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DIRITTO PUBBLICO

INTRODUZIONE
Premessa
«Cosa è il diritto?» Il Diritto è un particolare insieme di regole di organizzazione della convivenza umana:
qualcosa che varia storicamente. Se escludiamo di poter dare una definizione di diritto buona per tutti i
tempi e i luoghi, facciamo dipendere la risposta dal tempo e dal luogo in cui ce lo chiediamo. Tutto ciò si
traduce nel chiedersi: «che cosa è il diritto per noi?».

Civiltà giuridica occidentale


Per «noi» intenderemo quanti studiano il diritto in tutte le società comprese nell’area della civiltà
occidentale, nella misura in cui condividono una determinata concezione del diritto: un insieme di regole di
organizzazione della convivenza distinto dalla regole della natura e dalle regole della morale o della
religione. La distinzione, risalente al diritto romano, trova sviluppo a partire dal XVI secolo, con l’avvento
degli Stati.
Nella gran parte dei Paesi musulmani la Shari’a, che riassume i principi della religione islamica, non è
soltanto superiore alle regole giuridiche ma confusa con esse: violare la Shari’a espone l’individuo a
sanzioni giuridiche perché l’autorità pubblica è nello stesso tempo autorità religiosa. Nella civiltà giuridica
occidentale il peccato non è reato e il reato non viene considerato peccato, perché non si confonde autorità
giuridica con autorità religiosa. La separazione dalla religione dal diritto è stata esito di un processo di
secolarizzazione che ha investito la dimensione individuale e collettiva della vita umana. Se ipotizziamo che
il diritto sia un insieme di regole di organizzazione della convivenza distinguibili da alche che pure investono
la convivenza, diventa necessario distinguere le prime.

Regole naturali e regole giuridiche


Le leggi naturali, si riferiscono a fenomeni che accadono regolarmente. Si può definire una regola da una
regolarità e potrebbe anche esserci un’eccezione a tale regola. Ma ciò sta e rimane nella sfera dell’essere.
Invece le regole giuridiche e morali consistono in un dover essere che si suppone possa essere trasgredito.
La sfera del dover essere è distinta dalla sfera dell’essere. L’una ha a che vedere con un comportamento
umano che deve essere, l’altra con un comportamento umano che è. Ma le due sfere sono collegate: il
comportamento umano che deve essere conforme a una norma può anche essere trasgredito ed è la
sempre possibile trasgressione della norma che collega le due sfere. Le regole giuridiche possono essere
trasgredite.

Regole sociali e regole giuridiche


Come le regole giuridiche, le regole sociali presuppongono una plurisoggettività e vincolano i soggetti. Solo
le regole giuridiche rimandano a regole o principi di rango superiore e per queste vi è la necessità di venire
assistite da un’organizzazione più o meno complessa rivolta ad assicurare che l’esecuzione della sanzione
avvenga nel rispetto di certe procedure.

Capitolo 2 → Da “diritto” a “diritto pubblico”

Dalle norme agli ordinamenti giuridici


Il diritto non si compone solo di regole ma anche di principi ed istituti. Si tratta di specie diverse del genere
norme, che consistono ne prescrive qualcosa e per ciò stesso lo qualificano: individuano un dover essere.
La regola giuridica prevede una situazione o fattispecie astratta, sotto il cui ambito di applicazione un
comportamento (o fattispecie concreta), può ricadere. La fattispecie astratta è l’elemento in cui consiste
propriamente la regola-norma giuridica. Se viene trasgredita da una fattispecie concreta la reazione
giuridica può esplicarsi in vari passaggi e con l’intervento dell’autorità a giudicare se la trasgressione ricorra
o meno, cioè con l’intervento di un giudice. È il giudice a stabilire se un comportamento ricada o meno
sotto al previsione normativa. Nel caso del principio la fattispecie può mancare. I principi costituiscono la
trascrizione di valori avvertiti nella coscienza sociale. Anche i principi sono norme giuridiche che
prescrivono qualcosa e, per farsi valere, si servono quasi sempre di regole che li concretizzano e di istituti
necessari a rendere operativo il loro collegamento con quelle regole. Gli istituti possono considerarsi come
complessi di regole e prassi facenti capo a una nozione accreditata in sede scientifica, oltre che
riconosciuta nella normazione.
Le norme giuridiche non possono attuarsi da sole ma vi è bisogno di un’articolazione di uomini e beni e di
una corrispondente distribuzione di compiti che realizzano un’organizzazione. L’insieme di norme e
l’organizzazione fanno sì che la convivenza di una certa collettività o di un certo gruppo sociale si manifesti
e funzioni in una struttura denominata ordinamento giuridico. Gli elementi di un ordinamento giuridico
consisterebbero nella plurisoggettività, nella normazione e nell’organizzazione.

La pluralità degli ordinamenti giuridici


Un secolo fa la scienza del diritto pubblico dell’Europa continentale riteneva lo Stato come il solo
ordinamento giuridico possibile, unico ente detentore del monopolio dell’uso legale della forza e basato su
tre elementi costitutivi del popolo, del territorio e della sovranità. L’attribuzione allo Stato della sovranità
equivaleva a conferirgli un’illimitata potestà di normazione, ossia un potere esclusivo di disporre delle regole
della convivenza su un determinato territorio. Se, su quel territorio, solo lo Stato disponeva della potestà di
normazione (principio di esclusività), lo stesso valeva per lo Stato che insistesse un altro territorio, con la
conseguenza che le valutazioni giuridiche variavano in ragione dello Stati che le aveva formulate
esercitando la propria potestà di normazione (principio di relatività dei valori giuridici). Con la pace di
Westfalia (1648) si era affermata la regola cuius regio eius religio nella convinzione che al di fuori dei loro
confini territoriali gli Stati fossero indipendenti gli uni dagli altri e pariordinati: alla sovranità statale
corrispondeva l’indipendenza e gli Stati potevano stipulare fra loro trattati e riconoscere reciprocamente la
giuridicità di certi comportamenti (consuetudini) oppure farsi guerra tra loro. Il diritto internazionale si
riduceva a «diritto pubblico esterno».
Hans Kelsen riteneva che la concezione tradizionale della sovranità statale fosse una pretesa ideologica. Si
concentrò sui rapporti tra diritto statuale e diritto internazionale, che non avrebbero mai potuto essere di
coordinazione ma solo di sovraordinazione gerarchica dell’uno rispetto all’altro o viceversa.
Santi Romano partiva dal presupposto che le norme erano soltanto una parte del fenomeno giuridico in
quanto mosse come pedine dall’istituzione ossia dal fatto che un certo ordinamento si fosse stabilizzato a
sufficienza in un’organizzazione sociale. E poiché tale stabilizzazione poteva a suo avviso rinvenirsi non solo
nello Stato ma anche per es. nel diritto inter.le, in quello ecclesiastico, ecc., occorreva scorgere in ognuno
un ordinamento giuridico.
Si può sostenere che gli ordinamenti giuridici si affermano di fatto e spesso al termine di conflitti. Sono
prodotti della storia ma restano strutturazioni precarie. Con il passare del tempo sono nati nuovi
ordinamenti e nei sono scomparsi altri. È venuto, così, difficile isolare e poter individuare la formazione di un
ordinamento dal punto di vista giuridico. La crescita dei processi di differenziazione e tecnicizzazione
infittisce la rete di relazioni dei soggetti emergenti anche sul piano giuridico con gli ordinamenti da tempo
istituiti: risulta sempre più difficile affidarsi ai tradizionali criteri di riconoscimento di un ordinamento
giuridico.
L’ordinamento statale, l’ordinamento sovranazionale dell’UE e l’ordinamento internazionale sono a base
territoriale e ciascuno è provvisto di plurisoggettività, di organizzazione e di normazione proprie. Altri
ordinamenti sono riconosciuti dalla Costituzione come ordinamenti interni della Repubblica che curano
dimensioni della convivenza che non hanno a che vedere col territorio (es. le confessioni religiose) o si
articolano secondo criteri che non si esauriscono in quello territoriale (es. ordinamento sportivo).

Diritto pubblico e diritto privato


Il diritto pubblico disciplina i rapporti fra pubblico potere e soggetti privati. Il diritto privato disciplina i
rapporti fra i soggetti privati per curare interessi propri di costoro.
Un secolo fa il diritto pubblico si identificava nella “forza sovrana” di uno Stato non sottomesso al diritto e
nello stesso tempo esclusivo soggetto produttore del diritto tramite la legge, che nel diritto era considerata
la fonte suprema. Lo Stato attuale è inteso come strumento di convivenza giuridica non più come soggetto
onnipotente. Per questo si può affermare che se il diritto pubblico disciplina i rapporti tra pubblico potere,
riconosciuto come tale dai membri della collettività, e i privati, è per limitare il primo, anche provvisto di
legittimazione democratica. L’idea che chi detenga un potere nei confronti di altri possa abusarne permea le
regole e gli istituti a tutela del contraente debole e accomuna il diritto privato al diritto pubblico al di là del
loro distinto oggetto.

Capitolo 3 → Profili teorici

Normazione
Nella nostra civiltà non è pensabile che le norme di comportamento siano le sole norme giuridiche. Le
norme di comportamento presuppongono non solo la possibilità di una trasgressione ma anche una
sanzione o una reazione giuridica in capo al singolo o all’autorità pubblica che le abbia trasgredite, la quale
richiede di essere prima accertata, poi comminata e infine eseguita, secondo norme che però non regolano
direttamente il comportamento umano.
Accanto alle norme di comportamento (o norme primarie) esistono le norme secondarie che consentono
di riconoscere l’autorità delle norme di comportamento e fanno parte della normazione come elemento
degli ordinamenti.

Autonomia ed eteronomia della produzione normativa


Una società semplice, i cui membri siano legati fra loro da obblighi anche giuridici che ciascuno può
riconoscere come tali, non ha bisogno di norme secondarie. Ai membri di quella società basterà convincersi
che un certo comportamento da tutti loro seguito sia giuridicamente obbligatorio per accettarlo
reciprocamente come tale. Costoro si danno dunque autonomamente le regole necessarie allo loro
convivenza. In questo caso si può parlare di autonomia della produzione normativa. Quando i soggetti
che producono diritto sono distinti da coloro cui è destinato, ed esercitano su di essi un potere autoritativo
si ha eteronimia della produzione normativa. Non è detto che vi sia bisogno di norme secondarie o sulla
normazione. I membri della collettività potrebbero essere totalmente sottomessi ad un’unica autorità senza
discutere le norme che essa adotti in via esclusiva per regolare la convivenza. Neanche allora vi sarà
bisogno di norme secondarie che riconoscano a quell’autorità il potere di adottare norme di
comportamento.
Si parla di ordinamenti statici quando le norme valgono in quanto tali e non derivano la loro validità da
altre. Quando si ha bisogno di norme secondarie si parla di ordinamenti dinamici.

«Common law» e «civil law» (formazione giurisprudenziale – formazione legislativa)


Negli ordinamenti dinamici la validità delle norme primarie, che disciplinano i comportamenti dei soggetti,
dipende da altre, che indicano chi disponga dell’autorità di crearle, ne disciplinano il procedimento,
stabiliscono i modi per accertarne l’eventuale invalidità. Tale dipendenza può presentare un grado molto
diverso di formalizzazione, a seconda delle due grandi «famiglie» della civiltà giuridica occidentale: di
formazione giurisprudenziale (common law) e di formazione legislativa (civil law).
Gli ordinamenti di common law, vigenti nel Regno Unito, negli Stati Uniti d’America e nell’area del
Commonwealth britannico, vengono così denominati perché i giudici, nel risolvere i casi loro sottoposti, vi
applicano il diritto comune o della comunità, quale risulta dalle consuetudini e dai precedenti
giurisprudenziali. La regola del precedente (stare decisis) costituisce un vincolo corrispondente a quello
dell’applicazione di un testo normativo per i giudici dei Paesi di civil law. Che gli ordinamenti di common law
siano di origine giurisprudenziale non vuol dire che non vi siano Costituzioni scritte (tranne nel Regno Unito),
leggi e regolamenti del Governo, e che manchino norme secondarie accanto alle primarie. Vuol dire che il
grado di formalizzazione del modo di funzionamento del diritto e della sua conoscenza è complessivamente
modesto.
Negli ordinamenti di civil law, fra cui quelli degli Stati d’Europa continentale, oggetto dell’interpretazione è
un testo normativo: il giudice deve applicare il testo normativo che preveda la «fattispecie astratta» di cui il
caso è la «fattispecie concreta». Questi ordinamenti sono solitamente provvisti di una normazione e di una
formalizzazione dei processi di produzione normativa sofisticati.

Fonte, disposizione, norma


La distinzione tra norme primarie e secondarie si può tradurre nella distinzione tra fonti di produzione del
diritto e fonti sulla produzione del diritto. Le prime dipendono dalle seconde. Con il termine fonti del
diritto si designano i tipi di atti giuridici qualificati come idonei a produrre norme. Le fonti di produzione
qualificano come fonti di produzione certi atti, dei quali individuano previamente lo schema legale, cioè il
soggetto abilitato a deliberarli e il procedimento attraverso il quale tale deliberazione deve essere adottata,
ed eventualmente i modi per accertare se tale schema è stato rispettato. Le fonti di produzione producono
esse stesse direttamente, diritto.
La distinzione tra fonti sulla produzione e fonti di produzione è di carattere formale e concettuale. È di
carattere formale poiché riguarda soggetto e procedimento di formazione degli atti normativi: la loro forma,
procedura e non il contenuto. È di carattere concettuale poiché una certa fonte può essere nello stesso
tempi fonte sulla produzione e fonte di produzione. La Costituzione è fonte suprema sulla produzione ed è
essa stessa fonte di produzione del diritto. Quando si parla di diritto così prodotto si parla di un testo
redatto in articoli che possono suddividersi in commi: si tratta di nozioni utili a fini comunicativi ma
giuridicamente inerti. Portata giuridica viene ascritta alla disposizione, parte o frammento di testo
riconoscibile per il suo contenuto prescrittivo, e alla norma che costituisce uno dei possibili significati
ricavabili da una disposizione o il significato ricavabile da più disposizioni quando ciascuna di esse non
presenti un significato autosufficiente. La disposizione è una parte del testo ed è inseparabile da esso, la
norma risulta dall’interpretazione delle disposizione, sul presupposto che se ne possa ricavare più di un
significato. Sarà la selezione di quel significato della disposizione che il giudice dovrà applicare nel caso a
lui sottoposto. Le disposizioni sono elementi dell’atto e le norme ne stanno fuori con un proprio significato
che può in varia misura divergere da quello originariamente espresso dalle rispettive disposizioni poiché
esso si determina in funzione dell’ordinamento complessivo.

Validità, efficacia, effettività


Una norma è valida quando viene ritenuta immune da vizi, ovvero quando non sia invalida. I vizi di validità
possono essere formali (o di procedura), e sostanziali (o di contenuto).
Il vizio formale consiste nella difformità dell’atto normativo in ci è contenuta la disposizione dalla quale la
singola norma è desumibile, rispetto allo schema legale e in particolare al procedimento previsto dalla
fonte sulla produzione per l’adozione di quell’atto normativo.
Il vizio sostanziale consiste nella difformità di contenuto di una norma rispetto a un’altra norma, che
funge da parametro di validità della prima. Il riscontro di conformità/difformità è direttamente tra norme.
Le norme valide sono idonee ad essere applicate, attuate, osservate ma può avvenire che norme valide non
siano ancora efficaci perché condizionate dall’adozione di altre norme, come nel caso di norme dal
contenuto generale che richiedano di essere integrate da norme più specifiche. Le norme sulla normazione,
inoltre, possono stabilire che le norme di comportamento, pur invalide, rimangano efficaci e producano
quindi effetti giuridici nei confronti dei soggetti cui si rivolgono.
Il binomio validità/invalidità non necessariamente corrisponde a quello efficacia/inefficacia dal
momento che le norme sulla normazione che governano la validità delle norme di comportamento non
coincidono con quelle che ne governano l’efficacia. Le norme sulla produzione normativa potranno dirsi
valide se il procedimento di formazione e il soggetto che le adotti corrisponda a quanto previsto da altre
norme sulla produzione normativa. Questo processo (regressum ad infinitum) non potrà essere infinito,
quando terminerà le norme sulla normazione riposeranno non più sulla loro validità ma sulla constatazione
della loro effettività che è la condizione per confermare il vigore non solo delle norme sulla normazione cui
risalgono tutti i processi di produzione normativa, ma di quello stesso ordinamento giuridico. L’effettività è
un predicato dell’ordinamento giuridico.

Interpretazione giuridica
L’interpretazione giuridica è un’attività liberamente compiuta da chiunque ricerchi a fini di conoscenza il
significato o i significati dei testi normativi, degli istituti, dei procedimenti, delle sentenze. In senso più
ristretto si può definire come un’attività necessariamente svolta dai giudici al fine di risolvere il caso
attraverso l’applicazione della norma, o del significato della disposizione ad esso applicabile, ogni volta che
tale significato non sia univoco. La scissione concettuale tra disposizione e norma presuppone che il testo
normativo non sia autoevidente ma sia suscettibile di esprimere più significati, dette norme, che
costituiscono altrettante regole applicabili al caso, fra le quali il giudice è tenuto ad operare una scelta. I
giudici sono tenuti a motivare le loro pronunce. La pronuncia si articola in una motivazione e in un
dispositivo che contiene la decisione; la motivazione si articola il un «Ritenuto in fatto» dove vengono
esposti i fatti che emergono dagli atti di causa, e in un «Considerato in diritto» dove il giudice prima di
indicare la norma di cui deve fare applicazione, espone le ragioni che lo inducono a scegliere come
applicabile quella stessa norma.

Plurisoggettività
Accanto alla normazione, un secondo elemento degli ordinamenti giuridici sarà dato dalla plurisoggettività,
giuridicamente qualificata e perciò distinta da quella che ricorre in qualsiasi gruppo sociale. la nostra civiltà
giuridica non ammette differenze tra due esseri umani considerati dal diritto come tali. Nel medioevo gli
individui in quanto tali non erano considerati soggetti di diritto. la titolarità dei diritti era assegnata a
ciascuno a seconda delle condizioni di cui costui poteva disporre, per natura, per il fatto di vivere in un
certo regno o comune, per l’appartenenza ad una determinata corporazione.

Capacità giuridica
Con la Rivoluzione francese l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dichiarava: «Gli
uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondata
che sull’utilità comune» la quale riflette premesse di diritto naturale: «Scopo di ogni associazione politica è
la conservazione dei diritti naturali e imprescindibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la
sicurezza e la resistenza all’oppressione».
Il codice civile italiano del 1942 si apre con l’affermazione che «la capacità giuridica si acquista dal
momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento
della nascita». Il neonato diventa immediatamente soggetto giuridico e in quanto tale titolare di diritti e
doveri. Un’innovazione va trovata nell’art. 2 della Costituzione del 1948: «La Repubblica riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
L’art. 2 non solo rende di per sé illegittime le limitazioni della capacità giuridica per ragioni di razza previste
nel codice del ’42 nei confronti degli ebrei (abolite nel 1944), ma impone al legislatore di riconoscere la
capacità giuridica generale di qualsiasi persona umana senza distinzioni di cittadinanza.
Capacità di agire
Un minore si presume privo della «capacità di intendere e di volere» ecco perché l’art. 2 cod. civ., dopo aver
fissato la maggiore età al compimento del 18° anno, stabilisce che «con la maggiore età si acquista la
capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa». Il «compimento degli atti»
presuppone la «capacità di agire». Per “capacità di agire” si intende l’esercizio dei diritti e la capacità di
essere soggetto passivo degli obblighi, di cui il soggetto era titolare fin dalla nascita e che può esercitare al
compimento della maggiore età. La capacità di agire è esclusa per gli interdetti giudiziali in ragione
dell’abituale infermità mentale, e per gli interdetti legali, cioè per quanti siano condannati per delitto non
colposo alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni. In questi casi, il titolare del diritto privo della
possibilità di poterlo esercitare, può tuttavia farlo indirettamente per il tramite di un rappresentante
volontario o legale.

Altri soggetti di diritto


Fra i soggetti di diritto non si annoverano soltanto le persone fisiche ma anche altri soggetti. Si tratta
anzitutto delle associazioni non riconosciute e dei comitati, quando non siano riconosciuti, cui è
attribuita capacità giuridica generale ma con un grado ristretto di autonomia patrimoniale. Sono soggetti di
diritto le persone giuridiche, create per legge se si tratti di persone giuridiche pubbliche, o riconosciute
dall’autorità pubblica se si tratti di persone private. Oltre a disporre della capacità giuridica generale, le
persone giuridiche possono assumere tutti i diritti e gli obblighi di una persona fisica tranne quelli, come il
matrimonio, che presuppongono la condizione fisica del soggetto di diritto.

Situazioni giuridiche soggettive


La capacità giuridica consente al soggetto giuridico di esercitare anche situazioni giuridiche soggettive
che possono essere più o meno vantaggiose. Fra le situazioni giuridiche di vantaggio si annoverano il diritto
soggettivo il potere giuridico e l’interesse legittimo. Fra le situazioni giuridiche di svantaggio l’obbligo,
l’onere, il dovere e la soggezione.
Per diritto soggettivo, situazione di vantaggio per eccellenza, si intende solitamente il godimento di un
determinato bene della vita garantito dalle norme di un certo ordinamento, ossia dal diritto oggettivo.
L’importanza del diritto soggettivo rispetto alle altre situazioni soggettive di vantaggio è dimostrata dalle
numerose classificazioni interne alla nozione.
La prima classificazione è tipica del diritto privato. Si dicono assoluti i diritti che possono essere fatti valere
erga omnes, ossia nei confronti di tutti. I diritti assoluti si distinguono in diritti reali e personali, come il diritto
al nome, alla vita, all’immagine, alla riservatezza. Si dicono relativi i diritti soggettivi che possono essere
fatti valere in giudizio nei confronti di soggetti determinanti, i quali si trovano nei confronti dei titolari dei
diritti soggettivi relativi in una situazione di obbligo.
I diritti soggettivi si considerano fondamentali o non fondamentali a seconda che siano espressamente
riconosciuti o desumibili in via interpretativa dalla Costituzione o soltanto dalla legge. Per potere giuridico
si intende la situazione giuridica soggettiva che consiste nella possibilità, attribuita ad un soggetto da
norme di un certo ordinamento, di produrre certi effetti giuridici, ossia di costruire, modificare o estinguere
un rapporto giuridico. Come il diritto soggettivo anche il potere giuridico ha ad oggetto beni della vita ma
non consiste, come il primo, nel godimento garantito di tali beni, bensì alla possibilità di mutarne la
condizione giuridica. In tal caso, le norme attribuiscono al soggetto il potere di produrre certi effetti giuridici
attraverso suoi atti di volontà. Per quanto riguarda gli atti di diritto privato, la produzione di tali effetti può
dipendere dalla convergente volontà di due soggetti nel caso di atti bilaterali o di un soggetto nel caso di
atti unilaterali, che si impongono ai destinatari senza che rilevi il loro consenso. Per quanto riguarda gli atti
di diritto pubblico, la produzione di tali effetti dipende invece sempre dalla volontà di uno solo dei soggetti
del rapporto. La situazione giuridica di vantaggio definita interesse legittimo ricorre solo nel diritto
pubblico italiano.
Per obbligo si intende la situazione giuridica soggettiva di svantaggio in cui si trova chi sia chiamato ad
adempiere con un proprio comportamento alla legittima pretesa sorta nell’ambito di un determinato
rapporto giuridico. La natura dell’obbligo si comprende meglio se confrontata con la situazione giuridica
soggettiva di svantaggio detta dovere. Il dovere consiste in un comportamento giuridicamente prescritto
ma a differenza dell’obbligo non sorge nell’ambito di uno specifico rapporto giuridico, non deriva da una
specifica pretesa di un altro soggetto, e non è imputabile a un solo soggetto.
Per soggezione si intende la situazione giuridica soggettiva di svantaggio di chi debba subire gli effetti
negativi dell’esercizio di un potere giuridico altrui senza dover per ciò assolvere a un determinato obbligo.
Per onere si intende la situazione giuridica soggettiva di svantaggio che consiste nell’obbligo del soggetto
di tenere un certo comportamento al fine di conseguire un proprio interesse. Il soggetto che non lo tiene
non è assoggettato ad alcun obbligo, ma non consegue quell’interesse.
Fatti giuridici
I fatti giuridici si distinguono in naturali e umani. Gli atti giuridici, in quanto fatti che vengono in rilievo per il
diritto in forza della volontà umana, possono invece essere soltanto umani.
Tra i fatti giuridici naturali si annoverano eventi come: la nascita di una persona fisica; la morte, cui
consegue l’effetto giuridico dell’apertura della successione dei beni; l’isola o l’unione di terra che si formi
nel letto di fiumi o torrenti con l’effetto giuridico di appartenere al demanio pubblico; un terremoto con
quantità imprevedibile di effetti giuridici; il tempo.
Il tempo può venire in considerazione sia come momento singolo del suo decorso sia nella sua durata per
un certo periodo, la quale diventa un fatto che determina l’innovazione di una situazione giuridica
preesistente. Questa innovazione può a sua volta consistere nell’acquisto di un diritto (caso
dell’usucapione, per es.) o nella perdita di un diritto o potere, qualora non sia stato esercitato per un
determinato periodo di tempo, in tal caso si ha rispettivamente prescrizione del diritto e decadenza del
potere. Mentre i termini di decorrenza della prescrizione possono essere sospesi o interrotti, ciò non vale
per la decadenza.
I fatti giuridici umani risultano dall’attività di un soggetto cui una norma attribuisca certi effetti giuridici,
senza attribuire rilievo al potere di compierla.

Atti giuridici
Gli atti giuridici vengono distinti dai fatti giuridici umani in quanto una norma abiliti un soggetto ad
esercitare il potere di compiere tali atti, quali produttivi di certi effetti giuridici. Per accertare se un fatto
umano debba essere considerato come un fatto/atto giuridico conta la norma che attribuisca al soggetto
il potere di produrre effetti giuridici tramite il compimento di quell’atto. Si considerano atti giuridici: il
contratto, la donazione, il testamento, la sentenza, il provvedimento amministrativo, la legge, ecc.

Utilità della distinzione tra fatti e atti giuridici


La distinzione tra fatti giuridici e atti giuridici è il risultato di processi di conoscenza scientifica svoltasi
nell’arco degli ultimi due secoli in una certa area della civiltà giuridica occidentale, quella dell’Europa
continentale. Un secolo fa la legge non era considerata un atto giuridico ma manifestazione della volontà di
un soggetto reputato onnipotente, il “legislatore”. Annoverare la legge tra gli atti giuridici significò farla
scendere dal piedistallo dell’onnipotenza, nella misura in cui ogni atto giuridico, essendo qualificato come
tale da una norma giuridica al fine di poter produrre determinati effetti, è bensì un atto, dunque un fatto
compiuto nell’esercizio di un potere, ma limitato dal diritto. Un limite che consiste non solo nell’attribuire
all’atto un effetto giuridico ma nell’attribuirlo all’atto in quanto il soggetto che lo compie sia titolare del
potere di compierlo: un potere giuridico, e perciò limitato. I fatti giuridici rilevando per l’ordinamento in
quanto produttivi di effetti giuridici, e non anche in quanto tali effetti derivino dall’esercizio di un potere, non
possono dirsi affetti da vizi.

