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Introduzione al diritto comparato

Diritto:
1. Legge
2. Consuetudine
3. Giurisprudenza
4. Contratto
Noi abbiamo una visione molto “legi-centrica”: fondata sull’idea di norme scritte, editate
(emanate) in maniera molto precisa. Abbiamo una gerarchia delle fonti à Costituzione, leggi
formali, regolamenti, atti amministrativi, contratti, atti di diritto civile… In fondo a questa
gerarchia, stando alle preleggi del Codice civile italiano, abbiamo che in maniera residuale si può
far riferimento alla consuetudine. In realtà la consuetudine è stata l’origine del diritto, nel mondo
intero inizialmente ci si è regolati in base a consuetudini, il fare in maniera ripetuta certe cose era
la base per rendere una norma vigente e applicabile. Un’altra forma di diritto a cui bisogna essere
molto sensibili è il diritto pronunciato dai giudici, la giurisprudenza, che nasce della decisione del
caso singolo (sia essa una questione penale, civile, amministrativa o internazionale) e fornisce una
lettura dei fenomeni giuridici. Questo tipo di decisione, il precedente giuridico, continua
formalmente ad essere rispettato e ci si può richiamare.
Accanto alla legge (tutte le forme di codificazione, dalle costituzioni ai regolamenti, quindi non
solo legge in senso formale) c’è il contratto: è una forma di regolazione, di accordo e scambio tra
soggetti. Mentre la legge è un atto riconosciuto come legittimamente autoritativo (è decisione
presa dall’alto), il contratto è l’incontro di volontà orizzontali tra soggetti diversi che stabiliscono
che per loro diventa legge, quindi il contratto vincola solo chi ne è parte.
Il tutto è l’ambiente giuridico, la rete dei rapporti giuridici nella quale siamo immersi.

Oggetto della comparazione:


# La comparazione è il vedere come ciascun ordinamento giuridico, che non è soltanto l’insieme
delle leggi di uno stato, ma un sistema complesso di normazione (comprensivo anche delle
consuetudini, della giurisprudenza, dei contratti, dello stile dei giuristi…), può essere confrontato
con altre realtà più o meno vicine e simili. Quindi il diritto comparato è un ramo della scienza
giuridica che studia gli ordinamenti giudici in comparazione tra loro, ma non è una disciplina
semplice, perché impone di conoscere anche la storia, i fondamenti economici, il dato sociologico
e antropologico delle diverse culture cui si riferisce. Si comparano ordinamenti degli stati e non
solo, perché ci possono essere dati anche religiosi ad esempio.
# Per la comparazione deve cadere poi lo steccato tra il diritto privato e il diritto pubblico: lo
stesso fenomeno è guardato in un modo diverso, che sia dal punto di vista dell’autorità pubblica
oppure del rapporto orizzontale tra privati. Questa è una separazione mentale che ha imposto il
nostro diritto moderno occidentale, ma che non è propria di tutti i sistemi giuridici, alcuni se ne
allontanano e alcuni non la conosco nemmeno.
# Altro aspetto della comparazione che viene in evidenza è quello delle diverse tradizioni
giuridiche; abbiamo tradizioni molto radicate e che esigono delle loro simbologie (parrucconi dei
giudici nelle corti inglesi, le motivazioni che possono venire alla luce in merito alla legittimità di
certi comportamenti, ecc). Non possiamo limitarci all’enunciato di un precetto, per esempio, sul
fatto che non bisogna uccidere ecc, e non capire che ci sono altri codici che si intersecano nella
società (ad esempio vendetta come legittima).
Diritto transnazionale à “trans” vuol dire attraverso, noi siamo in presenza di un
attraversamento di frontiere giuridiche fra stati, che non vogliamo considerare come entità chiuse,
autosufficienti, ma che sempre di più sono ad estremo contatto anche nei risultati della
regolazione che producono. Il fenomeno ambientale non conosce frontiere (vedi Chernobyl) e per
questo anche il diritto ambientale non deve fermarsi a queste frontiere ed è importante che si
costruiscano dei sistemi di regolazione per quanto possibile integrati tra loro, compatibili e legati
nel senso di un’armonia di intenti. Non siamo a livello esclusivamente internazionale e nemmeno a
livello del singolo stato: ci interessiamo di regolazioni che stanno in uno spazio intermedio che è
uno spazio transnazionale. Non abbiamo più bisogno di riconoscere come totalmente sacrale il
rispetto della frontiera territoriale: continua ad esistere e a delimitare uno spazio di regolazione,
ma dobbiamo riconoscere l’esistenza di un diritto che non ha più nel territorio il suo elemento di
riferimento unico ed esclusivo.
C’è la necessità di non fermarci allo steccato del diritto pubblico e privato (diritti tra diversi
soggetti), perché alcuni problemi possono essere regolati con strumenti di diritto pubblico, altri di
diritto privato. La regolazione del fenomeno ambientale può coinvolgere sia strumenti di autorità
(divieto di utilizzo di alcune sostanze ad es.) che accordi tra produttori, agricoltori: quindi si tratta
di raggiungere gli stessi scopi sia con strumenti pubblici che privati.

In questi anni ci si accorge che il diritto è condizionato da fenomeni culturali profondi, ma anche
personali. L’idea che gli operatori del diritto facciano solo operazioni meccaniche è stata ormai
superata, quindi tornano utili apporti di vari studi (storici, economici, antropologici, sociologici,
linguistici, letterari…). Ci sono fenomeni di aspettativa di genere differenti circa la tematica
ambientale, ma ci sono da tenere in considerazione anche dimensioni istituzionali, ideologiche e
politiche. Le nuove comunicazioni che operano sulla dorsale di internet hanno un impatto
importante; il cambio di opinione sui fenomeni ambientali viaggia sul filo di input che ci arrivano
attraverso questi strumenti piuttosto che su canali politici.
Quindi i fenomeni giuridici non sono neutrali, sono condizionati, sintesi di spinte molto diverse e di
fenomeni complessi.

Il formante è la base da cui prende forma l’ordinamento giuridico, fatto di linee identificabili, di
basi normative su cui andiamo a costruire. Ci sono tre tipi di formanti giuridici basilari:
1) Formante giurisprudenziale – forma che prende il diritto classica è la decisione di un giudice
(soggetto terzo, esterno alla questione in discussione tra due parti che deve stabilire qual è la
corretta soluzione di una controversia)
2) formante legislativo – è il modello della legge formale sostanzialmente
3) formante dottrinale – il diritto è fatto di decisione su casi singoli, di prescrizione o di
interpretazione, perché sia le decisioni dei giudici che il contenuto di una legge non sono di per
sé immediatamente comprensibili e applicabili a tutto il contesto sociale se non c’è un lavoro
d’interpretazione. Tutti i fenomeni giuridici vanno accompagnati da un’illustrazione del loro
significato vero, perché possono assumere anche un significato diverso nel tempo.

Comparazione à Si può fare microcomparazione su singoli istituti, poi c’è l’approccio più globale
che valorizza dati quantitativi generali o culturali (macrocomparazione). Perché ci muoviamo nel
solco della comparazione? Il diritto comparato è una scienza relativamente recente, che ha delle
finalità particolari:
- finalità scientifica, speculativa, di conoscenza dei sistemi
- interesse nell’avvicinare le normative, nel far sì che siano transnazionali e sempre più in
interazione le une con le altre
- miglioramento della legislazione e della giurisprudenza
Il diritto è perlopiù imitazione, perché è bene vedere se ha funzionato in altri sistemi, se un certo
tipo di risposta è stato efficace in un contesto…

La disciplina del diritto comparato richiede un’organizzazione sistematica della propria


terminologia e dei propri concetti, e porta a quel tipo di esercizio usato da altre discipline
chiamato classificazione. Per poter discutere degli ordinamenti giuridici degli altri paesi siamo
portati ad accorparli in insiemi più o meno grandi per nostra comodità, così da poter definire dei
caratteri comuni. Nelle famiglie di diritto continentale (o di Civil Law) il riflesso giuridico è di un
certo genere, mentre nel campo del diritto della Common Law ne avrà un altro: abbiamo già una
semplificazione di quadro.
Michelle Foucault (filosofo, politologo e antropologo) ha aperto delle vie al pensiero moderno,
soprattutto per quanto riguarda la microfisica del potere, ovvero come il potere si esercita
attraverso determinati dispositivi che organizzano la società. Questo partendo da determinati
studi per vedere come la società moderna sia particolarmente invasiva nel trattare non solo il
corpo, ma anche la mente delle persone. Una citazione usata da Foucault di J. L. Borges (approccio
onirico a tante situazioni, sviluppa l’irreale per dirci cose estremamente profonde) che dà una
classificazione di animali riferendosi ad un ipotetico scritto antico di un’enciclopedia cinese.
Si trova la necessità di accumunare dei soggetti che a volte sono anche molto diversi, perché
alcune famiglie giuridiche hanno origini antichissime, hanno un fondamento religioso, altre hanno
un fondamento laico, altre sono legate all’approccio razionalistico e deterministico della nostra
realtà ed altri si ricollegano a determinati fenomeni naturali. Abbiamo a che fare con un mondo
molto articolato e bisogna tenere conto di queste diversità. Classificare significa sostanzialmente
che in funzione di determinati criteri (cfr. formanti) si pone attenzione ai connotati propri delle
organizzazioni. Sono raggruppamenti che si va ad effettuare su base quasi empirica di come
funziona un certo ordinamento, quali sono i suoi connotati.
Le famiglie giuridiche sono un insieme di ordinamenti giuridici che presentano caratteristiche
comuni. Certe potenze hanno esercitato un ruolo egemone che ha fatto sì che altri li imitassero,
come è stato per l’esperienza imperiale romana per il diritto europeo, oppure UK e Francia, che
hanno diffuso un certo concetto di diritto con le loro esperienze coloniali. Anche gli USA stanno
irradiando un certo modello, a cui noi siamo molto subalterni.
I caratteri comuni delle famiglie giuridiche ci portano a delle classificazioni à quattro famiglie
giuridiche di René David, che individuava nel ceppo europeo il primo momento di omogeneità del
fenomeno giuridico:
1. famiglia romano-germanica (civil law) - ha trovato espansione dopo caduta dei paesi socialisti
2. famiglia anglo-americana (common law) - recepita da ex colonie
3. paesi socialisti
4. famiglia dei sistemi filosofici e religiosi (diritto islamico, diritto indù, dell’Estremo Oriente e
dell’Africa) - categoria non ben definita, differente dalle altre tre categorie, più razionali.
Il punto di approdo di questa classificazione generale è l’opera di Patrick Glenn, che ha indicato
una nuova classificazione, per “tradizioni giuridiche”, ovvero quello che queste comunità si
portano nel modo storico-tradizionale di concepire un’autorità:
a) indigena (ctonia) - cton è la terra, ed effettivamente questi ordinamenti hanno un’origine nel
legame straordinariamente avvertito da questi popoli con la terra
b) talmudica - trova il suo riferimento principale nelle scritture ebraiche (Talmud), con aspetti
interessantissimi non tanto legati agli istituti particolari del diritto, quanto ad un approccio
interpretativo
c) islamica - risente in particolare del Corano. Una grande parte di persone che vivono nello
spazio del diritto continentale o di common law sopravvalutano l’importanza di un testo sacro
come elemento fondante del diritto
d) hindu
e) confuciana - apparentemente non hanno nessuna volontà di richiamarsi al pensiero e agli
ammaestramenti di Confucio, ma questa tradizione che si connota come particolarmente
rispettosa di determinate armonie (armonia celeste ma anche nell’ordinamento umano)
f) civil law - il fondamento è quello del diritto romano, senza dimenticare il ruolo tecnico (non di
autorità) svolto dal diritto canonico, della Chiesa romana
g) common law - si distingue dal nostro ordinamento perché ha dato particolare rilevanza al
momento giurisprudenziale. L’avvocato usa il precedente, che nel nostro ordinamento
giuridico non vincola così.
Notare che Glenn non individua una famiglia di diritto cristiano, perché la dominante in questi
paesi è ormai la dominante secolarizzata. Civil law e common law sono messe tra le ultime anche
perché sono tra le più recenti.
Poi si possono dare anche altre classificazioni:
- famiglia di tradizione giuridica ctonia
- famiglia a egemonia religiosa
- famiglia con egemonia del diritto (noi)
- famiglia a egemonia politica (socialismo, nazionalismo, prevale sul diritto, non è la persona al
centro come fattore limitante del potere politico)
- famiglia dei paesi in via di sviluppo
Famiglia di tradizione giuridica ctonia à non avendo traccia scritta del loro diritto e non avendo
istituzioni formali è come se vivessero senza diritto. Queste popolazioni improntano la loro vita a
schemi di esistenza molto armonici con l’ecosistema, con i suoi ritmi, con il senso del limite
imposto all’essere umano per il fatto di essere parte di una natura. Sono tradizioni giuridiche che
di solito sono estremamente rispettose del ceppo vitale della nostra vita, non si ritengono
proprietarie della terra. Quali sono i caratteri del diritto ctonio? È un diritto che nasce dalle cose,
dagli eventi, dall’ammonimento che ci viene dalla natura rispetto ai nostri comportamenti. Molte
di queste civiltà avevano una tendenza a personificare la natura, nel vedere nei fenomeni naturali
l’azione di soggetti. È un diritto che emerge con l’esperienza, si fonda sull’oralità e la memoria,
non sulla formalità o sulla scrittura. Abbiamo istituzioni semplici in cui prevale la figura
dell’anziano, del saggio, piuttosto che la figura dell’uomo più potente: questa figura o è in contatto
con il sovrannaturale, oppure ascoltato in maniera prevalente per il suo bagaglio culturale. Non
hanno una posizione di dominio sul mondo naturale, sono in una proprietà collettiva, comune e
quindi sentono doveri di rispetto verso la terra, non c’è accumulo o mappatura della proprietà.
Grandi risorse come l’acqua vengono godute attraverso le loro ricadute positive senza escludere
gli altri dalla loro fruizione. Nel corso degli ultimi decenni è in forte ascesa nel campo del diritto,
della politica e delle relazioni sociali, l’idea del bene comune, che deve essere gestito
responsabilmente. Si stanno riscoprendo questi approcci al bene comune, che fanno superare
l’idea della proprietà come diritto assoluto rispetto al quale possiamo tenere fuori gli altri.
Se guardiamo al modo in cui vengono risolte le controversie nel diritto ctonio, ci accorgiamo che
spesso le modalità sono appena accennate, non c’è un codice di procedura civile o penale. Inoltre,
non c’è l’obiettivo dell’ottemperanza a diritti riconosciuti in maniera codicistica e che possono
essere fonte di prevaricazione nei confronti degli altri, non c’è l’obiettivo di giudicare, ma c’è una
grandissima attenzione alla conciliazione delle controversie. Modi di assoluzione delle
controversie aperti, accessibili.
Famiglia a egemonia religiosa à spesso ha portato al formarsi di teocrazie, governi in cui il
soggetto investito dell’autorità è tale perché individuato dall’entità suprema per guidare il popolo
e indicare anche dei canoni di comportamento che vanno molto in là anche nella sfera personale
degli individui. Sono famiglie che non hanno nessuna velleità di esercitare esse stesse un potere
politico, a differenza di altri casi come quello della tradizione confuciana, che ha funzione di
consiglio e ammonimento, non di sostituzione dei saggi all’autorità politica. La famiglia a egemonia
religiosa pone limiti molto precisi anche al comportamento sociale delle classi, alla possibile
accessione ecc, con separazioni.
Questa famiglia include i paesi indù, i paesi di diritto ebraico, i paesi musulmani e i paesi
dell’Estremo Oriente, a tradizione confuciana, buddista, taoista…
Famiglia con egemonia del diritto à per una serie complessa di vicende storiche il corpo dei
giuristi come ceto sociale avuto una straordinaria espansione. È cresciuta in maniera esponenziale
l'influenza dei detentori della tecnica e della scienza del diritto rispetto, per esempio, addirittura
dei detentori del potere militare ma anche dei detentori dell’influenza religiosa. Molti di questi
paesi hanno vissuto progressivi fenomeni di secolarizzazione, per cui si è attenuato l'impatto delle
autorità religiose, che hanno continuato a esercitare il loro ministero e anche la loro influenza. È
cresciuta nella mentalità comune l’idea che l’ordine sociale dovesse attingere le proprie regole
fondamentali a meccanismi diversi: in parte meccanismi di produzione del diritto legislativo, in
parte a meccanismi di produzione del diritto giurisprudenziale, quasi sempre con un’azione
combinata dei due, con il fatto che Parlamenti definiscono certe regole di fondo, danno loro una
veste compiuta e formale, e i giudici si sono ritagliati uno spazio per regolare meglio il
funzionamento della società all’interno di questo quadro generale che è stato condiviso
soprattutto grazie all’operato di organi che hanno legittimazione popolare. Nel corso dell’800 le
masse si sono riversate nella vita politica, masse che condizionano il diritto prodotto dagli organi
politici, ma vicino a questa azione rimane l’azione degli organi di giustizia. Quello che hanno messo
in evidenza gli studiosi del diritto comparato è quindi la rule of Professional law, l'azione del
diritto esercitato espresso da un corpo professionale di persone. Lo ha analizzato molto bene Max
Weber, che ha individuato i connotati di questa trasformazione sociale in funzione del predominio
della classe burocratica (nata come classe generata dai giuristi).
In questi sistemi si è poi prodotto un fenomeno particolare, che li distingue dai paesi ad egemonia
politica: è stato scisso l’ambito di competenza del diritto dalle scelte politiche. Sono state poste
delle regole sovrastanti la politica, le costituzioni sono nate per limitare il potere politico. Sull’altro
versante, in alcuni paesi si è iniziato a tracciare il solco tra diritto e religione; si è iniziato a ritenere
che la decisione dell’ordine sociale voluto dallo stato non debba soggiacere alla religione, e questo
è il processo di secolarizzazione.
Il Codice Napoleone è del 1804: Napoleone ha voluto una nuova subalternità dei giudici rispetto
alla legge edittale (quella fatta dagli organi politici), quindi il giudice non è più colui che deve
interpretare e decidere sulla base di un’esperienza, ma non è altro che un “meccanico applicatore
di una norma”.
Sottosistemi delle famiglie con egemonia del diritto sono i paesi di civil law e di common law.
Civil law à c’è una base forte del diritto romano, che non è stato codificato in raccolte generali a
Roma ma in Turchia, perché è lì che l’imperatore Giustiniano ha voluto salvare questo patrimonio.
Poi nei grandi centri di cultura di matrice religiosa, durante il medioevo, viene ristudiata la
tradizione romana e ripensata, riorganizzata in modo nuovo. Ne nasce un diritto molto più teorico
rispetto all’esperienza “pratica” del diritto romano originario: diventa facilmente conoscibile e
insegnabile, infatti le università diventano come fabbriche di giuristi. Poi, dopo la Rivoluzione
francese e il periodo illuministico, la diffusione del diritto comune in tutta Europa riceverà nuova
linfa dagli studi dell’area tedesca e francese. In Francia il connotato del diritto sarà molto più
servile nei confronti della monarchia, mentre in Germania sarà più svincolato dal pensiero politico.
Common law à questa dottrina del diritto è diventata poi carattere preminente di una famiglia
giuridica, e il suo connotato principale è il primato della giurisprudenza delle corti; più che la
decisione autoritativa di un parlamento, l’autorevolezza delle decisioni dei giudici. La storia
costituzionale inglese è la via principale, perché il diritto statunitense è un ramo derivato
dell’esperienza inglese. L’esperienza inglese è quella di un potere sovrano che viene fortemente
limitato dal parlamento e dall’azione delle corti. In Inghilterra, la figura dello studioso del diritto
come teorico del diritto non è conosciuta, e chi fa la storia del diritto inglese sono gli avvocati, i
giudici e le raccolte di giurisprudenza; non ci sono norme astratte ma ricerca di soluzione per
fattispecie concrete. Il diritto pubblico è legato ad una funzione pacificatrice della Corona.
Famiglia a egemonia politica à il pensiero di Marx ha dato origine a regimi nei quali ad essere
soggetto che detta legge è la politica. Il diritto è subalterno alla politica: il giudice stesso non deve
guardare ad una norma astratta o ad un diritto superiore dell’individuo, ma deve guardare ad un
buon funzionamento del regime per soddisfare le sue finalità ultime. La legalità socialista è un
principio che vuol dire subordinazione dei meccanismi del diritto alla supremazia della politica.
Talvolta anche nelle diversità etniche e nazionali un ostacolo al successo di una certa prospettiva
politica. Paesi dell’America latina si sono orientati in vari momenti in questa direzione, come altri
paesi in via di sviluppo. Alcuni modelli di diritto si sono asserviti ad un’ideologia dominante perché
l’obiettivo della transizione dalle società arcaiche alle società moderne ha portato a modelli
estremi. Rispetto a quella visione di René David da cui eravamo partiti, si è attenuata la posizione
eurocentrica e alcuni hanno una declinazione dei diritti umani stessi che segue altri criteri.

Tutto il sistema delle famiglie giuridiche è in continuo movimento, come testimonia ad esempio il
diritto islamico, in forte rilancio e che si trova anche a combattere però battaglie delicate al suo
interno, di compatibilità del modo di pensare molto antico con le esigenze della modernità.
Esempio concezioni dell’acqua come bene comune (global common) che è fortemente presenze
nel discorso coranico, e gli interpreti di Maometto riconoscevano che tra gli appartenenti alla
umma, la comunità dei credenti, non ci dovesse essere chi è proprietario dell’acqua e chi no.
Questo non è in realtà esattamente rispettato nei codici anche di matrice islamica, per cui bisogna
riconoscere che tanti sistemi giuridici fanno i conti con l’emergenza di bisogni nuovi e con le
pressioni del mercato. Un altro dato molto importante da tenere presente sta nella
decolonizzazione: sono rimaste tracce di strutture che continuano a funzionare bene, però con la
decolonizzazione non si ha un taglio del cordone ombelicale così immediato. I giuristi boliviani e
sudamericani, ad esempio, hanno continuato gli scambi con i loro omologhi delle università
europee, così come hanno iniziato poi, soprattutto negli ultimi 50 anni, ad avere contatti con i
giuristi delle scuole americane: c’è quindi una continua contaminazione. In questa contaminazione
c’è anche l’esperienza dei sistemi latinoamericani che più risentono dell’ispirazione antica, arcaica,
precolombiana, che riportano in auge anche istituti giuridici particolari come il buen vivir, l’idea
del vivere in armonia con la natura. Questo riporta alla luce un modo di pensare ctonio, ad
esempio a rispolverare il concetto giuridico di terra madre.
La nozione di ambiente

L’idea di “ambiente” è una nozione-camaleonte, cangiante, rispetto alla quale dobbiamo poter
seguire la sua trasformazione, anche fotografandola di momento in momento. I giuristi devono
avere la capacità di indicare delle vie nuove per regolare i fenomeni giuridici e nel caso
dell’ambiente, rispetto all’Italia gli studi principali vengono da altre scuole, dall’esperienza
dell’ambientalismo nordamericano e da studi che vengono fatti in altre parti d’Europa, tra cui la
Francia e la Germania, con punte d’eccellenza nei paesi scandinavi, dove la filosofia dell’ambiente
ha dato eccellenti risultati e dove la sensibilità ambientale è particolarmente marcata. Gli studiosi
del diritto dell'ambiente sono molto creativi, ma anche pronti ad avventure culturali molto
avanzate in tutta la latino-americana e ci sono scuole di pensiero molto vivaci anche in quella
parte. In questa nozione cangiante del diritto dell'ambiente andiamo anche a utilizzare qualche
strumento concettuale che ci viene da altre culture e da altre lingue:
• ambiente – termine che indica una mobilità: ambiente è il participio presente di un verbo che
vuol dire andare intorno (dal latino ambiens). Quindi è quello che vediamo tutto intorno a noi.
• environnement – ciò che ci sta intorno, qualcosa che sta al di fuori dello spazio regolato dalla
cultura e dalla tecnica umana. Non si parla di natura, ma di una sorta di entità immobile che
sta al di fuori dello spazio da noi occupato.
• environment – anche qui non abbiamo una definizione tanto differente: ciò che sta intorno o
condizione in cui viviamo e operiamo. Ci dice qualcosa di più rispetto alla materia amorfa: può
essere anche il modo in cui si atteggia questa realtà esterna in cui persone, animali e vegetali
vivono e operano.
• Umwelt - Il termine mondo (welt) è un termine che viene agganciato dal concetto di ambiente
quando lo si declina in tedesco; in questo caso welt è il mondo che ci sta intorno, ma è un
universo soggettivo. È qualcosa di più che una materia generica che ci sta intorno e verso la
quale noi ci avventuriamo, “è il fondamento biologico che sta all’epicentro della
comunicazione e del significato dell’animale-uomo”. E un mondo che percepiamo in una
dimensione soggettiva, quasi romantica, di una grande sorpresa nel cogliere ciò che ci sta
intorno.
• Medio ambiente – dalla lingua spagnola: la radice è la stessa, ambiens, ma questo è un
pleonasmo perché aggiunge una parola, che è questa parola medio, che in realtà non sarebbe
necessaria, viene aggiunta quasi come rafforzativo della parola ambiente.
Quindi abbiamo diverse definizioni di ambiente:
- definizione generale che vede l'ambiente come lo spazio circostante, considerato con tutte o
con la maggior parte delle sue caratteristiche
- in biologia ed ecologia è tutto ciò con cui un essere vivente entra in contatto influenzando nel
ciclo vitale. Quindi quello che ci sta intorno non solo ha relazioni intense e continue tra le
diverse sue parti, ma la nostra componente animale ne trae sostentamento, rifugio. È un
ambiente in movimento e che ha dei cicli.
- in senso figurato è complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale una persona si
trova, si forma, si definisce. È un’idea più culturale dell’ambiente.

Il termine ecosistema è sostanzialmente ritenuto sinonimo di ambiente, ma i termini quindi non


sono esattamente sinonimi perché l'ecosistema è un sistema articolato con alla base un complesso
di organismi viventi e non viventi, di fattori biotici, perché portatori di un codice genetico vitale, e
di materia non vivente (fattori abiotici) che può essere allo stato liquido, solido, gassoso. Questi
fattori interagiscono in un sistema autosufficiente in equilibrio dinamico, cioè è un “corpo” che
complessivamente si trova in una situazione di equilibrio à cfr. bosco, che posa su componenti
abiotici e poi sviluppa organismi biotici. Siamo in presenza di un’unità ecologica particolare, che
naturalmente non è scissa dagli altri ecosistemi che stanno vicini ma rappresenta considerata in sé
e per sé un pezzo che ha un suo sostanziale equilibrio e in quanto tale va preservato. L'insieme
sistemico di un'unità ecologica vede partecipi vari soggetti, sia vegetali che animali, che
interagiscono tra loro e con l'ambiente che li circonda. Abbiamo un fenomeno di biocenosi e
l’ambiente che ci circonda si conforma come biotopo, quindi come luogo della vita. Quando poi
parliamo di ecosistema in senso assoluto, generale, pensiamo a quella crosta che c'è sulla
superficie terrestre e che implica anche delle interazioni con la fascia aerea sovrastante, come
anche con le vicende sotterranee che riguardano le acque, che riguardano il formarsi dello strato
superficiale, il permafrost ecc. La nozione di sistema nel nostro discorso sulla tutela dell'ambiente
è fondamentale: capire che non lavoriamo su questo tema come su materia statica, ma
interferiamo attraverso le nostre norme su un complesso vivente e comunque mobile e sistemico.
Le relazioni a cui noi siamo più direttamente legati e da cui dipendiamo in maniera maggiore sono
sicuramente le relazioni proprie di un ambiente biotico, cioè un ambiente in cui c'è la vita che
agisce e questo; queste relazioni sono relazioni non sempre amichevoli e collaborative, ma si
sviluppano secondo un andamento naturale nell’ambiente in cui noi ci muoviamo. Sono relazioni
di competizione, predazione, parassitismo (sfruttare quello che fanno gli altri, vedi i fungi), sociali,
familiari, sessuali degli esseri viventi con un dato organismo. Dal punto di vista culturale si può
vedere come queste relazioni si riproducono anche dal punto di vista delle nostre relazioni sociali:
competizione, predazione (economica ad esempio), operazioni di sfruttamento, di parassitismo
con persone e classi sociali che vivono in maniera parassitaria nella società. Nella definizione di
diritto dell'ambiente o diritto alla salubrità ambientale, non è però irrilevante sapere se
determinati paesi non hanno una posizione per esempio predatoria sulle altre, se stanno
sfruttando le risorse che dovrebbero essere più disponibili per altre parti del pianeta, perché noi
dobbiamo pretendere di continuare ad alimentare la nostra economia, il nostro trasporto, il
nostro riscaldamento con delle risorse che sono sistematicamente prelevate lontano da casa
nostra.
Il termine ambiente è diventato il catalizzatore di una complessità di fenomeni ed è emerso
gradualmente nel corso dell’ultimo secolo, diventando sempre più familiare e diffuso in relazione
all’interesse che abbiamo come società per i fenomeni ambientali. Negli ultimi decenni abbiamo
conosciuto fenomeni piuttosto impattanti, ma l’umanità si è protetta dal contraccolpo che può
essere percepito rispetto a queste situazioni. Abbiamo da osservare che il nostro approccio alle
questioni ambientali si è progressivamente determinato in un senso antropocentrico; questa
centralità soggettiva (già ritrovata nell’Umwelt) è un assetto mentale e sociale dominante. Nel
consolidamento delle nostre strutture sociali ci sono dei bisogni che un tempo erano accidentali e
comunque non protetti, e che oggi diventano necessarie e chiedono tutela da parte
dell’ordinamento giuridico. Si tratta di bisogni più articolati di benessere, che vanno oltre il
mangiare e bere, e che costituiscono veri e propri diritti. È uno sviluppo molto recente, quello che
va nella direzione anche del riconoscimento di diritti in capo ad altre specie viventi. Da qualche
anno si comincia timidamente ad affacciare una teoria del diritto che riconosce dei diritti in capo
agli animali cosiddetti senzienti e quindi si tende a proteggerli.
Nel discorso dell'evoluzione della nozione di ambiente percepiamo ancora un aspetto: l'evoluzione
che ha avuto nel corso di approssimativamente un secolo la nostra nozione generale di ambiente,
dal prevalente valore estetico ad un riconoscimento delle sue valenze funzionali ed essenziali per il
nostro ciclo vitale. Prendiamo per esempio la nostra Costituzione: tutela l'ambiente? No, si trova
solo la tutela del paesaggio, perché negli anni 40 quando la costituzione è stata concepita il valore
del nostro ambiente circostante dava per scontate le funzionalità alimentari, le funzionalità
produttive dell'ambiente esterno. Ma metteva già in forte risalto un aspetto particolare che era
l'aspetto estetico, cioè non bisognava deturpare, saccheggiare un complessivo un apprezzamento
della bellezza dei luoghi; oggi noi abbiamo la necessità di tutelare determinate funzioni che prima
non erano prese in considerazione.
Vi è il passaggio dalla nozione di insieme (= pura sintesi addizionale di vari elementi) alla nozione
di sistema (= connessione di elementi in un tutto organico e funzionalmente unitario); questo
anche per accrescere la nostra sensibilità verso la realtà circostante.

Ambiente in senso giuridico à definizione di Giannini, grande giurista: “Ambiente non è una
nozione giuridica, ma la somma di una pluralità di profili giuridicamente rilevanti”; si intende che si
può apprezzare l'ambiente come somma di elementi. Pluralità di profili giuridicamente rilevanti
vuol dire pluralità di aspetti che hanno un significato per il diritto; l’aspetto estetico è uno,
l’aspetto della sicurezza è un altro, l’aspetto della salvaguardia di determinate risorse è un altro
ancora. Giannini diceva che quando parliamo di ambiente dobbiamo parlare di questa somma di
aspetti che a mano a mano il diritto coglie e viene a mettere in evidenza. Siamo ancora abbastanza
lontani dalla visione sistemica che è la nostra e che si alimenta dell’idea che non possiamo
intervenire in maniera regolativa su singoli aspetti di questo fenomeno senza tenere conto ogni
volta di tutto quello che ci sta intorno. Oggi abbiamo una sensibilità sistemica che non era ancora
propria degli anni ’60 e ’70, dove stava appena muovendo i primi passi la sensibilità ecologica e
ambientalista. L'ambiente sta diventando un diritto soggettivo, non sempre riconosciuto ma
sempre di più preservato e tutelato dal diritto. Diritto soggettivo vuol dire che ho non solo delle
facoltà, ma posso esigere da altre persone, o dallo stato, o dagli enti pubblici dei comportamenti
che mi consentono una certa soddisfazione; il diritto soggettivo è un diritto pieno a cui
corrisponde un dovere di qualcun altro, questo lo schema generale in cui si muove buona parte
del diritto. L’ambiente sta diventando sempre di più un bene, un valore tutelato sotto molteplici
forme e indicato come tale per esempio dal Trattato dell’Unione europea, che mette questo
valore al centro dell’azione UE. Ma se c'è diritto ad avere un ambiente più salubre, dall'altra parte
c'è anche una responsabilità giuridica per la sua tutela. Il discorso che faceva Giannini ormai è
superato, siamo ormai approdati all'idea che l'ambiente è un bene sistemico e in quanto tale va
curato e rispettato.

Lo studio di questi complessi fenomeni di interrelazioni all’interno del vivente è stato qualificato
come “discorso sulla nostra casa”, quindi l’ecologia. L'ecologia è soprattutto uno studio degli
ecosistemi, e questo studio comprende all'interno dell’ecosistema tanto la parte vivente quanto la
parte non vivente. Quindi abbiamo una base scientifica nel nostro lavoro di giuristi dell'ambiente,
base che ci viene dagli studi ecologici. Abbiamo delle correnti filosofiche, etiche e politiche che
mettono al centro della loro attenzione le problematiche degli ecosistemi, quindi l’ecologia è un
tentativo di stabilire delle linee di condotta che siano eticamente, filosoficamente e politicamente
congrue per rispondere a questi fenomeni. C’è una dimensione scientifica, di studio dei fenomeni,
e una meno scientifica che è quella della valorialità etica e politica di questi fattori.
Oggi si usa il termine ecologia anche applicato ad altri aspetti: ci può essere una prospettiva di
ecologia integrale se vengono abbracciati diversi ambiti di sviluppo del pensiero ecologico à
ecologia ambientale, economica e sociale. C’è anche un versante culturale dell’ecologia che si sta
manifestando come crescente bisogno. C’è poi il principio del Bene Comune, principio conosciuto
fin dal Medioevo (cfr. San Tommaso che lo declinava come bene collettivo superiore), ma si è
anche diffusa l’idea che siamo detentori e gestori di beni comuni che sono sempre di più oggetto
di una corresponsabilità. Fino ad una trentina di anni fa sembrava che altri paradigmi, come quello
della competizione e dello sviluppo ad ogni costo fossero dominanti.
Infine, quando si tratta di fare delle norme abbiamo un soggetto in più che va tenuto presente nel
momento in cui si decide e si tratta delle future generazioni, che si troveranno inevitabilmente
pregiudicate nelle loro opportunità di vita qualitativamente buona se noi faremo scelte sbagliate;
è un problema etico ma sta diventando anche un problema giuridico, che si inizia a regolare anche
attraverso il diritto.
Il soggetto che più di ogni altro si è fatto portatore di un’idea di ecologia integrale è papa
Francesco, che con l’enciclica “Laudato si” ha scritto una pagina sulla conservazione della terra
come casa comune e sui doveri custodiali dell’umanità.

Il punto di arrivo riguarda un modo particolare di utilizzare la sensibilità che ci viene dalle scienze
ecologiche per rileggere il nostro diritto. Tutto il diritto dal ‘700 in poi è stato fortemente
influenzato dalla crescita tecnologica, scientifica, dallo sviluppo delle scienze nel mondo
occidentale; il nostro approccio alla regolazione normativa risente di questo senso quasi di
onnipotenza dell'uomo, che ha enormemente rafforzato la sua capacità di vedere lontano con i
telescopi, di vedere nell’infinitamente piccolo con i microscopi, di sentire dei rumori che non udiva
prima… L'uomo ha incominciato a ritenere di essere regolatore nei suoi rapporti con la natura in
maniera assolutamente libera. Il diritto quasi come una tecnica meccanica attraverso la quale
l'uomo sempre di più regola i fenomeni e può permettersi di organizzare la società umana verso
uno sfruttamento adeguato delle risorse che gli stanno intorno, senza curarsi se queste risorse
sono finite o infinite. Adesso anche il giurista è tenuto ad occuparsene e a dare una dimensione
più ecologica al suo diritto, ma non è solo perché il suo diritto sia più rispettoso delle dinamiche
ambientali: qui siamo a cercare di darci un modo di fare diritto che sia più ecologico esso stesso.
Noi non abbiamo più la possibilità, a tempo indeterminato, di utilizzare il diritto solo al servizio di
una società estrattiva.
Fritjof Capra e Ugo Mattei hanno scritto un libro significativo per capire come bisogna
riposizionarsi rispetto al diritto: dall’idea di un diritto puramente meccanico, applicativo di una
visione del mondo lineare, verso non un diritto dell’ambiente, ma un diritto ecologico esso stesso.
Le fonti internazionali del diritto dell’ambiente

Il diritto dell’ambiente è per sua natura sovranazionale: riguarda tutte dinamiche che devono
essere gestite in cooperazione fra gli stati. Molte questioni di carattere ambientale trovano
addirittura le loro prime soluzioni nel diritto internazionale. Il diritto ambientale ha avuto una
prima ondata di soluzioni più localizzate nella definizione in particolare nelle questioni che
riguardano determinate risorse condivise, quindi condivisione multilaterale.
È una gerarchia molto mobile, non corrispondente all’idea piramidale del diritto, quella che
riguarda gli ordinamenti giuridici del diritto dell’ambiente.
Quando c’è un’origine abbastanza identificabile in questo diritto, lo facciamo attraverso
fondamenti empirici: la necessità di gestire le risorse comuni è un fattore di grande rilevanza,
soprattutto in relazione ad alcuni ambiti (ultramarini, spaziali, antartici ecc), dove trovavamo in
passato una difficoltà estrema dell’uomo a raggiungerli. Si pensava che saremmo sempre potuti
approdare a nuove soluzioni, che le risorse limitate non sarebbero state un problema, in una
logica sempre estrattiva, per cui si può chiedere sempre di più alla natura. Questa lettura si è però
interrotta negli anni Settanta; l’umanità si è trovata a dover fare i conti con i limiti della crescita,
che sono limiti di risorsa ma anche di contraccolpo rispetto all’abuso di determinate risorse. Si è
dovuto fare marcia indietro e iniziare a contenere questo sviluppo, con una problematica anche
molto complessa legata alla sovranità degli stati e alle ideologie di tipo liberistico. In particolare,
con i paesi di socialismo reale e URSS hanno fatto credere dagli anni Settanta in poi all’assoluta
maggior rispondenza ai bisogni dell’uomo da parte del mercato. Si pensava che si potessero
affidare al mercato le soluzioni migliori, ma ciò ha esposto grandissimi rischi, così come ha esposto
a rischi una gestione arretrata di alcune attività come lo sfruttamento dell’energia atomica. Nel
caso dell’Union Carbide, multinazionale statunitense specializzata nella produzione di fitofarmaci,
abbiamo un tipico esempio di delocalizzazione di attività chimiche pericolose in paesi meno
attrezzati. Nella città di Bhopal, 40 tonnellate di isocianato di metile si sono disperse nell’aria,
portando a circa 3000 morti, cresciuti poi a 15.000 secondo le stime, senza contare le centinaia di
migliaia di persone che poi hanno avuto conseguenze sulla propria salute. A Chernobyl una
centrale nucleare fugge al controllo dei suoi tecnici, portando all’esplosione di uno dei reattori e
gli interventi sono tardivi per una mancata coordinazione. Per i fenomeni delle correnti aeree la
radioattività è stata portata anche verso di noi e verso il Nord America.
La vicenda ambientale, proprio in relazione a fenomeni come questi, ha fatto nascere strutture e
procedure di governance transnazionale à governance = insieme regolazioni esplicite ed implicite
che sottendono alla generale gestione di un’azienda, un paese o di un settore di attività umane; si
distingue dal governo perché non è fatta di elementi formali e regolati dal diritto. L’ambiente
quindi ha un suo regime di funzionamento, che in parte trascende il ruolo dei soggetti che vi sono
deputati perché coinvolge anche altri soggetti: dobbiamo prendere in considerazione i grandi
player del mercato, il negoziato con i governi, le ONG, alcune organizzazioni internazionali le cui
decisioni sono di straordinario impatto anche se non sono deputate alla tutela dell’ambiente, e poi
il mondo della scienza. Perché è importante questo ruolo? La sigla IPCC (Intergovernmental Panel
on Climate Change) indica un soggetto che è salito agli onori della cronaca, che è stato
internazionalmente riconosciuto nella sua importanza quando nel 2007 gli è stato conferito,
insieme all’ex presidente USA Al Gore, il premio Nobel per la pace per i suoi impegni nel
contrastare il riscaldamento globale. Era stato voluto sul finire degli anni ’80 come attività
collaterale dell’UNEP (programma ONU per l’ambiente) per essere una specie di monitor sullo
stato attuale della conoscenza degli impatti che il cambiamento climatico può avere sulla nostra
società. L’IPCC non è un centro di ricerca, ma è una rete di studiosi che vengono organizzati per
fare una validazione scientifica del lavoro di molti studiosi, impegnati per capire i cambiamenti
climatici. È indispensabile che la scienza non sia al servizio di una potenza, ma che sia condivisa e
letta in maniera quanto più possibile ed aperta. L’IPCC è un soggetto internazionale emergente,
come interlocutore molto importante.
Ci sono molti attori nuovi sulla scena mondiale: la WTO (organizzazione mondiale per il
commercio), soggetto regolatore di grandissima importanza perché le regolazioni che promuove
per esempio nel favorire lo spostamento su larga scala di determinati prodotti ha influenze molto
nette sulla dimensione ambientale. Determinati prodotti agricoli possono essere messi in difficoltà
da un commercio non inquadrato e che favorisce lo spostamento di derrate alimentari, o ancora
spingere sull’industrializzazione ha una conseguenza notevolissima. Anche la ICAO (organizzazione
internazionale aviazione civile) deve farsi carico delle conseguenze ambientale del suo settore.
L’IMO riguarda il trasporto marittimo, la FAO è anche molto importante come formula
internazionale nello studio e nella regolazione delle problematiche legate all’alimentazione e
all’agricoltura. Quindi ci sono una serie di organizzazioni internazionali, come chiaramente l’ONU.
Sottese all’operato di tutti questi organismi ci sono due possibili filosofie:
• dare priorità alla regolazione ambientale, quindi alla limitazione di determinate attività umane,
e comunque mettere come condizionante di alcune politiche la protezione ambientale
• prima pensiamo a mangiare, commerciare, viaggiare… fare le attività umane che debbano
precedere qualsiasi cosa, e poi andiamo ad occuparci dell’ambiente. Questo trova poi spesso
chiusura nella formula dello sviluppo sostenibile che dovrebbe rendere compatibili tra di loro
la crescita economica con la protezione dell’ambiente.
Come sono in relazione con il mondo della produzione normativa internazionale i soggetti non
statali? Le ONG sono dei soggetti privati, fondati in genere su basi associative più libere intorno ad
un progetto dalla conferenza di Rio in poi. La conferenza di Rio del 1992 è il primo grande
momento di presa di coscienza e di dialogo; qui è apparso chiaro che i soggetti che dovevano stare
al tavolo perché si facesse qualcosa di buono nella regolazione dei fenomeni ambientali erano
diversi, pur essendo prioritario l’incontro dei capi di governo di tutto il mondo. Le ONG vedono
riconosciuto una specie di diritto di tribuna, quindi non partecipazione politica o di voto alla
decisione, ma di esprimere il proprio punto di vista con una risonanza esterna adeguata. Accanto
al ruolo collaborativo, di stimolo e critica che svolgono le ONG, c’è da sottolineare come in campo
ambientale queste organizzazioni svolgano un ruolo di primo piano anche nel contenzioso
internazionale, cioè nella decisione di questioni che riguardano la responsabilità di alcuni stati
sovrani circa alcuni fenomeni ambientali. Le ONG si sono proposti in molti casi come soggetti che
portano maggiori argomenti ai fini di una decisione giudiziale, proponendosi come amicus curiae,
facendo ammettere formalmente all’interno di questi procedimenti il loro ruolo di expertise, di
rappresentanza generale dell’opinione pubblica su questi temi.
Un altro fenomeno a cui abbiamo assistito ha riguardato il coinvolgimento applicativo dei privati
nel campo dell’attuazione del diritto internazionale. Il protocollo di Kyoto riguarda la regolazione
di emissioni di CO2 attraverso lo scambio di quote nel mercato. In questo campo gli stessi
destinatari di tali regolazioni devono essere coinvolti, diventano essi stessi operatori di
regolazione, perché non tutto può essere fatto attraverso decisioni autoritative e controllo.
Poi c’è un ricorso a risorse non statali per quanto riguarda tutta la dinamica consultiva, con
soggetti che possono intervenire per individuare le soluzioni migliori che alleggeriscano il segno
che noi lasciamo costantemente sul nostro pianeta.
Spesso laddove non arriva l’intesa tra gli stati, anche per effetto di situazioni contingenti, le corti
hanno la possibilità di rappresentare un punto alto di definizione di determinati meccanismi
regolatori, per cui la loro giurisprudenza è sicuramente fondamentale.
Evoluzione delle fonti internazionali à le fonti internazionali hanno seguito nel tempo uno
sviluppo graduale. Negli anni immediatamente successi la Seconda guerra mondiale, la nascita
delle Nazioni Unite era stata vista come un momento di grande armonia a livello internazionale,
seppure con due blocchi che si confrontavano in maniera molto energica tra loro e poi con
l’emergere anche dei cosiddetti non allineati, ma la nascita delle Nazioni Unite non ha avuto
immediatamente un mandato e una priorità d’azione per l’ambiente. All’epoca c’era la necessità di
regolare la virulenza bellica, l’espansione dei paesi più forti a discapito di quelli emergenti… Le
questioni relative alla qualità della vita e ai meccanismi della vita sul pianeta erano questioni
apparentemente assenti dalla discussione generale, infatti non ve n'è quasi traccia nelle carte
fondative di questi organismi. È negli anni Settanta che la partita inizia a giocarsi a livello
internazionale; gli anni 70 sono degli anni di grande ripensamento delle società occidentali, siamo
all’indomani delle contestazioni studentesche che scuotono il sistema, siamo in presenza di una
crescita imponente dal punto di vista demografico, di forti rivendicazioni sociali, ma questo si
scontra con l’emergere dei primi fenomeni di degrado ambientale. Inizia a diffondersi un pensiero
ecologico, di attenzione ai sistemi della vita e non solo di posizione centrale dell’uomo nel
soddisfacimento dei suoi interessi. Sono gli anni tra l’altro del primo shock petrolifero del ’73,
momento nel quale di colpo soprattutto in Europa ci si è trovati piuttosto in difficoltà e si è avuta
la percezione dell’impatto anche economico dell’indisponibilità di determinate fonti. Il mix di
queste situazioni ha portato ad un primo momento di risveglio dell’attenzione con la conferenza
internazionale di Stoccolma nel 1972 e si è aperto così un ventennio di iniziale posizionamento
internazionale su questi temi. Ad esempio, un momento alto di coscienza è stata la commissione
Brundtland e si è arrivati così al vero turning point, che è stata la conferenza di Rio, il summit della
terra. Si è avuto per un decennio il tentativo di ricucire l’opinione pubblica internazionale e l’agire
degli stati intorno al riequilibrio dei rapporti tra i paesi “del Sud del mondo” e i paesi più avanzati,
perché il rischio era che si attrezzassero per far fronte a questi problemi i paesi più evoluti, che
dispongono di maggiori tecnologie, e che dopo si mettono a dettare regole di contenimento
dell’inquinamento senza tenere conto del fatto che si sono messi in moto i meccanismi per lo
sviluppo di questi paesi meno favoriti e che si vedrebbero pregiudicati le loro possibilità di ridurre
il deficit di sviluppo. Questo problema di uguaglianza di opportunità è stato fortemente
sottolineato nell’ambito della conferenza internazionale di Johannesburg, che ha fatto il punto a
10 anni di distanza da Rio.

