tre prospettive:
- della salubrità del cibo (cibo naturale)
- cibo pulito, cioè non coinvolto in processi di trasformazione che ne compromettano la qualità
- cibo giusto, perché secondo la filosofia del movimento slow food deve essere un cibo che non
danneggia la società. Non devo limitarmi ad apprezzare quello che ho nel piatto per i suoi
valori gustativi e nutritivi, ma devo essere consumatore responsabile di cibo, sapendo che
dietro sta una filiera che parte da molto lontano. Quindi c’è una funzione anche sociale; il
sostegno dato al produttore di prossimità, che allo stesso tempo coltiva la biodiversità e le
colture tradizionali, ha una valenza sociale. L’UE ha quindi nel suo mirino anche il ciclo
alimentare come momento fondamentale della nostra vita.
# L’obiettivo della politica conservativa è la preservazione ma anche il ripristino degli ecosistemi e
della biodiversità, che ha la valenza di un impegno proattivo per il recupero della naturalità, della
biodiversità, creando in questo anche posti di lavoro. Il ragionamento della Commissione è che
questa trasformazione non sacrifica posti di lavoro, ma li trasforma: avremo quindi bisogno di
nuove figure professionali.
# “Inquinamento zero”: eliminazione delle sostanze tossiche, che si sono moltiplicate
drammaticamente perché l’industria punta ad ottenere prodotti di sempre maggior resa e minori
oneri nei costi. I materiali tossici sono in buona parte diffusi con gli imballaggi; in futuro la politica
dell’UE riguarda il convincerci a fare a meno degli imballaggi tradizionali verso i quali ci stiamo
orientando. Di nuovo una forte contraddizione tra scelte che vengono fatte nell’emergenza
(sanitaria), con le scelte di aumentare i sistemi monodose, la commercializzazione del caffè
attraverso i bicchieri di plastica ecc. che hanno l’effetto di accrescere il quantitativo dei rifiuti
prodotti, mentre ci sono soluzioni opposte che potrebbero consentire lo stesso risultato con
maggiore sostenibilità.
L’avvio di questa nuova strategia che è il Green Deal è coinciso con un momento in cui l’attenzione
in crescendo per le tematiche climatiche è stata interrotta per la pandemia. Ci sono state da parte
di alcuni paesi membri dell’UE delle istanze di procrastinare l’attuazione di questo grande piano
per l’ambiente, se non addirittura di revocarlo. In questo si è distinta la Polonia, i cechi, i rumeni…
dove erano già molto forti le preoccupazioni per l’impatto sulle rispettive economie di questo
cambio di orizzonte. Finora altri paesi hanno ritenuto che, pur essendo necessario concentrarsi
molto in questa fase di pandemia sulla salute dei cittadini, il segnale sarebbe negativo e
contraddittorio con una risposta che le nuove generazioni stanno aspettando; le tematiche del
clima verrebbero relegate a fenomeno folkloristico.
Principi in tema di ambiente
Il punto di partenza del diritto in generale si individua nei termini “neminem laedere”, ovvero non
portare danno a nessuno, il dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica. Ognuno di noi ha un
portafoglio di diritti, ha una situazione protetta per quanto riguarda la sua persona, la sfera dei
suoi interessi… e la nostra intrusione in questa sfera effettuata in modo arbitrario, non giustificato
da particolari motivi e è un limite: questo è anche il fondamento della responsabilità
extracontrattuale, ovvero tutto quello che facciamo che non sia regolato da un rapporto formale
con gli altri. La radice del neminem laedere è una radice della convivenza sociale generale. Per
quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale, all'art. 2043 del Codice civile si trova
“qualunque fatto doloso o colposo recchia terzi danno ingiusto obbliga chi lo ha commesso a
risarcire il danno”.
Alla metà del ‘600, con il trattato di Vestfalia viene reso evidente in Europa che ci sono degli stati
sovrani e che questi stati sovrani si devono trattare tra di loro alla pari. Il discorso della parità era
già presente nei rapporti tra i principi nel medioevo, alcuni dei quali si sono progressivamente
affrancati dalle superiori autorità gerarchiche del Papa e dell'impero, ma con il sistema vestfaliano
noi abbiamo il principio di sovranità piena, riconosciuta delle relazioni internazionali.
Un'implicazione di questo sistema vestfaliano è che la sovranità politica, al diritto alla non
ingerenza di altri soggetti sulla volontà e sull’esercizio delle libertà dello Stato, si estende
all’utilizzo delle risorse naturali, con una logica assolutamente proprietaria. Gli Stati lasciano
certamente sfruttare pezzi del loro suolo, ma la forza emergente degli stati ha fatto sì che essi
potessero legittimamente dichiararsi proprietari delle risorse naturali. Nella tradizione giuridica
dei nostri paesi questo si chiama demanio, termine che ha un’origine molto precisa, viene da
dominus e la matrice etimologica è nel domain (alla francese) che avevano i signori feudali intorno
al castello; mentre il bosco era terreno comune, intorno al castello c’era un’area che era riservata
al signore. Il demanio fa si che per poter estrarre delle risorse naturali devo avere il permesso
dello Stato.
Gli stati si sono comportati nei reciproci rapporti a volte come avversari, ma complessivamente
come dei sodali, dei soggetti che trovavano argomenti per fare causa comune. Il discorso degli
stati è di trovare regole comuni per non pestarsi troppo i piedi a vicenda. La Corte di giustizia
dell’Aja, riservata agli stati, è un luogo in cui vengono definite le questioni sulle quali non hanno
risolto bonariamente i propri conflitti. In campo ambientale gli stati si fanno concorrenza e si
ostacolano: il tema portante di questo conflitto è stato in passato la questione idrica. Questa
questione dell'acqua c'è stata perché i fiumi scorrono e alcuni di questi attraverso lo più stati; c’è
sempre qualcuno che accusa qualcun altro che si trova a monte perché ha fatto un utilizzo
improprio delle acque, perché le ha sottratte a chi si trova a valle o perché le ha inquinate.
C’è poi la tematica dell’occupazione di ingenti risorse minerarie in aree non oggetto di sovranità
piena da parte degli stati (es. Antartide), poi c’è la regolamentazione dello spazio al di sopra
dell’atmosfera terrestre, dove ormai stanno vagando quantità non indifferente di rifiuti. Insomma,
gli Stati non stanno solo a casa loro, inquinano, trasferiscono dei danneggiamenti in territori vicini.
Proprio per il principio del neminem laedere abbiamo un risvolto concreto, dettagliato che è una
norma consuetudinaria del diritto internazionale, applicata per esempio dalla Corte dell’Aja, che è
il divieto di inquinamento transfrontaliero, a cui si è affiancata un’indicazione a favore
dell’obbligo di prevenzione dell’inquinamento transfrontaliero. Entra in gioco la responsabilità
dello Stato, accanto ad un’eventuale responsabilità del soggetto privato, che non si può avvalere
della protezione del diritto nazionale perché lo stato è esso stesso in qualche modo responsabile
per non aver messo in atto le misure di prevenzione necessarie.
Siamo entrati in una logica di “casa-mondo” e di equilibrio generale delle risorse, per cui il
depauperamento che c’è in casa tua è il depauperamento che c’è in casa mia.
Il principio di non ledere si può leggere in attivo per vedere se c'è effettivamente un avvio di
principio complementare accanto alla non ingerenza: il principio di cooperazione come principio
di buon vicinato. Sta prendendo corpo un principio che vuole vedere nell’intervento attivo a
sostegno della buona condotta nella gestione delle risorse ambientali un principio in qualche
modo anch’esso cogente. I segnali non sono ancora molto netti, mentre sulla regola
consuetudinaria del divieto d’inquinamento non c’è dubbio sulla necessità di prevenzione
dell’inquinamento transfrontaliero
Il principio sovrano di diritto di sfruttare le proprie risorse naturali è ancora formalmente
incastonato nel diritto internazionale dell’ambiente negli atti fondativi, tanto nella Dichiarazione di
Stoccolma (principio 21 sulla sovranità delle risorse) quanto nella stessa Dichiarazione di Rio, che
sembrava già mettere in discussione questi aspetti, ma non bisogna dimenticare che a Rio sono gli
stati sovrani che hanno la penna in mano per scrivere e quella dichiarazione. Al principio 2 della
Dichiarazione di Rio c'è scritto che “gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare e le proprie risorse
secondo le loro politiche ambientali di sviluppo, e hanno il dovere di assicurare che le attività
sottoposte alla loro giurisdizione non causino danni all'ambiente di altri stati o di zone situate oltre
i confini della giurisdizione nazionale”. A difendere in maniera particolarmente incisiva la sovranità
sulle proprie risorse sono stati i paesi del Sud del mondo, in particolare i paesi usciti
dall'esperienza coloniale: non bisogna cadere nell’errore di considerare che i paesi del sud del
mondo, che hanno meno responsabilità per la cattiva gestione delle risorse (perché non
disponevano di un’elevata tecnologia), siano i più accesi fautori di una conservazione
dell’ambiente. Per molti regimi la dinamica è stata diversa: “affermo la sovranità sulle risorse
nazionali perché voglio poterle fare pagare interamente a chi viene a richiederle”, questo è il
concetto insito nel nella frase al principio 2 “secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo”.
Il principio dello sviluppo sostenibile è un principio cardine del diritto ambientale moderno, che
dobbiamo cogliere in una dimensione non di un’economia nazionale, circoscritta, ma in una logica
planetaria di relazione tra i paesi del Nord e del Sud del mondo. Quindi paesi che hanno già goduto
dell’utilizzo di un’ampia fetta delle risorse disponibili nel pianeta, attingendo da altri popoli
facendo leva sulla propria supremazia in termini militari e in termini di miglior sviluppo
tecnologico. Queste due posizioni hanno trovato il punto di incontro proprio nell’obiettivo dello
sviluppo sostenibile, che tenta di coniugare la necessità di proteggere l’ambiente con la necessità
di non fermare lo sviluppo, non è sinonimo di crescita: la crescita dà un senso di linearità
nell’aumento di volume, di impatto di una società, mentre lo sviluppo comporta necessariamente
anche altre dinamiche, tra cui lo sviluppo della qualità della vita, culturale… Va quindi ratificata
l’apparente inconciliabilità dell’ossimoro sviluppo-sostenibilità, per indicare come in realtà sia una
linea di convergenza, il bilanciamento di due necessità. Questo bilanciamento di rapporto Nord-
Sud del mondo si deve associare con un bilanciamento diacronico proiettato a tutela delle
generazioni future. Negli anni Settanta non c’erano tracce di una preoccupazione per chi verrà nel
diritto, si dava per acquisito che ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe fatto cose nuove, non c’era
la percezione che il progresso avrebbe implicato un danno; ma se c’è stato un momento in cui c’è
stato l’inizio di questa preoccupazione, è quello che vede lo sviluppo dell’arma nucleare. Chi è
nato negli anni 20-30-40 nella sua gioventù può aver avuto a che fare con la tensione
internazionale e sicuramente ha avuto un’idea drammatica della fine umana; questo in termini di
diritto, negli anni Settanta si è tradotto nell’esigenza di inserire la relazione intergenerazionale nel
dibattito attuale. Il diritto non ha ancora totalmente preso le misure del tema delle generazioni
future, perché non ci sono effettivamente così tante norme o bilanci votati dai parlamenti che si
fanno veramente carico della sostenibilità per le generazioni future.
La modalità con cui gestiamo le risorse non è indifferente, perché una cosa è farne un utilizzo
accorto e tecnologicamente avanzato, un’altra è usare tecnologie superate, che comportano
pesanti esternalità. Sia a livello comunitario che internazionale abbiamo la necessità di usare bene
queste risorse, c’è chi l’ha definito come principio di razionale gestione. In realtà più che di un
principio a sé stante, si tratta di una declinazione del più generale principio di sviluppo sostenibile,
quindi è più un criterio che un principio di intera condotta degli stati.
La Dichiarazione di Rio, al principio 3 riporta: “Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo
da soddisfare equamente le esigenze relative all'ambiente e allo sviluppo delle generazioni
presenti e future”, quindi mette sul tavolo un’equa soddisfazione delle esigenze. È un’operazione
tipicamente giuridica di raffronto, comparazione e ponderazione di due diversi interessi. Dal punto
di vista del diritto si chiama bilanciamento questa operazione (bilanciamento di valori o di diritti).
Il quarto principio di Rio sottolinea come, “al fine di pervenire uno sviluppo sostenibile, la tutela
dell'ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata
separatamente da questo”. Questo passaggio prelude anche alla trasversalità dei principi di tutela
ambientale rispetto a tutte le politiche, ma qui è applicato ai processi di sviluppo. Il processo di
sviluppo, attraverso il quale si pensa debbano passare i paesi meno progrediti nel loro percorso
verso un’eguaglianza sostanziale con i paesi del Nord, passa attraverso un’integrazione nel loro
sviluppo, così come nella nostra gestione, delle preoccupazioni di carattere ambientale.
# Nella pratica applicativa di questo principio dello sviluppo sostenibile, c’è innanzitutto un dovere
di non compromissione della qualità di vita e delle possibilità delle generazioni future.
# Il secondo profilo inserito in questa scelta comparativa e di discrezionalità delle scelte impone un
obbligo di prioritaria considerazione di tutela dell’ambiente: vuol dire che nel bilanciamento noi
dobbiamo prioritariamente farci carico di quello. Questo vuol dire mettere al sicuro l’ambiente
rispetto al rischio che l’economia prevalga, che gli interessi speculativi abbiano la meglio. È una
linea di tendenza quella della prioritaria considerazione, ma considerazione non vuol dire mettere
effettivamente sotto protezione; vuol dire che devono essere esaminati, che si deve tenere conto
dei profili ambientali fin dall’inizio, ma non necessariamente che alla fine essi prevarranno.
# Il principio di sviluppo sostenibile ci colloca lungo una linea che fa di noi gli utilizzatori/custodi di
un patrimonio ambientale complesso e questo in una logica di rapporto che deve vedere
adeguatamente rispettato il trasmettere una certa qualità di risorse alle generazioni successive. È
come se per la prima volta un problema di solidarietà che noi abbiamo sempre declinato in termini
di solidarietà tra persone esistenti, si riconvertisse in termini temporali diversi. Quello che dice il
principio di sviluppo sostenibile è che ci si deve far carico dei futuri esseri umani, ma chi li
rappresenta? C’è bisogno che qualcuno intervenga nelle dinamiche parlamentari, nella valutazione
di impatto di certe opere, nel contenzioso svolto di fronte a certe corti di giustizia sulle climatiche
ambientali… chi può essere presente in aula secondo la logica giuridica di rappresentanza?
# Ultima sfaccettatura di questo prisma è la salvaguardia del buon funzionamento e
dell’evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte
dalle attività umane.
Questi 4 punti si trovano in una legge in vigore in Italia, il Codice dell’ambiente, nell’art. 3 prescrive
queste cose, ci dà queste direttrici per esplicitare la nozione di sviluppo sostenibile.