Vizi degli atti giuridici


Gli atti giuridici possono risultare affetti da diversi tipi di vizi.
Un primo vizio attiene all’illiceità dell’atto, con la conseguente distinzione fra atti leciti e illeciti. Gli atti
illeciti presuppongono una valutazione negativa da parte dell’ordinamento in ordine al prodursi di quel
determinato atto, basata sul danno che ne può derivare per interessi privati, per la collettività o per la P.A. ,
di fronte al quale lo stesso ordinamento reagisce attraverso una sanzione. Nell’illecito civile la norma che
stabilisce la corrispondente sanzione è posta a tutela del singolo individuo danneggiato dall’illecito, che può
essere contrattuale, discendere cioè da un’obbligazione preesistente o extracontrattuale. In presenza di un
illecito penale (o reato) la norma protegge non un singolo individuo ma l’intera collettività. La condotta
offensiva è qualificata come reato e la sanzione è una pena. L’illecito amministrativo consiste in un
comportamento che trasgredisce un obbligo nei confronti della pubblica amministrazione e che di solito è
punito con una contravvenzione.
Un secondo tipo di vizio attiene all’invalidità dell’atto, con la conseguente distinzione fra atti validi e
invalidi. Gli atti invalidi presuppongono una valutazione negativa da parte dell’ordinamento in ordine al loro
prodursi; in questo caso ciò che conta è la difformità dell’atto in quanto tale dallo schema legale tipico, per
inosservanza dei requisiti formali o sostanziali che vi vengano previsti. Ciò vale per tutti gli atti giuridici di cui
gli atti normativi sono una specie. La difformità può essere talmente grave da viziare irrimediabilmente l’atto
giuridico e tradursi in nullità. La nullità, che a seconda del tipo di atto giuridico si può considerare o meno
equivalente a inesistenza dell’atto, può essere accertata con sentenza dichiarativa dal giudice. La difformità
dell’atto dalle prescrizioni legislative può essere considerata meno grave della nullità e può allora formare
oggetto di annullamento o di disapplicazione. A differenza della nullità, l’annullabilità non impedisce
all’atto di dispiegare i suoi effetti fino a quando non venga annullato da un giudice, con sentenza costitutiva.
Tale sentenza non dichiara una nullità preesistente la costituisce una situazione nuova, consistente
nell’eliminazione ex tunc, cioè dal momento in cui fu adottato, degli effetti dell’atto illegittimo. Fino a quando
non sia annullato, l’atto giuridico rimane però efficace.

Atti di diritto privato e atti di diritto pubblico


Gli atti di diritto privato sono espressione di autonomia dei privati: tramite essi i privati regolano da sé i
propri rapporti, con una libertà che sul piano della forma e del contenuto è limitata soltanto da esigenze
della collettività ritenute preminenti in sede normativa.
Gli atti di diritto pubblico sono espressione del pubblico potere che le norme vincolano completamente sul
piano della forma e del procedimento previsto per la loro adozione, e sul piano del contenuto con intensità
variabile a seconda del tipo di atto, ma comunque maggiore di quella degli atti di diritto privato. A differenza
degli atti di diritto privato, gli atti di diritto pubblico sono sempre unilaterali: gli atti di diritto pubblico non
potrebbero risultare da una convergenza di volontà del potere pubblico con il privato. Nella nostra civiltà
giuridica l’unilateralità degli atti di diritto pubblico muove dalla presunzione che essi siano finalizzati all’utilità
generale che però non basta mai a giustificarli, proprio in ragione del potere di cui sono espressione.

Atti di diritto pubblico: prime distinzioni


Il carattere unilaterale e la finalità estroversa accomunano gli atti dei pubblici poteri consentendo di
distinguerli dagli atti di diritto privato. La legge si differenzia dal provvedimento amministrativo e dalla
sentenza per il fatto di essere adottata da un organo come il Parlamento che è eletto dai cittadini. Essa è
quindi provvista di una legittimazione democratica di cui gli altri atti giuridici indicati sono privi. Ne
discendono 3 caratteristiche importanti:
1. In primo luogo il procedimento legislativo è avviato liberamente dai titolari dell’iniziativa legislativa,
secondo valutazioni di opportunità politica rimesse a costoro;
2. In secondo luogo il progetto di legge può essere ritirato in ogni momento dai loro presentatori;
3. In terzo luogo le leggi non debbono essere motivate.
Il provvedimento amministrativo e la sentenza sono accomunati in negativo dall’essere adottati da organi
privi di legittimazione democratica e differiscono fra loro in ragione dei caratteri ascritti all’organo
competente ad adottarli e della loro collocazione nell’ordinamento.
Il provvedimento amministrativo è un atto giuridico adottato da una pubblica amministrazione al termine di
un procedimento. L’amministrazione può avviare d’ufficio il procedimento e, in vista del perseguimento
dell’interesse pubblico di cui è attributaria, può stabilire, prima di adottare il relativo provvedimento, di non
dare ulteriore corso al procedimento. I provvedimento amministrativi devono essere motivati.
La sentenza è un atto giuridico adottato da un giudice a conclusione di un giudizio. Il giudice non è
chiamato a perseguire un pubblico interesse, ma a definire controversie, in condizioni di autonomia e
indipendenza da ogni altro potere e di esclusiva soggezione alla legge oltre che terzietà rispetto agli
interessi delle parti. Il processo non è mai attivabile liberamente dal giudice ma solo su impulso di altri
soggetti in conformità al principio della domanda. Il giudice non può rinunciare al giudizio e deve indicare le
ragioni della decisione con apposita motivazione.
La legge esprime un potere inesauribile, nel senso che il suo esercizio non è subordinato da
un’autorizzazione; mentre il provvedimento è subordinato al principio di legalità.
Le leggi possono essere impugnati davanti a un giudice specializzato, la Corte costituzionale, la quale
definisce il proprio giudizio con sentenza non suscettibile di ulteriore impugnazione. Le sentenze dei giudici
comuni di primo grado sono suscettibili di essere impugnate in appello (in quello finale si ha la formazione
del giudicato). I provvedimenti amministrativi sono impugnabili avanti i giudici amministrativi, le cui
decisioni, quando non siano più suscettibili di impugnazione, acquistano anch’esse la forza di cosa
giudicata. Dal punto di vista del loro trattamento giuridico tutti e tre gli atti in questione sono suscettibili di
sindacato giurisdizionale.

Organizzazione
I soggetti diversi dalle persone fisiche possono venire qualificati con legge soggetti giuridici per raggiungere
obiettivi che i singoli non potrebbero raggiungere. Fra questi obiettivi, alcuni richiedono un’articolazione
stabile di uomini e beni e una distribuzione di compiti, ossia un’organizzazione pubblica o privata.
Un’organizzazione presuppone la plurisoggettività e richiede che sia articolata in vista di uno o più obiettivi
di convivenza. Va considerata come strumento per raggiungere tali obiettivi.
L’invenzione dello Stato quale soggetto
La qualificazione dello Stato come persona giuridica non è qualcosa di necessario dal punto di vista
giuridico ma dipende da circostanze storiche. In Europa continentale il problema dell’attribuzione allo Stato
di una propria soggettività si pose all’epoca dell’assolutismo, per superare un’accezione patrimoniale-
privatistica del pubblico potere, in cui il patrimonio pubblico apparteneva allo stesso tempi alla persona
fisica del sovrano, e giungere a un’accezione politico-pubblicistica di tale potere, in cui il patrimonio e le
azioni del sovrano quale espressione dello Stato sono distinte dal suo patrimonio e dalle sue azioni in
quanto individuo. Questa impersonalità si realizza attraverso norme, le quali provvedono ad imputare allo
Stato la responsabilità degli atti compiuti dal sovrano solo in quanto pubblico potere, e non anche in quanto
persona fisica. La costruzione dello Stato come soggetto poneva le premesse per considerarlo persona
giuridica.

L’invenzione dell’organo
L’invenzione del concetto di organo «fu una conquista civile: rese possibile perfezionare la tutela delle
libertà e dei diritti dei cittadini nei confronti dei pubblici poteri, rese possibile assegnare sedi appropriate alle
varie istanze esistenti in un corpo sociale dando presenze giuridiche definite ad interessi pubblici o collettivi
eterogenei e sovente in conflitto virtuale o reale, rese possibili normative procedimentali per regolare fatti di
vita associativa i quali per l’innalzarsi si svolgevano affidati alla dominanza di pressioni solo economiche o
partitiche».

L’organizzazione amministrativa
Dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa, si distingue tra gli uffici, le unità in cui
l’organizzazione statale si articola, e gli uffici detti organi, in grado di imputare allo Stato l’attività e gli effetti
dell’attività esterna che avessero compiuto. Quando le norme sull’organizzazione prevedono che l’attività di
un ufficio possa produrre effetti giuridici, allora l’ufficio agirà come organo della persona giuridica, con la
conseguenza che tanto l’attività quanto gli effetti dell’attività dell’ufficio saranno direttamente imputati alla
persona giuridica. L’insieme dei compiti e dei poteri giuridici attribuiti a un ente si chiama attribuzione
dell’ente, mentre i singoli compiti e poteri giuridici attribuiti a ciascuno degli organi dell’ente sono detti
competenze, corrispondenti alle parti di attribuzione ad esso affidate.

L’organizzazione costituzionale
Dal punto di vista dell’organizzazione costituzionale, con l’avvento dello Stato liberale il vertice
dell’organizzazione statuale comincia ad articolarsi in poteri diversi dell’esecutivo, che è ancora capeggiato
dal monarca: il potere legislativo, che trae la propria legittimazione dal rappresentare gli elettori, e il potere
giurisdizionale che trae dalla funzione di garantire i diritti dei cittadini nei confronti dei titolari del potere
politico. Tali poteri corrispondono ad altrettanti organi costituzionali.

Capitolo 4 → Profili storici

L’organizzazione costituzionale: classificazioni elementari


L’organizzazione costituzionale dello Stato ha conosciuto in Europa continentale un’evoluzione lunga e
complessa tanto che in essa si avvicendano diverse forme di Stato. Gli Stati debbono disporre di
un’organizzazione: una distinzione dei compiti e funzioni tra vari uffici, la quale riflette un’esigenza di
efficienza attraverso la divisione del lavoro. Tale organizzazione non comporta necessariamente una
separazione del pubblico potere quale si afferma in Europa e negli Stati Uniti fra il 18° e il 19° sec.: che può
realizzarsi in senso orizzontale con la divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giurisdizionale, o in senso
verticale con l’articolazione fra più enti territoriali del potere. Le finalità che si intendono raggiungere sono
sempre esterne agli apparati dello Stato centrale. Poiché le modalità di separazione del potere possono
variare, se ne possono avere diverse classificazioni: le forme di governo (monarchia costituzionale,
parlamentare, presidenziale, ecc) e i tipi di Stato (accentrato, federale, regionale).

Dall’assolutismo al costituzionalismo
Dalla fine del 18° sec. con le Rivoluzioni americana e francese, il fondamento del pubblico potere comincia
a venir discusso politicamente, e il suo esercizio comincia a dover essere giustificato alla stregua di regole
che lo istituiscono e lo organizzano. Si pongono allora due grandi questioni del costituzionalismo. Discutere
il fondamento del pubblico potere significa porre la questione dell’attribuzione della titolarità del potere
al popolo anziché al monarca: la questione della democrazia. Esigere che l’esercizio del potere sia
sottoposto a certe regole equivale a richiedere un potere esercitato in modo non arbitrario,
indipendentemente da chi ne sia il titolare: la questione della libertà. Fino ad allora la democrazia era stata
intesa o come partecipazione diretta del popolo alle decisioni che lo riguardavano o come sistema di
selezione dei governanti basato sul sorteggio (in uso nelle città-Stato greche e nei comuni italiani del
Medioevo).
A consentire che la democrazia, come sistema di selezione dei rappresentanti fondata sull’elezione,
funzionasse su scala molto più ampia degli Stati, fu l’invenzione della rappresentanza politica.
Quest’ultima si caratterizzò per il divieto posto agli elettori di revocare in corso di mandato i membri del
Parlamento da loro designati, proprio in quanto rappresentanti dell’intera nazione. Tale rappresentanza
politica resterà l’istituto fondamentale per il funzionamento del principio democratico anche per le
Costituzioni contemporanee.
La seconda questione, relativa all’esigenza che il potere non fosse esercitato arbitrariamente al fine di
garantire la libertà, fu affrontata muovendo dal principio di separazione dei poteri. Tale principio richiede
l’articolazione del potere sovrano dello Stato in quelle che allora si ritenevano essere le sue tra funzioni
fondamentali: legislativa, esecutiva e giurisdizionale. Dal principio di separazione dei poteri discenderanno
quelli di legalità degli atti dei pubblici poteri e di indipendenza del potere giudiziario dagli altri.

Il costituzionalismo in Francia e in Inghilterra


La teoria di Montesquieu (divisione dei poteri) incontrò un grande successo ma i Costituenti francesi e di
altri Paesi europei la accettarono con molte limitazioni. Il potere assoluto in quei Paesi era identificato nella
sovranità regia. Caduto l’Impero napoleonico, la Francia tornò alla monarchia (1815), una monarchia
costituzionale: forma di governo tipica dello Stato liberale in Europa, dove il potere di direzione politica è
ripartito fra due soggetti istituzionali, la Corona composta dal Monarca e dal suo esecutivo, e il Parlamento,
organo legislativo.
Nell’Inghilterra del 17° secolo il bersaglio della Rivoluzione non fu la monarchia ma la dinastia Stuart che
tentò di introdurre l’assolutismo nonostante il potere regio fosse già circondato da limiti giuridici a partire
dalla Magna Carta, nonché la natura rappresentativa di un ramo del Parlamento, la Camera dei Comuni.
Dopo la Rivoluzione la Corona venne confermato come l’istituto principe della tradizione nazionale e
distinto dai suoi titolari e dai loro comportamenti e vicende personali con l’Act of Settlement (1701) che
insieme al Bill of Rights faceva del Parlamento una delle due istituzioni detentrici del potere politico insieme
alla Corona. Anche qui venne instaurata una monarchia costituzionale ma tramite convenzioni
costituzionali. Il principio di irresponsabilità regia stabiliva che la violazione della legge non si poteva
reputare atto del Re con la conseguente necessità di trasferire sui Ministri la piena responsabilità per gli atti
da questo sottoscritti. Una volta affermato tale principio, l’istituto della controfirma consente di imputare
al Ministro controfirmante la responsabilità di legale di tale atto. Fra le convenzioni costituzionali più
significative vi è poi la sottrazione al sindacato dei giudici delle opinioni espresse e degli atti dai
parlamentari all’interno delle Camere, sottrazione che consente a costoro di esercitare liberamente la loro
funzione di rappresentanti. In forza di ciò il Parlamento comincia ad acquisire le prerogative che consentono
il libero esercizio della funzione legislativa. Si afferma da allora il principio di sovranità parlamentare. A
sancire il passaggio dalla monarchia costituzionale al modello parlamentare furono le convenzioni
costituzionali. Il Governo diventò un organo distinto presieduto da un Primo Ministro nominato dal Re, ma
responsabile per i suoi atti davanti alla Camera dei Comuni, che allo scopo gli conferiva e poteva revocargli
a maggioranza dei suoi membri la fiducia, necessaria per la permanenza in carica del Governo stesso: e la
fiducia che il Governo deve costantemente ottenere dal Parlamento per restare in carica costituisce
l’istituto distintivo della forma di governo parlamentare. La riforma elettorale nel 1832 ridisegna i collegi
elettorali in modo da determinare maggiore corrispondenza con la popolazione residente; la competizione
elettorale si politicizza per via dell’organizzazione dei partiti che si contrappongono gli uni agli altri sulla
base di programmi politici. Il Re perde ogni potere di nomina del Primo Ministro che passa al leader del
partito di maggioranza dei Comuni. La controfirma non serve più a scagionare il Re ma equivale
all’assunzione di responsabilità politica collegiale del Governo, che priva il monarca del diritto di agire senza
il consenso del Governo stesso. Lo scioglimento della Camera dei Comuni, che resta attribuito al Re,
diventa uno strumento del Primo Ministro che decide la data dello scioglimento in base a una valutazione
del momento elettorale più favorevole per il suo partito.

Princìpi e strutture dello Stato liberale


A differenza dell’assolutismo, nello Stato liberale l’eguaglianza fra soggetti non si riferisce al considerare
tutti gli individui destinatari di precetti giuridici. Si riferisce soprattutto alla idoneità di costoro a divenire
titolari di diritti: cittadino dello Stato liberale è chi, nato da cittadini di quello Stato (iure sanguinis) o sul suo
territorio (iure soli), acquisisce per ciò stesso capacità giuridica, ossia l’astratta idoneità a divenire titolare di
diritti e obblighi stabiliti dalla legge. Soprattutto sul continente europeo, lo Stato liberale si costruisce
interamente su nozioni artificiali e astratte: lo Stato stesso, la cittadinanza, la legge, la rappresentanza
politica. La capacità giuridica-cittadinanza è nozione astratta in duplice senso. Trascende le appartenenze
personali del vecchio ordine medievale, dove gli individui venivano pensati solo in quanto membri di
corporazioni o famiglie o ceti, ma anche i diritti e gli obblighi di ciascuno. La legge è un atto eteronomo di
produzione normativa nella misura in cui i suoi autori, i membri del Parlamento, non coincidono con i suoi
destinatari, i cittadini. Se aggiungiamo che pesanti limitazioni escludevano gran parte dei cittadini dal diritto
al voto ci rendiamo conto che, per tanti esclusi, la distanza dal potere era massima. Lo stato liberale viene
definito oligarchico perché la borghesia è la sola classe rappresentata in Parlamento. Alla legge si
ascrivevano i contenuti di generalità e astrattezza. La legge è definita generale in quanto vincola tutti i
cittadini, disponendo per il suo contenuto precettivo nei loro confronti; ed è definita astratta perché il
precetto legislativo è ripetibile nel tempo. Tali contenuti sono ascritti alla legge quale opera del Parlamento e
finirono con l’incidere anche sull’amministrazione, sovraordinata ai cittadini in quanto espressiva della
«forza dello Stato» per eccellenza. L’amministrazione durante la monarchia costituzionale venne ripartita in
diversi settori a seconda del tipo di interesse che occorreva, a capo di ciascuno dei quali venne posto un
soggetto che rispondeva al monarca per la gestione del settore, il Ministro. L’insieme dei Ministri formava
un organo collegiale presieduto dal monarca, in cui emerse la figura del Primo Ministro, che al monarca
rispondeva per la gestione di tutta l’amministrazione. Nella monarchia costituzionale il potere regio non era
più assoluto ma limitato dal potere del Parlamento. In Paesi come Italia e Germania la monarchia
costituzionale portò allo scontro tra sovrani e parlamenti che fu anche scontro sui caratteri
dell’amministrazione che per il sovrano era espressione del potere originario del “suo” governo, mentre per
il Parlamento era un apparato preposto all’esecuzione della legge. Ne scaturirono due versioni del principio
di legalità. Nel primo caso consisteva nel richiedere che i provvedimenti amministrativi si fondassero su
una legge che conferisse all’amministrazione il potere di adottarli senza richiederne un contenuto conforme
alla legge (legalità in senso formale). Nel secondo caso, consisteva nel richiedere che i provvedimenti
amministrativi fossero conformi alla legge anche dal punto di vista contenutistico (legalità in senso
sostanziale). Il punto di partenza era che, in quanto dotata di poteri imperativi, l’amministrazione potesse
abusarne, violando la legalità e si rese quindi necessaria l’istituzione del giudice amministrativo, al quale il
cittadino poteva ricorrere avverso gli atti lesivi delle sue situazioni soggettive garantite dalla legge e
ripristinare la legalità. Questo perché sul continente europeo si riteneva che la legge fosse il fondamento
ultimo dei diritti dei cittadini. Dopo la Rivoluzione francese i giudici vennero chiamati ad applicare la legge
senza interpretare e tanto meno disapplicare per contrasto con la Costituzione. Così si passò al giudice-
funzionario che svolgeva le sue funzioni sottomettendosi alla volontà del Parlamento.
Uno Stato di diritto è tale non solo quando vi viene affermato il principio di legalità e taluni diritti di libertà
sono riconosciuti in Costituzione, ma soprattutto quando è assicurata l’indipendenza del potere
giurisdizionale dagli altri poteri, poiché in caso contrario i diritti di libertà nei confronti dei titolari del potere
politico non potrebbero dirsi effettivamente garantiti. Sotto tale profilo il modello di Stato liberale radicato in
Europa continentale non corrisponderebbe ai requisiti di uno Stato di diritto.

Lo spartiacque del suffragio universale


Fra la seconda metà del XIX sec. e il primo ventennio del secolo successivo, tutti gli Stati liberali europei
adottarono il suffragio universale maschile e riconobbero almeno di fatto la libertà di associazione, dunque
di formare partiti politici, indispensabili per l’esercizio del voto in democrazia. L’innesto del suffragio
universale nello Stato liberale trasformò la democrazia da semplice ideologia in un sistema istituzionale. In
molti casi, più che una conquista della civiltà liberale, il suffragio universale parve una scelta necessaria, di
cui i parlamenti potevano decidere solo i tempi; e la stessa decisione sui tempi fu dettata da calcoli politici
contingenti anziché da valutazioni di tipo strategico sulle conseguenze che il suffragio universale avrebbe
avuto sulle forme di convivenza. Il suffragio universale introdusse per la prima volta nella storia la
«dimensione orizzontale della partecipazione di massa» e senza che nessuno potesse più proporre di
tornare al sistema del voto ristretto. Il popolo veniva posto al centro della sfera pubblica ma la sua centralità
non vuol dire democrazia ma piuttosto manipolazione.

Lo Statuto albertino e l’evoluzione della forma di governo italiana (1861-1900)


I caratteri dello Stato liberale e della monarchia costituzionale, in Italia si intrecciavano con l’unificazione del
paese. Nel 1848 i sovrani degli Stati italiani preunitari, ancora retti da regimi assolutistici, furono costretti a
concedere Statuti, definiti Chartes octroyées, ispirati alle Costituzioni francesi. Salvo lo Statuto concesso da
Carlo Alberto di Savoia (Statuto Albertino), essi restarono in vigore solo per il tempo necessario ai sovrani
per restaurare l’assolutismo con la forza. Nel Preambolo, lo Statuto veniva definito “Legge Fondamentale,
perpetua e irrevocabile della Monarchia”. Da una parte, in quanto legge irrevocabile faceva ritenere che
nessuna modificazione poteva essere introdotta, dall’altra non prevedeva un procedimento di revisione il
che lo faceva rientrare fra le costituzioni flessibili. L’irrevocabilità significava che il Re si impegnava a non
revocarla mai più, la flessibilità si riferiva alla possibilità del Parlamento di modificarla. Perpetua e
irrevocabile doveva definirsi la rinuncia al potere assoluto, non le singole disposizioni statuarie che non
prevedendo uno speciale procedimento per la loro revisione potevano mutarsi e furono mutate con legge
ordinaria. Ben presto lo Statuto fu definito “elastico”, con ciò si intendeva dire che le sue enunciazioni si
prestavano a una pluralità di interpretazioni e di comportamenti costituzionali anche opposti tra loro. Molte
enunciazioni dello Statuto albertino erano così generiche o laconiche da favorire interpretazioni volte ad
avallare il passaggio dal regime liberale al regime fascista, e da far sopravvivere lo Statuto per un secolo
(fino al 1 gennaio 1948).
Per lo Statuto la figura centrale di tutti e tre i poteri dello Stato era quella del Re. Il Re esercitava il
potere legislativo con le due Camere, Senato e Camera dei deputati, attraverso la sanzione oltre che la
promulgazione delle leggi: la sanzione consisteva nell’approvazione di ogni legge già deliberata dal
Parlamento, mentre la promulgazione era la certificazione dell’avvenuta approvazione della legge secondo
il procedimento prescritto dallo Statuto, affidata al Capo dello Stato. Il monarca poteva incidere anche sui
poteri della Camere, oltre che con la loro convocazione annuale, con la proroga delle loro sessioni e con lo
scioglimento della Camera dei Deputati e la nomina dei membri del Senato.
Il Re era poi titolare esclusivo del potere esecutivo e quindi della nomina e della revoca dei suoi Ministri. Le
leggi e gli atti del Governo non avevano valore se non muniti della firma di un Ministro. Il Re era
comandante delle forze armate e titolare supremo dei poteri sulla politica estera e della difesa, del potere di
nomina di tutte le cariche dello Stato e del potere regolamentare. La giustizia era amministrata in suo nome
dai Giudici. Per quanto concerne la forma di governo lo Statuto prefigurava una monarchia costituzionale
sbilanciata dalla parte del monarca e del suo esecutivo. Per opporsi al Governo, la Camera aveva l’arma
dell’approvazione dei bilanci, dei di sfiducia, delle ispezioni e delle interpellanze. Lo Statuto si rivelò elastico
in riferimento alla forma di governo. Ben presto si creò un circuito fiduciario fra la Camera dei deputati e il
Governo, organo nemmeno contemplato dallo Statuto. L’art. di un regio decreto proposto da Depretis nel
1876 prevedeva che il Presidente del Consiglio rappresenta il Gabinetto, mantiene l’uniformità nell’indirizzo
politico e amministrativo di tutti i Ministri e cura l’adempimento degli impegni presi dal Governo nel discorso
della Corona, nelle sue relazioni con Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese. Con Depretis prese
l’avvio il trasformismo, la formazione di coalizioni parlamentari tra gruppo o correnti espressione di partiti
opposti, che avrebbe caratterizzato a lungo la storia italiana. Crispi utilizzò invece il Monarca per asautorare
il potere legislativo del Parlamento ricorrendo a regi decreti con cui fu varata tutta la politica economica e
finanziaria, nonché con frequenti chiusure delle sessioni della Camera e del Senato, ordinate dal Re.
L’instabilità politica della Camera forniva a Crispi il pretesto per giustificare questi atti, e proporsi quale
organo al di sopra delle parti e interprete diretto dell’interesse nazionale tramite la Monarchia. Il Re Umberto
I cominciò a nominare Primi Ministri contrapposti alla Camera. Questa prova di forza veniva avviata in un
clima sociale estremamente turbolento per via del carovita che colpiva gran parte della popolazione. Per
giunta vennero approvate leggi che limitavano la libertà di stampa con la censura preventiva e vietavano
associazioni e riunioni ritenute sovversive dell’ordine pubblico, che colpirono anarchici e socialisti. Le libertà
assicurate dallo Statuto erano compromesse.

Le libertà in uno Stato liberal-autoritario e la nascita della giustizia amministrativa


Lo Statuto prevedeva anzitutto l’’eguaglianza di tutti i regnicoli davanti alla legge «qualunque sia il loro titolo
o grado», nonché l’eguale godimento dei «diritti civili e politici» e il pari accesso alle cariche civili e militari.
La formula con cui l’uguaglianza veniva riconosciuta si riferiva alla pari soggezione di tutti alla legge,
indipendentemente da titoli e cariche ricoperte. L’eguaglianza nel godimento dei diritti civili e politici era
riconosciuta distintamente; solo che veniva subito limitata dall’attribuzione alla legge del potere di
prevedere eccezioni a tale eguale godimento. In questa maniera, la legge poteva restringere il diritto di voto
ai contribuenti maggiori, ai cittadini più ricchi, al punto che fino al 1882 solo il 2% della popolazione aveva
accesso al voto. Il suffragio restava riservato a una modesta quota di popolazione. L’attribuzione alla legge
del potere di fissare eccezioni al pari godimento dei diritti civili e politici corrisponde all’istituto della Riserva
di legge vale a dire l’attribuzione prevista in Costituzione al Parlamento, ossia un organo rappresentativo
degli elettori, del potere di disciplinare certe materie. Le riserve di legge potevano essere superate con la
legge, dal momento che lo Statuto poteva essere modificato con la procedura di approvazione delle leggi
ordinarie. L’istituto mirava a garantire diritti individuali nei confronti del potere esecutivo. I diritti
consistevano nella proprietà privata e in alcuni diritti di libertà individuali: libertà personale, di domicilio, ecc.
Assai meno garantistiche erano le disposizioni sulla libertà di stampa e riunione. Lo Statuto non
riconosceva la libertà di associazione.
Che lo Stato italiano si debba considerare uno Stato liberal-autoritario è dimostrato dal quadro assai
carente delle garanzie giurisdizionali dei diritti dei cittadini nei confronti degli atti dei pubblici poteri .
In Italia si risentiva del modello del giudice funzionario delle Costituzioni rivoluzionarie francesi alla fine del
18° sec.: un giudice nominato dal Governo, e chiamato ad applicare la legge senza poterla interpretare
autonomamente. La riserva di legge sull’organizzazione giudiziaria assicurava in parte l’indipendenza della
magistratura: la legislazione prevedeva che gli accessi e le progressioni di carriera dei giudici si basassero
su requisiti e prove concorsuali solo per i gradi più bassi, mentre per il reclutamento dei più alti veniva
affidato a nomine ministeriali da compiersi nell’ambito di certe categorie di magistrati e di tecnici del diritto.
I pubblici ministeri erano direttamente nominati dai Ministri e restavano alle dipendenze dell’esecutivo per
tutto il corso della loro carriera. L’interpretazione delle leggi spettava esclusivamente al potere legislativo. I
soli diritti che formavano oggetto di tutela giurisdizionale erano i diritti civili e politici. L’art. 24 dello Statuto
riconosceva il principio di uguaglianza limitatamente al godimento di tali diritti. La storia della giustizia
amministrativa, che è storia costituzionale, trae origine dal riparto di giurisdizione con l’autorità giudiziaria
ordinaria, senza che ne chiarisse il criterio ordinatore. Poteva consistere nell’oggetto della domanda
(petitum) ossia nell’annullamento dell’atto per il giudice amministrativo e nella condanna al risarcimento del
danno per il giudice ordinario; come poteva consistere nella situazione giuridica fatta valere in giudizio
(causa petendi).