Il principio “sic utere tuo ut alienum non laedas” (utilizza ciò che è di tua proprietà senza ledere
quello dell’altro) è considerato una norma consuetudinaria del diritto internazionale. Uno stato
sovrano, secondo questo principio, può usare il proprio territorio e quindi le proprie risorse
naturali in maniera assolutamente libera, compreso il diritto di degradarle, purché non porti
danno ad un altro stato. È un principio apparentemente sano ma con un’enorme zona d’ombra
legata a come viene usato il territorio all’interno dello stato, e con il problema che non possiamo
ignorare comunque gli effetti che un certo tipo di uso delle risorse provoca all’interno dell’altro
paese. Esempio di un fiume internazionale: l’utilizzo delle acque a monte porta conseguenze nello
stato vicino, quindi contravvengo al principio generale. Quindi l'idea che ognuno possa fare nel
suo territorio quello che vuole ha iniziato a vacillare; tuttavia, per lungo tempo questo concetto
del non nuocere agli altri, che poi è anche alla base della strutturazione di tutto il diritto penale
(nella Common law in maniera molto più evidente ma anche nel nostro nel nostro diritto come
principio fondatore), è ancora presente e da luogo ad un raccordo continuo tra il diritto all’uso
della risorsa e l’uso della stessa. Quindi binomio diritto-responsabilità. C'è un dovere di non
ingerenza nelle vicende dello Stato vicino, che vuol dire che in base al diritto internazionale io non
posso venire a controllare e correggere determinati processi di abuso delle risorse naturali e di
depauperamento delle condizioni ambientali che si producono nello stato vicino. Si sta
affermando progressivamente un diritto di ingerenza umanitaria se all’interno di qualche paese la
situazione diventa così grave da portare danno ad intere parti della popolazione, per difendere il
diritto alla vita, ma da questo punto di vista c’è un diritto di ingerenza a scopo ambientale? Se ci
fermiamo al principio del “sic utere tuo” non abbiamo molte carte da giocare. Il diritto
internazionale sta cercando di muoversi in questa direzione, provando a superare i limiti di questo
che è stato il pilastro di formazione del diritto internazionale dell’ambiente.

Conferenza di Stoccolma
Nella Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972 un numero molto elevato di paesi
delle Nazioni unite (oltre 110 paesi) converge insieme alle agenzie specializzate e ad altre
organizzazioni internazionali (all'epoca non siamo ancora in presenza di mobilitazioni popolari di
grande portata). Il tutto si svolge proprio come una classica conferenza internazionale per tentare
di avviare una cooperazione tra gli stati in materia ambientale. A questa conferenza si produce una
dichiarazione di principi, testo privo di valore giuridico cogente, non è uno strumento vincolante,
ma è comunque il punto di riferimento centrale del successivo sviluppo del diritto internazionale
in questa materia. Siamo in presenza di linee guida che ispireranno i negoziati successivi. Questa
dichiarazione di principi ha il connotato della visione antropocentrica, considera che la tutela
dell’ambiente è subordinata all’interesse esclusivo della specie umana ed è quindi tutelato come il
luogo in cui deve vivere l’uomo e non come fine in sé. Sui principi di libertà e uguaglianza
dell’uomo di fonda una responsabilità a preservare l’ambiente non solo per i viventi, ma anche per
coloro che verranno. Qui vediamo per la prima volta le generazioni future e c'è anche una prima
individuazione del bene giuridico ambiente ma non ancora con una sua autonomia rispetto agli
interessi umani, e comunque con l'idea di un iniziale distacco dell’ambiente dall’interesse statale
cioè si inizia a pensare che l’ambiente è qualcosa che deve entrare in una logica di regolazione più
larga del singolo stato, quindi un bene sovrastatale. Si inizia a parlare di una tutela ambientale
degli spazi esterni (l’alto mare, lo spazio extraatmosferico ecc.) e l’umanità ha percezione di un
problema che va regolato collettivamente. Si dà così il via ad un’azione nella quale si pensa che
l’ONU debba avere un ruolo importante. All’interno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
prende corpo un programma speciale dedicato all’ambiente. Gli anni ‘70 sono un momento di
avvio di un ramo della sua politica di dialogo tra le nazioni, finalizzata ad una regolazione migliore
e che in qualche modo vuole fare la sintesi anche da interventi regolativi che c'erano già stati negli
anni precedenti. Già a Ginevra nel 1958 si era parlato dell’alto mare, della convenzione per la sua
gestione; già nel 1959 a Washington si era iniziato a santuarizzare l’Antartide; già negli anni
Sessanta lo spazio era stato oggetto di un trattato sulla sua esplorazione e in quest’ultimo caso
appare evidente che sono le due grandi potenze a monopolizzare il discorso perché gli altri stati
non disponevano di strumenti tali per iniziare l’avventura spaziale. È più l’interesse tra alcuni
competitor a non portarsi danno piuttosto che un interesse complessivo alla salvaguardia di un
bene naturale. Stoccolma inizia ad avviare invece tavoli di lavoro e strumenti come il programma
delle Nazioni Unite sull’ambiente per gettare le basi di una regolazione comune e condivisa.
Quali sono i principi della dichiarazione di Stoccolma? Il taglio di questa dichiarazione è
antropocentrico, già il primo principio mette l’uomo all’origine della regolazione del fattore
ambientale, mettendo come un a priori assoluto la libertà fondamentale dell’essere umano, che
possa vivere nella dignità e nel benessere. Dall’altra parte un dovere solenne di proteggere
l’ambiente per le generazioni future; spesso questi doveri solenni sono doveri poco assistiti da
sanzioni o da interventi di implementazione normativa, fanno parte di un impegno sull’onore ma
quanto sia sentito dalla grande industria, dalle grandi compagnie… sappiamo che non è così
sentito. In applicazione del principio “sic utere tuo” il principio n. 21 della dichiarazione di
Stoccolma riconosce agli Stati il diritto di sfruttare le risorse in loro possesso e di controllare solo
entro la propria giurisdizione che non si rechino danni all’ambiente degli altri stati.

Rapporto Brundtland
Dopo Stoccolma abbiamo una fase di approfondimento della problematica internazionale
dell’ambiente ed è di nuovo una personalità del mondo scandivano ad essere in evidenza
all’interno della commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, dove viene
approfondita la questione relativa al nostro “futuro comune”: Our Common Future è proprio il
titolo di questo rapporto conosciuto anche come Rapporto Brundtland, dal nome del PM
norvegese che era capo di questa commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, risalente al
1987. Il binomio ambiente-sviluppo sarà un po’ l'asse portante del diritto internazionale e in
questo in questo campo nel corso dei decenni successivi. L'ambiente non è in questo momento
svincolato nella sua protezione dalla necessità di tenere alto il livello di sviluppo economico dei
paesi; non si vuole sacrificare alle esigenze di sviluppo economico la dignità della persona,
l’uguaglianza tra i generi, i diritti ala vita ecc, ma nel caso dell’ambiente lo si protegge, ma sempre
in maniera che sia compatibile con lo sviluppo economico.
Nel Rapporto Brundtland non si parla di ambiente in quanto tale ma ci si riferisce ancora sempre al
benessere delle persone, anche se viene però messo in fronte risalto il principio etico e la
responsabilità di chi oggi agisce nei confronti delle generazioni future.
Nel complesso il Rapporto Brundtland, pietra miliare dal punto di vista dell’approccio
internazionale a queste tematiche, rimane fondamentale per questo accostamento ambiente-
sviluppo e per la genesi dell’ossimoro dello “sviluppo sostenibile”, ovvero uno sviluppo che
soddisfa il bisogno del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
soddisfare i propri. La presenza del genere umano sulla terra è una presenza che pone oggi dei
problemi assolutamente inediti, perché noi abbiamo sfruttato in maniera assolutamente limitata
fino a tre secoli fa le risorse; adesso invece siamo addirittura venuti a creare un’altra era
geologica, un’era nella quale è l’uomo a lasciare un segno visibile sull’andamento dei cicli naturali.
Se questo è il punto è molto complesso sapere se e in che misura stiamo compromettendo il
diritto delle generazioni future.
Secondo la linea interpretativa dello sviluppo sostenibile abbiamo il diritto di sfruttare le risorse
naturali, dobbiamo lasciare intatte delle possibilità future ma non riconosciamo un diritto alle
generazioni future di godere di un certo livello di qualità ambientale. Se si scrive invece che le
generazioni future hanno il diritto di soddisfare i propri bisogni almeno allo stesso livello a cui li
soddisfiamo noi, automaticamente impongo delle responsabilità alle generazioni attuali e dei limiti
allo sviluppo futuro. Siamo in una logica di inizio di contenimento del fattore umano sulla terra,
non ancora di piena responsabilizzazione e di inibizione di determinate attività, inibizione che
rimane puramente teorica nel momento in cui lo sviluppo sostenibile viene declinato in maniera
diversa rispetto alle nuove cognizioni scientifiche. Non c’è comunque documento politico, carta di
intenti o accordo internazionale che oggi non abbia al suo interno l’espressione “sviluppo
sostenibile”, perché è diventato un passe-partout, visto che non ha al suo interno dei criteri
rigorosi di applicazione.
Comunque, Brundtland ha fatto un po’ muovere le fila della comunità internazionale in questo
ambito e questo documento ha soprattutto una valenza preparatoria, di base concettuale,
attraverso la quale si è giunti al turning point del diritto dell’ambiente, ovvero la Conferenza di Rio
su ambiente e sviluppo del 1992.
Conferenza di Rio de Janeiro
Si trattò di un summit veramente mondiale, con 172 governi e 108 capi di stato presenti nelle due
settimane in cui si è svolta questa iniziativa, con un impatto mediatico straordinario perché siamo
in un momento di fibrillazione dell'umanità intera intorno a queste tematiche. Si è appena girata la
pagina sulla corsa agli armamenti nucleari, stoppata con accordi intervenuti nei primi anni
Ottanta, e quindi Rio è il momento in cui per la prima volta vengono discussi aspetti anche inediti
della questione ambientale. In quelle giornate ci si orienta a scavare sui modelli di sviluppo, si
fanno i conti con la governance generale dell’ambiente su scala planetaria e vengono alla luce
quattro temi, che poi troveranno declinazione nei principi sull’integrazione tra ambiente e
sviluppo. Quali sono questi temi?
1. C’è una lunga discussione sui modelli tecnici di produzione, perché si deve riconoscere che il
mondo sta cambiando il modo di produzione, dalla produzione meccanica dello sviluppo
industriale della prima metà del Novecento verso tecnologie nuove che producono tossine,
emissione di metalli pesanti, dell’accumulo dei rifiuti ecc.
2. Questo è il primo momento in cui appare chiaro che bisogna risolvere congiuntamente il
problema della tutela dell’ambiente e del corretto utilizzo delle energie che sono fortemente
dannose per gli equilibri ambientali (à tema rinnovabili era ancora sconosciuto in quegli anni
ed è merito di questo evento internazionale averlo portato all’attenzione dell’opinione
pubblica).
3. Problema dei trasporti, in particolare i trasporti pubblici, per ridurre le emissioni che stanno
provocando congestionamenti nelle realtà umane e problemi enormi dal punto di vista dello
smog e della salute umana.
4. Problematica dell’acqua, di uso delle acque dolci (si dispone che è bene limitato, 2% risorsa
idrica mondiale e distribuito in maniera ineguale).
Il diritto dell’ambiente è un diritto molto giovane e in quanto tale ancora fresco, in formazione ma
anche in urgente necessità di sviluppo.
La conferenza di Rio, così come aveva fatto la Conferenza di Stoccolma, produce una
dichiarazione, molto più articolata della dichiarazione di Stoccolma, che riguarda l’integrazione
ambiente-sviluppo e questo fare i conti con una realtà in forte movimento. Oltre ad essere
declaratoria di questi principi, la dichiarazione di Rio ci apre la strada ad un programma di azione
strutturato in maniera piuttosto significativa, con appositi capitoli che declinano gli obiettivi di
sviluppo sostenibile e gli interventi necessari per la loro attuazione. Rio è anche il luogo e il
momento in cui intorno al tavolo si delinea in maniera molto netta questa dualità tra paesi in via di
sviluppo, che ambiscono a vedere crescere il loro livello di sviluppo, e i paesi sviluppati, con
esigenze diverse. Quindi con una necessità di trovare un punto di equilibrio tra le risorse
disponibili, le volontà degli uni e degli altri e un bisogno anche di giustizia ambientale diversa
rispetto al passato.
In questo calderone di Rio maturano anche due documenti che invece avranno, diversamente
dalle pure dichiarazioni di principio, una destinazione più pratica: sono la Convenzione sui
cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica. La Convenzione sui cambiamenti
climatici rimarrà la matrice di sviluppo delle conferenze delle parti (le COP), degli appuntamenti
annuali nei quali viene fatto il punto sul cambiamento climatico e sulle strategie in atto, e vengono
proposti strumenti di regolazione. Il protocollo di Kyoto nascerà nell’ambito di una COP, così come
l’accordo di Parigi. Sono accordi internazionali a tutti gli effetti che producono conseguenze
giuridiche necessarie nei confronti di chi vi ha aderito.

Quali sono i principi della Dichiarazione di Rio?


Sono 27. Già nel suo incipit la dichiarazione di Rio mette l'uomo al centro della tensione, è ancora
una visione antropocentrica e in scia del Rapporto Brundtland l’uomo ha diritto ad una vita
dignitosa ecc. È un inizio di vincolo imposto agli stati per quanto riguarda i loro comportamenti e i
loro doveri regolativi dei fenomeni economici e di sviluppo, quindi è fondamentale questo sancire
che non c'è soltanto un'aspettativa, c'è un diritto che corrisponde ad un dovere del soggetto
pubblico di agire perché ci sia una vita sana e produttiva, in armonia con la natura.
Nel principio n. 2 gli stati sovrani si premurano di ribadire i concetti che avevamo trovato nella
dichiarazione di Stoccolma e nella dichiarazione “sic utere tuo”, ovvero il diritto sovrano di
sfruttare le risorse, a cui si aggiunge l’idea che questo diritto sovrano debba essere sviluppato
secondo le rispettive politiche ambientali di sviluppo. Siamo su un terreno tutto sommato
equivoco: c'è un dovere di avere una politica ambientale? Se sì, è tutto politica ambientale o
quella che va solo in determinate direzioni? Gli stati hanno il dovere di assicurare che le attività
sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri stati o
di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale.
Nel paragrafo n. 3 la dichiarazione di Rio presuppone che gli stati fanno proprio il concetto di
sviluppo sostenibile, quindi il diritto realizzato in maniera tale da soddisfare le esigenze relative
all’ambiente e allo sviluppo delle generazioni presenti e future. Questo in realtà potrebbe
risolversi con delle esternalità negative nei confronti di altre specie animali o vegetali non ritenute
utili allo sviluppo delle nuove generazioni umane.
Il paragrafo 4 mette in stretta connessione la tutela ambientale con il processo di sviluppo e dice
che in sostanza non li si può mai considerare separatamente. È un principio che l’UE ha sviluppato
nella propria normazione e nelle proprie politiche, al punto di fare della tutela ambientale non più
un discorso separato ma integrato in tutte le proprie politiche. Quindi tutela dell’ambiente è parte
integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo.
Nel paragrafo 6 si da un particolare risalto alla condizione dei paesi in via di sviluppo, in
particolare quelli più vulnerabili sotto il profilo ambientale. Se tutti vengono trattati allo stesso
modo, l’uguaglianza formale di tutti è sicuramente un danno fortissimo per chi si trova in
condizioni di maggior difficoltà. Nella nostra costituzione, art. 3, si mette prima il principio di
uguaglianza formale fra i cittadini e poi il principio di uguaglianza sostanziale: in termini di
principio di eguaglianza formale io posso chiedere che tutti gli studenti che abbiano determinati
requisiti possano entrare e possano accedere al servizio scolastico, ma dal punto di vista
dell’uguaglianza sostanziale devo però tenere conto che ci sono diversità di fondo, chi ha difficoltà
di diversa natura… quindi se qualcuno è in difficoltà deve essere compensato in modo da avere
uguali opportunità, e questo discorso vale anche per gli stati, perché un paese che non ha avuto
opportunità di sviluppo (esempio sfruttamento coloniale) deve essere compensato e non si può
stabilire che debba soggiacere alle stesse regole a cui soggiacciono USA, Europa e Giappone. Ai
diritti differenziati corrispondono responsabilità differenziate e attorno a quest’ultime il discorso
sviluppatosi nella conferenza di Rio è stato particolarmente importante.
Il paragrafo 7 ha avuto una grande risonanza attraverso la COP 21 di Parigi. Stando a questo
principio la logica che deve presiedere alla restaurazione di una qualità adeguata dell’ecosistema
passa attraverso uno spirito di partnership globale. Ma il degrado ambientale, se guardiamo alla
storia, non ci ha visti tutti uguali: c’è chi ha fatto il leone e se c’è una responsabilità comune,
questa responsabilità ha radici lontane e differenzia il livello di richiesto impego per il ripristino di
condizioni adeguate a seconda, appunto, anche delle responsabilità storiche che abbiamo avuto.
Quindi in considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli stati hanno
responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che
incombe loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le
loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono.
Con il principio 8, la dichiarazione di Rio è esplicita nel dire che bisogna ridurre ed eliminare modi
di produzione e consumo non sostenibili e promuovere politiche demografiche adeguate.
Principio 9: nel paniere delle soluzioni che prospetta Rio c’è anche la questione delle tecnologie,
che deve essere letta nella corsa all’accaparramento di brevetti e soluzioni tecniche che sono
cadute per volontà della politica e del diritto sotto il controllo dei regimi di proprietà intellettuale.
Gli stati dovranno cooperare migliorando la comprensione scientifica, facilitando la preparazione,
l’adattamento, la diffusione ed il trasferimento di tecnologie su questo c’è ancora una fortissima
resistenza del mercato e delle forze economiche dominanti.
Il paragrafo 10 introduce un capitolo molto importante che è la problematica della partecipazione
dei cittadini, degli abitanti della terra all’informazione e alla decisione sui processi fondamentali
che riguardano la vita. Gli stati faciliteranno e incoraggeranno la sensibilizzazione e la
partecipazione del pubblico. Abbiamo tre aspetti:
- l’informazione, i cittadini devono sapere se vicino a casa hanno fonti di pericolo o comunque
devono avere informazioni concernenti l’ambiente.
- gli stati hanno assunto l’impegno di rendere partecipe l’opinione pubblica, quindi il secondo
aspetto è la partecipazione. In Italia, ad esempio, per ben due volte con referendum si è
rifiutato di produrre energia atomica.
- un accesso ai procedimenti giudiziali e amministrativi, perché si deve poter bloccare,
attraverso l’intervento dell’autorità giudiziaria, alcuni atti.
Nel paragrafo 11 si fa riferimento agli standard ecologici, gli obiettivi e le priorità di gestione
dell’ambiente, che vanno commisurati al contesto ambientale di sviluppo (non posso applicare
stessi standard alla Finlandia e al Sudan).
Il paragrafo 12 riguarda il fatto che si possono introdurre delle misure nel campo delle politiche
commerciali, a scopo di tutela dell’ambiente. Ma la Dichiarazione ci dice che queste misure
ecologiche non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o ingiustificata. È molto
presente la problematica del commercio internazionale come motore dei tempi moderni, che
vuole meno vincoli e restrizioni per potersi sviluppare. A volte è difficile stabilire quale sia il limite
di una politica di tutela dell’ambiente che può restringere lo spazio alla produzione e
commercializzazione e dove questo meccanismo di tutela non sia che una forma mascherata di
protezionismo.
Principio 13: gli stati svilupperanno il diritto nazionale in materia di responsabilità e risarcimento
per i danni causati dall’inquinamento e altri danni all’ambiente e per l’indennizzo delle vittime. A
seguire si deve costruire l’istanza internazionale, ma al momento non è ancora stabilita una
giurisdizione piena per i danni internazionali provocati all’ambiente.
Nel principio 14 abbiamo un divieto (anche se si parla di scoraggiare) di ricollocazione o
trasferimento di attività e sostanze pericolose che provocano un grave degrado dell’ambiente e si
dimostrano nocive per la salute umana.
Il paragrafo 15 introduce il principio di precauzione, quello che ci permette/obbliga ad intervenire
quando c’è rischio di gravi danni irreversibili. L’assenza di certezza scientifica assoluta non deve
servire da pretesto per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai
costi, dirette a prevenire il degrado ambientale. Il DDT ad esempio si utilizzava molto, ma dopo è
stato appurato che era fonte di gravissime malattie anche per l’uomo.
Principio 16: l’internalizzazione dei costi per la tutela ambientale e l’uso di strumenti economici,
considerando che, in linea di principio, è l’inquinatore a dover sostenere il costo dell’inquinamento
(= “chi inquina paga”), tenendo nel debito conto l’interesse pubblico e senza alterare il commercio
e le finanze internazionali. Tutti i fenomeni di sicurezza ecc diventano un po’ recessivi di fronte al
“Dio mercato” purtroppo.
Al paragrafo 18: gli stati notificheranno immediatamente ogni catastrofe naturale o ogni altra
situazione di emergenza.
Stando al paragrafo 19, gli Stati invieranno notificazione previa e tempestiva gli Stati
potenzialmente coinvolti e comunicheranno loro tutte le informazioni pertinenti sulle attività che
possono avere effetti transfrontalieri seriamente negativi sull'ambiente ed avvieranno
consultazioni in buona fede. Si vuole giocare d’anticipo perché gli stati notificano anticipatamente.
Al paragrafo 20 la dichiarazione di Rio ricorda che le donne hanno un ruolo vitale nella gestione
dell’ambiente e nello sviluppo. La loro piena partecipazione è quindi essenziale per la realizzazione
di uno sviluppo sostenibile.
Il paragrafo 21 sottolinea il ruolo dei giovani di tutto il mondo, che devono essere mobilitati per
creare una partnership globale idonea a garantire uno sviluppo sostenibile e ad assicurare a
ciascuno un futuro migliore.
Paragrafo 22: vengono messe in risalto anche le popolazioni indigene e le altre collettività locali,
che hanno un ruolo vitale nella gestione dell’ambiente e nello sviluppo grazie alle loro conoscenze
e pratiche tradizionali. Questi popoli hanno sempre cercato l’armonia con la natura e hanno una
sensibilità ai cicli naturali che deve essere riscoperta. Il 1992, anno di Rio, è esattamente il
500esimo anniversario della scoperta dell’America e nel celebrare questo c’è stato un grande
risveglio dell’indigenismo, e in questo il senso della riappropriazione di un rapporto con la natura.
Paragrafo 23: l’ambiente e le risorse naturali dei popoli in stato di oppressione, dominazione ed
occupazione saranno protetti. Anche il turismo può avere un impatto a livello di inquinamento.
Nel paragrafo 24 ci si riaggancia a quanto detto sopra, perché la protezione ambientale collide
con la problematica della guerra, dove si pensa ben poco alla protezione del mondo animale e
vegetale, che diventano solo teatro di uno scontro. Quindi gli Stati si impegnano a rispettare il
diritto internazionale relativo alla protezione dell'ambiente in tempi di conflitto armato.
Il principio 25 afferma che la pace, lo sviluppo e la protezione dell'ambiente sono interdipendenti e
indivisibili.
Nel principio 26 gli Stati si impegnano a risolvere le loro controversie ambientali in modo pacifico
e con mezzi adeguati in conformità alla Carta delle Nazioni Unite (che però è vecchia dal punto di
vista della tutela dell’ambiente e andrebbe aggiornata).
Nell'ultimo principio “gli Stati di popoli coopereranno in buona fede ed in uno spirito di
partnership all'applicazione dei principi consacrati nella presente Dichiarazione ed alla progressiva
elaborazione del diritto internazionale in materia”.

Limiti della Dichiarazione di Rio: non è un atto vincolante, non è diritto cogente che fissa diritti e
doveri, ma è una soft law. È sostanzialmente una mera raccomandazione non direttamente
applicabile, gli standard e i divieti verranno dopo.

Protocollo di Kyoto
Il termine protocollo si può assimilare a quello di un accordo formale, che è stato effettivamente
sottoscritto da un numero elevato di soggetti. Ma questo si inserisce nel solco della Convenzione
sui cambiamenti climatici, uno dei due documenti vincolanti stipulati in occasione della conferenza
di Rio e che farà da convenzione madre per i due protocolli applicativi successivi. Questa
Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici è stata adottata in seno alla
conferenza delle parti, COP 3, a Kyoto in Giappone nel 1997. I paesi si sono ritrovati per stabilire
riduzioni delle emissioni di gas serra, in particolare per i paesi che ne sono maggiori produttori. I
gas serra fanno una specie di velo interno alla crosta terrestre, provocando degli effetti molto
simili a quelli che provoca il fatto di coprire con del vetro una serra: il risultato è che la
temperatura cresce progressivamente. Appare già chiaro alla comunità internazionale che l’uomo
sta provocando alterazione climatica e che si deve intervenire. Kyoto a tal proposito introduce dei
meccanismi flessibili, non rigidi di limitazione, paese per paese; la grande trovata degli attuatori di
questo regime è lo scambio di quote di emissione. Quote di “diritto di inquinare” trasferendolo ad
altri soggetti, purché nel complesso non ci si sfori la quantità complessiva contemplata.
Questo sistema è entrato in vigore nel 2005: otto anni di tempo prima di avviare il sistema con le
ratifiche dei paesi (192), anche se gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro. Il sistema è ancora
attivo ma ha dato risultati piuttosto deludenti, perché questi meccanismi che dovevano consentire
la realizzazione di progetti anche di lunga durata e che consentiva un mercato vero e proprio alla
fine ha dato risultati nettamente al di sotto delle attese. Il meccanismo di Kyoto non era dotato di
meccanismi sanzionatori adeguati.
L’Europa è stata la regione del mondo che ha applicato anche al suo interno la logica di Kyoto,
ottenendo dei risultati significativi.
In qualche caso le decisioni del diritto internazionale sono state efficaci; circa 20 anni fa ci fu una
fortissima preoccupazione ambientale legata al buco nell’ozono. L’accordo di Montreal per
mettere al bando i gas serra che causavano questo si è dimostrato efficace, cosa che non è stata
per il protocollo di Kyoto. La COP 21 di Parigi invece ritornerà sull’argomento e imposterà in
maniera diversa una possibile soluzione.

Convenzione di Aarhus
È stata fatta nel 1998 e dà attuazione a quei principi proclamati a Rio de Janeiro di informazione,
partecipazione e ricorso all’autorità giudiziaria in materia di ambiente. È una pietra miliare e uno
strumento legalmente vincolante, per cui in assenza di determinati strumenti partecipativi,
informativi e di giustizia si ha diritto al riconoscimento di particolari diritti in capo alle persone, per
cui questo che sembrerebbe un riconoscimento di diritti solo individuali si sostanzia si sostanzia in
un processo di democrazia ambientale. Questo è un aiuto sostanziale a processi virtuosi anche
nelle dinamiche transfrontaliere che riguardano l’ambiente. L’Italia l’ha ratificato nel 2001 questo
dispositivo normativo vincolante e utilizzabile nelle aule di giustizia. Il pilastro di questo trattato
copre sia il diritto passivo, sia vale come apertura di una richiesta individuale di fornire dettagli che
aggiornino e diffondano informazioni che riguardano l’ambiente. L’informazione ambientale
prende uno spazio molto ampio e copre una serie di fenomeni, risorse che possono essere
influenzati negativamente da determinate misure. Questo obbligo informativo non deve essere
protratto oltre determinati limiti, è accelerato e può assumere forma diversa (filmica, fotografica,
di tabulati…) e copre molte situazioni per cui qualunque persone può attivarsi.

Dichiarazione di Johannesburg sullo Sviluppo Sostenibile


Fatto 10 anni dopo Rio, nel 2002. Anche qui la presenza del mondo del business, dell’associanismo
ecc. è stata decisiva. Venne organizzato e fortemente voluto dall’ONU.
Si afferma la necessità di strumenti più stringenti di indirizzo politico e di azione, anche per quanto
riguarda la tempistica: qui è importante l’Obiettivo 2010 sulla biodiversità. Se noi sopprimiamo
determinate specie animali o vegetali abbiamo automaticamente delle ripercussioni su tutte le
altre specie, non possiamo risolvere un problema senza sapere che ne provochiamo a cascata degli
altri. A Johannesburg i protagonisti economici e le ONG si sono detti che bisognava rafforzare i
partenariati piuttosto che le decisioni autoritative, non facilmente accettabili soprattutto da alcuni
paesi. Siamo negli anni della presidenza Bush jr. e gli USA hanno dichiarato espressamente che
quell’evento non sembrava rilevante per il loro paese (pulsioni isolazioniste degli Stati Uniti sono
molto forti e ricorrenti).
La Dichiarazione di Johannesburg mette l’accento su alcuni fattori più profondi, che non erano
stati ancora totalmente eviscerati. Ad esempio, al punto 11 si dice che occorre sradicare la
povertà, cambiare i modelli di consumo e produzione insostenibili e proteggere e gestire le risorse
naturali. Modello di consumo e modello di produzione diventano obiettivi entrambi indispensabili
e collegati fra di loro: obbligando il consumatore a comportamenti più virtuosi anche il produttore
sarà incentivato a correre dietro questo tipo di scelta (es. scegliere automobili di un tipo piuttosto
che l’altro).
Punto 13: “la perdita di biodiversità, la desertificazione, gli effetti nocivi del cambiamento
climatico, i disastri naturali più frequenti e devastanti ed i paesi in via di sviluppo sempre più
vulnerabili, l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei mari continua a negare una vita dignitosa a
milioni di persone”.
La sottolineatura che viene fatta a favore dei paesi in via di sviluppo è molto forte: Johannesburg è
un po’ una tribuna del Terzo Mondo che riporta alla ribalta il discorso che era stato fatto 10 anni
prima sulle responsabilità comuni ma differenziate. I costi e i benefici della globalizzazione non
sono distribuiti equamente, come messo in risalto dal punto 14.
Al punto 15 si afferma che siamo di fronte a disparità globali, con i poveri del mondo che
potrebbero perdere fiducia nel sistema democratico e nello sviluppo del progresso e della civiltà.
Ricorre al punto 16 anche la partnership per il cambiamento.
Punto 24: particolare attenzione ai bisogni di sviluppo delle Piccole Isole e dei Paesi meno
sviluppati, con isole che vengono progressivamente sommerse e comunità che devono evacuare
queste realtà.
Si chiamano gli stati a raccolta, ma fa Johannesburg mette in prima fila i colossi economici e
finanziari nel contribuire alla sostenibilità sociale e all’equità sociale. È il tema della responsabilità
scoiale ed ambientale di queste società e multinazionali, che viene affrontato al punto 27. Se
nasce una vera coscienza ambientale di questi grandi player, loro possono fare molto di più di
quanto non possono fare i paesi nel regolare questi fenomeni. Dobbiamo anche tenere presente la
responsabilità di filiera, ovvero che un prodotto non è fatto soltanto da una società, che può
prendere i materiali e trasformarli. La catena produttiva parte dalla raccolta delle materie prime e
coinvolge molti attori. Dobbiamo investire di responsabilità non più le multinazionali, come dice
Johannesburg, ma dobbiamo agire per filiera e risanare eticamente i comportamenti di tutta una
filiera.

Quale sfondo diamo ala proiezione di Johannesburg? Gli diamo l’obiettivo che l’ONU si è dato con i
cosiddetti 8 Obiettivi di sviluppo del Millennio, che sono diventati patrimonio praticamente di
tutta l’umanità, con un impegno a raggiungerli nel 2015. Questi 8 obiettivi sono:
• sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo
• rendere universale l’istruzione primaria
• promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne
• ridurre la mortalità infantile
• ridurre la mortalità materna
• combattere HIV/AIDS, la malaria e altre malattie
• garantire la sostenibilità ambientale
• sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo

L’accesso all’acqua è considerato uno dei diritti fondamentali, imprescindibile. La risoluzione


dell’Assemblea delle Nazioni Unite 64/92 del 2010 riconosce che il “diritto all’acqua potabile ed ai
servizi igienico sanitari è un diritto dell’uomo essenziale alla qualità della vita e all’esercizio di tutti
i diritti dell’uomo”. Quindi l’accesso all’acqua come un diritto umano universale, autonomo e
specifico. Dovremmo pensare al diritto all’acqua anche per le specie animali e vegetali, non solo
ad un human right.
Accordo di Parigi
È stata operata una scelta che poggia sulla scientificità dell’IPCC in seno alla COP 21. Stabilisce un
quadro globale per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C (con sforzi per limitarlo a
1,5°C) e rappresenta il primo accordo giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici. Non è
un trattato internazionale e non richiedeva un protocollo attuativo da parte del Parlamento degli
Stati Uniti, che si sono tolti dall’accordo con la presidenza Trump. Lo sfilarsi degli USA da questo
tavolo è stato un contraccolpo molto forte, perché da soli pesano circa il 40%. L’accordo punta a
rafforzare la capacità di resilienza nell’affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici.
Competenze e politiche dell’ambiente nell’UE

Il diritto dell’Unione è anch’esso in qualche modo una forma di diritto transnazionale, attraverso
un’unione di stati che conserva comunque la propria sovranità.