Principi complementari
à principi organizzativi
Il principio di sussidiarietà e di leale collaborazione fanno capolino nella nostra costituzione nel
2001, con l’approvazione della cosiddetta riforma del titolo V. Sussidiarietà significa intervenire in
maniera sostitutiva di qualcuno o qualcosa che non riesce a far fronte a qualche situazione.
Questo principio è stato fortemente caldeggiato nella riforma costituzionale del 2001 perché si è
ritenuto che facesse funzionare meglio la macchina delle nostre istituzioni, dicendo “fino dove è in
grado di fare bene e di gestire bene una politica il Comune lo fa il Comune, sennò si va alla
Regione, allo Stato e così via”. Questo è il principio di autorità centralizzata e di accentramento del
potere che regolava degli stati unitari fortemente concretati, nei quali si governava attraverso i
prefetti, attraverso ordini che venivano dall’alto. È un momento di valorizzazione dell’autonomia.
C’è poi un’altra declinazione della sussidiarietà che è la sussidiarietà orizzontale, cioè tra gli enti
pubblici e la società civile; questo sta a dire che se una cosa può essere fatta bene dalla libera
società (per es. attività ricreative) lo Stato e gli enti pubblici in genere non devono intromettersi.
Questo è quello che fa sì che il volontariato, l’associanismo ecc. possano proliferare; è una forma
di autolimitazione dell’ente pubblico. In base al principio di sussidiarietà ha priorità rispetto alla
decisione presa in alto e quello che si sviluppa nella società civile ha precedenza sull’intervento
pubblico. Ma a cosa serve il principio di sussidiarietà in campo ambientale? Fa sì che lo Stato
intervenga per le questioni ambientali quando gli obbiettivi di un’azione, per esempio di contrasto
a determinate forme di inquinamento, non può essere realizzata bene dai livelli territoriali
inferiori; se un bosco non può essere adeguatamente protetto perché mettiamo a cavallo di entità
amministrative di vari comuni, varie regioni ecc. è il soggetto che sta sopra che deve intervenire.
La stessa cosa avviene a livello dell'Unione europea: se una problematica ambientale, per esempio
la protezione della pianta del mirto che si trova solo in Sardegna, può essere fatta dalla Regione
Sardegna o dall’Italia, non c'è bisogno che si muova l'Unione europea. Il principio di sussidiarietà
mista dire che l'Unione europea, anche nelle questioni ambientali, interviene solo quando è
necessario agire a quel livello più alto. È un principio tipicamente organizzativo, cioè di
distribuzione del potere politico ed è funzionale al buon sviluppo delle politiche ambientali. È un
principio molto presente nei rapporti tra l'Unione europea e gli Stati membri e che deriva
massicciamente dalla dottrina sociale della Chiesa, che ha investito molto sulla capacità della
società di organizzarsi dal basso. Il principio di sussidiarietà è stato inscritto all’articolo 118 della
Costituzione.
Principio di leale collaborazione: l’Italia è uno stato regionale, nel quale ci sono poteri esercitati a
livello delle regioni e poteri sviluppati a livello statale. Già nei sistemi federali si è posto il
problema dei rapporti che ci devono essere tra questi livelli di governo, ma la ripartizione dei
poteri deve essere risolta e viene risolta a livello teorico attraverso il principio giuridico della leale
collaborazione. “Leale collaborazione” vuol dire che nessuno deve mettersi in condizione di
impedire all’altro di esercitare i suoi poteri. Questo è un principio anch’esso molto presente
all’interno dell’UE, oltre ad essere prescritto nella Costituzione. Uno Stato Membro dell’UE, anche
se ha dei poteri molto estesi, non deve mai compromettere la realizzazione degli obiettivi
comunitari; anche se lo stato ha votato contro non deve far nulla se non adottare tutti gli atti
necessari perché vengano conseguiti gli obiettivi comunitari. Poi sia la giurisprudenza della Corte
di Giustizia europea che la nostra Corte costituzionale ribadiscono ulteriormente questo principio.
Jure condendo
È una prospettiva che è emersa negli ultimi vent’anni soprattutto nell’are dell’America Latina.
Siamo in paesi come l’Ecuador e la Bolivia, che hanno ripreso un approccio culturale proprio delle
popolazioni indigene precolombiane, la cui tradizione culturale non era legata alla “verità rivelata”
o alla religione, ma ad un approccio molto rispettoso dei diritti della Madre Terra. È presente
un’idea di personificazione della natura, idea presente anche in diverse costituzioni dei primi anni
2000 (Bolivia ed Ecuador). A livello più generale (paesi, ONG ecc.) si è ritenuto che dovessero
essere affermati dei diritti della natura come se questa fosse una persona: è stata quindi stilata
un’apposita Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra (Conferenza Mondiale dei
Popoli contro il Cambiamento Climatico, 2010), una carta internazionale sottoscritta da pochissimi
stati. Si va nella direzione di riconoscere che la natura ha dei diritti indipendenti dai diritti
dell’uomo: buona parte della difesa dei diritti umani alla natura è una visione che mette l’uomo al
centro della scena (diritti dell’uomo all’ambiente salubre, diritti dell’uomo all’acqua…). Gli animali,
il bosco, il fiume… non hanno diritti? La natura nel suo complesso non ha diritto di essere ‘lasciata
in pace’ nel suo sviluppo proprio? È una rivoluzione copernicana quello che sta succedendo per i
diritti ambientali: ci sono stati che cominciano a dire che se continuiamo a mettere l’uomo per
primo e a misurare ogni cosa sulla base dei nostri interessi, finiremo male. Forse dobbiamo
riconoscere dei diritti indipendenti alla natura in generale o ad alcuni pezzi della natura. Così come
gli esseri umani godono dei diritti umani, così tutti gli altri esseri hanno diritti specifici alla loro
specie o tipo e adatti al ruolo e alla funzione che esercitano all’interno delle comunità in cui
vivono. È una prospettiva non più antropocentrica, ma mette tutta la natura al centro e ristabilisce
un equilibrio diverso. La Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra non è diritto
vincolante, che fa sì che qualsiasi antagonismo tra un interesse umano e un interesse della natura
vada risolto in modo che non sia la natura a portare il peso di questa decisione. Il concetto di
Madre Terra è un concetto etico-religioso per le popolazioni precolombiane, andine, ma è anche
un’astrazione che può essere utilmente utilizzata da tutti noi. Questo va in complemento con i
diritti della specie umana: non si cancella il diritto dell’uomo ad equilibrio ambientale, ma ‘mette
le cose nell’ordine giusto’.
Il principio di responsabilità è un principio cardine dell’etica applicata all’ecologia e alla bioetica,
campi relativamente recenti. Tutto il Novecento è stato un momento di crescita etica e di
affermazione dei diritti, ma solo da pochi decenni siamo confrontati a delle questioni morali
particolarmente stringenti che riguardano “la cosa pubblica”, l’agire pubblico in generale. In
campo ambientale i principi etici sono particolarmente importanti; negli anni Settanta (1979) un
importante filosofo, Hans Jonas, ha scritto “Il principio di responsabilità”, indicando un principio
cardine di un’etica razionalista applicato ai temi dell’ecologia e della bioetica. Hans Jonas dice in
sostanza che ogni politica che viene applicata deve prendere in considerazione anche le
conseguenze future, non deve fare solo il bilanciamento dei costi e benefici di oggi, ma deve avere
un’idea prospettica. L’etica non è più un qualcosa di teorico, è intrinsecamente nelle nostre scelte
e nella concretezza pluralistica delle situazioni e della vita in cui viviamo.
Costituzioni e ambiente
Le costituzioni sono l’insieme delle regole fondamentali che reggono l’ordinamento giuridico di un
paese, definendo la ripartizione dei poteri tra gli organi che compongono questo sistema di
governo e stabilendo i diritti dei cittadini. Le costituzioni sono servite a limitare il potere assoluto,
a stabilirne la legittimità e ad assicurare che i diritti dei cittadini non vengano travolti dall’autorità.
Le costituzioni non sono necessariamente e totalmente scritte: ci sono paesi che non hanno mai
adottato costituzioni formali (es. UK)
Noi ci siamo progressivamente orientati verso una costituzionalizzazione dell’ambiente, quindi una
serie di regole che tutelano l’ambiente. L’idea di un inserimento nella costituzione si diffonde a
partire dagli anni ’70 e la base della costituzionalizzazione dell’ambiente la si trova nella
Dichiarazione di Stoccolma.
Noi abbiamo una gerarchia delle fonti, con la costituzione, gli statuti delle regioni e le leggi
costituzionali, la legge ordinaria (dello stato o della regione), i regolamenti… quindi se mettiamo
che l’ambiente va tutelato entro la costituzione sicuramente è sicuro.
Negli anni ’70-’80 abbiamo primi casi di richiami all’ambiente nelle costituzioni, con un’impennata
negli ani ’90 (Convenzione di Rio coinvolge anche ONG, molti stati, l’opinione pubblica). Dopo il
giro di boa del millennio abbiamo avuto un rallentamento di quest’operazione, anche perché molti
paesi si sono strutturati in modo da avere questo tipo di norme al loro interno. In termini di
trasformazione costituzionale 20-30 anni sono un periodo molto breve e il fatto che paesi di
diversa cultura e stadio si sono allineate è segno che gli ordinamenti emulano le decisioni gli uni
degli altri in maniera sempre più accelerata.
Caratteri generali
Molte norme costituzionali hanno il carattere di genericità e astrattezza, ma in questo caso la
genericità è un connotato un po’ ----------: in alcuni casi abbiamo un’idea di ambiente pulito e
salubre a cui aspiriamo tutti, ma molto raramente questo si trasforma in un diritto vero e proprio.
Ci sono delle situazioni giuridiche che, se sono soltanto proclamate in termini generali (come
ambizione collettiva, come buon proposito ecc.), non hanno la stessa efficacia di un obbligo
costituzionale, che è un dovere e c’è qualcuno che lo può far rispettare. Il governo e il parlamento
sono tra i primi a dover fare cose per la protezione per l’ambiente, ma chi glielo fa fare? L’idea del
costituzionalismo è proprio che si può dire agli organi governativi o amministrativi che i cittadini
hanno il diritto di pretendere che questa cosa va fatta. Il fatto che io sono titolare del diritto ad
avere un ambiente sano può diventare qualcosa che fa sì che un giudice ordini qualcosa a questo
potere, non è solo una pura petizione di principio; è necessario generare diritto opponibile. Al
centro del dovere di garantire questo diritto ad ambiente sano ed equilibrato c’è lo stato,
l’ordinamento sovrano: deve garantire un miglioramento della vita e un ambiente adatto allo
sviluppo della persona à prospettiva antropocentrica: l’idea stessa di protezione dell’ambiente è
tutta antropocentrica, anche se l’ambiente si protegge molto bene da solo.
Aspetti deboli
Abbiamo la possibilità, a seconda dei paesi e delle tradizioni giuridiche diverse, di avere formule
diverse e diverse risposte dell’ordinamento. La costituzionalizzazione ha dei riflessi solo
parzialmente efficaci, ha dei punti deboli. Non ci sono dei meccanismi giurisdizionali adeguati a
proteggere questo valore, perché in fondo, affinché tutto funzioni bene bisogna che il giudice:
a) ci sia
b) abbia poteri reali di pronunciarsi
c) che non sia troppo subalterno al potere politico (autorità di governo e potere legislativo). Ci
sono paesi in cui il giudice è molto condizionato dal potere politico, che può anche destituirlo –
cfr. Ungheria e Polonia. Se il meccanismo non è adeguato tutto resta sulla carta e nessuno dirà
all’autorità pubblica che non ha fatto abbastanza per l’ambiente e che deve cambiare linea.
Un’altra carenza sta nella legittimazione ad agire: l’ordinamento stabilisce dei requisiti, io posso
chiedere che venga condannata quella società petrolifera perché ha fatto un grande disastro
ambientale e dei risarcimenti. Ma non tutti gli ordinamenti consentono di andare in giudizio,
alcuni pretendono danni precisi in capo a determinate persone e non che, per esempio,
un’associazione possa ergersi a difensore del diritto dell’ambiente. Non sempre però è possibile
dimostrare di essere legittimamente in giudizio e non tutti riescono a dimostrare di avere un
interesse ad agire. Ad esempio, le associazioni ambientaliste (FAI, WWF ecc.) in alcuni ordinamenti
sono ammesse di arrivare davanti al giudice, in altri solo chi ha il danno effettivo può andare. Il
meccanismo di selezione potrebbe essere estremamente restrittivo della possibilità che qualcuno
vagli sulla tutela dell’ambiente. Il mancato riconoscimento di interesse ad agire pregiudica molto
la tutela dell’ambiente. Poi: io posso chiedere il giudizio penale, ma la comunità ha un danno
economico e quindi dovrebbe agire con un’azione civile e poi bisogna intervenire con un’azione
amministrativa. Allora a volte è anche complesso e carente il momento giudiziario; sempre più
paesi si sono a questo proposito dotati di tribunali ambientali, un ordinamento giurisdizionale che
giudica delle cause che riguardano la salubrità dell’ambiente, il mantenimento dei cicli
dell’ambiente…
La legge poi va interpretata. Se le interpretazioni sono aperte, progressive e motivate al
cambiamento sociale nella recezione di questo nuovo principio tutto procede bene; se invece
abbiamo giudici mentalmente restii, questi possono restringere in limiti molto angusti
l’applicazione di questi principi. È un impatto che va misurato quindi non solo sulla definizione
formale del principio, ma anche nella sua pratica interpretativa costante. C’è la tendenza a fare un
lavoro quantitativo sulle costituzioni, ma questo è un approccio materiale che può essere molto
fallace, può dimostrare che c’è stata una grande crescita del diritto dell’ambiente ma nascondere
anche grandi debolezze.
Ultima debolezza è quella della scarsa implementazione da parte dell’autorità amministrativa.
Dietro sta una situazione molto semplice: lo stato non ha i mezzi o non vuole mettere in campo
mezzi per applicare questi principi, anche se sa che dovrebbe farlo. Può lasciare per negligenza o
corruzione queste decisioni, oppure ancora perché non riesce ad organizzarsi o per inerzia. Se
l’autorità amministrativa non mette in campo le risorse, anche le più belle sentenze rimangono
lettera morta.
Griglie di lettura
L’indagine fatta dai giuristi per vedere il livello di avanzamento del diritto dell’ambiente è
un’indagine complessa. Abbiamo menzioni sparse, collocate qua e là nelle costituzioni; hanno
lingue diverse e una terminologia diversificata. Ci sono culture giuridiche diversificate che portano
a vedere la natura in una maniera diversa da come la vede il mondo occidentale. Esistono diverse
griglie di lettura nell’affrontare queste tematiche: si tratta di cercare una linea di ricostruzione che
ci dia sufficienti indicazioni.