Un modello verticistico, accentrato e uniforme di amministrazione


Un modello verticistico. Anche per l’amministrazione a fare scuola fu il modello francese impostato da
Napoleone. I ministeri erano strutture organizzative capaci di esaurire in sé tutta l’azione amministrativa. I
compiti dello Stato erano ridotti alla difesa, alla tutela dell’ordine pubblico, alla giustizia e al fisco, e affidati
a strutture articolate al loro interno in uffici ordinati in senso gerarchico fino a un vertice costituito dal
Ministro. Il Ministro era componente del Governo che si andava staccando dal sovrano e assumeva su di sé
la responsabilità politica per tutti gli atti della “sua” amministrazione. Questo modello durò un secolo e
mezzo. Quanto ai pubblici impiegati questi erano reclutati attraverso assunzioni dirette.
Un modello accentrato. I progetti legge presentati nel 1861 da Minghetti per l’istituzione di Regioni dotate
di poteri legislativi e amministrativi, furono respinti per evitare di compromettere l’unificazione. Le sole
autonomie territoriali furono costituite dai Comuni e dalle Province, istituite nel 1865 come semplici enti di
decentramento dell’amministrazione statale a capo dei quali era posto il prefetto, funzionario del Ministero
dell’interno. La legge Crispi del 1888 attuò una prima democratizzazione degli enti locali con l’elezione dei
Consigli comunali e provinciali da parte dei cittadini maschi di almeno 21 anni in grado di leggere e scrivere,
e con l’elezione dei Sindaci e dei Presidenti delle Province da parte dei rispettivi Consigli. La legge istituiva
la Giunta provinciale amministrativa presieduta dal Prefetto e investita di compiti di controllo e vigilanza
sugli enti locali e sui loro atti con potere di annullarli e riformarli.
Un modello uniforme. La legge di Unificazione del regno prevedeva la stessa organizzazione per tutti i
Comuni senza tener conto delle diversità e dei bisogni di ogni singola realtà. Come l’accentramento anche
l’uniformità ha continuato a caratterizzare il modello di amministrazione locale anche dopo l’entrata in
vigore della Costituzione repubblicana.
La Corte di cassazione, organo supremi del potere giudiziario chiamato a giudicare della legittimità delle
sentenze nei giudizi civili e penali, fu unificata nel 1923. La banca d’Italia, istituto di emissione e controllo
della circolazione monetaria, e di indirizzo e vigilanza del sistema bancario e creditizio, fu istituita con una
legge nel 1893 che realizzava la fusione di 4 banche di emissione e manteneva in capo al Banco di Napoli e
al Banco di Sicilia il potere di emissione della moneta. L’unificazione tardò soprattutto sul piano linguistico e
culturale.

Il periodo giolittiano
Nel primo decennio del 20° sec. gli elementi autoritari si attenuano notevolmente. La nomina di Zanardelli a
primo ministro (1901) suggellò un nuovo clima. Vi furono numerosi avanzamenti sul terreno liberale e
democratico, tra i più importanti vi furono il suffragio universale maschile (1912) attribuito ai cittadini maschi
che avessero compiuto 30 anni, e il riconoscimento delle libertà di associazione. Il nuovo Presidente del
Consiglio, Giolitti, difese i diritti di associazione e organizzazione del proletariato. Fu potenziata
l’indipendenza del potere giudiziario: una legge del 1907 istituiva il Consiglio superiore della magistratura,
composto in larga prevalenza da giudici della Corte di cassazione, con il compito di esprimere pareri sulle
promozioni dei giudici e sulla preposizione degli stessi alle diverse funzioni. Nel frattempo venivano
unificate le carriere dei giudici e dei Pubblici Ministeri, col risultato di sottrarre all’esecutivo i poteri sulla
carriera dei P.M. Altre leggi significative furono quelle sull’istituzione della scuola popolare e sull’istruzione
obbligatoria fino a 12 anni (1904) e sullo statuto del pubblico impiego (1907) che introduceva la regola del
concorso per l’accesso nei pubblici uffici. Nel frattempo cresceva la presenza dello Stato in capo
economico. Fra gli interventi pubblici nell’economia sono da ricordare la nazionalizzazione delle ferrovie,
l’affidamento in concessione ai privati delle linee di navigazione marittima, il sostegno alla grande industria
privata del Nord, tramite agevolazioni doganali e fiscali, commesse e appalti pubblici, la legislazione
speciale per il sostegno finanziario delle aree depresse del Mezzogiorno. Nel frattempo si affermavano
servizi pubblici con esplicite finalità di protezione sociale, diffusi soprattutto a livello locale. È un periodo in
cui cresce l’amministrazione e si ha un’articolazione dei suoi modelli organizzativi. È il fenomeno delle
“amministrazioni parallele” che si spiega con la maggiore aderenza della loro struttura organizzativa alle
finalità perseguite, dunque una maggiore efficienza. Esso conosce due principali varianti: l’ente pubblico e
l’azienda autonoma. Rispetto al Ministero, l’ente pubblico è provvisto di una struttura più agile, di
personale meglio retribuito ed è dotato di personalità giuridica pubblica. L’azienda autonoma non è dotata
di personalità giuridica e fa capo a singoli Ministeri (Azienda autonoma delle ferrovie, 1905 e Cassa dei
depositi e prestiti, 1913). È a livello locale che il modello dell’azienda conosce la massima diffusione con
l’istituzione di servizi pubblici gestiti dai Comuni soprattutto tramite aziende municipalizzate.
La prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra.
Le trasformazioni dei rapporti tra poteri pubblici e società richiedevano un’accresciuta capacità di governo,
che mancava. L’art. 5 dello Statuto stabiliva che il Re poteva dichiarare guerra, fare trattati di pace/alleanza,
di commercio, ecc. dandone notizia alle Camere che avrebbero dovuto approvare. Lo Statuto affidava la Re
e al suo governo la scelta se comunicare alle Camere qualsiasi decisione di politica estera in base a una
valutazione insindacabile dell’interesse e la sicurezza dello Stato. La prassi si uniformò totalmente a questa
prerogativa regia al punto che, dopo aver stipulato in segreto il Patto di Londra, nonostante esso non fosse
destinato a comportare spese, il Governo Salandra dichiarò guerra all’Impero austro-ungarico all’insaputa
delle Camere. Alla fine della guerra i Governi presero a legiferare con il decreto legge, fino ad allora adottato
quasi esclusivamente come strumento straordinario di legiferazione assegnato al Governo in casi di
urgenza. Dopo la guerra divenne uno strumento ordinario di legislazione.
Nel primo dopoguerra vi fu anche un’importante riforma della legge elettorale. Nel Regno d’Italia, la legge
del 1882 che aveva allargato parzialmente il diritto di voto aveva previsto un sistema maggioritario a doppio
turno, con scrutinio di lista e collegio plurinominale, con ballottaggio. Essa fu modificata nel 1891 con una
riforma che mantenne il sistema maggioritario ma ripristinò il collegio uninominale. A seguito
dell’introduzione del suffragio universale maschile (1912) si ebbe una profonda trasformazione del sistema
politico. Il partito socialista e il partito popolare, che rappresentavano classi e gruppi sociali fino ad allora
esclusi dal voto, ottennero alle elezioni risultati importanti a scapito del vecchio partito liberale e nel
dopoguerra richiesero e ottennero una riforma elettorale che sanciva il passaggio al sistema proporzionale,
considerato il più democratico. Queste riforme segnarono il passaggio da una fase liberale-oligarchica a
una fase liberaldemocratica dell’ordinamento costituzionale del Regno d’Italia. Ma nell’Italia provata dal
dopoguerra le istituzioni erano troppo fragili per reggere tale trasformazione.

Lo stato totalitario
Lo Stato totalitario del XX sec. fu una forma di Stato molto più complessa di una dittatura personale e più
moderna dello Stato assoluto. Scopo dei leader totalitari era quello di separare il liberismo dalla democrazia
non eliminando soltanto le libertà individuali ma screditando il pluralismo politico e utilizzando il partito per
raggiungere tutti gli strati sociali. Il popolo sarebbe stato dequotato a massa amorfa, manipolabile dall’alto.
Lo Stato totalitario tentò di abolire e compromettere la separazione dei poteri e il principio di legalità e a
privò gli enti locali della loro autonomia politica. La maggiore differenza fra uno Stato liberale-autoritario
del 19° sec. e lo Stato totalitario si coglie sul terreno delle situazioni soggettive. Un conto è un sistema che
reprime il dissenso e impone arbitrarie restrizioni alle libertà dei cittadini, altro conto è un sistema che non si
accontenta di ciò ma esige il consenso attivo dell’intero popolo intorno ad un capo e a tale scopo manipola
le coscienze con gli strumenti della comunicazione di massa e con sofisticate tecniche di organizzazione
del consenso. Un effetto del sistema totalitario è dato dall’imprevedibilità delle decisioni pubbliche che
provocava paura. La paura alimenta ricerca di protezione e quindi dipendenza dal potere. Un terzo effetto
sulle condizioni dei cittadini è la distruzione dell’eguaglianza e della stessa cittadinanza. Le
persecuzioni, i lager, i genocidi, riflettevano l’idea di una diseguaglianza così radicale da rendere
insopportabile ogni convivenza sullo stesso territorio statale con i membri della razza o della classe sociale
di volta in volta ritenuta deviante. Solo la loro eliminazione fisica avrebbe potuto risolvere il problema.
Il paradigma dello Stato totalitario si basava sul radicale rifiuto di tutte le nozioni basilari dello Stato liberale,
accusato di ingannevole astrattezza.

Il regime fascista
Sotto il regime fascista il primo organo che venne modificato fu il Governo. Riformando il decreto Zanardelli
del 1901, una legge del 1925 assicurava la preminenza assoluta sui Ministri del Capo del Governo, Primo
Ministro e Segretario di Stato: egli diventava un superiore gerarchico dei Ministri, che su sua proposta il
sovrano poteva nominare e revocare. La legge prevedeva che il Capo del Governo veniva nominato e
revocato dal Re ed era responsabile nei suoi confronti dell’indirizzo generale politico del Governo. La
successiva legge del 1926 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, disciplinava i
regolamenti governativi, distinguendo tra quelli di esecuzione delle leggi, quelli sull’uso delle facoltà
spettanti al potere esecutivo, in cui la dottrina comprese i regolamenti indipendenti e i regolamenti di
organizzazione. La legge riconosceva il potere del governo di adottare atti con forza di legge: i decreti
legislativi e i decreti legge.
Con la nuova legge elettorale (Legge Acerbo, 1923) riservava al partito che avesse ottenuto il maggior
numero di voti una maggioranza di due terzi dei seggi della Camera, e questo consentiva al partito fascista
l’effettivo dominio dell’assemblea. Dal 1924 i partiti vennero soppressi, mentre il Gran Consiglio del
Fascismo venne trasformato in organo statale chiamato a predisporre la lista bloccata per l’elezione della
Camera dei deputati, che gli elettori erano chiamati ad accettare o a respingere. La Camera dei deputati
venne sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. Con l’istituzione delle corporazioni, composte
da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, il regime intese subordinare l’accesso di ciascuno
all’attività lavorativa all’iscrizione alla corporazione, che diventava obbligatoria. L’ordinamento corporativo
comprendeva un Ministero e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Governo, Parlamento e apparato
corporativo erano istituzioni di facciata, per assicurare consenso al fascismo. Quanto alla magistratura sul
piano strutturale i poteri di nomina, promozione e trasferimento dei giudici erano assegnati al Governo, e il
pubblico ministero veniva subordinato al Ministero della giustizia. A differenza del nazismo, il fascismo
mantenne il divieto di retroattività della legge penale, che impedendo di qualificare come reato un fatto
commesso prima dell’approvazione della legge, segna il confine minimo di una civiltà giuridica a partire
dall’Illuminismo il cui giudizio era attribuito a Tribunali speciali.
Anche le scelte politiche compiute nei rapporti con la Chiesa cattolica e in campo economico- finanziario
miravano ad assicurare consenso al regime. La Chiesa cattolica esercitava da secoli un grande potere di
influenza sugli ordinamenti spirituali e culturali della popolazione. I Patti Lateranensi del 1929 risolvevano la
“questione romana” posta dall’Unificazione e consentì di conciliare il nuovo regime con la più importante
forza della tradizione a disposizione del paese: l’art. 1 dello Statuto dichiarava la religione cattolica religione
di Stato, e di tollerare gli altri culti esistenti.
In campo economico-finanziario il regime aderì alla modernizzazione che si verificò in tutti i paesi industriali.
La crisi di Wall Street (1929) portò anche i paesi dove il capitalismo era più consolidato a vedere
nell’intervento pubblico il solo rimedio ai fallimenti del mercato. Nell’Italia fascista numerose attività
imprenditoriali vennero sottoposte a previa autorizzazione e talora a pianificazioni pubbliche e furono istituiti
i primi enti pubblici economici a cui facevano capo le imprese a partecipazione statale che agivano nel
mercato con gli strumenti del diritto privato. Si tratta di un modello di “economia mista”: l’iniziativa
economica privata non era bandita ma sottoposta a restrizioni per l’accesso al mercato e per il suo
svolgimento; vi erano poi imprese a partecipazione statale e importanti settori erano sottoposti al
monopolio pubblico originario (trasporti, telefoni, acque, radiodiffusione).

Dal fascismo alla Repubblica


Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del fascismo votava un ordine del girono di sfiducia a Mussolini. Il Re
revocò Mussolini, che fu subito arrestato, e nominò il maresciallo Badoglio presidente del Consiglio.
Vennero soppressi la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e il Gran Consiglio del Fascismo e si stabilì
l’elezione di una Camera dei deputati. L’armistizio dell’8 settembre 1943 si accompagnò alla fuga del Re e
del Governo dalla capitale, con insediamento del Regno a Brindisi e poi a Salerno. Intanto, Mussolini,
fuggito dal carcere, aveva istituto a Salò la Repubblica sociale italiana. L’Italia era tagliata in due. Nel
frattempo partiti antifascisti avevano costituito a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) che
stipulò con la monarchia un compromesso politico-istituzionale sancito con l’emanazione di una prima
costituzione provvisoria. Il compromesso prevedeva che una Costituente eletta dopo la liberazione del
territorio nazionale avrebbe deliberato la nuova Costituzione dello Stato. In una seconda costituzione
provvisoria si stabiliva che contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente il popolo sarà
chiamato a decidere mediante referendum sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia) e
che qualora avesse vinto il voto per la Repubblica, la Costituente avrebbe eletto il Capo provvisorio di
Stato. Il 2 giugno 1946 vinsero i sostenitori della Repubblica e l’Italia poté darsi una Costituzione
democratica.

Lo Stato costituzionale
Lo Stato costituzionale erano uno Stato democratico connotato da principi fondamentali come la dignità, la
libertà, l’eguaglianza, la separazione dei poteri e la legalità. Principi esplicitati in una costituzione scritta,
rigida e garantita in via giurisdizionale. I principi costituzionali differiscono dalle regole per il fatto di riflettere
valori ed obiettivi fondamentali della convivenza radicati nella collettività quali acquisizioni di una certa
civiltà e che in quanto tali si presume siano destinati a orientare le maggiori scelte collettive circa le
condizioni della convivenza al di là della generazione dei Costituenti. Da una parte esprimono il deposito più
importante del passato, dall’altra si protendono verso il futuro. Per questa regione i principi sono formulati
in modo elastico e aperto. I principi sono norme, come lo sono le regole e gli istituti. I principi per farsi
valere hanno bisogno di essere attuati, attraverso regole e istituti previsti dalla Costituzione. È necessario
interpretare i principi adeguandone il contenuto alle mutate condizioni della convivenza nel corso del
tempo. L’interpretazione è uno strumento basilare per far sì che la Costituzione sia in grado di rispondere
alle incognite del tempo attraversando varie legislature e generazioni. Le risorse dell’interpretazione non
sono infinite e quando non bastano a determinare una corrispondenza della costituzione ad esigenze di
cambiamento avvertite e condivise, è sempre aperta la possibilità di modificare la stessa costituzione. La
previsione di un procedimento aggravato per la revisione della costituzione distingue le costituzioni rigide
da quelle flessibili. E tale previsione ne consente la modificazione alle condizioni procedurali di volta in volta
stabilite nei testi costituzionali dei singoli ordinamenti. In questo senso, il procedimento speciale di revisione
costituzionale esplicita l’equilibrio fra stabilità e mutamento che caratterizza le costituzioni dello Stato
costituzionale.

Stato costituzionale e situazioni giuridiche soggettive


Le Costituzioni pongono tutti i pubblici poteri che per lo Stato agiscono sotto l’impero dei principi
costituzionali. La ragion d’essere più profonda dello Stato costituzionale consiste nel rispetto per la persona
umana. A sua volta, il riconoscimento costituzionale per la persona umana mira ad avviare processi di
apprendimento fondati sui principi di dignità, libertà e eguaglianza visti come un tesoro accumulato nel
passato e come guida per la futura convivenza. Una convivenza aperta ad apprendimenti individuali e
collettivi. Nell’impostare il rapporto fra pubblico potere e cittadini, lo Stato costituzionale ricerca una giusta
distanza fra l’uno e gli altri, fondata su un nuovo equilibrio di astratto e di concreto. Rovescia la prospettiva
totalitaria, dal momento che il diritto più alto si compone di principi indisponibili per il pubblico potere, e
nello stesso tempo si distacca dalla prospettiva dello Stato liberale, nella misura in cui quei principi
esprimono un condiviso patrimonio di valori, non costrutti formali. Il popolo è reso titolare di una sovranità
che può esercitare alle condizioni costituzionalmente previste. L’articolazione territoriale dello Stato si
traduce in una maggior vicinanza spaziale fra governanti e governati e in una maggior visibilità delle
decisioni adottate localmente. Lo spostamento delle garanzie dei diritti soggettivi dal potere legislativo ai
giudici conferisce effettività al godimento dei diritti.

L’organizzazione dello Stato costituzionale


Le trasformazioni di ordine organizzativo che segnano il passaggio allo Stato costituzionale vanno distinte a
seconda che si consideri: a) l’assetto dei rapporti fra gli organi che partecipano alla formazione dell’indirizzo
politico; b) la creazione di enti, organi ed istituti separati dal circuito dell’indirizzo politico nazionale, e che
insieme agli organi di indirizzo compongono l’organizzazione costituzionale.
a) Le trasformazioni dell’assetto dei rapporti fra organi di indirizzo politico realizzate in Europa continentale
erano state anticipate nel primo dopoguerra. Si diffonde una versione “razionalizzata” del modello
parlamentare basata su convenzioni costituzionali fra le forze politiche. La fragilità delle maggioranze e
la conseguente instabilità dei governi veniva attribuita all’assenza di vincoli costituzionali nei confronti
della volontà politica delle assemblee. A un limite del genere si poteva rimedia disciplinando in
Costituzione le modalità del conferimento e della revoca della fiducia tali da favorire la stabilità dei
Governi;
b) Nello Stato costituzionale, una forte discontinuità dallo Stato liberale ottocentesco si registra nella più
complessiva organizzazione del potere. Oltre a disciplinare gli organi di indirizzo ed i loro rapporti, le
Costituzioni del secondo dopoguerra ripartiscono il pubblico potere in una pluralità di enti, organi ed
istituti ciascuno dei quali provvisto di una propria quota di legittimazione e reso titolare di distinte e
coordinate funzioni. Fra le innovazioni più ricorrenti possiamo ricordare: - un’articolazione territoriale
dello Stato secondo il modello federale o regionale;
- lo spazio assegnato ad istituti di democrazia diretta a partire dal referendum;
- l’istituzione di giurisdizioni investite del controllo di legittimità costituzionale delle leggi e di altre
funzioni specifiche, distinte da quelle dei giudici comuni;
- il potenziamento o la prima affermazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario
dagli altri poteri, anche con individuazione di autogoverno;
- l’affermazione della distinzione tra politica e amministrazione.
Le prime due innovazioni riflettono l’affermazione di una visione pluralistica della democrazia. Una
democrazia articolata in forme e sedi ulteriori. Le Costituzioni che prefigurano una democrazia
pluralistica prevedono congegni per regolare i conflitti in via giurisdizionale o per assorbirli in processi
politici di più lungo periodo.
Le restanti innovazioni riflettono esigenze di garanzia in precedenza sconosciute. La sottoposizione
delle leggi al controllo di legittimità costituzionale esprime non solo il primato della Costituzione su tutte
le fonti del diritto nazionale ma anche uno spostamento del momento delle garanzie dei diritti soggettivi
dal legislativo al potere giurisdizionale e alla Corte Costituzionale. L’amministrazione viene riconosciuta
in quanto distinta dal Governo, sul presupposto che le sue funzioni non si limitano ad eseguire leggi e
atti di indirizzo.
L’organizzazione dello Stato costituzionale si rivela molto più complessa della tripartizione dei poteri
propria dello Stato liberale. Lo Stato costituzionale non conosce la gerarchia dello Stato liberale fra
legislazione e giurisdizione, né i contrasti fra di esse propri dell’ancien régime.

PARTE PRIMA, NORMAZIONE


Capitolo 1 → Fonti, lacune e antinomie

L’individuazione delle fonti del diritto


Nella civiltà giuridica, di cui anche l’ordinamento della Repubblica ne è espressione, il diritto è ritenuto il
prodotto della volontà umana, quasi sempre in via eteronoma. Esso è il prodotto di autorità pubbliche che,
ispirandosi al principio democratico, devono essere legittimate a produrre diritto. Il problema viene risolto
attraverso la predisposizione normativa di meccanismi di imputazione, a certe autorità pubbliche che hanno
il potere di produrre certi atti normativi e i procedimenti di formazione di tali atti, che si presuppone
debbano trovare il loro diretto o indiretto fondamento in una costituzione democratica.
Considerando che l’intera storia del diritto può essere vista come l’ottica della lotta tra fonti del diritto,
intese come proiezioni delle aggregazioni istituzionali, possiamo renderci conto che il diritto è prodotto della
storia, che concorre in parte a strutturare. Nello Stato costituzionale del nostro tempo, l’individuazione
delle fonti del diritto deve rispondere ai principi di democrazia pluralistica: chiedersi quali siano le
fonti del diritto che ne compongono la normazione o il diritto oggettivo, significa risalire al
fondamento del potere di dettare regole per tutti i cittadini, ricercando come è distribuito fra i
soggetti. Il risultato della ricerca potrà consistere in un insieme di fonti riconducibili direttamente o
indirettamente alla costituzione. Ciò assolve anche a una funzione pratica particolarmente necessaria nei
Paesi di civil low, dove ogni giudice deve individuare applicabile ad ogni controversia, ed eventualmente la
fonte che l’abbia prodotta. Egli può incontrare due ordini di difficoltà:
1. lacuna → mancanza di una norma applicabile alla controversia;
2. antinomia → compresenza di più norme fra loro reciprocamente incompatibili.

Lacune
L’art. 12, secondo comma, preleggi, C.c., dispone che: “Se una controversia non può essere decisa con una
precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizione che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Il ricorso all’analogia legis e all’analogia iuris, si basa sul criterio di somiglianza della fattispecie non
regolata ad una regolata. Esso è escluso per le leggi penali ed eccezionali, secondo l’art. 14 preleggi, che
sono definite di stretta interpretazione: le leggi penali, per ragioni di certezza del diritto, che qui trovano la
loro specifica espressione nel principio di tassatività dei reati, secondo l’art. 25 Cost., e le leggi eccezionali,
per la loro stessa natura.
Il ricorso all’analogia, inoltre, si vuole differenziare dall’interpretazione estensiva della disposizione
applicabile: mentre l’analogia presuppone che la fattispecie in ipotesi, ritenuta dal giudice analoga a una
fattispecie disciplinata, non sia disciplinata, l’interpretazione estensiva presuppone che la fattispecie sia
disciplinata, anche se implicitamente, dalla disposizione applicabile.

N.B.: L’analogia è un procedimento logico, di carattere interpretativo, utilizzato nel diritto in relazione
all’attività di giurisdizione. Esso ha luogo allorquando, a fronte di una lacuna dell’ordinamento giuridico, il
giudice si veda nella necessità di dover offrire un obiettivo criterio di valutazione giuridica, quindi nel
ricavare una regola di giudizio per quel caso concreto che non appaia espressamente disciplinato dalla
legge, tramite l’applicazione della norma prevista per un caso che appaia simile per ratio (analogia legis),
oppure tramite l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico (analogia iuris).
- Analogia legis → consiste nell’applicare ad una fattispecie non regolata, la disciplina di un’altra
fattispecie, regolata dall’ordinamento, ritenendo che la ratio che ha indotto il legislatore a disciplinare
quest’ultima, lo avrebbe potuto coerentemente indurre a disciplinare la prima nello stesso modo;
- Analogia iuris → consiste nel desumere la disciplina della fattispecie, non regolata direttamente, dai
principi generali dell’ordinamento, quando anche il ricorso all’analogia legis non è possibile.

Antinomie
Una antinomia, nel diritto, indica un conflitto tra norme giuridiche diverse che si ricollegano ad una
medesima fattispecie, in modo logicamente incompatibile tra loro. Se una delle due fosse prodotta da una
fonte riconosciuta come tale, da un ordinamento diverso al quale il primo operi un rinvio, la soluzione del
conflitto dovrà rinvenirsi nelle modalità di tale rinvio.
In secondo luogo, le antinomie presuppongono ordinamenti dinamici e complessi, ossia composti da
più fonti, caratterizzate dall’inesauribilità del potere normativo imputato ai soggetti che rispettivamente ne
dispongano. Per risolvere le antinomie, si dovrà quindi ricorre a tanti criteri quanti sono i modi in cui esse si
presentano.