Fonti dell’Unione europea


Per il suo modo di organizzare il diritto, l'Unione europea è il frutto di un’evoluzione che ci ha
portati dalle comunità europee - CECA nel 1951, Trattato di Roma nel 1957 - al Trattato di
Maastricht e quindi alla sua nascita. Il Trattato di Roma, che si può definire come l’atto di nascita
delle comunità europee, non conteneva nessun riferimento all’ambiente per due motivi:
1. la nozione di ambiente è una nozione di lenta emersione, avvenuta successivamente agli anni
‘50
2. il trattato di Roma e il precedente atto fondativo della Comunità del carbone e dell'acciaio
sono finalizzati a motivi prettamente economici, per avere migliori condizioni di vita.
Quindi nel trattato di Roma ci sono solo riferimenti alle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini, si
parla dell’ambiente di lavoro, dell’ambiente domestico… non degli ecosistemi e delle relazioni con
il mondo animale e vegetale. È solo trent’anni più avanti che abbiamo una prima svolta con l’Atto
Unico Europeo del 1986, che colloca all’interno del Trattato dell’Unione europea un titolo
specifico dedicato all’ambiente. È un’apertura significativa su un piano nuovo di politiche, anche
se in maniera molto limitata e con forti riserve. Tra il 1986 e il Trattato di Lisbona queste aperture
saranno molto consolidate e verranno in evidenza degli obiettivi chiave che già venivano
individuati nell’Atto unico europeo, che sono la salvaguardia, la protezione e miglioramento della
qualità dell'ambiente, la protezione della salute umana, l'utilizzo azione razionale delle risorse
naturali. Tutto questo ha però un’apertura graduale e successiva che trascende i limiti immaginati
negli anni Ottanta, periodo in cui emergono per la prima volta fenomeni di inquinamento
significativi (ad esempio è in quegli anni che circola il termine smog). L’Unione coglie subito
quest’opportunità, è un tavolo in cui queste decisioni vengono prese con relativa facilità perché
ponendole ad un livello superiore, della Comunità europea, questi problemi vengono affrontati su
una scala maggiore e con minor necessità da parte della politica dei singoli stati di assumere in
prima persona delle decisioni impopolari. Molte delle decisioni che vengono prese in materia
ambientale sono delle decisioni che in qualche modo impattano riluttivamente sulle attività che
possono essere svolte, sono fondamentalmente dei divieti. Ma mettere dei divieti in qualsiasi
regime è sempre un qualcosa che costa in termini di popolarità e in termini di gradimento da parte
dei propri elettori e siccome l'Unione europea è vista come un'entità sulla statale un po’ distante,
fa gioco ai governanti dire che si fa perché l’ha detto l’Unione europea.
Anni dopo l’Atto Unico Europeo siamo al salto che trasforma le comunità europee in Unione
europea, operato con il Trattato di Maastricht, che consente un rafforzamento degli scopi
dell’azione UE in materia ambientale. Lo fa implementando gli obiettivi con l’introduzione di una
competenza a promuovere a livello internazionale misure idonee a fronteggiare i problemi sia
regionali (quindi continentali) che planetari dell’inquinamento. Questo viene voluto
espressamente nei trattati perché il 1992 è un anno chiave nel diritto ambientale, con la
convenzione di Rio, e ci si rende conto che a Rio sono andati 12 paesi dell’UE ciascuno dicendo la
sua opinione, ma quando si tratta di prendere posizione su dossier molto delicati è meglio operare
in maniera coordinata, ed è per questo che la promozione di queste misure idonee a fronteggiare i
problemi dell’inquinamento viene innalzata al livello dell’Unione europea.
Secondo aspetto significativo dell’evoluzione portata dal trattato di Maastricht è la questione del
clima, infatti quegli anni sta venendo alla luce in maniera molto evidente l'influenza umana sul
cambiamento climatico e per questo la lotta al cambiamento climatico viene messa nelle mani
dell’istituzione europea. È un po’ la logica della sussidiarietà, una dinamica generale per cui fino ad
un certo punto gli stati sono in grado di dare risposte adeguate, ma su altre questioni come la lotta
ai gas serra la decisione del singolo paese conta poco ed è meglio assumere decisioni collettive.
Nel Trattato di Amsterdam del 1997 (entrato in vigore nel ’98) abbiamo una vicenda che è un po’
la conseguenza dell’assestamento dato dal Trattato di Maastricht, perché vengono di nuovo
precisati e denunciati in maniera ancora più dettagliata gli obiettivi dell’articolo 174 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea: la salvaguardia, la tutela e il miglioramento della qualità
dell'ambiente, proteggere la salute, utilizzare razionalmente le risorse naturali, promuovere
misure a livello internazionale, indirizzare le scelte degli stati in materia di fonti di energia e di
approvvigionamento energetico. C’è scritto “indirizzare le scelte degli stati” perché proprio nella
relazione delicatissima tra energie e clima, abbiamo un nodo delicato per l’Unione europea, che
non ha tutt’ora mano libera nel definire le politiche europee. Ci sono forti riserve statali, da
leggere alla luce di dati oggettivi delle economie di questi paesi. In particolare, ci sono due paesi,
entrambi interessati a non cedere totalmente le chiavi della decisione energetica all’UE:
- la Francia, ancora molto largamente dipendente dall’energia nucleare, che non accetta che sia
l’Unione europea ad indicarle la strada per un’eventuale uscita dal nucleare, ritiene che sia una
questione sovrana e si è fortemente battuta perché fossero introdotte delle riserve statali su
questo tema
- la Polonia, dove abbiamo una larga dipendenza ancora oggi dell'intera economia, del
riscaldamento domestico dal carbone. Questa è stata proprio una delle ragioni per cui è stato
convocato proprio a Katowice nel 2018 il summit della COP 24. Oltretutto si tratta di un paese
che sta maturando un orientamento fortemente nazionalista e non si è piegato a lasciarsi
dettare delle regole e porre dei limiti nel suo ricorso alla fonte del carbone.
Fonti di energia e approvvigionamento energetico fin dal trattato di Amsterdam, in maniera
formale rimangono fuori dalla porta delle politiche europee, fintantoché gli stati non raggiungono
un’intesa unanime o non consentono a qualcuno che lo richieda di svincolarsi da queste decisioni.
Nel 2000 è la Carta dei diritti fondamentali UE ad introdurre elementi di novità, che sono legati al
riconoscimento di un diritto individuale sull’ambiente. Nella proclamazione della carta di Nizza,
della carta dei diritti dell'Unione europea, noi troviamo una formulazione interessante e che oggi è
a tutti gli effetti diritto vigente dell'Unione europea, perché dalla fase di ora proclamazione nel
2001 alla conferenza intergovernativa a Nizza, si è arrivati con il Trattato di Lisbona
all’approvazione dell’incorporazione di questa carta nei trattati. Il Trattato dell’UE oggi dispone
che i diritti indicati in quella carta sono a tutti gli effetti da considerare norma di trattato e quindi
con l’art. 37 relativo alla tutela dell’ambiente noi siamo in presenza di una norma che ha una sua
precisa giuridicità e che può essere anche indicata come fonte di riferimento per la decisione di
questioni giudiziali all’interno dei singoli stati (diritto dell'unione europea ha un effetto diretto sul
diritto interno dei singoli stati). L’art. 37 indica una doverosità dell’azione comunitaria nel
raggiungere un elevato livello di protezione ambientale e un miglioramento della sua qualità:
questi due obiettivi devono essere integrati e garantiti in conformità al principio dello sviluppo
sostenibile. L’elevato livello di tutela dell’ambiente e l’incremento qualitativo dello stesso non
rappresentano un obiettivo di politica a sé stante, non c’è soltanto una politica ambientale dell’UE,
c’è un permearsi di questa politica in tutte le politiche dell’Unione, che si parli di agricoltura, di
trasporti, di industria, di navigazione… sempre dobbiamo considerare che la salvaguardia di questo
livello di tutela ambientale è onnipresente e quindi da integrare nelle scelte politiche dell’Unione e
nelle politiche che l’Unione mette in campo. Accanto a questa necessità di integrazione, dobbiamo
riconoscere che metro a cui viene commisurata l'attuazione di questa politica è il principio dello
sviluppo sostenibile: è come se dicessi che questa garanzia di tutela ambientale deve sempre
essere messa al vaglio della sostenibilità futura di queste decisioni e in modo che siano perseguiti
al tempo stesso gli interessi di crescita economica e di tutela dell'ambiente.
Art. 3.3 del Trattato sull’Unione europea: “l’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile
dell’Europa, basato su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”.
Art. 11 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea: “Le esigenze connesse con la tutela
dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni
dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. È una norma
diversa, pur dicendo cose molto simili, perché è una norma di condotta, mentre l’altra è una
norma programmatica essenzialmente, di obiettivo. Mi dice che non potrò fare più nessun genere
di norma senza iscrivere anche la finalità di tutela ambientale e la prospettiva del raggiungimento
di uno sviluppo sostenibile.
Art. 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea: la politica dell’UE in materia
ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi:
- salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente
- protezione della salute umana
- utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali
- promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell'ambiente a
livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici.
# Sempre all’art. 191 troviamo anche un’ulteriore declinazione dell’elevato livello di tutela, da un
lato per dare conto della diversità di situazioni che possono avere le varie regioni dell’UE: “la
politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della
diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione”.
Segue con “essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della
correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio ‘chi
inquina paga’”. Il principio di precauzione implica che bisogna essere documentati sullo stato della
scienza, in relazione a determinati fenomeni ciò che ci insegna la scienza deve essere valutato
attentamente per prevedere possibili rischi. Oltre a questa possibilità di intervento preventivo
abbiamo altri principi come quello di correzione in via prioritaria alla fonte, ovvero “non
limitiamoci ad intervenire a valle del problema, evitiamo per esempio di produrre determinati
rifiuti”. E poi c’è un terzo profilo che è il principio “chi inquina paga”.
Gli stati sono parte di queste politiche, condivise nel momento in cui vengono adottate a livello
europeo, perché ogni stato vota nel Consiglio dell’Unione europea attraverso il suo ministro
competente, ma gli Stati rimangono anche responsabili “in ultima istanza” di situazioni
dell'ambiente che possono diventare anche molto problematiche per le popolazioni. Quindi ci
sono delle misure di armonizzazione (vuol dire avvicinamento delle legislazioni) e quando ci sono
queste misure gli stati rimangono comunque liberi di adottare misure provvisorie, in ottemperanza
con il comma 2 dell’art. 191 per la salvaguardia dell’ambiente e la tutela della salute umana.
Queste misure devono essere rese note all’Unione europea, che quindi può esprimersi ed
eventualmente intervenire in merito.
# Al comma 3 dell’art. 191, viene riportato che l’Unione, nel predisporre la sua politica in materia
ambientale, tiene conto:
- dei dati scientifici e tecnici disponibili à già sappiamo devono essere disseminati nell’opinione
pubblica, secondo i principi della Convenzione di Aarhus
- delle condizioni dell'ambiente nelle varie regioni dell'Unione
- dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall'azione o dall’assenza di azione
- dello sviluppo socioeconomico dell'Unione nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle
sue singole regioni à ripartire equamente il peso delle politiche in relazione allo sviluppo delle
varie aree, quindi dosare l’intervento.
# Comma 4: la collaborazione con i paesi terzi e con le organizzazioni mondiali che operano nel
settore diventa materia di competenza UE. L’UE può stipulare trattati, firmare accordi, ma nel fare
questo non esclude la possibilità che gli stati facciano altrettanto. È un problema delicato quello
della concorrenza tra l'Unione europea e gli Stati membri e come andiamo a risolverlo? C’è un
problema di scala innanzitutto: l’UE si atterrà alla necessità di fare accordi che abbiano interesse
generale, non si sostituirà alla Croazia nel fare un accordo con uno stato confinante come la Serbai
ad esempio, ma lascerà che la questione locale venga regolata. Non ci dovrebbe essere una
concorrenza, se non nel senso di una complementarità degli accordi, che vengono siglati ai due
livelli.
Art. 192: Il Parlamento europeo il Consiglio (due organi legislativi dell’Unione), deliberando
secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e
sociale e del Comitato delle regioni, decidono in merito alle azioni che devono essere intraprese
dall'Unione per realizzare gli obiettivi dell'articolo 191. La procedura legislativa ordinaria vuol dire
che deve essere votato lo stesso testo da entrambi gli organi, Parlamento e Consiglio, e con
accortezza particolare di fare precedere questa decisione da un parere che devono esprimere le
due assemblee consultative dell’Unione, il Comitato economico e sociale e il Comitato delle
regioni, appunto.
# L’art. 192 delle precisazioni poi al secondo comma. Le decisioni principali in materia ambientale
sono assunte quindi con procedura legislativa ordinaria, quindi con una semplice maggioranza, il
che vuol dire che se qualche paese non è d’accordo questo disaccordo viene facilmente superato.
Ma ci sono dei casi nei quali l'Unione europea non può deliberare senza avere raggiunto
un’unanimità suo interno: è la procedura legislativa speciale, che vede il Parlamento parecchio
abbassato nel suo livello di influenza perché è solo consultato, mentre è il Consiglio (i ministri) che
resta l’unico detentore del potere di decisione finale. Il Consiglio deve deliberare all'unanimità
secondo una procedura legislativa speciale, per:
a) disposizioni aventi principalmente natura fiscale
b) misure aventi incidenza:
- sull'assetto territoriale
- sulla gestione quantitativa delle risorse idriche o aventi rapporto diretto o indiretto con la
disponibilità delle stesse (non significa gestione sulla qualità delle acque, su cui l’UE lavora
molto bene, vedi Direttiva quadro acque n. 60 del 2000)
- sulla destinazione dei suoli, ad eccezione della gestione dei residui
c) misure aventi una sensibile incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di
energia sulla struttura generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo
d) il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della commissione e previa consultazione
del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, può
rendere applicabile la procedura legislativa ordinaria alle materie di cui al primo comma. È una
“clausola passerella”, vuol dire un cambiamento che avviene senza mettere in discussione i
trattati; su questi temi però la passerella non è ancora stata gettata.
# Al comma 3 si dice dello strumento principe dell’azione comunitaria. Di nuovo si parla della
procedura legislativa ordinaria, seguita per adottare programmi generali di azione. Il programma
generale di azione è uno strumento che è stato utilizzato dall'Unione anche prima di avere
consolidato con tutte queste competenze.
# Queste misure che vengono adottate devono essere sviluppate attraverso una strategia
coordinata, mettendo poi a finanziamento i singoli stati: non è detto che tutto ciò che fa in questo
programma di azione dell’UE sia finanziato dall’UE stessa. L’Unione funge da luogo di discussione e
coordinamento delle politiche, ma poi sono i singoli stati a provvedere all’esecuzione e al
finanziamento delle misure. A volte il finanziamento ricade direttamente sui consumatori, magari
sotto forma di tasse, oppure con l’applicazione del principio “chi inquina paga”: l'unione può ad
esempio disporre che i centri abitati hanno bisogno di depuratori e questo ricade direttamente sui
cittadini.
# comma 5: qualora le misure implichino costi ritenuti sproporzionati per le pubbliche autorità di
uno Stato membro, tale misura prevede disposizioni appropriate. Può succedere che siano
necessarie delle deroghe temporanee, che qualcosa risulti difficile da fare in un periodo, oppure il
sostegno finanziario del Fondo di coesione istituito in conformità all'articolo 177.
Art. 193: niente impedisce agli stati di prendere provvedimenti di protezione maggiore, e qui è
visibile la logica della concorrenza in senso positivo. Tali provvedimenti devono essere compatibili
con i trattati e notificati alla Commissione.

Quindi la competenza dell'Unione è una competenza di natura concorrente, trasversale (cioè


esigenze ambientali integrate in altre politiche), a carattere misto. È prevista una pluralità di
strumenti e di forme di intervento, una riserva importante a favore degli Stati membri e la quasi
totalità delle norme nazionali ambientali attuali ha origine o ispirazione europea.
Si è progressivamente devoluto all’Unione il compito di regolare questa materia laddove i singoli
stati non potessero fornire risposte adeguate.

Quadro generale
I programmi di azione pluriennali dell’UE hanno uno sviluppo abbastanza lungo, oggi viaggiamo
nell’ordine dei 6-7 anni. Il contenuto di questi programmi è cresciuto nel tempo e ha assunto
caratteri di grande apertura e di grande larghezza.
Nel 1973 abbiamo avuto il primo momento di considerazione del “Our common future” con la
conferenza di Copenaghen, e in questo contesto i programmi pluriennali di azione hanno scandito
lo sviluppo dell’azione dell’Unione europea, hanno permesso a tutti di ritrovarsi in questa logica.
Quindi proprio nel 1973 abbiamo l’inizio dei PPA (programmi d’azione) prodotti dalla Commissione
europea. Adesso viviamo gli ultimi anni del piano d’azione “Vivere bene, entro i limiti del nostro
pianeta” (Living well, within the limits of our planet”), il VII piano d’azione (2013-2020), un piano
molto intenso con delle iniziative in 9 obiettivi strategici che coinvolgono tutti i settori di azione
dell’UE: protezione della natura; maggiore resilienza ecologica; crescita sostenibile, efficiente e a
basse emissioni di carbonio; lotta contro le minacce alla salute legati all'ambiente…
Adesso siamo alla vigilia di un ulteriore salto in avanti, di un nuovo programma ancora più
ambizioso sul quale per la prima volta la Commissione ha deciso di farne l’oggetto di un’azione
prioritaria, anche se con la pandemia le tematiche ambientali hanno perso visibilità. La transizione
verso un sistema di minor o addirittura nessuna emissione di CO2 richiede il drenaggio di
un’enorme quantità di risorse per una ristrutturazione degli impianti produttivi, dei sistemi di
trasporto ecc, e questo drenaggio è in controtendenza con la necessità di avere maggiori risorse
per fronteggiare la pandemia e per non lasciar cadere il livello di benessere raggiunto in questi
anni.
Dagli anni Settanta in poi l’Unione europea ha fatto molto, perché gli interventi che si sono attuati
all’interno dei programmi ma con strumenti di carattere legislativo sono operanti in tutti i campi,
in particolare acqua, atmosfera, suolo, fauna e flora. La conservazione diretta di ambienti naturali
ha già una storia antica nell’Unione e ha portato all’istituzione di strumenti omogenei tra i paesi: ci
sono i programmi life e molti programmi di tutela che riservano, attraverso le decisioni che
prendono i singoli stati, spazi molto ampi per salvaguardare spazi molto ampi. La politica
ambientale non si esaurisce nell’istituzione di parchi e aree protette, ma è un passo importante. Il
nostro continente ha una storia diversa rispetto al continente americano, dove si è sviluppata la
tecnica giuridica moderna di tutela dell’ambiente; le scelte che sono state fatte sono andate nella
direzione di mantenere enormi spazi di natura libera dal condizionamento, spazi che nell’Unione
non ci sono. In questi spazi è rifiutato l’intervento dell’uomo anche a ripristino di determinate
funzionalità (es. no reazione di rimboschimento o contenimento di incendi, si pensa che la natura
debba fare il suo corso). Il nostro contesto invece è con presenze antropiche anche massicce,
all’interno di determinati spazi, quindi siamo più proiettati ad una convivenza tra questi due
momenti, ma le direttive dell’UE puntano a salvaguardare alcuni spazi di tutela cosiddetta
integrale, siano essi ambienti boschivi, marini ecc.
Uno dei campi da cui è partita la lotta all’inquinamento è stato l’inquinamento acustico: una
protezione della salute umana attraverso la lotta all’inquinamento acustico, e su questo l’UE ci ha
indirizzato ad un livello alto di tutela. In questo possiamo riconoscere una sorta di avanguardia
nella legislazione europea a cui si sono poi ispirati moltissimi paesi. Ci sono dati risalenti
addirittura al 1970 per la lotta all’inquinamento acustico; fronte della lotta per l’inquinamento
acustico c’è stata la lotta all’inquinamento atmosferico. Gli anni ’70 vedono diffondersi una
fortissima preoccupazione per l’inquinamento nei fiumi e nella rete delle acque, questo per effetto
di sversamenti incontrollati sia di carattere urbano (con il diffondersi di malattie), sia di sostanze
chimiche trattate dall’industria e non oggetto di una depurazione prima dell’immissione nei corsi
d’acqua. Negli anni Settanta ci furono prima interventi robusti da parte della magistratura: si parlò
di pretori d’assalto perché usavano strumenti che non erano stati concepiti per il diritto
ambientale. Però a livello europeo si è sviluppato il problema dell’inquinamento atmosferico, con
un effetto molto visibile sulle foreste dell’area continentale, in Germania in particolare, per effetto
del trasferirsi di grandi quantitativi di emissione di carbone dall’Europa dell’Est sulle foreste
tedesche: furono le cosiddette piogge acide, che determinarono l’UE ad adottare un quadro
normativo efficace, stringente, nel quale tutti i paesi potessero fare la loro parte assumendo
iniziative coordinate e ben definite.
Si è poi mossa in questa linea l’Unione anche sul terreno che si è manifestato a partire dagli anni
’90 dell’allarme suscitato dall’emissione dei gas serra. Nel trattare del diritto internazionale ci
siamo concentrati sul tentativo, sviluppato nella COP 3 di Kyoto, di trovare un meccanismo di
contenimento dei gas serra attraverso lo scambio delle quote. Questo meccanismo di scambio ha
avuto proprio nell’UE il suo soggetto più convinto e la direttiva 2003/87/CE è frutto di questa
scelta di combattere il cambiamento climatico attraverso tale sistema. È già diritto dell’UE la
limitazione dei gas a effetto serra, gli impegni vengono presi in un quadro coordinato.
Un passaggio fondamentale nel predisporre strumenti di tutela ambientale, che funge anche da
supporto a tutte le politiche dell’Unione (politica agricola, industriale...) è il meccanismo REACH,
istituito nel 2006 per la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e restrizione delle sostanze
chimiche. L’opinione pubblica non ha la percezione di quante diverse sostanze chimiche siano
utilizzate e del danno che possono portare all’ambiente e alla specie umana stessa in seguito alla
loro diffusione nella natura. Determinati rifiuti risultano difficilmente trattabili, risultano di durata
secolare o millenaria nel corso del tempo e non si rimettono in un circolo naturale. La
registrazione di questi nuovi prodotti, l’eventuale autorizzazione al loro utilizzo, i limiti che
possono essere prescritti rappresentano uno sforzo che solo un organismo di carattere tecnico
particolare qualificato, ma anche che opera a livello molto ampio, può affrontare. Pensare che
Malta, Cipro e Lussemburgo riescano singolarmente ad avere strumenti informative di
monitoraggio adeguati è pura illusione. Nell’ambito di un normale sviluppo del principio di
sussidiarietà l’Unione deve farsi carico di cosa può essere invece affrontato a livello comunitario, e
la REACH ne è la risposta.
Sul tema delle acque, si tratta di un settore in cui l’azione dell’Unione ha armonizzato molto
efficacemente gli interventi; deve essere un’azione che abbracci il diffondersi delle acque dolci
sulla superficie terrestre, a partire dai ghiacciai fino alla foce, con tutto quello che questo
comporta in termini di sicurezza del genere umano. I fenomeni dei disastri naturali dimostrano
cosa comporta una non corretta gestione del sistema idrico nel suo sviluppo sul territorio, ma
andando a declinare il problema nella qualità delle acque, nella loro distribuzione corretta, nel
monitoraggio del loro stato di salute, nella tecnica e nella capillarità dei servizi di depurazione e
così via, la capacità dei paesi dell’UE di governare questo sistema individualmente si è rilevata
bassa. L’UE, che non interferisce nelle scelte del singolo stato nel dettaglio, ha posto delle
metodiche d’azione molto efficaci: ha stabilito che si debba ragionare per bacini, cioè che la
gestione delle acque non avvenga in funzione di competenze amministrative localizzate. Non tutti i
paesi erano dotati di questo approccio, è stata una scelta forte dell’Unione europea, contenuta
nella direttiva 2000/60/CE, che ha dato come obiettivo uno stato buono di qualità delle acque
entro il 2015. Non è stato esattamente raggiunto da tutti entro quell’anno, ma l’indicazione è stata
massicciamente recepita e il sistema può dirsi oggi in marcia; siamo per esempio di fronte ad una
riorganizzazione del sistema di depurazione delle acque, di cui una parte dei paesi era
particolarmente carente all’inizio.
Altra parte riguarda i rifiuti, il cui smaltimento è solo uno dei problemi, perché è questione di non
produrli, o di produrre sostanze che possano rientrare in un circuito di economia circolare ed
essere recuperati. Siamo di fronte ad una selezione molto attenta delle modalità di smaltimento
dei rifiuti non riciclabili, con tecniche che vengono privilegiate rispetto ad altre. L’Unione europea
ha dato un quadro concettuale a tutta questa operazione, che è l’acceleratore delle nostre
politiche ambientali (nel codice dell’ambiente in Italia) e che tutti i paesi membri hanno dovuto
fare proprio.
Ogni progresso in ambito ambientale che facciamo a livello UE diventa parte dell’acquis
comunitario, ovvero ciò che è consolidato e a cui si devono riferire i paesi di nuovo ingresso.
Ci sono stati dei passi avanti fatti dall’UE per l’etichettatura dei prodotti con marchio di qualità
ecologica dell’Unione europea. L’UE non è un soggetto che si è dotato di apparati burocratici
enormi, per esempio in questo campo utilizza un criterio più morbido che è quello di favorire la
scelta ecologica da parte del cittadino. L’Ecolabel UR è una sorta di spiga verde, un marchio che
riconosce che questo prodotto è stato creato seguendo determinati canoni, che ha un’alta
digeribilità dal punto di vista del suo involucro, che non contiene sostanze pericolose per la salute
umana e dell’ambiente ecc. si tratta di un’etichetta “verde” su base volontaria (reg. n. 66/2010).
Poi ci sono dei quadri di protezione ancora non totalmente normati, ma in corso di normazione,
che riguardano la responsabilità sociale delle companies, quindi una Corporate Social
Responsibility che guarda a tutta la filiera di produzione. un’azienda può avere le mani pulite ed
essere responsabile di grandi scempi ambientali perché opera attraverso delle società collegate,
controllate, o attraverso delle scelte di filiera facendo produrre da altri un prodotto e ritenendosi
totalmente svincolata da responsabilità. Un’azienda può essere responsabile circa la produzione
del prodotto, ma magari non nel suo trasporto, o fa scelte sconsiderate sulla sua durata. La
problematica della responsabilità delle companies si sta iniziando ad affrontare e fa parte di una
logica avviata fin dal Libro verde del 2001. I libri verdi non sono un libro ecologico, ma documenti
dell’UE che hanno un carattere divulgativo e che tendono a spiegare il senso di alcuni cambiamenti
strategici dell’Unione, non solo in ambito ambientale; sviluppano il dibattito nella società europea
intorno a queste scelte future.

Programmi d’azione
Sono azioni abbastanza circoscritte, delle iniziative pianificatori che riguardano alcuni segmenti del
nostro vivere. Nel caso dell’Unione europea i programmi di azione hanno un carattere molto
omnicomprensivo e sono come dei grandi contenitori nei quali trovano posto varie iniziative che
hanno un carattere strategico per l’Unione nel suo complesso. Sono declinati anche degli obiettivi
da raggiungere, sia entro termini brevi che con orizzonti molto lontani.
L’approccio europeo rispetto all’ambiente è più efficace perché tiene in alta considerazione la
necessità di un’azione continua, non è una questione che si risolve con un intervento “a spot”: si
accompagna una seria politica ambientale solo se si mette davanti a sé il tempo necessario per
raddrizzare o contenere determinati fenomeni che possono rivelarsi pericolosi.
Abbiamo il VII programma di azione e molte delle trasformazioni che registriamo oggi nella politica
nazionale (ad esempio lotta sulle plastiche) stanno a valle di un programma d’azione generale e
più puntualmente, di singole direttive che armonizzano le decisioni dei paesi dell’Unione. L'Unione
europea privilegia lo strumento della direttiva rispetto al regolamento perché quest'ultimo è
l'equivalente di una nostra legge, ha un carattere rigido ed entra nell’ordinamento come norma
che prevale sulla legge dello stato. Spesso l’Unione predilige il ricorso alle strategie di
armonizzazione con la direttiva, che vuol dire dare un obiettivo che deve essere raggiunto nel
termine di x anni e ogni stato membro fa con i suoi strumenti quanto necessario. È un approccio
meno impattante sulle sovranità dei singoli stati, ma che comunque consente dei risultati
eccellenti, anche con un sistema di salvaguardia che mette in atto l’Unione (non manda ispettori
ma è nella responsabilità dei singoli stati fornire elementi informativi). Spesso è un’azione
collaborativa che mette allo scoperto alcuni fattori: sono ONG, sindacati, associazioni… sono loro
che segnalano l’esistenza di alcune violazioni.
Accanto al discorso generale sul programma d’azione abbiamo anche delle strategie orizzontali,
cioè modi di integrare lo sforzo dei singoli paesi in maniera da raggiungere degli obiettivi comuni.
Quindi programma di azione generale e al suo interno delle strategie orizzontali. Il temine
strategia si riferisce ad un’idea coordinata di azioni diverse, di strumenti normativi e non normativi
di finanziamento, di sostegno, di creazione di strumenti tecnici (vedi REACH). Alcuni esempi sono
la Strategia per lo sviluppo sostenibile (SSS) del 2001, che riguarda in la particolare la crescita e
l'occupazione nel quadro di una dimensione ambientale sostenibile; abbiamo la Strategia di
crescita intelligente, la strategia Europa, che è stata attivata nel 2010 e per un’evoluzione
ulteriore della crescita economica. È una strategia di crescita intelligente perché utilizza le nuove
tecnologie, in particolare le tecnologie dell’informazione, come leva per un cambiamento
sostenibile. La Strategia per la biodiversità del 2011 indica una serie di azioni puntuali, concrete,
da mettere in atto perché non sia ulteriormente pregiudicata. C’è un dato sostanziale da tenere
presente: la perdita del 50% della biodiversità nell’arco di appena due generazioni. Il farsi carico di
questa biodiversità è proprio di un’entità come l'Unione europea, che può guardare le cose in una
dimensione larga, perché la stessa percezione non ce l'ha né singolo cittadino, né la comunità
locale, né uno stato.

Cooperazione ambientale internazionale


È stato dato mandato all’UE di essere soggetto promotore di iniziative a livello internazionale per
la cooperazione ambientale, quindi può parlare a nome dei 27 stati in questo campo. Nel campo
della cooperazione ambientale ormai è accettato e regolato dai trattati che sia l’Unione europea
ad essere al centro del negoziato. Questo ha riguardato anche tutte le fasi attuative della
Convenzione di Rio, che si sviluppano attraverso le COP, ovvero le conferenze delle parti. Le COP
hanno prodotto prima il Protocollo di Kyoto, con aspettative del suo miglioramento, anche se
purtroppo complessivamente non all'altezza delle aspettative, e da ultimo nel 2015 la COP 21 di
Parigi, con l'accordo per la mitigazione degli effetti climatici e la resilienza dei singoli paesi. Questa
centralità ha fatto sì che l’UE assumesse alcuni impegni particolarmente importanti e fosse anche
promotrice di iniziative significative. Tra questi ricordiamo l’accordo di Nagoya del 2010 contro la
perdita della biodiversità, l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, l’Accordo di Parigi sui
cambiamenti climatici. A Parigi, con un ruolo motore indiscutibilmente efficace e dinamico della
Francia, ma anche con il potente appoggio dell’Unione europea, si è arrivati ad un’intesa
significativa che ha visto convergere gli sforzi sia del Nord che del Sud del mondo, e con un
arretramento quasi immediato da parte degli Stati Uniti. Anche l’accordo di Sendai per la
riduzione del rischio catastrofi e la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora
e fauna selvatiche minacciate di estinzione hanno visto l’UE in prima fila. La materia di commercio
internazionale è competenza esclusiva dell'Unione europea ed è proprio questa sua titolarità a
rafforzare la sua possibilità di intervento anche in questo ramo apparentemente minore, che è
quello del commercio delle della fauna e della flora selvatiche minacciate di estinzione.

Dinamica di partecipazione
Un altro versante nel quale il diritto dell’UE si è rivelato fondamentale è la questione della
partecipazione. La Convenzione di Aarhus è fondamentale in materia di informazione,
partecipazione e giustizia ambientale; in questo quadro si inserisce una tipologia di azione molto
importante, che è quella della valutazione dell’impatto ambientale. La valutazione degli impatti,
cioè delle conseguenze in termini sociali, ambientali, economici fa parte di un nuovo approccio
culturale che si è sviluppato orientativamente a partire dagli anni ‘50 negli Stati Uniti e che ha
fatto strada. Un tempo le decisioni venivano assunte esclusivamente sulla base di intuizioni, era
privilegio del governante e poi dei parlamenti di individuare degli obiettivi, di fare delle scelte, ma
negli anni ’50 si è arrivati a considerare fondamentali in ogni decisione strategica la valutazione
sincera dei costi e dei benefici. Nel corso degli anni la valutazione si è estesa anche agli aspetti
ambientali, si è capito che realizzare un’opera aveva un costo termini di materie prime, in termini
di perdita di superficie agraria, di superficie boscata… e che avrebbe poi sviluppato delle
conseguenze nel tempo. Chi valuta però? L’idea iniziale era che gli scienziati, i tecnici avrebbero
valutato meglio di chiunque altro le conseguenze. Questo affidarsi alla tecnologica, alla scienza, è
stato un aspetto fortemente criticato perché si è ritenuto che la valutazione dovesse avere un
carattere più inclusivo. In questo l'Unione europea è stata pioniera di scelte importanti che hanno
consolidato il nostro modo di vedere e di disciplinare l'organizzazione e la realizzazione di questi
manufatti, di queste opere (di elevato impatto), articolando questa dinamica attraverso dei
momenti partecipativi da parte dei cittadini. Partecipazione ai processi decisionali, accesso alle
informazioni e diritto alla giustizia: la valutazione dell’impatto ambientale ha questo carattere di
previsione ma anche di accompagnamento della decisione con l’emergere delle valutazioni che
vengono dal pubblico. Se c'è una comunità che vede dei problemi nella costruzione delle grandi
opere può essere informata e ha il diritto di vedere i progetti che vengono presentati, avrà tempo
per discutere e presentare le sue osservazioni, avrà diritto di richiedere e tutti gli approfondimenti
necessari e semmai poi avrà anche il diritto di ricorrere ingiustizia contro le decisioni che vengono
assunte. Il terreno ambientale è un terreno su cui si sviluppa un approccio per dichiarare che
questo diritto vede coinvolta in prima persona l’opinione pubblica.

Attuazione
Gli Stati membri sono seduti al tavolo del Consiglio dei ministri dell'unione europea e condividono
queste scelte con le regole di maggioranza che oggi, dal trattato di Amsterdam in poi, sono
diventate la regola dominante all'interno dell'Unione europea; si procede per codecisione tra
Parlamento e Consiglio dei ministri, ma la maggior parte delle questioni e tra queste le questioni
ambientali, vengono approvate con regole di maggioranza. Questo fiume di norme, direttive,
decisioni, regolamenti in materia ambientale devono entrare nel diritto dei singoli stati e vi
entrano in vario modo:
- i regolamenti in maniera diretta
- le direttive attraverso un’attuazione legislativa statale e a volte questo avviene con una
lentezza o con un’incompletezza tale da provocare dei seri deficit attuativi. È un problema
molto serio, perché gli obiettivi più alti, magari condivisi da uno stato a livello del tavolo del
Consiglio dei ministri, poi non vengono conseguiti perché si sconta all’interno una resistenza
politica molto forte.
Nella nostra convivenza all'interno dell'Unione europea le decisioni di natura penale, che devono
essere efficaci, proporzionate e dissuasive, per i crimini ambientali più gravi vanno assunte a livello
del singolo stato e non a livello dell'Unione europea. Quindi possiamo immaginare una circolarità
di azione, che parte da stimoli che possono venire localmente, attraverso decisioni globali assunte
dall’UE e un percorso attuativo in sede locale a cui farà seguito ancora un monitoraggio. L'Unione
europea è un formidabile strumento di monitoraggio dello stato dell'ambiente, delle acque,
dell'aria, del suolo ecc. Il monitoraggio è la rete per il controllo del rispetto del diritto
dell’ambiente, diventa punto di convergenza e di afflusso di ondate continue di informazione e
rilevazioni che possono essere anche premonitrici (nella vicenda Chernobyl il ritardo nelle
informazioni è stato fatale). Il monitoraggio è un bene comune in qualche modo e l’IMPEL
(European Union Network for the Implementation and Enforcement of Environmental Law) è una
rete internazionale delle autorità ambientali statali per stimolare l'applicazione, scambiando idee
migliori passi. Il fatto di essere in rete consente ai paesi membri di sviluppare pratiche migliori e di
veder complessivamente migliorare la qualità del nostro ambiente grazie al fatto che ci comporta
meglio. Spesso, più che norme cogenti, divieti e sanzioni, può fare molto un momento imitativo e
di diffusione di come stanno operando bene altri governi.

Uno strumento di eccellenza e di grandissima importanza è l’Agenzia europea per l’ambiente, la


AEA. L’Unione europea, oltre ad avere degli organismi politici e che hanno funzione legislativa (con
il Consiglio e il Parlamento), oltre ad avere un esecutivo che è un ‘governo’ dell'Unione europea,
oltre ad avere dei giudici, ha anche molte leve operative, che sono delle entità specializzate per
perseguire determinati obiettivi. Nel 1990 (siamo pre-Maastricht) abbiamo la costituzione
dell’AEA, l’Agenzia europea per l'ambiente, che ha sede a Copenaghen. Il fulcro della spinta per le
politiche ambientali si colloca nel Nord Europa, è un fatto culturale di consolidata maggior
sensibilità, cultura, politica e tecnica di tutela dell’ambiente. Questo modello di agenzia per
l’ambiente non è però un modello originale, prende spunto da esperienze precedenti; l’esperienza
precedente è quella dell’EPA (Environmental Protection Agency), sorta negli Stati Uniti ben 20 anni
prima durante la presidenza Nixon. Nonostante si trattasse di una presidenza conservatrice,
repubblicana, sono proprio i repubblicani ad essere più direttamente sensibili agli appelli che
vengono rivolti per una protezione globale dell’ambiente e quindi nasce l’EPA. L’AEA serve ad
elaborare politiche ambientali adeguate, è una testa pensante, non è un centro di ricerca (che l’UE
ha dappertutto attraverso le università, i laboratori…), ma uno snodo in cui si incontrano queste
informazioni e deve svolgere la funzione fondamentale di informare il pubblico. L’Agenzia europea
per l'ambiente, come conseguenza della convenzione di Aarhus, dialoga con il pubblico dandogli
anche le informazioni che possono essere sgradite alla politica. In campo ambientale
l’informazione è il motore della decisione ed è importante avere una capillarità di informazioni
indipendenti, che attingono a diverse fonti. Quindi l’AEA fornisce informazioni indipendenti sullo
stato dell’ambiente e prospettive, raccoglie, gestisce e analizza dati e cooridna la Rete europea
d’informazione e di osservazione ambientale.

Parlando sempre di monitoraggio, il programma Copernicus è interessante perché è un


programma di monitoraggio della Terra. La conoscenza dell’evoluzione del territorio, del mare,
dell’atmosfera, in particolare in funzione dei cambiamenti climatici, è di straordinaria importanza.
Assiste responsabili politici nell’adozione di decisioni informate e per l'elaborazione di normative e
politiche ambientali. È anche qua importante la funzione federatrice dell’Europa nel mettere
insieme delle risorse e dare una linea comune; l’UE fa da catalizzatore e da guida in maniera soft,
cioè si condividono dei programmi da parte degli stati e si raggiungono obiettivi comuni che
individualmente non sarebbero raggiungibili. Uno di questi obiettivi è quello relativo all’emissione
e al trasferimento di sostanze inquinanti. L’UE dispone del E-PRTR (European Pollutant release and
Transfer Register): registro europeo di emissioni e trasferimenti di sostanze inquinanti. Fornisce
dati essenziali su oltre 30.000 impianti industriali (agenti inquinanti rilasciati nell'aria, nell'acqua e
nel terreno, trasferimenti fuori sito di rifiuti e di sostanze inquinanti…). Questo registro non si
rivolge a fonti piccole di inquinamento, ma a fonti potenzialmente molto ampie e in linea con la
filosofia dell’UE in materia ambientale, i suoi dati sono pubblici.

Parlamento europeo
La Commissione europea un ruolo tecnico di grandissimo rilievo, ma un soggetto importante che è
entrato in campo negli ultimi anni, importante sia per la sua sensibilità particolare che per il
carattere fortemente innovativo delle soluzioni che propugna è il Parlamento europeo. Non è un
luogo di declamazione, è un Parlamento tra i più attrezzati al mondo dal punto di vista delle
competenze, tra i più capaci ad interloquire con una pluralità di soggetti competenti e un luogo nel
quale le politiche vengono elaborate in maniera molto articolata, in continua relazione con
l’opinione pubblica. Il diritto ambientale dell'Unione oggi risente molto di spinte che derivano dal
Parlamento europeo, per esempio la fortissima convinzione che si deve andare verso una
economia circolare, cioè un'economia che recupera come materia rinnovata i prodotti e non
lasciarli come rifiuti. Il Parlamento è un soggetto che ha fortemente spinto l'implementazione di
una legislazione più attente più completa in questi campi. L’altro versante per il quale è
significativamente all’avanguardia è quello relativo ai cambiamenti climatici, quindi tutta una
serie di innovazioni o di nuovi campi via via esplorati. Le associazioni ambientaliste, il mondo
scientifico-accademico, trovano spesso in questo Parlamento non un soggetto, come succede in
genere nel nostro Parlamento nazionale, presso il quale si va occasionalmente per un’audizione e
si viene ascoltati per dimenticarsene, ma ha una rete di collegamento, una trasparenza di azione
che sono straordinariamente vivi ed efficaci.
In alcuni campi e anche in conflitto con la Commissione europea, che è molto sensibile alle spinte
del mondo economico e finanziario, mentre in termini generali Parlamento europeo è forse più
sensibile alla spinta dell’opinione, del consumatore, ed è anche in grado di mettere in campo in
maniera più avvertita i rischi per le generazioni future.
Il Parlamento è promotore di legislazione derivata per quanto riguarda il piano d'azione
dell'Unione per l'economia circolare e problemi connessi ai cambiamenti climatici.