# La prima linea è quella di uno studioso canadese, David Boyd, che è non soltanto l’autore di un
libro importante sulla rivoluzione dei diritti ambientali, ma in questo momento riveste anche il
ruolo di “special raporteur”, ovvero di delegato permanente delle Nazioni Unite sui problemi
dell’ambiente per chiarire, approfondire, promuovere i diritti ambientali su scala planetaria. Boyd,
nella sua presentazione dei diritti dell’ambiente, parte dal riconoscere che ci sono delle norme
sostanziali, cioè norme che individuano concretamente dei diritti in capo alle persone, dei doveri
in capo alle istituzioni e così via: è il cosiddetto diritto sostanziale. Poi ci sono i diritti procedurali:
chi deve fare che cosa, in che modo, in che tempi… Quindi in questa sua larga analisi di tutte le
costituzioni che trattano dell’ambiente, Boyd sostiene che ci sono varie forme di diritto, alcune di
taglio più sostanziale, altre di taglio più procedurale. Poi aggiunge che ci sono ordinamenti che
costituzionalizzano delle responsabilità individuali, ovvero dicono che ci sono dei soggetti,
individuali o meno, che sono titolari di un dovere protettivo, riparativo e così via nei confronti
dell’ambiente. La responsabilità individuale va completata con la posizione di dovere dello stato:
alcuni ordinamenti dicono che lo stato ha dei doveri e se dicono che ha dei doveri, implicitamente
diciamo che lo stato li deve rispettare e quindi è tenuto a delle condotte particolari. Costringere le
autorità pubbliche a determinati comportamenti è e qualcosa che risulta possibile anche
soprattutto grazie a norme costituzionali molto ferree, molto stringenti.
# Un’altra interpretazione è quella di Jung, Hirschl e Rosevear, che hanno dato una griglia ancora
più semplice: si orientano verso una tripartizione piuttosto semplice, dicendo che ci sono diritti
che hanno una natura economico-sociale, e tra questi fanno rientrare i diritti ambientali,
assimilati ai diritti all’istruzione, allo sviluppo, al benessere ecc. All’interno di questi diritti
riconosciuti, alcune norme si limitano a disposizioni ‘aspirative’ (aspirational), di auspicio che
qualcosa avvenga. Poi ci sono delle disposizioni che creano diritti, anche nei confronti dello stato:
sono cogenti, obbligatori e vincolanti.
# Più articolata la chiave di analisi di Jeffords, che indica delle diverse categorie di norme
costituzionali, la prima delle quali è quella dei doveri statali di protezione. Mette in forte evidenza
quelle norme costituzionali che impongono allo stato di garantire un livello ambientale adeguato;
secondo questa ricostruzione relativamente recente, 29 costituzioni dicono che lo stato ha dei
doveri molto precisi, che si deve dare da fare e che risponde davanti ai cittadini per le sue azioni
ed eventuali omissioni.
Ci sono poi delle costituzioni che entrano ancora più nel dettaglio di questi propositi che vengono
assegnati allo stato. Una delle funzioni delle costituzioni moderne, in particolare quelle della
seconda metà del Novecento, è quella di essere programmatiche, ovvero che danno degli impegni
allo stato a fare delle cose. Sono costituzioni sociali anche, che non si limitano a dire i diritti e
doveri dei cittadini e la garanzia che lo stato deve dare alla libertà, sì tratta di promuovere
determinati valori di istruzione, di salute, di benessere, di pari dignità e così via. La costituzione
italiana è una costituzione tipicamente programmatica nel suo insieme, perché ha fatto propri dei
messaggi, degli impegni ideologico-politici importanti nell’uscita dal regime fascista, per costruire
un ordinamento diverso. Questi compiti, che vengono assegnati allo stato solo in qualche caso
originano dei veri e propri diritti in capo ai cittadini, sono la formula più che viene utilizzata nelle
costituzioni. Sostanzialmente la metà delle costituzioni del mondo (90) contiene degli obiettivi e
principi direttivi rivolti allo Stato per regolare la sua azione.
Alcune costituzioni poi, ma sono ancora poche, hanno iscritto al loro interno un diritto
all'informazione ambientale: su questo richiamiamo quella Dichiarazione di Aarhus del 1997, che
ha stabilito criteri di informazione, partecipazione e giustizia in materia ambientale. È una
convenzione che è stata ed è una leva molto efficace, che ha obbligato tanti ordinamenti a
cambiare il proprio approccio ai diritti dell’ambiente, consentendo ai cittadini di sapere che cosa
succede realmente, di poter reagire. Il diritto all’informazione è stato fatto proprio solo da 17
costituzioni.
In maniera più massiccia è stato invece riconosciuto il diritto all’ambiente sano: è un diritto
sostanziale, non un diritto procedurale, che per il fatto di essere inscritto nella costituzione si può
far valere al più alto livello (anche se poi non tutte le costituzioni sono implementate attraverso
legislazione, giurisprudenza ecc.). il diritto ad un ambiente sano è una formula giuridica
fortemente espansiva, che viene reclamata e riconosciuta in maniera sempre più massiccia: ormai
un terzo dei paesi del mondo (73) l’ha già inserito nelle proprie costituzioni. Stiamo sempre
mettendo l’uomo a parametro di questa buona qualità.
Invece 42 costituzioni hanno fatto proprio il principio di “our common future”, del rispetto delle
generazioni future, riconoscendo formalmente nel testo costituzionale che l’ordinamento tutto
non deve lavorare solo per la fruizione ottimale delle risorse di oggi, ma anche per il beneficio di
chi verrà.
In numero abbastanza elevato di costituzioni (67), c’è un dovere generalizzato di rispetto
dell’ambiente, ma questo dovere messo in capo espressamente alla comunità umana ha un
significato particolare, perché vuol dire che anche i privati devono mettere in campo tutte le azioni
necessarie perché l’ambiente sia rispettato. È come dire “ci diamo come regola collettiva che
alziamo tutti insieme l’asticella della qualità ambientale”. Questo può tradursi in impegni maggiori
da parte delle industrie a ridurre le emissioni, ad esempio. Questo dovere generalizzato comporta
una visione meno incentrata sulla preminenza del potere pubblico, ma riconosce le insufficienze
dei poteri pubblici a raggiungere da soli determinati obiettivi.
Sono ancora poche le costituzioni nel mondo, solo 10, che riconoscono l’esistenza di un diritto
all’acqua, un diritto che viene ad essere ormai riconosciuto a livello internazionale (cfr.
Dichiarazione delle Nazioni Unite del 2010). Si sono celebrati 10 anni circa il diritto fondamentale
all’acqua e ai servizi igienici che ad essa sono collegati, e alcune costituzioni sono ormai esplicite
nel riconoscere all’uomo questo diritto. Se si va a vedere da vicino queste norme, ci si accorge che
in alcuni casi sono molto impattanti dal punto di vista emotivo à art. 27 della costituzione
sudafricana, considerato una delle gemme del diritto ambientale. Alcune norme sottolineano il
carattere pubblico della risorsa idrica, o comunque il dovere collettivo di proteggerla.
Ci sono sostanzialmente tre diversi modi di reagire di fronte alla necessità di ridurre l’impatto
umano nei confronti dell’ambiente; sono approcci che posso essere utilizzati dagli stati, dagli enti
pubblici locali, da vari soggetti detentori di autorità o da soggetti privati che vogliono contribuire.
Per iniziare, le tecniche più autoritative, che fanno leva sul fatto che lo stato è detentore di un
potere di supremazia nei confronti dei cittadini. Dal punto di vista dell’ambiente si parla molto
generalmente di tecniche command e control: vuol dire che dal punto di vista dello stato (ma
anche delle regioni, degli enti locali ecc.) appare chiaro un obiettivo, per esempio che non si deve
aumentare il volume edificatorio o che non si deve aggravare il carico di inquinamento dell’aria. Si
può procedere o su una via più lunga, che è una via pianificatoria – allora si dice che gli organi che
controllano l’urbanistica non possono più rilasciare concessioni edilizie – oppure si interviene in
maniera più puntuale, repressiva (azione di polizia amministrativa), che stabilisce in maniera
gerarchica il rapporto tra i cittadini e il pubblico. Quando si sforano i livelli massimi autorizzati per
l'inquinamento dell'aria si chiudono si chiudono le possibilità di trasporto pubblico o privato, con
mezzi di un certo genere che procedono a combustione fossile, oppure si ritarda l'apertura dei
riscaldamenti domestici, ecc. e se qualcuno deroga questi ordini dell’autorità può essere punito. La
legge, il regolamento, il programma in materia ambientale sono delle forme di command, mentre
le sanzioni rientrano nell’ambito del control.
L’altro approccio è il market based approach: sono dei dispositivi che vengono creati e che si
ispirano al mercato, inteso come luogo giuridico all’interno del quale si formano le preferenze
della comunità rispetto a determinate condotte, dove ci sono dei comportamenti che non sono
virtuosi. Con questo approccio si stimola alla protezione dell’ambiente limitando le esternalità
negative delle attività economiche. Ad esempio: mi danno un bonus per avere una caldaia più
efficiente a meno, così pur non avendo messo fuori legge la caldaia a gasolio ottengo il risultato di
una conversione. Ottengo un risultato analogo a quello che avrei ottenuto dal punto di vista della
supremazia amministrativa con un ordine dell’autorità, sostituendolo con un comportamento più
virtuoso ispirato al mercato, ai soldi.
Una terza via non passa attraverso l’azione dell’autorità pubblica né come soggetto ordinante né
come soggetto favorevole. È un meccanismo di self regulation, quindi di autonoma decisione che
si fonda sul fatto che determinati produttori o aziende di servizio si orientano verso la tutela
ambientale. La grande distribuzione è in realtà ancora oggi condizionata da tecniche di
distribuzione pesanti, basti pensare agli imballaggi, all’uso di certe plastiche ecc. la self regulation
è appena agli inizi, ma è una self regulation anch’essa dettata da ragioni di interesse commerciale,
Pianificazione
Command and control à pianificazione (planning): formulazione di un piano o programma,
complesso di interventi organici dello stato e di altri enti pubblici per stimolare e guidare lo
sviluppo. All’origine c’è un concetto tutto novecentesco dell’amministrazione, che non agisce in
maniera caotica, occasionale, ma prevede di andare verso determinati obiettivi in maniera
coordinata e programmata. A questa concezione ha fatto seguito un grosso incremento di impatto
dell’amministrazione pubblica (secondo i principi Weberiani), si vuole che certe cose succedano in
maniera controllata. La pianificazione è importante per l’ambiente, perché se anche in certi casi
l’ambiente può sfuggire alle previsioni, in termini generali noi sappiamo che ad esempio se la
nostra città crescerà il carico di surriscaldamento aumenterà, aumenterà il carico di inquinamento
delle acque, ci sarà un maggior utilizzo dell’energia elettrica ecc. La pianificazione mi serve per
accompagnare questo genere di situazioni in maniera razionale.
Quali sono i caratteri della pianificazione?
- pianificazione ambientale e governo del territorio à fare le cose entro un certo tempo
- scopi (e illusioni) della pianificazione ambientale à migliorare la qualità dell’acqua, della
vivibilità umana e così via, ma ci sono anche degli eccessi di fiducia nella pianificazione.
- trasversalità dell’ambiente e settorialità delle pianificazioni à non sempre il corpo sociale
accetta in maniera supina le indicazioni che vengono date per determinate attività: può essere
una pianificazione troppo onerosa, può darsi che non sia sempre ben adatta alle circostanze ad
esempio, quindi è importante andare a vedere caso per caso cosa può fare una sana e robusta
pianificazione e cosa è meglio affidare alle leve del mercato.
- priorità (non sempre riconosciuta) dei valori ambientali nelle azioni di pianificazione à In
passato si sono sovrapposti diversi piani. C’è il piano territoriale, per esempio, poi c'è il piano
urbanistico che in ogni comune adotta il comune, poi c'è il piano delle acque che regola le
modalità di utilizzo delle acque di superficie, oppure il prelievo delle acque di profondità, poi ci
sono i piani energetici… Abbiamo un sovrapporsi di regole con un problema legato al fatto che
quello che predispone un piano può essere non tanto ben coordinato con quello di un altro. Se
ad esempio la pianificazione urbanistica consente e magari anche suggerisce la climatizzazione
interna attraverso un impianto di climatizzazione, questo assorbe quantità molto alte di
energia.
Pianificazioni territoriali à Riguarda la questione della costruzione, per esempio dei fabbricati,
delle case ecc. Ne troviamo sostanzialmente traccia nella regolazione che dispongono i comuni in
maniera ormai relativamente partecipata, perché quando si tratta di adottare o modificare un
piano regolatore comunale se ne deve dare informazione al pubblico, il pubblico può presentare
delle osservazioni, dei suggerimenti all'amministrazione. Questo piano di fatto interviene con un
ordine limitativo delle mie potenzialità, svuota il mio diritto pieno a edificare (diritto che i latini
chiamavano jus aedificandi). I primi piani regolatori che dagli anni ’40 sono stati approvati anche in
Italia si muovevano sulla linea di quanto e di che cosa, perché si è andati subito a fare delle zone di
edificazione, zone industriali, zone servizi ecc. La cosiddetta zonizzazione è stata il concetto
cardine e che si è seguito per molto molto tempo. Però oggi questo tipo di prescrizione va
integrato, va coordinato con una serie di altri fattori che intervengono in maniera molto netta. È
fondamentale, oltre a dire quanto costruisco e dove, anche ragionare per evitare delle sciocchezze
che sono state fatte in passato (come tombamento di certi corsi d'acqua). Le prescrizioni di ogni
singolo piano dovrebbero trovare un loro coordinamento, una loro visione unitaria ed è questa la
direttrice di marcia verso la quale si stanno orientando molti ordinamenti. Si sta abbandonando la
visione di pianificazione settoriale per favorire delle forme di pianificazione integrata.
Piano paesaggistico à è indicato dal nostro Codice dei beni culturali e paesaggistici. La matrice di
questo problema ce l'abbiamo l'articolo 9 della costituzione, che dice che la Repubblica tutela il
paesaggio; per tutelarlo bisogna dare gambe a questa operazione, bisogna dare sostanza alle
forme di protezione del paesaggio e questo onere e posto congiuntamente a carico dello Stato e
delle regioni. Lo stato, rimane in ultima istanza responsabile dell'ambiente, condivide delle
competenze in materia pianificatoria rispetto al paesaggio e le condivide con le Regioni, degli enti
di autonomia che in linea generale dal 1970 (per le regioni a statuto speciale ancora prima)
intervengono su queste materie - governo del territorio, urbanistica ecc.
All'articolo 135 del codice dei beni culturali e paesaggistici, è scritto che “lo stato le regioni
assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e
gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono punto a tale
fine le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici,
ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici…” Ci sono
regionali che in ogni regione spiegano qual è lo strumento che si ritiene di dover utilizzare per
questa ragione e lo si disciplina per quanto riguarda le modalità procedurali.
Si recita anche che “i piani paesaggistici… ne riconoscono gli aspetti e caratteri peculiari, nonché le
caratteristiche paesaggistiche, e ne delimitano i relativi ambiti”. Abbiamo contesti territoriali
diversi e abbiamo segni antropici diversi: il paesaggio non è solo un dato naturale, è in genere un
dato della natura accompagnato dai segni della presenza dell'uomo. Quindi si prevedono (comma
3?) specifiche normative e ci sono degli obiettivi di qualità perché devono essere salvaguardati
questi caratteri speciali.