Criteri per la risoluzione delle antinomie


- Criterio cronologico → la fonte più recente prevale su quella precedente che disciplini la medesima
materia. A formulare il criterio cronologico è l’art. 15 delle preleggi, pensato per un ordinamento più
semplice di quello vigente: “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa dal
legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera
materia già regolata da legge anteriore”. L’abrogazione di una legge può pertanto risultare espressa, o tacita,
perché le nuove disposizioni risultano incompatibili con le precedenti, o implicita, a seguito di una nuova
disciplina dell’intera materia.
Le preleggi si riferiscono solo alle leggi, anche se il criterio cronologico si ritene applicabile a tutte le fonti.
Esso opera indipendentemente da una specifica previsione normativa, in ragione dell’essenziale temporalità
di ogni ordinamento giuridico, che induce a presumere maggiore aderenza della fonte successiva
all’evoluzione della società.
Il criterio cronologico si concretizza nella rilevazione, da parte del giudice, dell’inefficacia della disposizione
anteriore a seguito della constatata vigenza di quella successiva incompatibile. È l’effetto abrogativo
connesso all’entrata in vigore della disposizione successiva incompatibile a rendere inoperante la
precedente, e l’incompatibilità da esso determinata non si pone i termini di validità/invalidità, ma di
efficacia/inefficacia. La disposizione anteriore non viene più applicata, senza venire annullata, come
avverrebbe se la sua incompatibilità con altra disposizione derivasse dall’essere prodotta da fonte
subordinata ad altra fonte incompetente a disporre su una certa materia. La ragione per cui la disposizione
anteriore è resa inefficace e non viene annullata è connessa con la diversa operatività che assume l’effetto
abrogativo rispetto all’annullamento. Come dispone l’art. 11 delle preleggi “La legge non dispone che per
l’avvenire. Essa non ha effetto retroattivo”, l’effetto abrogativo opera normalmente ex nunc (da ora), ovvero
dal momento in cui entra in vigore una disposizione incompatibile con la precedente, la quale continua a
dispiegare effetti in riferimento alle situazioni verificatosi anteriormente al momento dell’abrogazione.
L’annullamento, invece, travolge l’efficacia della disposizione dichiarata invalida dal giudice ex tunc (da
allora), cioè dalla data della sua entrata in vigore. Se la disposizione anteriore incompatibile con la
successiva fosse annullata, la sua efficacia risulterebbe travolta anche in riferimento alle situazioni da essa
regolate verificatesi anteriormente al momento dell’abrogazione. Poiché la regola secondo cui l’effetto
abrogativo opera ex nunc è disposta dall’art. 11 preleggi, può essere derogata da leggi successive, che
possono di volta, in volta, disporre la retroattività dei loro effetti. Il solo limite espresso previsto è contenuto
nell’art. 25, secondo comma, Costituzione, per le leggi penali: “Nessuno può essere punito se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
L’operatività del criterio cronologico è condizionata dall’ipotesi che le fonti delle disposizioni adottate una di
seguito all’altra sulla medesima materia, e perciò reciprocamente incompatibili, siano gerarchicamente
pariordinate e dotate della medesima competenza.
Cosa può accadere però, se la fonte sopravvenuta è gerarchicamente sovraordinata? Si applica il criterio
cronologico o il criterio gerarchico?
La Corte costituzionale, nella sua prima sentenza (sent. n. 1 del 1956), si limitò a notare la diversità di piani
fra abrogazione e illegittimità costituzionale, e la maggior ristrettezza del campo in cui opera l’abrogazione,
come nel caso: “Per le riunioni in luogo aperto al pubblico è richiesto preavviso”, art. 18 testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza del 1931; “Per le riunioni in luogo aperto al pubblico non è richiesto preavviso”, art. 17
Costituzione del 1948. Proprio per questo, la Corte lasciò intendere il suo favore per il criterio gerarchico.
L’operatività del criterio cronologico è limitata dalla possibile previsione di norme speciali → esse
consistono nella disciplina di un ambito materiale (di una fattispecie o di un gruppo di fattispecie
puntualmente determinate), in deroga alla disciplina generale dell’intera materia (di tutte le fattispecie ad
essa riconducibili), e nella conseguente sottrazione di quell’ambito materiale all’efficacia della disciplina
generale. Questa limitazione consiste nella prevalenza della disciplina speciale sulla disciplina generale,
anche se successiva → Lex posteriore generassi non derogat priori speciali. Ciò viene disposto espressamente
dall’art. 15 cod. pen.: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa
materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo sia
altrimenti stabilito”; ma la prevalenza della legge o di altra fonte recante disciplina speciale è ritenuta pacifica
anche in assenza di previsioni espresse.
A differenza dell’abrogazione, la deroga, disposta con legge speciale, non determina la cessazione del
vigore della disciplina generale, che continuerà a regolare tutta la materia non compresa nell’ambito
materiale, oggetto della deroga, anche se la legge speciale verrà abrogata o annullata. Quindi, il criterio
della specialità vale come limite all’operatività del criterio cronologico: pone un problema di interpretazione
di norme in quanto tali, piuttosto che di risolvere le antinomie tra norme prodotte da fonti diverse o anche
dalla stessa fonte.
Diversa dall’abrogazione e dalla deroga è la sospensione, in forza della quale determinate fonti si limitano a
sospendere temporaneamente l’efficacia di norme vigenti senza abrogare e senza derogarvi: è il caso delle
leggi temporanee, dei decreti legge e della conversione, definiti dall’art. 77 Cost., “provvedimenti provvisori
con forza di legge”.

Criterio gerarchico
In base al criterio gerarchico, la fonte di grado superiore prevale su quella di grado inferiore anche
se adottata anteriormente ad essa, con la conseguenza che tale criterio prevale su quello
cronologico. Si può distinguere la versione della gerarchia fondata sul primato della legge e la versione
costituzionale della gerarchia.
L’art. 1 delle preleggi qualifica come fonti del diritto: “le leggi, i regolamenti, le norme cooperative e gli usi”. I
rapporti fra queste fonti sono disciplinati in termini di gerarchia. La superiorità di una fonte rispetto ad
un’altra consiste nella sua forza di capacità di innovare al diritto oggettivo (forza attiva) e di resistere
all’abrogazione in caso di sopravvivenza di fonti subordinate (forza passiva). La Costituzione utilizza la
nozione di forza di legge solo in riferimento al rapporto tra legge e regolamento, al fine di stabilire un
numero chiuso degli atti equiparati alla legge e vietare così l’istituzione di ulteriori atti governativi in grado di
abrogare o modificare leggi e atti ad essa equiparati. La nozione di gerarchia fondata sulla forza di legge
non spiega il funzionamento dei procedimenti di normazione previsti o desumibili in via interpretativa dalla
Costituzione, che vanno oltre l’individuazione delle fonti tradizionali. La nozione costituzionale di
gerarchia consiste nella idoneità della Costituzione di porsi quale norma fondamentale sulla
normazione: significa ricondurre alla Costituzione il potere di imputare a un determinato soggetto (organo o
ente) il potere di produrre norme e di disciplinare il procedimento di formazione di ciascuna delle fonti ad
essa subordinate, nonché di distribuire il potere normativo tra le fonti predette. In base a questa nozione, si
può dire che la Costituzione prevale sulle fonti ad essa direttamente subordinate perché prevede il
procedimento con cui tali fonti si formano e il soggetto cui viene imputato il relativo potere normativo;
include, inoltre, il potere della Costituzione di distribuire il potere di produrre norme in base alle materie
indicate nella Costituzione stessa e ciò può avvenire secondo il criterio di competenza che equivale ad
attribuire il potere normativo a determinare fonti ad esclusione di altre; comprende anche la disciplina del
trattamento giurisdizionale delle norme prodotte da fonti subordinate alla Costituzione, antinomie tra fonti,
nonché il potere di riconoscere l’efficacia di norme prodotte in ordinamenti costituzionalmente
richiamati diversi da quello nazionale, per le quali manca la stessa possibilità di risolvere antinomie in
termini di validità/invalidità, in quanto il confronto coinvolge norme non prodotte nello stesso ordinamento.

Criterio di competenza
Le antinomie si risolvono in base al criterio di competenza quando la Costituzione attribuisce ad una fonte
ad essa subordinata il potere di disciplinare una certa materia, escludendo che altre fonti ad essa pari
subordinate possano disciplinarla.
Fra gerarchia e competenza corre un rapporto di coimplicazione: da una parte, la competenza ha
contribuito a dissolvere la tradizionale visione della gerarchia fondata sulla supremazia della legge ordinaria;
dall’altra presuppone la prevalenza gerarchica della Costituzione, quale norma fondamentale sulla
normazione.
Un esempio di applicazione del criterio di competenza è dato dal rapporto fra legge e regolamento
parlamentare: a fronte dell’art. 70 Cost., “La funzione legislativa è esercitata collettivamente da due Camere”, sta
l’art. 64, primo comma, secondo cui “Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei
suoi componenti”, e i regolamenti parlamentari sono chiamati dall’art. 72 a disciplinare i lavori parlamentari
per quanto non vi sia direttamente disposto, nonché l’organizzazione interna delle Camere. Quando una
legge disciplina una di queste materie, può dirsi viziata per incompetenza, e lo stesso può dirsi quando un
regolamento parlamentare fuoriesca dalle materie costituzionalmente ad esso riservate, disciplinandone di
ulteriori. Quindi, una prima applicazione del criterio di competenza si basa sulla riserva di materia a una
certa fonte ad esclusione di altre.
Una seconda forma è data dall’ipotesi in cui la disciplina di una materia venga per Costituzione
riservata a più fonti, a ciascuna delle quali spetti una specifica modalità di disciplina. Si ha un concorso di
fonti regolato per modalità di disciplina: è il caso della ripartizione fra Stato e Regioni della potestà
legislativa dell’art. 117, terzo comma → alla legge statale spetta la fissazione dei principi fondamentali di
disciplina della materia e alla legge regionale spetta l’attuazione-svolgimento di tali principi → la seconda è
condizionata dalla prima, ma questo condizionamento cessa di fronte al contenuto della disciplina, senza
investire la riserva di potere normativo alle Regioni.
In terzo luogo, sono state ricondotte al criterio di competenza le fonti atipiche, come le leggi di esecuzione
del Concordato fra Stato e Chiesa. Si aveva una scissione tra forza attiva (far innovare) e forza passiva
(resistere all’abrogazione).

Capitolo 2 → Costituzione e leggi costituzionali

La Costituzione quale espressione di potere costituente


La Costituzione è espressione del potere costituente del popolo italiano, in quanto deliberata da un organo,
l’Assemblea Costituente, i cui membri furono designati a suffragio universale dal corpo elettorale il 2 giugno
1946. Essa è una fonte irripetibile e pertanto esaurita, questo perché, in primo luogo, il rapporto della
Costituzione con le altre fonti normative, non consiste soltanto nella sia configurazione come norma sulla
normazione, ma anche nell’idoneità di tali fonti ad attuare, integrare o specificare le norme della
Costituzione, oltre che a modificarla con il procedimento indicato dall’art. 138. Una seconda considerazione
investe l’interpretazione costituzionale, poiché essa si distingue dagli altri testi normativi perché si
riferisce ad un testo strutturato per principi. quindi, revisione-integrazione e interpretazione si possono
intendere come due assi che tendono ad assicurare la tenuta nel tempo della Costituzione.

Il procedimento di revisione costituzionale


In base all’art. 138 Cost., il procedimento di revisione consiste in un aggravamento rispetto a quello odi
formazione della legge previsto dagli articoli 71 e successivi, per i seguenti aspetti:
A. Non basta una sola deliberazione delle due Camere, ma ne servono due successive → la seconda a
distanza di non meno di tre mesi dalla data in cui è stato approvato il testo dalla Camera, che ha
deliberato per ultima. La doppia deliberazione e l’intervallo temporale previsto, tendono a favorire una
riflessione più ponderata sulle modifiche e sulle integrazioni del testo costituzionale, rispetto a quanto
necessario per la formazione della legge ordinaria;
B. La legge costituzionale è approvata solo se ottiene la maggioranza assoluta dei voti in ambedue le
Camere (maggioranza dei rispettivi componenti), mentre le leggi ordinarie sono approvate con la
maggioranza semplice o relativa (maggioranza dei presenti), con le differenze fra Camere e Senato.
L’aggravamento, in questo caso, consiste in un innalzamento della maggioranza, che può però rilevarsi
insufficiente tutte le volte che i soggetti previsti dall’art. 138 (un quinto dei membri di ciascuna Camera,
cinque Consigli regionali o cinquecentomila elettori) richiedano che la legge approvata a maggioranza
assoluta sia sottoposta a referendum entro tre mesi dalla sua pubblicazione. Il procedimento di
formazione della legge costituzionale approvata in seconda lettura a maggioranza assoluta non può dirsi
perfezionato fino a quando non si sia svolto il referendum, ovvero finché non sono decorsi tre mesi dalla
pubblicazione della legge. La legge costituzionale, non viene promulgata dal Capo dello Stato, a
differenza di ogni altra legge, e la stessa pubblicazione serve soltanto a fini notiziari, cioè a rendere nota
l’avvenuta approvazione della legge costituzionale ai soggetti titolari della facoltà di promuovere
referendum, e in particolare i cinquecentomila elettori e i cinque Consigli regionali, mentre non assolve
alla funzione di integrare l’efficacia della legge e di costituirne condizione per l’entrata in vigore. L’ art. 12
legge n. 352 del 1970, intitolata “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa
legislativa del popolo”, ha previsto che l’Ufficio centrale per i referendum, composto dai tre presidenti di
sezione più anziani e dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione della Corte di cassazione,
“verifica che la richiesta di referendum sia conforme all’art.138 della Costituzione e della legge” → l’Ufficio
centrale decide con ordinanza entro trenta giorni dalla presentazione della richiesta e, laddove contesti
eventuali irregolarità ai presentatori, costoro possono presentare deduzioni o manifestare l’intenzione di
sanare le irregolarità entro venti giorni. L’art. 14 aggiunge che, ove l’ordinanza dell’Ufficio centrale
dichiari l’illegittimità della richiesta, la legge costituzionale viene promulgata e pubblicata;
C. Nel caso in cui la legge costituzionale abbia ottenuto la maggioranza dei due terzi dei componenti di
ciascuna Camera in seconda lettura, l’art.138 stabilisce che “non si fa luogo a referendum” → questo fa si
che la legge costituzionale sia assistita da una presunzione di rappresentatività del corpo elettorale tale
da non richiedere l’esperimento di un referendum.
L’intento di salvaguardare le minoranze si rivela non solo dall’attribuzione ai soggetti indicati dall’art. 138
della facoltà di promuovere referendum, ma soprattutto dalla mancata previsione di un quororum di
partecipazione degli elettori, con la conseguenza che, per non approvare (come per approvare) la legge
costituzionale, basta la maggioranza dei votanti rispetto ad una platea di partecipanti al voto che può
essere anche esigua. Il referendum costituzionale distingue dal referendum abrogativo → l’art. 75, dopo
aver affermato che “Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere le Camere dei
deputati”, terzo comma, prevede espressamente che “La proposta soggetta al referendum è approvata se ha
partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente
espressi”, quarto comma. Dunque, mentre l’approvazione del referendum abrogativo è richiesta una
partecipazione al voto molto elevata degli elettori della Camera, oltre che la maggioranza dei voti, per i
referendum costituzionale, la prima condizione non è richiesta. In più, la Costituzione non prevede alcuna
revisione totale (l’ipotesi equivale a una surrettizia riassunzione di potere costituzionale), ma sono
ammissibili revisioni costituzionali anche estese.
Limiti alla revisione costituzionale
Secondo l’art.139, “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” → la locuzione
“forma repubblicana”, nel suo primo significato, si riferisce alla modalità di designazione alla carica di
Capo di Stato, che non può essere ereditaria, ma elettiva. La definizione dell’Italia come “ una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro”, art. 1, primo comma, equivale a ritenere che la locuzione “forma
repubblicana” adoperata dall’art. 139, comprenda il carattere democratico della Repubblica e il suo
fondamento sul lavoro, con un corrispondente ampliamento dei limiti alla revisione costituzionale. inoltre, la
Costituzione “riconosce e garantisce diritti inviolabili dell’uomo”, art. 2, ovvero che non possono essere violati
nemmeno con legge costituzionale.
Con sentenza n. 1146 del 1988, la Corte affermò che “La Costituzione italiana contiene alcuni principi
supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di
revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. La pronuncia del 1988 stabilì che le leggi
costituzionali fossero sindacabili non solo per i loro vizi formali, derivati dal mancato rispetto del
procedimento previsto dall’art.138, ma anche per vizi sostanziali o di contenuto, che potrebbero discendere
dal mancato rispetto dei “principi supremi”, i quali si presuma debbano desumersi dagli artt. da 1 a 5 della
Costituzione.

N.B.: I criteri per la risoluzione delle antinomie soccorrono nella pratica quando le norme che dispongono in
modo differente su uno stesso oggetto sono prodotte da fonti diverse: l’ipotetico contrasto si pone dunque
tra fonti in via mediata e tra norme in via immediata. Se il trattamento giurisdizionale degli atti normativi
seguisse sempre la disciplina e l’ordine delle fonti, il giudizio di legittimità delle leggi costituzionali, alla
stregua dei limiti di contenuto forniti dai principi superbì, non sarebbe mai possibile. La collocazione di un
atto normativo nel sistema delle fonti non coincide sempre con il suo trattamento giurisdizionale.

Leggi di revisione e leggi costituzionali


L’art. 138 accomuna, dal punto di vista procedurale, le leggi di revisione della Costituzione alle “altre leggi
costituzionali”. In questa categoria rientrano almeno:
A. Le leggi costituzionali necessarie per l’entrata in funzioni di enti od organi costituzionalmente previsti,
come gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata (statuti speciali), approvati come leggi
costituzionali all’assemblea Costituente, gli statuti speciali approvati in seguito, in base all’art. 116, e le
norme di prima attuazione della Corte costituzionali di cui all’art. 137;
B. Le leggi costituzionali di eventuale integrazione della disciplina di istituti costituzionalmente previsti,
come l’individuazione di organi od enti, cui venga conferita l’iniziativa legislativa, oltre a quelli già indicati
dall’art. 71, e di disciplina della fusione di Regioni esistenti e di nuovi Regioni, art. 132, queste ultime
con gli aggravanti percentuali;
C. Le leggi che il Parlamento ritenga di dover approvare secondo il procedimento previsto dall’art. 138,
destinate anch’esse all’integrazione di norme costituzionali, ma senza formare oggetti di riserva di legge
costituzionale nel testo.
L’individuazione delle “altre leggi costituzionali” abbraccia ogni ipotesi di integrazione del testo
costituzionale:
1. necessaria;
2. facoltativa, oggetto di riserve previste dalla Costituzione;
3. facoltativa, al di fuori di riserve costituzionalmente previste.
Nella prima ipotesi, si parla di integrazione-attuazione, dal momento che, in assenza delle leggi
costituzionali in parola, l’ente o l’organo costituzionalmente instituito non potrebbe entrare in funzione; le
altre due ipotesi, dimostrano l’ammissibilità di uno spazio di integrazione praeter costitutionem, non solo
al livello della legge ordinaria, ma anche al livello costituzionale.
Problemi di interpretazione, si pongono nella terza ipotesi, dal momento che la Corte costituzionale ha
ricondotto alle leggi costituzionali le “leggi in materia costituzionale”, che l’art.72 annovera fra quelle
sottratte alla deliberazione delle Commissioni parlamentari in sede legislativa, sent. 168 del 1963, così
affermando l’assenza di una “materia costituzionale”, a conferma della prevalente tesi della “competenza
universale” delle leggi costituzionali, e dunque del potere del Parlamento di regolare ogni materia nelle
forme dell’art. 138, sulla base di valutazioni politiche, nei soli limiti della “forma repubblicana” e dei “principi
supremi”. Le leggi costituzionali che non li abbia travalicati e che non modificano il testo, possono ritenersi
volte all’integrazione di quest’ultimo.
Si può dire che con la dizione “le altre leggi costituzionali” la Costituzione, atto del potere costituente
irripetibile, resti adeguata ai mutamenti intervenuti nella realtà storico-sociale.

L’efficacia delle norme costituzionali


Le norme, comprese le norme della Costituzione, intesa stavolta come fonte di produzione di norme, sono
direttamente applicabili quando il loro contenuto si ritenga tanto puntuale da non richiedere l’interposizione
di altre norme che lo specifichino, prodotte da fonti di grado inferiore: nel caso della Costituzione, la legge,
interpositio legislatoris.
Solitamente, le norme costituzionali non sono caratterizzate da un contenuto tanto puntuale ed in tali casi
l’efficacia delle norme costituzionali è in linea di massima subordinata alla loro attuazione con legge.
All’indomani dell’entrata in vigore della Carta, non era pacifico che il Parlamento dovesse attuare la
Costituzione, soprattutto i principi della Prima Parte, e che un giudice potesse giudicare della legittimità
della legislazione alla stregua di essa.
Secondo la VII Disposizione transitoria «fino a quando non entri in funzione la Corte costituzionale, la
decisione delle controversie indicate nell’art. 134 ha luogo nelle forme e nei limiti delle norme preesistenti
all’entrata in vigore della Costituzione». A decidere di tali controversie dovevano essere i giudici ordinari.
Quest’ultimi si basarono sulla distinzione fra forme costituzionali precettive e programmatiche, distinzione
rilevante sotto il profilo della rispettiva efficacia giuridica, non del contenuto, risultando allora, come oggi,
pacifico che il contenuto di talune norme costituzionali consista in programmi.
Nella sua prima sentenza del 1956, la Corte costituzionale osservò che la distinzione fra norme percettive e
programmatiche “non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, […], in questa categoria sogliono
essere comprese norme costituzionali di contenuto diverso: da quelle che si limitano a tracciare programmi
generici di futura ed incerta attuazione, perché subordinata al verificarsi di situazioni che la consentano, a
norme dove il programma ha concretezza che non può non vincolare il legislatore, ripercuotersi
sull’interpretazione della legislazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa; vi
sono pure norme le qual fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sulla legislazione”.
La Corte distinse così l’efficacia delle norme costituzionali dal loro contenuto, che poteva anche consistere
in “programmi generici e di incerta e futura attuazione”.
Se la Corte avesse negato tutto ciò, le conseguenze avrebbero investito, non solo la legislazione anteriore
alla Costituzione, ma soprattutto i comportamenti degli organi chiamati ad attuarla, particolarmente la Prima
Parte della Costituzione sarebbe stata considerata un semplice documento politico, ma con la prima
sentenza, essa cominciò a venire intesa quale “norma di riconoscimento” del nuovo ordinamento.

Riserva di legge
La Costituzione, intesa come norma fondamentale sulla normazione, riserva espressamente alla legge la
disciplina di numerose materie (riserva di legge), per fini ulteriori e con strumenti diversi rispetto alla regola
della prevalenza o preferenza della legge sulle fonti subordinate, e al principio di legalità inteso quale
necessario fondamento legislativo degli atti amministrativi.

Riserva di legge e principio di legalità


Il principio di legalità può essere inteso in due modi diversi, a seconda che la supremazia della legge sugli
atti dell’esecutivo venga fatta consistere nell’attribuzione con legge all’esecutivo di un certo potere, oppure
anche nella previsione con legge della disciplina sostanziale, sulla cui base l’esecutivo venga chiamato a
provvedere nel singolo caso.
Nello Stato Liberale, l’attribuzione a tali istituti e principi della garanzia della libertà, si spiega col fatto che,
in regime di monarchia costituzionale, il Parlamento era eletto dai cittadini, mentre il Governo era
espressione del monarca, e fra l’uno e l’altro vi era un rapporto di separazione. Poiché lo Statuto era una
costituzione flessibile, le leggi potevano superare le riserve di legge, col risultato di ricondurre la riserva di
legge al solo rispetto del principio di legalità.
In regime di Costituzione rigida e garantita in via giurisdizionale, la riserva di legge si può sempre
distinguere dal principio di legalità, nella misura in cui il legislatore deve osservare le regole
costituzionalmente previste a pena dell’annullamento dei suoi atti. Più precisamente, da una parte la riserva
di legge assorbe il principio di legalità, dato che l’attribuzione alla legge e non ad altri atti del potere di
disporre su una certa materia garantisce l’osservanza del principio, dall’altra, questo ha una portata più
ampia della riserva di legge, disposta solo su certe materie, investendo l’intero ordinamento giuridico anche
quando, come nel caso degli atti amministrativi, la Costituzione non lo riconosca espressamente.

Funzione della riserva di legge


La Costituzione ha previsto numerose riserve di legge, anche su materie non direttamente incidenti su diritti
di libertà: il Parlamento legifera in regime di pubblicità, e seguendo un procedimento dove sono garantiti
spazi di intervento alle opposizioni parlamentari; mentre, il Governo adotta i regolamenti in regime di
riservatezza e senza intervento delle opposizioni. Inoltre, soltanto le leggi e gli atti equiparati sono
sottoposti al controllo di legittimità della Corte costituzionale.
Tipologie di riserve di legge
Le riserve di legge vengono distinte in:
- riserve assolute → si riconoscono per il fatto che la Costituzione adopera l’indicativo, “La legge
determina…”, oppure chiarisce che una certa ipotesi può ricorrere “nei soli casi previsti dalla legge”. Il potere
normativo spetta alla legge dello Stato (legge costituzionale o ordinaria), o delle Regioni (ove la materia
sia di competenza regionale) → un esempio è il caso dell’art.13, secondo comma → forme di detenzione,
ispezione, perquisizione o di ogni altra restrizione della libertà personale, sono ammesse “nei soli casi e
modi previsti dalla legge”, oltre che “per atto motivato dall’autorità giudiziaria”;
- riserve relative → si riconoscono per il fatto che la Costituzione adotta formule meno impegnative,
“secondo disposizioni di legge”, o “in base alla legge”. Il potere normativo è distribuito fra la legge,
chiamata ad individuare i principi generali della disciplina della materia, ed il regolamento, chiamato a
disciplinare i restanti ambiti della materia → ad esempio, l’art. 23 pronuncia “Nessuna prestazione personale
o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”; oppure l’art. 97, primo comma, “I pubblici uffici
sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il buon adattamento e l’imparzialità
dell’amministrazione”.
Una seconda distinzione è fra le rinforzate e non rinforzate. La riserva di legge si definisce rinforzata
quando la Costituzione vincola la legge a determinate direttive di contenuto → un esempio è l’art. 13, terzo
comma, che nell’assegnare all’autorità di pubblica sicurezza il potere di adottare provvedimenti provvisori
della libertà personale, statuisce che tali provvedimenti possano adottarsi “in casi eccezionali di necessità ed
urgenza, indicati tassativamente dalla legge”, dove la direttiva posta in capo alla legge sta in quel
“tassativamente” che non ricorre nella disciplina, del comma precedente, delle forme di restrizione della
libertà personale disposte per atto motivato dall’autorità giudiziaria; oppure l’art. 16 prescrive che le
limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno vanno stabilite con legge “in via generale per motivi di sanità
o di sicurezza”.
La qualificazione di una riserva di legge come rinforzata procede da un criterio di ordine contenutistico,
diverso da quello posto a base della distinzione fra riserve assolute e relative, che riguarda la distribuzione
di potere normativo fra legge e regolamento governativo. Lo confermano i casi di riserve, relative e
rinforzate, come quella dell’art. 97, primo comma, dove il carattere relativo, superabile con l’intervento
legislativo, convive con la funzionalizzazione della disciplina al proseguimento dei principi di buon
andamento e imparzialità dell’amministrazione.