Green Deal
Il Green Deal europeo assume il carattere di momento di svolta dell’intera economia europea,
mettendo in strettissimo rapporto l’elemento della produzione, dello stile di vita, con l’elemento
della tutela dell’ambiente. Questo avviene nel momento in cui l’UE deve affrontare la crisi
climatica mondiale e ha deciso di non assistere impotente a quanto sta succedendo, di non
lasciare che i l libero mercato faccia il corso e che trovi le soluzioni quando e come potrà. La scelta
qui è molto diversa e stiamo puntando, se non proprio ad un governo totale della trasformazione,
ad una governance dell’evoluzione climatica. Ci troviamo a gestire questa trasformazione a partire
proprio dalla fase insediativa della nuova Commissione europea: siamo nell’ultimo scorcio
dell’anno passato e nel presentarsi al Parlamento europeo, Ursula Von der Leyen e il suo staff
indicano come tratto caratteristico per i prossimi 5 anni della loro attività un Green Deal.
L’alleanza tra l’economia e l’ambiente, la logica dello sviluppo sostenibile prende la
denominazione “Deal” e si accoglie una prospettiva che non è protezionistica in sé e per sé, ma è
molto legata allo sviluppo degli affari: l’idea di fondo che veicola la Commissione è che si deve
implementare ancora il livello di sviluppo, perché si pensa che solo sviluppando ulteriormente
attività di carattere economico, industriale ecc. orientate in altra direzione si possa raggiungere
questo obiettivo. Quindi la popolazione europea può, secondo questa filosofia, puntare ad un
orizzonte di zero emissioni nell’arco di un trentennio pur facendo più cose, sviluppando maggior
produttività; la convinzione di fondo è che la tecnologia consente di fare grandi salti in avanti e
facendo le scelte giuste dal punto di vista tecnologico, incrementando adeguatamente il sostegno
a determinate attività si possono raggiungere questi obiettivi. Accogliamo un certo aspetto
ideologico che è quello del messianismo della tecnologia, che risolve ogni cosa; l’accettazione pura
e semplice di questa progettualità è problematica, in questa scelta sono addirittura assenti i
risvolti sociali rivolti al fatto che una parte della popolazione gode di un livello di consumo delle
risorse molto alto e ha stili di vita molto poco rispettosi dell’ambiente, mentre una parte molto
ampia vive con un consumo irrisorio di risorse.
Benché il discorso di lotta agli sprechi sia presente nello spettro delle indicazioni del Green Deal
europeo non è la tonalità dominante, che è data dal fatto di dover in qualche modo sempre
incrementare l’approccio consumeristico, il miglioramento delle produzioni ecc. Non è una scelta
di filosofia più sobria come alcune parti dell’opinione pubblica, come quella cattolica attraverso le
opinioni espresse da papa Francesco, vorrebbero.
La Commissione Von der Leyen aveva bisogno di dare un segno diverso, anche di speranza per
tutto il continente europeo, e l’ha fatto attraverso una comunicazione al Parlamento, la
comunicazione 640 dell'11 dicembre 2019. La comunicazione è un documento formale attraverso
il quale sono enunciate da parte della Commissione delle linee di azione, delle linee di
comportamento che la Commissione ritiene di poter sviluppare come quadro generale di azione a
tutta l'Unione. La svolta del Green Deal nasce su questa base, sulla volontà di imprimere una
velocità nuova nel campo del diritto ambientale, ma anche nel campo complessivo delle politiche
dell’Unione, tutte intrise del principio di sviluppo sostenibile. Qui vediamo all’opera la natura
trasversale dell’ambiente: non c’è settore dell’economia che non sia toccato dalla necessità di uno
sguardo ambientale diverso.
Il Green Deal è una strategia: le strategie non sono dei disegni generali, sono dei complessi di
misure diverse, normative e non normative, spesso a carattere finanziario, sono dei dispositivi di
vario tipo che vengono messi in campo per perseguire un determinato obiettivo. Evidenza con la
quale la svolta viene portata all’attenzione dell’opinione pubblica. Ma in realtà non è la Von der
Leyen il motore propulsore, entra in gioco una dinamica tutta interna alla Commissione: nei
Trattati si fa riferimento al fatto che il Presidente della Commissione debba essere scelto tenendo
conto dei risultati delle elezioni europee, ma non è stato rispettato per l’elezione della Von der
Leyen, quando in presenza di una situazione di conflitto tra il Partito popolare e i progressisti la
Merkel è riuscita ad imporre la sua candidata. Nel bilanciamento delle forze, il candidato dei
socialisti europei, un uomo di peso della politica europea, un ex ministro degli Esteri olandese
Frans Timmermans è stato indicato come primo vicepresidente della Commissione e come
commissario europeo per il clima e il Green Deal europeo. Questo vuol dire che una parte molto
importante della Commissione è coordinata da questo vicepresidente che deve tirare le fila di
tutta una serie di politiche di interventi e che fanno capo a diverse direzioni generali e a diversi
commissari europei. La presenza dei commissari europei di nomina italiana non è molto spesso
una presenza incisiva, lo è stata al tempo della Commissaria Bonino per il grande carisma, ma
spesso l’Italia fornisce all’UE personalità che non hanno uno sviluppo di carriera europeo.
L’idea di fondo del Green Deal è di costruire un’Unione europea a emissioni zero, ovvero con un
livello pari a zero non delle emissioni in sé, ma del bilancio delle emissioni che vengono fatte. Ci
devono essere meccanismi compensativi che evitino un surplus di emissioni.
Questa transizione economica deve avere una sua adeguata sostenibilità sociale, cioè che costi di
questa trasformazione non vengano pagati in maniera sproporzionata da alcune fasce della
popolazione ed alcuni territori dell'Unione; quindi un percorso di trasformazione molto complessa
che ci porti grada gradualmente all'orizzonte indicato del 2050 alla neutralità climatica (fare in
modo che la componete umana non incida sull’andamento climatico in maniera rilevante). Ma
vediamo al tempo stesso che le trasformazioni indotte da questo progetto vogliono essere
trainante a livello internazionale, innestate sul meccanismo dell’economia circolare e in grado di
accrescere la nostra efficienza energetica, cioè l’adeguato rapporto tra la risorsa sfruttata il
risultato di questo sfruttamento con una dipendenza diminuita dalle risorse esterne. Noi siamo
un’unione di paesi che produce in minima parte risorse petrolifere e gassose, e questo fa sì che
siamo più esposti ad una dipendenza politica dall’esterno.
Lo slogan “Green European Deal” utilizza un termine su cui bisogna soffermarsi: in lingua inglese il
termine deal si può utilizzare in molte situazioni e ha una consonanza economica, mette l’accento
sui risvolti economici più che su risvolti etici o spirituali, politici, generali.
Obiettivi principali:
1) Iniziare percorso verso trasformazione economica e sociale per raggiungere la completa
neutralità climatica à un percorso di questo tipo è già stato fatto, in maniera anche piuttosto
significativa: l’UE è tra le aree più coscienziose nello sforzo che viene fatto. Visto dall’esterno,
dai nostri competitors, la bravura dell’Unione non è altro che il riflesso della nostra debolezza
nel disporre di risorse prime e voler quindi imporre anche agli altri continenti delle scelte che
loro non sentono di dover fare avendo una grossa disponibilità di materie prime ancora da
utilizzare nel circuito economico, prima di pensare a recuperi, ricicli ecc.
Neutralità climatica non vuol dire che non si emettono emissioni di carbonio, vuol dire che
le si bilancia con la cattura del carbonio attraverso meccanismi naturali (operato attraverso
le foreste ad esempio). Non si può pretendere di regolare il clima, ma se è vero che l’uomo
ormai è compartecipe del riscaldamento globale, quello che può fare è ridurre la propria
impronta sul pianeta e fare in modo che la natura segua un andamento più naturale.
2) Diventare motore trainante a livello globale verso un’economia verde à questa è l’idea forza
della strategia europea. Un’economia verde non è un’economia tradizionale su cui è stata
operata una “mano di pittura verde”, ma l’idea è di un’economia verde che non sia meno
performante e impattante dal punto di vista del benessere complessivo rispetto all’economia
tradizionale. La scelta di ridurre il quantitativo di merci prodotte e di operare scelte di maggior
sobrietà non sfiora l’Unione, è propria come parte del bagaglio culturale di alcuni paesi,
soprattutto del Nord Europa, ma non è assolutamente condivisa. L’idea è di un’economia che
sappia fare a meno di massicce emissioni di carbonio o che le riassorba creando nuove attività
che operino per bilanciarle e annullare l’impatto della trasformazione di materie prime da
parte dell’uomo. È un po’ il prolungamento della cosiddetta “Strategia di Lisbona” (che non ha
a che fare con il Trattato di Lisbona), definita come un insieme coordinato di programmi per
l’innalzamento del livello culturale e di conoscenza nella nostra Unione europea: oggi si indica
come obiettivo una società verde, verde perché i meccanismi dell’economica, della
produzione, dei servizi ecc. operano in maniera molto più soft nei confronti della natura.
L’ambizione è vedere l’Unione europea non esportatrici di materie prime, ma di nuove
tecnologie, nuovi modi di riscaldare le case, di produrre, nuovi modi di utilizzare la mobilità…
3) Attuare efficace e sostenibile strategia di economia circolare: i rifiuti non sono più visti come
tali, ma filosoficamente come risorse. È un’economia che lascia poca esternalità negativa e
chiude il cerchio della produzione andando a trovare nuova materia prima in questi processi.
4) Aumentare efficienza energetica e ridurre la dipendenza da fonti energetiche esterne: è il
fronte delicatissimo sul piano strategico dell’intera Europa, quello di non dover dipendere
dall’esterno. Fare in modo che l’energia necessaria sia un’energia più pulita ma anche utilizzata
meglio, con minor spreco. Oggi ci sono situazioni molto disarmoniche ed enormi fronti di
possibile risparmio. Notare come nell’enunciare questo proposito si parla esplicitamente della
dipendenza da fonti energetiche esterne come un vulnus dell’economia europea. L’UE è stato
uno dei massimi consumatori di energia e di produttori di beni, un insaziabile estrattore di
fonti energetiche. Oggi c’è l’idea di rendersi autonoma, brillante dal punto di vista della
modernità tecnologica, della capacità di innovazione e in grado di diventare un esempio su
scala mondiale.

Politiche trasformative
In fondo tutte le politiche dovrebbero essere trasformative, salvo si tratti di politiche puramente
conservative. La valenza trasformativa vuol dire che mette in campo un processo di cambiamento,
di passaggio ad una condizione diversa.
# Gli obiettivi più ambiziosi riguardano il clima, che sappiamo essere demandato come questione
da trattare, per il quale l’UE ha una delega di rappresentanza su scala internazionale e per il quale
deve promuovere necessarie intese con il resto della comunità internazionale. Gli obiettivi sono
scaglionati su due distanze: il 2030 e il 2050. L’Unione europea è uno strumento che pensa lungo,
mentre gli Stati nazionali hanno una retorica alta e una capacità di pianificazione molto limitata (ci
sono le elezioni ogni tot di anni). In materia climatica purtroppo la tendenza è quella sempre a
rinviare: il dato nuovo che emerge oggi è però che non abbiamo più tempo e secondo gli studiosi il
nostro orizzonte è molto breve, dell’ordine del 2030-’40 per dare i segnali necessari che invertano
la rotta e per dare un contenimento della fase crescente del clima.
# C’è poi l’obiettivo della politica dell’approvvigionamento dell’energia pulita, economica e sicura.
Abbiamo una triplice declinazione perché tre sono i problemi che abbiamo di fronte:
- problema ambientale, perché un’energia pulita vuol dire un’energia che non abbia delle
esternalità negative
- c’è il problema dell’economicità, perché se la sostenibilità economica non è garantita, un
pezzo della società potrebbe non riuscire a colmare il gap e a fare un’adeguata transizione. Nel
caso dei gilet gialli francesi c’è stata la richiesta di pagare meno il gasolio.
- energia sicura, per esempio con l’abbandono del nucleare. L’unico paese che ha avuto
un’uscita virtuosa dall’approvvigionamento nucleare civile è la Germania, che ha iniziato a
mettere mano al portafoglio e alle operazioni di abbandono dell’energia atomica alla fine degli
anni ’90 e ha praticamente concluso i propri programmi. In Italia ci sono stati due referendum
che hanno detto ‘no’ all’energia atomica.
Fin dagli anni ’80 l’Unione europea ha associato la questione energetica alla questione ambientale,
perché siamo in un terreno dalle problematiche comuni.
# In questa proposta di Green Deal, che è un insieme di atti che si presuppone potranno essere
adottati sotto forma di regolamenti, direttive, fondi ad hoc istituiti dall’Unione, raccomandazioni
ecc. l’industria dovrà raggiungere connotati di pulizia, e di circolarità.
# Un campo che andrà fortemente incentivato da parte dell'Unione europea riguarda la
costruzione e la ristrutturazione abitativa: siamo di fronte alla replica del problema che ha
conosciuto l’Europa nel secondo dopoguerra, con un boom demografico a cui ha fatto seguito la
necessità di insediamenti abitativi adeguati. Allora il problema era acqua in casa, una condizione
igienica accettabile e tutto sommato le esigenze erano ancora modeste, mentre adesso la richiesta
che fa l’emergenza climatica e la riconciliazione con il nostro ambiente non portano solo alla
questione di costruire del nuovo con caratteri molto più rispettosi dell’equilibrio ambientale, ma si
tratta di riconvertire tutto il patrimonio edilizio, perché sulla gran parte del patrimonio edilizio
occorre investire per una maggiore sostenibilità. Poi ci sono problematiche di quartiere, di
surriscaldamento dei centri abitativi… C’è poi il rischio che non ci siano coerenze adeguate, che si
agisca a macchia di leopardo.
# Accelerare transizione verso mobilità sostenibile e intelligente - l’unico vero alleato
dell’ambiente sugli impatti della mobilità umana è stata la pandemia: si è registrata una riduzione
dell’impronta ecologica grazie al ridotto ricorso alla mobilità automobilistica, agli aerei ecc.
La strategia della mobilità intelligente non è nuova, è già in corso da circa 10 anni da parte dell’UE,
che sta spingendo università e centri di ricerca ad occuparsi di ricerca applicata proprio con questi
obiettivi. L’Unione ha messo a disposizione fondi enormi per fare in modo che le aziende europee,
le università e in centri di ricerca si muovano sinergicamente nel trovare soluzioni migliori, mentre
non è stato speso per incentivare una sensibilità al minor spreco nella mobilità.
# Un ulteriore passaggio riguarda l’alimentazione: nell’indicare un sistema alimentare giusto, sano
e rispettoso dell’ambiente l’UE, che sta attivando in questi mesi il progetto “farm to fork” (dalla
fattoria alla forchetta), si sta orientando verso l’accettazione dei principi che ha enunciato un
grande pensatore contemporaneo, Carlo Perrini. Quest’ultimo, fondatore di slow food, un
movimento che ha sviluppato una consapevolezza sull’importanza di un ciclo alimentare virtuoso
ed ispiratore dello stesso pontefice per alcuni passaggi della sua enciclica “Laudato si”, scrisse un
libro (‘Buono, pulito e giusto’) in cui il cibo viene affrontato secondo queste tre prospettive:
- della salubrità del cibo (cibo naturale)
- cibo pulito, cioè non coinvolto in processi di trasformazione che ne compromettano la qualità
- cibo giusto, perché secondo la filosofia del movimento slow food deve essere un cibo che non
danneggia la società. Non devo limitarmi ad apprezzare quello che ho nel piatto per i suoi
valori gustativi e nutritivi, ma devo essere consumatore responsabile di cibo, sapendo che
dietro sta una filiera che parte da molto lontano. Quindi c’è una funzione anche sociale; il
sostegno dato al produttore di prossimità, che allo stesso tempo coltiva la biodiversità e le
colture tradizionali, ha una valenza sociale. L’UE ha quindi nel suo mirino anche il ciclo
alimentare come momento fondamentale della nostra vita.
# L’obiettivo della politica conservativa è la preservazione ma anche il ripristino degli ecosistemi e
della biodiversità, che ha la valenza di un impegno proattivo per il recupero della naturalità, della
biodiversità, creando in questo anche posti di lavoro. Il ragionamento della Commissione è che
questa trasformazione non sacrifica posti di lavoro, ma li trasforma: avremo quindi bisogno di
nuove figure professionali.
# “Inquinamento zero”: eliminazione delle sostanze tossiche, che si sono moltiplicate
drammaticamente perché l’industria punta ad ottenere prodotti di sempre maggior resa e minori
oneri nei costi. I materiali tossici sono in buona parte diffusi con gli imballaggi; in futuro la politica
dell’UE riguarda il convincerci a fare a meno degli imballaggi tradizionali verso i quali ci stiamo
orientando. Di nuovo una forte contraddizione tra scelte che vengono fatte nell’emergenza
(sanitaria), con le scelte di aumentare i sistemi monodose, la commercializzazione del caffè
attraverso i bicchieri di plastica ecc. che hanno l’effetto di accrescere il quantitativo dei rifiuti
prodotti, mentre ci sono soluzioni opposte che potrebbero consentire lo stesso risultato con
maggiore sostenibilità.

Integrare la sostenibilità nelle politiche UE


Modalità operativa che ha dovuto mettere in campo l’Unione, a fronte di una volontà degli stati di
non mettere altri soldi sul tavolo, di non voler mettere tasse a favore di queste politiche dell’UE. Si
è immaginato che occorra finanziare e mobilitare dei capitali grandissimi, con il coinvolgimento di
soggetti economici diversi. Qui abbiamo un problema di rapporto con la finanza internazionale
(banca, fondo pensione, soggetti che detengono quote della ricchezza nazionale…): c’è una partita
complicata che va da misure di accompagnamento a misure orientative più cogenti a favore della
cosiddetta finanza verde, a favore di attività che non comportino più investimenti in prospettiva,
per esempio da parte degli europei, su tecniche invasive come il fracking. Si tratta di una tecnica
estrattiva che opera attraverso l’iniezione nel sottosuolo, anche a grandissima profondità e a
grandissima pressione, di aria o acqua per fare risalire elevate quantità di fossile sotto forma
oleosa o gassosa. Questa tecnica viene progressivamente a sostituire la tecnica di estrazione
petrolifera per pura perforazione: le proiezioni circa l’esaurimento delle scorte petrolifere davano
un culmine di disponibilità della risorsa che sarebbe già superato, ma il consumo è in realtà
continuato ad andare avanti perché accanto all’esaurimento delle scorte abituali si è andati a
sfruttare questo ulteriore modo per far emergere combustibile. In Europa c’è stato un movimento
sempre più intenso contro le tecniche di fracking, in particolare a partire dalla Germania.
Prendiamo coscienza della necessità di non investire in queste tecniche, se non vogliamo che
continui a crescere la curva delle emissioni di CO2; per fare questo ci sono due modi, o togliere la
legalità di questi interventi con apposite leggi, oppure vietarne o non sostenerne il finanziamento.
L’Unione europea si sta ponendo il problema di avere finanziamenti verdi per la transizione in
corso e la stessa cosa vuole fare rendendo verdi i bilanci nazionali, cosa che può fare attraverso
apposite direttive di armonizzazione legislativa, per far sì che tutti i paesi facciano la stessa cosa,
dedichino quote del loro bilancio a determinate attività o disincentivino sempre attraverso i bilanci
altre attività. Altro dato importante è formulato sotto l'espressione “giusti segnali di prezzo”: vuol
dire che il prodotto più inquinante deve risultare più caro per il consumatore. L’Unione ci sta
dicendo che se un bene ha una minor biodegradabilità o una maggior onerosità di gestione, di
approvvigionamento ecc, deve costare di più. Si tratta di estendere il principio di “chi inquina
paga” ad una logica di mercato, non soltanto nel settore dell’acqua e del carburante, ma anche
nelle dinamiche di consumo e di utilizzo di determinati servizi. Nei prodotti in commercio si trova
un’etichettatura che ci possa orientare, ma un giusto segnale di prezzo ci orienterebbe più
facilmente da un’altra parte. Si sta facendo propria una corrente del pensiero economico più
comportamentalista e attenta alle spinte dolci, non coattive.
Ricerca e innovazione sono punto di partenza di tutto questo discorso, sono l’essenza stessa della
trasformazione proposta. L’Unione punta molto sulle capacità rigenerative del sistema scientifico
ed educativo del proprio territorio, l’innovazione è vista come l’ancora di salvezza per non dover
retrocedere ad un livello di arretramento rispetto al livello qualitativo raggiunto in questi anni.
Quindi la leva dell’istruzione e della formazione, unita alla ricerca e all’innovazione fanno parte di
questo turbo che vuole mettere l’UE nella sua azione.
È poi molto chiaro il richiamo al “non nuocere”, un principio etico, filosofico fondamentale.

UE come leader mondiale


L’Unione europea e oggi leader mondiale di questa trasformazione, non è soltanto un proposito
generico, è già un dato di fatto ed è una posizione di leadership che intenderebbe consolidare,
avendo dei competitor come Stati Uniti, Cina, Russia dotati di risorse naturali molto superiori alle
sue. L’Unione deve dare linearità al suo pensiero con uno strumento che non è cogente, ma
consensuale e contrattuale: un patto europeo per il clima vuol dire impostare tutto il discorso
fatto in termini di governance, piuttosto che di governo e legislazione, quindi un patto che
coinvolga tutti gli interlocutori sociali ed economici dello spazio europeo. Per fare questo c’è stata
una ‘falsa partenza’, la Consultazione pubblica sul nuovo Patto europeo per il clima è stata lanciata
al mese di marzo del 2020; l’UE intendeva coinvolgere una serie di attori locali, tra cui anche gli
esponenti delle Regioni e degli enti locali presenti nel Comitato delle Regioni a Bruxelles e farne
soggetti di riferimento per questo dialogo. Il patto europeo per il clima avrebbe dovuto nascere
dal basso, preparare il coinvolgimento di una serie di attori locali e poi procedere verso l’alto.

L’avvio di questa nuova strategia che è il Green Deal è coinciso con un momento in cui l’attenzione
in crescendo per le tematiche climatiche è stata interrotta per la pandemia. Ci sono state da parte
di alcuni paesi membri dell’UE delle istanze di procrastinare l’attuazione di questo grande piano
per l’ambiente, se non addirittura di revocarlo. In questo si è distinta la Polonia, i cechi, i rumeni…
dove erano già molto forti le preoccupazioni per l’impatto sulle rispettive economie di questo
cambio di orizzonte. Finora altri paesi hanno ritenuto che, pur essendo necessario concentrarsi
molto in questa fase di pandemia sulla salute dei cittadini, il segnale sarebbe negativo e
contraddittorio con una risposta che le nuove generazioni stanno aspettando; le tematiche del
clima verrebbero relegate a fenomeno folkloristico.
Principi in tema di ambiente

Quelli che seguono sono tutti principi giuridici realmente applicati.


o Diritto positivo, ovvero stabilito, enunciato e riconosciuto come tale, definito jure condito, cioè
fondato
o Jure condendo, quella parte che forse sarà diritto, è una prospettiva che potrebbe essere

Principi guida del diritto internazionale:


• Principio della sovranità permanente degli Stati sulle loro risorse naturali
• Divieto di inquinamento transfrontaliero e prevenzione di inquinamento transfrontaliero
(customary rule secondo la CIG)
• Principio di cooperazione (buon vicinato)
• Principio dello sviluppo sostenibile

Il punto di partenza del diritto in generale si individua nei termini “neminem laedere”, ovvero non
portare danno a nessuno, il dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica. Ognuno di noi ha un
portafoglio di diritti, ha una situazione protetta per quanto riguarda la sua persona, la sfera dei
suoi interessi… e la nostra intrusione in questa sfera effettuata in modo arbitrario, non giustificato
da particolari motivi e è un limite: questo è anche il fondamento della responsabilità
extracontrattuale, ovvero tutto quello che facciamo che non sia regolato da un rapporto formale
con gli altri. La radice del neminem laedere è una radice della convivenza sociale generale. Per
quanto riguarda la responsabilità extracontrattuale, all'art. 2043 del Codice civile si trova
“qualunque fatto doloso o colposo recchia terzi danno ingiusto obbliga chi lo ha commesso a
risarcire il danno”.
Alla metà del ‘600, con il trattato di Vestfalia viene reso evidente in Europa che ci sono degli stati
sovrani e che questi stati sovrani si devono trattare tra di loro alla pari. Il discorso della parità era
già presente nei rapporti tra i principi nel medioevo, alcuni dei quali si sono progressivamente
affrancati dalle superiori autorità gerarchiche del Papa e dell'impero, ma con il sistema vestfaliano
noi abbiamo il principio di sovranità piena, riconosciuta delle relazioni internazionali.
Un'implicazione di questo sistema vestfaliano è che la sovranità politica, al diritto alla non
ingerenza di altri soggetti sulla volontà e sull’esercizio delle libertà dello Stato, si estende
all’utilizzo delle risorse naturali, con una logica assolutamente proprietaria. Gli Stati lasciano
certamente sfruttare pezzi del loro suolo, ma la forza emergente degli stati ha fatto sì che essi
potessero legittimamente dichiararsi proprietari delle risorse naturali. Nella tradizione giuridica
dei nostri paesi questo si chiama demanio, termine che ha un’origine molto precisa, viene da
dominus e la matrice etimologica è nel domain (alla francese) che avevano i signori feudali intorno
al castello; mentre il bosco era terreno comune, intorno al castello c’era un’area che era riservata
al signore. Il demanio fa si che per poter estrarre delle risorse naturali devo avere il permesso
dello Stato.
Gli stati si sono comportati nei reciproci rapporti a volte come avversari, ma complessivamente
come dei sodali, dei soggetti che trovavano argomenti per fare causa comune. Il discorso degli
stati è di trovare regole comuni per non pestarsi troppo i piedi a vicenda. La Corte di giustizia
dell’Aja, riservata agli stati, è un luogo in cui vengono definite le questioni sulle quali non hanno
risolto bonariamente i propri conflitti. In campo ambientale gli stati si fanno concorrenza e si
ostacolano: il tema portante di questo conflitto è stato in passato la questione idrica. Questa
questione dell'acqua c'è stata perché i fiumi scorrono e alcuni di questi attraverso lo più stati; c’è
sempre qualcuno che accusa qualcun altro che si trova a monte perché ha fatto un utilizzo
improprio delle acque, perché le ha sottratte a chi si trova a valle o perché le ha inquinate.
C’è poi la tematica dell’occupazione di ingenti risorse minerarie in aree non oggetto di sovranità
piena da parte degli stati (es. Antartide), poi c’è la regolamentazione dello spazio al di sopra
dell’atmosfera terrestre, dove ormai stanno vagando quantità non indifferente di rifiuti. Insomma,
gli Stati non stanno solo a casa loro, inquinano, trasferiscono dei danneggiamenti in territori vicini.
Proprio per il principio del neminem laedere abbiamo un risvolto concreto, dettagliato che è una
norma consuetudinaria del diritto internazionale, applicata per esempio dalla Corte dell’Aja, che è
il divieto di inquinamento transfrontaliero, a cui si è affiancata un’indicazione a favore
dell’obbligo di prevenzione dell’inquinamento transfrontaliero. Entra in gioco la responsabilità
dello Stato, accanto ad un’eventuale responsabilità del soggetto privato, che non si può avvalere
della protezione del diritto nazionale perché lo stato è esso stesso in qualche modo responsabile
per non aver messo in atto le misure di prevenzione necessarie.
Siamo entrati in una logica di “casa-mondo” e di equilibrio generale delle risorse, per cui il
depauperamento che c’è in casa tua è il depauperamento che c’è in casa mia.
Il principio di non ledere si può leggere in attivo per vedere se c'è effettivamente un avvio di
principio complementare accanto alla non ingerenza: il principio di cooperazione come principio
di buon vicinato. Sta prendendo corpo un principio che vuole vedere nell’intervento attivo a
sostegno della buona condotta nella gestione delle risorse ambientali un principio in qualche
modo anch’esso cogente. I segnali non sono ancora molto netti, mentre sulla regola
consuetudinaria del divieto d’inquinamento non c’è dubbio sulla necessità di prevenzione
dell’inquinamento transfrontaliero
Il principio sovrano di diritto di sfruttare le proprie risorse naturali è ancora formalmente
incastonato nel diritto internazionale dell’ambiente negli atti fondativi, tanto nella Dichiarazione di
Stoccolma (principio 21 sulla sovranità delle risorse) quanto nella stessa Dichiarazione di Rio, che
sembrava già mettere in discussione questi aspetti, ma non bisogna dimenticare che a Rio sono gli
stati sovrani che hanno la penna in mano per scrivere e quella dichiarazione. Al principio 2 della
Dichiarazione di Rio c'è scritto che “gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare e le proprie risorse
secondo le loro politiche ambientali di sviluppo, e hanno il dovere di assicurare che le attività
sottoposte alla loro giurisdizione non causino danni all'ambiente di altri stati o di zone situate oltre
i confini della giurisdizione nazionale”. A difendere in maniera particolarmente incisiva la sovranità
sulle proprie risorse sono stati i paesi del Sud del mondo, in particolare i paesi usciti
dall'esperienza coloniale: non bisogna cadere nell’errore di considerare che i paesi del sud del
mondo, che hanno meno responsabilità per la cattiva gestione delle risorse (perché non
disponevano di un’elevata tecnologia), siano i più accesi fautori di una conservazione
dell’ambiente. Per molti regimi la dinamica è stata diversa: “affermo la sovranità sulle risorse
nazionali perché voglio poterle fare pagare interamente a chi viene a richiederle”, questo è il
concetto insito nel nella frase al principio 2 “secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo”.
Il principio dello sviluppo sostenibile è un principio cardine del diritto ambientale moderno, che
dobbiamo cogliere in una dimensione non di un’economia nazionale, circoscritta, ma in una logica
planetaria di relazione tra i paesi del Nord e del Sud del mondo. Quindi paesi che hanno già goduto
dell’utilizzo di un’ampia fetta delle risorse disponibili nel pianeta, attingendo da altri popoli
facendo leva sulla propria supremazia in termini militari e in termini di miglior sviluppo
tecnologico. Queste due posizioni hanno trovato il punto di incontro proprio nell’obiettivo dello
sviluppo sostenibile, che tenta di coniugare la necessità di proteggere l’ambiente con la necessità
di non fermare lo sviluppo, non è sinonimo di crescita: la crescita dà un senso di linearità
nell’aumento di volume, di impatto di una società, mentre lo sviluppo comporta necessariamente
anche altre dinamiche, tra cui lo sviluppo della qualità della vita, culturale… Va quindi ratificata
l’apparente inconciliabilità dell’ossimoro sviluppo-sostenibilità, per indicare come in realtà sia una
linea di convergenza, il bilanciamento di due necessità. Questo bilanciamento di rapporto Nord-
Sud del mondo si deve associare con un bilanciamento diacronico proiettato a tutela delle
generazioni future. Negli anni Settanta non c’erano tracce di una preoccupazione per chi verrà nel
diritto, si dava per acquisito che ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe fatto cose nuove, non c’era
la percezione che il progresso avrebbe implicato un danno; ma se c’è stato un momento in cui c’è
stato l’inizio di questa preoccupazione, è quello che vede lo sviluppo dell’arma nucleare. Chi è
nato negli anni 20-30-40 nella sua gioventù può aver avuto a che fare con la tensione
internazionale e sicuramente ha avuto un’idea drammatica della fine umana; questo in termini di
diritto, negli anni Settanta si è tradotto nell’esigenza di inserire la relazione intergenerazionale nel
dibattito attuale. Il diritto non ha ancora totalmente preso le misure del tema delle generazioni
future, perché non ci sono effettivamente così tante norme o bilanci votati dai parlamenti che si
fanno veramente carico della sostenibilità per le generazioni future.
La modalità con cui gestiamo le risorse non è indifferente, perché una cosa è farne un utilizzo
accorto e tecnologicamente avanzato, un’altra è usare tecnologie superate, che comportano
pesanti esternalità. Sia a livello comunitario che internazionale abbiamo la necessità di usare bene
queste risorse, c’è chi l’ha definito come principio di razionale gestione. In realtà più che di un
principio a sé stante, si tratta di una declinazione del più generale principio di sviluppo sostenibile,
quindi è più un criterio che un principio di intera condotta degli stati.
La Dichiarazione di Rio, al principio 3 riporta: “Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo
da soddisfare equamente le esigenze relative all'ambiente e allo sviluppo delle generazioni
presenti e future”, quindi mette sul tavolo un’equa soddisfazione delle esigenze. È un’operazione
tipicamente giuridica di raffronto, comparazione e ponderazione di due diversi interessi. Dal punto
di vista del diritto si chiama bilanciamento questa operazione (bilanciamento di valori o di diritti).
Il quarto principio di Rio sottolinea come, “al fine di pervenire uno sviluppo sostenibile, la tutela
dell'ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata
separatamente da questo”. Questo passaggio prelude anche alla trasversalità dei principi di tutela
ambientale rispetto a tutte le politiche, ma qui è applicato ai processi di sviluppo. Il processo di
sviluppo, attraverso il quale si pensa debbano passare i paesi meno progrediti nel loro percorso
verso un’eguaglianza sostanziale con i paesi del Nord, passa attraverso un’integrazione nel loro
sviluppo, così come nella nostra gestione, delle preoccupazioni di carattere ambientale.
# Nella pratica applicativa di questo principio dello sviluppo sostenibile, c’è innanzitutto un dovere
di non compromissione della qualità di vita e delle possibilità delle generazioni future.
# Il secondo profilo inserito in questa scelta comparativa e di discrezionalità delle scelte impone un
obbligo di prioritaria considerazione di tutela dell’ambiente: vuol dire che nel bilanciamento noi
dobbiamo prioritariamente farci carico di quello. Questo vuol dire mettere al sicuro l’ambiente
rispetto al rischio che l’economia prevalga, che gli interessi speculativi abbiano la meglio. È una
linea di tendenza quella della prioritaria considerazione, ma considerazione non vuol dire mettere
effettivamente sotto protezione; vuol dire che devono essere esaminati, che si deve tenere conto
dei profili ambientali fin dall’inizio, ma non necessariamente che alla fine essi prevarranno.
# Il principio di sviluppo sostenibile ci colloca lungo una linea che fa di noi gli utilizzatori/custodi di
un patrimonio ambientale complesso e questo in una logica di rapporto che deve vedere
adeguatamente rispettato il trasmettere una certa qualità di risorse alle generazioni successive. È
come se per la prima volta un problema di solidarietà che noi abbiamo sempre declinato in termini
di solidarietà tra persone esistenti, si riconvertisse in termini temporali diversi. Quello che dice il
principio di sviluppo sostenibile è che ci si deve far carico dei futuri esseri umani, ma chi li
rappresenta? C’è bisogno che qualcuno intervenga nelle dinamiche parlamentari, nella valutazione
di impatto di certe opere, nel contenzioso svolto di fronte a certe corti di giustizia sulle climatiche
ambientali… chi può essere presente in aula secondo la logica giuridica di rappresentanza?
# Ultima sfaccettatura di questo prisma è la salvaguardia del buon funzionamento e
dell’evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte
dalle attività umane.
Questi 4 punti si trovano in una legge in vigore in Italia, il Codice dell’ambiente, nell’art. 3 prescrive
queste cose, ci dà queste direttrici per esplicitare la nozione di sviluppo sostenibile.

Principi di azione ambientale:


Gli obiettivi sono declinati dando per acquisito che ormai le legislazioni ambientali in buona parte
del mondo si muovono lungo questa linea. Questi principi si trovano anche all’art. 174 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea.
Principio di precauzione: rappresenta una politica di condotta cautelativa quando si tratta di
assumere decisioni politiche o economiche su questioni che siano scientificamente controverse,
ovvero sulle quali non c’è certezza assoluta. Se dobbiamo prendere decisioni ma siamo in presenza
di questioni scientificamente controverse, quello che dobbiamo fare è di garantire l’alto livello di
protezione, prevenire i rischi e fare in modo che questi rischi siano quanto più possibile tenuti
lontani.
Il principio di precauzione riunisce tre condizioni:
- l'identificazione degli effetti potenzialmente negativi
- la valutazione dei dati scientifici disponibili
- la ampiezza dell’incertezza scientifica
La valutazione scientifica non è matematica, non c’è obiettività totale: si tratta di giustificare prese
di posizione che non possono andare in determinate direzioni quando un prodotto o un processo
può avere effetti potenzialmente pericolosi. Le evidenze scientifiche devono poi essere rese
pubbliche, devono essere comunicate e deve essere fatta una valutazione dei dati scientifici e vuol
dire che è onere dei parlamenti e dei governi acquisire tutte le informazioni necessarie. Poi
bisogna fare l’operazione più difficile di valutazione dell’ampiezza dell’incertezza scientifica:
questa condizione presuppone che l'incertezza scientifica sia aggiungere sempre presente, magari
in quote diverse. Ci sono delle innovazioni che inizialmente hanno un tasso di credibilità bassa
nell’opinione della scienza, come ad esempio le tecniche radiologiche negli anni 50-60, ma poi il
dubbio perde consistenza.
Il principio di precauzione è un principio che ha dei riflessi in moltissimi campi e i più significativi
sono:
o sicurezza alimentare – accompagnato anche da iniziative valutative e interventi da parte delle
autorità
o protezione dell’inquinamento elettromagnetico – rientrano casistiche molto ampie, come
l’esempio del telefonino e degli impianti 5G
o biotecnologie – settore che richiede una dubbia applicazione del principio di precauzione,
perché stiamo esplorando territori nuovi, è difficile capire i confini tra tutela della salute
umana e presunte alterazioni nel DNA umano che potrebbero comportare
Esiste un dibattito dottrinale molto ampio su questo in riferimento a molte questioni. Nell’UE si
tende a sconsigliare un eccessivo uso di integratori alimentari dall’effetto dubbio sulla salute; ci
sono state vicende giudiziarie molto intense (ad esempio in Francia) sulla possibilità di evitare una
contaminazione sanguigna attraverso trasfusioni sanguigne; ci sono problematiche delle industrie
farmaceutiche misurate sia ad ormoni che a steroidi ecc; la questione dei vaccini contro l’epatite…
Principio di azione preventiva: prevenire significa “prendere tutte le precauzioni necessarie
perché un evento negativo o dannoso non si verifichi”. Occorre intervenire prima che siano causati
dei danni, così da prevenire, nella misura in cui ciò sia possibile, eliminare, o, quantomeno, ridurre
fortemente, il rischio che tali danni si verifichino. I danni ambientali, una volta verificati, non
sempre sono riparabili e, pur laddove lo siano, l’attività di ripristino generalmente è più onerosa di
quella di prevenzione, con la conseguenza che anch’esso non può prescindere da considerazioni di
rilevanza economica. Quindi si può parlare dell’opera di prevenzione come di un investimento,
Proprio perché il principio di azione preventiva anche dei risvolti economici.
Alcuni ambiti di azione dell’azione preventiva:
o discipline di pianificazione ambientale (ad esempio nell’urbanistica)
o rifiuti (meglio puntare a produrne di meno che non inventarsi nuove tecnologie di
smaltimento)
o attività industriali: mettono in campo quantitativi di materia molto rilevanti
o trasporti: la precauzione è particolarmente importante (cfr. precauzione nel trasporto aereo)
Principio di correzione prioritaria alla fonte: se adotto una precauzione forse il fenomeno non si è
mai verificato, ma se correggo degli effetti vuol dire che ci sono già stati. È una logica di
anticipazione della soglia di intervento a momento prodromico rispetto al concretizzarsi
dell’evento dannoso. Esempio: Possiamo intervenire con un rimboschimento della foresta, ma se
correggiamo alla fonte il prodursi del danno in questo caso già registrato, sicuramente anticipiamo
l’intervento e non ci fermiamo alla logica puramente riparativa, colpiamo alla radice il motivo per
cui il fenomeno si è registrato.
Esempio problema dei rifiuti: principio per cui i rifiuti vanno smaltiti nel posto più vicino possibile
al luogo in ci vengono generati. Ci può essere un programma di smaltimento efficiente in Tunisia?
L’idea che noi esponiamo questi rifiuti pericolosi ad un trasferimento marittimo, con rischi
consistenti di dispersione, fanno propendere per una decisione diversa sullo smaltimento di questi
rifiuti. L’UE ha cercato di evitare questa circolazione dei rifiuti, obbligando in via prioritaria a
smaltire i rifiuti in regime di prossimità, per evitare un sovrapporsi di rischi.
Si favorisce una politica che non si limiti alla riparazione del danno, ma che sia finalizzata
all’individuazione della mera esposizione al periodo di tale bene.
Principio del ‘chi inquina paga’: il soggetto (opera più o meno responsabilmente come produttore,
commerciante, consumatore…) che aumenta il carico di lesione dell’ecosistema ne assume la
responsabilità e di conseguenza deve farsi carico delle misure di prevenzione o riparazione. Se
compro beni che hanno imballaggi non degradabili questo si deve trasformare in un costo che mi
viene addebitato nel momento in cui compro questo bene. La nostra è una società segata dalla
ripartizione del lavoro: abbiamo operatori ecologici che sono impegnati professionalmente in
operazioni di disinquinamento, di depurazione delle acque, raccolta e smaltimento dei rifiuti…e
abbiamo un ramo intero dell’economia che si è sviluppato in questa direzione e questo ramo non
necessariamente deve essere smantellato a beneficio di milioni di azioni individuali di depurazione
dell'acqua usata o di produzione di varia energia, il punto è che bisogna suddividere il peso, magari
attraverso una contribuzione fiscale oppure pagando delle tariffe per determinati prodotti e
servizi. Pagando la bolletta dell’acqua, non significa comprare l’acqua ma pagare per contribuire
alla spesa della depurazione: questo è stato deciso con la direttiva quadro ‘Acque’ del 2000, dove
l’UE ha fissato in maniera molto energica questo principio. Da allora tutte le spese, gli investimenti
per la costruzione degli acquedotti, per la costruzione e la gestione dei depuratori ecc. vengono
sostenute da chi paga la bolletta dell'acqua. Nella bolletta dell'acqua ci sono due voci: spesa per la
fornitura e spesa per il servizio di depurazione delle acque. Questa è applicazione del principio di
“chi inquina paga” e la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha ben sottolineato dover fare
ricadere su chi ha prodotto queste forme di inquinamento; certo, se l'inquinamento è molto
localizzato, per esempio un'azienda per errore o per dolo ha sversato delle acque inquinate, chi ha
inquinato sarà da indicare in maniera puntuale.
Quello che ha fatto fare e sta facendo fare un grande progresso a questa applicazione del principio
chi inquina paga, è la tecnica cosiddetta “dell’internalizzazione dei costi”: la tutela ambientale nel
suo complesso richiede una grande attenzione nello svolgere certe attività economiche e se c'è
qualcuno che guadagna da queste attività economiche, deve internalizzare il costo di risanare
l’ambiente. Quindi il costo deve essere messo a carico di chi fruisce di quel servizio. Ad esempio,
se compro un biglietto aereo, nel costo del biglietto aereo deve includere una quota per
l'abbattimento delle quote di CO2 che si stima abbia messo il mio volo. Il principio di
internalizzazione dei costi è stato annunciato nella Dichiarazione di Rio, all’art. 16, dice che le
autorità nazionali dovranno adoperarsi a promuovere questa internalizzazione dei costi e l’uso di
strumenti economici, quindi sistemi di prelievo fiscale per dare attuazione a questo principio.
Questo tenendo conto di due dati problematici, che introducono delle eccezioni a questo
apparente equilibrio perfetto:
1. se l’interesse pubblico fa un certo tipo di inquinamento si può far a meno di prevederne il
costo, in quel caso non sarà l’inquinatore ma la comunità nel suo insieme. Esempio: se per
spegnere un incendio devo utilizzare sostanze inquinanti, il costo non è addebitato. Qualcuno
in particolare ma verrà ripartito su tutta la comunità. Lo stesso vale a dirsi per tutte le attività
militari
2. non deve essere alterato il commercio e le finanze internazionali. Se dico che è un principio
agisce senza alterare le finanze internazionali, vuol dire che le finanze internazionali sono più
importanti del principio che vado ad affermare. Questo articolo è in qualche modo un debito
che la comunità internazionale ha pagato in quel momento al fatto che i paesi più avanzati non
hanno accettato di veder mandato all’aria tutto il loro impianto produttivo e dei servizi. Si
tutela in particolare l’interesse di chi ha investito: chi ha investito soprattutto in paesi stranieri
ha diritto a risarcimento prima non può scattare una salvaguardia dell’ambiente e questo può
voler dire mettere in ginocchio uno stato.
C’è poi uno pseudo-principio, quello dell’economicità. Ci sono moltissime ricchezze naturali che
l’uomo sfrutta da sempre e secondo questo approccio, ogni vantaggio che ci procurano i cosiddetti
‘fattori ecologici’ io dovrei valutarlo, dovrei dire che ha un valore economico, monetario. Il criterio
di economicità attribuisce quindi a tutti i fattori ecologici un valore economico per indurre i
soggetti economici (imprenditori, stati…) a considerare l'impatto ambientale e quindi gli eventuali
danni economici da sostenere in seguito alla scelta di particolari investimenti e consumi. Se si
tratta del consumo di qualcosa che non si può riprodurre, il consumo è da colpire, da vietare o da
correggere con un’internalizzazione molto alta del costo ambientale di questo prelievo. La
tematica ambientale richiede che se ne faccia carico il decisore politico, ma con un certo riguardo
e una certa prudenza ad evitare di essere poi travolti da questa logica economica.
Il principio di prossimità è un principio estrinsecato dalla legislazione europea: ci sono precise
direttive dell'Unione europea che si occupano dell’eliminazione dei rifiuti e questo a partire
addirittura già dal 1991. Il principio di prossimità indica proprio che nello smaltimento e
nell’eliminazione dei rifiuti, i processi devono avvenire a livello locale in modo tale da limitare il
movimento dei rifiuti.
C’è poi un altro principio sempre a livello di Unione europea, che è un principio cardine delle
politiche ambientali: il principio di integrazione. Nell’Unione europea, come in ogni altro paese,
abbiamo tante e diverse politiche: abbiamo una politica industriale, una politica dei trasporti, una
politica agricola… Molti credono che ci sia anche a lato una politica ambientale e in parte hanno
ragione, perché l’istituzione dei parchi naturali e delle aree protette rientra perfettamente in
questa logica a cui guarda un’azione strategica del governo, che dice “quel luogo ha dei caratteri di
biodiversità, di intrinseca naturalità, per cui vanno preservati”. Ma quello che è successo nelle
politiche europee è stato che si è capito che ogni settore richiede un approccio ambientale: non
posso scrivere un piano dei trasporti per l’UE dicendo che voglio avvicinare sempre di più i
cittadini europei e non farmi carico di quanto questo aumenta l’impronta ambientale. L’Unione
europea avuto questa intelligente idea di applicare il cosiddetto principio di integrazione e ha
inscritto nel Trattato relativo all’Unione europea che le politiche ambientali non devono essere
staccate dalle politiche economiche europee, ma devono anzi essere integrate in modo da
migliorare gli effetti prodotti da queste politiche. Una buona politica dei trasporti, per esempio, è
una politica trasporti non inquinante. L’Unione lega tutte le politiche e ne fa oggetto di un
‘crosscutting concern’, di una preoccupazione che taglia orizzontalmente tutte queste materie.