Piano di bacino distrettuale à È una pianificazione delle acque, ma pianificare le acque una cosa
particolarmente difficile, le acque hanno un loro corso naturale non sempre strettamente
prevedibile. In attuazione di un principio che è stato fortemente voluto ed espressamente
disposto dall’Unione europea, noi abbiamo adottato una tecnica che gli altri paesi conoscevano già
prima del nostro, in particolare la Spagna. In Spagna già negli anni ‘20 del Novecento la logica dei
distretti idrografici era stata promossa; poi questo discorso lo hanno recepito alcuni paesi del nord
e oggi è patrimonio comune e oggetto di una direttiva specifica, la Direttiva Quadro Acque (DQA)
numero 60 del 2000, che è stata una direttiva fondamentale. La direttiva è una specie di legge che
però non ha un effetto immediato, da ordine a tutti i paesi membri di raggiungere un certo
obiettivo entro un certo tempo, è fatta per avvicinare le legislazioni. Se l’Unione volesse fare una
legge si chiamerebbe regolamento, solo in quel caso avrebbe un effetto diretto, immediato, invece
con la direttiva il Consiglio dell'Unione europea e il Parlamento insieme stabiliscono una condotta
e dicono i paesi che entro una certa data devono fare delle norme che raggiungono questo
obiettivo. In questa Direttiva Quadro acque si è andati a fare un'operazione particolare, perché si è
disposto che la regolazione delle acque abbia luogo non su base dei territori amministrativi
abituali (es. regioni) ma su base di una pianificazione di bacino. Un bacino idrico è normalmente
circoscritto del discrimine in cui vengono raccolti, come una specie di grandissimo imbuto, tutti i
corsi d'acqua. Non avrebbe senso che la Lombardia abbia un piano delle acque diverso dalle
regioni che stanno a monte, bisogna ragionare per bacini. Il piano di bacino è uno strumento
amministrativo ma anche conoscitivo, perché deve condividere dei dati scientifici. È anche uno
strumento normativo perché mi dice quali sono i limiti, le modalità del prelievo idrico da parte dei
vari territori e uno strumento tecnico-operativo, perché può disporre che vengono effettuate
certe opere o protette certe aree rispetto alle esondazioni. Il discorso della terra è molto collegato
al discorso dell'acqua e quindi dobbiamo vederli come un tutt’uno.
A capo di questa pianificazione non abbiamo i comuni, le regioni o lo stato: abbiamo un’Autorità di
bacino, un'entità amministrativa a sé stante che può operare in maniera più decentrata e può
procedere sia in maniera più articolata sul territorio (per sottobacini), sia per stralci relativi a
settori funzionali. N.B.: stralcio vuol dire un settore del piano che può essere modificato in
maniera autonoma.
Che carattere particolare al piano di bacino? Al carattere di essere superiore agli altri piani: se ci
sono norme degli altri piani territoriali che confliggono con gli obiettivi del piano di bacino le
norme del piano di bacino prevalgono e diventano vincolanti sempre. Questo è dovuto al fatto che
le acque hanno una loro priorità sugli altri fenomeni, possono travolgere abitanti, può esserci un
problema di siccità… Quindi queste disposizioni hanno carattere immediatamente vincolante per
le amministrazioni, gli enti pubblici, i soggetti privati e così via; le autorità competenti provvedono
ad adeguare i rispettivi piani territoriali e programmi regionali.
Parchi à sono una terza forma di pianificazione, cioè di prospettazione e organizzazione
relazionale di sviluppo dell'ambiente in una determinata area. I parchi sono una forma di gestione
pianificata di attività e di situazioni ecologiche che da un secolo e mezzo all'incirca vengono
considerate necessarie per evitare che l'invasività dell’azione umana possa danneggiare del tutto
delle forme particolarmente interessanti di vita sul nostro pianeta. Nei primi anni della modernità,
si vietavano determinate attività di caccia di pesca o di taglio dei boschi (già i principi
rinascimentali cominciavano a mettere i loro limiti). Già nell’Ottocento si è verificata una spinta
dal mondo anglosassone, in particolare gli Stati Uniti, dove alcuni grandi spazi dovevano essere
salvaguardati e riservati alla natura selvaggia. In Europa in un’area protetta si interviene ad
arginare la catastrofe, ma nella logica della natura questa non è una catastrofe ma un ciclo che da
sempre ha fatto sì che aree particolari venissero colpite e questo permetteva una rigenerazione
sul lungo periodo; noi però viviamo in una dimensione temporale molto breve, non ci va di
aspettare 1000 anni perché si ricrei una certa situazione e preferiamo immischiarci. Gli americani
invece, anche avendo a disposizione degli spazi infinitamente superiori ai nostri, hanno ritenuto di
fare in modo diverso.
Da noi i parchi nazionali esistono dagli ‘20 del Novecento: nel 1922-23 fu approvato sui terreni che
erano le riserve di caccia della famiglia reale il prima parco nazionale italiano, che è il Parco
nazionale del Gran Paradiso. Poi gli altri parchi sono arrivati in tempi successivi, adesso sono molto
più numerosi perché abbiamo realtà regionali e abbiamo anche i parchi marini. Il parco nel nostro
contesto è un soggetto amministrativo, un’entità con un Consiglio di amministrazione, con un
piccolo patrimonio suo, del personale e che lo presidia ecc. Ma il parco è anche il soggetto che
promuove una tutela di valori non solo ambientali, ma anche antropologici: vuol dire di attività
tradizionali, ancestrali, storiche, culturali nel caso di muri di pietra o sentieri più o meno
accomodarti nel corso dei secoli ecc. tutto questo fa parte di una traccia storica che i parchi vanno
a salvaguardare. Il piano del parco è lo strumento di tutela di questi valori, è quindi uno strumento
che ha delle funzioni molto molto precise che possiamo definire:
a) organizzazione generale del territorio e sua articolazione in aree o parti caratterizzate da
forme differenziate di uso, godimento e tutela. Questo nel senso di andare a verificare come
interagiscono tra loro le varie aree, le aree boscate rispetto alle aree umide… Abbiamo diversi
spazi che convivono tra di loro in un eco sistema e per una corretta gestione di questi spazi il
piano li va ad articolare in aree.
b) vincoli, destinazioni di uso pubblico o privato e norme di attuazione. Il piano stabilisce dei
vincoli, cioè delle limitazioni che riguardano la destinazione di certe aree come aree a servizio,
cerca di concentrare le attività umane in determinati spazi e di far sì che possano svolgersi
senza ripercussioni. Andranno ad adottare determinate misure di mitigazione.
c) sistemi di accessibilità veicolare e pedonale (percorsi, accessi e strutture per disabili, portatori
di handicap, anziani…). Il piano del parco deve dirmi anche se posso andare in certe zone,
come ci posso andare, ma il tutto sempre con l’intelligenza di capire che la priorità è la tutela
dell’ambiente.
d) sistemi di attrezzature e servizi per la gestione e la funzione sociale del parco (musei, centri di
visite, uffici informativi, aree di campeggio, attività agro-turistiche). Per esempio, ci sono dei
parchi in cui è possibile campeggiare, ma il campeggio comunque bisogno di attività di servizio,
di epurazione ecc.
e) indirizzi e criteri per gli interventi su flora, fauna e ambiente naturale. Tra questi rientra anche
l'inserimento di rapaci che ristabiliscono l'equilibrio, oppure divieti di caccia.
Il piano suddivide il territorio in riserve integrali nelle quali l'ambiente naturale e conservato nella
sua integrità & riserve generali orientate. Abbiamo zone di tutela estrema nelle quali in qualche
caso non è nemmeno consentita la presenza dell'uomo e zone nelle quali la riserva favorisce
determinati tipi di fruizione, la conoscenza.
Il piano del parco è qualcosa di diverso rispetto alle pianificazioni paesaggistiche, è una dinamica
molto più articolata e che in Italia vede nell’ente parco (altrove può essere una gestione
ministeriale, per esempio, oppure può essere affidato agli enti locali esclusivamente) un sistema in
qualche modo misto: per esempio nei parchi nazionali c’è una componente espressione del
ministero dell’ambiente e una componente locale che insieme collaborano per questa gestione del
parco.
Il lavoro costante che devono fare le amministrazioni (dal Comune all’Unione europea, alle reti
scientifiche internazionali…) è di monitoraggio. Tutti monitorano, ognuno con i suoi strumenti e
implica la rilevazione periodica e sistematica di parametri chimici, fisici e biologici, mediante
appositi strumenti, allo scopo di controllare la situazione o l’andamento dei sistemi anche
complessi. Un esempio è l’ARPA, ente autonomo che procede ai controlli di qualità dell’aria,
dell’acqua ecc. L’ARPA poi non ha lo strumento per impedire certi processi, per fermare i flussi
delle auto… a questo provvederà poi l'amministrazione con l’amministrazione attiva, con i suoi
organi, con le sue valutazioni, con le norme che deve stabilire. Questi soggetti con appositi
strumenti tecnici consentono di acquisire dati e metterli in connessione tra di loro, farne anche
una restituzione perché se viene restituita una valutazione sintetica in poche righe dice “oggi la
qualità dell'aria è peggiorata perché…” allora il risultato è che devono intervenire delle misure
amministrative.
Il servizio idrico è un servizio più largo, che riguarda l’approvvigionamento anche per altre funzioni
e per questo il Codice dell’ambiente ha messo in chiaro quali sono i principi di fondo:
1. si deve guardare ad una gestione efficiente del servizio idrico stabilendo qual è il livello
adeguato in cui regolare questo fenomeno. Per esempio, un Comune non ha tutte le fonti
idriche all’interno di esso e non riesce a risolvere da solo tutti i problemi; quasi tutti i comuni
sono inseriti in una logica di bacino e hanno bisogno di cooperare con altri territori circostanti
per avere una gestione adeguata delle acque potabili, industriali, agricole ecc. Per questo il
Codice dell’ambiente ha voluto che le Regioni definissero degli Ambiti Territoriali Ottimali
(A.T.O). Vuol dire che in genere i comuni devono consorziarsi fra di loro: è un consorziamento
obbligatorio perché è la Regione a stabilire qual è il livello giusto in cui far convergere la
regolazione, la realizzazione degli acquedotti ecc. Il punto è partire dalla captazione,
organizzare il trasporto e la rete di distribuzione, la raccolta delle acque e la loro depurazione
per la restituzione a valle in condizioni quanto migliori possibili
2. separazione di funzioni tra programmazione, regolamentazione, organizzazione e controllo
(autorità locale) e gestione del servizio (operatore unico indipendente). La autorità locali sono
le autorità di gestione dell’A.T.O., una specie di direttivo di cui fanno parte i sindaci o dei
delegati delle amministrazioni locali: questa parte politica deve adottare le decisioni
fondamentali. Poi c’è la parte che agisce fisicamente (chi costruisce gli acquedotti, ripara i
vecchi…), un soggetto che può essere pubblico o privato. Ci possono esserci anche delle
società ‘miste’ di carattere pubblico-privato che lavorano insieme per gestire questo tipo di
organizzazioni.
3. proprietà pubblica delle infrastrutture: il privato può essere solo gestore delle infrastrutture,
non proprietario.
4. copertura completa dei costi (operativi e di investimento): io non pago perché compro
l’acqua, ma pago il servizio di fornitura e depurazione dell’acqua. È il principio del “chi inquina
paga. Dietro c’è un ragionamento legato alla bolletta dell’acqua: fino a trent’anni fa le bollette
dell’acqua o non c’erano in alcuni comuni oppure erano un calcolo molto generale. Le opere
che sono state realizzate sono state pagate dall’ente pubblico, con le tasse oppure l’ente
faceva dei mutui che avrebbe pagato attraverso le imposte, per cui l’idea era che del servizio
idrico si dovesse far carico la finanza pubblica. Il principio del “chi inquina paga” è un principio
che nasconde un grandissimo cambiamento prima vi provvedeva il Comune attraverso le tasse
e facendo gravare i costi anche sui più poveri, distribuendo la spesa secondo il principio
costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale: chi ha minori redditi contribuisce
proporzionalmente di meno e la tassazione deve essere più leggera. Adesso non è più in base
alla nostra ricchezza, ma al nostro consumo: il consumatore oggi è gravato del peso in maniera
che una famiglia anche se modesta di reddito, ma con consumi più alti, finisce per pagare più
di qualcuno che ha un reddito alto ma magari è solo.
5. Obbligo di solidarietà, efficienza e produttività: siamo in un sistema solidale ma meno solidale
di quanto sia stato in passato, tendenzialmente più produttivistico perché l’insistenza sul
risparmio idrico oltre ad essere di matrice ideale è anche di matrice economica.
Per il Codice dell’ambiente non c’è un utilizzo unico dell’acqua, ci sono delle gerarchie, in cima
delle quali c’è l’utilizzo a scopo potabile umano, poi si scende a scopi agricoli, industriali e così via.
Gli usi delle acque sono ispirati a logiche di risparmio e rinnovo. L’idea del rinnovo delle risorse ci
porta a considerare una grande trasformazione tecnologica che è in corso, perché una parte delle
risorse idriche non la rimandiamo direttamente nel circolo della natura, soprattutto in alcuni
luoghi dove la quantità di acqua disponibile è molto limitata. Ci sono città nella quali il cerchio si
chiude molto rapidamente e l’acqua torna rientra immediatamente. Questa è l’idea che si faccia
un buon uso della risorsa, non sprecando e utilizzando anche la polivalenza di questo bene idrico
(che non è solo per noi uomini!). bisogna avere una visione complessiva di tutti gli impatti
sull’acqua e la nuova legislazione in questo è molto moderna e attenta.
Le acque termali, minerali e per uso geotermico (per riscaldamento domestico) sono disciplinate
da leggi speciali.