Capitolo 3 - Legge e atti di livello legislativo

Procedimento di formazione di legge


Il procedimento di formazione di legge si articola in varie fasi:
A. Iniziativa → ne sono titolari cinque soggetti: il Governo, ciascun membro delle Camere, almeno
cinquecentomila elettori i quali propongano un progetto redatto in articoli (art. 71), il Consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro (art. 99, terzo comma) e ciascun Consiglio regionale (art.121,
secondo comma). L’iniziativa legislativa del Governo (disegno di legge) si presenta più peculiare rispetto
alle iniziative degli altri soggetti che ne sono titolari (proposte di legge). Anzitutto, si tratta dell’esito di un
ulteriore procedimento, che viene avviato dal Ministero o dal Presidente del Consiglio, il quale presenta
uno schema di disegno di legge al Consiglio dei Ministri. Lo schema viene deliberato in Consiglio dei
ministri e sottoposto all’autorizzazione del Presidente della Repubblica. In secondo luogo, il disegno di
legge di iniziativa governativa è accompagnato da una relazione illustrativa e tecnico-finanziaria, volta
ad evidenziare la compatibilità dell’eventuale spesa prevista con il bilancio dello Stato, alla stregua
dell’art. 81, nonché da relazioni relative all’analisi tecnico normativa e di impatto della regolamentazione.
In terzo luogo, la Costituzione prevede casi di iniziativa legislativa vincolata del Governo: i disegni di
legge di approvazione del bilancio, del rendiconto e dell’assestamento, di conversione dei decreti,
compresi quelli relativi all’esecuzione del Concordato con la Chiesa cattolica e delle intese con le altre
confessioni religiose (artt. 7 e 8). Infine, il rapporto di fiducia che lega il Governo al Parlamento pone
l’iniziativa legislativa governativa su un piano differente rispetto alle altre.
B. Istruttoria → la fase strettamente parlamentare del procedimento legislativo è disciplinata dalla
Costituzione, soltanto nelle sue linee portanti, e per tutto il resto, dai regolamenti di ciascuna Camera.
Una volta presentato il disegno di legge, ad una delle due Camere, viene assegnato dal suo Presidente
ad una commissione permanente, presso la quale si svolge la fase referente: consiste nell’istruire il
disegno di legge, con esame relativo del contenuto, eventuale accorpamento con altri disegni di legge
in materia di un testo unificato, presentazione degli emendamenti e relativa discussione,
acquisizione dei pareri delle commissioni a competenza trasversale o commissioni-filtro, elezione di
un relatore unico o di un relatore di maggioranza e minoranza, stampa del progetto proposto dalla
commissione, della relazione elaborata dal relatore, e dei progetti alternativi eventualmente presentati
dalla minoranza.
C. Deliberazione → la Costituzione stabilisce che ogni disegno di legge è esaminato da una commissione
e poi da ciascuna Camera, “che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”, art. 72, primo comma.
La votazione avviene prima emendamenti, ordinati in base alla loro lontananza dal testo (prima gli
emendamenti interamente soppressivi, e, di seguito, quelli parzialmente soppressivi, modificati e
aggiuntivi), e poi sugli articoli. Il testo viene infine votato nel suo complesso a scrutinio palese, salva la
possibilità di richiedere lo scrutinio segreto nei casi previsti dai regolamenti. Una volta approvato, il testo
viene trasmesso con il messaggio del Presidente dell’Assemblea che l’ha votato al Presidente dell’altra,
affinché venga avviato lo stesso iter procedurale. Il carattere paritario del bicameralismo accolto in
Costituzione, e l’assoluta uguaglianza fra le due Camere nell’esercizio della funzione legislativa (art. 70),
fa si che il testo approvato da una Camera debba risultare identico a quello approvato dall’altra .
Per la validità della deliberazione di ciascuna Camera, l’art. 64 richiede che sia presente la maggioranza
dei componenti e la votazione a maggioranza dei presenti, salve maggioranze speciali indicate in
Costituzione. Un procedimento di deliberazione alternativo, detto “decentrato”, perché svolto non in
assemblea, ma in una delle commissioni in sede deliberale, è previsto dall’art. 72, quando attribuisce ai
regolamenti parlamentari la facoltà di prevedere “in quali casi e forme” l’esame e l’approvazione dei
disegni di legge sono deferiti in commissione, escludendo i disegni di legge testualmente indicati dalla
Costituzione e fissati dal regolamento di ciascuna Camera. L’art. 72, inoltre, attribuisce ai regolamenti il
potere di stabilire “procedimenti abbreviati per disegni di legge de quali è dichiarata l’urgenza”.
D. Promulgazione, previo eventuale rinvio → una volta approvata da entrambe le Camere, la legge è
trasmessa dal Presidente della Camera, che l’ha approvata per ultima, al Presidente della Repubblica,
che per Costituzione la promulga, entro un mese dall’approvazione, salvo il termine più breve fissato
con legge, in cui le Camere dichiarino a maggioranza assoluta l’urgenza, art. 73; prima di promulgare la
legge, il Presidente può chiederne una nuova deliberazione, con messaggio motivato alle Camere, e se
queste la approvano nuovamente, la legge deve essere promulgata, art. 74. In luogo alla procedura
prevista dallo Statuto Albertino, dove il Capo dello Stato era titolare del potere, non solo di promulgare
la legge, ma di apporvi la sanzione, e quindi di approvarne il contenuto, i Costituenti optarono per la
facoltà per il Presidente di rinviare la legge delle Camere, salvo dunque l’obbligo di promulgarla una
volta che fosse stata riapprovata. I motivi di rinvio sono spesso riconducibili all’ipotesi in cui la legge
appaia al Presidente manifestante in contrasto con la Costituzione. Le Camere possono riapprovare il
testo nella versione originaria o accogliere più o meno integralmente i rilievi formulati dal Presidente
nella motivazione dell’atto di rinvio, per apportarvi modifiche anche significative al di là dei rilievi
presidenziali, il che consentirebbe un nuovo rinvio di legge. La promulgazione, consistente nella
certificazione da parte del Capo dello Stato dell’avvenuta approvazione di un testo legislativo da
entrambe le Camere, è espressa con una formula composta di tre parti: 1) “La Camera dei deputati e il
Senato della Repubblica hanno approvato”; 2) “Il Presidente della Repubblica promulga la
seguente legge…”; 3) “La presente legge, munita del sigillo dello Stato (compito impartito al
Ministro della giustizia, con la successiva pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica), sarà
inserita nella Raccolta Ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a
chiunque di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato” (art. 1, Decreto del Presidente
della Repubblica, 28 dicembre 1985, n.1092). In base all’art. 74, la promulgazione è ritenuta atto
dovuto. Nel caso in cui, nel promulgare la legge, il Presidente commetta “attentato alla Costituzione” o
“alto tradimento”, si renderebbe corresponsabile dell’entrata in vigore di una legge volta a sovvertire
l’ordine costituzionale. La promulgazione perfeziona il procedimento di formazione della legge, pertanto,
l’eventuale effetto abrogativo decorre dalla data in cui la legge è promulgata.
E. Pubblicazione → le leggi, stabilisce l’art. 73, terzo comma, “sono pubblicate subito dopo la promulgazione
ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse
stabiliscano un termine diverso”. La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è operazione che non rientra
nel procedimento legislativo, ma corrisponde alla fase dell’integrazione dell’efficacia della legge già
esistente dalla data della promulgazione, dal quale decorre il periodo di quindici giorni, detto vocatio
legis, oltre il quale, la legge deve essere osservata da parte di “chiunque”, come recita la formula della
promulgazione in corrispondenza con l’art. 54, primo comma, Cost.. Il dovere costituzionale di
osservanza delle leggi presuppone che le leggi siano conosciute: vige infatti, in ogni ramo del diritto, il
principio ignorantia legis non excusat. Una legge promulgata prima di un’altra incompatibile sullo stesso
oggetto è, quindi, da essa abrogata, anche se pubblicata dopo la seconda.
Criteri di individuazione della legge
La ricerca dei criteri di individuazione della legge serve a verificare la sussistenza di limiti della funzione
legislativa rispetto alle funzioni assegnate ad altri poteri dello Stato: si tratta di verificare con quale intensità
la legge vincoli l’amministrazione. Un’indagine sul testo deve rispondere alla questione se la
Costituzione vincoli la legge ad assumere un contenuto generale e astratto. La questione si pone
diversamente a seconda che si ritenga di trovare una risposta di ordine generale in uno o più principi
costituzionali, oppure, in caso negativo, di desumerla dalle riserve di legge. Nel primo senso, si faceva leva
sul principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, art. 3, primo comma, o su quello di imparzialità
amministrativa, art. 97. Ora, l’eguaglianza formale potrebbe vincolare la legge ad assumere quel contenuto
solo se la si continuasse a intendere come puro divieto di leggi di privilegio o discriminatorie. L’imparzialità
impone al legislatore di precostituire tutte le condizioni per impedire trattamenti partigiani da parte
dell’amministrazione. È difficile desumere dalle riserve di legge un vincolo generale di necessità e
astrattezza dei precetti legislativi. Riserve di legge di provvedimento sono bensì eccezionali: l’ art. 43, nel
conferire alla legge il potere di “riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo,
allo Stato, ad enti pubblici o comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese ”, prevede
che l’espropriazione, a differenza che per la proprietà privata, art. 42, terzo comma, sia direttamente
disposta con legge. Esistono, però, casi opposti: la Costituzione prescrive al legislatore di dettare “norme
generali” su materiale a lui riservate (artt. 16, 21, quinto comma, 33, secondo comma) → sono alcuni dei
casi di riserva rinforzata di legge. Nemmeno l’esame di legge consente, dunque, di ritenere che la generalità
e l’astrattezza costituiscano modalità necessarie di una legge.
La maggioranza degli studio e la Corte Costituzionale desumono l’ammissibilità di leggi di provvedimento:
se “la legge è l’atto col quale si producono norme che compongono l’ordinamento giuridico dello Stato”,
non esistono norme costituzionali che definiscano “la funzione legislativa nel senso che essa consista
esclusivamente nella produzione di norme giuridiche generali ed astratte”, sent. n. 60 del 1957. peraltro, la
categoria delle leggi di provvedimento va oltre quelle dettate in luogo di provvedimento amministrativo
(leggi provvedimento innovative) o in esecuzione di leggi precedenti (leggi provvedimento esecutive).
Se per legge provvedimento intendiamo tutte le leggi i cui destinatari siano determinati o determinabili,
allora, in questa categoria rientrano: le leggi retroattive, che dispone solo per soggetti coinvolti in rapporti
giuridici e quindi determinati o almeno determinabili; di interpretazione autentica, che fornendo
l’interpretazione di una legge previgente (che abbia ad es. generato contrasti giurisprudenziali circa la sua
interpretazione), produce anch’essa effetti retroattivi; di indirizzo, che nella misura in cui si concretizzino in
puntuali interventi regolativi e/o in incentivi si riferisce a determinati destinatari.
Bisogna chiedersi come si possa soddisfare l’esigenza di garanzia giurisdizionale delle situazioni giuridiche
soggettive, che ritenevano condizionata alla possibilità per il giudice di raffrontare il concreto provvedere, al
previo disporre con legge generale e astratta. L’esigenza può venire soddisfatta tramite un severe sindacata
di costituzionalità sulle leggi provvedimento che, difronte alla Corte, vengono sottoposte a “scrutinio
stretto”. Quando la Costituzione prevede che la Repubblica adegui i principi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento, esprime una direttiva che segnala un
metodo generale da seguire per assicurare la qualità della legislazione.

Atti equiparati alla legge


Fra gli matti di livello legislativo, si possono distinguere gli atti equiparati alla legge e gli atti a
competenza riservata.

Legge di delegazione e decreti legislativi


L’art. 76 Cost., prevede che l’esercizio della funzione legislativa possa essere delegato al Governo “solo con
determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”: il Parlamento
non può delegare al Governo la titolarità della funzione legislativa, ma il suo esercizio, con la conseguenza
che il Parlamento può tornare a legiferare sugli “oggetti definiti” compresi in una legge di delegazione, che
viene abrogata, con revoca della delega in essa contenuta.
La legge di abrogazione è assoggettata per Costituzione a quattro limiti:
1. Principi e criteri direttivi → servono a circoscrivere il campo della delega, per evitare che venga
esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, e, allo stesso tempo, a consentire al
potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare nell’attività
di riempimento che lega i due atti normativi;
2. Tempo limitato → periodo oltre il quale il Governo non può più esercitare la funzione legislativa
delegatagli dal Parlamento. L’art. 14, secondo comma, l. n. 400 del 1988, prevede che entro il termine
fissato dalla legge di delegazione, i decreto legislativo sia emanato dal Presidente della Repubblica, in
base all’art. 87, quinto comma, sul concreto presupposto che il procedimento di decreti legislativi si
perfeziona con l’emanazione;
3. Oggetti definiti → termine adoperato dall’art. 76, per indicare che l’area di intervento delegata deve
essere più delimitata, e quindi è un ambito più ristretto di una “materia”, termine utilizzato dall’art. 117,
per individuare settori di competenza legislativa esclusiva dello Stato e di competenza legislativa
concorrente fra Stato e Regioni;
4. I disegni di legge di delegazione legislativa non possono essere deliberati in Commissione,
poiché l’art. 72, quarto comma, li comprende fra quelli che sono sempre adottati secondo la procedura
normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera.
La legge di delegazione può stabilire che, prima di approvare il decreto, il Governo richieda il parere delle
Commissioni parlamentari competenti per materia, e ciò avviene quando il termine per l’esercizio eccede i
due anni, art. 14, quarto comma, l. n. 400 del 1988; e le leggi annuali di semplificazione e riassetto
normativo, oltre al parere delle Commissioni parlamentari, debbono prevedere che il Governo richieda il
parere della Conferenza unificata Stato-Regioni-Città-Autonomie locali, art. 20, quinto comma, l. n. 59 del
1997.
Nella prassi, le indicazioni fornite dalla Costituzione sono state spesso violate. La legge di delegazione
dispiega efficacia solo nei confronti del Governo, quale legislatore delegato, per cui le norme diventano
suscettibili di essere applicate solo una volta che il decreto legislativo sia entrato in vigore e, quindi, in
quanto atto avente valore di legge, la Corte costituzionale ha affermato che i decreti legislativi debbano
essere sindacati anche in riferimento alla violazione dei requisiti posti dall’art. 76. Per questa ragione, si dice
che la legge di delegazione funziona da norma interposta fra l’art. 76 e il decreto legislativo: essa configura
uno dei casi di mancata coincidenza fra la considerazione dell’atto normativo come fonte e il suo
trattamento giurisdizionale → dal primo punto di vista, la legge di delegazione è una legge formale ordinaria
come le altre, dal secondo, funge da parametro di legittimità di atti aventi forza di legge, come i decreti
legislativi.

Decreto di legge e di conversione


Il potere del Governo di adottare sotto la sua responsabilità provvedimenti provvisori con forza di legge è
subordinato dalla Costituzione al ricorrere di casi straordinari di necessità o urgenza. Il Governo deve
presentali il giorno stesso alle Camere e queste sono convocate e si riuniscono entro 5 giorni anche se
sciolte. Tali decreti perdono efficacia se non sono convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione.
La conversione in legge si configura come novazione della fonte tale da stabilizzare nel tempo gli effetti
della disciplina dettata dal provvedimento provvisorio con forza di legge.
Il Governo, con decreto legge, può:
a) conferire deleghe legislative;
b) disciplinare materie su cui il Parlamento può deliberare soltanto in Assemblea;
c) rinnovare disposizioni di decreti legge dei quali le Camere abbiano negato la conversione in legge;
d) ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime dalla corte per vizi
sostanziali o si contenuto.
Si tratta di limiti ridotti al potere di decretazione d’urgenza, derogabili con legge ordinaria.
Quanto al procedimento di formazione del decreto legge, una questione dibattuta riguarda l’ammissibilità
per il Presidente della Repubblica di rifiutare l’emanazione di tale atto: un rifiuto simile non è ammissibile
al rinvio delle leggi, ma ciò non ne implica l’inammissibilità.
Un’altra questione dibattuta riguarda gli emendamenti al testo originario del decreto legge, specie in
ordine alle conseguenze che ne discendono sulla configurazione della legge di conversione e alla
decorrenza dei loro effetti. Gli emendamenti possono stravolgere il testo del decreto legge e in tali ipotesi la
legge di conversione non potrebbe configurarsi neanche in parte come convalida di un atto originariamente
invalido. Il maggiore problema posto dalla decretazione d’urgenza consiste nel fatto che i Governi vi
ricorrono da tempo ben al di là dei casi straordinari di necessità ed urgenza, e nelle ultime legislature il
numero dei decreti legge, con relative leggi di conversione, ha superato quello delle leggi ordinarie. Le
ragioni dell’abuso sono molteplici e una di queste è che per il Governo è più facile ottenere l’approvazione
parlamentare di un testo normativo attraverso uno strumento che impone alle Camere un «prendere o
lasciare», entro 60 giorni, anziché con la presentazione di un disegno di legge, che consente loro tutto il
tempo e il modo di pronunciarsi come ritengono.
Quanto ai rimedi giuridici all’abuso della decretazione d’urgenza, la Corte costituzionale ha cercato di
arginare l’abuso con una giurisprudenza sempre più rigorosa: con la sentenza n. 29 del 1995, la Corte
dichiarò che una evidente mancanza dei presupposti giustificativi di un decreto legge renda invalida la
legge di conversione, anche se nella specie della questione fu, per altri motivi, dichiarata inammissibile.
A venir colpita da una sentenza della Corte fu la prassi della reiterazione di decreti legge non convertiti
dalle Camere entro i 60 giorni, con la motivazione che essa, promulgando l’efficacia di un decreto legge
oltre il termine costituzionalmente stabilito, violava la certezza del diritto e le attribuzioni legislative delle
Camere: in quella occasione la Corte stabilì che il Governo potesse adottare un nuovo decreto legge solo
per sopraggiunti casi straordinari di necessità ed urgenza o attraverso una disciplina nuova della materia.

Referendum abrogativo
Secondo l’art. 75, “È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un
atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali ”. Il referendum
è da considerarsi atto avente forza di legge, in quanto idoneo ad abrogare una legge o un atto equiparato,
pur se non anche a modificarla o a sostituirne integralmente la disciplina. Alcune specificità della forza di
legge sono affermate o si desumono dalla Costituzione, altre, invece, derivano dalla legislazione attuativa e
dalla giurisprudenza costituzionale. Quanto le prime, ai sensi dell’art. 75, le leggi tributarie di bilancio, di
amnistia e di indulto, e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali sono sottratte a
referendum.
Un’altra specificità del regime del referendum, si ricava dalla l. n. 352 del 1970, la quale ha disciplinato il
procedimento che può condurre alla consultazione referendaria, nel seguente modo:
1. Raccolta di minimo cinquecentomila firme, o adesioni dei cinque Consigli regionali, delle
richieste di referendum → ciò viene attivato da un Comitato di almeno dieci promotori e va depositata
entro il 30 Settembre di ciascun anno, presso l’Ufficio centrale per il referendum istituito presso la Corte
di cassazione. La legge aggiunge che le richieste non possono essere depositate nell’anno antecedente
la scadenza di una delle Camere e nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei lativi comizi
elettorali, art. 31. Questo limite mira ad evitare interferenze fra la celebrazione di una consultazione
popolare, dominata dalla competizione politica fra partiti, e un’altra nella quale la richiesta rivolta agli
elettori concerne l’abrogazione di una legge o atto equiparato: il limite trova dunque giustificazione
nell’esigenza di tutelare la libertà di voto, art. 48 Cost.;
2. Verifica circa la legittimità e la regolarità delle richieste da parte dell’Ufficio centrale. Quest’ultimo
dovrà : controllare che l’atto non sia abrogato, né annullato dalla Corte costituzionale; verificare il
rispetto delle norme procedurali relative al deposito della richiesta e alla raccolta delle firme; inoltre,
esso dispone la concentrazione di richieste concernenti materie analoghe e stabilisce la denominazione
ufficiale delle richieste di referendum. Si affermava la regola dell’abrogazione sufficiente, secondo la
quale, poiché la consultazione referendaria non si svolga, occorre che l’Ufficio centrale valuti se la
nuova disciplina non abbia modificato i principi di quella sottoposta a referendum, o i contenuti
normativi essenziali dei precetti su cui esso verta;
3. Se l’Ufficio centrale si pronuncia nel senso che la richiesta referendaria possa avere ulteriore corso, il
proseguimento avviene davanti alla Corte costituzionale, chiamata a giudicare l’ammissibilità della
richiesta alla stregua dell’art. 75 Cost., con deliberazione in camera di consiglio che deve avvenire entro
il 20 gennaio dell’anno successivo a quello della richiesta;
4. Se la Corte ritiene ammissibile la richiesta, il Presidente della Repubblica indice il referendum con
decreto, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, fissando la data della consultazione in una
domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Secondo l’art. 37, terzo comma, l. n. 352 del 1970, i
decreto presidenziale che dichiara l’avvenuta abrogazione della legge o atto avente valore di legge, può
ritardarne l’entrata in vigore per un termine non superiore a 60 giorni dalla pubblicazione, in modo tale
da consentire al Parlamento di colmare il vuoto creatosi nell’ordinamento a seguito dell’abrogazione
referendaria.
Se il risultato del referendum sia contrario all’abrogazione, una richiesta di referendum per l’abrogazione
della medesima legge non può proporsi prima che siano trascorsi 5 anni. Nell’ipotesi opposta, la Corte
costituzionale ha ritenuto la sussistenza di un vincolo all’attività legislativa, consistente nel fatto che il
referendum manifesta una volontà definitiva e irripetibile e ha circoscritto tale vincolo, osservando come il
legislatore possa correggere, modificare o integrare la disciplina residua, purché non disponga il formale o
sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare. L’inosservanza del divieto di ripristino
può essere sindacata dalla stessa Corte in sede di giudizio di legittimità delle leggi.
In definitiva, la forza di legge della delibera che dichiara l’abrogazione di una legge o di un atto avente forza
di legge tramite referendum popolare, dal lato attivo risulta più limitata rispetto a quella degli altri atti aventi
forza di legge, nonostante la regola dell’abrogazione sufficiente comporti che, ove l’abrogazione della legge
oggetto della richiesta da parte di una successiva venga ritenuta insufficiente dall’Ufficio centrale, il
referendum possa viceversa abrogarla.
Dal lato passivo, la forza di legge di tale delibera risulta maggiore di quella degli altri atti aventi forza di
legge, visto il divieto posto dal Parlamento, di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata.
Lo studio del referendum abrogativo, in quanto fonte del diritto, equivale a spiegare come il potere
normativo attribuito direttamente agli elettori, che di regola eleggono i propri rappresentati per formare un
organo competente a legiferare, si correli e quale tipo di equilibrio trovi col potere legislativo.

Regolamenti parlamentari
Dal momento che il procedimento legislativo è disciplinato dai regolamenti parlamentari, oltre che dalla
Costituzione, e le leggi possono risultare viziate non solo sul piano sostanziale, ma anche su quello formale,
ossia per un mancato rispetto del procedimento disposto per la loro formazione, non dovrebbero i
regolamenti parlamentari fungere sotto tale profilo da parametro di costituzionalità delle leggi? Posto
che i regolamenti parlamentari rimangono subordinati alla Costituzione, non dovrebbero annoverarsi tra
gli atti con forza di legge e dunque formare oggetto del giudizio di legittimità costituzionale?
Se nel primo caso si tratta di verificare se i regolamenti delle Camere possano fungere da parametro di
legittimità costituzionale delle leggi, nel secondo occorre accertare se possono formare oggetto di tale
giudizio. La Corte costituzionale ha fornito una risposta negativa ad ambedue gli interrogativi. Essa si ritiene
competente a sindacare il procedimento di formazione della legge, ma solo alla stregua delle norme
costituzionali. Quanto alla suscettibilità dei regolamenti parlamentari, di formare oggetto del giudizio di
legittimità costituzionale, chiamata a giudicare dalla conformità dell’art. 64 Cost., della norma del
Regolamento della Camera che considera assenti gli astenuti nella votazione delle leggi, la Corte stabilì che
gli opposti criteri di conto degli astenuti previsti alla Camera e al Senato, rappresentavano attuazioni
parimenti ammissibili. Infine, la Corte fu esplicita nel desumere che la Costituzione ha instaurato una
democrazia parlamentare e collocato il Parlamento al centro del sistema, facendone l’istituto caratterizzante
l’ordinamento, la spettanza delle Camere di una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro
potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa.

Regolamenti agli altri organi costituzionali


Anche gli altri organi costituzionali, quali Corte costituzionale, Presidente della Repubblica, Governo,
Consiglio Superiore della Magistratura, sono ritenuti titolari di un potere regolamentare di autorganizzazione
interna. Tale potere però è privo di fondamento costituzionale e si ricava ove possibile dalle riserve di legge
dettate sull’organizzazione e funzionamento di questi organi costituzionali.
Riserve di legge sono rinvenibili nell’art. 95, terzo comma, Cost., sull’ordinamento della Presidenza del
Consiglio, e nell’art. 137, secondo comma, sulle "norme necessarie per la costituzione e il funzionamento”
della Corte costituzionale diverse da quelle dettate con legge costituzionale ai sensi del primo comma. La
legge ordinaria in materia attribuisce alla Corte il potere di disciplinare l’esercizio delle sue funzioni con
regolamento approvato a maggioranza dei suoi componenti e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, mentre,
per quanto riguarda il procedimento rinvia alle norme per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale in quanto applicabili, e attribuisce alla Corte il potere di stabilire norme integrative nel suo
regolamento, art. 22. La Costituzione non prevede riserve di legge sull’organizzazione e il funzionamento del
Consiglio Superiore della Magistratura, né della Presidenza della Repubblica, tranne che per l’assegno e la
dotazione del Presidente, art. 84, terzo comma.

Fonti delle autonomie territoriali


Secondo l’art. 5 Cost., “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi
che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” → questo articolo contempera i principi di unità e
indivisibilità della Repubblica e del pluralismo autonomistico. Il comportamento fra antinomia e unità è
fulcro dello Stato regionale, dove l’aggettivo qualifica lo Stato come forma di convenienza organizzata che
ammette la compresenza, a fianco dello Stato centrale, di altri enti dotati di poteri legislativi come le
Regioni. L’art. 5 differenzia “Repubblica” e “Stato”, intendendo con la prima l’ordinamento comprensivo di
enti territoriali, incluso lo Stato centrale, fra i quali deve svolgersi quel comportamento: l’articolo di ricollega
all’art. 114, primo comma, secondo cui “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Con l’art. 144, secondo comma, la Costituzione, oltre ad escludere
lo Stato dalla riserva di poteri autonomi, chiarisce che l’autonomia degli altri enti, di cui la Repubblica è
costituita, non importa parità di poteri e di funzioni di essi: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino Alto Adige/Sudtirol e la Valle d’Aosta dispongono di
forme e condizioni particolari di autonomia. Le regioni ad autonomia speciale, si differenziano da quelle ad
autonomia ordinaria per i fatto che i loro poteri risultano definiti da appositi distinti statuti, approvati con
legge costituzionale, fermo restando il contemperamento fra unità-indivisibilità della Repubblica e
autonomia prefigurato dall’art.5.

Statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria


L’art. 123, primo comma Cost., prevede che lo statuto delle Regioni ad autonomia ordinaria determini “la
forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” e regoli “l’esercizio del diritto di
iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei
regolamenti regionali”.
Il quarto comma prevede che lo statuto disciplini il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di
consultazione fra la Regione e gli enti locali. Gli oggetti che sono riportati costituiscono il contenuto
necessario dello statuto regionale e né la legge regionale, né la legge statale possono disciplinare tali
oggetti.
Nel suo procedimento di formazione, lo statuto si configura come una legge regionale rafforzata, non
modificabile da una qualsiasi legge regionale. Esso è approvato e modificato dal Consiglio regionale con
legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad
intervallo non minore di due mesi. Viene pubblicato a soli effetti notiziali ed entro 30 giorni da tale data il
Governo può promuovere questione di legittimità costituzionale dello statuto davanti alla Corte, mentre
entro 3 mesi dalla stessa data, un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei membri del
Consiglio regionale può proporre referendum. In tal caso lo statuto va approvato a maggioranza dei voti
valiti, per poter essere promulgato e pubblicato, art. 123, secondo e terzo comma.

Leggi regionali
La potestà legislativa costituisce il tratto caratterizzante delle Regioni. Tra gli enti territoriali autonomi, solo
le Regioni sono titolari di potestà legislativa. L’art. 117, primo comma, prevede “La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché nei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Il limite generale del rispetto della Costituzione significa due cose: la pari soggezione ad esso della
legislazione statale e regionale non esclude l’apposizione di limiti specifici tali da vincolare l’una o l’altra; e
che però la Costituzione può apporre, non anche la legge statale nei confronti della legislazione regionale.
I tre commi successivi dell’art. 117 sono dedicati al riparto di potestà legislativa fra Stato e Regioni .
L’articolo in questione elenca le materie oggetto di legislazione statale esclusiva e detta una clausola
residuale: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”. Dai commi di questo art. si ricavano l’impianto del riparto di attribuzioni legislative
dello Stato e delle Regioni e i dati necessari a collocare le leggi regionali fra le fonti normative:
1) Competenza legislativa esclusiva dello Stato su materie espressamente indicate in Costituzione;
2) Competenza legislativa ripartita fra Stato e Regioni su materie espressamente indicate in Costituzione;
3) Competenza legislativa esclusiva delle Regioni su tutte le materie non indicate nei punti 1 e 2.
Alcune materie riservate alla legislazione statale dall’art. 117, secondo comma, consistono in funzioni che
possono investire più materie indipendentemente dal riparto delle competenze Stato/Regioni. Si tratta di
materie trasversali, le quali potendo incidere sulla legislazione adottata a titolo residuale, impediscono di
considerare questa alla stregua di una competenza generale a legiferare. Se adottata a titolo residuale, la
legge regionale risulta fonte a competenza riservata, ero i limiti generali dell’art. 117, primo comma, e a
condizione di non interagire con materie trasversali. Quanto alla legge regionale adottata a titolo di
competenza ripartita o concorrente, la riserva di competenza è invece dimidiata, sia perché non opera
in riferimento all’intera materia ma all’ambito materiale non coperto dalla “determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”, art.117, terzo comma, sia perché tale determinazione
comporta una gerarchia di ordine contenutistico: la legge regionale non potrebbe disporre in difformità dai
principi fondamentali previsti dalla legge statale.
Alle Regioni ad autonomia differenziata, i rispettivi statuti speciali attribuiscono una potestà legislativa
esclusiva sulle materie ivi di volta in volta elencate. La riforma del Titolo V adottata con legge, costituzionale
n. 3 del 2001, ha ampliato i poteri legislativi delle Regioni: “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le
disposizioni della presente legge costituzionali si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province
autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già
attribuite”, art. 10. L’adeguamento degli statuti speciali si realizza tramite le norme di attuazione degli stessi.