Principi complementari
à principi organizzativi
Il principio di sussidiarietà e di leale collaborazione fanno capolino nella nostra costituzione nel
2001, con l’approvazione della cosiddetta riforma del titolo V. Sussidiarietà significa intervenire in
maniera sostitutiva di qualcuno o qualcosa che non riesce a far fronte a qualche situazione.
Questo principio è stato fortemente caldeggiato nella riforma costituzionale del 2001 perché si è
ritenuto che facesse funzionare meglio la macchina delle nostre istituzioni, dicendo “fino dove è in
grado di fare bene e di gestire bene una politica il Comune lo fa il Comune, sennò si va alla
Regione, allo Stato e così via”. Questo è il principio di autorità centralizzata e di accentramento del
potere che regolava degli stati unitari fortemente concretati, nei quali si governava attraverso i
prefetti, attraverso ordini che venivano dall’alto. È un momento di valorizzazione dell’autonomia.
C’è poi un’altra declinazione della sussidiarietà che è la sussidiarietà orizzontale, cioè tra gli enti
pubblici e la società civile; questo sta a dire che se una cosa può essere fatta bene dalla libera
società (per es. attività ricreative) lo Stato e gli enti pubblici in genere non devono intromettersi.
Questo è quello che fa sì che il volontariato, l’associanismo ecc. possano proliferare; è una forma
di autolimitazione dell’ente pubblico. In base al principio di sussidiarietà ha priorità rispetto alla
decisione presa in alto e quello che si sviluppa nella società civile ha precedenza sull’intervento
pubblico. Ma a cosa serve il principio di sussidiarietà in campo ambientale? Fa sì che lo Stato
intervenga per le questioni ambientali quando gli obbiettivi di un’azione, per esempio di contrasto
a determinate forme di inquinamento, non può essere realizzata bene dai livelli territoriali
inferiori; se un bosco non può essere adeguatamente protetto perché mettiamo a cavallo di entità
amministrative di vari comuni, varie regioni ecc. è il soggetto che sta sopra che deve intervenire.
La stessa cosa avviene a livello dell'Unione europea: se una problematica ambientale, per esempio
la protezione della pianta del mirto che si trova solo in Sardegna, può essere fatta dalla Regione
Sardegna o dall’Italia, non c'è bisogno che si muova l'Unione europea. Il principio di sussidiarietà
mista dire che l'Unione europea, anche nelle questioni ambientali, interviene solo quando è
necessario agire a quel livello più alto. È un principio tipicamente organizzativo, cioè di
distribuzione del potere politico ed è funzionale al buon sviluppo delle politiche ambientali. È un
principio molto presente nei rapporti tra l'Unione europea e gli Stati membri e che deriva
massicciamente dalla dottrina sociale della Chiesa, che ha investito molto sulla capacità della
società di organizzarsi dal basso. Il principio di sussidiarietà è stato inscritto all’articolo 118 della
Costituzione.
Principio di leale collaborazione: l’Italia è uno stato regionale, nel quale ci sono poteri esercitati a
livello delle regioni e poteri sviluppati a livello statale. Già nei sistemi federali si è posto il
problema dei rapporti che ci devono essere tra questi livelli di governo, ma la ripartizione dei
poteri deve essere risolta e viene risolta a livello teorico attraverso il principio giuridico della leale
collaborazione. “Leale collaborazione” vuol dire che nessuno deve mettersi in condizione di
impedire all’altro di esercitare i suoi poteri. Questo è un principio anch’esso molto presente
all’interno dell’UE, oltre ad essere prescritto nella Costituzione. Uno Stato Membro dell’UE, anche
se ha dei poteri molto estesi, non deve mai compromettere la realizzazione degli obiettivi
comunitari; anche se lo stato ha votato contro non deve far nulla se non adottare tutti gli atti
necessari perché vengano conseguiti gli obiettivi comunitari. Poi sia la giurisprudenza della Corte
di Giustizia europea che la nostra Corte costituzionale ribadiscono ulteriormente questo principio.

Jure condendo
È una prospettiva che è emersa negli ultimi vent’anni soprattutto nell’are dell’America Latina.
Siamo in paesi come l’Ecuador e la Bolivia, che hanno ripreso un approccio culturale proprio delle
popolazioni indigene precolombiane, la cui tradizione culturale non era legata alla “verità rivelata”
o alla religione, ma ad un approccio molto rispettoso dei diritti della Madre Terra. È presente
un’idea di personificazione della natura, idea presente anche in diverse costituzioni dei primi anni
2000 (Bolivia ed Ecuador). A livello più generale (paesi, ONG ecc.) si è ritenuto che dovessero
essere affermati dei diritti della natura come se questa fosse una persona: è stata quindi stilata
un’apposita Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra (Conferenza Mondiale dei
Popoli contro il Cambiamento Climatico, 2010), una carta internazionale sottoscritta da pochissimi
stati. Si va nella direzione di riconoscere che la natura ha dei diritti indipendenti dai diritti
dell’uomo: buona parte della difesa dei diritti umani alla natura è una visione che mette l’uomo al
centro della scena (diritti dell’uomo all’ambiente salubre, diritti dell’uomo all’acqua…). Gli animali,
il bosco, il fiume… non hanno diritti? La natura nel suo complesso non ha diritto di essere ‘lasciata
in pace’ nel suo sviluppo proprio? È una rivoluzione copernicana quello che sta succedendo per i
diritti ambientali: ci sono stati che cominciano a dire che se continuiamo a mettere l’uomo per
primo e a misurare ogni cosa sulla base dei nostri interessi, finiremo male. Forse dobbiamo
riconoscere dei diritti indipendenti alla natura in generale o ad alcuni pezzi della natura. Così come
gli esseri umani godono dei diritti umani, così tutti gli altri esseri hanno diritti specifici alla loro
specie o tipo e adatti al ruolo e alla funzione che esercitano all’interno delle comunità in cui
vivono. È una prospettiva non più antropocentrica, ma mette tutta la natura al centro e ristabilisce
un equilibrio diverso. La Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra non è diritto
vincolante, che fa sì che qualsiasi antagonismo tra un interesse umano e un interesse della natura
vada risolto in modo che non sia la natura a portare il peso di questa decisione. Il concetto di
Madre Terra è un concetto etico-religioso per le popolazioni precolombiane, andine, ma è anche
un’astrazione che può essere utilmente utilizzata da tutti noi. Questo va in complemento con i
diritti della specie umana: non si cancella il diritto dell’uomo ad equilibrio ambientale, ma ‘mette
le cose nell’ordine giusto’.
Il principio di responsabilità è un principio cardine dell’etica applicata all’ecologia e alla bioetica,
campi relativamente recenti. Tutto il Novecento è stato un momento di crescita etica e di
affermazione dei diritti, ma solo da pochi decenni siamo confrontati a delle questioni morali
particolarmente stringenti che riguardano “la cosa pubblica”, l’agire pubblico in generale. In
campo ambientale i principi etici sono particolarmente importanti; negli anni Settanta (1979) un
importante filosofo, Hans Jonas, ha scritto “Il principio di responsabilità”, indicando un principio
cardine di un’etica razionalista applicato ai temi dell’ecologia e della bioetica. Hans Jonas dice in
sostanza che ogni politica che viene applicata deve prendere in considerazione anche le
conseguenze future, non deve fare solo il bilanciamento dei costi e benefici di oggi, ma deve avere
un’idea prospettica. L’etica non è più un qualcosa di teorico, è intrinsecamente nelle nostre scelte
e nella concretezza pluralistica delle situazioni e della vita in cui viviamo.
Costituzioni e ambiente

Le costituzioni sono l’insieme delle regole fondamentali che reggono l’ordinamento giuridico di un
paese, definendo la ripartizione dei poteri tra gli organi che compongono questo sistema di
governo e stabilendo i diritti dei cittadini. Le costituzioni sono servite a limitare il potere assoluto,
a stabilirne la legittimità e ad assicurare che i diritti dei cittadini non vengano travolti dall’autorità.
Le costituzioni non sono necessariamente e totalmente scritte: ci sono paesi che non hanno mai
adottato costituzioni formali (es. UK)
Noi ci siamo progressivamente orientati verso una costituzionalizzazione dell’ambiente, quindi una
serie di regole che tutelano l’ambiente. L’idea di un inserimento nella costituzione si diffonde a
partire dagli anni ’70 e la base della costituzionalizzazione dell’ambiente la si trova nella
Dichiarazione di Stoccolma.
Noi abbiamo una gerarchia delle fonti, con la costituzione, gli statuti delle regioni e le leggi
costituzionali, la legge ordinaria (dello stato o della regione), i regolamenti… quindi se mettiamo
che l’ambiente va tutelato entro la costituzione sicuramente è sicuro.
Negli anni ’70-’80 abbiamo primi casi di richiami all’ambiente nelle costituzioni, con un’impennata
negli ani ’90 (Convenzione di Rio coinvolge anche ONG, molti stati, l’opinione pubblica). Dopo il
giro di boa del millennio abbiamo avuto un rallentamento di quest’operazione, anche perché molti
paesi si sono strutturati in modo da avere questo tipo di norme al loro interno. In termini di
trasformazione costituzionale 20-30 anni sono un periodo molto breve e il fatto che paesi di
diversa cultura e stadio si sono allineate è segno che gli ordinamenti emulano le decisioni gli uni
degli altri in maniera sempre più accelerata.
Caratteri generali
Molte norme costituzionali hanno il carattere di genericità e astrattezza, ma in questo caso la
genericità è un connotato un po’ ----------: in alcuni casi abbiamo un’idea di ambiente pulito e
salubre a cui aspiriamo tutti, ma molto raramente questo si trasforma in un diritto vero e proprio.
Ci sono delle situazioni giuridiche che, se sono soltanto proclamate in termini generali (come
ambizione collettiva, come buon proposito ecc.), non hanno la stessa efficacia di un obbligo
costituzionale, che è un dovere e c’è qualcuno che lo può far rispettare. Il governo e il parlamento
sono tra i primi a dover fare cose per la protezione per l’ambiente, ma chi glielo fa fare? L’idea del
costituzionalismo è proprio che si può dire agli organi governativi o amministrativi che i cittadini
hanno il diritto di pretendere che questa cosa va fatta. Il fatto che io sono titolare del diritto ad
avere un ambiente sano può diventare qualcosa che fa sì che un giudice ordini qualcosa a questo
potere, non è solo una pura petizione di principio; è necessario generare diritto opponibile. Al
centro del dovere di garantire questo diritto ad ambiente sano ed equilibrato c’è lo stato,
l’ordinamento sovrano: deve garantire un miglioramento della vita e un ambiente adatto allo
sviluppo della persona à prospettiva antropocentrica: l’idea stessa di protezione dell’ambiente è
tutta antropocentrica, anche se l’ambiente si protegge molto bene da solo.

Aspetti deboli
Abbiamo la possibilità, a seconda dei paesi e delle tradizioni giuridiche diverse, di avere formule
diverse e diverse risposte dell’ordinamento. La costituzionalizzazione ha dei riflessi solo
parzialmente efficaci, ha dei punti deboli. Non ci sono dei meccanismi giurisdizionali adeguati a
proteggere questo valore, perché in fondo, affinché tutto funzioni bene bisogna che il giudice:
a) ci sia
b) abbia poteri reali di pronunciarsi
c) che non sia troppo subalterno al potere politico (autorità di governo e potere legislativo). Ci
sono paesi in cui il giudice è molto condizionato dal potere politico, che può anche destituirlo –
cfr. Ungheria e Polonia. Se il meccanismo non è adeguato tutto resta sulla carta e nessuno dirà
all’autorità pubblica che non ha fatto abbastanza per l’ambiente e che deve cambiare linea.
Un’altra carenza sta nella legittimazione ad agire: l’ordinamento stabilisce dei requisiti, io posso
chiedere che venga condannata quella società petrolifera perché ha fatto un grande disastro
ambientale e dei risarcimenti. Ma non tutti gli ordinamenti consentono di andare in giudizio,
alcuni pretendono danni precisi in capo a determinate persone e non che, per esempio,
un’associazione possa ergersi a difensore del diritto dell’ambiente. Non sempre però è possibile
dimostrare di essere legittimamente in giudizio e non tutti riescono a dimostrare di avere un
interesse ad agire. Ad esempio, le associazioni ambientaliste (FAI, WWF ecc.) in alcuni ordinamenti
sono ammesse di arrivare davanti al giudice, in altri solo chi ha il danno effettivo può andare. Il
meccanismo di selezione potrebbe essere estremamente restrittivo della possibilità che qualcuno
vagli sulla tutela dell’ambiente. Il mancato riconoscimento di interesse ad agire pregiudica molto
la tutela dell’ambiente. Poi: io posso chiedere il giudizio penale, ma la comunità ha un danno
economico e quindi dovrebbe agire con un’azione civile e poi bisogna intervenire con un’azione
amministrativa. Allora a volte è anche complesso e carente il momento giudiziario; sempre più
paesi si sono a questo proposito dotati di tribunali ambientali, un ordinamento giurisdizionale che
giudica delle cause che riguardano la salubrità dell’ambiente, il mantenimento dei cicli
dell’ambiente…
La legge poi va interpretata. Se le interpretazioni sono aperte, progressive e motivate al
cambiamento sociale nella recezione di questo nuovo principio tutto procede bene; se invece
abbiamo giudici mentalmente restii, questi possono restringere in limiti molto angusti
l’applicazione di questi principi. È un impatto che va misurato quindi non solo sulla definizione
formale del principio, ma anche nella sua pratica interpretativa costante. C’è la tendenza a fare un
lavoro quantitativo sulle costituzioni, ma questo è un approccio materiale che può essere molto
fallace, può dimostrare che c’è stata una grande crescita del diritto dell’ambiente ma nascondere
anche grandi debolezze.
Ultima debolezza è quella della scarsa implementazione da parte dell’autorità amministrativa.
Dietro sta una situazione molto semplice: lo stato non ha i mezzi o non vuole mettere in campo
mezzi per applicare questi principi, anche se sa che dovrebbe farlo. Può lasciare per negligenza o
corruzione queste decisioni, oppure ancora perché non riesce ad organizzarsi o per inerzia. Se
l’autorità amministrativa non mette in campo le risorse, anche le più belle sentenze rimangono
lettera morta.

Griglie di lettura
L’indagine fatta dai giuristi per vedere il livello di avanzamento del diritto dell’ambiente è
un’indagine complessa. Abbiamo menzioni sparse, collocate qua e là nelle costituzioni; hanno
lingue diverse e una terminologia diversificata. Ci sono culture giuridiche diversificate che portano
a vedere la natura in una maniera diversa da come la vede il mondo occidentale. Esistono diverse
griglie di lettura nell’affrontare queste tematiche: si tratta di cercare una linea di ricostruzione che
ci dia sufficienti indicazioni.
# La prima linea è quella di uno studioso canadese, David Boyd, che è non soltanto l’autore di un
libro importante sulla rivoluzione dei diritti ambientali, ma in questo momento riveste anche il
ruolo di “special raporteur”, ovvero di delegato permanente delle Nazioni Unite sui problemi
dell’ambiente per chiarire, approfondire, promuovere i diritti ambientali su scala planetaria. Boyd,
nella sua presentazione dei diritti dell’ambiente, parte dal riconoscere che ci sono delle norme
sostanziali, cioè norme che individuano concretamente dei diritti in capo alle persone, dei doveri
in capo alle istituzioni e così via: è il cosiddetto diritto sostanziale. Poi ci sono i diritti procedurali:
chi deve fare che cosa, in che modo, in che tempi… Quindi in questa sua larga analisi di tutte le
costituzioni che trattano dell’ambiente, Boyd sostiene che ci sono varie forme di diritto, alcune di
taglio più sostanziale, altre di taglio più procedurale. Poi aggiunge che ci sono ordinamenti che
costituzionalizzano delle responsabilità individuali, ovvero dicono che ci sono dei soggetti,
individuali o meno, che sono titolari di un dovere protettivo, riparativo e così via nei confronti
dell’ambiente. La responsabilità individuale va completata con la posizione di dovere dello stato:
alcuni ordinamenti dicono che lo stato ha dei doveri e se dicono che ha dei doveri, implicitamente
diciamo che lo stato li deve rispettare e quindi è tenuto a delle condotte particolari. Costringere le
autorità pubbliche a determinati comportamenti è e qualcosa che risulta possibile anche
soprattutto grazie a norme costituzionali molto ferree, molto stringenti.
# Un’altra interpretazione è quella di Jung, Hirschl e Rosevear, che hanno dato una griglia ancora
più semplice: si orientano verso una tripartizione piuttosto semplice, dicendo che ci sono diritti
che hanno una natura economico-sociale, e tra questi fanno rientrare i diritti ambientali,
assimilati ai diritti all’istruzione, allo sviluppo, al benessere ecc. All’interno di questi diritti
riconosciuti, alcune norme si limitano a disposizioni ‘aspirative’ (aspirational), di auspicio che
qualcosa avvenga. Poi ci sono delle disposizioni che creano diritti, anche nei confronti dello stato:
sono cogenti, obbligatori e vincolanti.
# Più articolata la chiave di analisi di Jeffords, che indica delle diverse categorie di norme
costituzionali, la prima delle quali è quella dei doveri statali di protezione. Mette in forte evidenza
quelle norme costituzionali che impongono allo stato di garantire un livello ambientale adeguato;
secondo questa ricostruzione relativamente recente, 29 costituzioni dicono che lo stato ha dei
doveri molto precisi, che si deve dare da fare e che risponde davanti ai cittadini per le sue azioni
ed eventuali omissioni.
Ci sono poi delle costituzioni che entrano ancora più nel dettaglio di questi propositi che vengono
assegnati allo stato. Una delle funzioni delle costituzioni moderne, in particolare quelle della
seconda metà del Novecento, è quella di essere programmatiche, ovvero che danno degli impegni
allo stato a fare delle cose. Sono costituzioni sociali anche, che non si limitano a dire i diritti e
doveri dei cittadini e la garanzia che lo stato deve dare alla libertà, sì tratta di promuovere
determinati valori di istruzione, di salute, di benessere, di pari dignità e così via. La costituzione
italiana è una costituzione tipicamente programmatica nel suo insieme, perché ha fatto propri dei
messaggi, degli impegni ideologico-politici importanti nell’uscita dal regime fascista, per costruire
un ordinamento diverso. Questi compiti, che vengono assegnati allo stato solo in qualche caso
originano dei veri e propri diritti in capo ai cittadini, sono la formula più che viene utilizzata nelle
costituzioni. Sostanzialmente la metà delle costituzioni del mondo (90) contiene degli obiettivi e
principi direttivi rivolti allo Stato per regolare la sua azione.
Alcune costituzioni poi, ma sono ancora poche, hanno iscritto al loro interno un diritto
all'informazione ambientale: su questo richiamiamo quella Dichiarazione di Aarhus del 1997, che
ha stabilito criteri di informazione, partecipazione e giustizia in materia ambientale. È una
convenzione che è stata ed è una leva molto efficace, che ha obbligato tanti ordinamenti a
cambiare il proprio approccio ai diritti dell’ambiente, consentendo ai cittadini di sapere che cosa
succede realmente, di poter reagire. Il diritto all’informazione è stato fatto proprio solo da 17
costituzioni.
In maniera più massiccia è stato invece riconosciuto il diritto all’ambiente sano: è un diritto
sostanziale, non un diritto procedurale, che per il fatto di essere inscritto nella costituzione si può
far valere al più alto livello (anche se poi non tutte le costituzioni sono implementate attraverso
legislazione, giurisprudenza ecc.). il diritto ad un ambiente sano è una formula giuridica
fortemente espansiva, che viene reclamata e riconosciuta in maniera sempre più massiccia: ormai
un terzo dei paesi del mondo (73) l’ha già inserito nelle proprie costituzioni. Stiamo sempre
mettendo l’uomo a parametro di questa buona qualità.
Invece 42 costituzioni hanno fatto proprio il principio di “our common future”, del rispetto delle
generazioni future, riconoscendo formalmente nel testo costituzionale che l’ordinamento tutto
non deve lavorare solo per la fruizione ottimale delle risorse di oggi, ma anche per il beneficio di
chi verrà.
In numero abbastanza elevato di costituzioni (67), c’è un dovere generalizzato di rispetto
dell’ambiente, ma questo dovere messo in capo espressamente alla comunità umana ha un
significato particolare, perché vuol dire che anche i privati devono mettere in campo tutte le azioni
necessarie perché l’ambiente sia rispettato. È come dire “ci diamo come regola collettiva che
alziamo tutti insieme l’asticella della qualità ambientale”. Questo può tradursi in impegni maggiori
da parte delle industrie a ridurre le emissioni, ad esempio. Questo dovere generalizzato comporta
una visione meno incentrata sulla preminenza del potere pubblico, ma riconosce le insufficienze
dei poteri pubblici a raggiungere da soli determinati obiettivi.
Sono ancora poche le costituzioni nel mondo, solo 10, che riconoscono l’esistenza di un diritto
all’acqua, un diritto che viene ad essere ormai riconosciuto a livello internazionale (cfr.
Dichiarazione delle Nazioni Unite del 2010). Si sono celebrati 10 anni circa il diritto fondamentale
all’acqua e ai servizi igienici che ad essa sono collegati, e alcune costituzioni sono ormai esplicite
nel riconoscere all’uomo questo diritto. Se si va a vedere da vicino queste norme, ci si accorge che
in alcuni casi sono molto impattanti dal punto di vista emotivo à art. 27 della costituzione
sudafricana, considerato una delle gemme del diritto ambientale. Alcune norme sottolineano il
carattere pubblico della risorsa idrica, o comunque il dovere collettivo di proteggerla.

Costituzioni con protezione ambientale ‘ab origine’


Alcune costituzioni han fatto proprie fin dalla loro nascita delle norme ambientali, questo perché
sono costituzioni recenti (grossomodo a partire dagli anni Ottanta). Hanno una vocazione
ambientale particolare e hanno già assorbito questa cultura dell’ambiente. Grecia, Spagna e
Portogallo sono tre paesi usciti dalle dittature tra gli anni ‘70 e ’80 e quindi quando sono entrati
nella vita democratica si sono dotati di nuove costituzioni: gioco o forza dovevano far tesoro della
cultura costituzionale moderna. I paesi dell’Europa centro-orientale, usciti dal blocco comunista, si
sono anch’essi dotati di nuove costituzioni, anche se non è detto che poi il principio ambientale sia
stato immediatamente rispettato (vedi Polonia molto dipendente dal carbone).
Esempio costituzione spagnola: la Spagna è tornata alla democrazia nel ’77 e nel ’78 si è dotata di
una nuova costituzione. Qui l’impatto emotivo è molto alto, tocca le corde sensibili nel dire,
all’art. 45, che tutti hanno diritto a fruire di un ambiente adeguato per lo sviluppo della persona,
nonché il dovere di mantenerlo. Due diversi profili: diritto e dovere. Cosa si dice invece delle
autorità pubbliche? Si dà un ruolo ‘custoditale’, di protezione generale, i poteri pubblici devono
vegliare sulla razionale utilizzazione di tutte le risorse in funzione di qualità della vita. Dovere
anche restaurativo, contando sull’indispensabile solidarietà collettiva. È un principio molto
generale, che non genera automaticamente una forte iniziativa da parte dell’ordinamento. Si
aggiunge al terzo comma che per coloro che violino i termini precedenti ci saranno sanzioni penali
o amministrative, così come l’obbligo di riparazione. La costituzione spagnola ha anticipato
principi come l’obbligo di riparazione del danno che poi l’UE ha istituzionalizzato a livello più alto.
Se costituzioni come quella spagnola sono nate con DNA molto più attento all’ambiente, in molti
casi questa operazione di ammodernamento è stata fatta, più semplicemente, con emendamenti,
che senza stravolgere l'impianto costituzionale hanno poi portato ad un rinnovamento dei valori
ambientali. Qui di nuovo richiamo in particolare al principio dello sviluppo sostenibile, che si è
fatto strada nel 1992 con la Dichiarazione di Rio: Questo principio lo troviamo iscritto ormai a
chiare lettere nella costituzione del Belgio, della Finlandia, dei Paesi Bassi, della Svizzera, della
Repubblica federale tedesca. Tutte queste costituzioni hanno voluto sottolineare quest'idea di
equilibrio tra lo sviluppo economico e la sostenibilità ambientale in questa forma di riassuntiva
dello sviluppo sostenibile. In qualche caso si tratta di costituzioni aggiornate o di recente
riformulazione, che quindi hanno voluto metabolizzare il principio di sviluppo sostenibile e farne
uno dei motori costituzionali.
Esempio costituzione svizzera: nel 1999 questa costituzione è stata totalmente riorganizzata
(risaliva al 1848, era una delle più vecchie del continente). Con la nuova costituzione del 1999 la
Confederazione elvetica ha inserito all'articolo 73 il concetto di sviluppo sostenibile. La Svizzera è
un paese federale, agisce per l'ambiente sia la Confederazione (La Svizzera nel suo complesso) sia i
singoli cantoni ed entrambi i fronti a favore di un rapporto durevolmente equilibrato tra la natura,
la sua capacità di rinnovamento e la sua utilizzazione da parte dell'uomo. Questa formula mette
molto in evidenza il rapporto che c'è tra uomo e natura, mette simbolicamente la natura in primo
piano e la sua capacità di rinnovamento; quindi non soltanto alla natura in senso statico. Proprio
perché questa costituzione è stata adottata alla fine degli anni 90 faceva già tesoro di tutta la
cultura ambientalista moderno e riusciva ad esprimere questa impostazione. La Svizzera ha fatto
altri importanti progressi in campo di tutela ambientale e ha costituzionalizzato l'obbligo di
trasferimento del trasporto merci su ferrovia fin dove è possibile, cioè ha detto basta
all'attraversamento della Svizzera da parte di veicoli a gasolio ecc., si deve trasferire su rotaia,
anche perché dal punto di vista fattuale la Svizzera è diventato un corridoio attraversato e c’è la
questione dell’inquinamento.
In alcune costituzioni sono presenti solamente dei riferimenti cosiddetti ‘organizzativi’, cioè chi fa
che cosa, cioè competente nella materia dell’ambiente. La costituzione italiana è un po’ così,
perché i concetti legati alla tutela dell’ambiente non sono costituzionalizzati, ma nel 2001 c’è stata
un’importante riforma costituzionale (riforma del titolo V della costituzione), con una nuova
definizione delle competenze delle regioni e dello stato. La parola ambiente è entrata per la prima
volta, in una maniera un po’ marginale, nella costituzione italiana, nella parte organizzativa. Sono
norme più di carattere strumentale che vengono inserite nelle costituzioni, affinché funzioni bene
la separazione verticale dei poteri.
Ci sono poi costituzioni con forti restrizioni, che mettono le mani avanti in qualche modo, perché
quelle limitazioni che spesso sono oggettivamente presenti nel non dare attuazione ai principi
costituzionali, vengono inserite da qualche costituzione. Per esempio, la costituzione dell’Albania,
relativamente recente, dice all’art. 59 che l’ambiente sano, ecologicamente adatto per le
generazioni di oggi e quelle future, è perseguito dallo stato ma nell’ambito delle sue competenze
costituzionali e dei mezzi di cui dispone. È mettere un po’ un alibi rispetto a mancate
implementazioni delle politiche ambientali. La cosa più marcata è il secondo comma dell’art. 59
della costituzione albanese, dove si dice che la realizzazione di questi obiettivi sociali (negli
obiettivi sociali rientra l'ambiente) non possa essere richiesta direttamente richiesta direttamente
in sede giurisdizionale; non puoi andare dal giudice per il soddisfacimento del tuo diritto ad un
ambienta sano e adatto per le generazioni di oggi e quelle future. Questo svuota in parte le
possibilità del cittadino, soprattutto di reagire di fronte a determinati ambientali: è la legge che
dice come si possono realizzare questi obiettivi, se la legge non lo dice voi non avete strumento,
perché il dato forte delle costituzioni e proprio nel poter prevalere sulle leggi (se un Parlamento o
il governo non vogliono intervenire il principio costituzionale può intervenire anche contro di loro).
Ci sono poi delle costituzioni che hanno delle tutele circoscritte a determinati profili di paesaggio,
di salute, di uso delle risorse, non citando l'ambiente in quanto tale, non hanno visione sistemica,
però motivano e fanno agire i poteri pubblici per il perseguimento di questi obiettivi. Sono
costituzioni con tutele, ma senza diretto riferimento all’ambiente. Tra questi paesi rientrano il
Giappone, gli Stati Uniti, la Svezia, il Kuwait, l'Honduras, lo Yemen: paesi nei quali le autorità sono
destinatarie di un messaggio preciso per questi valori. È come dire che hanno già recepito delle
spinte a favore di alcuni profili di qualità della vita, ma non ne hanno ancora interiorizzato una
visione sistemica. In questo quadro rientra anche la costituzione italiana, perché il paesaggio è un
valore costituzionale iscritto formalmente all’articolo 9 nella costituzione: vuol dire che fin dagli
anni ‘40 c'era la sensibilità al paesaggio, che è una parte del discorso ambientale.
Con le nuove costituzioni latino-americane c'è stato un recupero della tradizione culturale
giuridica precedente: si fa in particolare riferimento a Bolivia ed Ecuador, investiti da questa
corrente trasformativa della loro matrice costituzionale. Queste nuove costituzioni hanno
chiamato fortemente la natura e le entità naturali come soggetto trattato direttamente dalla
costituzione e addirittura beneficiario di un riconoscimento molto speciale: non solo si dice che la
natura deve essere protetta, ma si dice attenzione che la natura stessa ha dei diritti. I diritti noi
spesso li abbiamo come persone fisiche, ma sono anche riconosciuti alle persone giuridiche (diritto
della società che gestisco è un diritto a sé stante, oppure diritti degli enti pubblici). Sono
costituzioni che riconoscono alla Natura una sua personalità e una sua titolarità di diritti; spesso si
parla in questi paesi di Madre Terra, ha una rappresentazione anche religiosa. Questo è ciò che
distanzia molto queste nuove costituzioni latino-americane da quella occidentali, che sono tutte
protese a disciplinare in origine lo sfruttamento delle risorse, la titolarità delle risorse, poi dagli
anni ’70 in poi hanno iniziato ad ammorbidirsi e c’è stato un tentativo di regolazione. Ma c’è stato
un salto molto forte, perché è come dire che al tavolo in cui si discute delle risorse, degli equilibri
ambientali non ci sono solo persone ma anche chi rappresenta la natura, e ci sono meccanismi
giuridici particolari per far rispettare questi diritti. Un esempio è il diritto di un fiume la sua
integrità. Ci sono diritti relativi all'esistenza, ma anche diritti relativi alla restaurazione, ovvero
riportare allo stato originario questi territori. Accanto al principio c’è anche un dato processuale,
procedurale ed è che sono autorizzati ad agire a tutela di questi diritti della natura persone,
comunità, popoli e nazioni. Bolivia ed Ecuador sono stati in cui ci sono popolazioni precolombiane,
indigene, ancora significativamente identificate e portatrici di loro tradizioni e culture, con
tradizioni giuridiche spesso ctonie, legate appunto alla terra. Anche comunità di villaggio, possono
andare in giudizio e chiedere che vengano tutelati i diritti della natura. Sono costituzioni che
danno un fortissimo impulso alla giurisdizionalizzazione, cioè al far trattare in sede giudiziaria i
profili di diritto della natura.
Costituzione dell’Ecuador: persone, comunità, popoli e nazioni portano dei diritti e sono anche
soggetti legittimati all’azione di tutela ambientale (art. 10). Nella stessa bandiera dell’Ecuador
sono rappresentati elementi naturali. All’art. 71 si parla di come la natura sia oggetto di quei diritti
che la costituzione le riconosce e all’art. 74 si riporta che ciascuno può agire a tutela dei cicli di vita
e per la restaurazione dei diritti della terra. In questa costituzione c’è tutta una dinamica di tutela
che passa attraverso il ‘tribunal del medio ambiente’, cioè un tribunale ambientale ad hoc, che
passa attraverso una legge che stabilisce i diritti della natura in quanto tale.
Costituzioni con articolate disposizioni di principio: ci riporta al nostro contesto europeo, perché
agli inizi del 2000 uno stato si è distinto con una forte implementazione dei valori costituzionali
per quanto riguarda il proprio ordinamento. La Francia è un paese che ha visto negli ultimi decenni
una forte crescita di sensibilità ecologica (non ha la stessa tradizione robusta dei paesi nordici) e
non a caso è stata leader nella stipulazione dell’accordo di Parigi nel 2015: questo perché ha fatto
un percorso di discussione collettiva, con incontri politici estremamente avanzati, tanto che è
stato il primo ad istituire il Ministero dell’ambiente nella compagine governativa. Ha enunciato in
una Carta i principi dell’ambiente, ne ha fatto una specie di dichiarazione di principi piuttosto
articolata e poi l’ha incardinata all’interno della stessa costituzione. Quindi non si è limitata ad una
proclamazione generale ma li ha trasformati in principi costituzionali veri e propri.
Charte de l’environnement (legge costituzionale n. 2005-205) à la definizione di patrimonio
comune è una definizione un po’ imprecisa ma comunque che ha una forte valenza per quanto
riguarda la responsabilità collettiva nei suoi confronti. È presente anche la nozione di ingresso
nell’antropocene: l’uomo non subisce più le condizioni ambientali ma concorre nel determinarle, il
che ingrandisce la sfera della responsabilità. È presente anche il ‘mea culpa’: non solo i modi di
produzione, ma anche i modi di consumo della comunità esercitano un’influenza, insieme
chiaramente ad un eccessivo sfruttamento delle risorse. Questo incide su tre aspetti, ovvero sulla
biodiversità, sul pieno sviluppo della persona umana (se viviamo in un ambiente deteriorato ne
risentiamo) e sul progresso, perché la crescita esponenziale senza limiti diventa un handicap. In
francese non si dice sviluppo sostenibile con la stessa matrice linguistica che usiamo noi; sviluppo
sì, è la traduzione letterale proprio, ma non si usa il termine sostenibile (sustainable in inglese), in
francese si usa l'espressione durable, che mette in evidenza la perennità dello sviluppo più che il
bilanciamento, è una formula leggermente diversa ma riconducibile allo stesso concetto che noi
utilizziamo. Developement durable è l’obiettivo, lo è per la comunità internazionale, per la
Dichiarazione di Rio, per la COP 21… ma qual è la condizione per questo developement durable? È
che le scelte destinate a soddisfare i bisogni di oggi non devono compromettere la capacità delle
gestioni future e degli altri popoli di soddisfare i propri bisogni.
Questa Charte ha in tutto 10 articoli:
- l’art. 1 riporta l’affermazione del diritto individuale all’ambiente equilibrato e sano e rispettoso
della salute. È l’uomo al centro, un uomo a cui è riconosciuto un diritto.
- art. 2: non siamo solo destinatari di diritto ma destinatari di un dovere di conservazione e
miglioramento dell’ambiente
- art. 3: principio di legalità, questi obblighi devono essere formalizzati attraverso legge, non
solo ordini delle autorità, e sono doveri di prevenire le violazioni e i danni e limitarne gli effetti.
Tecniche d’intervento

Ci sono sostanzialmente tre diversi modi di reagire di fronte alla necessità di ridurre l’impatto
umano nei confronti dell’ambiente; sono approcci che posso essere utilizzati dagli stati, dagli enti
pubblici locali, da vari soggetti detentori di autorità o da soggetti privati che vogliono contribuire.
Per iniziare, le tecniche più autoritative, che fanno leva sul fatto che lo stato è detentore di un
potere di supremazia nei confronti dei cittadini. Dal punto di vista dell’ambiente si parla molto
generalmente di tecniche command e control: vuol dire che dal punto di vista dello stato (ma
anche delle regioni, degli enti locali ecc.) appare chiaro un obiettivo, per esempio che non si deve
aumentare il volume edificatorio o che non si deve aggravare il carico di inquinamento dell’aria. Si
può procedere o su una via più lunga, che è una via pianificatoria – allora si dice che gli organi che
controllano l’urbanistica non possono più rilasciare concessioni edilizie – oppure si interviene in
maniera più puntuale, repressiva (azione di polizia amministrativa), che stabilisce in maniera
gerarchica il rapporto tra i cittadini e il pubblico. Quando si sforano i livelli massimi autorizzati per
l'inquinamento dell'aria si chiudono si chiudono le possibilità di trasporto pubblico o privato, con
mezzi di un certo genere che procedono a combustione fossile, oppure si ritarda l'apertura dei
riscaldamenti domestici, ecc. e se qualcuno deroga questi ordini dell’autorità può essere punito. La
legge, il regolamento, il programma in materia ambientale sono delle forme di command, mentre
le sanzioni rientrano nell’ambito del control.
L’altro approccio è il market based approach: sono dei dispositivi che vengono creati e che si
ispirano al mercato, inteso come luogo giuridico all’interno del quale si formano le preferenze
della comunità rispetto a determinate condotte, dove ci sono dei comportamenti che non sono
virtuosi. Con questo approccio si stimola alla protezione dell’ambiente limitando le esternalità
negative delle attività economiche. Ad esempio: mi danno un bonus per avere una caldaia più
efficiente a meno, così pur non avendo messo fuori legge la caldaia a gasolio ottengo il risultato di
una conversione. Ottengo un risultato analogo a quello che avrei ottenuto dal punto di vista della
supremazia amministrativa con un ordine dell’autorità, sostituendolo con un comportamento più
virtuoso ispirato al mercato, ai soldi.
Una terza via non passa attraverso l’azione dell’autorità pubblica né come soggetto ordinante né
come soggetto favorevole. È un meccanismo di self regulation, quindi di autonoma decisione che
si fonda sul fatto che determinati produttori o aziende di servizio si orientano verso la tutela
ambientale. La grande distribuzione è in realtà ancora oggi condizionata da tecniche di
distribuzione pesanti, basti pensare agli imballaggi, all’uso di certe plastiche ecc. la self regulation
è appena agli inizi, ma è una self regulation anch’essa dettata da ragioni di interesse commerciale,