Fin dagli inizi del Novecento erano praticamente solo i Comuni e le Province a gestire i servizi
idrici, il come aveva anche l’ufficio idrico e dei dipendenti comunali che si occupavano di gestire
tutto ciò. Questo negli anni ’70-’80 è cominciato ad essere percepito come un settore non ben
gestito à in questi anni c’è stata la svolta in direzione di un liberismo economico sempre più
spinto e una svolta politica più o meno concomitante con l’implosione dei sistemi comunisti ha
fatto pensare che gli enti pubblici non fossero più in grado di gestire questi settori, in particolare
proprio il servizio idrico. Questo si è unito al fatto che in molte realtà il servizio idrico non era
gestito direttamente dal Comune, ma era affidato ad una società pubblica in cui spesso si sono
annidati fenomeni di inefficienza, spreco, clientelismo, spartizione da parte dei partiti… Questa
incapacità di gestione ha fatto richiedere una maggior responsabilità, vedere bene i costi delle
spese e soprattutto andare a cercare di arginare un po’ il deficit pubblico, perché questi i debiti
costanti che venivano fatti o questa mancanza di rimuneratività del sistema portava a grandi
lamentele. La risposta è stata un’ondata ideologica di reazione dell’opinione pubblica: siccome
l’acqua è un bene di consumo, chi meglio dei privati può gestire questi servizi? La chiave di
gestione di questi servizi è stata individuata nel criterio per cui bisognava che tutto l'insieme delle
spese per questo servizio fosse si è coperto dal consumatore. Certo che i privati a cui affida il
servizio idrico non lavorano per niente, chiedono che capitale investito venga remunerato e
questo ha dato luogo ad un meccanismo abbastanza perverso che ha fatto sì che non solo il costo
dei servizi venisse coperto dalle tariffe, ma che questi soggetti privati fossero interessati a far
alzare sempre di più la posta, con delle logiche non sempre pulite. Come risultato del sistema di
concessione abbiamo avuto un’esplosione delle tariffe. Quindi il servizio idrico è passato
dall’essere un servizio di interesse generale all'erogazione di un “bene di consumo” gestito dai
privati: qual è stata la reazione? Nelle politiche neoliberiste, per cui lasciamo spazio al mercato,
che il mercato gestisca le risorse e i servizi (privatizzazione delle ferrovie, privatizzazione delle
fonti energetiche…) è rientrata anche l’idea che si dovesse privatizzare i servizi idrici, ma l’Italia
non aveva dei grandi soggetti economici abituati a gestire i servizi idrici. In Francia invece, dalla
metà dell'Ottocento in poi, si erano sviluppate grandi aziende private, grandi multinazionali
dell'acqua (anche inglesi e americani avevano a disposizione grandi strutture economiche private),
quando da noi c’erano solo nani economici comune per comune… Quando è partita la corsa all'
accaparramento di queste risorse da parte dei privati il mondo economico italiano è stato
piuttosto sopraffatto anche da questa ondata esterna. Siamo alla fine degli anni Settanta, iniziano
ad essere adottate delle leggi di liberalizzazione dei servizi:
- legge Bassanini del 1997 (Bassanini era ministro pubblica amministrazione)
- riforma dell'ordinamento degli Enti Locali, che ha dato ai Comuni gli strumenti anche
organizzativi, associativi per gestire insieme ai privati queste strutture
- legge 448/01, che ha veramente aperto le porte in questo ai privati
- creazione di “Aziende Speciali” che avrebbero dovuto diventare Spa: si è fatto in modo che le
vecchie municipalizzate (così si chiamavano le vecchie aziende che gestivano questi servizi
nelle grandi città) si trasformassero in società e quindi si aprissero al capitale dei privati. Qual
era l'utilità che in quel momento vedeva la classe politica? Era un’utilità molto precisa, perché
chiedere soldi con le tasse per ammodernare i servizi idrici è un po' impopolare, mentre era
più semplice passare la patata bollente alle società che gestivano il servizio e far sì che non ci si
accorgesse degli aumenti, perché gli aumenti correvano sulle ali delle bollette che ciascuno
riceveva, agganciando questo importo ai consumi.
- si è proceduto ad un obbligo di gare d’appalto per individuare i soggetti da far venire in queste
società; doveva essere una selezione pubblica, ma i soggetti veramente attrezzati per gestire
impianti anche molto grandi erano in realtà pochissimi e tutto questo si è risolto in una grande
spartizione a tavolino fatta dalle grandi società che operavano nel settore. Queste non sono
venute a farsi una concorrenza spietata comune per comune, si sono accomodate e si sono
spartite le offerte: a pagare questa concorrenza solo apparente sono stati gli utenti, perché
questo si è tradotto in un sistema di copertura totale dei costi, che ha fatto di nuovo lievitare
di molto i costi. Questo non è piaciuto all’opinione pubblica (associazionismo, parte sindacale,
molti movimenti che sono sorti spontaneamente a difesa dell’acqua pubblica). Il primo
decennio degli anni 2000 - soprattutto gli anni tra il 2006 e il 2011 – è stato dominato da
questa crescente volontà di difendere la pubblicità della risorsa idrica. L’acqua è sempre
rimasta nominalmente pubblica, ma quando si diceva allora “difendere l’acqua pubblica” si
intendeva non lasciare che l’acqua diventasse strumento di speculazione privata. Questa
miriade di associazioni, di comitati locali, di gruppi sindacali ecc. a sostegno dell’acqua pubblica
ha dato vita a una rete organizzata che ha proposto un’iniziativa legislativa per mantenere un
carattere di pubblicità al servizio idrico. Si è ispirata ad un’iniziativa legislativa portata avanti
da Stefano Rodotà (presidente del PDS e straordinario giurista): fu chiamato nel 2007 dal
governo Prodi a presiedere una Commissione per modificare il Codice Civile. Nel Codice Civile
abbiamo delle categorie di beni privati e delle categorie di beni pubblici, demaniali o di
patrimonio pubblico ecc; una ripartizione molto arcaica che Stefano Rodotà con altri brillanti
giuristi propose di sostituire con una tripartizione: beni privati, beni pubblici, beni comuni,
proponendo di mettere nel codice civile questa nuova categoria dei beni comuni. Siccome
questi beni comuni sono in relazione con i diritti fondamentali della persona (avere acqua a
sufficienza è un fatto prima di dignità umana e poi solo dopo di consumi, costi…) questi beni
vanno collocati fuori commercio e la concessione deve essere limitata e occasionale, e non il
principio per cui l’ente pubblico non deve dare la risorsa acqua in maniera sconsiderata.
- Abbiamo da un lato la crescita della sensibilità per cui l’acqua deve essere un bene pubblico e
gestito, per quanto possibile, rigorosamente sotto il controllo pubblico, mentre dall’altro lato
abbiamo il mondo economico, d’accordo con la gran parte della classe politica italiana. Questo
si è tradotto nel 2009 nel cosiddetto Decreto Ronchi, che voleva fare il passo definitivo: nel
decennio precedente si erano aperte le porte in modo che i privati potessero entrare nelle
società, che voleva dire che i privati potevano mettere i loro amministratori, tecnici, gestiva gli
appalti e la parte pubblica si limitava ad avere la presidenza del consiglio d’amministrazione.
Non paghi di questo, i sostenitori della privatizzazione dei servizi nel 2009 hanno voluto fare un
salto in avanti e obbligare tutti i comuni italiani a cedere tutte le loro quote ai privati,
facendosi pagare naturalmente, ma rinunciare ad essere presenti nella gestione di queste
società. Solo in casi particolari si poteva evitare di scivolare verso un regime di privatizzazione,
ma in quel caso bisognava tenere una pubblicità totale dell’impresa idrica. Era insomma una
spinta per far sì che gli enti pubblici scomparissero da questo settore. In quegli anni le poste
erano state in parte privatizzate, ma sulle poste italiane continua ad avere un controllo
maggioritario l’ente pubblico; il servizio ferroviario è stato privatizzato, per cui RFI (rete
ferroviaria italiana) continua ad essere proprietaria dei binari, ma i treni sono stati privatizzati
(Italo). Il Decreto Ronchi non privatizza la gestione di risorse idriche, ma promuove
l’affidamento, tramite gare, ad aziende private, con cessione obbligatoria delle azioni entro il
31 dicembre 2011.
- Di fronte alla spallata definitiva del Decreto Ronchi, i comitati per l’acqua hanno chiesto un
referendum abrogativo. Cosa voleva ottenere questo referendum? Si voleva impedire che i
comuni fossero obbligati a cedere le loro quote a favore dei privati, si voleva quindi impedire la
privatizzazione coatta dei servizi. Questo comunque non significava che fosse vietato ad un
comune dare in affidamento il proprio servizio. Il secondo quesito referendario era legato al
fatto che con il Decreto Ronchi le società che gestivano i servizi idrici avrebbero avuto una
remunerazione garantita del capitale, cioè potevano pretendere che per tot euro investiti,
l’anno dopo questo servizio garantisse un ritorno del 7%. L’idea era che siccome c’era da
finanziare un grande sforzo per ammodernare i servizi, facciamo in modo che le società che
gestiscono questi servizi abbiano un bel ritorno; paga il consumatore à principio del full
recovery cost, copertura totale del costo. Se io controllo come società privata un servizio idrico
e devo far fare delle riparazioni, se le posso fare io con le mie aziende, le mie maestranze…
evidentemente guadagno due volte. Questa richiesta di referendum abrogativo ha avuto un
successo straordinario: è stata la richiesta referendaria che ha avuto il maggior sostegno
pubblico di tutta la storia dei referendum in Italia, perché sono state raccolte 1.400.000 firme.
Il vero scoglio del referendum non è tanto ottenere il consenso sulla domanda, ma portare la
gente a votare, perché sulla base della costituzione attuale bisogna arrivare al 50% degli aventi
diritto al voto. Il 12-13 giugno 2011 è stato raggiunto il quorum con il 54% dei votanti; la classe
politica dell’epoca poi ha giocato sporco perché c’erano le elezioni amministrative, che
avrebbero portato quasi metà della popolazione italiana al voto quell’anno, ma hanno messo
le elezioni due settimane dopo un’elezione già convocata, con un costo supplementare di circa
300 mln di euro. Invece il quorum c'è stato, per motivi ambientali ma non prevalentemente
legati all'acqua; in quella tornata referendaria c'erano quattro quesiti, alcuni di carattere
istituzionale vicende che riguardavano l'immunità Berlusconi ecc. ma c'era un altro
referendum chi guardava la produzione dell'energia atomica. Nel 1991, esattamente trent'anni
prima, il popolo italiano, chiamato alle urne, disse no all'energia nucleare (anche se in Italia
stava per partire la prima centrale atomica, era già tutto pronto) e nei primi anni 2000 i
governi avevano iniziato a portarsi avanti nella ripresa del progetto nucleare. Nel 2009-10
tutto era pronto ed erano stati fatto degli atti normativi che autorizzavano la ripresa del
nucleare, ma nel marzo 2011, tre mesi prima del referendum, esplode la centrale atomica di
Fukushima in Giappone e il panico che si è diffuso nell’opinione pubblica è stato fortissimo.
Questo impatto ha fatto sì che gli italiani si mobilitassero e andassero a portare il loro
supporto dicendo sì all’acqua pubblica e basta con l’energia nucleare. Il risultato è stato
plebiscitario: il 95% dei voti ha detto sì al consentire ai comuni di mantenere la gestione
pubblica dei servizi idrici, con una serie di conseguenze che poi sono state difese dalla corte
costituzionale con ulteriori attacchi da parte della politica.
Oggi gli enti locali rimangono sostanzialmente liberi di scegliere come gestire tutto questo
(misto pubblico-privato), ma rimane necessario che questa conquista venga presidiata, perché
le tendenze privatistiche sono sempre in agguato. Per la prima volta, nella Borsa di Chicago
sono stati previsti dei contratti speculativi sul costo dell’acqua, il che vuol dire che il mondo
della finanza sta scommettendo sempre di più: è sempre più evidente che l’acqua sarà un
domani un bene commerciale e non un bene pubblico.
Sulla scia del referendum sull’acqua pubblica, il Comune di Napoli, che aveva dato ad una società
privata la gestione del suo servizio idrico, l’ha totalmente presa in mano e ha ricomprato la ARIN
S.P.A trasformandola in un’azienda speciale che ha chiamato ABC (Acqua Bene Comune) Napoli. È
stata un po' un’esperienza pilota, anche altri comuni l'hanno fatto ma non moltissimi e comunque
il Comune di Napoli ha dato una forte caratterizzazione ideologica questa scelta, che è stata
propagandata non solo come scelta tecnica ma come scelta politica ed ideologica. L'acqua è un
bene pubblico e la gestisce l'ente pubblico attraverso la struttura deputata a questa funzione: si
svincola totalmente dalle multinazionali dell'acqua che qui e là controllano buona parte dei servizi
idrici d'Italia. Ci sono opinioni divergenti sul risultato di questa operazione: il Comune di Napoli
dirà che è riuscito ad ottenere ottimi risultati in termini di rispetto delle fasce deboli, di non
speculazione sull’acqua… noi ci limitiamo a rilevare che negli organi gestionali e nel controllo di
questa società pubblica il Comune di Napoli ha chiamato non soltanto i responsabili dei partiti
politici del comune, ma ha fatto entrare rappresentanti delle organizzazioni di protezione
dell'ambiente. Cosa vuol dire questa scelta? Intanto vuol dire valorizzare gli operatori del settore
pubblico, che conoscono bene questa macchina e che possono contribuire ad indirizzare un
consiglio di amministrazione o un consiglio di sorveglianza, ben sapendo come funziona questo
ente. Uno dei grossi problemi della direzione di questa società di gestione dei servizi idrici è che se
io metto il bravo ex-sindaco e lo catapulto lì sopra quando magari lui non conosce questo, la
presenza delle cosiddette maestranze (personale che lavora in questo settore) irrobustiva la
gestione e la rendeva più attenta alla perpetuazione del lavoro anche, perché una delle possibilità
che c'erano nella privatizzazione è che questa continua a tagliare i costi riducendo il numero delle
persone impiegate e esternalizzando la gestione, ovvero dando la società esterne a loro volta.
Invece la presenza di lavoratori nei consigli di amministrazione e nei comitati di sorveglianza
garantiva che le risorse tecniche e le competenze dell'azienda fossero sempre tenute in
considerazione. Chiamare le associazioni ambientaliste volevo dire “l'acqua non è solo da gestire
come bene economico, è da gestire anche come risorse per l'ambiente”, quindi è una gestione
strategica. L'operazione Napoli è stata una vicenda piuttosto significativa e tra le prime volte si ha
messo nero su bianco che questa azienda doveva guardare anche ai diritti delle generazioni future
e non soltanto far quadrare i bilanci. Il depauperamento dei servizi idrici è anche dovuto al fatto
che il comune vuol far quadrare i conti e pretende dagli amministratori che ci sia sempre un
perfetto equilibrio tra le entrate e le uscite, e addirittura molto spesso vuole avere dei soldi.
Questa idea dell’azienda che considera l'acqua bene comune è finalizzata anche all’equilibrio
ambientale ai diritti delle generazioni future.
Cosa sta succedendo per i servizi idrici nel mondo? Nel mondo la maggior parte dei servizi idrici è
gestito dagli enti pubblici, cioè dallo stato, dalle regioni, dalle province o dal comune, a seconda
della struttura che hanno. La maggior parte dei servizi di depurazione sono direttamente svolti da
enti pubblici; la penetrazione dei privati ha luogo solo in determinate aree del mondo, in genere
aree ad alto livello di finanziarizzazione dei servizi. Ma le grandi operazioni di privatizzazione
hanno avuto dei contraccolpi notevoli, in qualche caso addirittura drammatici (Indonesia,
Tailandia, Sudamerica…). In Europa la privatizzazione ha preso piede tra la fine degli anni ‘80 e i
primi anni 2000, poi nel settore idrico abbiamo avuto anche dei ritorni molto forti e delle tendenze
di ri-municipalizzazione. La città di Parigi e Berlino avevano fatto entrambe la scelta, negli anni
‘80-’90 di privatizzare la gestione dei loro servizi idrici e in entrambi i casi sono tornate a fare
marcia indietro. Il pubblico ha fatto meglio di quanto non avessero fatto i privati dal punto di vista
economico e la municipalità ho avuto dei grossi benefici e dei grassi ritorno in termini economici,
segno che comunque se gestito bene la gestione pubblica è per natura tutt'altro che deficitaria.