Norme di attuazione degli statuti speciali


A differenza degli statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, quelli delle Regioni ad autonomia
differenziata, non sono adottati dai Consigli regionali, ma dal Parlamento con legge costituzionale, art. 116
Cost.. Se da una parte, la diversità di trattamento costituisce il massimo possibile di garanzia delle
autonomie sul piano formale, dall’altra fa si che proprio le Regioni cui è riservato si vedono preclusa la
possibilità di deliberare il proprio statuto. Il ricorso alla legge. Il ricorso alla legge costituzionale si spiega
anzitutto con ragioni storiche: gli statuti della Sicilia, Sardegna e Valle d’Aosta, furono approvati prima
dell’entrata in vigore della Costituzione, tramite accordi fra Stato e Regione e poi adottati con legge
costituzionale dell’Assemblea Costituente. Per consentire una partecipazione della Regione a statuto
speciale al procedimento di revisione dello stesso, la legge costituzionale n. 2 del 2001 ha operato una
sorta di “decostituzionalizzazione” della materia, prevedendo che le norme statutarie possano essere
modificate con legge regionale, ed escludendo che le future modifiche degli statuti speciali siano sottoposti
a referendum.
Mentre il trasferimento delle attribuzioni legislative ed amministrative dello Stato alle Regioni a statuto
ordinario è operato con legge dello Stato, quello riguardante le Regioni a statuto speciale è operato tramite
un procedimento sostanziale concertato fra lo Stato e la singola Regione. Gli statuti speciali dispongono
che le norme per la loro attuazione vengano adottate dal Governo previo parere di una Commissione
paritetica composta da rappresentanti nominati dal Governo e dalla Regione ed emanate con decreto del
Presidente della Repubblica. I decreti recanti le norme di attuazione degli statuti speciali sono qualificati atti
con forza di legge a competenza «separata e riservata», Corte costituzionale, sent. n. 180 del 1980. La
conseguente preclusione a leggi e atti equiparati di traferire attribuzioni alle Regioni a statuto speciale è
legittimamente disposta in deroga alla regola del divieto per il Governo di adottare atti aventi valore di legge
senza delegazione delle Camere, art. 77 Cost..

Statuti e regolamenti dei Comuni


Fu la legge di attuazione dell’art. 128, l. n. 142 del 1990 ad assegnare per la prima volta ai Comuni e alle
Province il potere di darsi propri statuti: essi stabiliscono le norme fondamentali di organizzazione dell’ente,
specificando le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e partecipazione delle minoranze, i modi di
esercizio di rappresentazione legale dell’ente, le forme di collaborazione fra comuni e province, della
partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti
amministrativi.
Dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, si ricavano tre indicazioni:
1. L’art. 114, secondo comma, Cost., riconosce l’autonomia degli enti territoriali che compongono la
Repubblica, diversi dallo Stato “con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi della Costituzione”;
2. Secondo l’art. 117, secondo comma, lettera p), la legislazione statale disciplina le funzioni dei Comuni,
Province e Città metropolitane, incidendo sulle norme fondamentali di organizzazione di tali enti;
3. L’art. 117, secondo comma, attribuisce ai predetti enti locali “potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
Questi sono gli elementi minimi necessari a collocare gli statuti di Comuni, Province e Città Metropolitane
nell’ambito delle fonti normative.
Gli statuti sono chiamati a disciplinare le regole generali sull’organizzazione degli enti in questione,
nell’esercizio di una potestà minima di autorganizzazione ad essi spettante: e se una legge statale potesse
disporre al riguardo al di fuori della disciplina delle funzioni, la disciplina cosi dettata dovrebbe arrestarsi di
fronte a quella prevista con regolamento locale, conforme alle regole generali sull’organizzazione disposte
dallo statuto e modificate dalla legge statale.

Statuti universitari
Secondo l’art. 33, ultimo comma, Cost., “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di
darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
Fino all’entrata in vigore della l. n. 168 del 1989, non soltanto la legislazione era padrona di quasi tutta la
materia corrispondente all’autorganizzazione delle Università, ma la devolveva spesso a regolamenti
governativi e ministeriali, in contrasto con il disposto costituzionale. Con l’attuazione dell’art. 33, la riforma
del 1989 ha prescritto invece che oltre agli statuti e ai regolamenti di ateneo, le università siano disciplinate
esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento, ed ha abrogato tutte le
disposizioni incompatibili, lasciando spazio alle fonti autonome, nei soli limiti procedurali e sostanziali da
essa dettati.
Più di recente, la l. n. 240 del 2010 è tornata ad occupare spazi normativi che la legge del 1989 aveva
attribuito all’autonomia statuaria delle Università, oltre a devolvere ambiti connessi alla ricerca universitaria
a decreti non aventi natura regolamentare del Ministro dell’istruzione e dell’università.
A queste oscillazioni legislative hanno corrisposto incertezze della dottrina. Il raccordo dell’autonomia
normativa delle Università, al principio di libertà scientifica e didattica, costituisce un presidio costituzionale
contro lo snaturamento della loro potestà statuaria, mentre il ricorso ad atti ministeriali di incerta
qualificazione, deve ritenersi contrastante con la riserva di legge fissata dall’art. 33, u.c..

Regolamenti delle Autorità indipendenti


La Costituzione tace delle Autorità indipendenti, istituite con legge in condizioni di indipendenza dal
Governo e dal Parlamento, e tace anche del potere regolamentare che le leggi hanno loro di volta in volta
attribuito. Quanto alla collocazione dei regolamenti delle Autorità indipendenti tra le fonti del diritto, occorre
premettere che le leggi istitutive delle singole Autorità, nel conferire loro i poteri normativi, stabiliscono
principi, standard o criteri ai quali tali regolamenti debbono uniformarsi. La formulazione legislativa è da tale
da lasciare in capo alle Autorità, una latitudine normativa che consente di derogare e sostituirsi a leggi ed
atti equiparati tramite organiche discipline. Le leggi istitutive presuppongono che le Autorità indipendenti,
senza esercitare un potere normativo, non potrebbero assolvere alle loro funzioni, volte al più efficace
perseguimento dei principi costituzionali.I regolamenti delle Autorità potrebbero essere paragonati ai
regolamenti di delegificazione. Quest’ultimi devono sottostare a norme generali regolatrici della materia
previamente stabilite con legge, visto il divieto per il Governo di adottare decreti aventi valore di legge senza
delegazione delle Camere e al di fuori dei casi straordinari di necessità ed urgenza, e del corrispondente
divieto per la legge di istituire fonti governative concorrenziali a se medesima. I regolamenti delle Autorità
indipendenti possono invece disciplinare le materie loro devolute dalla legge istitutiva della singola Autorità
sulla base di determinati standard e principi: qui la legge non è vincolata al divieto di istituire fonti
concorrenziali a sé medesima, e può dunque operare quale norma sulla normazione; nello stesso tempo, la
legge assegna così alla singola Autorità gli strumenti anche normativi indispensabili alla tutela di diritti e al
perseguimento dei principi costituzionali, a differenza di quanto può dirsi per i regolamenti in
delegificazione. Si può quindi ritenere che i regolamenti delle Autorità indipendenti formino oggetto di una
riserva di competenza, alla cui stregua la legge non potrebbe intervenire puntualmente negli ambiti loro
attribuiti. La legge potrebbe abrogarne le stesse leggi istitutive con una disciplina organica della materia, a
condizione di dimostrare la maggiore idoneità della disciplina così introdotta al perseguimento del principio
costituzionale in vista del quale l’Autorità era stata istituita. Finora gli effettivi andamenti della produzione
normativa lasciano intravedere una complessiva tenuta dei confini entro cui le aree di normazione delle
Autorità sono stati fissati dalle relative leggi istitutive. Quanto detto vale nella misura in cui la singola
Autorità indipendente sia chiamata a perseguire uno o più principi costituzionali.

Contratti collettivi di lavoro


L’art. 39 della Costituzione prevede un complesso meccanismo per consentire ai sindacati di “stipulare
contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie cui il contratto si
riferisce”. I contratti collettivi non possono ritenersi dotati di valore normativo. La Corte di cassazione ha
ritenuto che il contratto collettivo è rimasto un atto di natura negoziale e non normativo anche a seguito
della riforma del 2010 e vale l’avvertenza generale che il trattamento giurisdizionale degli atti normativi non
coincide necessariamente con la loro collocazione tra le fonti del diritto.

Capitolo 4 → Regolamenti governativi e ordinanze di necessità

Regolamenti Governativi
I regolamenti governativi sono stati a lungo considerati la fonte secondaria per eccellenza. La loro
subordinazione alla legge e agli atti equiparati alla legge, affermata dall’art. 4 delle preleggi, è stata
confermata dalla Costituzione, che limitandosi a provvedere che il Presidente della Repubblica “emana … i
regolamenti”, art. 87, quinto comma, ha lasciato alla legge il potere di dettarne il procedimento di
formazione.
inoltre, la Costituzione ha ridisegnato l’assetto dei rapporti fra legge e regolamento, vietando al Governo di
emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria al di fuori di leggi di delegazione delle Camere e
dell’autoassunzione da parte del Governo stesso del potere di adottare decreti legge, art. 77, primo e
secondo comma. La disciplina del procedimento di formazione e delle tipologie di regolamenti governativi è
rimasta a lungo stabilita da una legge, anteriore alla Costituzione, la l. n. 100 del 1926, che lasciava delle
incertezze sulla previsione nella legislazione ordinaria di regolamenti aventi forza legge, capaci di abrogare,
derogare o modificare leggi ed atti equiparati, e pertanto costituzionalmente inammissibili. Un riordino
generale della materia si ebbe con la l. n. 400 del 1988, che all’art. 17 regola il procedimento di formazione
dei regolamenti, e le relative tipologie.

Il riordino delle l. n. 400 del 1988


La legge prescrive, che sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro 45 giorni dalla
richiesta, il testo sia deliberato dal Consiglio dei Ministri, emanato dal Presidente della Repubblica,
sottoposto al visto ed alla registrazione della Corte dei conti e infine pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale. La medesima procedura è prevista per i decreti ministeriali e interministeriali. I regolamenti
ministeriali e interministeriali sono espressamente subordinati a quelli del Governo.
L’art. 17, primo comma, distingue fra tipologie di regolamento governativo a seconda che disciplinino:
a) l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei regolamenti comunitari;
b) l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi
quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;
c) le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge;
d) l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche.
Un’ulteriore tipologia, descritta dal secondo comma, è quella dei “regolamenti per la disciplina delle
materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della
Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme
generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con e ffetto dall’entrata in
vigore delle norme regolamentari”.
I regolamenti esecutivi e attuativi-integrativi non sono suscettibili di porre norme di grado primario e lo
stesso vale per i regolamenti di organizzazione.
I regolamenti in delegificazione, secondo l’art. 17, secondo comma, sulla base di una legge di
delegificazione, sostituiscono la disciplina da essi adottata a quella contenuta nella legge delegificata. A tal
fine la legge di delegificazione viene sottoposta a un limite generale, il divieto di disporre delegificazioni su
materie oggetto di riserve assolute di legge, e a due condizioni: che essa rechi le norme generali regolatrici
della materia, e che disponga l’abrogazione delle norme della legge delegificata, sottoposta alla condizione
dell’entrata in vigore del regolamento destinato a sostituirle. La previsione di tale limite e di tali condizioni
soddisfano i requisiti di ammissibilità costituzionale di questa categoria di regolamenti. Le leggi di
delegificazione sono ad efficacia differita per la stessa ragione per cui le leggi di delegazione non possono
abrogare norme anteriori. Solo le leggi di delegazione sono previste dalla Costituzione e possono intervenire
anche su materie coperte da riserva di legge assoluta, il che è inibito alle leggi di delegificazione.

Delegificazione e semplificazione
A parte la legge di delegificazione in ordine all’organizzazione e alla disciplina degli uffici dei Ministri si sono
avuti vari casi di rilegificazione di materie delegificate. A fini di semplificazione si è fatto ricorso ai testi unici,
ricorso che può mirare ad esigenze di sistemazione organica della materia.
I testi unici innovativi debbono assumere la forma di un decreto legislativo adottato sulla base di una
legge di delegazione. I testi unici compilativi si limitano a raccogliere testi normativi in un unico testo,
senza innovarvi e senza essere provvisti della forza di legge di cui quei testi dispongano.
L’art. 117 stabilisce che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva
delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”. Lo Stato non dispone di
potestà regolamentare nelle materie su cui legifera con norme di principio e nelle materie su cui legifera in
via esclusiva può delegarne alle Regioni l’esercizio.

Ordinanze di necessità
Il potere di adottare ordinanze di necessità viene attribuito dalla legge ordinaria al Governo, ai Prefetti o ai
Sindaci quali ufficiali del Governo, per provvedere a situazioni di necessità/urgenza anche in deroga alla
legge. La Corte costituzionale ha affermato che deroghe alla normativa primaria da parte di autorità
amministrative munite di potere di ordinanza sono consentite solo se temporalmente delimitate e ha
precisato che tali ordinanze anche se e quando normative, non sono ricomprese fra le fonti del nostro
ordinamento giuridico; non innovano al diritto oggettivo né sono equiparabili ad atti con forza di
legge, per il solo fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge; anche
quando dispongono di una generalità di soggetti e per una serie di casi possibili, ma sempre entro i limiti,
anche temporali, della concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare, sono provvedimenti
amministrativi, soggetti ai controlli giurisdizionali esperibili nei confronti di tutti gli atti amministrativi.
La Corte ha, dunque, escluso che le ordinanze di necessità possano ritenersi atti con forza di legge o anche
atti normativi di rango secondario, come i regolamenti governativi.
La l. n. 225 del 1992 prevede che il Consiglio dei Ministri possa dichiarare lo stato di emergenza nei casi di
“calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e
poteri straordinari”, determinando “durata ed estensione territoriale in riferimento alla qualità ed alla natura degli
eventi”, e che le ordinanze attuative “in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento giuridico” rechino apposita motivazione, nonché “l’indicazione delle principali norme a cui si
intende derogare”.

Capitolo 5 → Consuetudine
La cosiddette fonti-fatto Le cosiddette fonti-fatto
Alle fonti-atto i costituzionalisti affianco le fonti-fatto, prese in considerazione come fatti produttivi di diritto:
la consuetudine e le norme di ordinamenti ai quali una norma interna operi rinvio. Come visto per la
differenza tra atti e fatti giuridici, anche in questo caso, nel considerare il ‘fatto’, non si tiene conto della
volontà, dal momento che nella fonte-fatto non rileva la volontà del soggetto che abbia prodotto l’atto
normativo. La tesi tradizionale, invece di muovere dal fatto che tali fonti siano prodotte da soggetti diversi
da quelli previsti nella Costituzione, le qualifica un base al tratto comune dell’assenza di volontà. La
Costituzione, infatti, non sempre prevede direttamente i tipi di atti o di norme cui pure riconosce efficacia.

La consuetudine come espressione di autonomia della produzione normativa


La qualificazione della consuetudine come fonte-fatto muoveva dalla collocazione degli “usi”
all’ultimo grado del sistema delle fonti nell’art. 1 delle preleggi del 1942. Il procedimento di
formazione della consuetudine non trova disciplina analoga a quella delle fonti-atto; tuttavia la
consuetudine continua ad essere accettata tra le fonti del diritto, nonostante manchi questo
procedimento. La vera differenza tra la consuetudine e le fonti-atto non è tanto nell’assenza di
elemento della volontà (che comunque esiste, ma non rileva) quanto, invece, nel fatto che essa sia
espressione di autonomia della produzione normativa, anziché dell’eteronomia che caratterizza le fonti-
atto. Si parla di autonomia perché i soggetti che la producono ne sono allo stesso tempo destinatari.

I due elementi della consuetudine


In assenza di un procedimento previsto, come si può individuare una consuetudine?
Si riconosce da due elementi:
1. la convinzione condivisa fra i soggetti produttori della consuetudine circa la giuridicità di un certo
comportamento (opinio iuris seu necessitatis);
2. la sua ripetizione costante nel tempo (diuturnitas).
Tuttavia, il dibattito non è mai cessato. Per quanto riguarda il primo punto, sembra essere fondato su un
paradosso, dal momento che coloro che danno vita a un certo comportamento si baserebbero sull’errore di
ritenere esistente una norma che sono invece loro stessi a creare. Per quanto riguarda il secondo punto, la
ripetizione nel tempo presuppone che una consuetudine sia riconoscibile soltanto a posteriori.

Tipologie di consuetudine
Se gli elementi costitutivi della consuetudine sono quelli indicati, sono i diversi soggetti che possono
produrla a differenziare tale fonte in altrettante tipologie.
1. La consuetudine di diritto privato e di diritto commerciale: ovvero la categoria degli ‘usi’ nell’art. 4
delle preleggi;
2. La consuetudine internazionale: ad opera degli Stati e menzionata all’art. 10 Cost;
3. La consuetudine costituzionale: opera degli organi costituzionali, nel regolare reciproci rapporti, cui si
riconosce efficacia giuridica. Questo tipo di consuetudine può essere praeter o contra constitutionem.
Per riconoscere una consuetudine costituzionale quel che conta è la pacifica acquiescenza ad
essa da parte di organi costituzionali potenzialmente in grado di opporvisi.

Capitolo 6 → Fonti e norme di ordinamenti richiamati da quello nazionale

Premessa
Nel caso di un atto normativo o norma di un ordinamento estraneo richiamato da quello nazionale
e abilitato a dispiegare efficacia diretta sul suo territorio senza legge di adattamento, a differenza della
consuetudine, è certo che venga individuato come fonte. A parte la presupposizione, con cui un
ordinamento si limita a riconoscere nel proprio ambito certe situazioni (es. lo status di un cittadino), il rinvio
ad altro ordinamento può riguardare o singole norme (rinvio ‘recettizio’) o una fonte (‘mobile’). Si tratta delle
norme contenute nelle preleggi al codice civile, modificate con l. n. 218 del 1995, intitolata “Riforma del
sistema italiano di diritto internazionale privato”, che disciplinano l’applicazione della legge quando i soggetti o
i beni coinvolti in una controversia giurisdizionale siano collegati a ordinamenti giuridici diversi.
Nel caso di controversia in cui siano collegato ordinamenti diversi, il giudice italiano dovrà applicare la
legge dello Stato straniero se la legge italiana operi un rinvio ad essa, perché ciò che conta è
l’individuazione della legge ritenuta applicabile. Le norme di diritto internazionale privato sono dette “regole
di collisione” perché sono volte a regolare conflitti fra leggi adottate da diversi ordinamenti.

Diritto internazionale generale


Secondo l’art. 10 Cost., “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute”, si tratta di norme riconosciute dagli Stati in via consuetudinaria, ovvero delle
consuetudini internazionali, che costituiscono, insieme ai trattati, le fonti più importanti del diritto
internazionale. La Costituzione vuole dire che, affinché ciascuna di tali consuetudini possa dispiegare
effetti, è sufficiente che si sia formata con il consenso generale degli Stati e venga riconosciuta dai giudici,
senza bisogno di un adattamento dal diritto interno, cosa che accade invece per i trattati. Vi è dunque un
adattamento automatico. Secondo la Corte Costituzionale, è giusto ritenere che le consuetudini
internazionali prevalgano sulle norme prodotte da fonti interne, perché non si tratti dei princìpi supremi
dell’ordinamento, nei confronti dei quali devono sempre essere conformi.

Diritto internazionale posto da trattati


La Costituzione, nonostante la grande apertura alla comunità internazionale, ha accolto
l’impostazione dualistica dei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, rigettando quella monistica
volta ad affermare la supremazia del primo sul secondo. Essa infatti li concepisci non solo come
giuridicamente distinti ma anche fra loro coordinati da norme interne. Ecco perché, a differenza delle
consuetudini, i trattati internazionali richiedono l’adattamento al diritto interno, come afferma l’art. 80
Cost.. Essi non hanno dunque l’efficacia diretta che caratterizza il diritto internazionale privato e d.i.
generale. Nel caso di antinomia tra legge di esecuzione di un trattato internazionale e legge nazionale vi è
la conseguente applicazione del criterio cronologico. L’art. 117 che sostiene che “La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché nei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali”, ha posto la questione se la locuzione “obblighi internazionali” si
riferisca al solo diritto internazionale generale o debba intendersi a quello pattizio, con la conseguenza di
dover ritenere invalide leggi nazionali successive a leggi di esecuzione dei trattati internazionali con le
stesse confliggenti. Chiamata a giudicare della legittimità costituzionale di una legge contrastante con la
legge di esecuzione della CEDU, la Corte costituzionale ha affermato che il «nuovo testo dell’art.117, primo
comma, Cost., se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU
rispetto alle leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte,
poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla
rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. La
legge di esecuzione della CEDU è stata pertanto configurata quale norma interposta fra l’art. 117 e la legge
nazionale con essa eventualmente confliggente, così integrando il parametro costituzionale dell’art. 117, in
ogni giudizio di legittimità relativo a tale legge, secondo uno schema utilizzato in riferimento alle leggi di
delegazione nei giudizi di legittimità sui relativi decreti legislativi attuativi. Ciò vale per la legge di esecuzione
di qualsiasi trattato internazionale.

Diritto dell’Unione Europea


L’Ue è stata istituita dal Trattato di Maastricht del 1993 fra i 15 Stati membri della Comunità economica
europea (CEE). Quest’ultima fu istituita dal Trattato di Roma (1957) fra sei Stati dell’Europa occidentale
(Italia, Francia, Germania Federale, Olanda, Belgio e Lussemburgo) cui successivamente se ne associarono
altri, con la finalità di creare un mercato comune. Allo scopo, il Trattato di Roma prevedeva già un proprio
sistema delle fonti, fra queste le direttive che vincolano lo Stato solo al «risultato da raggiungere»,
lasciandolo libero di scegliere le modalità formali e di contenuto per conseguirlo e i regolamenti, atti di
portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili sul territorio degli Stati membri,
senza richiedere alcuna legge o altro atto interno per attuarli.

Norme direttamente applicabili


Il primo problema fu quello dei conflitti fra il diritto comunitario direttamente applicabile e le leggi nazionali
successive con esso incompatibili.
Il diritto comunitario (poi diritto dell’UE) direttamente applicabile negli Stati membri, presenta peculiarità
strutturali e funzionali nel complesso irriducibili alle fonti nazionali e a quelle di diritto internazionale,
essendo frutto di fonti:
a) a produzione normativa continuativa come le leggi nazionali;
b) adottate dagli Stati membri tramite i rispettivi rappresentanti riuniti in Consiglio dei Ministri della CE, a
differenza delle leggi nazionali;
c) dotate di effetto diretto sul territorio degli Stati membri come le leggi nazionali.
Da una parte si tratta di fonti di un ordinamento formale distinto da quello nazionale, e la validità delle cui
norme è controllata da propri organi; dall’altro si tratta di fonti la cui deliberazione richiede il consenso
necessario del Governo nazionale. Si tratta, inoltre, di fonti applicabili sul territorio degli Stati membri e da
parte dei loro organi o prive di qualsiasi efficacia, dal momento che l’Unione è dotata di apparati chiamati di
regola non ad applicare tale diritto ma a valutare sotto vari profili e fini se e come gli organi nazionali lo
abbiano applicato. Per tutte queste ragioni se ne parla come di un ordinamento sovranazionale.

L’inquadramento costituzionale del diritto dell’UE


I problemi che si ponevano erano due. Il problema del fondamento costituzionale dell’adesione alla
Comunità, dal momento che il Trattato di Roma era stato reso esecutivo in Italia con legge ordinaria, e il
problema del rapporto del diritto comunitario direttamente applicabile con diritto nazionale con esso
confliggente.
Il primo problema fu risolto rinvenendo il fondamento dell’adesione alla Comunità nell’art. 11 della
Costituzione che prevede che l’Italia “Consente, in parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie
ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo”.
Il problema del rapporto del diritto comunitario direttamente applicabile con diritto nazionale fu affrontato
alla luce del medesimo articolo riguardato in riferimento al significato e alla portata di tali limitazioni. La
sent. n. 170 del 1984, comportava una reinterpretazione dell’art. 11. La Corte vi leggeva la soluzione di un
conflitto non più fra norme di uno stesso ordinamento, come aveva fatto fino ad allora prospettando il
conflitto in termini di antinomie, ma fra norme di ordinamenti “autonomi e distinti e coordinati”, diversi l’uno
dall’altro. Il consenso alle limitazioni di sovranità non risolveva il conflitto sul piano della validità, quindi in
una dimensione interna, né rimetteva la soluzione ai trattati europei, come aveva fatto la Corte di giustizia
nel momento in cui aveva parlato di rinuncia alla sovranità da parte degli Stati membri per giustificare il
primato del diritto comunitario sul diritto interno. Il consenso alle limitazioni di sovranità presupponeva
piuttosto un potere di coordinamento unilaterale dello Stato,, col quale esso si impegnava per un verso a
riconoscere al proprio interno l’efficacia delle norme dell’ordinamento comunitario che quest’ultimo avesse
dotato, secondo la propria “sovrana” valutazione, e per l’altro a rendere inefficaci le norme che
confliggessero con le prime. L’art. 11 per un verso avrebbe confermato l’esclusiva potestà di normazione
sulla normazione della Costituzione, e per l’altro avrebbe provveduto, con la proposizione «limitazioni di
sovranità» a un’autolimitazione di tale potestà, condizionata al rispetto dei requisiti ivi elencati: parità con gli
altri Stati, e obiettivi di pace e giustizia tra le nazioni dell’ordinamento nei cui confronti procedere
all’autolimitazione tramite coordinamento unilaterale. La Corte costituzionale accettava che i giudici
nazionali applicassero il diritto comunitario a scapito di quello nazionale senza accettarne le tesi di
“rinuncia” della sovranità dello Stato.

I mutamenti più recenti


Nel sessantennio intercorso dal Trattato di Roma, la Comunità (e poi l’Unione) ha mantenuto i suoi tratti
strutturali, alcuni dei quali impediscono l’assimilazione dei trattati europei al testo di una costituzione, per il
cui procedimento di revisione è sempre richiesta una maggioranza aggravata, ma non l’unanimità, e dove
non è mai previsto il recesso dello Stato membro.

Capitolo 7 → Produzione e interpretazione del diritto

Il ruolo cruciale dell’interpretazione giudiziale e i suoi margini di libertà


Parlando di consuetudine si è notato come il ruolo degli interpreti sia cruciale per verificare fino a che punto
la consuetudine sia da intendersi come integrativa degli enunciati costituzionali. Parlando del diritto
prodotto da ordinamenti richiamati dalla Costituzione si è visto come il contributo degli interpreti sia
imprescindibile per comprendere l’assetto e l’evoluzione dei rapporti tra la produzione normativa
riconducibile a quegli ordinamenti e le fonti nazionali. In passato l’interpretazione giudiziale presentava
spazi consistenti di libertà, anche quando i giuspubblicisti ritenevano che perfino il ricorso a
un’interpretazione dei testi normativi attenta al mutare dei tempi (interpretazione evolutiva) configurasse
un’inammissibile invadenza dei giudici nel terreno della discrezionalità legislativa, in linea con i rigidi binari
fissati dalle Preleggi del 1942. Per legge il giudice doveva attenersi al canone letterale e dell’intenzione del
legislatore. La Costituzione ha modificato i termini del problema della libertà interpretativa, anche dei giudici
comuni. Il rispetto dei principi costituzionali può imporre ai giudici di andare oltre quei canoni, con una
corrispondente ammissione di margini di libertà interpretativa.

I confini fra interpretazione e produzione del diritto


Bisogna chiedersi se l’ammissione equivalga ad annoverare il diritto giurisprudenziale tra le fonti del diritto e
quindi a mettere da parte ogni confine fra produzione e interpretazione del diritto. Il termine “fonte del
diritto” serve a designare la creazione del diritto. Perché ammessa la possibile libertà interpretativa dei
giudici, il diritto giurisprudenziale non potrebbe essere qualificato come fonte del diritto. La ragione per non
ammetterla risiede nei tratti che distinguono la funzione giurisdizionale da quella legislativa. La sentenza è
l’esito di un procedimento che esibisce determinati vincoli strumentali: divieto di procedere d’ufficio o
principio della domanda; principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato; divieto di trattare questioni
nelle quali il giudice sia parte in causa; obbligo per il giudice di pronunciarsi sulla questione sottopostagli;
principio del contraddittorio; obbligo di motivare la decisione. La legge è l’esito di un procedimento che
presenta caratteristiche si segno opposto. Secondo la Costituzione o i regolamenti delle due Camere, il
procedimento legislativo: è avviato liberamente dai titolari dell’iniziativa legislativa in base a valutazioni di
opportunità politica rimesse a costoro; i progetti di legge sono emendabili; il Parlamento può non dare
ulteriore corso all’esame di un progetto di legge; il Parlamento può trattare di questioni nelle quali i
parlamentari sono parti in causa; le leggi non debbono essere motivate. I limiti all’attività giurisdizionale
rimangono limiti di ordine procedurale, mentre l’eventuale libertà di interpretazione di un certo testo
normativo, quale dispiegata in motivazione, ha riguardo al contenuto della decisione.