Pianificazione
Command and control à pianificazione (planning): formulazione di un piano o programma,
complesso di interventi organici dello stato e di altri enti pubblici per stimolare e guidare lo
sviluppo. All’origine c’è un concetto tutto novecentesco dell’amministrazione, che non agisce in
maniera caotica, occasionale, ma prevede di andare verso determinati obiettivi in maniera
coordinata e programmata. A questa concezione ha fatto seguito un grosso incremento di impatto
dell’amministrazione pubblica (secondo i principi Weberiani), si vuole che certe cose succedano in
maniera controllata. La pianificazione è importante per l’ambiente, perché se anche in certi casi
l’ambiente può sfuggire alle previsioni, in termini generali noi sappiamo che ad esempio se la
nostra città crescerà il carico di surriscaldamento aumenterà, aumenterà il carico di inquinamento
delle acque, ci sarà un maggior utilizzo dell’energia elettrica ecc. La pianificazione mi serve per
accompagnare questo genere di situazioni in maniera razionale.
Quali sono i caratteri della pianificazione?
- pianificazione ambientale e governo del territorio à fare le cose entro un certo tempo
- scopi (e illusioni) della pianificazione ambientale à migliorare la qualità dell’acqua, della
vivibilità umana e così via, ma ci sono anche degli eccessi di fiducia nella pianificazione.
- trasversalità dell’ambiente e settorialità delle pianificazioni à non sempre il corpo sociale
accetta in maniera supina le indicazioni che vengono date per determinate attività: può essere
una pianificazione troppo onerosa, può darsi che non sia sempre ben adatta alle circostanze ad
esempio, quindi è importante andare a vedere caso per caso cosa può fare una sana e robusta
pianificazione e cosa è meglio affidare alle leve del mercato.
- priorità (non sempre riconosciuta) dei valori ambientali nelle azioni di pianificazione à In
passato si sono sovrapposti diversi piani. C’è il piano territoriale, per esempio, poi c'è il piano
urbanistico che in ogni comune adotta il comune, poi c'è il piano delle acque che regola le
modalità di utilizzo delle acque di superficie, oppure il prelievo delle acque di profondità, poi ci
sono i piani energetici… Abbiamo un sovrapporsi di regole con un problema legato al fatto che
quello che predispone un piano può essere non tanto ben coordinato con quello di un altro. Se
ad esempio la pianificazione urbanistica consente e magari anche suggerisce la climatizzazione
interna attraverso un impianto di climatizzazione, questo assorbe quantità molto alte di
energia.
Pianificazioni territoriali à Riguarda la questione della costruzione, per esempio dei fabbricati,
delle case ecc. Ne troviamo sostanzialmente traccia nella regolazione che dispongono i comuni in
maniera ormai relativamente partecipata, perché quando si tratta di adottare o modificare un
piano regolatore comunale se ne deve dare informazione al pubblico, il pubblico può presentare
delle osservazioni, dei suggerimenti all'amministrazione. Questo piano di fatto interviene con un
ordine limitativo delle mie potenzialità, svuota il mio diritto pieno a edificare (diritto che i latini
chiamavano jus aedificandi). I primi piani regolatori che dagli anni ’40 sono stati approvati anche in
Italia si muovevano sulla linea di quanto e di che cosa, perché si è andati subito a fare delle zone di
edificazione, zone industriali, zone servizi ecc. La cosiddetta zonizzazione è stata il concetto
cardine e che si è seguito per molto molto tempo. Però oggi questo tipo di prescrizione va
integrato, va coordinato con una serie di altri fattori che intervengono in maniera molto netta. È
fondamentale, oltre a dire quanto costruisco e dove, anche ragionare per evitare delle sciocchezze
che sono state fatte in passato (come tombamento di certi corsi d'acqua). Le prescrizioni di ogni
singolo piano dovrebbero trovare un loro coordinamento, una loro visione unitaria ed è questa la
direttrice di marcia verso la quale si stanno orientando molti ordinamenti. Si sta abbandonando la
visione di pianificazione settoriale per favorire delle forme di pianificazione integrata.
Piano paesaggistico à è indicato dal nostro Codice dei beni culturali e paesaggistici. La matrice di
questo problema ce l'abbiamo l'articolo 9 della costituzione, che dice che la Repubblica tutela il
paesaggio; per tutelarlo bisogna dare gambe a questa operazione, bisogna dare sostanza alle
forme di protezione del paesaggio e questo onere e posto congiuntamente a carico dello Stato e
delle regioni. Lo stato, rimane in ultima istanza responsabile dell'ambiente, condivide delle
competenze in materia pianificatoria rispetto al paesaggio e le condivide con le Regioni, degli enti
di autonomia che in linea generale dal 1970 (per le regioni a statuto speciale ancora prima)
intervengono su queste materie - governo del territorio, urbanistica ecc.
All'articolo 135 del codice dei beni culturali e paesaggistici, è scritto che “lo stato le regioni
assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e
gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono punto a tale
fine le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici,
ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici…” Ci sono
regionali che in ogni regione spiegano qual è lo strumento che si ritiene di dover utilizzare per
questa ragione e lo si disciplina per quanto riguarda le modalità procedurali.
Si recita anche che “i piani paesaggistici… ne riconoscono gli aspetti e caratteri peculiari, nonché le
caratteristiche paesaggistiche, e ne delimitano i relativi ambiti”. Abbiamo contesti territoriali
diversi e abbiamo segni antropici diversi: il paesaggio non è solo un dato naturale, è in genere un
dato della natura accompagnato dai segni della presenza dell'uomo. Quindi si prevedono (comma
3?) specifiche normative e ci sono degli obiettivi di qualità perché devono essere salvaguardati
questi caratteri speciali.
Piano di bacino distrettuale à È una pianificazione delle acque, ma pianificare le acque una cosa
particolarmente difficile, le acque hanno un loro corso naturale non sempre strettamente
prevedibile. In attuazione di un principio che è stato fortemente voluto ed espressamente
disposto dall’Unione europea, noi abbiamo adottato una tecnica che gli altri paesi conoscevano già
prima del nostro, in particolare la Spagna. In Spagna già negli anni ‘20 del Novecento la logica dei
distretti idrografici era stata promossa; poi questo discorso lo hanno recepito alcuni paesi del nord
e oggi è patrimonio comune e oggetto di una direttiva specifica, la Direttiva Quadro Acque (DQA)
numero 60 del 2000, che è stata una direttiva fondamentale. La direttiva è una specie di legge che
però non ha un effetto immediato, da ordine a tutti i paesi membri di raggiungere un certo
obiettivo entro un certo tempo, è fatta per avvicinare le legislazioni. Se l’Unione volesse fare una
legge si chiamerebbe regolamento, solo in quel caso avrebbe un effetto diretto, immediato, invece
con la direttiva il Consiglio dell'Unione europea e il Parlamento insieme stabiliscono una condotta
e dicono i paesi che entro una certa data devono fare delle norme che raggiungono questo
obiettivo. In questa Direttiva Quadro acque si è andati a fare un'operazione particolare, perché si è
disposto che la regolazione delle acque abbia luogo non su base dei territori amministrativi
abituali (es. regioni) ma su base di una pianificazione di bacino. Un bacino idrico è normalmente
circoscritto del discrimine in cui vengono raccolti, come una specie di grandissimo imbuto, tutti i
corsi d'acqua. Non avrebbe senso che la Lombardia abbia un piano delle acque diverso dalle
regioni che stanno a monte, bisogna ragionare per bacini. Il piano di bacino è uno strumento
amministrativo ma anche conoscitivo, perché deve condividere dei dati scientifici. È anche uno
strumento normativo perché mi dice quali sono i limiti, le modalità del prelievo idrico da parte dei
vari territori e uno strumento tecnico-operativo, perché può disporre che vengono effettuate
certe opere o protette certe aree rispetto alle esondazioni. Il discorso della terra è molto collegato
al discorso dell'acqua e quindi dobbiamo vederli come un tutt’uno.
A capo di questa pianificazione non abbiamo i comuni, le regioni o lo stato: abbiamo un’Autorità di
bacino, un'entità amministrativa a sé stante che può operare in maniera più decentrata e può
procedere sia in maniera più articolata sul territorio (per sottobacini), sia per stralci relativi a
settori funzionali. N.B.: stralcio vuol dire un settore del piano che può essere modificato in
maniera autonoma.
Che carattere particolare al piano di bacino? Al carattere di essere superiore agli altri piani: se ci
sono norme degli altri piani territoriali che confliggono con gli obiettivi del piano di bacino le
norme del piano di bacino prevalgono e diventano vincolanti sempre. Questo è dovuto al fatto che
le acque hanno una loro priorità sugli altri fenomeni, possono travolgere abitanti, può esserci un
problema di siccità… Quindi queste disposizioni hanno carattere immediatamente vincolante per
le amministrazioni, gli enti pubblici, i soggetti privati e così via; le autorità competenti provvedono
ad adeguare i rispettivi piani territoriali e programmi regionali.
Parchi à sono una terza forma di pianificazione, cioè di prospettazione e organizzazione
relazionale di sviluppo dell'ambiente in una determinata area. I parchi sono una forma di gestione
pianificata di attività e di situazioni ecologiche che da un secolo e mezzo all'incirca vengono
considerate necessarie per evitare che l'invasività dell’azione umana possa danneggiare del tutto
delle forme particolarmente interessanti di vita sul nostro pianeta. Nei primi anni della modernità,
si vietavano determinate attività di caccia di pesca o di taglio dei boschi (già i principi
rinascimentali cominciavano a mettere i loro limiti). Già nell’Ottocento si è verificata una spinta
dal mondo anglosassone, in particolare gli Stati Uniti, dove alcuni grandi spazi dovevano essere
salvaguardati e riservati alla natura selvaggia. In Europa in un’area protetta si interviene ad
arginare la catastrofe, ma nella logica della natura questa non è una catastrofe ma un ciclo che da
sempre ha fatto sì che aree particolari venissero colpite e questo permetteva una rigenerazione
sul lungo periodo; noi però viviamo in una dimensione temporale molto breve, non ci va di
aspettare 1000 anni perché si ricrei una certa situazione e preferiamo immischiarci. Gli americani
invece, anche avendo a disposizione degli spazi infinitamente superiori ai nostri, hanno ritenuto di
fare in modo diverso.
Da noi i parchi nazionali esistono dagli ‘20 del Novecento: nel 1922-23 fu approvato sui terreni che
erano le riserve di caccia della famiglia reale il prima parco nazionale italiano, che è il Parco
nazionale del Gran Paradiso. Poi gli altri parchi sono arrivati in tempi successivi, adesso sono molto
più numerosi perché abbiamo realtà regionali e abbiamo anche i parchi marini. Il parco nel nostro
contesto è un soggetto amministrativo, un’entità con un Consiglio di amministrazione, con un
piccolo patrimonio suo, del personale e che lo presidia ecc. Ma il parco è anche il soggetto che
promuove una tutela di valori non solo ambientali, ma anche antropologici: vuol dire di attività
tradizionali, ancestrali, storiche, culturali nel caso di muri di pietra o sentieri più o meno
accomodarti nel corso dei secoli ecc. tutto questo fa parte di una traccia storica che i parchi vanno
a salvaguardare. Il piano del parco è lo strumento di tutela di questi valori, è quindi uno strumento
che ha delle funzioni molto molto precise che possiamo definire:
a) organizzazione generale del territorio e sua articolazione in aree o parti caratterizzate da
forme differenziate di uso, godimento e tutela. Questo nel senso di andare a verificare come
interagiscono tra loro le varie aree, le aree boscate rispetto alle aree umide… Abbiamo diversi
spazi che convivono tra di loro in un eco sistema e per una corretta gestione di questi spazi il
piano li va ad articolare in aree.
b) vincoli, destinazioni di uso pubblico o privato e norme di attuazione. Il piano stabilisce dei
vincoli, cioè delle limitazioni che riguardano la destinazione di certe aree come aree a servizio,
cerca di concentrare le attività umane in determinati spazi e di far sì che possano svolgersi
senza ripercussioni. Andranno ad adottare determinate misure di mitigazione.
c) sistemi di accessibilità veicolare e pedonale (percorsi, accessi e strutture per disabili, portatori
di handicap, anziani…). Il piano del parco deve dirmi anche se posso andare in certe zone,
come ci posso andare, ma il tutto sempre con l’intelligenza di capire che la priorità è la tutela
dell’ambiente.
d) sistemi di attrezzature e servizi per la gestione e la funzione sociale del parco (musei, centri di
visite, uffici informativi, aree di campeggio, attività agro-turistiche). Per esempio, ci sono dei
parchi in cui è possibile campeggiare, ma il campeggio comunque bisogno di attività di servizio,
di epurazione ecc.
e) indirizzi e criteri per gli interventi su flora, fauna e ambiente naturale. Tra questi rientra anche
l'inserimento di rapaci che ristabiliscono l'equilibrio, oppure divieti di caccia.
Il piano suddivide il territorio in riserve integrali nelle quali l'ambiente naturale e conservato nella
sua integrità & riserve generali orientate. Abbiamo zone di tutela estrema nelle quali in qualche
caso non è nemmeno consentita la presenza dell'uomo e zone nelle quali la riserva favorisce
determinati tipi di fruizione, la conoscenza.
Il piano del parco è qualcosa di diverso rispetto alle pianificazioni paesaggistiche, è una dinamica
molto più articolata e che in Italia vede nell’ente parco (altrove può essere una gestione
ministeriale, per esempio, oppure può essere affidato agli enti locali esclusivamente) un sistema in
qualche modo misto: per esempio nei parchi nazionali c’è una componente espressione del
ministero dell’ambiente e una componente locale che insieme collaborano per questa gestione del
parco.

Valutazione di impatto ambientale


Rispetto all’attività pianificatoria ha un carattere tecnico-scientifico molto spinto e aiuta a
valutare, nella logica del principio di precauzione ma in termini molto generali, quali sono le
conseguenze di determinate opere o di determinate attività poste in essere sul territorio. La
cosiddetta valutazione di impatto ambientale (acronimo VIA) è una procedura amministrativa,
cioè una sequenza di attività dell’amministrazione che è finalizzata a dare sostegno all'autorità che
deve decidere.se una determinata opera deve essere fatta oppure no.
La valutazione di impatto ambientale deve individuare, descrivere e valutare, in via preventiva alla
realizzazione di un'opera, gli effetti sull'ambiente, sulla salute e benessere umano di determinati
progetti pubblici o privati, nonché di identificare le misure atte a prevenire, eliminare o rendere
minimi gli impatti negativi sull'ambiente, prima che questi si verifichino effettivamente. Posto che
qualsiasi opera ha delle conseguenze minime o meno, devo identificare i mezzi di mitigazione e
contenimento di questi impatti negativi.
Da dove nasce questo dispositivo del VIA? Siamo nel secolo scorso, negli anni Sessanta, anni in cui
è già avanti la logica della pianificazione e si capisce che la logica della pianificazione non sempre
tiene conto di fattori nuovi e non sempre si può andare a rifare tutta la pianificazione ogni volta
che qualcuno propone un’opera nuova. Di solito a proporre le opere sono le stesse
amministrazioni che approvano un piano. Negli anni Sessanta, intorno a questo problema, si
sviluppa nel mondo universitario americano un filone di studi scientifici su Environmental Impact
Assessment, ovvero valutazione di impatto sull’ambiente; si inizia ad utilizzare determinate
tecniche per analizzare quali saranno le conseguenze. Siamo sul piano puramente scientifico.
Le amministrazioni cominciano a familiarizzarsi con questo strumento: i primi casi di applicazione
sono casi volontari un po' eccezionali, siamo di fronte alla decisione molto delicata, eppure c'è una
forte resistenza da parte dell’opinione pubblica, delle popolazioni locali. È una cosa che va ancora
integrata nell’azione amministrativa: a partire dagli anni ‘80 a livello europeo sarà soprattutto
l’Unione a dar forte impulso, ci si comincia ad attrezzare. Si inserisce questo tipo di valutazione in
via obbligatoria nei processi autorizzativi, riguarda però singole opere (una diga, una centrale…).
C’è poi un passaggio superiore che si chiama valutazione ambientale strategica: qui non siamo di
fronte alla decisione di fare un’opera, ma stiamo valutando un piano o un programma di sviluppo.
L'amministrazione sta facendo un'opera pianificatoria essa stessa, sta decidendo come
comportarsi rispetto alle acque, rispetto agli sviluppi industriali, al piano dei trasporti… non
un’opera, ma una serie di interventi collegati e di riorganizzazione di un certo settore. Se voglio
che tutti questi programmi vengano valutati in maniera complessiva, perché ne siano soppesati gli
aspetti positivi e negativi per l’ambiente, attiverò una valutazione ambientale strategica. Innesco
nel processo di pianificazione un momento di studio, analisi, osservazione e valutazione delle
conseguenze di questa nuova pianificazione. Di solito è opportuno che questi effetti ambientali dei
piani e dei programmi avvenga prima della loro approvazione, o al limite durante ma non oltre il
periodo in cui stanno sviluppando le loro attività. Se valutiamo gli effetti ambientali dei piani dei
programmi prima della loro approvazione abbiamo la valutazione ex ante, mentre se lo facciamo
durante e al termine del loro periodo di validità si dice in-itinere, ex post. Le valutazioni strategiche
ex post servono per sapere che tipo di impatto ha avuto un certo piano e semmai per non ripetere
in futuro gli stessi errori.
Per poter pianificare, regolare, valutare, osservare ho bisogno di parlare un linguaggio tecnico-
scientifico comune. È fondamentale che la scienza possa confrontare situazioni, confrontare
eventi, sapere se si superano o non si superano delle soglie di pericolo: non basta dirci che ci sono
delle diossine, magari su una quantità talmente minima da non avere una particolare influenza
sulla salute umana, ma invece moltissime sono molto presenti, persistenti ecc. Il diritto
ambientale ha bisogno di metri precisi e questo riguarda soprattutto le unità di misura di certi
composti chimico-fisici: sono tutti parametri, che nel momento in cui sono inseriti in un nostro
processo di valutazione diventano criteri di giudizio (“l’acqua è potabile se non contiene più di x
particelle di minerali al suo interno”). Il parametro è un’unità di misura, un dato oggettivo
suscettibili di assumere valore (es. quantità di diossina). Lo standard invece è un livello, un tenore
normale (nella vita, nel rendimento di una persona, di una macchina) e diventa un tipo norma
(non giuridica, ma una regola) cui si devono uniformare o a cui sono conformi materiali, stati
chimico-fisici, prodotti, procedimenti… Lo standard è quindi una valutazione che noi facciamo
ritenendo che la presenza di un certo numero di parametri vitali mi attesti il livello normale di
funzionamento di qualcosa. Poi ci sono anche acque, per esempio, che hanno proprietà benefiche
nonostante presentino parametri eccedenti, ma in generale abbiamo degli standard presenti nel
nostro Codice dell’ambiente, nei suoi allegati e che vengono stabiliti in via tecnica.
Abbiamo contraddistinto la norma ambientale come una norma in cui si incontrano valori e
parametri: gli uni senza gli altri non servono, i soli valori sono petizioni di principio di scarsa
efficacia, ma i soli dati scientifici sono aridi, non portano da nessuna parte.

Il lavoro costante che devono fare le amministrazioni (dal Comune all’Unione europea, alle reti
scientifiche internazionali…) è di monitoraggio. Tutti monitorano, ognuno con i suoi strumenti e
implica la rilevazione periodica e sistematica di parametri chimici, fisici e biologici, mediante
appositi strumenti, allo scopo di controllare la situazione o l’andamento dei sistemi anche
complessi. Un esempio è l’ARPA, ente autonomo che procede ai controlli di qualità dell’aria,
dell’acqua ecc. L’ARPA poi non ha lo strumento per impedire certi processi, per fermare i flussi
delle auto… a questo provvederà poi l'amministrazione con l’amministrazione attiva, con i suoi
organi, con le sue valutazioni, con le norme che deve stabilire. Questi soggetti con appositi
strumenti tecnici consentono di acquisire dati e metterli in connessione tra di loro, farne anche
una restituzione perché se viene restituita una valutazione sintetica in poche righe dice “oggi la
qualità dell'aria è peggiorata perché…” allora il risultato è che devono intervenire delle misure
amministrative.

Tutela della qualità dell'aria


Uno dei campi nei quali questo tipo di situazione appare più facilmente percepibile è la tutela
della qualità dell’aria. All'inizio dell'esperienza industriale di massa di questi ultimi decenni
(intorno agli anni ’50-’60) si rilevava in maniera generica uno smog nelle città. L’origine del
termine smog è smoke + fog, quindi “nebbia di fumo”: non si sapeva con esattezza quale fosse la
sua origine, in quegli anni c’erano ancora scarsi dati scientifici. Oggi abbiamo una situazione
totalmente diversa: l’inquinamento dell’aria è oggetto di una normativa generale, di principi
ambientali, di normative europee, di normative nazionali, disposizioni regionali… Sulla qualità
dell'aria intervengono a livello normativo fonti europee e statali, ma a livello di pianificazione e
soprattutto fonti regionali, perché c'è bisogno di avere approcci più contestualizzati, più vicini alla
realtà. Ci possono essere aree altamente inquinate accanto ad aree molto più salubri; bisogna
graduare gli interventi e la pianificazione consente di adottare misure strategiche organizzate per
evitare che aumentino le fonti di inquinamento dell’aria. La stessa cosa può succedere attraverso
dinamiche di autorizzazione: è evidente che certi tipi di produzione possano essere oggetto di
autorizzazione, che si possa vietare la realizzazione di alcuni tipi di insediamento, magari vietarli in
certi luoghi e consentire in altri. Ci sono anche sistemi di controllo e sanzionatori. Quindi la
dinamica è pianificazione, autorizzazione, controllo ed eventualmente sanzione: rientriamo nella
categoria command and control. Poi la spinta ad un comportamento più virtuoso mi può venire da
un incentivo economico, ma nel campo della qualità dell’aria, siccome il problema è fortemente
sentito e ha un forte impatto (malattie polmonari) è importante che ci sia un corretto
funzionamento di questi meccanismi di tutela dell’aria.

La proprietà e la tutela delle acque


Il dato da cui si può partire è un accenno alla storia, risalendo al ‘500 nella Repubblica Veneta à
Editto di Egnazio: il disposto di questo editto è che le acque pubbliche devono essere tutelate da
tutti, chiunque arrechi danno alle acque pubbliche deve essere considerato un nemico della patria
e come tale deve essere perseguito.
Il nostro Codice civile stabilisce una demanialità delle acque: “appartengono allo Stato e fanno
parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e
le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia…” (art. 822). Questa situazione è stata
parzialmente modificata in tempi più recenti, per via del passaggio “le altre acque definite
pubbliche”: se ci sono acque che vengono definite pubbliche, specularmente vuol dire che ci sono
anche acque private. Infatti, al tempo in cui è stato approvato il nostro Codice civile (1942) c’erano
ance acque private, ormai scomparse per via della riforma legislativa del 1994. Il primo connotato
quindi che dobbiamo registrare per le acque in Italia (e non tutti i paesi condividono questa
situazione) è che le acque sono demaniali. Quando lo stato si è costituito in maniera compatta e
ha assunto questa sovranità, ha detto “io sono il signore proprietario delle acque”, ma ora
proprietario non è più il termine giusto. Una grande rilevanza ha avuto per molti anni la pubblicità
totale dei servizi idrici (la costruzione degli acquedotti e l’acquedottistica locale). Quasi tutta la
legislazione dalla fine dell'Ottocento ha fatto sì che fosse dato ai Comuni l'incarico di far avere alle
famiglie l'acqua potabile; solo negli ultimi decenni del Novecento ci sono state forti spinte a
privatizzare i servizi idrici. L’altro aspetto, oltre a quello dell’approvvigionamento idrico, è quello di
protezione delle acque, che possono creare molti problemi e quindi è stato necessario che dagli
anni ’20 l’amministrazione si dotasse di strumenti amministrativi per legare e impedire
determinate attività (“non si va costruire sul bordo del torrente…”). Quindi acque demanializzate,
ovvero messe sotto l'autorità pubblica, acque vincolate per quanto riguarda le attività che
possono interessare certe parti del territorio e acque veicolate verso le famiglie in modo da
poterne fruire. Non c'è solo il demanio dello Stato, ma c'è anche il demanio idrico regionale,
quindi questa funzione assolta dalla Regione e non dallo stato almeno per quanto riguarda i fiumi,
i laghi, i torrenti che non hanno carattere interregionale. Un fiume che attraversa il confine di più
di una regione per andare in un'altra regione determina immediatamente una demanialità statale
di quel corso d'acqua. L’idea complessiva è che lo stato ha comunque un ruolo egemone.
Spesso non c’è una relazione diretta di causa-effetto per i disastri naturali, così come bene o male
non è la nostra generazione ad averli causati, ma quelle precedenti.
Il regime autoritativo attraverso il quale si opera a controllo della sicurezza dei territori e delle
acque con dei vincoli idrogeologici. Qui non siamo in un settore in cui è particolarmente presente
la dinamica di mercato, è la dinamica cosiddetta command and control a prevalere, l’ordine,
perché l’acqua ha un carattere primordiale, assoluto.
Nei primi anni Novanta abbiamo avuto in Italia una svolta, sostanzialmente in aderenza con un
cambiamento di prospettiva che c’è stato in UE, che ha rafforzato la pubblicità delle acque. La
legge Galli (dal deputato proponente) del 1994 ha stabilito che “tutte le acque superficiali e
sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che
è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà”. Solidarietà vuol dire condivisione,
condivisione della responsabilità e del godimento, anche nella prospettiva delle generazioni future
e del loro diritto di fruirne in maniera integra. Infatti, così continua la legge Galli: “qualsiasi uso
delle acque è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire
di un integro patrimonio ambientale”.
Dieci costituzioni hanno stabilito il diritto all'acqua come diritto costituzionale; molte costituzioni
hanno previsto un diritto all'ambiente salubre, molte costituzioni hanno previsto l'orientamento di
vari ordinamenti nazionali a favore della protezione dell’ambiente e delle generazioni future, ma
che ne è della nostra? Nella costituzione italiana il termine ambiente lo si ritrova soltanto
incidentalmente richiamato nella parte in cui si distribuiscono le competenze tra Stato e Regione
(Titolo V, in particolare gli art. 117, 118): c’è competenza esclusiva dello Stato in maniera di tutela
dell’ambiente. La valorizzazione dell’ambiente, quindi creare aree protette ecc. può essere fatta
dalle Regioni, ma la tutela è prerogativa essenziale dello Stato. Però non c’è un principio un
principio fondamentale e non ci sono quelle norme come quella che sancisce l’esistenza di un
diritto all’acqua, perché finora si è provveduto in Italia solo attraverso caratteri normativi, a volte
di carattere amministrativo, a volte di carattere legislativo, qualche volta rinviando ad una
normazione che ci viene da un’agenzia indipendente che ha competenza in materia. Quindi il
legislatore costituzionale non c'è mai arrivato e nella legge si sono implicitamente consolidati
questi diritti, ma non in maniera così netta come è stato fatto dall’ordinamento francese con la
Charte de environment e come hanno fatto altre costituzioni, come quella della Slovenia, che tre
anni fa ha introdotto questo principio relativo all’acqua in maniera molto marcata. Noi comunque
abbiamo delle acque pubbliche, poste in carattere di demanialità. La formulazione oggi vigente di
questa svolta che c’è stata con la legge Galli del 1994 ce l’abbiamo con il Codice dell’ambiente,
che è una specie di grande testo unico di oltre 400 articoli. All’art. 144 ritroviamo il principio di
pubblicità delle acque: “tutte le acque superficiali e sotterrane, ancorché non estratte dal
sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato”. Questo è da leggere in continuità con altre
norme che dicono che il demanio può essere anche delle Regioni, quindi la responsabilità di
queste acque può essere trasferita dallo Stato alle Regioni, a volte attraverso gli statuti speciali,
oppure attraverso altri procedimenti di legge (come quello del cosiddetto federalismo demaniale
del 2009, collegato alla legge n. 42 del 2009). Essere del demanio significa che lo Stato o per esso
le Regioni, hanno un ruolo custodiale e assicurare una corretta fruizione di questo bene; non è
vero che deve fare tutto lo stato, ma sono loro i soggetti regolatori. Se vogliamo avere un prelievo
di acqua per fare ad esempio una centrale idroelettrica, ci rivolgiamo ai servizi della Regione
autonoma o a servizi decentrati dello stato, e otterremo una concessione (= soggetto che
trasferisce la facoltà di utilizzare le acque). Poi c’è da tenere presente l’utilizzo delle acque da
parte degli enti pubblici per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico (i pozzi, le raccolte di
acque pluviali ecc.).

Il servizio idrico è un servizio più largo, che riguarda l’approvvigionamento anche per altre funzioni
e per questo il Codice dell’ambiente ha messo in chiaro quali sono i principi di fondo:
1. si deve guardare ad una gestione efficiente del servizio idrico stabilendo qual è il livello
adeguato in cui regolare questo fenomeno. Per esempio, un Comune non ha tutte le fonti
idriche all’interno di esso e non riesce a risolvere da solo tutti i problemi; quasi tutti i comuni
sono inseriti in una logica di bacino e hanno bisogno di cooperare con altri territori circostanti
per avere una gestione adeguata delle acque potabili, industriali, agricole ecc. Per questo il
Codice dell’ambiente ha voluto che le Regioni definissero degli Ambiti Territoriali Ottimali
(A.T.O). Vuol dire che in genere i comuni devono consorziarsi fra di loro: è un consorziamento
obbligatorio perché è la Regione a stabilire qual è il livello giusto in cui far convergere la
regolazione, la realizzazione degli acquedotti ecc. Il punto è partire dalla captazione,
organizzare il trasporto e la rete di distribuzione, la raccolta delle acque e la loro depurazione
per la restituzione a valle in condizioni quanto migliori possibili
2. separazione di funzioni tra programmazione, regolamentazione, organizzazione e controllo
(autorità locale) e gestione del servizio (operatore unico indipendente). La autorità locali sono
le autorità di gestione dell’A.T.O., una specie di direttivo di cui fanno parte i sindaci o dei
delegati delle amministrazioni locali: questa parte politica deve adottare le decisioni
fondamentali. Poi c’è la parte che agisce fisicamente (chi costruisce gli acquedotti, ripara i
vecchi…), un soggetto che può essere pubblico o privato. Ci possono esserci anche delle
società ‘miste’ di carattere pubblico-privato che lavorano insieme per gestire questo tipo di
organizzazioni.
3. proprietà pubblica delle infrastrutture: il privato può essere solo gestore delle infrastrutture,
non proprietario.
4. copertura completa dei costi (operativi e di investimento): io non pago perché compro
l’acqua, ma pago il servizio di fornitura e depurazione dell’acqua. È il principio del “chi inquina
paga. Dietro c’è un ragionamento legato alla bolletta dell’acqua: fino a trent’anni fa le bollette
dell’acqua o non c’erano in alcuni comuni oppure erano un calcolo molto generale. Le opere
che sono state realizzate sono state pagate dall’ente pubblico, con le tasse oppure l’ente
faceva dei mutui che avrebbe pagato attraverso le imposte, per cui l’idea era che del servizio
idrico si dovesse far carico la finanza pubblica. Il principio del “chi inquina paga” è un principio
che nasconde un grandissimo cambiamento prima vi provvedeva il Comune attraverso le tasse
e facendo gravare i costi anche sui più poveri, distribuendo la spesa secondo il principio
costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale: chi ha minori redditi contribuisce
proporzionalmente di meno e la tassazione deve essere più leggera. Adesso non è più in base
alla nostra ricchezza, ma al nostro consumo: il consumatore oggi è gravato del peso in maniera
che una famiglia anche se modesta di reddito, ma con consumi più alti, finisce per pagare più
di qualcuno che ha un reddito alto ma magari è solo.
5. Obbligo di solidarietà, efficienza e produttività: siamo in un sistema solidale ma meno solidale
di quanto sia stato in passato, tendenzialmente più produttivistico perché l’insistenza sul
risparmio idrico oltre ad essere di matrice ideale è anche di matrice economica.
Per il Codice dell’ambiente non c’è un utilizzo unico dell’acqua, ci sono delle gerarchie, in cima
delle quali c’è l’utilizzo a scopo potabile umano, poi si scende a scopi agricoli, industriali e così via.

Gli usi delle acque sono ispirati a logiche di risparmio e rinnovo. L’idea del rinnovo delle risorse ci
porta a considerare una grande trasformazione tecnologica che è in corso, perché una parte delle
risorse idriche non la rimandiamo direttamente nel circolo della natura, soprattutto in alcuni
luoghi dove la quantità di acqua disponibile è molto limitata. Ci sono città nella quali il cerchio si
chiude molto rapidamente e l’acqua torna rientra immediatamente. Questa è l’idea che si faccia
un buon uso della risorsa, non sprecando e utilizzando anche la polivalenza di questo bene idrico
(che non è solo per noi uomini!). bisogna avere una visione complessiva di tutti gli impatti
sull’acqua e la nuova legislazione in questo è molto moderna e attenta.
Le acque termali, minerali e per uso geotermico (per riscaldamento domestico) sono disciplinate
da leggi speciali.

Fin dagli inizi del Novecento erano praticamente solo i Comuni e le Province a gestire i servizi
idrici, il come aveva anche l’ufficio idrico e dei dipendenti comunali che si occupavano di gestire
tutto ciò. Questo negli anni ’70-’80 è cominciato ad essere percepito come un settore non ben
gestito à in questi anni c’è stata la svolta in direzione di un liberismo economico sempre più
spinto e una svolta politica più o meno concomitante con l’implosione dei sistemi comunisti ha
fatto pensare che gli enti pubblici non fossero più in grado di gestire questi settori, in particolare
proprio il servizio idrico. Questo si è unito al fatto che in molte realtà il servizio idrico non era
gestito direttamente dal Comune, ma era affidato ad una società pubblica in cui spesso si sono
annidati fenomeni di inefficienza, spreco, clientelismo, spartizione da parte dei partiti… Questa
incapacità di gestione ha fatto richiedere una maggior responsabilità, vedere bene i costi delle
spese e soprattutto andare a cercare di arginare un po’ il deficit pubblico, perché questi i debiti
costanti che venivano fatti o questa mancanza di rimuneratività del sistema portava a grandi
lamentele. La risposta è stata un’ondata ideologica di reazione dell’opinione pubblica: siccome
l’acqua è un bene di consumo, chi meglio dei privati può gestire questi servizi? La chiave di
gestione di questi servizi è stata individuata nel criterio per cui bisognava che tutto l'insieme delle
spese per questo servizio fosse si è coperto dal consumatore. Certo che i privati a cui affida il
servizio idrico non lavorano per niente, chiedono che capitale investito venga remunerato e
questo ha dato luogo ad un meccanismo abbastanza perverso che ha fatto sì che non solo il costo
dei servizi venisse coperto dalle tariffe, ma che questi soggetti privati fossero interessati a far
alzare sempre di più la posta, con delle logiche non sempre pulite. Come risultato del sistema di
concessione abbiamo avuto un’esplosione delle tariffe. Quindi il servizio idrico è passato
dall’essere un servizio di interesse generale all'erogazione di un “bene di consumo” gestito dai
privati: qual è stata la reazione? Nelle politiche neoliberiste, per cui lasciamo spazio al mercato,
che il mercato gestisca le risorse e i servizi (privatizzazione delle ferrovie, privatizzazione delle
fonti energetiche…) è rientrata anche l’idea che si dovesse privatizzare i servizi idrici, ma l’Italia
non aveva dei grandi soggetti economici abituati a gestire i servizi idrici. In Francia invece, dalla
metà dell'Ottocento in poi, si erano sviluppate grandi aziende private, grandi multinazionali
dell'acqua (anche inglesi e americani avevano a disposizione grandi strutture economiche private),
quando da noi c’erano solo nani economici comune per comune… Quando è partita la corsa all'
accaparramento di queste risorse da parte dei privati il mondo economico italiano è stato
piuttosto sopraffatto anche da questa ondata esterna. Siamo alla fine degli anni Settanta, iniziano
ad essere adottate delle leggi di liberalizzazione dei servizi:
- legge Bassanini del 1997 (Bassanini era ministro pubblica amministrazione)
- riforma dell'ordinamento degli Enti Locali, che ha dato ai Comuni gli strumenti anche
organizzativi, associativi per gestire insieme ai privati queste strutture
- legge 448/01, che ha veramente aperto le porte in questo ai privati
- creazione di “Aziende Speciali” che avrebbero dovuto diventare Spa: si è fatto in modo che le
vecchie municipalizzate (così si chiamavano le vecchie aziende che gestivano questi servizi
nelle grandi città) si trasformassero in società e quindi si aprissero al capitale dei privati. Qual
era l'utilità che in quel momento vedeva la classe politica? Era un’utilità molto precisa, perché
chiedere soldi con le tasse per ammodernare i servizi idrici è un po' impopolare, mentre era
più semplice passare la patata bollente alle società che gestivano il servizio e far sì che non ci si
accorgesse degli aumenti, perché gli aumenti correvano sulle ali delle bollette che ciascuno
riceveva, agganciando questo importo ai consumi.
- si è proceduto ad un obbligo di gare d’appalto per individuare i soggetti da far venire in queste
società; doveva essere una selezione pubblica, ma i soggetti veramente attrezzati per gestire
impianti anche molto grandi erano in realtà pochissimi e tutto questo si è risolto in una grande
spartizione a tavolino fatta dalle grandi società che operavano nel settore. Queste non sono
venute a farsi una concorrenza spietata comune per comune, si sono accomodate e si sono
spartite le offerte: a pagare questa concorrenza solo apparente sono stati gli utenti, perché
questo si è tradotto in un sistema di copertura totale dei costi, che ha fatto di nuovo lievitare
di molto i costi. Questo non è piaciuto all’opinione pubblica (associazionismo, parte sindacale,
molti movimenti che sono sorti spontaneamente a difesa dell’acqua pubblica). Il primo
decennio degli anni 2000 - soprattutto gli anni tra il 2006 e il 2011 – è stato dominato da
questa crescente volontà di difendere la pubblicità della risorsa idrica. L’acqua è sempre
rimasta nominalmente pubblica, ma quando si diceva allora “difendere l’acqua pubblica” si
intendeva non lasciare che l’acqua diventasse strumento di speculazione privata. Questa
miriade di associazioni, di comitati locali, di gruppi sindacali ecc. a sostegno dell’acqua pubblica
ha dato vita a una rete organizzata che ha proposto un’iniziativa legislativa per mantenere un
carattere di pubblicità al servizio idrico. Si è ispirata ad un’iniziativa legislativa portata avanti
da Stefano Rodotà (presidente del PDS e straordinario giurista): fu chiamato nel 2007 dal
governo Prodi a presiedere una Commissione per modificare il Codice Civile. Nel Codice Civile
abbiamo delle categorie di beni privati e delle categorie di beni pubblici, demaniali o di
patrimonio pubblico ecc; una ripartizione molto arcaica che Stefano Rodotà con altri brillanti
giuristi propose di sostituire con una tripartizione: beni privati, beni pubblici, beni comuni,
proponendo di mettere nel codice civile questa nuova categoria dei beni comuni. Siccome
questi beni comuni sono in relazione con i diritti fondamentali della persona (avere acqua a
sufficienza è un fatto prima di dignità umana e poi solo dopo di consumi, costi…) questi beni
vanno collocati fuori commercio e la concessione deve essere limitata e occasionale, e non il
principio per cui l’ente pubblico non deve dare la risorsa acqua in maniera sconsiderata.
- Abbiamo da un lato la crescita della sensibilità per cui l’acqua deve essere un bene pubblico e
gestito, per quanto possibile, rigorosamente sotto il controllo pubblico, mentre dall’altro lato
abbiamo il mondo economico, d’accordo con la gran parte della classe politica italiana. Questo
si è tradotto nel 2009 nel cosiddetto Decreto Ronchi, che voleva fare il passo definitivo: nel
decennio precedente si erano aperte le porte in modo che i privati potessero entrare nelle
società, che voleva dire che i privati potevano mettere i loro amministratori, tecnici, gestiva gli
appalti e la parte pubblica si limitava ad avere la presidenza del consiglio d’amministrazione.
Non paghi di questo, i sostenitori della privatizzazione dei servizi nel 2009 hanno voluto fare un
salto in avanti e obbligare tutti i comuni italiani a cedere tutte le loro quote ai privati,
facendosi pagare naturalmente, ma rinunciare ad essere presenti nella gestione di queste
società. Solo in casi particolari si poteva evitare di scivolare verso un regime di privatizzazione,
ma in quel caso bisognava tenere una pubblicità totale dell’impresa idrica. Era insomma una
spinta per far sì che gli enti pubblici scomparissero da questo settore. In quegli anni le poste
erano state in parte privatizzate, ma sulle poste italiane continua ad avere un controllo
maggioritario l’ente pubblico; il servizio ferroviario è stato privatizzato, per cui RFI (rete
ferroviaria italiana) continua ad essere proprietaria dei binari, ma i treni sono stati privatizzati
(Italo). Il Decreto Ronchi non privatizza la gestione di risorse idriche, ma promuove
l’affidamento, tramite gare, ad aziende private, con cessione obbligatoria delle azioni entro il
31 dicembre 2011.
- Di fronte alla spallata definitiva del Decreto Ronchi, i comitati per l’acqua hanno chiesto un
referendum abrogativo. Cosa voleva ottenere questo referendum? Si voleva impedire che i
comuni fossero obbligati a cedere le loro quote a favore dei privati, si voleva quindi impedire la
privatizzazione coatta dei servizi. Questo comunque non significava che fosse vietato ad un
comune dare in affidamento il proprio servizio. Il secondo quesito referendario era legato al
fatto che con il Decreto Ronchi le società che gestivano i servizi idrici avrebbero avuto una
remunerazione garantita del capitale, cioè potevano pretendere che per tot euro investiti,
l’anno dopo questo servizio garantisse un ritorno del 7%. L’idea era che siccome c’era da
finanziare un grande sforzo per ammodernare i servizi, facciamo in modo che le società che
gestiscono questi servizi abbiano un bel ritorno; paga il consumatore à principio del full
recovery cost, copertura totale del costo. Se io controllo come società privata un servizio idrico
e devo far fare delle riparazioni, se le posso fare io con le mie aziende, le mie maestranze…
evidentemente guadagno due volte. Questa richiesta di referendum abrogativo ha avuto un
successo straordinario: è stata la richiesta referendaria che ha avuto il maggior sostegno
pubblico di tutta la storia dei referendum in Italia, perché sono state raccolte 1.400.000 firme.
Il vero scoglio del referendum non è tanto ottenere il consenso sulla domanda, ma portare la
gente a votare, perché sulla base della costituzione attuale bisogna arrivare al 50% degli aventi
diritto al voto. Il 12-13 giugno 2011 è stato raggiunto il quorum con il 54% dei votanti; la classe
politica dell’epoca poi ha giocato sporco perché c’erano le elezioni amministrative, che
avrebbero portato quasi metà della popolazione italiana al voto quell’anno, ma hanno messo
le elezioni due settimane dopo un’elezione già convocata, con un costo supplementare di circa
300 mln di euro. Invece il quorum c'è stato, per motivi ambientali ma non prevalentemente
legati all'acqua; in quella tornata referendaria c'erano quattro quesiti, alcuni di carattere
istituzionale vicende che riguardavano l'immunità Berlusconi ecc. ma c'era un altro
referendum chi guardava la produzione dell'energia atomica. Nel 1991, esattamente trent'anni
prima, il popolo italiano, chiamato alle urne, disse no all'energia nucleare (anche se in Italia
stava per partire la prima centrale atomica, era già tutto pronto) e nei primi anni 2000 i
governi avevano iniziato a portarsi avanti nella ripresa del progetto nucleare. Nel 2009-10
tutto era pronto ed erano stati fatto degli atti normativi che autorizzavano la ripresa del
nucleare, ma nel marzo 2011, tre mesi prima del referendum, esplode la centrale atomica di
Fukushima in Giappone e il panico che si è diffuso nell’opinione pubblica è stato fortissimo.
Questo impatto ha fatto sì che gli italiani si mobilitassero e andassero a portare il loro
supporto dicendo sì all’acqua pubblica e basta con l’energia nucleare. Il risultato è stato
plebiscitario: il 95% dei voti ha detto sì al consentire ai comuni di mantenere la gestione
pubblica dei servizi idrici, con una serie di conseguenze che poi sono state difese dalla corte
costituzionale con ulteriori attacchi da parte della politica.
Oggi gli enti locali rimangono sostanzialmente liberi di scegliere come gestire tutto questo
(misto pubblico-privato), ma rimane necessario che questa conquista venga presidiata, perché
le tendenze privatistiche sono sempre in agguato. Per la prima volta, nella Borsa di Chicago
sono stati previsti dei contratti speculativi sul costo dell’acqua, il che vuol dire che il mondo
della finanza sta scommettendo sempre di più: è sempre più evidente che l’acqua sarà un
domani un bene commerciale e non un bene pubblico.
Sulla scia del referendum sull’acqua pubblica, il Comune di Napoli, che aveva dato ad una società
privata la gestione del suo servizio idrico, l’ha totalmente presa in mano e ha ricomprato la ARIN
S.P.A trasformandola in un’azienda speciale che ha chiamato ABC (Acqua Bene Comune) Napoli. È
stata un po' un’esperienza pilota, anche altri comuni l'hanno fatto ma non moltissimi e comunque
il Comune di Napoli ha dato una forte caratterizzazione ideologica questa scelta, che è stata
propagandata non solo come scelta tecnica ma come scelta politica ed ideologica. L'acqua è un
bene pubblico e la gestisce l'ente pubblico attraverso la struttura deputata a questa funzione: si
svincola totalmente dalle multinazionali dell'acqua che qui e là controllano buona parte dei servizi
idrici d'Italia. Ci sono opinioni divergenti sul risultato di questa operazione: il Comune di Napoli
dirà che è riuscito ad ottenere ottimi risultati in termini di rispetto delle fasce deboli, di non
speculazione sull’acqua… noi ci limitiamo a rilevare che negli organi gestionali e nel controllo di
questa società pubblica il Comune di Napoli ha chiamato non soltanto i responsabili dei partiti
politici del comune, ma ha fatto entrare rappresentanti delle organizzazioni di protezione
dell'ambiente. Cosa vuol dire questa scelta? Intanto vuol dire valorizzare gli operatori del settore
pubblico, che conoscono bene questa macchina e che possono contribuire ad indirizzare un
consiglio di amministrazione o un consiglio di sorveglianza, ben sapendo come funziona questo
ente. Uno dei grossi problemi della direzione di questa società di gestione dei servizi idrici è che se
io metto il bravo ex-sindaco e lo catapulto lì sopra quando magari lui non conosce questo, la
presenza delle cosiddette maestranze (personale che lavora in questo settore) irrobustiva la
gestione e la rendeva più attenta alla perpetuazione del lavoro anche, perché una delle possibilità
che c'erano nella privatizzazione è che questa continua a tagliare i costi riducendo il numero delle
persone impiegate e esternalizzando la gestione, ovvero dando la società esterne a loro volta.
Invece la presenza di lavoratori nei consigli di amministrazione e nei comitati di sorveglianza
garantiva che le risorse tecniche e le competenze dell'azienda fossero sempre tenute in
considerazione. Chiamare le associazioni ambientaliste volevo dire “l'acqua non è solo da gestire
come bene economico, è da gestire anche come risorse per l'ambiente”, quindi è una gestione
strategica. L'operazione Napoli è stata una vicenda piuttosto significativa e tra le prime volte si ha
messo nero su bianco che questa azienda doveva guardare anche ai diritti delle generazioni future
e non soltanto far quadrare i bilanci. Il depauperamento dei servizi idrici è anche dovuto al fatto
che il comune vuol far quadrare i conti e pretende dagli amministratori che ci sia sempre un
perfetto equilibrio tra le entrate e le uscite, e addirittura molto spesso vuole avere dei soldi.
Questa idea dell’azienda che considera l'acqua bene comune è finalizzata anche all’equilibrio
ambientale ai diritti delle generazioni future.