Gli strumenti di mercato
Cosa sono degli strumenti di mercato? Il riferimento normativo principale lo troviamo in un atto di
soft law, che è uno di quegli strumenti di indirizzo che utilizza l’UE per far sapere dove si muove e
dove si muoverà il diritto europeo. Nell’ambiente c’è una competenza significativa dell’UE per
indirizzare l’azione degli stati membri. Il Libro Verde sugli strumenti di mercato utilizzati a fini di
politica ambientale del 2007 (Commissione europea) delinea un primo quadro, nel quale gli
strumenti indiretti del diritto (per es. tassazione o sovvenzione, oppure strumenti organizzativi del
mercato come i sistemi di scambio) vengono a convergere in un’unica direzione: eliminare dei
comportamenti nocivi per favorire altri strumenti ed altri approcci. Esempio sacchetto di plastica
del supermercato: se noi lasciamo il mercato libero di agire non vogliamo/possiamo intervenire
con un’azione pesante di divieto. Ad un certo punto siamo stati accompagnati verso un
comportamento che ci ha portati a mettere al bando i sacchetti tradizionali, sostituiti da sacchetti
biodegradabili; questa virata è uno dei frutti di questo approccio di mercato che, attraverso un
incentivo oppure un obbligo (ad esempio mettere un costo), si è internalizzata la variabile
ambientale nei processi di scambio.
Si tratta di strategie “della carota”, non del command and control, ma più morbide.
Che vantaggi abbiamo a far ricorso a questo genere di strumenti?
1) La segnalazione dei prezzi diventa importante, vengono attribuiti degli specifici valori ai costi
di produzione e ai benefici esterni delle attività economiche. I soggetti economici modificano i
loro comportamenti riducendo gli effetti negativi, o aumentando gli effetti positivi,
sull'ambiente. Ad esempio, se dovessimo cambiare auto, ci metteranno un certo tipo di
incentivo per un certo tipo di auto e quindi avremmo indirettamente un disincentivo ad
acquistare auto tradizionali a gasolio o benzina.
2) Maggiore flessibilità alle imprese nel conseguimento dei loro obiettivi: diminuiscono i costi
sostenuti per conformarsi alla normativa, diminuiscono i costi per determinati processi e la
concorrenza che fa il soggetto più virtuoso diventa più performante, perché viene assistita. Il
biologico ha costi più alti perché sconta determinate diseconomie e maggiori costi di qualità,
però si aiuta in altro modo questa filiera e si fa in modo che possa avere un migliore ritorno.
3) Incitano le imprese ad impegnarsi, a più lungo termine, sulla via dell’innovazione tecnologica
per ridurre ulteriormente gli effetti negativi sull’ambiente (“efficienza dinamica”). Di
conseguenza, l’impresa è più motivata e diventa alleato della collettività nel perseguire
determinati obiettivi e guarda anche in un’ottica di lungo periodo alla possibilità/necessità di
introdurre tecnologie più avanzate che riducano l’impronta (foot print). Quindi complicità sana
tra l’ente pubblico e il soggetto economico.
4) Sostengono l’occupazione, se impiegati nel quadro della riforma della fiscalità ambientale.
Questo è sostenuto anche da evidenze scientifiche ed economiche: una certa maggior
articolazione del processo produttivo (per es. riciclo dei rifiuti) crea occupazione, nuovi
soggetti economici.
Informazione
Un presupposto fondamentale per l’utilizzo di questi strumenti di mercato è l’informazione: è
essenziale per il consumatore, ma anche per il produttore, perché bisogna che ci sia una
condivisione di conoscenze. Si tratta di costruire mercato facendo crescere il rapporto di
collaborazione e fiducia tra chi produce e chi consuma. Il mercato è un negoziato continuo, molto
superficialmente riassunto nella logica della domanda e dell’offerta: siamo in presenza di un
meccanismo complicato, con una miriade di prodotti.
C’è poi la logica del modello della certificazione ambientale, che ha lo scopo di informare e
orientare.
Eco-etichette (eco-labels): siamo di fronte ad una certificazione ambientale, dietro ci sta una
forma di controllo, un audit ambientale (eco-audit) che viene gestita sostanzialmente da un
processo spontaneo delle aziende, che si allineano su determinati standard e determinate
modalità. Qui l’ente pubblico (UE in questo caso) interviene attraverso una garanzia di
riconoscimento di una qualità del processo produttivo, con il rilascio di questa certificazione,
quindi ente pubblico ‘garante dell’attendibilità dell’informazione’. Le eco-etichette e l’audit
ambientale implicano responsabilità attraverso l’autodisciplina ambientale.
Su determinati prodotto vedremo sempre più spesso indicazioni riassuntive del contenuto di
zuccheri, salinità ecc: è un approccio visivo che ci permette di sapere cosa stiamo comprando.
Anche questo lato dell’educazione alimentare è una componente importante del diritto
all’ambiente, perché il nostro comportamento alimentare condiziona pesantemente l’ambiente e
per questo le certificazioni sono importanti.
L’informazione, quindi, è molto importante per scegliere consapevolmente. Questa filosofia della
qualità che si sta diffondendo, è per noi uno strumento prezioso. C’è una ritualizzazione delle
verifiche, cioè viene detto in maniera molto chiara alle aziende che producono “guarda che se
segui un determinato processo, se escludi l’abbandono di risorse non trattate come rifiuti e
alleggerisci le tue esternalità negative, io metto in risalto questo tue qualità attraverso una
certificazione”, certificazione che in questo caso può essere anche non del prodotto, ma del modo
in cui si arriva a realizzare quel prodotto. Se c’è uno strumento che mi permette di sapere se il
produttore ha rispettato le regole migliori del mercato, io sono avvantaggiato e non ho bisogno di
fare un’indagine personale su ogni prodotto.
- se trovo il marchio ISO (es. ISO 9000, ISO 14.000 ecc) vuol dire che ho una certificazione di
processo positiva: questa azienda ha fatto certificare ad un organismo privato ma che raggruppa
centinaia di altre aziende, che il proprio processo produttivo è stato condotto in maniera
adeguata.
- stessa cosa per le EMAS.
Questo approccio che valorizza il miglioramento delle tecniche produttive in senso ambientale è
un dato particolarmente evoluto del mercato e l’UE è all’avanguardia da questo punto di vista. Il
fatto di essere tutti coinvolti (stati membri) dall’Unione dà una forza a questi processi e a queste
certificazioni.
Oltre ai label europei, anche gli stati possono (oltre ai produttori) fare delle certificazioni che
servono a dare visibilità ad una situazione virtuosa. C’è una sorta di concorrenza tra l’intervento
che può fare l’UE e quello che possono fare i singoli stati. Il singolo stato è libero di istituire dei
sistemi di certificazione o etichettatura ambientale; quello che però lo stato non è libero di fare è
di istituire attraverso lo strumento ambientale delle barriere al commercio. Quindi gli stati sono
liberi di istituire sistemi di certificazione o etichettatura ambientale, purché non costituiscano
barriera agli scambi e non abbiano finalità protezionistica. Quello che può fare legittimamente uno
stato è innalzare la soglia di sostenibilità ambientale, quindi fare un’etichettatura ad esempio per i
prodotti nazionali.
Altri strumenti
Parallelamente posso intervenire con meccanismi più classici di sussidio o imposta. I sussidi sono
dispositivi speculari alle tasse per stimolare azioni virtuose a favore dell'ambiente. Ci sono poi le
politiche promozionali della produzione energetica da fonti rinnovabili.
Poi c’è un altro versante, che è la responsabilità per i danni. Essa ha avuto uno sviluppo molto
lento nel tempo: prima si è fatto riferimento a criteri generali, poi il danno ambientale ha
sviluppato dei caratteri giuridici sempre più particolari. Ma se vado incontro ad una sanzione
economica per aver prodotto un certo bene o averlo commercializzato in spregio di norme
ambientali, possiamo trovarci di fronte alla situazione per cui un’azienda pensi che tutto sommato
conviene correre il rischio di essere sanzionati, perché alla fine avrà comunque un risparmio
nell’adottare una tecnica più tradizionale e meno impattante sull’ambiente. Le imprese mettono
in conto di dover poi risanare certi ambienti che hanno deteriorato e possono addirittura,
utilizzando il sistema assicurativo, coprirsi le spalle per questo probabile inquinamento. Può
diventare in sostanza quasi indifferente per un'azienda aver commesso o no degli illeciti
ambientali e quindi da qui c'è tutta l'importanza di sviluppare una teorica della responsabilità per
danni che sia effettivamente adeguata che consenta di correggere questi comportamenti.
Mercati artificiali
C’è un altro versante che ha introdotto un’altra tecnica di mercato per cercare di influenzare in
senso positivo i comportamenti: si tratta dello scambio di beni e titoli “rappresentativi di valori
ambientali”. C’è il caso dei “permessi di inquinamento” (modello Kyoto): una quantità di consumo
delle risorse ambientali, in questo caso la CO2, e autorizzata e diventa standard accettato per
mantenere il cumulo delle quote nel quantitativo globale programmato. I permessi sono assegnati
mediante gara, asta o altra procedura amministrativa e il prezzo dipende dalle dinamiche di
mercato.
I grandi inquinatori sono gli stati, considerati come riassuntivi di tutto l’inquinamento delle loro
imprese ecc, e possono essere condizionati in vario modo, ma quello che è importante è che i
detentori delle grandi quote di inquinamento (USA, Cina, India…) devono essere trattenuti,
bisogna mettere un tetto al loro inquinamento perché la progressione dell’inquinamento
ambientale ha un impatto climatico devastante. Il primo tentativo che è stato fatto in questo
senso è stato fatto sulla scia degli impegni assunti a Rio e delle cosiddette conferenze delle parti;
ogni anno dal 1992 in avanti le parti che hanno sottoscritto la Dichiarazione di Rio si ritrovano in
relazione alle convenzioni che sono state adottate per dare gambe a questo impegno. Ma come
fare in modo che l’UE, la Cina, gli USA tirino il freno? La prima soluzione che è stata individuata
negli anni ’90 porta il nome della città di Kyoto: l’Accordo di Kyoto è frutto di una COP, che ha
individuato il sistema di fare una sorta di contingentamento dell’inquinamento del pianeta. Se
rispetto a quello che io prevedo come tetto complessivo di inquinamento qualcuno è più virtuoso
o per motivi dell’economia non arriva neanche a raggiungere il pieno della sua capacità di
inquinamento, può vendere una sua quota di inquinamento. Si è creato un mercato artificiale,
l'artificialità sta nel fatto che non è un bene utile l'inquinamento, è un’entità teorica che viene
scambiata. Questi permessi diventano moneta contante e sono trasferibili in vario modo.
C’è un altro mercato meno artificiale, che è quello dell’energia: lo stato ha istituito un mercato
artificiale che obbliga ciascun commerciante di energia ad avere almeno una quota di rinnovabili.
Qualcuno non ha questa quota e allora andrà a comperare una quota di produzione di un soggetto
che invece produce energia rinnovabile. Il risultato è che in questo modo, indirettamente, viene
finanziata l’energia idroelettrica, solare ecc. che costerebbe di più nella produzione, ma che
diventa conveniente produrre perché prelevo risorse da chi commercializza un’energia più
inquinante e trasferisco il beneficio economico a chi produce energia meno impattante.
Il mercato è un luogo giuridico, uno spazio, talvolta fisico talvolta semplicemente virtuale, nel cui
ambito si svolgono delle operazioni di scambio. A volte sono anche solo scambi di facoltà, di
autorizzazioni, in questo caso autorizzazioni ad inquinare e a scambiare beni particolari come nel
caso dell’acqua e delle energie. I mercati artificiali sono operazioni molto complesse, a volte hanno
dei costi amministrativi molto elevati, delle incertezze nel raggiungimento di determinati risultati e
non sempre vengono ritenuti efficaci ed efficienti.
Mercato dell’acqua o water banking à alcune aree sono progressivamente allontanate dalla
concezione dell’acqua come bene pubblico generalmente accessibile, per privilegiare strategie di
assegnazione di quote di questo bene che seguono percorsi diversi. Esempio sfruttamento delle
grandi derivazioni di acqua a scopo agricolo o idroelettrico (non potabile): in California si è
sviluppata una pratica usuale di possibile cessione dei diritti di sfruttamento. In Italia se vogliamo
sfruttare dell’acqua a scopo idroelettrico dobbiamo ottenere una concessione dal demanio, quindi
dobbiamo essere autorizzati a prelevare una certa quantità di acqua per m3 che può essere
utilizzata a nostro piacimento; noi dobbiamo utilizzarlo, non possiamo farne commercio. Magari
questo soggetto non è interessato a sfruttare tutta l’acqua, il che, secondo le logiche economiche,
potrebbe essere una diseconomia, allora in California e in Spagna cosa si sono inventati? I
certificati che documentano il mio diritto di prelievo possono essere ceduti ad altri omologhi
(soggetti con stessi requisiti), questo però sotto controllo pubblico, non è un mercato libero,
selvaggio. Questa pratica si ritiene porti un utilizzo ottimale dell’acqua. C’è un problema
complesso, ma anche di tipo etico-costituzionale: se l’acqua è un bene pubblico, è giustificato che
io monetizzi dei miei diritti sull’acqua? È una pratica consentibile, che io trasferisca ad un altro
questo diritto d’uso, ottenendo un vantaggio economico? Non va forse contro la logica di gratuità
della risorsa? Questi sono dei primi generali interrogativi che ci dobbiamo porre.
Certificazioni ambientali
U. Beck, uno dei più grandi sociologi di fine Novecento e massimi interpreti dei fenomeni recenti di
evoluzione della società: tra le sue intuizioni maggiori c’è quella di aver colto che viviamo ormai in
una società del rischio, ovvero la società contemporanea si caratterizza perché deve trattare in
modo sistematico l'insicurezza e la casualità generate dalla modernizzazione. Il mercato tende ad
arginare questi rischi, o comunque a renderli compatibili con la nostra vita abituale attraverso
rituali di verifica, attraverso dei meccanismi istituzionalizzati di controllo. Uno di questi
meccanismi è l’audit (= controllo, revisione), interno o esterno. Se lo uniamo al termine eco
abbiamo un ecoaudit: attraverso i processi ISO ed EMAS le aziende sottopongono i loro processi e
i loro prodotti ad una verifica di implicazione ambientale (consumi di materie prime e di energia,
produzione smaltimento dei rifiuti, prevenzione di incidenti con conseguenze sull'ambiente…).
L’ecoaudit può essere fatto liberamente da ciascuno, è convalidato da organismi nazionali
accreditati (ovvero certificati dallo stato o dall’UE) e consente all'impresa di esibire un apposito
logotipo, marchio, per indurre un atteggiamento responsabile nei confronti dell'ambiente.