PARTE SECONDA

Capitolo 1 → Sovranità popolare, pluralismo, separazione dei poteri

Una democrazia pluralista


Si è detto che l’organizzazione dello Stato costituzionale si distingue da quella dello Stato liberale per il
carattere pluralista della democrazia e per il rafforzamento e l’espansione delle garanzie nei confronti
degli atti dei pubblici poteri.
Una democrazia si definisce pluralista quando:
• I titolari degli organi costituzionali abilitati a compiere scelte politiche sono legittimati a tale
scopo dai cittadini-elettori attraverso il voto;
• I circuiti istituzionali nei quali si compiano scelte sono diversificati;
• Ai cittadini è garantita la libertà di associarsi in modo da favorirne la maggior partecipazione possibile.
Da questi caratteri si desumono due conseguenze: la prima, che la democrazia richiede la
predisposizione di procedure tramite le quali i cittadini-elettori designano i titolari di organi costituzionali
abilitati a compiere scelte politiche; la seconda, le componenti della democrazia pluralista- che sono il
suffragio universale, la pluralità dei centri di decisione politica e la libertà di associazione- non sono
apposte l’una sull’altra ma collegate, dal momento che consistono nel riferire il suffragio universale a
una pluralità di sedi istituzionali e da predisporre strumenti che garantiscano il libero voto e circolazione di
idee.

Il principio di sovranità popolare


La premessa spiega allora l’art. 1 della Costituzione che dopo aver dichiarato che “L’Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro” aggiunge che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione”.
Fu indispensabile per l’Assemblea del ’48 sancire il principio di sovranità popolare, il problema ci fu nel
come formularlo. Nell’iniziale progetto di Costituzione si affermava “la sovranità emana dal popolo”, formula
che apparve ambigua all’Assemblea perché poteva sembrare che, una volta emanato dal popolo, il potere
poi spettasse ad altri soggetti. L’utilizzo del verbo appartiene sottolinea dunque l’intento di sottolineare la
permanenza in capo al popolo del potere sovrano. Risulta evidente il collegamento dell’art.1 all’art. 48 che
sancisce il suffragio universale “a tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggior età”. Inoltre, in
base all’art. 1, il popolo non è un’entità mistica e indefinibile, ma si definisce attraverso le forme e i limiti in
cui esercita il potere di cui è titolare.

Forme e limiti interni all’esercizio della sovranità popolare


Il principio democratico si estrinseca in istituti di democrazia rappresentativa e democrazia diretta.
• Democrazia rappresentativa. Tramite questo istituto, i cittadini eleggono i loro rappresentanti al
Parlamento nazionale, ai consigli regionali e degli altri enti territoriali autonomi. Da cui l’elezione
della Camera dei deputati (art. 56) a suffragio universale e del Senato (artt. 58 e 59). La qualifica del
parlamentare come “rappresentante della nazione” che, secondo l’art. 67, “esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato” sancisce il divieto di mandato imperativo, ponendo agli elettori il limite di non poter
revocare gli eletti in corso di mandato. (grande differenza tra d. rappresentativa e d.diretta). Inoltre, la
stessa designazione dei candidati alle elezioni non è operata dai cittadini, bensì dai partiti politici;
• Per quanto riguarda la democrazia diretta i cittadini sono chiamati ad esercitare la loro sovranità tramite
l’iniziativa legislativa di 50mila elettori di un progetto redatto in articoli, la petizione alle Camere per
chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità, e soprattutto il referendum per
l’abrogazione o l’approvazione di leggi. Gli istituti richiamati possono definirsi “di democrazia diretta” solo
in quanto gli elettori vi vengono chiamati a votare direttamente su un certo oggetto anziché all’elezione
dei loro rappresentanti. In sede referendaria gli elettori sono chiamati a rispondere a una domanda e i
soggetti abilitati a formularla condizionano l’esito della consultazione.
Ulteriori forme di esercizio della sovranità popolare si desumono dall’impianto autonomistico della
Repubblica, così come designato dagli artt. 5 e 114 della Costituzione. Le forme e i modi nei quali la
sovranità del popolo può svolgersi non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura
costituzionale, compresi il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali, previsti dall’art. 5. La
Costituzione non concepisce il popolo come unità indifferenziata, ma quale collettività di cittadini chiamati
all’agire politico in una pluralità di sedi, senza stabilire fra di esse una gerarchizzazione.
Limiti esterni all’esercizio della sovranità popolare e rivisitazione del principio di separazione dei
poteri
La Costituzione ha accolto la separazione dei poteri quale principio volto ad impedire un’accumulazione di
potere in capo a un solo organo.
- Nel caso del potere giudiziario, la separazione dei poteri si esprime sotto forma di un «ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere», per quanto riguarda le funzioni si sostiene che “i giudici sono soggetti
soltanto alla legge”, che significa che i giudici non sono soggetti ad altri poteri o organi ma soltanto alla
legge in quanto atto normativo.
Diverso è il caso dei rapporti tra potere legislativo ed esecutivo. Per quanto riguarda la funzione di
produzione normativa la separazione dei poteri corrisponde alla separazione delle funzioni. Per la funzione
di indirizzo politico il Governo non può entrare nell’esercizio delle proprie funzioni né restare in carica se non
gode della fiducia della maggioranza parlamentare.
- Pertanto nei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, il principio di separazione dei poteri opera
in misura più attenuata che nei rapporti fra giudici ed organi investiti di poteri di indirizzo politico attivo.
La rinnovata versione della separazione dei poteri accolta dalla Costituzione prevede organi costituzionali
che non rientrano nella classica tripartizione dei poteri. Non vi rientra il Presidente della Repubblica, né la
Corte costituzionale (non rientra nell’ambito del potere giudiziario).
Le funzioni che i due organi sono chiamati ad esercitare a garanzia dell’ordinamento repubblicano non
rientrano fra quelle rispettivamente ricollegate, a ciascuno dei tre poteri. Mentre per la Corte si tratta della
garanzia giurisdizionale della Costituzione, il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale ed è
a tale funzione che si riconducono tutte le altre a lui intestate, in particolare quelle di raccordo fra gli altri
organi costituzionali.

Capitolo 2 → Sistemi elettorali, partiti politici, status dei parlamenti

Sistemi elettorali e democrazia


Per comporre qualsiasi assemblea rappresentativa occorre che i voti degli elettori si traducano in seggi.
L’elettore assegna il voto a una delle liste che gli vengono presentate, e la cui formazione è di regola opera
dei partiti politici in qualsiasi ordinamento democratico, anche quando la legislazione non lo preveda
espressamente o lo preveda senza riservare in esclusiva ai partiti tale compito. La sede di computo dei voti
è detta collegio, che può essere uninominale quando il seggio in palio è uno solo o plurinominale quando
i seggi in palio sono più di uno. La traduzione dei voti non è mai automatica, occorre ricorrere sempre a un
sistema di traduzione di voti in seggi, detto sistema elettorale. La scelta del sistema elettorale costituisce
una delle condizioni fondamentali del funzionamento di ogni democrazia. La scelta del sistema elettorale
non è quasi mai compiuta in una Costituzione, al fine di evitare un irrigidimento della relativa disciplina,
ritenuto eccessivo. Il sistema elettorale è stabilito con legge ordinaria, col risultato che,, formalmente, è la
maggioranza parlamentare a poterne disporre.

Tipologie di sistemi elettorali


Tra le grandi famiglie di sistemi elettorali, il sistema proporzionale è così denominato perché i seggi a
disposizione in collegi (plurinominali) vengono assegnati proporzionalmente ai voti ricevuti fra liste
concorrenti, col risultato che la distribuzione di voti in seggi risulterà proporzionale pure sull’intero territorio
nazionale. È un sistema più rappresentativo del sistema maggioritario.
Col sistema maggioritario, ogni seggio è assegnato alla lista che ha preso il maggior numero di voti in
ogni collegio (uninominale). Ciò distorce le espressioni del voto, non solo perché le altre liste che nel
collegio hanno ottenuto voti non ottengono seggi, ma soprattutto perché svolgendosi la distribuzione dei
voti in seggi solo nel collegio, può accadere che un partito che abbia raggiunto la maggioranza dei voti
sull’intero territorio nazionale può non raggiungere la maggioranza dei seggi. Il sistema favorisce la
possibilità che in Parlamento si formi una maggioranza.
L’esperienza del funzionamento delle democrazie europee nell’arco di un secolo ha convinto gli studiosi del
peso cruciale degli effetti che i sistemi elettorali possono produrre in termini di grado di distorsione delle
scelte espresse dagli elettori, alla luce di una serie di variabili e correttivi alle stesse formule elettorali. Così,
una formula maggioritaria può produrre effetti più proporzionali di una formula proporzionale e viceversa.
Occorre dunque fare riferimento alle variabili e ai correttivi che possono riguardare tali formule.
Formula proporzionale. Le principali variabili connesse alla formula elettorale proporzionale possono
individuarsi in:
a) sede di traduzione dei voti in seggi;
b) dimensione dei collegi;
c) modalità di assegnazione dei resti;
d) metodo di ripartire i voti in seggi;
e) eventuale previsione di clausole di sbarramento;
f) eventuale previsione di premi di maggioranza.

a) La scelta della sede nella quale tradurre i voti in seggi condiziona il rendimento del sistema proporzionale.
La scelta della sede nazionale caratterizza il sistema per una maggiore proiettività rispetto all’ipotesi in cui i
voti vengano tradotti in seggi in ambito circoscrizionale, e rende irrilevante la scelta concernente la
dimensione dei collegi. Una volta compiuta l’operazione di traduzione dei voti in seggi a livello nazionale, si
tratterà di ripartire i seggi ottenuti in ambito circoscrizionale.
b) la dimensione dei collegi è una variabile fondamentale ai fini della valutazione degli effetti del sistema
proporzionale. Minore è il numero di seggi in palio in un collegio plurinominale, maggiore sarà la
disrappresentatività del sistema elettorale e quindi l’effetto maggioritario.
c) il mancato calcolo dei resti in un collegio unico ottenuti dalle liste in ciascun collegio è un’altra limitazione
apportata al sistema proporzionale, il cui effetto maggioritario risulta tanto più significativo quanto più
ridotto è il numero dei seggi a disposizione nei singoli collegi;
d) i più importanti metodi di ripartizione dei voti in seggi sono i metodi del quoziente e del divisore. Il
quoziente naturale è ottenuto dividendo il numero dei voti ottenuti da tutte le liste nel collegio per il numero
dei seggi da assegnare. Non riuscendo di solito ad assegnare tutti i seggi, in quanto troppo elevato, il
quoziente naturale viene corretto tramite un aumento del numeratore, cioè del numero di seggi da
assegnare, così da facilitare il raggiungimento del quoziente; i seggi non ancora assegnati sulla base di
questo metodo possono venire attribuiti, in sede di collegio ovvero in sede nazionale, alle liste che abbiano i
più alti resti. Il metodo del divisore consiste nel suddividere il numero dei voti ottenuto da ogni lista per una
serie di numeri, onde rinvenire il comune divisore, cioè il minimo dei voti necessario per avere diritto a un
seggio. È considerato il metodo migliore;
e) la clausola di sbarramento preclude la possibilità di ottenere seggi alle liste che abbiano ottenuto a livello
nazionale una percentuale di voti inferiore a una soglia oscillante fra il 2 e il 5% : al di sotto del 2% la
clausola non sarebbe efficace, e al di sopra del 5% rischierebbe di pregiudicare la rappresentatività e la
stessa democraticità del sistema elettorale. Si riduce così la frammentarietà del sistema politico;
f) il premio di maggioranza è l’attribuzione alla lista o alla coalizione di liste che abbia ottenuto la
maggioranza dei voti in un numero di seggi tale da garantirle comunque la maggioranza assoluta dei seggi.
Formula maggioritaria. La regola per cui il seggio in palio in un collegio uninominale è assegnato al
candidato della lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti di presta a due varianti, a seconda che la
legge richieda maggioranza relativa o assoluta. Nel primo caso, perché un candidato ottenga il seggio, è
sufficiente che abbia ottenuto il maggior numero di voti rispetto ai candidati delle altre liste. Nel secondo
caso, perché un candidato ottenga il seggio, è necessario che abbia ottenuto almeno la metà più uno dei
voti espressi nel collegio, e poiché l’evenienza è molto rara, occorre un secondo turno di voto, in cui gli
elettori, convocati dopo due settimane, sono chiamati a scegliere una delle liste meglio piazzate o una delle
liste che abbiano superato una certa soglia di voti. L’effetto maggioritario prodotto dal doppio turno
consiste nel ridurre la frammentazione tramite la restrizione imposta dall’accesso al secondo turno, senza
annullare le identità dei partiti maggiori che rispettivamente li compongono.
Sistemi misti. Nei sistemi misti, gli elementi correttivi apportati alla formula base prescelta consistono
nell’assegnare una quota più o meno ampia di seggi con la formula opposta. Non è detto che la correzione
comporti corrispondenti effetti maggioritari o proporzionali, che dipendono anche da se le variabili prima
segnalate, e quali, siano state introdotte.

Modalità di selezione degli eletti da parte degli elettori


Se il sistema maggioritario è organizzato in collegi uninominali, per cui il voto è attribuito al candidato di una
certa lista, nel sistema proporzionale il voto è attribuito alla lista: e a tale riguardo la legge elettorale può
prevedere che gli elettori esprimano le proprie preferenze ad uno o più candidati della lista prescelta
(sistema delle preferenze) oppure no (lista bloccata). Le modalità di scelta degli eletti vanno tenute
presenti al fine di valutare la capacità degli elettori di incidere nella scelta degli eletti, e quindi la
democraticità del sistema di selezione dei rappresentanti. Il sistema maggioritario consente di conseguire
questi obiettivi. Quali che siano il sistema e la legge elettorale, ciò che più conta è la designazione dei
candidati, che sta a monte delle elezioni e spetta ai soggetti che presentano la lista, i partiti politici nella
gran parte dei casi. Occorre verificare se la legislazione preveda una procedura di designazione dei
candidati cui partecipano iscritti e/o elettori, e come la procedura sia organizzata.

Limiti costituzionali alle leggi per il rinnovo delle Camere


La Costituzione rimette alla legge ordinaria la scelta del sistema elettorale che però incontra nell’art. 48
Cost, il limite del principio di uguaglianza del voto. Il limite riguarda la predeterminazione di condizioni che
comportino risultati elettorali tali da violare l’eguaglianza del voto. La Costituzione prevede un numero fisso
di membri elettivi delle Camere, 630 deputati e 315 senatori, che al fine di garantire il diritto di voto degli
italiani all’estero ha previsto una “circoscrizione Estero” in ciascuna Camera, nel cui ambito vengono eletti
12 deputati e 6 senatori. Infine la Costituzione impone un limite specifico alla legge elettorale del Senato,
che secondo l’art. 57 “è eletto su base regionale”, deve essere composto in modo che nessuna Regione abbia
meno di 7 senatori, tranne il Molise e la Valle d’Aosta, e in modo che l’assegnazione dei seggi avvenga in
proporzione alla loro popolazione. L’assegnazione di 7 senatori a tutte le Regioni fa si che, dei 309 senatori
da eleggere sul territorio nazionale, poco meno della metà vadano ripartiti fra le Regioni nel rispetto di tale
esigenza.

Evoluzione della legislazione per il rinnovo delle Camere


L’evoluzione della legislazione elettorale per il rinnovo delle Camere, può distinguersi in 5 fasi. Nella prima
fase (1948-1993) il sistema elettorale era di tipo proporzionale puro, cioè non provvisto di correttivi, per
ambedue le assemblee. Quello del Senato si basava su collegi uninominali, dove l’ottenimento del seggio
richiedeva la maggioranza del 65% dei voti validi e ove tale percentuale non venisse raggiunta su un calcolo
dei voti raggiunti da ciascuna lista nella circoscrizione elettorale, coincidente col territorio regionale.
La seconda fase (1993-2005) fu avviata con l’approvazione da parte del corpo elettorale di un referendum
per l’abrogazione dell’appena citata disposizione della legge elettorale del Senato limitatamente alle parole
“del 65%” con la conseguenza di lasciare in vigore le parole “della maggioranza dei voti validi”. La
disposizione residua fu la base di partenza per l’approvazione di un nuovo sistema elettorale tanto per la
Camera quanto per il Senato, fondato in ambedue i casi sull’assegnazione del 75% dei seggi secondo il
sistema maggioritario a turno unico, e del restante 25% secondo il sistema proporzionale con una soglia di
sbarramento del 4%. Col meccanismo delle liste bloccate.
Nella terza fase (2005-2014) fu in vigore la l. n. 270 del 2005, che introdusse un sistema proporzionale
corretto da soglie di sbarramento nonché da un premio in seggi per la lista o per la coalizione di liste che
avesse riportato la maggioranza relativa dei voti e tale da assicurare alla Camera 340 seggi, e al Senato tale
da raggiungere il 55% dei seggi assegnati a ciascuna regione. La legge non prevedeva soglie minime per
accedere al premio, con la conseguenza che, se una lista o coalizione di liste avesse riportato una
maggioranza relativa, ma molto bassa rispetto alla totalità dei votanti poteva aggiudicarsi 340 seggi, con
un’arbitrarietà palesemente in contrasto col principio di eguaglianza del voto. Inoltre, la previsione che al
Senato il premio di maggioranza fosse assegnato in sede regionale presupponeva contraddittoriamente che
il correttivo a un sistema proporzionale riferito all’ambito nazionale potesse circoscriversi all’ambito
regionale: potendo il premio essere assegnato ad una o ad un’altra lista o coalizione di liste a seconda dei
risultati ottenuti in ciascuna regione, il risultato complessivo poteva non avvantaggiarne nessuna a livello
nazionale. Col meccanismo delle liste bloccate gli elettori venivano poi privati di ogni possibilità di orientare
il loro voro anche sulla base della conoscenza dei candidati.
Per tutte queste ragioni, la sent. n.1 del 2014 dichiarò l’illegittimità costituzionale della legge, precisando
che la sua decisione consentiva di procedere al rinnovo di ambedue le Camere con un sistema elettorale
proporzionale «depurato dall’attribuzione del premio di maggioranza».
La quarta fase (dal 2015 al 2017) fu avviata dall’approvazione della l. n. 52 del 2015, di riforma del sistema
elettorale della sola Camera dei deputati. La legge reintroduceva un premio di maggioranza tale da
consentire il raggiungimento di 340 seggi, ma riservato alla lista che avesse ottenuto almeno il 40% dei voti
validi: ove nessuna lista lo avesse raggiunto, sarebbe stato indetto un turno di ballottaggio fra le due liste
meglio piazzate senza prevederne apparentamenti con altre, con assegnazione del premio alla lista
vincitrice. Veniva nel frattempo presentato un disegno di legge costituzionale volto a trasformare il Senato in
un’assemblea rappresentativa delle autonomie territoriali e approvato in seconda deliberazione a
maggioranza assoluta dai membri di ciascuna Camera. Con sen. n. 35 del 2017 la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge elettorale del 2015 nella parte in cui introduceva il turno di
ballottaggio, sulla premessa che fosse «costruito come una prosecuzione del primo», potendovi accedere
liste che avessero ottenuto un consenso anche esiguo, senza possibilità di apparentamenti con altre. La
legge del 2015 rimaneva in vigore limitatamente alle previsioni relative all’assegnazione dei seggi al primo
turno, con la conseguenza che il mancato raggiungimento della soglia del 40% da parte di una qualsiasi
lista avrebbe comportato una distribuzione dei seggi esclusivamente su base proporzionale. La motivazione
della sent. del 2017 si concludeva con l’avvertenza che «l’esito del referendum ex art. 138 Cost. del 4
dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizioni e funzioni delle due
Camere elettive.
La quinta fase è stata avviata dalla l. n. 165 del 2017. La legge prevede per ambedue le Camere un
sistema elettorale misto, che segna un ritorno alla seconda fase della legislazione elettorale, pur se con un
dosaggio invertito e con qualche differenza. Il sistema è per il 36% maggioritario, con assegnazione del
seggio al candidato della lista o della coalizione di liste che abbia ottenuto il maggior numero di voti, e per il
64% con distribuzione proporzionale dei seggi fra le liste o le coalizioni che presentino un elenco di
candidati, senza possibilità per l’elettore di esprimere preferenze, nelle 20 circoscrizioni del Senato e nelle
48 circoscrizioni della Camera. L’elettore ha a disposizione una scheda per la Camera e una per il Senato e,
per la quota di seggi da distribuire con sistema maggioritario, non può esprimere un voto per il candidato di
una lista o di una coalizione di liste diversa da quella relativa alla quota di seggi da distribuire con sistema
proporzionale e viceversa. Per ogni lista è previsto il raggiungimento di una soglia minima del 3% di voti a
livello nazionale per ottenere seggi, e una soglia minima del 10% per ogni coalizione. I voti delle liste
partecipanti a una coalizione che abbiano ottenuto una percentuale di voti compresa fra l’1 e il 3% vengono
assegnati alla coalizione, mentre quelli inferiori all’1% non vengono conteggiati ai fini della traduzione in
seggi.

La disciplina della comunicazione nelle campagne elettorali dei candidati


La regolamentazione dell’accesso alle comunicazioni di massa nelle campagne per le elezioni nazionali,
europee, regionali e locali e per i referendum è contenuta nella l. n. 28 del 2000, ispirata al principio della
parità di trattamento e di chances tra i partiti (par condicio). La legge distingue la «comunicazione
politica», basata sul confronto fra posizioni politiche attraverso dibattiti, tribune politiche, tavole rotonde, dai
«messaggi politici autogestiti», consistenti nella «motivata esposizione di un programma e di un’opinione
politica» da parte di una singola forza politica, sottoponendo tali modalità espressive a diverse discipline e
controlli, cui sono preposte la Commissione parlamentare bicamerale di vigilanza per quanto riguarda
l’emittente pubblica e l’Autorità di garanzia sulle comunicazioni per le emittenti televisive private.
Nel disciplinare le spese elettorali sostenute dai candidati ad elezioni nazionali, europee, regionali e locali, la
l. n. 515 del 1993 prevede che ciascun candidato nomini un mandatario incaricato in via esclusiva di
raccogliere i fondi e di assicurare il rispetto dei limiti previsti dalla legge a partire da tetti di spesa, variabili in
base all’estensione delle circoscrizione.

La designazione dei candidati alle elezione e le funzioni costituzionali dei partiti


Nell’art. 49 il principio del «concorso» è enunciato in una visione aperta e inclusiva del pluralismo politico,
sia in ordine ai soggetti fra cui si instaura che in ordine all’oggetto del concorso stesso.
Per quanto riguarda i soggetti del «concorso», i cittadini liberamente associati in partiti, la Costituzione
richiede che i partiti siano associazioni liberamente formate e operanti, nel rispetto di un metodo
democratico che impone loro il rispetto delle procedure democratiche dell’ordinamento. La possibilità per i
partiti di fungere da canali di trasmissione della domanda politica dei cittadini nella sfera delle istituzioni
politiche, si estrinseca nella designazione dei candidati alle elezioni per il rinnovo delle assemblee
rappresentative tramite la presentazione delle relative liste. Nella nostra legislazione i partiti non sono gli
esclusivi titolari di tale funzione. La presentazione delle liste è subordinata alla sottoscrizione di un certo
numero di iscritti alle liste elettorali dei comuni del collegio dove si presenti la candidatura. Anche se altri
soggetti possono presentarsi la designazione dei candidati alle elezioni costituisce un compito infungibile
dei partiti.
Il compito dei partiti di concorrere a determinare la politica nazionale trova la propria sede in Parlamento per
il tramite dei gruppi parlamentari, che dei rispettivi partiti costituiscono la proiezione istituzionale.

Verifica dei poteri


Secondo l’art. 66 “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte
di ineleggibilità e di incompatibilità”. Il giudizio di ciascuna Camera sui titoli di ammissione dei suoi membri è
denominato «verifica dei poteri». La verifica dei poteri consiste nell’esaminare la regolarità dell’elezione di
ciascun parlamentare e l’eventuale sopravvenienza di cause di ineleggibilità o incompatibilità. L’organo
chiamato a svolgere tali funzioni è denominato Giunta delle elezioni ed è composto da un certo numero di
parlamentari (30 Camera / 23 Senato). La Giunta predispone relazioni per ogni circoscrizione elettorale e
propone la convalida dell’eletto all’Assemblea o apre un’istruttoria per verificare la corrispondenza dei
risultati alle schede. La Giunta può convalidare o annullare l’elezione e l’Assemblea può confermare o
rovesciare la sua proposta.

Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità


Le ineleggibilità sono cause di impedimento all’elezione che la legge fissa a carico di soggetti la cui carica
o posizione si presume possa alterare la parità di condizione della competizione con gli altri candidati, o
condizionare la libertà dell’elettore.
Le incompatibilità nulla tolgono alla validità dell’elezione, richiedendo solo all’eletto di scegliere entro un
breve termine fra la carica ricoperta prima dell’elezione e quella di parlamentare.
A differenza delle cause di ineleggibilità e incompatibilità, la Costituzione tace di quelle dell’incandidabilità
alla carica di parlamentare. Le cause di incandidabilità sono reputate più gravi dei quelle di ineleggibilità e a
differenza di esse non possono essere rimosse dall’interessato prima dell’elezione.
Le cause di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità corrispondono a differenti scale di gravità. Chi
incorra nelle prime non può candidarsi, chi incorra nelle seconde può candidarsi ma non può essere eletto
(salvo a dimettersi dalla carica ricoperta prima della data di scadenza della presentazione della candidatura
alle elezioni), chi incorra nelle terze può essere eletto e restare nella carica di parlamentare, purché scelga
dopo le elezioni di dimettersi dalla carica reputata con essa incompatibile.

Prerogative parlamentari
Le prerogative disposte dagli artt. 67, 68, 69 connotato lo status dei parlamentari onde assicurare la
funzionalità del Parlamento, quanto la sua indipendenza da altri organi costituzionali. Sono prerogative che
proteggono la funzione cui assolvono in quanto componenti dell’organo.

Divieto di mandato imperativo


Con lo stabilire che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato”, l’art. 67 esclude che il rapporto dei parlamentari con gli elettori sia ammissibile alla
rappresentanza di diritto privato, dove fra rappresentato e rappresentante intercorre un rapporto fiduciario,
in virtù del quale il primo può revocare il secondo in caso di inosservanza delle istruzioni o del mandato a
trattare un certo affare.
Col voto il cittadino-elettore designa alla carica di membro del Parlamento colui che corrisponde alla sua
visione politica dell’interesse generale, e ritiene in questo senso destinato a “rappresentare la Nazione”.
L’interesse generale non è un’entità sovrastante le opinioni politiche di cittadini e partiti. Le democrazie
presuppongono piuttosto diverse opinioni dell’interesse generale.
La libertà da parte dell’elettore di revocare l’eletto in corso di mandato spezzerebbe il circuito fra potere e
responsabilità su cui si fonda la democrazia come forma politica di convivenza organizzata. L’istituto del
divieto di mandato imperativo si inserisce quindi nel contesto di una democrazia che deve poter funzionare
in Parlamento. La revocabilità dei parlamentari in corso di mandato sarebbe un colpo mortale alla funzione
dell’assemblea parlamentare; la sua composizione sarebbe costantemente soggetta a variazioni durante la
legislatura. Solo in alcuni Stati membri della Federazione americana è prevista la revoca degli eletti da parte
degli elettori, ma non da parte dei partiti.