Cosa sta succedendo per i servizi idrici nel mondo? Nel mondo la maggior parte dei servizi idrici è
gestito dagli enti pubblici, cioè dallo stato, dalle regioni, dalle province o dal comune, a seconda
della struttura che hanno. La maggior parte dei servizi di depurazione sono direttamente svolti da
enti pubblici; la penetrazione dei privati ha luogo solo in determinate aree del mondo, in genere
aree ad alto livello di finanziarizzazione dei servizi. Ma le grandi operazioni di privatizzazione
hanno avuto dei contraccolpi notevoli, in qualche caso addirittura drammatici (Indonesia,
Tailandia, Sudamerica…). In Europa la privatizzazione ha preso piede tra la fine degli anni ‘80 e i
primi anni 2000, poi nel settore idrico abbiamo avuto anche dei ritorni molto forti e delle tendenze
di ri-municipalizzazione. La città di Parigi e Berlino avevano fatto entrambe la scelta, negli anni
‘80-’90 di privatizzare la gestione dei loro servizi idrici e in entrambi i casi sono tornate a fare
marcia indietro. Il pubblico ha fatto meglio di quanto non avessero fatto i privati dal punto di vista
economico e la municipalità ho avuto dei grossi benefici e dei grassi ritorno in termini economici,
segno che comunque se gestito bene la gestione pubblica è per natura tutt'altro che deficitaria.
Gli strumenti di mercato

Cosa sono degli strumenti di mercato? Il riferimento normativo principale lo troviamo in un atto di
soft law, che è uno di quegli strumenti di indirizzo che utilizza l’UE per far sapere dove si muove e
dove si muoverà il diritto europeo. Nell’ambiente c’è una competenza significativa dell’UE per
indirizzare l’azione degli stati membri. Il Libro Verde sugli strumenti di mercato utilizzati a fini di
politica ambientale del 2007 (Commissione europea) delinea un primo quadro, nel quale gli
strumenti indiretti del diritto (per es. tassazione o sovvenzione, oppure strumenti organizzativi del
mercato come i sistemi di scambio) vengono a convergere in un’unica direzione: eliminare dei
comportamenti nocivi per favorire altri strumenti ed altri approcci. Esempio sacchetto di plastica
del supermercato: se noi lasciamo il mercato libero di agire non vogliamo/possiamo intervenire
con un’azione pesante di divieto. Ad un certo punto siamo stati accompagnati verso un
comportamento che ci ha portati a mettere al bando i sacchetti tradizionali, sostituiti da sacchetti
biodegradabili; questa virata è uno dei frutti di questo approccio di mercato che, attraverso un
incentivo oppure un obbligo (ad esempio mettere un costo), si è internalizzata la variabile
ambientale nei processi di scambio.
Si tratta di strategie “della carota”, non del command and control, ma più morbide.
Che vantaggi abbiamo a far ricorso a questo genere di strumenti?
1) La segnalazione dei prezzi diventa importante, vengono attribuiti degli specifici valori ai costi
di produzione e ai benefici esterni delle attività economiche. I soggetti economici modificano i
loro comportamenti riducendo gli effetti negativi, o aumentando gli effetti positivi,
sull'ambiente. Ad esempio, se dovessimo cambiare auto, ci metteranno un certo tipo di
incentivo per un certo tipo di auto e quindi avremmo indirettamente un disincentivo ad
acquistare auto tradizionali a gasolio o benzina.
2) Maggiore flessibilità alle imprese nel conseguimento dei loro obiettivi: diminuiscono i costi
sostenuti per conformarsi alla normativa, diminuiscono i costi per determinati processi e la
concorrenza che fa il soggetto più virtuoso diventa più performante, perché viene assistita. Il
biologico ha costi più alti perché sconta determinate diseconomie e maggiori costi di qualità,
però si aiuta in altro modo questa filiera e si fa in modo che possa avere un migliore ritorno.
3) Incitano le imprese ad impegnarsi, a più lungo termine, sulla via dell’innovazione tecnologica
per ridurre ulteriormente gli effetti negativi sull’ambiente (“efficienza dinamica”). Di
conseguenza, l’impresa è più motivata e diventa alleato della collettività nel perseguire
determinati obiettivi e guarda anche in un’ottica di lungo periodo alla possibilità/necessità di
introdurre tecnologie più avanzate che riducano l’impronta (foot print). Quindi complicità sana
tra l’ente pubblico e il soggetto economico.
4) Sostengono l’occupazione, se impiegati nel quadro della riforma della fiscalità ambientale.
Questo è sostenuto anche da evidenze scientifiche ed economiche: una certa maggior
articolazione del processo produttivo (per es. riciclo dei rifiuti) crea occupazione, nuovi
soggetti economici.

Informazione
Un presupposto fondamentale per l’utilizzo di questi strumenti di mercato è l’informazione: è
essenziale per il consumatore, ma anche per il produttore, perché bisogna che ci sia una
condivisione di conoscenze. Si tratta di costruire mercato facendo crescere il rapporto di
collaborazione e fiducia tra chi produce e chi consuma. Il mercato è un negoziato continuo, molto
superficialmente riassunto nella logica della domanda e dell’offerta: siamo in presenza di un
meccanismo complicato, con una miriade di prodotti.
C’è poi la logica del modello della certificazione ambientale, che ha lo scopo di informare e
orientare.
Eco-etichette (eco-labels): siamo di fronte ad una certificazione ambientale, dietro ci sta una
forma di controllo, un audit ambientale (eco-audit) che viene gestita sostanzialmente da un
processo spontaneo delle aziende, che si allineano su determinati standard e determinate
modalità. Qui l’ente pubblico (UE in questo caso) interviene attraverso una garanzia di
riconoscimento di una qualità del processo produttivo, con il rilascio di questa certificazione,
quindi ente pubblico ‘garante dell’attendibilità dell’informazione’. Le eco-etichette e l’audit
ambientale implicano responsabilità attraverso l’autodisciplina ambientale.
Su determinati prodotto vedremo sempre più spesso indicazioni riassuntive del contenuto di
zuccheri, salinità ecc: è un approccio visivo che ci permette di sapere cosa stiamo comprando.
Anche questo lato dell’educazione alimentare è una componente importante del diritto
all’ambiente, perché il nostro comportamento alimentare condiziona pesantemente l’ambiente e
per questo le certificazioni sono importanti.
L’informazione, quindi, è molto importante per scegliere consapevolmente. Questa filosofia della
qualità che si sta diffondendo, è per noi uno strumento prezioso. C’è una ritualizzazione delle
verifiche, cioè viene detto in maniera molto chiara alle aziende che producono “guarda che se
segui un determinato processo, se escludi l’abbandono di risorse non trattate come rifiuti e
alleggerisci le tue esternalità negative, io metto in risalto questo tue qualità attraverso una
certificazione”, certificazione che in questo caso può essere anche non del prodotto, ma del modo
in cui si arriva a realizzare quel prodotto. Se c’è uno strumento che mi permette di sapere se il
produttore ha rispettato le regole migliori del mercato, io sono avvantaggiato e non ho bisogno di
fare un’indagine personale su ogni prodotto.
- se trovo il marchio ISO (es. ISO 9000, ISO 14.000 ecc) vuol dire che ho una certificazione di
processo positiva: questa azienda ha fatto certificare ad un organismo privato ma che raggruppa
centinaia di altre aziende, che il proprio processo produttivo è stato condotto in maniera
adeguata.
- stessa cosa per le EMAS.
Questo approccio che valorizza il miglioramento delle tecniche produttive in senso ambientale è
un dato particolarmente evoluto del mercato e l’UE è all’avanguardia da questo punto di vista. Il
fatto di essere tutti coinvolti (stati membri) dall’Unione dà una forza a questi processi e a queste
certificazioni.
Oltre ai label europei, anche gli stati possono (oltre ai produttori) fare delle certificazioni che
servono a dare visibilità ad una situazione virtuosa. C’è una sorta di concorrenza tra l’intervento
che può fare l’UE e quello che possono fare i singoli stati. Il singolo stato è libero di istituire dei
sistemi di certificazione o etichettatura ambientale; quello che però lo stato non è libero di fare è
di istituire attraverso lo strumento ambientale delle barriere al commercio. Quindi gli stati sono
liberi di istituire sistemi di certificazione o etichettatura ambientale, purché non costituiscano
barriera agli scambi e non abbiano finalità protezionistica. Quello che può fare legittimamente uno
stato è innalzare la soglia di sostenibilità ambientale, quindi fare un’etichettatura ad esempio per i
prodotti nazionali.

Green public procurement, GPP


Che l’azione dello stato sia importante nel condizionare i meccanismi economici ci viene anche dal
fatto che lo stato e gli enti pubblici sono spesso acquirenti di prodotti e servizi. Il procurement si
traduce con “contratti pubblici”, appalti: la scelta di un prodotto piuttosto che l’altro può favorire
processi virtuosi in campo ambientale. Ha a che fare con la valorizzazione dei fattori ambientali
nell’attribuzione delle commesse (dir. 2004/17/CE e 2004/18/CE). Gli appalti verdi (o
ecocompatibili) sono dei processi mediante cui le pubbliche amministrazioni cercano di ottenere
beni, servizi e opere con un impatto ambientale ridotto per l'intero ciclo di vita rispetto a beni,
servizi e opere con la stessa funzione primaria ma oggetto di una procedura di appalto diversa. Ci
sono già norme che intanto consentono di introdurre negli appalti questa variabile.

Altri strumenti
Parallelamente posso intervenire con meccanismi più classici di sussidio o imposta. I sussidi sono
dispositivi speculari alle tasse per stimolare azioni virtuose a favore dell'ambiente. Ci sono poi le
politiche promozionali della produzione energetica da fonti rinnovabili.
Poi c’è un altro versante, che è la responsabilità per i danni. Essa ha avuto uno sviluppo molto
lento nel tempo: prima si è fatto riferimento a criteri generali, poi il danno ambientale ha
sviluppato dei caratteri giuridici sempre più particolari. Ma se vado incontro ad una sanzione
economica per aver prodotto un certo bene o averlo commercializzato in spregio di norme
ambientali, possiamo trovarci di fronte alla situazione per cui un’azienda pensi che tutto sommato
conviene correre il rischio di essere sanzionati, perché alla fine avrà comunque un risparmio
nell’adottare una tecnica più tradizionale e meno impattante sull’ambiente. Le imprese mettono
in conto di dover poi risanare certi ambienti che hanno deteriorato e possono addirittura,
utilizzando il sistema assicurativo, coprirsi le spalle per questo probabile inquinamento. Può
diventare in sostanza quasi indifferente per un'azienda aver commesso o no degli illeciti
ambientali e quindi da qui c'è tutta l'importanza di sviluppare una teorica della responsabilità per
danni che sia effettivamente adeguata che consenta di correggere questi comportamenti.

Mercati artificiali
C’è un altro versante che ha introdotto un’altra tecnica di mercato per cercare di influenzare in
senso positivo i comportamenti: si tratta dello scambio di beni e titoli “rappresentativi di valori
ambientali”. C’è il caso dei “permessi di inquinamento” (modello Kyoto): una quantità di consumo
delle risorse ambientali, in questo caso la CO2, e autorizzata e diventa standard accettato per
mantenere il cumulo delle quote nel quantitativo globale programmato. I permessi sono assegnati
mediante gara, asta o altra procedura amministrativa e il prezzo dipende dalle dinamiche di
mercato.
I grandi inquinatori sono gli stati, considerati come riassuntivi di tutto l’inquinamento delle loro
imprese ecc, e possono essere condizionati in vario modo, ma quello che è importante è che i
detentori delle grandi quote di inquinamento (USA, Cina, India…) devono essere trattenuti,
bisogna mettere un tetto al loro inquinamento perché la progressione dell’inquinamento
ambientale ha un impatto climatico devastante. Il primo tentativo che è stato fatto in questo
senso è stato fatto sulla scia degli impegni assunti a Rio e delle cosiddette conferenze delle parti;
ogni anno dal 1992 in avanti le parti che hanno sottoscritto la Dichiarazione di Rio si ritrovano in
relazione alle convenzioni che sono state adottate per dare gambe a questo impegno. Ma come
fare in modo che l’UE, la Cina, gli USA tirino il freno? La prima soluzione che è stata individuata
negli anni ’90 porta il nome della città di Kyoto: l’Accordo di Kyoto è frutto di una COP, che ha
individuato il sistema di fare una sorta di contingentamento dell’inquinamento del pianeta. Se
rispetto a quello che io prevedo come tetto complessivo di inquinamento qualcuno è più virtuoso
o per motivi dell’economia non arriva neanche a raggiungere il pieno della sua capacità di
inquinamento, può vendere una sua quota di inquinamento. Si è creato un mercato artificiale,
l'artificialità sta nel fatto che non è un bene utile l'inquinamento, è un’entità teorica che viene
scambiata. Questi permessi diventano moneta contante e sono trasferibili in vario modo.
C’è un altro mercato meno artificiale, che è quello dell’energia: lo stato ha istituito un mercato
artificiale che obbliga ciascun commerciante di energia ad avere almeno una quota di rinnovabili.
Qualcuno non ha questa quota e allora andrà a comperare una quota di produzione di un soggetto
che invece produce energia rinnovabile. Il risultato è che in questo modo, indirettamente, viene
finanziata l’energia idroelettrica, solare ecc. che costerebbe di più nella produzione, ma che
diventa conveniente produrre perché prelevo risorse da chi commercializza un’energia più
inquinante e trasferisco il beneficio economico a chi produce energia meno impattante.
Il mercato è un luogo giuridico, uno spazio, talvolta fisico talvolta semplicemente virtuale, nel cui
ambito si svolgono delle operazioni di scambio. A volte sono anche solo scambi di facoltà, di
autorizzazioni, in questo caso autorizzazioni ad inquinare e a scambiare beni particolari come nel
caso dell’acqua e delle energie. I mercati artificiali sono operazioni molto complesse, a volte hanno
dei costi amministrativi molto elevati, delle incertezze nel raggiungimento di determinati risultati e
non sempre vengono ritenuti efficaci ed efficienti.
Mercato dell’acqua o water banking à alcune aree sono progressivamente allontanate dalla
concezione dell’acqua come bene pubblico generalmente accessibile, per privilegiare strategie di
assegnazione di quote di questo bene che seguono percorsi diversi. Esempio sfruttamento delle
grandi derivazioni di acqua a scopo agricolo o idroelettrico (non potabile): in California si è
sviluppata una pratica usuale di possibile cessione dei diritti di sfruttamento. In Italia se vogliamo
sfruttare dell’acqua a scopo idroelettrico dobbiamo ottenere una concessione dal demanio, quindi
dobbiamo essere autorizzati a prelevare una certa quantità di acqua per m3 che può essere
utilizzata a nostro piacimento; noi dobbiamo utilizzarlo, non possiamo farne commercio. Magari
questo soggetto non è interessato a sfruttare tutta l’acqua, il che, secondo le logiche economiche,
potrebbe essere una diseconomia, allora in California e in Spagna cosa si sono inventati? I
certificati che documentano il mio diritto di prelievo possono essere ceduti ad altri omologhi
(soggetti con stessi requisiti), questo però sotto controllo pubblico, non è un mercato libero,
selvaggio. Questa pratica si ritiene porti un utilizzo ottimale dell’acqua. C’è un problema
complesso, ma anche di tipo etico-costituzionale: se l’acqua è un bene pubblico, è giustificato che
io monetizzi dei miei diritti sull’acqua? È una pratica consentibile, che io trasferisca ad un altro
questo diritto d’uso, ottenendo un vantaggio economico? Non va forse contro la logica di gratuità
della risorsa? Questi sono dei primi generali interrogativi che ci dobbiamo porre.

Certificazioni ambientali
U. Beck, uno dei più grandi sociologi di fine Novecento e massimi interpreti dei fenomeni recenti di
evoluzione della società: tra le sue intuizioni maggiori c’è quella di aver colto che viviamo ormai in
una società del rischio, ovvero la società contemporanea si caratterizza perché deve trattare in
modo sistematico l'insicurezza e la casualità generate dalla modernizzazione. Il mercato tende ad
arginare questi rischi, o comunque a renderli compatibili con la nostra vita abituale attraverso
rituali di verifica, attraverso dei meccanismi istituzionalizzati di controllo. Uno di questi
meccanismi è l’audit (= controllo, revisione), interno o esterno. Se lo uniamo al termine eco
abbiamo un ecoaudit: attraverso i processi ISO ed EMAS le aziende sottopongono i loro processi e
i loro prodotti ad una verifica di implicazione ambientale (consumi di materie prime e di energia,
produzione smaltimento dei rifiuti, prevenzione di incidenti con conseguenze sull'ambiente…).
L’ecoaudit può essere fatto liberamente da ciascuno, è convalidato da organismi nazionali
accreditati (ovvero certificati dallo stato o dall’UE) e consente all'impresa di esibire un apposito
logotipo, marchio, per indurre un atteggiamento responsabile nei confronti dell'ambiente.
ISO à sotto questo termine c’è un soggetto terzo, in questo caso soggetto privato, che è venuto a
vedere tutto il processo e ha dato le indicazioni necessarie e si accerta che lo standard ambientale
sia rispettato. Si attesta che l'impresa è dotata di sistema di gestione ambientale (SGA) per ridurre
l’impatto ambientale della propria attività e per attuare politiche ambientali precedentemente
individuate. Non propongono modelli specifici, ma indicano solo una metodologia, solo standard
di gestione ambientale. È come dire “ho chiamato un ispettore e ho controllato che
ambientalmente sto facendo le cose bene”, le cose sono fatte bene a seconda del livello ISO che
raggiungo. A cosa serve questo? Non è una certificazione di prodotto, ma essendo un’azienda
virtuosa, è un’azienda su cui la società scommette di più, nel senso che la aiuta in vario modo: uno
degli aiuti è la riduzione dei premi assicurativi, oppure otterrà più facilmente dei finanziamenti. Se
faccio un appalto magari per la manutenzione dell’ospedale e scrivo che chi vuole concorrere deve
essere ISO 14.001, allora faccio una selezione a favore di soggetti che sono ambientalmente più
affidabili: si tratta di un altro grande vantaggio che posso trarre.
EMAS à L'Unione europea a sua volta ha uno strumento di certificazione pubblica, più articolato,
che ha messo in campo e che si chiama appunto EMAS. Abbiamo la possibilità, per soggetti
economici molto più grandi, di ricorrere anche a questa certificazione pubblica. Queste operazioni
hanno generalmente un costo più o meno elevato a seconda della tipologia di audit che viene
messa in campo per avere una gestione sostenibile, ma questi costi possono tradursi anche in
vantaggi economici. Posso avere un aumento della clientela, perché i soggetti vari possono
preferire questo tipo di soluzione. Oggi Reg. CE 1221/2009.

Il settore in cui si è sviluppata di più la certificazione ambientale in Europa è il settore energetico, il


settore dell'energia elettrica, perché abbiamo avuto incentivi per l'efficientamento. Si è voluto
agire in questo campo anche operando sui grandi player della produzione, sui grandi costruttori di
percorso, quindi sono stati introdotti degli strumenti certificativi di grande interesse. Due in
particolare sono i certificati bianchi e i certificati verdi.
Certificati bianchi à ci troviamo all’interno di una logica di mercato tra produttori; sono Titoli di
Efficienza Energetica (TEE) che vengono scambiati e che certificano il raggiungimento di risparmi
negli usi finali di energia attraverso interventi e progetti di incremento dell'efficienza energetica.
Un certificato equivale al risparmio di una Tonnellata Equivalente di Petrolio (TEP) e questi
certificati bianchi possono essere scambiate valorizzati su una piattaforma di mercato o attraverso
contrattazioni bilaterali. Quindi i certificati bianchi si avvalgono di un registro elettronico, di una
certificazione standardizzata che dimostra che è stato raggiunto un valore di risparmio elevato e
tutti i soggetti ammessi sono inseriti nel registro elettronico TEE. Nel momento in cui questo
certificato viene scambiato e ceduto da un soggetto all’altro poco importa al sistema, ciò che
conta è nella logica generale, che il risparmio sia stato conseguito, non importa da chi.
Chi è che fa quest’attività di piattaforma energetica, di gestione dei servizi energetici è il Gestore
dei servizi energetici GSE S.p.a. un soggetto amministrativo italiano, interamente controllato dal
Ministero dell'economia e delle finanze. Incentiva e sviluppa fonti rinnovabili attraverso
l’erogazione di sussidi economici per l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. Premia chi
produce da fonti rinnovabili, innanzitutto acquistandogli l’energia pulita, poi la metterà in un
“calderone” in cui c’è energia un po’ meno pulita, magari fatta attraverso un impianto a metano. I
meccanismi di promozione vengono gestiti attraverso una piattaforma informatica, ma
piattaforma che è un soggetto giuridico ed è questo GSE che opera gli scambi in questo modo e
soprattutto incentiva il ricorso alle fonti alternative.
Certificati verdi à più dei certificati bianchi, che sono una cosa che interessa i grandi produttori,
sono importanti i certificati verdi. Il certificato verde è emesso dal sistema del GSE, che è una
società per azioni italiana, quindi non è un ente pubblico ma una società distinta, e viene rilasciato
a chi ha prodotto una certa quantità di energia pulita. Il CV è emesso dal GSE su richiesta del
titolare di un impianto qualificato IAFR (impianto alimentato da fonti rinnovabili) ed è un titolo
negoziabile del valore di 1MWh. Magari io produco energia elettrica per un milione di euro,
mentre il mio concorrente che produce energia non idroelettrica e non rinnovabile deve per legge
dimostrare di avere nel suo paniere di produzione almeno una quota del 15% di rinnovabile. Verrà
da me, concorderà con me la cessione di una quota di quella energia e questo sistema mi paga,
mediato dal GSE (io non entro in contatto diretto con il mio concorrente). Il concorrente sarà
obbligato, siccome vende un miliardo di kWh ad acquistare certificati verdi per il 15% di questo
miliardo di kWh, quindi si caricherà lui di un costo aggiuntivo acquistando questi certificati verdi,
per dimostrare che nel suo paniere c’è anche un 15% di rinnovabile. Attraverso il suo pagamento
di questo 15% io, produttore di energia rinnovabile, verrò remunerato. Ma uno può andare anche
a comprarla dall’altro, ma il costo di produzione della rinnovabile è più alto e questo giustifica
l’intervento di mediazione del Gestore. Il fatto di ricompensare attraverso i certificati verdi i
produttori di energie rinnovabili consente lo sviluppo ulteriore di queste energie che altrimenti
non sarebbero concorrenziali in termine puramente economico. La scelta politica che è stata fatta
va nel senso di diversificare le fonti e privilegiare le fonti rinnovabili; questo privilegiare vuol dire
pagarle meglio attraverso un costo aggiuntivo messo a carico di chi produce le cose più inquinanti.
È una politica energetico-ambientale complessa, ma si accompagna questa dinamica di transizione
attraverso strumenti di mercato e non di carattere autoritativo.
Ecolabel à marchio europeo usato per certificare il ridotto impatto ambientale dei prodotti o dei
servizi offerti dalle aziende che ne hanno ottenuto l’utilizzo (Reg. UE n. 66/2010).
Servizi ecosistemici

“Lettura economica” della Natura à Cos’è un bene ecosistemico? I beni ecosistemici sono risorse,
condizioni e processi grazie quali gli ecosistemi naturali e le specie che vi vivono sostengono e
soddisfano la vita umana; La differenza tra una cosa e un bene sta nel fatto che i beni portano
benefici agli uomini e agli altri esseri viventi. Esempi di beni ecosistemici sono i minerali, lo stock
animale, il legname, il combustibile da biomassa, la fauna ittica utilizzabile a scopo alimentare, i
fossili ecc. Questi beni sono quindi delle risorse, ma possono essere anche dei processi naturali per
cui questi ecosistemi (l'ecosistema del bosco, quello idrico…) supportano la nostra vita. I beni
ecosistemici sono stati per secoli un dato naturale per gli economisti, una esternalità a cui si è dato
un valore economico, ad esempio l'acqua un tempo era considerato un bene limitato e non ci
andavo a vedere quanto ce ne fosse e come fosse usata. Con il giro di boa del Millennio,
l'attenzione generale (degli stati, del mondo scientifico) si è spostata sulle funzioni ecosistemiche:
alcune sono assolutamente naturali, ma alcune funzioni ecosistemiche sono accompagnate
dall’uomo, a volte anche brutalmente brutalizzate, interrotte dall’uomo. Queste funzioni sono dei
benefici che gli ecosistemi ci danno, consistono in attività svolte con specifiche mansioni da
persone, congegni o organismi a favore dell'ambiente. Ad averli teorizzati, visualizzati meglio, ha
contribuito un lavoro straordinariamente importante, collettivo, di migliaia di scienziati in tutto il
mondo sotto l’egida delle Nazioni Unite, con un'operazione che si chiama MEA (Millennium
Ecosystem Assessment, 2005), ovvero valutazione ecosistemica del millennio. Si tratta di un
progetto di ricerca con una ricaduta pratica evidente: sapere cosa stiamo facendo concretamente
di queste funzioni che ci vengono dall’ambiente e dall’utilizzo dei beni ecosistemici, perché ci sì e
accordi che stiamo facendo dei cambiamenti piuttosto pesanti e l'impatto che stiamo dando può
diventare assolutamente inquietante.

Esempi di funzioni ecosistemiche


Siamo ad un punto di convergenza tra l’utilizzo di tecniche di mercato e la salvaguardia delle
funzioni essenziali per il nostro ambiente.
- Purificazione dell’aria e dell’acqua: se non avessimo un ricircolo continuo che restaura una
certa composizione dell’aria che respiriamo, dandole quel giusto mix di ossigeno e CO2 ecc. che
consente una respirabilità adeguata dell’aria, noi ci saremmo già trovati estinti. Bisogna che
qualcuno faccia questa purificazione complessiva e se ne fa carico la natura nel suo complesso,
attraverso il sistema vegetale ma anche il sistema degli oceani; sono i cosiddetti “grandi pozzi
di carbonio” che consentono questa trasformazione dell’aria. Poi c’è la purificazione dell’acqua
attraverso un grande ciclo idrico planetario.
- La necessità di attenuare gli impatti devastanti di alcuni fenomeni, che possono essere
alluvioni, siccità ecc.
- Disintossicazione e smaltimento dei rifiuti: un tempo questo avveniva attraverso la
biodegradazione di quanto utilizzato dall’uomo, ma l’uomo era ancora una specie limitata
numericamente. Lo smaltimento dei rifiuti, prima che nascessero le imprese tecnologiche, era
un fenomeno naturale a cui provvedeva la terra, le specie animali e vegetali, che “digerivano”
questi rifiuti.
- Formazione e rinnovo di suolo e fertilità. Il suolo vive dei cicli di rinnovamento continui, se
scaviamo in un terreno vergine eliminiamo una quota di sovrasuolo che è la quota fertile,
accumulatasi nel corso di decine di migliaia di anni. Il consumo del suolo a cui si tende oggi in
maniera così massiccia richiederà decine di migliaia di anni per essere poi ricomposto una volta
eliminati questi strati artificiali di asfalto e cemento che noi abbiamo creato.
- Impollinazione e dispersione di semi: noi pensiamo alle api solo in termini di miele oppure di
fastidio, ma non pensiamo che è grazie a loro che viene impollinata buona parte della nostra
produzione frutticola o della flora. Poi c’è anche il vento a contribuire alla dispersione dei semi.
- Controllo dei parassiti delle colture: il parassita non è solo qualcosa di negativo, a volte
determinati parassiti annullano altri effetti, quindi possono avere anche effetti positivi.
- Mantenere biodiversità e stabilizzare il clima: la biodiversità, cioè questa pluralità di esseri
presenti sulla terra, di funzioni diversificate che si svolgono, è un fenomeno straordinario che
si è realizzato attraverso uno sviluppo lento, di milioni di anni. Questa presenza dell'acqua, dei
vegetali ecc. ha una funzione importantissima di stabilizzazione del clima; alcuni climi
degenerano clamorosamente quando per esempio si esbosca. In una scala più ampia possiamo
pensare alla protezione dai raggi del sole, funzione svolta dello strato di ozono che avvolge
l'atmosfera, possiamo pensare all' azione del vento, delle onde, ai sistemi di moderazione dei
picchi di temperatura…
Abbiamo una serie di funzioni molto articolate a cui si aggiungono quelle tipicamente umane,
legate alle nostre culture, al nostro piacere estetico di vivere in un certo ambiente naturale, agli
stimoli intellettuali: insomma la biodiversità è una ricchezza. Se noi turbiamo questi equilibri
rischiamo il collasso.

L’antropologo Jared Diamond ha scritto un libro: “collasso, come le società scelgono di morire o
vivere”. Mette il dito su alcune situazioni di società che hanno sbagliato i conti rispetto alle
funzioni ecosistemiche. Popolazioni polinesiane (Isola di Pasqua) che hanno tagliato gli alberi, il
territorio nel giro di qualche generazione si è inaridito: sono mancate funzioni ecosistemiche
essenziali e il tutto è andato in catastrofe. Cosa molto simile è successa in Groenlandia, dove una
presenza umana significativa era stabilizzata nel tempo, ma determinati errori nella gestione del
territorio, nell’importazione di specie esogene nel territorio ha fatto sì che il radicamento umano
non fosse mantenuto. Anche lì il territorio si è desertificato dal punto di vista della vita umana.
Non è successa la stessa cosa dove le popolazioni hanno mantenuto equilibri diversi, maggiore
saggezza: a parità di condizione ambientale la parte nord del Canada vede ancora presenti le
popolazioni indigene, che hanno mantenuto un equilibrio più sano con l'ecosistema circostante.
Come affrontare quindi questo problema delle funzioni ecosistemiche che, ci dicono le Nazioni
Unite, stanno rapidamente degenerando? Qui interviene la scienza attraverso degli studiosi come
Robert Costanza, uno dei primi ad aver mosso le sue ricerche in questa direzione; la scienza in
particolare ha trovato il sistema di fare in modo che i servizi ecosistemici vengano contabilizzati
sostanzialmente, che i mercati “catturino” questi servizi, li quantifichino come noi quantifichiamo
il valore di un qualsiasi servizio di trasformazione, di commercializzazione o di produzione. Perché
è importante farlo? Perché se non li contabilizziamo, chi decide, sia esso un soggetto politico o
economico, finirà per non tenerne nessun conto. Cosa interessa al produttore di detersivi che ci
siano o meno delle api in giro, in fondo non pensa che siano così importanti. Il ragionamento che
fanno questi economisti e che con loro hanno fatto gli Stati è riassunto in questa frase di Ed
Barbier: “usiamo la natura perché considerata portatrice di un valore economico, perdiamo la
natura perché è ‘gratis ‘”. Il valore intellettuale, estetico, di benessere generale ecc. passa in
secondo piano se si incomincia a fare un calcolo puramente economico. L'economia è un po'
semplificatrice in questo, vuole misurare e quantificare tutto affinché abbia un prezzo monetario,
quindi in questa semplificazione non riesce a cogliere tutte le sfumature di un servizio
ecosistemico.
Collegando la funzione ecologica in tutta la sua complessità con il campo semantico dell’economia,
noi abbiamo compiuto un’operazione apparentemente naturale: diventerà una cosa sempre di più
spontanea. Eco-sistemico = metafora che stabilisce collegamento fra i campi lessicali
dell’economia e dell’ecologia per interpretare l’interazione uomo-natura. Secondo i critici radicali
di quest’impostazione, come Virginie Maris, un’epistemologa, studiosa dei meccanismi scientifici
dell’ecologia, questa quantificazione monetaria è un po’ un “chiodo scaccia chiodo”, l’idea che
possiamo allontanare un pericolo sull’ambiente attraverso un intervento che a sua volta
costituisce un male. Ci troviamo di fronte a due grandi approcci estremi:
1) Dice che se vogliamo salvaguardare le funzioni ecosistemiche dobbiamo dare un prezzo a
queste funzioni e dobbiamo fare in modo che tutti paghiamo perché esse possano essere
svolte
2) Abbiamo chi dice “attenzione, nel momento in cui voi trasformate queste funzioni in ‘merce’,
voi li condannate definitivamente perché si penserà sempre di più e si cercherà sempre di più
di sostituire delle metodiche naturali con delle metodiche artificiali, e soprattutto il dio denaro
reggerà il mondo anche in un contesto nel quale il mondo si è retto benissimo da solo per
migliaia e migliaia di anni senza che noi gli attribuissimo un prezzo economico.
Abbiamo due approcci molto diversi che si contendono il campo della riflessione scientifica, ma sul
piano pratico la prima visione, quella della quantificazione economica come strumento di
orientamento del mercato, è sicuramente in forte ascesa oggi.

Quattro grandi categorie


1) Supporto alla vita: nell’elaborare i nutrienti per la specie umana, per le specie animali (ciclo
dei nutrienti), nella formazione del suolo, perché abbiamo ancora bisogno di suolo fertile, e di
supporto alle produzioni primarie (sviluppo proteine, plancton ecc.).
2) Approvvigionamento: non solo della specie umana, ma anche delle specie naturali, quindi
produrre cibo, acqua potabile, materiali o combustibile.
3) Regolazione: di clima e maree, depurazione idrica, impollinazione e controllo delle
infestazioni.
4) Valori culturali: estetici, spirituali, educativi e ricreativi.
siamo decisamente debitori nei confronti della natura, e sembra pericoloso che si voglia stabilire
un prezzo per ciascun pezzo di queste utilità, che sono utilità complesse, interconnesse. La
regolazione da parte dell’uomo è sempre un po’ settoriale, parziale.

Costi e benefici - TEEB


Nella Convenzione di Rio abbiamo sottolineato l'importanza il diritto internazionale dell'ambiente
e proprio questa convenzione ha dato origine ad un documento formale, la Convenzione sulla
diversità biologica che è un po’ l'origine di questo nuovo corso di pensiero in materia di diritto
ambientale. Adottando questo trattato sarebbe diversità nel 1992, si è stabilito che ci dovesse
essere un utilizzo sostenibile di tutti gli elementi naturali tra i vari paesi del mondo, soprattutto nel
rapporto tra i paesi più sviluppati e meno sviluppati ci deve essere un’equa ripartizione dei
vantaggi che arrivano dallo sfruttamento delle risorse genetiche. Le risorse genetiche sono le
risorse della vita: buona parte del capitale biologico dell'umanità è posizionato al Sud del mondo,
ne sono detentori l’Africa, l’Amazzonia, e quindi in quella sede si è detto che ci vuole un rapporto
equo in questo. Come si è sviluppato questo pensiero? Partendo dalle analisi di scienziati come
Robert Costanza ed altri, che hanno addirittura quantificato monetariamente l'entità della natura,
come si è effettuato il travaso tra un pensiero scientifico nuovo, un paradigma nuovo, e una
decisione politica? L’anello di congiunzione è dato dall’azione che hanno svolto i paesi più
sviluppati, quelli del G8 in particolare, dando vita ad un’interrogazione alla scienza sull’economia
degli ecosistemi e della biodiversità (rapporto The Economics of Ecosystems and Biodiversity,
TEEB). È come uno studio commissionato a scienziati e a soggetti grandi stakeholder dell’economia
mondiale, avviato dai Ministri dell’Ambiente del G8-5 (quindi gli 8 più grandi + 5 più grandi paesi in
via di sviluppo) nel 2007. I Ministri commissionano questo rapporto e chiedono che tipo di
attenzione debba essere data ai benefici che noi traiamo dalla biodiversità; al tempo stesso
chiedono quale sia il costo che stiamo sostenendo per la perdita della biodiversità e la mancata
erogazione di queste funzioni di approvvigionamento, regolazione ecc. I costi e benefici sono due
termini chiave della convenzione: il rapporto richiama proprio l'attenzione che benefici economici
globali della biodiversità e i costi della perdita di biodiversità e del degrado dell'ecosistema. La
logica Cost-benefit analysis (CBA) richiama una valutazione basata su misura e comparazione dei
costi e dei benefici direttamente e indirettamente ricollegabili a progetti di investimento.
Il responso di questi rapporti è quindi un modello di business, un modello di affari che è ritenuto
convincente perché si reputa che questo provochi la conservazione della diversità biologica, la
mantenga. La Fase I del TEEB contiene una constatazione, il quadro generale per la perdita di
biodiversità e gli effetti che essa produce (valutazione della perdita e della conservazione della
biodiversità). La seconda Fase, fase cruciale della relazione che viene sottoposta, è una parte tutta
economica ed econometrica che ci dice: “vuoi decidere bene nell’interesse dell’ambiente? dai un
prezzo a tutto”. La Fase II cerca di dimostrare che l'economia può essere uno strumento potente
nella biodiversità sostenendo i processi decisionali. L'efficacia degli strumenti economici per la
conservazione della biodiversità dipende da applicazione e interpretazione appropriate: le
politiche cambiano per prendere meglio in considerazione dei valori della biodiversità e per fare
ciò occorre inserire i risultati di TEEB nel contesto di diversi utenti finali - politici e decisori,
amministratori, imprese commerciali e consumatori - nel loro ‘kit’ di strumenti: sovvenzioni
incentivi, responsabilità ambientale, nuove infrastrutture di mercato…
I processi decisionali devono interiorizzare i costi della perdita della biodiversità e attraverso
questa compensazione monetaria faremo in modo che in altri modi ci si faccia carico di ottenere
quello stesso risultato applicando delle tecnologie adeguate. La politica prende atto di questa
situazione e tenta di convogliare i risultati di questa analisi verso i vari soggetti che se ne devono
fare carico: i politici con le loro strategie ambientali, gli amministratori pubblici e privati, le
imprese commerciali, i consumatori… è tutto un sistema di mercato ambientale che coinvolge tutti
e nel quale vengono in considerazione anche quegli strumenti di accompagnamento (strumenti di
mercato, certificazioni ambientali, mercati artificiali ecc.). Stiamo creando un sistema molto
sofisticato di responsabilità, di sovvenzioni, di incentivi che dovrebbe, secondo teorici di questi
servizi ecosistemici, portare ad una migliore regolazione nei rapporti. Ad una cellula di decisori
politici molto alta (Ministri dell’Ambiente dei paesi più grandi) vanno associati altri soggetti molto
importanti, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale… tutti soggetti che hanno
un orecchio molto attento a questo discorso dell’Economics of Ecosystems and Biodiversity. In
questi ambienti si vede in questa svolta la nascita di un colossale mercato nuovo: finché ci si
doveva limitare ai mercati tradizionali (oro, materie prime, riscaldamento, alimenti…) ok, ma se
noi inglobiamo nel mercato le intere funzioni ambientali della terra noi ‘colonizziamo
economicamente’ delle praterie sterminate, molto più ampie di quelle che fino a ieri eravamo
abituati a gestire. Per una popolazione mondiale in crescita, per un appetito sempre crescente,
anche di chi già ha accumulato grandi ricchezze, l’idea di avere nuove prospettive di crescita è
sempre appetibile; è come se si fosse messo in modo un meccanismo di ampliamento del
mercato. Se andiamo a vedere i mercati finanziari oggi, la parte più promettente è proprio questa
dei servizi ecosistemici, delle fonti della vita. Anche il sezionamento del genoma umano, dei beni
intellettuali, una codificazione delle regole della vita diventano beni economici che le società
stanno brevettando per mettere le mani, in qualche modo, su tutto il vivente. L’economia getta la
rete i qualche modo sulle funzioni ecosistemiche e cerca di attrarre a sé queste funzioni con
l’argomento di dare un prezzo a tutto. È una strategia, anche se non l’unica.
Valutazione di beni e servizi ecosistemici
L’approccio critico, che sta contro questa scelta, è una linea che discute sui fondamenti di questa
operazione, dicendo che è quasi una banalizzazione delle funzioni della natura e dei suoi processi,
una linea che potrebbe non essere totalmente consapevole dei valori impliciti di queste funzioni.
Un’analisi, insomma, settoriale e non olistica (che abbraccia l’insieme della natura e delle sue
funzionalità), che segmenta la natura non permettendo di gestire in maniera complessiva queste
operazioni; è un taglio che obbligatoriamente fa pesare queste tipologie nelle decisioni politiche e
di management, perché porta a considerare, nel bene o nel male, interiorizzate alla decisione
gestionale queste funzioni. Da ultimo, le ripercussioni sugli ecosistemi possono essere positive in
qualche caso, ovvero restaurano delle situazioni degradate, ma possono essere anche delle
decisioni poco sagge o poco avvedute e quindi portarci un po’ a commettere degli errori.
L’essere umano, che fino a qualche secolo fa era una delle tante specie che si arrangiavano per
sopravvivere, diventa responsabile di come funziona tutto il sistema terra.
Quindi approccio critico:
1. opinabile riduzione della complessità dei sistemi ecologici (struttura e processi) ad un limitato
numero di funzioni (regolazione, habitat, produzione e informazione)
2. analisi settoriale (non sistemica) del valore di questi beni (ecologico, socio-culturale,
economico)
3. inclusione del loro valore nelle decisioni politiche e di management
4. valutazione delle ripercussioni di queste decisioni sugli ecosistemi.