ISO à sotto questo termine c’è un soggetto terzo, in questo caso soggetto privato, che è venuto a
vedere tutto il processo e ha dato le indicazioni necessarie e si accerta che lo standard ambientale
sia rispettato. Si attesta che l'impresa è dotata di sistema di gestione ambientale (SGA) per ridurre
l’impatto ambientale della propria attività e per attuare politiche ambientali precedentemente
individuate. Non propongono modelli specifici, ma indicano solo una metodologia, solo standard
di gestione ambientale. È come dire “ho chiamato un ispettore e ho controllato che
ambientalmente sto facendo le cose bene”, le cose sono fatte bene a seconda del livello ISO che
raggiungo. A cosa serve questo? Non è una certificazione di prodotto, ma essendo un’azienda
virtuosa, è un’azienda su cui la società scommette di più, nel senso che la aiuta in vario modo: uno
degli aiuti è la riduzione dei premi assicurativi, oppure otterrà più facilmente dei finanziamenti. Se
faccio un appalto magari per la manutenzione dell’ospedale e scrivo che chi vuole concorrere deve
essere ISO 14.001, allora faccio una selezione a favore di soggetti che sono ambientalmente più
affidabili: si tratta di un altro grande vantaggio che posso trarre.
EMAS à L'Unione europea a sua volta ha uno strumento di certificazione pubblica, più articolato,
che ha messo in campo e che si chiama appunto EMAS. Abbiamo la possibilità, per soggetti
economici molto più grandi, di ricorrere anche a questa certificazione pubblica. Queste operazioni
hanno generalmente un costo più o meno elevato a seconda della tipologia di audit che viene
messa in campo per avere una gestione sostenibile, ma questi costi possono tradursi anche in
vantaggi economici. Posso avere un aumento della clientela, perché i soggetti vari possono
preferire questo tipo di soluzione. Oggi Reg. CE 1221/2009.
“Lettura economica” della Natura à Cos’è un bene ecosistemico? I beni ecosistemici sono risorse,
condizioni e processi grazie quali gli ecosistemi naturali e le specie che vi vivono sostengono e
soddisfano la vita umana; La differenza tra una cosa e un bene sta nel fatto che i beni portano
benefici agli uomini e agli altri esseri viventi. Esempi di beni ecosistemici sono i minerali, lo stock
animale, il legname, il combustibile da biomassa, la fauna ittica utilizzabile a scopo alimentare, i
fossili ecc. Questi beni sono quindi delle risorse, ma possono essere anche dei processi naturali per
cui questi ecosistemi (l'ecosistema del bosco, quello idrico…) supportano la nostra vita. I beni
ecosistemici sono stati per secoli un dato naturale per gli economisti, una esternalità a cui si è dato
un valore economico, ad esempio l'acqua un tempo era considerato un bene limitato e non ci
andavo a vedere quanto ce ne fosse e come fosse usata. Con il giro di boa del Millennio,
l'attenzione generale (degli stati, del mondo scientifico) si è spostata sulle funzioni ecosistemiche:
alcune sono assolutamente naturali, ma alcune funzioni ecosistemiche sono accompagnate
dall’uomo, a volte anche brutalmente brutalizzate, interrotte dall’uomo. Queste funzioni sono dei
benefici che gli ecosistemi ci danno, consistono in attività svolte con specifiche mansioni da
persone, congegni o organismi a favore dell'ambiente. Ad averli teorizzati, visualizzati meglio, ha
contribuito un lavoro straordinariamente importante, collettivo, di migliaia di scienziati in tutto il
mondo sotto l’egida delle Nazioni Unite, con un'operazione che si chiama MEA (Millennium
Ecosystem Assessment, 2005), ovvero valutazione ecosistemica del millennio. Si tratta di un
progetto di ricerca con una ricaduta pratica evidente: sapere cosa stiamo facendo concretamente
di queste funzioni che ci vengono dall’ambiente e dall’utilizzo dei beni ecosistemici, perché ci sì e
accordi che stiamo facendo dei cambiamenti piuttosto pesanti e l'impatto che stiamo dando può
diventare assolutamente inquietante.
L’antropologo Jared Diamond ha scritto un libro: “collasso, come le società scelgono di morire o
vivere”. Mette il dito su alcune situazioni di società che hanno sbagliato i conti rispetto alle
funzioni ecosistemiche. Popolazioni polinesiane (Isola di Pasqua) che hanno tagliato gli alberi, il
territorio nel giro di qualche generazione si è inaridito: sono mancate funzioni ecosistemiche
essenziali e il tutto è andato in catastrofe. Cosa molto simile è successa in Groenlandia, dove una
presenza umana significativa era stabilizzata nel tempo, ma determinati errori nella gestione del
territorio, nell’importazione di specie esogene nel territorio ha fatto sì che il radicamento umano
non fosse mantenuto. Anche lì il territorio si è desertificato dal punto di vista della vita umana.
Non è successa la stessa cosa dove le popolazioni hanno mantenuto equilibri diversi, maggiore
saggezza: a parità di condizione ambientale la parte nord del Canada vede ancora presenti le
popolazioni indigene, che hanno mantenuto un equilibrio più sano con l'ecosistema circostante.
Come affrontare quindi questo problema delle funzioni ecosistemiche che, ci dicono le Nazioni
Unite, stanno rapidamente degenerando? Qui interviene la scienza attraverso degli studiosi come
Robert Costanza, uno dei primi ad aver mosso le sue ricerche in questa direzione; la scienza in
particolare ha trovato il sistema di fare in modo che i servizi ecosistemici vengano contabilizzati
sostanzialmente, che i mercati “catturino” questi servizi, li quantifichino come noi quantifichiamo
il valore di un qualsiasi servizio di trasformazione, di commercializzazione o di produzione. Perché
è importante farlo? Perché se non li contabilizziamo, chi decide, sia esso un soggetto politico o
economico, finirà per non tenerne nessun conto. Cosa interessa al produttore di detersivi che ci
siano o meno delle api in giro, in fondo non pensa che siano così importanti. Il ragionamento che
fanno questi economisti e che con loro hanno fatto gli Stati è riassunto in questa frase di Ed
Barbier: “usiamo la natura perché considerata portatrice di un valore economico, perdiamo la
natura perché è ‘gratis ‘”. Il valore intellettuale, estetico, di benessere generale ecc. passa in
secondo piano se si incomincia a fare un calcolo puramente economico. L'economia è un po'
semplificatrice in questo, vuole misurare e quantificare tutto affinché abbia un prezzo monetario,
quindi in questa semplificazione non riesce a cogliere tutte le sfumature di un servizio
ecosistemico.
Collegando la funzione ecologica in tutta la sua complessità con il campo semantico dell’economia,
noi abbiamo compiuto un’operazione apparentemente naturale: diventerà una cosa sempre di più
spontanea. Eco-sistemico = metafora che stabilisce collegamento fra i campi lessicali
dell’economia e dell’ecologia per interpretare l’interazione uomo-natura. Secondo i critici radicali
di quest’impostazione, come Virginie Maris, un’epistemologa, studiosa dei meccanismi scientifici
dell’ecologia, questa quantificazione monetaria è un po’ un “chiodo scaccia chiodo”, l’idea che
possiamo allontanare un pericolo sull’ambiente attraverso un intervento che a sua volta
costituisce un male. Ci troviamo di fronte a due grandi approcci estremi:
1) Dice che se vogliamo salvaguardare le funzioni ecosistemiche dobbiamo dare un prezzo a
queste funzioni e dobbiamo fare in modo che tutti paghiamo perché esse possano essere
svolte
2) Abbiamo chi dice “attenzione, nel momento in cui voi trasformate queste funzioni in ‘merce’,
voi li condannate definitivamente perché si penserà sempre di più e si cercherà sempre di più
di sostituire delle metodiche naturali con delle metodiche artificiali, e soprattutto il dio denaro
reggerà il mondo anche in un contesto nel quale il mondo si è retto benissimo da solo per
migliaia e migliaia di anni senza che noi gli attribuissimo un prezzo economico.
Abbiamo due approcci molto diversi che si contendono il campo della riflessione scientifica, ma sul
piano pratico la prima visione, quella della quantificazione economica come strumento di
orientamento del mercato, è sicuramente in forte ascesa oggi.
Heisenberg à ragioniamo quasi in termini di filosofia delle scienze. Idea della determinatezza o
indeterminatezza nella scienza. Nella scienza fino alla rivoluzione quantica degli anni ’20 e ’30 è
sembrato sempre che tutto potesse essere calcolato secondo una logica deterministica, con una
causalità quasi necessaria. Nel corso del Novecento si è affermata una lettura diversa dei
fenomeni e in particolare attraverso le intuizioni del grande fisico tedesco Heisenberg si è messa in
dubbio questa causalità necessaria, deterministica: non è vero che se conosciamo il presente
possiamo prevedere il futuro, possiamo fare le mosse giuste per produrre determinati effetti per il
futuro. Noi non conosciamo mai completamente il presente: questo è il dato problematico della
lettura nuova della natura, ovvero pensare che la raffigurazione che ne diamo attraverso
un’elencazione delle sue funzioni, delle sue valenze ecc. possa essere esaustiva e oggetto di una
nostra manipolazione che la porta a mantenere determinati caratteri nonostante il nostro
intervento. Questo purtroppo non è vero, bisogna mettere in conto anche la possibilità che
interventi umani sull’ecosistema possano avere sviluppi non lineari, cioè non solo non prevedibili,
ma che di colpo provocano un cambiamento di scala totale delle conseguenze che si sono
innescate. È un dato inquietante e problematico che dobbiamo tenere presente nel momento in
cui guardiamo al modo in cui interveniamo su questi servizi ecosistemici; il modo che per il
momento viene più frequentemente utilizzato dalla politica e anche dal diritto è il pagamento, la
corresponsione di denaro per far fronte alla perdita di determinati servii ecosistemici. Quindi
portare servizi ecosistemici in un contesto di mercato. Come si può contrastare la perdita di servizi
ambientali? Attraverso il mercato, facendo sì che chi beneficia di un certo beneficio ambientale e
di qualcosa a dei soggetti che intervengono per migliorare la qualità delle acque, per esempio,
oppure per contrastare fenomeni di desertificazione delle terre e così via. Il beneficiario del
servizio ambientale (acquirente) paga il fornitore del servizio (venditore) per continuità o
miglioramento. Il PES (pagamento dei servizi ecosistemici) è una transazione volontaria, ovvero
un contratto libero con cui determinati venditori di servizi assicurano uno specifico servizio
ecosistemico ad uno o più compratori garantendone la fornitura.
Gli strumenti attraverso i quali questo può avvenire sono i più diversi:
- incentivi e meccanismi di mercato (es. certificazioni volontarie)
- meccanismi pubblici di sostegno (di erogazione di sovvenzioni e sussidi ad esempio)
- partnership tra privati
Al giorno d'oggi l'economia sta dando spazio a beni che fino a poco fa non erano considerati tali,
come ad esempio la foresta amazzonica.
Partiamo dalla personificazione della natura in senso religioso, la radice della nostra cultura, del
pensiero dell'uomo non solo in occidente. Questo ha preso da noi anche forme artistiche molto
significative, basti pensare all’Odissea, l'idea del rapporto dell’uomo con la natura con la quale si
misura; gli elementi della natura venivano personificati, questa cosa era nella mente dell'uomo
antico. L’uomo, quindi, doveva avere riguardo nei confronti di questi elementi, che spesso erano
considerati non appropriabili dall’essere umano. Noi ci portiamo dietro questo sostrato antico per
cui gli elementi naturali hanno una loro personalità. Noi adesso ci troviamo in una fase diversa da
quella della meraviglia per la natura, e della paura verso la natura: abbiamo un po’ addomesticato
queste nostre paure e ci troviamo in una curiosa situazione per cui questi elementi che
pensavamo di dover trattare semplicemente come oggetti, come fenomeni da contrastare,
condizionare, limitare, sfruttare… incomincia un po' a ‘ribellarsi’ a questa situazione. La ragione
per la quale noi iniziamo un percorso intellettuale di istituzione della Natura riguarda il fare della
Natura un centro d’imputazione di diritti, ovvero un’entità a cui raccordare una titolarità di diritti.
Tutto questo nasce tra il 500 e il 600, quando l'espansione verso le colonie dell'economia delle
potenze coloniali incomincia a richiedere che si possono investire grandi capitali, un esempio è la
Compagnia delle Indie, e si stacca un corpo di interessi per farne un’entità giuridica, che vive di
vita propria e che va oltre la vita del singolo (es. persone che hanno fondato la Ford non sono più
vive). Anche lo Stato italiano e la chiesa cattolica sono soggetti, anche se la chiesa cattolica è un
soggetto molto particolare perché, tornando ancora indietro all'inizio del primo millennio, certi
interessi che si riferiscono al mondo della chiesa (monasteri) hanno bisogno di affermare una loro
soggettività che va oltre la vita dei monaci che la compongono in quel momento. Allora anche
quella volta, nel medioevo, il diritto compie la ‘magia’ di creare il soggetto giuridico. Personificare
è questa tecnica particolare di creare una persona, una persona ficta, immaginaria, processo che
sta interessando sia la natura nel suo complesso che pezzi singoli. Il primo pezzo della Natura che
stiamo iniziando a personificare (sono già stati fatti i primi passi) sono gli animali, considerati
esseri senzienti. In questo momento gli animali sono considerati delle entità ibride fra oggetti e
soggetti: posso venderli, ma questa condizione sub-umana non è più accettata dal diritto
moderno, mentre è in crescita l’idea che pezzi della Natura (in questo caso del regno animale)
possano avere titolarità di diritti.
Nodi problematici
1. Se sei un soggetto, a che titolo io ti alieno? Se vendessi il mio gatto potrei produrre per lui
sofferenza emotiva, e l’ordinamento sta iniziando a farsi carico soprattutto delle sofferenze
fisiche, ma anche delle sofferenze affettive degli animali. Quindi l’inalienabilità è un primo
problema.
2. Oltre ai diritti, sono centri di imputazione di doveri? Il problema è da rapportare, piuttosto che
al singolo animale, alla ‘responsabilità’ che possono avere determinati ecosistemi: i danni che
producono i fiumi, ad esempio.
3. La scienza accerta la sofferenza, che fa vedere la realtà della condizione in cui si manifesta un
determinato fenomeno della vita. Quindi quale ruolo di ‘mediazione’ per la scienza in questa
operazione? Integrazione dei saperi.
4. Noi oggi dobbiamo far ricorso a studi antropologici sul confine tra determinate specie di
quadrumani e la specie umana, problemi di confine oggetto di grande discussione perché ci
sono anche delle specie animali che hanno effettività di linguaggio molto vicine a quella
umana. Quindi noi cominciamo a vivere una “umiliazione antropologica”: la nostra condizione
di superiorità, di assolutezza umana è oggi messa fortemente in discussione, problema non
indifferente dal punto di vista etico.