Heisenberg à ragioniamo quasi in termini di filosofia delle scienze. Idea della determinatezza o
indeterminatezza nella scienza. Nella scienza fino alla rivoluzione quantica degli anni ’20 e ’30 è
sembrato sempre che tutto potesse essere calcolato secondo una logica deterministica, con una
causalità quasi necessaria. Nel corso del Novecento si è affermata una lettura diversa dei
fenomeni e in particolare attraverso le intuizioni del grande fisico tedesco Heisenberg si è messa in
dubbio questa causalità necessaria, deterministica: non è vero che se conosciamo il presente
possiamo prevedere il futuro, possiamo fare le mosse giuste per produrre determinati effetti per il
futuro. Noi non conosciamo mai completamente il presente: questo è il dato problematico della
lettura nuova della natura, ovvero pensare che la raffigurazione che ne diamo attraverso
un’elencazione delle sue funzioni, delle sue valenze ecc. possa essere esaustiva e oggetto di una
nostra manipolazione che la porta a mantenere determinati caratteri nonostante il nostro
intervento. Questo purtroppo non è vero, bisogna mettere in conto anche la possibilità che
interventi umani sull’ecosistema possano avere sviluppi non lineari, cioè non solo non prevedibili,
ma che di colpo provocano un cambiamento di scala totale delle conseguenze che si sono
innescate. È un dato inquietante e problematico che dobbiamo tenere presente nel momento in
cui guardiamo al modo in cui interveniamo su questi servizi ecosistemici; il modo che per il
momento viene più frequentemente utilizzato dalla politica e anche dal diritto è il pagamento, la
corresponsione di denaro per far fronte alla perdita di determinati servii ecosistemici. Quindi
portare servizi ecosistemici in un contesto di mercato. Come si può contrastare la perdita di servizi
ambientali? Attraverso il mercato, facendo sì che chi beneficia di un certo beneficio ambientale e
di qualcosa a dei soggetti che intervengono per migliorare la qualità delle acque, per esempio,
oppure per contrastare fenomeni di desertificazione delle terre e così via. Il beneficiario del
servizio ambientale (acquirente) paga il fornitore del servizio (venditore) per continuità o
miglioramento. Il PES (pagamento dei servizi ecosistemici) è una transazione volontaria, ovvero
un contratto libero con cui determinati venditori di servizi assicurano uno specifico servizio
ecosistemico ad uno o più compratori garantendone la fornitura.
Gli strumenti attraverso i quali questo può avvenire sono i più diversi:
- incentivi e meccanismi di mercato (es. certificazioni volontarie)
- meccanismi pubblici di sostegno (di erogazione di sovvenzioni e sussidi ad esempio)
- partnership tra privati

Modello piano urbanistico


- analisi territoriale (acque, vegetazione, classi ed uso del suolo)
- identificazione e quantificazione dei SE: cluster ambientali
- definizione di obiettivi operativi e del modello perequativo
- determinazione degli indici, concorsualità e concertazione delle regole perequative
- nuovo credito edilizio e intese interistituzionali
- bilancio dei servizi ecosistemici la sua internalizzazione
Questo discorso del bilancio dei servizi ecosistemici, nel caso della programmazione urbanistica
dei servizi ecosistemici, è una tendenza che si sta affermando. Si destinano alcune aree a scopo
industriale, edificatorio, oppure per una ragione ambientale: tutto questo fino a ieri avveniva sulla
base di una valutazione un po’ ad occhio, mentre adesso attraverso questo nuovo sistema si
ritiene che si possano quantificare economicamente, attraverso un vero e proprio bilancio, i servizi
ecosistemici. Siamo di fronte ad una colonizzazione, da parte dell’economia, del mondo della
natura e anche del diritto dell’ambiente: l’idea di doversi muovere sempre sulla base di un
discorso monetario. Non è un fatto casuale: è una linea ideologica che è partita negli anni ’50-’60
nel mondo anglosassone e si è diffusa, assumendo una posizione di egemonia culturale su tutto
l’occidente e su buona parte del mondo. Ma io come faccio a sapere quanto vale per esempio
destinare a parco un territorio oppure far lavorare diecimila agricoltori attraverso il biologico e
non più attraverso l’agricoltura industriale, con l’uso dei pesticidi ecc? Ci sono varie tecniche, varie
metodologie di quantificazione dei SE. Determinate scelte politico-amministrative oggi
contribuiscono ad orientare, anche senza necessariamente intervenire con ordini di divieto, ma
attraverso un sistema di quantificazione e di corresponsione di forme compensative.
- Market price per alcuni beni, scambiati sul mercato, possono essere oggetto di un prezzo di
mercato (legname, prodotti agricoli…). Ad esempio, se dobbiamo rifare il pavimento di casa
nostra, possiamo scegliere se importare il legno più bello dall’Amazzonia, con un costo
ambientale altissimo, perché contribuiamo a disboscare e facciamo trasportare per migliaia di
chilometri una partita di legno, oppure possiamo usare legno prodotto a poca distanza da casa
nostra, magari di grande durata. Se il mondo dell’amministrazione da un incentivo attraverso
un label, un’etichettatura ambientale, per favorire il ricorso a certi prodotti, otterremo una
quantificazione del servizio ambientale che in questo caso è reso dal mantenimento in essere
di un polmone importante come quello amazzonico. Ci possono essere preferenze dettate da
diversi ragionamenti e poi ci sono delle quantificazioni abbastanza facili da fare sui danni
possibili.
- Revealed (o Stated) preference: valuta influenza del servizio ambientale sul prezzo di altri beni
di mercato (hedonic price)
- Damage cost avoided per risanare i danni da erosione, frane, inondazione…
- Replacement cost: stima attraverso un surrogato artificiale (es. depurazione dell'acqua). Quindi
un costo di intervento, e si tratta di un costo di sostituzione
- Production function: stima dell’input nella produzione di beni di mercato (es. torrente non è
più habitat in cui si riproducono le trote, in teoria si può operare una sostituzione attraverso la
produzione dello stesso bene di mercato)
- Travel cost: misura costo presunto per raggiungere aree protette o altri SE
- Contingent valuation e Choice experiment: valuta, con interviste (residenti, visitatori…), ad
esempio il vantaggio di avere un parco cittadino.
- Necessaria disponibilità a pagare (quanto si è disposti a pagare) per preservare un servizio o
per compensarne la perdita di servizi (per servizi culturali, quindi di divertimento, relax, di
piacere visivo…).

Al giorno d'oggi l'economia sta dando spazio a beni che fino a poco fa non erano considerati tali,
come ad esempio la foresta amazzonica.

Prime apparizioni nel diritto italiano


Nel diritto italiano sta iniziando ad entrare la prospettiva economica della natura. Una prima legge
ha regolato i criteri per la definizione del costo ambientale e del corpo della risorsa per vari settori
di impiego dell'acqua (quindi primo elemento ad essere oggetto di valutazione dei servizi
ecosistemici è stata l’acqua) – d. n. 39 del 2015. Poi, sempre nel 2015, abbiamo la legge n. 221,
conosciuta sotto il titolo di misure di green economy e contenimento dell'uso delle risorse
naturali. Si dà questa indicazione al governo, attraverso una delega al governo a legiferare per
l'inserimento del calcolo dei servizi ecosistemici, addirittura nella legge di riforma dei parchi (c’è
stato questo tentativo). Si tratta di un tema molto delicato, i servizi ecosistemici al momento non
sono ancora stati deliberati, ma la prospettiva che ha tracciato la legge 221 ha suscitato reazioni e
inquietudini molto vaste, soprattutto nel mondo dell’ambientalismo, perché? Cosa si diceva in
questa delega al Governo? PSEA = pagamento servizi ecosistemici e ambientali
a) Sistema PSEA - remunerazione di una quota del valore aggiunto derivante, secondo
meccanismi di carattere negoziale, dalla trasformazione dei servizi ecosistemici e ambientali
in prodotti di mercato, nella logica della transazione diretta tra consumatore e produttore,
ferma restando la salvaguardia nel tempo della funzione collettiva del bene”. Traducendo: se
non parco c'è un bosco e una parte di questo bosco che non è ritenuta necessaria per il parco
viene trasformata in servizio ecosistemico e ambientale per la popolazione, per il
riscaldamento ecc, bisognerà pagare (in questo caso il parco per questa concessione).
b) ci si deve sempre riferire a operazioni fatte sotto intervento pubblico di assegnazione in
concessione di un bene naturalistico di interesse comune, che mantenga intatte o incrementi
le sue funzioni. Ad esempio anche concessione delle acque
c) devono essere individuati i servizi remunerati, il loro valore, i relativi obblighi contrattuali e le
modalità di pagamento: chi da che cosa
d) remunerare in ogni caso: fissazione del carbonio delle foreste e dell’arboricoltura da legno;
regimazione di acque in bacini montani; salvaguardia biodiversità e delle qualità
paesaggistiche; utilizzare proprietà demaniali e collettive per produzioni energetiche
e) considerare interventi di pulizia e manutenzione dell'alveo di fiumi e torrenti
f) riconoscere ruolo di agricoltura e territorio agroforestale con incentivazione degli imprenditori
agricoli
g) coordinare e razionalizzare analoghi strumenti già esistenti
h) beneficio finale a comuni, loro unioni, aree protette (…) e organizzazioni di gestione collettiva
dei beni comuni
i) premialità per comuni che utilizzano sistemi di contabilità ambientale e urbanistica e
rendicontazione amministrativa
j) vietare stoccaggio di gas naturale in acquiferi profondi.

Alcuni esempi in cui in questi ultimi anni si è intervenuti in questi campi:


- Prevenzione incendi a Saint-Tropez (Francia) à molto soggetto ad incendi: per mantenere un
certo tipo di silvicoltura che contrasti questo rischio di incendi, gli agricoltori vengono pagati
per mantenere un’area boschiva. Se trascurassero questa manutenzione questi territori
sarebbero oggetto di facile esposizione ad incendi.
- “Water penny” in Germania à chiedere agli agricoltori di non utilizzare determinati pesticidi e
fertilizzanti contro il pagamento di una determinata somma. Non utilizzando certi pesticidi
avranno una perdita forse del loro prodotto in termini quantitativi, ma questo verrà
compensato dall’erogazione finanziaria che grava su tutta la comunità.
- Caso Vittel (Francia, Vosgi) à si tratta di una grande società che imbottiglia acque minerali
francese, che ha stipulato un grande contratto con operatori agricoli in campo rurale, intorno
all’area dove sono localizzate le sue fonti, per garantirsi che ci sia una zona di sicurezza per
assicurare la qualità del prodotto idrico. La stessa cosa è stata fatta per ragioni di sicurezza, più
che per ragioni di qualità idrica.
- Romagna Acque, Diga di Ridracoli à diga dove, per mantenere la stabilità dei versanti, il
soggetto che gestisce l’invaso, producendo energia elettrica, compensa economicamente gli
operatori rurali perché mantengano un certo assetto ambientale.
Personificazione giuridica della Natura

Partiamo dalla personificazione della natura in senso religioso, la radice della nostra cultura, del
pensiero dell'uomo non solo in occidente. Questo ha preso da noi anche forme artistiche molto
significative, basti pensare all’Odissea, l'idea del rapporto dell’uomo con la natura con la quale si
misura; gli elementi della natura venivano personificati, questa cosa era nella mente dell'uomo
antico. L’uomo, quindi, doveva avere riguardo nei confronti di questi elementi, che spesso erano
considerati non appropriabili dall’essere umano. Noi ci portiamo dietro questo sostrato antico per
cui gli elementi naturali hanno una loro personalità. Noi adesso ci troviamo in una fase diversa da
quella della meraviglia per la natura, e della paura verso la natura: abbiamo un po’ addomesticato
queste nostre paure e ci troviamo in una curiosa situazione per cui questi elementi che
pensavamo di dover trattare semplicemente come oggetti, come fenomeni da contrastare,
condizionare, limitare, sfruttare… incomincia un po' a ‘ribellarsi’ a questa situazione. La ragione
per la quale noi iniziamo un percorso intellettuale di istituzione della Natura riguarda il fare della
Natura un centro d’imputazione di diritti, ovvero un’entità a cui raccordare una titolarità di diritti.
Tutto questo nasce tra il 500 e il 600, quando l'espansione verso le colonie dell'economia delle
potenze coloniali incomincia a richiedere che si possono investire grandi capitali, un esempio è la
Compagnia delle Indie, e si stacca un corpo di interessi per farne un’entità giuridica, che vive di
vita propria e che va oltre la vita del singolo (es. persone che hanno fondato la Ford non sono più
vive). Anche lo Stato italiano e la chiesa cattolica sono soggetti, anche se la chiesa cattolica è un
soggetto molto particolare perché, tornando ancora indietro all'inizio del primo millennio, certi
interessi che si riferiscono al mondo della chiesa (monasteri) hanno bisogno di affermare una loro
soggettività che va oltre la vita dei monaci che la compongono in quel momento. Allora anche
quella volta, nel medioevo, il diritto compie la ‘magia’ di creare il soggetto giuridico. Personificare
è questa tecnica particolare di creare una persona, una persona ficta, immaginaria, processo che
sta interessando sia la natura nel suo complesso che pezzi singoli. Il primo pezzo della Natura che
stiamo iniziando a personificare (sono già stati fatti i primi passi) sono gli animali, considerati
esseri senzienti. In questo momento gli animali sono considerati delle entità ibride fra oggetti e
soggetti: posso venderli, ma questa condizione sub-umana non è più accettata dal diritto
moderno, mentre è in crescita l’idea che pezzi della Natura (in questo caso del regno animale)
possano avere titolarità di diritti.

Nodi problematici
1. Se sei un soggetto, a che titolo io ti alieno? Se vendessi il mio gatto potrei produrre per lui
sofferenza emotiva, e l’ordinamento sta iniziando a farsi carico soprattutto delle sofferenze
fisiche, ma anche delle sofferenze affettive degli animali. Quindi l’inalienabilità è un primo
problema.
2. Oltre ai diritti, sono centri di imputazione di doveri? Il problema è da rapportare, piuttosto che
al singolo animale, alla ‘responsabilità’ che possono avere determinati ecosistemi: i danni che
producono i fiumi, ad esempio.
3. La scienza accerta la sofferenza, che fa vedere la realtà della condizione in cui si manifesta un
determinato fenomeno della vita. Quindi quale ruolo di ‘mediazione’ per la scienza in questa
operazione? Integrazione dei saperi.
4. Noi oggi dobbiamo far ricorso a studi antropologici sul confine tra determinate specie di
quadrumani e la specie umana, problemi di confine oggetto di grande discussione perché ci
sono anche delle specie animali che hanno effettività di linguaggio molto vicine a quella
umana. Quindi noi cominciamo a vivere una “umiliazione antropologica”: la nostra condizione
di superiorità, di assolutezza umana è oggi messa fortemente in discussione, problema non
indifferente dal punto di vista etico.

Persona non è sinonimo di essere umano, ma di centro d’imputazione di determinati diritti. Come
operiamo questa imputazione? Attraverso dei dispositivi: M. Foucault ha utilizzato spesso il
termine dispositivo, che è qualcosa di un po’ più ampio e articolato della norma. I giuristi sono
abituati alla norma, una regola per indirizzare il comportamento umano, per concordare
determinate situazioni su livello paritario, oppure attraverso atto di autorità ecc. I dispositivi sono
dei congegni normativi un po’ più complessi, che riescono a far conseguire un determinato
risultato. I dispositivi a cui facciamo riferimento per attribuire della personalità giuridica si
individuano in tre vie principali:
a) via costituzionale: che la natura è un soggetto di diritto lo posso scrivere nella costituzione e
quindi posso darle il massimo risalto possibile e collocare al più alto livello questa posizione
b) via legislativa: posso farlo tramite legge
c) via giudiziale: uno o più giudice, una giurisprudenza sensibile al cambiamento della mentalità
sociale del nostro tempo recepisce questo stimolo e dà un responso attraverso una sentenza,
che mi fa capire che quella situazione o quell’elemento animale/vegetale/sistemico è
effettivamente un centro d’imputazione di diritti.

Nuove costituzioni latino-americane


Alcune nuove costituzioni latino-americane si sono fatte carico di riprendere una tradizione
culturale molto antica, un archetipo del pensiero indigeno (andino soprattutto) ed hanno
riconosciuto piena titolarità alla “naturaleza”, come si dice in spagnolo, individuandola in una
persona religiosa se vogliamo, una persona ficta e viene generalmente riconosciuta sotto il nome
di Pacha Mama. Qualcuno lo può schierare soltanto nel campo delle mitologie giuridiche, ma
d’altra parte il diritto moderno era un Pantheon di mitologie, la mitologia dello Stato, la mitologia
dell’ordinamento giuridico… se questa è una rispettabilissima tradizione di un altro popolo bisogna
almeno rispettare le loro di mitologie, in qualche caso anche portatrici di regole di vita. Sumak
Kawasay, il Buen Vivir, queste regole di rapporto con la natura: sono diritti ctoni, che vengono
ripescati dal fondo della storia di questi paesi andini (Ecuador, Bolivia) e vengono tradotti in
linguaggio giuridico moderno, come è successo nel preambolo della costituzione dell'Ecuador. In
questo preambolo abbiamo scritto che “la natura è fondamentale per noi e noi la celebriamo”, ma
noi ci limitiamo celebrarla o facciamo qualcosa in più? Gli ecuadoriani hanno molta considerazione
per questo grande sforzo culturale e giuridico che è stato fatto; negli articoli della costituzione
vediamo precisare dei diritti, come quello al “rispetto integrale dell'esistenza (della Natura) e al
mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, delle sue funzioni e dei
suoi processi evolutivi (art. 71, c. 1). La Natura ha una struttura e una sua dinamica, ha le sue
regole e queste devono essere rispettate.
Poi c'è il problema della rappresentanza di questi interessi: è affidata in questa costituzione ad
una formula di tutela diffusa, cioè “ogni persona, comunità, popolo o nazionalità potrà esigere
dall’autorità pubblica il rispetto dei diritti della Natura. La Natura non ha una voce sua in senso
umano, solo nella mitologia pensavamo che ci parlasse, in realtà si esprime con un codice
comunicativo molto particolare, quindi qualcuno deve parlare in campo giuridico per lei e a farlo
può essere chiunque nella popolazione. Terzo aspetto interessante di questa costituzione è che
diritti della Natura non sono subalterni ai diritti dell'uomo, non abbiamo una costituzione
antropocentrica ma abbiamo una costituzione tendenzialmente ecocentrica che porta ad una
equiordinazione fra i diritti, una parificazione dei diritti tra l'uomo e la Natura.
• Diritto della natura alla propria integrità: è una forma di diritto molto precisa, il diritto alla
restauracion/right to be restored, il diritto a fare portare il ripristino il funzionamento di un
elemento naturale. “Pretesa, propria e giuridicamente tutelata, che gli elementi e i cicli
naturali siano reintegrati nel loro stato originario dopo che l'uomo è intervenuto su di essi,
ripristinandone in toto i caratteri primigeni”. La Natura al diritto non solo ad essere
genericamente tutelata, ma restaurata, riportata all'origine. Molto spesso questa
restaurazione non sarà possibile in maniera totale, ma questa è un'indicazione tendenziale che
ci viene dal diritto costituzionale e poi anche dalla legislazione successiva di questo paese.
Quindi la Natura ha dei diritti propri, se tu hai turbato questi equilibri hai dovere giuridico nei
suoi confronti, non nei confronti degli altri per il diritto alla salute.
• Indipendenza dei diritti della Natura: Natura con dei diritti indipendenti, diritti diversi dal
punto di vista strutturale da quelli dell’uomo e delle altre persone giuridiche, ma non di meno
diritti. Quindi, di fronte all’esistenza di questo diritto e della sua rivendicazione da parte di
chiunque, secondo l’art. 71 della Costituzione dell’Ecuador, abbiamo la reintegrazione
indipendente dall’obbligo che grava sullo Stato o sulle persone naturali o giuridiche di
indennizzare gli individui e le collettività che dipendono dai sistemi naturali colpiti. Qui si apre
il problema poi di chi è il destinatario dell’indennizzo: se brucio un bosco o inquino un fiume,
anche se noi siamo i principali fruitori, non è con le nostre persone che si esaurisce il diritto al
risarcimento, ad un riscatto.

Personificazione
Tra i misteri che abbiamo in campo giuridico c’è quello del danno inferto alla Natura e/o ai suoi
singoli elementi. Nell’ordinarietà il nostro diritto ha sempre trattato queste situazioni come delle
situazioni nelle quali il danneggiato vero era l’uomo, l’unico titolare a cui era riconosciuta la facoltà
di adire un giudice e di chiedere giustizia. Tutto il risarcimento di questi danni veniva operato
attraverso meccanismi, vuoi di obbligazione di opera, vuoi di risarcimento in forma monetaria, a
beneficio di persone, comunità, associazioni, enti pubblici ecc. Ma se il danneggiato è la Natura, e
la natura è un centro di imputazione di questi diritti, allora il risarcimento dovrà andare alla
Natura. Forse le può competere anche un risarcimento monetario per prevenire altri danni, per
vincolare queste forme di risarcimento a operare effettivamente a favore della natura in futuro, e
non per risarcire dei danni alle persone, che sono altra cosa. In passato questa autonoma rilevanza
non era riconosciuta, questo diritto di un elemento naturale al suo restauro rimaneva sempre un
po’ da parte e veniva semmai in considerazione il depauperamento del bene naturale come danno
ad un valore di cui era titolare qualcuno (Stato, Regione…). Se però guardiamo a cosa sta
succedendo nella giurisprudenza di questi ultimi anni, uno dei casi emblematici in Europa, in
particolare in Francia, è stato proprio legato al naufragio di una grande petroliera – caso Erika – la
cassazione francese per la prima volta ha riconosciuto l’esistenza di un pregiudizio (danno)
ecologico puro, non sofferto da singole persone, ma dal mare, in questo caso. È un principio di
distaccamento di questo centro d’imputazione d’interessi e di avvio di una soggettizzazione della
Natura. Il fenomeno ha interessato migliaia di giudizi nel mondo, perché i giudizi legati a conflitti
ambientali si sono moltiplicati in questi anni, spesso a tutela della salute umana, ma in alcuni casi a
sottolineare sempre di più l’importanza anche del rispristino.

Questo discorso di istituzione della Natura ha evidentemente dal punto di vista umano una
funzionalità pratica: si tratta di fare in modo che l’operatività del diritto sia più aderente al bisogno
reale. Il discorso delle personae-non personae (diritto romano) era funzionale a questo tipo di
situazione: il ricorso all’immagine della persona, il cosiddetto preconcetto antropomorfico, si
presume che un essere senziente debba avere più o meno la forma dell’uomo. Quindi abbiamo
questo preconcetto, tendiamo a dare questo genere forma anche alle entità giuridiche che
creiamo. Questo preconcetto antropomorfico, questa soggettivizzazione, ha avuto però all’inizio
della modernità una rottura molto evidente attraverso gli scritti di Francis Bacon, filosofo inglese
che ha portato allo scoperto, in maniera più evidente di chiunque altro, l’idea per cui l’uomo è
dominus assoluto della natura: tutto quello che succede nella natura e sulla natura dev’essere
visto dall’uomo come riferito ad un oggetto esterno. Necessario superamento della “rottura
epistemica” di Bacone (dominio umano assoluto sulla Natura) e del concetto illuministico (beni
naturali = mero oggetto di conquista). L’elaborazione di Cartesio dal punto di vista della persona
riguardava l’io cogitans e il suo rapporto con la materia esterna, con la res extensa, ma il pensiero
moderno è un pensiero che si è sviluppato e ha trovato la leva della scienza come strumento che
gli ha fatto sentire sempre di più che la natura non era un soggetto con naso, occhi e bocca, ma
qualcosa di misurabile, di dominabile, mero oggetto di conquista. La specie umana ha fatto questa
cavalcata negli ultimi secoli, in maniera sempre più importante, fino alle grandi crisi della metà del
secolo scorso, in particolare la crisi atomica: l’uomo si è accorto del turbamento che creava negli
ecosistemi e si è quindi ritrovato di colpo in un’era nuova che oggi chiamiamo antropocene. Si
tratta di un’era in cui i fenomeni della terra sono per la prima volta segnati in maniera fortissima
dall’incidenza dell’azione umana.

Via legislativa
Come ha reagito l’ordinamento giuridico alla necessità di personificare la natura attraverso la via
legislativa? I maori sono una popolazione con un forte radicamento di pensiero autoctono. Hanno
sempre considerato il fiume come un’entità vivente e hanno rivendicato la protezione non solo
della propria terra in senso proprietario, ma dell’integrità di questa entità spirituale e materiale al
tempo stesso, composta dal fiume e da tutto quello che le sta intorno. Il fiume Whanganui River,
così chiamato dagli occidentali, dagli inglesi, è stato oggetto di due secoli di contese giuridico-
militari tra i maori e gli inglesi colonizzatori della Nuova Zelanda, e questo fiume è un complesso
che è al tempo stesso fornitore di sostentamento, di medicina, dà protezione, strumento di
trasporto. Dopo una lunghissima contesa si è giunti ad un settlement, una regolazione che ha
riconosciuto questo fiume come entità vivente, persona giuridica. Questo settlement è una legge
della Nuova Zelanda. Si tratta di un fiume che la possibilità di essere rappresentato in giudizio e ha
dei poteri come se fosse una società amministrata da una diarchia, cioè da due persone: uno
designato dalla comunità Maori e uno designato dall’autorità neozelandese, che svolgono insieme
delle funzioni custodiali. Queste persone sono gli amministratori a nome e nell’interesse del Te
Awa Tupua (nome autoctono del fiume), svolgono la funzione di tutore. Il fiume è un’entità
autonomizzata, che diventa in qualche modo antropica e la cosa interessante nel contesto
neozelandese è che si è andati ad una contaminazione tra delle forme giuridiche ctonie
antichissime e la forma giuridica moderna; altrove si sarebbe fatto magari un parco per tenere
buona la popolazione umana. Abbiamo un'entità realmente autonomizzata rispetto alla visione
antropica, sintesi fra la forma mentis delle comunità con cultura indigena e forme giuridiche
moderne: la differenza con le nostre istituzioni è che i nostri parchi o riserve sono solo un generico
“centro di imputazioni di una serie di valori non meramente naturalistici, ma anche culturali,
educativi e ricreativi” (C. Cost. sent. N. 302 del 1994) à quando vuole dare risalto ad un interesse,
il diritto crea persona.

Le acque del fiume vengono vissute come uno spazio allargato, non è solo l’acqua che scorre, ma
quella che filtra, che evapora… è tutto lo spazio circostante, la forma materiale e spirituale della
riserva che questo rappresenta. Non è folklore, la regina Elisabetta II con la legge (mea culpa della
Corona) chiede scusa per i danni inferti a questa persona, non soltanto dall’ordinamento attuale,
ma anche per i due secoli precedenti di occupazione, si scusa con i morti e i viventi e si impegna
nei confronti anche delle generazioni a venire. Queste forme moderne di diritto ci consentono di
avere uno sguardo giuridico che va molto oltre la contingenza a cui fanno fronte le nostre normali
regole legislative: ci collochiamo in una dimensione intergenerazionale anche del diritto.

Via giudiziale
Anche il formante giudiziale ha reagito a questo. Nell’emisfero Sud, più sensibile all’innovazione
nel campo ambientale (perché dove c’è già diritto cristallizzato è più difficile), ha più capacità di far
rivivere concezioni antiche. In India c’è il fiume Gange: oltre alla sacralità religiosa, oggi il Gange è
una persona giuridica, che con i suoi affluenti è chiamato dal diritto, cioè dall’Alta Corte di giustizia
Division bench of Uttarakhand High Court, e sono qualificati come Living Legal Entities, persone
giuridiche con diritti, doveri e responsabilità di natura personale. La cosa è nata attraverso l’inezia
di alcuni funzionari pubblici che avrebbero dovuto prestare attenzione e intervenire a tutale di
questi fiumi; non l’hanno fatto, e siccome la Costituzione indiana è una costituzione molto
agguerrita e dà delle grandi possibilità ai suoi giudici di intervenire, i giudici sono stati sollecitati. La
corte ha emanato una sentenza interessante:
1. ha posto come premessa che il sentire della comunità indiana è un sentire particolare di
sensibilità, di attenzione nei confronti dei valori della sacralità di questi fiumi. Quindi richiamo
alla diffusa e tradizionale sacralità di questi fiumi.
2. Attuazione ai principi costituzionali di obbligo di proteggere l’ambiente (Cost. ind., art. 48-A) e
dovere di ogni cittadino di preservare il patrimonio culturale dell’India (Cost. ind. art. 51, lett.
g). Questo riferirsi ad ogni cittadino è importante, perché permette di non dire che solo lo
stato è tenuto a farlo, è uno sforzo della comunità, uno sforzo dell'ordinamento ad ottenere
questo risultato.
3. Sintesi fra mentalità tradizionale indiana e modello giuridico occidentale, in particolare di
common law (india ha assorbito tradizione inglese).
Come avviene questa contaminazione? Trova la sua base in precedenti autorevoli per il loro
diritto, come quello degli Shebaits: nella cultura indiana, in riferimento alla cultura indù, c’è
un’adorazione polimorfica, ci sono entità diverse che vengono adorate. Viene fuori una bega
nella storia della giurisprudenza indiana, in cui ad un tempio viene richiesto di pagare
determinate somme di denaro e ci si accorge che questo tempio ha un suo piccolo patrimonio,
del denaro messo da parte. Cosa spiega il giudice in una sua sentenza, nella quale si cerca di
imporre che vengono pagate anche delle tasse da parte di questo tempio? Si dice “c’è
un’entità giuridica che è rappresentata dal tempio, c’è un guardiano e questo Shebaits deve
pagare per conto della divinità di cui amministra il luogo di culto. Questo modo di ragionare mi
fa capire che per la stessa espressione della sensibilità religiosa io ho bisogno di uno strumento
regolatore dei rapporti con il mondo circostante, ho bisogno di dare corpo ad una persona
giuridica. Questo mi permette di risolvere il problema sul piano pratico: trasformare un’entità
metafisica, un bisogno, un valore in un’entità giuridica. Queste persone che io metto ad
amministrare il bene, nel caso del Gange il giudice individuerà tre persone ex officio (in base ai
loro compiti istituzionali, i più alti funzionari pubblici, l’avvocato generale ecc.) che sono le più
qualificate per agire in giudizio a nome del Gange e dello Jamuna, che alcuni soggetti stanno
pesantemente inquinando. Istituisce quindi un valore rappresentato e rappresentabile, con un
meccanismo di imputazione che è lo stesso meccanismo che funziona da millenni nel nostro
diritto occidentale (dal diritto romano in poi): come quando una persona viene nominata come
custode di un pupillo i cui diritti sono minacciati e devono essere difesi. Si nomina una persona
fisica che non agisce in nome proprio, bensì in loco parentis, nell'esercizio di parens patriae
jurisdiction (giurisdizione di patria potestà), tutore di un soggetto debole a fronte dell’assenza
o della negligenza del soggetto titolato. Quella che viene istituita dalla sentenza indiana è una
forma di tutorato che assume human face (lo dice proprio il giudice), il volto umano del fiume:
immedesimazione quindi del tutore con l’entità tutelata, il volto umano del fiume è la persona
(triade di persone in questo caso) titolate per andare a sollevare questioni in giudizio, a
chiedere risarcimenti, a far fare delle opere a restaurazione dell’integrità ambientale.

Primi passi diritto occidentale à USA


Opera del 1972, “Should trees have standing?” di Christopher Stone: gli alberi hanno diritto di
stare in giudizio, essere parte di un contenzioso e non oggetto. Stone, prendendo atto del fatto
che molte azioni ambientali venivano rigettate nelle corti statali e federali degli Stati Uniti, sulla
base del presupposto che gli animali, ecosistemi… non avevano titolarità ad essere rappresentati
in giudizio, teorizza che bisogna superare questo muro di irricevibilità e riuscire in qualche modo a
scrollarsi di dosso questo modo di pensare. Dice che in sostanza se qualcuno si esprime a loro
nome, gli organi giudicanti saranno più sensibili al rischio di una loro scomparsa. Stone lancia in
qualche modo questa provocazione e ad ascoltare questo suo discorso è un giudice della Corte
Suprema degli Stati Uniti: nella Corte Suprema non conta solo la sentenza finale, contano anche le
dissenting opinion, che a volte sono un seme gettato che promuoverà forse un ripensamento in
una successiva sentenza. Qui la dissenting opinion viene dal giudice William D. Douglas, tra i più
brillanti giudici della Corte Suprema degli USA: in una causa che viene mossa sul terreno del danno
ambientale, del pericolo che una determinata operazione speculativa porti su un’area
incontaminata, questo giudice in età avanzata professa di militare a favore di una nozione larga di
comunità. La comunità non è data solo dagli esseri umani, è data dalla comunità del vivente;
Douglas dice che dobbiamo richiamarci al concetto di corporation tradizione common law),
nozione sulla base della quale è stata costituita un’entità sociale, la società. Le società in senso
giuridico vengono chiamate corporation negli USA. Douglas dice che dobbiamo usare questi stessi
strumenti che abbiamo utilizzato per consentire gli interessi economici di fare corpo e dobbiamo
riconoscere possibilità anche alla Natura di esprimersi come se fosse una corporation, perché ad
essa si ricollegano interessi vitali per noi a livello economico, sociale, spirituale, estatico, di salute
ecc.
Il caso della Corte Suprema è Sierra Club vs Morton del 1972, questa la causa che è diventato un
celebre precedente nella giurisprudenza degli Stati Uniti. Nella sentenza si dice che le persone
devono essere in grado di parlare per i valori che rappresenta il fiume e che sono minacciati di
distruzione (si tratta di persone che hanno una relazione significativa con quel corpo idrico).

Poi i principi della vita sono entrati a far parte anche della costituzione tedesca, stanno affiorando
a vario livello questi fenomeni, ma quello che conta è che stiamo pensando all’impensabile, quello
che fino a ieri non era considerato oggetto di un pensiero sano, logico. Stiamo cercando di dare
uno status legale alle foreste, agli oceani, ai fiumi e ad altri cosiddetti “beni naturali”, all’interno
dell’ambiente, appunto, e anche all’ambiente stesso come un tutto unico (Stone, 2010). Il dato è
che stiamo allargando un ‘cerchio etico’, che prima era solo un cerchio umano, prima al mondo
animale, in un processo di progressiva emancipazione della Natura e del paesaggio.
Emancipazione deriva dal mancipium, che era quello che teneva lo schiavo sotto il controllo del
padrone; l’emancipazione della Natura porta nella sua scia tutto un atteggiamento culturale nuovo
che si scontra con un pensiero del liberalismo moderno, che è invece tutto incentrato sulla teoria
dei diritti dell’uomo. Abbiamo un nuovo “teatro giuridico” in cui l’uomo non è più protagonista
esclusivo, ma entrano in campo nuove maschere: la nostra cultura viene scossa e si apre a
formulazioni nuove. Oggi, per la maggior parte si tratta di formulazioni ancora ibride, ad es. la
sentenza Erika prima citata parla di “Natura-quasi soggetto”. Poi ci sono tante altre espressioni, il
mondo anglosassone utilizza molto la logica custudiale del trust (il trust è un meccanismo giuridico
di protezione nell'interesse di terzo), attraverso cui prende corpo un centro d’imputazione di
interessi potenti. Altri parlano di “Natura-patrimonio comune dell’umanità”, termine sempre più
spesso utilizzato dal diritto internazionale, ma è u patrimonio comune che tende a staccarsi dai
suoi detentori e diventare un soggetto assoluto. Ci troviamo lungo una linea di incontro-scontro
tra le posizioni tradizionali antropocentriche e posizione eco/biocentriche; siamo su una linea di
tensione e c’è un indubbio effetto di spillover. Stiamo passando dal diritto sull’ambiente al diritto
ambientale e all’ecologia del diritto, ad un ripensamento ecologico del diritto stesso.
Abbiamo problemi nuovi da affrontare, abbiamo attribuzione di personalità legali a nuove entità, i
progressi delle nuove tecnologie e della robotica portano alcuni autori molto acuti nell’indagare,
nel tentare di avere una prospettiva di futuro dello sviluppo del diritto: stanno indagando verso un
costituzionalismo sistemico, cioè non più solo ristretto agli interessi umani tradizionali, ma un
costituzionalismo che chiama in campo nuovi attori collettivi ed enti non necessariamente umani.
Questo è in via di decodificazione.

Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra (2010)


Dichiarazione riconosciuta da pochissimi stati, tra cui la Bolivia che se n'è fatta portatrice alle
Nazioni Unite, come voce della Conferenza Mondiale dei Oopoli contro il Cambiamento Climatico,
quando a Cochabamba è stata adottata la dichiarazione universale dei diritti della madre terra.
Non è un documento vincolante, non è una carta che abbia raggiunto un consenso larghissimo tra
i paesi, ma è diventato un punto di riferimento culturale molto alto e questa dichiarazione ha
prospettato una titolarità di diritti molto avanzati e articolati in campo alla Pacha Mama, che è il
soggetto più riconoscibile anche nello stesso diritto costituzionale latino-americano. Così come gli
esseri umani hanno dei loro diritti, le altre specie hanno dei diritti che vanno loro riconosciuti e
occorre guardare alla preservazione dei diritti di integrità, equilibrio e salute della Madre Terra.
- Diritto di vivere ed esistere
- diritto al rispetto diritto alla rigenerazione della biocapacità e alla continuità dei loro cicli e
processi di vita, senza disturbi di origine umana à sembrerebbe di dover dire che dobbiamo
uscire totalmente di scena, scusarci
- diritto di preservare la loro identità e integrità come esseri distinti, autoregolati e correlati
- diritto all'acqua come fonte di vita à non solo diritto umano sull’acqua, ma dell’acqua stessa
- diritto all'aria pulita; diritto alla piena salute à già più interiorizzato dall’essere umano
- diritto ad essere liberi da contaminazioni, inquinamento e rifiuti tossici o radioattivi
- diritto a non essere geneticamente modificati o trattati in modo da pregiudicarne l'integrità o il
funzionamento vitale e sano; diritto ad un risarcimento completo e tempestivo in caso di
violazione dei diritti riconosciuti derivanti dalle attività umane à se si accoglie questo
principio dovrebbe diventare un atto illecito la modificazione del genoma umano, è un
discorso molto ampio.
Se dovessimo rispondere a questo catalogo di diritti in maniera totale ed esaustiva, dovremmo
fare un passo indietro non indifferente (qualcuno l’ha teorizzato il dover di limitarci alla metà,
metà della terra e dei mari occupati e il resto wilderness).

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