Persona non è sinonimo di essere umano, ma di centro d’imputazione di determinati diritti. Come
operiamo questa imputazione? Attraverso dei dispositivi: M. Foucault ha utilizzato spesso il
termine dispositivo, che è qualcosa di un po’ più ampio e articolato della norma. I giuristi sono
abituati alla norma, una regola per indirizzare il comportamento umano, per concordare
determinate situazioni su livello paritario, oppure attraverso atto di autorità ecc. I dispositivi sono
dei congegni normativi un po’ più complessi, che riescono a far conseguire un determinato
risultato. I dispositivi a cui facciamo riferimento per attribuire della personalità giuridica si
individuano in tre vie principali:
a) via costituzionale: che la natura è un soggetto di diritto lo posso scrivere nella costituzione e
quindi posso darle il massimo risalto possibile e collocare al più alto livello questa posizione
b) via legislativa: posso farlo tramite legge
c) via giudiziale: uno o più giudice, una giurisprudenza sensibile al cambiamento della mentalità
sociale del nostro tempo recepisce questo stimolo e dà un responso attraverso una sentenza,
che mi fa capire che quella situazione o quell’elemento animale/vegetale/sistemico è
effettivamente un centro d’imputazione di diritti.
Personificazione
Tra i misteri che abbiamo in campo giuridico c’è quello del danno inferto alla Natura e/o ai suoi
singoli elementi. Nell’ordinarietà il nostro diritto ha sempre trattato queste situazioni come delle
situazioni nelle quali il danneggiato vero era l’uomo, l’unico titolare a cui era riconosciuta la facoltà
di adire un giudice e di chiedere giustizia. Tutto il risarcimento di questi danni veniva operato
attraverso meccanismi, vuoi di obbligazione di opera, vuoi di risarcimento in forma monetaria, a
beneficio di persone, comunità, associazioni, enti pubblici ecc. Ma se il danneggiato è la Natura, e
la natura è un centro di imputazione di questi diritti, allora il risarcimento dovrà andare alla
Natura. Forse le può competere anche un risarcimento monetario per prevenire altri danni, per
vincolare queste forme di risarcimento a operare effettivamente a favore della natura in futuro, e
non per risarcire dei danni alle persone, che sono altra cosa. In passato questa autonoma rilevanza
non era riconosciuta, questo diritto di un elemento naturale al suo restauro rimaneva sempre un
po’ da parte e veniva semmai in considerazione il depauperamento del bene naturale come danno
ad un valore di cui era titolare qualcuno (Stato, Regione…). Se però guardiamo a cosa sta
succedendo nella giurisprudenza di questi ultimi anni, uno dei casi emblematici in Europa, in
particolare in Francia, è stato proprio legato al naufragio di una grande petroliera – caso Erika – la
cassazione francese per la prima volta ha riconosciuto l’esistenza di un pregiudizio (danno)
ecologico puro, non sofferto da singole persone, ma dal mare, in questo caso. È un principio di
distaccamento di questo centro d’imputazione d’interessi e di avvio di una soggettizzazione della
Natura. Il fenomeno ha interessato migliaia di giudizi nel mondo, perché i giudizi legati a conflitti
ambientali si sono moltiplicati in questi anni, spesso a tutela della salute umana, ma in alcuni casi a
sottolineare sempre di più l’importanza anche del rispristino.
Questo discorso di istituzione della Natura ha evidentemente dal punto di vista umano una
funzionalità pratica: si tratta di fare in modo che l’operatività del diritto sia più aderente al bisogno
reale. Il discorso delle personae-non personae (diritto romano) era funzionale a questo tipo di
situazione: il ricorso all’immagine della persona, il cosiddetto preconcetto antropomorfico, si
presume che un essere senziente debba avere più o meno la forma dell’uomo. Quindi abbiamo
questo preconcetto, tendiamo a dare questo genere forma anche alle entità giuridiche che
creiamo. Questo preconcetto antropomorfico, questa soggettivizzazione, ha avuto però all’inizio
della modernità una rottura molto evidente attraverso gli scritti di Francis Bacon, filosofo inglese
che ha portato allo scoperto, in maniera più evidente di chiunque altro, l’idea per cui l’uomo è
dominus assoluto della natura: tutto quello che succede nella natura e sulla natura dev’essere
visto dall’uomo come riferito ad un oggetto esterno. Necessario superamento della “rottura
epistemica” di Bacone (dominio umano assoluto sulla Natura) e del concetto illuministico (beni
naturali = mero oggetto di conquista). L’elaborazione di Cartesio dal punto di vista della persona
riguardava l’io cogitans e il suo rapporto con la materia esterna, con la res extensa, ma il pensiero
moderno è un pensiero che si è sviluppato e ha trovato la leva della scienza come strumento che
gli ha fatto sentire sempre di più che la natura non era un soggetto con naso, occhi e bocca, ma
qualcosa di misurabile, di dominabile, mero oggetto di conquista. La specie umana ha fatto questa
cavalcata negli ultimi secoli, in maniera sempre più importante, fino alle grandi crisi della metà del
secolo scorso, in particolare la crisi atomica: l’uomo si è accorto del turbamento che creava negli
ecosistemi e si è quindi ritrovato di colpo in un’era nuova che oggi chiamiamo antropocene. Si
tratta di un’era in cui i fenomeni della terra sono per la prima volta segnati in maniera fortissima
dall’incidenza dell’azione umana.
Via legislativa
Come ha reagito l’ordinamento giuridico alla necessità di personificare la natura attraverso la via
legislativa? I maori sono una popolazione con un forte radicamento di pensiero autoctono. Hanno
sempre considerato il fiume come un’entità vivente e hanno rivendicato la protezione non solo
della propria terra in senso proprietario, ma dell’integrità di questa entità spirituale e materiale al
tempo stesso, composta dal fiume e da tutto quello che le sta intorno. Il fiume Whanganui River,
così chiamato dagli occidentali, dagli inglesi, è stato oggetto di due secoli di contese giuridico-
militari tra i maori e gli inglesi colonizzatori della Nuova Zelanda, e questo fiume è un complesso
che è al tempo stesso fornitore di sostentamento, di medicina, dà protezione, strumento di
trasporto. Dopo una lunghissima contesa si è giunti ad un settlement, una regolazione che ha
riconosciuto questo fiume come entità vivente, persona giuridica. Questo settlement è una legge
della Nuova Zelanda. Si tratta di un fiume che la possibilità di essere rappresentato in giudizio e ha
dei poteri come se fosse una società amministrata da una diarchia, cioè da due persone: uno
designato dalla comunità Maori e uno designato dall’autorità neozelandese, che svolgono insieme
delle funzioni custodiali. Queste persone sono gli amministratori a nome e nell’interesse del Te
Awa Tupua (nome autoctono del fiume), svolgono la funzione di tutore. Il fiume è un’entità
autonomizzata, che diventa in qualche modo antropica e la cosa interessante nel contesto
neozelandese è che si è andati ad una contaminazione tra delle forme giuridiche ctonie
antichissime e la forma giuridica moderna; altrove si sarebbe fatto magari un parco per tenere
buona la popolazione umana. Abbiamo un'entità realmente autonomizzata rispetto alla visione
antropica, sintesi fra la forma mentis delle comunità con cultura indigena e forme giuridiche
moderne: la differenza con le nostre istituzioni è che i nostri parchi o riserve sono solo un generico
“centro di imputazioni di una serie di valori non meramente naturalistici, ma anche culturali,
educativi e ricreativi” (C. Cost. sent. N. 302 del 1994) à quando vuole dare risalto ad un interesse,
il diritto crea persona.
Le acque del fiume vengono vissute come uno spazio allargato, non è solo l’acqua che scorre, ma
quella che filtra, che evapora… è tutto lo spazio circostante, la forma materiale e spirituale della
riserva che questo rappresenta. Non è folklore, la regina Elisabetta II con la legge (mea culpa della
Corona) chiede scusa per i danni inferti a questa persona, non soltanto dall’ordinamento attuale,
ma anche per i due secoli precedenti di occupazione, si scusa con i morti e i viventi e si impegna
nei confronti anche delle generazioni a venire. Queste forme moderne di diritto ci consentono di
avere uno sguardo giuridico che va molto oltre la contingenza a cui fanno fronte le nostre normali
regole legislative: ci collochiamo in una dimensione intergenerazionale anche del diritto.
Via giudiziale
Anche il formante giudiziale ha reagito a questo. Nell’emisfero Sud, più sensibile all’innovazione
nel campo ambientale (perché dove c’è già diritto cristallizzato è più difficile), ha più capacità di far
rivivere concezioni antiche. In India c’è il fiume Gange: oltre alla sacralità religiosa, oggi il Gange è
una persona giuridica, che con i suoi affluenti è chiamato dal diritto, cioè dall’Alta Corte di giustizia
Division bench of Uttarakhand High Court, e sono qualificati come Living Legal Entities, persone
giuridiche con diritti, doveri e responsabilità di natura personale. La cosa è nata attraverso l’inezia
di alcuni funzionari pubblici che avrebbero dovuto prestare attenzione e intervenire a tutale di
questi fiumi; non l’hanno fatto, e siccome la Costituzione indiana è una costituzione molto
agguerrita e dà delle grandi possibilità ai suoi giudici di intervenire, i giudici sono stati sollecitati. La
corte ha emanato una sentenza interessante:
1. ha posto come premessa che il sentire della comunità indiana è un sentire particolare di
sensibilità, di attenzione nei confronti dei valori della sacralità di questi fiumi. Quindi richiamo
alla diffusa e tradizionale sacralità di questi fiumi.
2. Attuazione ai principi costituzionali di obbligo di proteggere l’ambiente (Cost. ind., art. 48-A) e
dovere di ogni cittadino di preservare il patrimonio culturale dell’India (Cost. ind. art. 51, lett.
g). Questo riferirsi ad ogni cittadino è importante, perché permette di non dire che solo lo
stato è tenuto a farlo, è uno sforzo della comunità, uno sforzo dell'ordinamento ad ottenere
questo risultato.
3. Sintesi fra mentalità tradizionale indiana e modello giuridico occidentale, in particolare di
common law (india ha assorbito tradizione inglese).
Come avviene questa contaminazione? Trova la sua base in precedenti autorevoli per il loro
diritto, come quello degli Shebaits: nella cultura indiana, in riferimento alla cultura indù, c’è
un’adorazione polimorfica, ci sono entità diverse che vengono adorate. Viene fuori una bega
nella storia della giurisprudenza indiana, in cui ad un tempio viene richiesto di pagare
determinate somme di denaro e ci si accorge che questo tempio ha un suo piccolo patrimonio,
del denaro messo da parte. Cosa spiega il giudice in una sua sentenza, nella quale si cerca di
imporre che vengono pagate anche delle tasse da parte di questo tempio? Si dice “c’è
un’entità giuridica che è rappresentata dal tempio, c’è un guardiano e questo Shebaits deve
pagare per conto della divinità di cui amministra il luogo di culto. Questo modo di ragionare mi
fa capire che per la stessa espressione della sensibilità religiosa io ho bisogno di uno strumento
regolatore dei rapporti con il mondo circostante, ho bisogno di dare corpo ad una persona
giuridica. Questo mi permette di risolvere il problema sul piano pratico: trasformare un’entità
metafisica, un bisogno, un valore in un’entità giuridica. Queste persone che io metto ad
amministrare il bene, nel caso del Gange il giudice individuerà tre persone ex officio (in base ai
loro compiti istituzionali, i più alti funzionari pubblici, l’avvocato generale ecc.) che sono le più
qualificate per agire in giudizio a nome del Gange e dello Jamuna, che alcuni soggetti stanno
pesantemente inquinando. Istituisce quindi un valore rappresentato e rappresentabile, con un
meccanismo di imputazione che è lo stesso meccanismo che funziona da millenni nel nostro
diritto occidentale (dal diritto romano in poi): come quando una persona viene nominata come
custode di un pupillo i cui diritti sono minacciati e devono essere difesi. Si nomina una persona
fisica che non agisce in nome proprio, bensì in loco parentis, nell'esercizio di parens patriae
jurisdiction (giurisdizione di patria potestà), tutore di un soggetto debole a fronte dell’assenza
o della negligenza del soggetto titolato. Quella che viene istituita dalla sentenza indiana è una
forma di tutorato che assume human face (lo dice proprio il giudice), il volto umano del fiume:
immedesimazione quindi del tutore con l’entità tutelata, il volto umano del fiume è la persona
(triade di persone in questo caso) titolate per andare a sollevare questioni in giudizio, a
chiedere risarcimenti, a far fare delle opere a restaurazione dell’integrità ambientale.
Poi i principi della vita sono entrati a far parte anche della costituzione tedesca, stanno affiorando
a vario livello questi fenomeni, ma quello che conta è che stiamo pensando all’impensabile, quello
che fino a ieri non era considerato oggetto di un pensiero sano, logico. Stiamo cercando di dare
uno status legale alle foreste, agli oceani, ai fiumi e ad altri cosiddetti “beni naturali”, all’interno
dell’ambiente, appunto, e anche all’ambiente stesso come un tutto unico (Stone, 2010). Il dato è
che stiamo allargando un ‘cerchio etico’, che prima era solo un cerchio umano, prima al mondo
animale, in un processo di progressiva emancipazione della Natura e del paesaggio.
Emancipazione deriva dal mancipium, che era quello che teneva lo schiavo sotto il controllo del
padrone; l’emancipazione della Natura porta nella sua scia tutto un atteggiamento culturale nuovo
che si scontra con un pensiero del liberalismo moderno, che è invece tutto incentrato sulla teoria
dei diritti dell’uomo. Abbiamo un nuovo “teatro giuridico” in cui l’uomo non è più protagonista
esclusivo, ma entrano in campo nuove maschere: la nostra cultura viene scossa e si apre a
formulazioni nuove. Oggi, per la maggior parte si tratta di formulazioni ancora ibride, ad es. la
sentenza Erika prima citata parla di “Natura-quasi soggetto”. Poi ci sono tante altre espressioni, il
mondo anglosassone utilizza molto la logica custudiale del trust (il trust è un meccanismo giuridico
di protezione nell'interesse di terzo), attraverso cui prende corpo un centro d’imputazione di
interessi potenti. Altri parlano di “Natura-patrimonio comune dell’umanità”, termine sempre più
spesso utilizzato dal diritto internazionale, ma è u patrimonio comune che tende a staccarsi dai
suoi detentori e diventare un soggetto assoluto. Ci troviamo lungo una linea di incontro-scontro
tra le posizioni tradizionali antropocentriche e posizione eco/biocentriche; siamo su una linea di
tensione e c’è un indubbio effetto di spillover. Stiamo passando dal diritto sull’ambiente al diritto
ambientale e all’ecologia del diritto, ad un ripensamento ecologico del diritto stesso.
Abbiamo problemi nuovi da affrontare, abbiamo attribuzione di personalità legali a nuove entità, i
progressi delle nuove tecnologie e della robotica portano alcuni autori molto acuti nell’indagare,
nel tentare di avere una prospettiva di futuro dello sviluppo del diritto: stanno indagando verso un
costituzionalismo sistemico, cioè non più solo ristretto agli interessi umani tradizionali, ma un
costituzionalismo che chiama in campo nuovi attori collettivi ed enti non necessariamente umani.
Questo è in via di decodificazione.