Insindacabilità delle opinione espresse e dei voti dati


L’art. 68 prevede due prerogative dei parlamentari dette immunità: l’insindacabilità e l’inviolabilità. Secondo
il primo comma “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti
dati nell’esercizio delle loro funzioni”. È la prerogativa dell’insindacabilità che rende immuni i parlamentari da
qualsiasi responsabilità giuridica che investa la deliberazione parlamentare e impedisce che essi siano al
riguardo perseguibili in sede giudiziaria.
Come l’insindacabilità anche l’inviolabilità protegge la funzione del parlamentare da interventi dei giudici
aventi fini persecutori, tanto che la Giunta per le autorizzazioni deve accertare l’eventuale fumus
persecutionis della richiesta. L’inviolabilità protegge il parlamentare quale attuale componente della
Camera. Ecco perché la prerogativa dell’inviolabilità, a differenza dell’insindacabilità, viene meno quando il
parlamentare cessa le sue funzioni.

Le indennità parlamentari
Nell’era della politica come professione la remunerazione per l’attività parlamentare scolta diventa una
garanzia di indipendenza da condizionamenti economici, soprattutto per i parlamentari più poveri. Il
trattamento economico si compone di una quota fissa e di una diaria, quale rimborso spese per i giorni di
seduta parlamentare. Inoltre ai parlamentari vengono corrisposti rimborsi a vario titolo: trasporti, viaggi,
sanità. Le pensioni vengono definite “retribuzioni differite”.

Capitolo 3 → Il Parlamento

Un bicameralismo paritario
Il bicameralismo si definisce paritario in ragione della notevole somiglianza strutturale e delle identità di
funzioni delle due Camere.
Le differenze di ordine strutturale fra Parlamento e Senato sono queste:
- Una ridotta quota di senatori a vita;
- L’età minima per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo: mentre per il rinnovo della Camera votano i
cittadini maggiorenni per il rinnovo del Senato votano gli elettori che abbiano compiuto 25 anni;
- Il numero dei membri: la Camera di compone di un numero (630) di membri doppio dei membri elettivi del
Senato (315).

Parlamento in seduta comune e organi comuni delle due Camere


L’art. 55 prevede che “Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle Camere nei soli casi stabiliti
dalla Costituzione”: si tratta dell’elezione di un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura e
in determinate situazioni che investono il Presidente della Repubblica: per l’elezione; quando il Presidente
della Repubblica giura fedeltà alla Repubblica; per deliberare la messa in atto d’accusa del Presidente della
Repubblica nei casi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione; per compilare ogni 9 anni l’elenco dei
45 cittadini eleggibili al Senato da cui sorteggiare i 16 giudici aggregati della Corte costituzionale.
Il Parlamento in seduta comune non dispone di un proprio ordine del giorno e può deliberare di adunarsi in
seduta segreta.
Dal Parlamento in seduca comune occorre distinguere gli organi comuni delle due Camere. La
Costituzione ne prevede uno solo, la Commissione parlamentare per le questioni regionali che deve
essere sentita prima che venga adottato il decreto con cui il Presidente della Repubblica può provvedere
allo scioglimento dei Consigli regionali e alla rimozione del Presidente della Giunta. Altro organo è il
Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa composto dai membri delle Giunte per le
autorizzazioni a procedere del Senato e della Camera, e preposto ad istruire l’attività del Parlamento in
seduta comune relativamente alla messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. Numerosi sono
gli organi comuni delle due Camere istituiti con legge ordinaria, fra cui la Commissione per l’indirizzo e la
vigilanza sui servizi radiotelevisivi e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che
verifica l’attività del sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle
leggi, nell’esclusivo interesse per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni. A questi organi vanno
aggiunte le Commissioni bicamerali di inchiesta istituite con legge.

Il Presidente di assemblea
Insieme ai gruppi e alle commissioni parlamentari, la Costituzione riconosce il presidente di assemblea
parlamentare quale organo interno indifettibile di ciascuna Camera. La Costituzione gli assegna l’iniziativa di
convocare in via straordinaria la rispettiva assemblea, di richiedere il parere dei Presidenti delle Camere
prima che il Presidente della Repubblica proceda allo scioglimento e affida al Presidente del Senato le
funzioni di supplenza del Capo dello Stato e al Presidenti della Camera la presidenza del Parlamento in
seduta comune. Il Presidente rappresenta la Camera, assicura il buon andamento dei suoi lavori, fa
osservare il regolamento, dà la parola, dirige e modera la discussione, mantiene l’ordine, pone le questioni
stabilisce l’ordine delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne annunzia il risultato.
Ciò che caratterizza il Presidente è la funzione di rappresentanza esterna: si tratta di rappresentare collegi
che non sono istituiti per comporre interessi ma in cui è istituzionalizzata la dialettica maggioranza-
opposizione, e nei quali vive il principio stesso della democrazia politica.

I gruppi parlamentari
In giurisprudenza il gruppo parlamentare è qualificato come soggetto di diritto privato, alla luce della
considerazione dei partiti quali associazioni non riconosciute, dunque nella loro dimensione privatistica. Le
loro funzioni consistono nel designare i membri delle commissioni e nel concorrere ad organizzare i lavori
delle assemblee. È la Conferenza dei Presidenti di gruppo ad approvare il programma e il calendario dei
lavori di ciascuna Camera. I presidenti di gruppo, infine, sono consultati dal Presidente della Repubblica in
occasione di ogni crisi di Governo al fine di individuare la personalità da nominare Presidente del Consiglio
e formare il Governo che dovrà ottenere la fiducia delle Camere per restare in carica.

Commissioni parlamentari e Giunte


La Costituzione menziona le commissioni parlamentari distinguendo quelle in sede referente da quelle in
sede deliberante. Si tratta di commissioni permanenti formate all’inizio di ogni legislatura alle quali sono
assegnati tutti i parlamentari secondo quanto indicato dai rispettivi gruppi. Altre commissioni parlamentari
sono chiamate ad espletare funzioni strumentali o ausiliarie nel procedimento di formazione degli atti
normativi (le commissioni consultive).
Il Comitato per la legislazione è preposto ad elevare la qualità della legislazione tramite pareri, sulla base
di parametri fissati dallo stesso regolamento. Numerose altre Commissioni, bicamerali o monocamerali,
assolvono a funzioni diverse da quelle relative alla formazione delle leggi: di controllo, di vigilanza o di
inchiesta.
Alla Camera e al Senato sono poi previste le Giunte, organi permanenti i cui membri sono di nomina
presidenziale: la Giunta per il regolamento, cui spetta promuovere ed esaminare le proposte di modifica
dei regolamenti parlamentari; la Giunta delle elezioni che svolge l’istruttoria per la verifica dei poteri
controllando la regolarità delle operazioni elettorali; la Giunta per le autorizzazioni chiamata a: accertare il
comportamento dei parlamentari; deliberare sulle richieste di autorizzazione a provvedimenti restrittivi nei
confronti di un parlamentare; deliberare sulle richieste di autorizzazione a procedere nel caso di reati
ministeriali compiuti da parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni.

Principi di funzionamento delle Camere


Pubblicità. Il principio di pubblicità si applica maggiormente al Parlamento. Che i suoi lavori si tengano in
pubblico è una delle ragioni, insieme alla necessità di compartecipazione ad essi delle minoranze, per le
quali la Costituzione ricorre cosi di frequente alle riserve di legge. Il principio di pubblicità è affermato
pienamente per le sedute delle Assemblee, e si realizza tramite l’ammissione del pubblico alle tribune, con
riprese televisive, nonché in forma di resoconti stenografici. Continuità. La Costituzione si ispira al principio
di continuità del funzionamento delle Camere fra una legislatura e l’altra. Esso non investe la loro durata in
carica, che corrisponde ai 5 anni di ogni legislatura, ma la proroga dei poteri delle Camere sciolte
(prorogatio) disposta finché non siano riunite le nuove Camere. C’è una differenza tra proroga e prorogatio.
La proroga, oltre a dover essere disposta con legge, può verificarsi solo in caso di guerra e comporta
un’eccezionale prosecuzione della durata in carica delle Camere, in deroga al principio di rappresentatività,
che la Costituzione presume possa legare gli eletti agli elettori per una durata non superiore a 5 anni.
La prorogatio presuppone che le Camere cui si riferisce siano cessate o per scadenza o per scioglimento,
e nello stesso tempo che la sua durata sia circoscritta, per cui le elezioni hanno luogo entro 70 giorni dalla
fine delle precedenti. Questo istituto ha un effetto automatico.
Al principio di continuità va ricondotta la regola del recupero di progetti legge già approvati in un ramo del
Parlamento alla fine di una legislatura.
Rappresentatività e maggioranza. Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide
se non è presente la maggioranza di loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti,
salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale. Il principio di maggioranza viene in gioco
anche a proposito della scelta fra voto palese e voto segreto. Per le elezioni e per le votazioni sulle persone
lo scrutinio è segreto.
Autonomia. I principi caratterizzanti il funzionamento delle Assemblee rappresentative previsti o desumibili
dalla Costituzione devono informare la disciplina dei regolamenti di ciascuna Camera, accanto alle regole
che la Costituzione stessa dedica al procedimento legislativo e alle funzioni del Parlamento. Al di là di
questo il principio di autonomia normativa opera in materia pienamente, giustificando l’applicazione del
criterio di competenza in sede di risoluzione di eventuali antinomie fra regolamento parlamentare e legge o
atti ad essa equiparati. Il principio copre la disciplina in ambiti materiali ulteriori rispetto a quelli cui la
Costituzione si riferisce. Si pensi all’immunità di sede in forza della quale nessuna estranea autorità
potrebbe far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento ed ai suoi organi.
I regolamenti diversi da quello generale possono distinguersi in due tipologie a seconda che riguardino
organi interni o gli uffici, il personale, le biblioteche, l’amministrazione di ciascuna Camera. Essi sono
subordinati al regolamento generale.

Funzioni del Parlamento


Il Parlamento esercita per Costituzione le funzioni legislativa, di indirizzo politico, di controllo e ispettiva.

Funzione legislativa
Della definizione legislativa attribuita alle Camere ci siamo occupati sotto i profili dell’individuazione dei
caratteri dell’atto normativo, la legge, che scaturisce dal suo esercizio, della collocazione della legge nelle
fonti del diritto e abbiamo ricondotto i connotati procedurali di tale funzione alla natura politica della
deliberazione in cui si concretizza, onde distinguerli da quelli della funzione giurisdizionale.

Funzione di indirizzo politico


La predeterminazione degli obiettivi politici si estrinseca nel rapporto di fiducia espresso dal Parlamento nei
confronti del Governo, fondato sulla continuativa consonanza della maggioranza parlamentare con
l’indirizzo politico del Governo in carica, a partire dal programma esposto dal Presidente del Consiglio alle
Camere all’atto di richiesta della fiducia. Alcune leggi possono considerarsi espressione di indirizzo politico
come alcuni regolamenti governativi.
Prese di posizione o comportamenti assunti dal Governo possono rivelarsi cruciali per la determinazione
dell’indirizzo politico e mettere in crisi il rapporto fiduciario.

Legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali


Secondo l’art. 80 “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica,
o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanza o
modificazioni di leggi”.
L’obbligo del Governo di richiedere alle Camere l’autorizzazione alla ratifica nelle ipotesi indicate si innesta
nel procedimento di formazione di un trattato, le cui fasi secondo il diritto internazionale sono di regola:
a) negoziazione e conclusione del trattato da parte dei plenipotenziari degli Stati;
b) ratifica del trattato con approvazione dell’organo competente a impegnare lo Stato contraente; c)
stipulazione del Governo, tramite delle ratifiche o col loro deposito presso lo Stato contraente
incaricato di riceverle.
Per Costituzione, l’autorizzazione alla ratifica con legge segue alla prima fase.

Legge di bilancio
Il bilancio di previsione è il documento contabile approvato con legge nel quale sono indicate entrate e
uscite che si prevede saranno riscosse o erogate nell’anno successivo a quello in cui la legge è approvata,
chiamato esercizio finanziario.
Il bilancio consuntivo o rendiconto è un documento contabile da approvarsi con legge recante le entrare
riscosse e le spese erogate nell’esercizio finanziario precedente.
Gli emendamenti alla legge di bilancio che il Parlamento può approvare non possono consistere in
innovazioni che modifichino il quadro contabile presentato dal Governo, ma solo nella soppressione di
singoli capitoli di entrata e nello spostamento di stanziamento di spesa da un capitolo all’altro. con la legge
di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Il ciclo annuale di programmazione finanziaria presenta le seguenti scadenze:
- Entro il 10 aprile il Governo presenta alle Camere il Documento di Economia e Finanza (DEF) che
contiene lo schema del Programma di stabilità richiesto dall’UE in riferimento alla riduzione del debito, le
informazioni sugli andamenti macroeconomici e il Programma nazionale di riforma, relativo allo stato di
attuazione delle riforme richieste sulla base dei parametri concordati con le istituzioni dell’UE;
- Entro il 30 giugno il Governo presenta alle Camere il rendiconto dell’esercizio finanziario precedente e il
disegno di legge di assestamento;
- Entro il 27 settembre il Governo presenta alle Camere la Nota di aggiornamento del DEF;
- Entro il 15 ottobre il Governo invia alle Camere il Documento Programmatico di Bilancio;
- Entro il 20 ottobre il Governo presenta alle Camere il disegno di legge di bilancio. L’esame
e l’approvazione parlamentare hanno luogo con procedure speciali rispetto a quelle previste per gli altri
disegni di legge, sia per i tempi sia per gli emendamenti, distinti in compensativi;
- Entro il 31 dicembre viene approvata la legge di bilancio.

Funzione di controllo
Il controllo parlamentare consiste nel verificare l’operato del Governo su un certo argomento, sollecitandolo
ad adeguarsi alle valutazioni maturate al riguardo in ambito parlamentare. Fra gli atti tipici del controllo
parlamentare sono da annoverarsi i seguenti:
Interrogazione, che consiste «nella semplice domanda se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia
giunta al Governo, o se sia esatta, se il Governo intenda comunicare alla Camera documenti o notizie o
abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato». La risposta può avvenire
in aula o in commissione, oralmente o per iscritto.
Interpellanza. È sempre una domanda scritta rivolta da un parlamentare a un Ministro, ma a differenza
dell’interrogazione si riferisce a i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che
riguardano determinati aspetti della sua politica» su un certo tema. Se il parlamentare dichiara di non
ritenersi soddisfatto della risposta del Ministro, può essere trasformata in mozione. Mozione. È la proposta
rivolta da un presidente di gruppo o da 10 deputati o 8 senatori dell’assemblea per adottare una
deliberazione su un certo argomento. Seguono la discussione della motivazione, la presentazione e la
discussione dei relativi emendamenti, e la votazione. A parte le mozioni di fiducia/sfiducia che possono
produrre effetti giuridici, le altre presentano conseguenze solo politiche.
Risoluzione. È una proposta di adottare un certo indirizzo, rivolta a una comunicazione parlamentare;
Ordine del giorno. Inteso quale istituzione è un atto accessorio proposto da un singolo parlamentare circa
il significato da attribuire alle disposizioni o alle direttive in via di approvazione, nell’ambito di dibattiti su
progetti di legge o su mozioni o risoluzioni. Il rappresentante del Governo deve pronunciarsi sull’ordine del
giorno: può accettarlo e quindi non è necessario il voto; può rifiutarlo e allora il voto sarà necessario.

Funzione ispettiva
L’istituzione di inchieste parlamentari costituisce lo strumento principe della funzione ispettiva spettante alle
Camere. Le inchieste sono direttamente disciplinate in Costituzione. L’art 82 dispone che: “Ciascuna Camera
può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione
formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione di inchiesta procede alle indagini e
agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”. Le inchieste possono disporsi sia in
vista di iniziative legislative sia in vista dell’accertamento di fatti, politici o politicamente rilevanti. Altri
strumenti di esercizio della funzione ispettiva sono le indagini conoscitive e le audizioni. Ciascuna
commissione parlamentare può disporle su materie di propria competenza per acquisire informazioni o
documenti utili all’attività della Camera di appartenenza, soprattutto nel corso del procedimento legislativo.

Capitolo 4 → Il Presidente della Repubblica

Un presidente eletto dal Parlamento


Il Titolo II della Parte seconda della Costituzione, artt. 83-91, presuppone una “forma repubblicana”, art.
139, nella quale la carica di Capo di Stato sia elettiva e temporanea. La Costituzione dispone che il
Presidente sia eletto dal Parlamento secondo i canoni della forma di governo parlamentare, anziché dal
corpo elettorale, come nelle forme di governo presidenziali.

Modalità di elezione e altri caratteri strutturali dell’organo


L’art. 83 affida l’elezione del Presidente al Parlamento in seduta comune dei suoi membri, integrato da tre
delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo da assicurare la rappresentanza delle
minoranze. Perché il Presidente possa essere eletto si richiede la maggioranza dei 2/3 dell’assemblea nei
primi tre scrutini, e dopo il terzo la maggioranza assoluta. L’elezione ha luogo per scrutinio segreto. Il
mandato presidenziale ha durata di 7 anni. Il Presidente della Camera convoca in seduta comune il
Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica 30 gg prima che scada il
termine del precedente mandato.
Fra i requisiti di eleggibilità, oltre al godimento dei diritti civili e politici compare il compimento di 50 anni. Al
fine di sottrarre il Presidente della Repubblica da ogni condizionamento nell’esercizio delle sue funzioni,
l’art. 84 prescrive l’incompatibilità dell’ufficio presidenziale «con qualsiasi altra carica» mentre la riserva di
legge assoluta in ordine alla determinazione dell’assegno e della dotazione del Presidente mira a far sì che
sia solo il Parlamento a disporre in materia. Il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica
comprende gli uffici e i servizi necessari per l’espletamento delle funzioni del Presidente della Repubblica e
per l’amministrazione della dotazione.

La supplenza
Secondo l’art. 86, “Le funzioni del Presidente della Repubblica, in caso egli non possa adempierle, sono esercitate
dal Presidente del Senato” che deve limitarsi all’adozione di atti improrogabili. I casi in cui il Capo dello Stato
non può adempiere alle proprie funzioni sono molteplici.
Un primo caso si riferisce agli impedimenti temporanei: viaggi all’estero per esempio. Altri casi possono
essere l’impedimento permanente come la morte o le dimissioni o la destituzione della carica.

Capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale


L’art. 87 stabilisce che “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”. Il
Presidente della Repubblica non vanta alcuna posizione gerarchica nei confronti degli altri organi
costituzionali, che sono equiordinati l’uno rispetto all’altro. Con l’affermazione che il Presidente della
Repubblica «rappresenta l’unità nazionale» la Costituzione gli attribuisce una funzione che consente di
dispiegare sul piano sostanziale l’attribuzione delle singole funzioni intestategli, e fornisce la bussola che
deve orientare l’esercizio e individua la sua posizione rispetto a quelle degli altri organi costituzionali. L’unità
nazionale va intesa non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato ma anche nel senso della
coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto
costituzionale della Repubblica. Il Presidente non può considerarsi imparziale perché proprio
rappresentante di un’unità nazionale sovrastante tutte le divisioni politiche.

Controriforma ministeriale
L’obbligo di controfirma ministeriale si spiega con l’art. 90 secondo cui “Il Presidente della Repubblica non è
responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla
Costituzione”. in una forma di governo parlamentare dove il Capo dello Stato perde ogni posizione
gerarchica e ogni determinazione di indirizzo politico, la controfirma non può essere prevista per limitare il
potere politico attivo. Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai
Ministri proponenti che ne assumono la responsabilità.

Atti presidenziali e funzioni della controriforma


Alcuni atti del Presidente della Repubblica si ritengono sottratti a controfirma nella misura in cui non
risultino finalizzati all’esercizio delle sue funzioni, come l’atto strettamente personale delle dimissioni, o
perché il Presidente non ha ancora assunto le sue funzioni, come il giuramento dinanzi al Parlamento in
seduta comune o perché l’atto è a lui imputabile quale componente di un organo collegiale. Non sono
soggetti a controfirma atti o dichiarazioni che non si estrinsechino in funzioni costituzionalmente tipizzate.
Quanto agli atti da sottoporre a controfirma sono tuti preceduti da una proposta di un Ministro.

Classificazione degli atti presidenziali


La tesi del carattere polifunzionale della controfirma conduce a classificare gli atti presidenziali a seconda
dell’esercizio effettivo del potere di determinare l’atto sia riconducibile al Governo o al Presidente della
Repubblica o ad ambedue. La tripartizione omette di assegnare autonomo rilievo agli atti dovuti, che la
Costituzione intesta al Presidente in qualità di Capo dello Stato senza per ciò attribuire al Governo alcun
potere sostanziale: dove manca il presupposto da cui muove la tesi del carattere polifunzionale della
controfirma. Tra gli atti dovuti possono annoverarsi: scioglimento delle Camere alla scadenza naturale della
legislatura; indizione delle nuove elezioni; fissazione della loro prima riunione; indizione del referendum;
promulgazione delle leggi; accreditamento dei diplomatici; dichiarazione dello stato di guerra deliberato
dalla Camere; scioglimento del Consiglio regionale. La tripartizione accennata va riferita agli atti
formalmente presidenziali sottoponibili a controfirma.
Atti sostanzialmente governativi. Qui il ruolo presidenziale è di ordine formale, a fronte della spettanza al
Governo del potere di determinazione dell’atto. Fra questi vanno annoverati: la nomina dei Ministri su
proposta del Presidente del Consiglio; la nomina dei funzionari statali nei casi indicati dalla legge; il
conferimento delle onorificenze della Repubblica; il comando delle forze armate; l’emanazione dei
regolamenti governativi e degli atti aventi valore di legge. Che il Presidente sia in tali casi sempre di ordine
formale non esclude che egli possa rifiutare di adottate l’atto così come gli è stato proposto.
Atti sostanzialmente presidenziali. Rispetto alla categoria precedente, le parti si invertono: a decidere
dell’atto è il Presidente, mentre al Governo spetta un ruolo formale. Lo dimostrano sotto il profilo
procedurale, la mancanza di una proposta governativa, e l’autonoma iniziativa presidenziale. Fra di essi
vanno annoverati: il rinvio delle leggi alle Camere, l’invio di messaggi alle Camere; l’autorizzazione alla
presentazione di disegni di legge di iniziativa governativa, la nomina di 5 senatori a vita e di 5 giudici della
Corte costituzionale.
Atti sostanzialmente complessi. Si caratterizzano per una compartecipazione del Presidente della
Repubblica e del Governo alla formazione dell’atto, risultante da una convergenza di apprezzamenti
ineliminabili. Possono ritenersi compresi fra gli atti complessi: la grazia, lo scioglimento dei Consigli
regionali e la rimozione del Presidente della Giunta, nonché la nomina del Presidente del Consiglio e lo
scioglimento di una o ambedue le Camere.
L’atto di grazia è espressione di un potere rimesso al Capo dello Stato fin dai tempi dell’assolutismo. Per
quanto riguarda lo scioglimento bisogna ricordare lo scioglimento tecnico, col quale talvolta la durata della
legislatura è interrotta di pochi mesi onde evitare che le elezioni si tengano in piena estate, o per consentire
al paese di disporre di un Governo nella pienezza delle sue funzioni in vista di importanti scadenze
internazionali. Va poi ricordato lo scioglimento funzionale, così denominato per designare l’ipotesi in cui le
Camere non riescano ad esprimere una maggioranza e quindi ad adempiere alle loro funzioni, è il più
direttamente correlato alla dinamica della forma di governo parlamentare, quando manchino congegni
automatici di stabilizzazione del rapporto Governo- Presidente-Parlamento o volti ad assicurare Governi di
legislatura. In assenza di tali congegni, una crisi di Governo in corso di legislatura comporta che, prima di
giungere allo scioglimento, il Presidente verifichi ogni possibilità che in Parlamento si formi una
maggioranza in grado di accordare la fiducia a un Governo. Prima di sciogliere le Camere, il Presidente
non solo non deve lasciare nulla di intentato per non interrompere la legislatura, ma ha anche l’onere di
dimostrarlo ai partiti politici presenti in Parlamento attraverso i rispettivi rappresentanti.
Lo scioglimento disposto per difetto di rappresentatività delle Camere presuppone che la composizione
politica delle Camere non sia reputata tale da rispecchiare gli orientamenti politici degli elettori: in tal caso la
decisione di sciogliere le Camere prescinde dalla sussistenza di un rapporto di fiducia. Una tale decisione
può derivare dall’approvazione di una riforma elettorale, poiché una traduzione di voti in seggi condotta alla
sua stregua porterebbe a risultati diversi da quelli della consultazione tenuta sulla base della legge elettorale
abrogata. Una volta che la nuova legge sia applicabile con l’approvazione delle relative norme di attuazione,
lo scioglimento appare necessario.

La presidenza degli organi collegiali


L’attribuzione al Capo dello Stato della presidenza del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio
supremo di difesa riflette l’intento dei Costituenti di preporre alla carica di presidente dei due collegi colui
che «rappresenta l’unità nazionale».
Il Consiglio superiore della magistratura è organo previsto per garantirne l’autonomia e l’indipendenza da
altri poteri in ordine allo status dei magistrati, ossia le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le
promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. L’assegnazione di diritto della
presidenza al Capo dello Stato mira a rafforzare le finalità di garanzia.
Il Consiglio supremo della difesa è stato previsto dalla Costituzione per consentire al Presidente della
Repubblica di conoscere le questioni relative alla difesa dello Stato e quindi di svolgere le proprie funzioni di
controllo sulle scelte di indirizzo operate dal Governo in materia militare, sia sulla loro osservanza da parte
delle Forze Armate.

Capitolo 5 → Il Governo

Procedimento di formazione
La Costituzione disciplina il procedimento di formazione del Governo a partire dalla sua nomina. Vengono
individuati gli organi necessari del Governo e l’art. 93 aggiunge che «il Presidente della Repubblica nomina
il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questi, i Ministri». Il Presidente del Consiglio e i
Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. Col
giuramento il Governo è formato perché è con esso che assume le funzioni. Ma questo non basta per farlo
restare in carica. Il Governo infatti deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o
revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale e entro 10 gg dalla sua
formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia. Se il Governo non ottiene la fiducia
deve dimettersi, se la ottiene diventa titolare della funzione di indirizzo politico, e ne rimane titolare fino ad
un’eventuale revoca o fino a quando il Presidente del Consiglio rassegnando le dimissioni nelle mani del
Presidente della Repubblica non abbia ritenuto che il rapporto fiduciario sia cessato, come nelle ipotesi di
crisi extraparlamentari. La fiducia (istituto caratterizzante la forma di governo parlamentare) consiste in una
relazione necessariamente continuativa fra Parlamento e Governo, fondata sulla maggioranza parlamentare
col Governo in carica in ordine all’indirizzo politico quale contenuto nel programma esposto dal Presidente
del Consiglio alle Camere e poi tradotto in disegni di legge ed atti e comportamenti del Governo in costanza
di rapporto fiduciario. Nell’intervallo fra giuramento e fiducia il Governo può compiere solo atti come i
provvedimenti di urgenza, i decreti legge e le ordinanze di emergenza.
La nomina del Governo da parte del Presidente della Repubblica consta di 3 decreti: decreto di
accertamento delle dimissioni del Presidente del Consiglio uscente, decreto di nomina del Presidente del
Consiglio subentrante e il decreto di nomina dei Ministri. La condizione per ottenere la fiducia è che il
Presidente del Consiglio sia in grado di raggiungere in Parlamento un consenso maggioritario intorno al suo
Governo.
All’atto delle dimissioni del Governo il Presidente procede a una serie di consultazioni al termine delle quali
conferisce con un comunicato verbale l’incarico di formare il Governo alla persona che ritenga in grado di
coagulare i consensi necessari per ottenere la fiducia alle Camere. Il Presidente del Consiglio incaricati, che
accetta con riserva, avvia anch’egli consultazioni, ma nell’ambito dei gruppi parlamentari orientati a
conferire la fiducia a un Governo da lui presieduto. Terminate le consultazioni si reca dal Capo dello Stato
per sciogliere la riserva in caso di esito positivo, o per rinunciare all’incarico, con la conseguente necessità
per il Capo dello Stato di procedere a un nuovo incarico.

Mozione di fiducia, mozioni di sfiducia, questioni di fiducia


Il dibattito parlamentare sulla fiducia ha inizio con le comunicazioni del Presidente del Consiglio, nelle quali
egli espone le linee programmatiche cui intende ispirare l’azione del suo Ministero, alle quali segue la
presentazione da parte dei capigruppo parlamentari della costituenda maggioranza della mozione di fiducia:
secondo l’art. 94 ciascuna Camera "accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello
nominale”. Questo tipo di voto richiede a ciascun parlamentare di passare davanti al banco della presidenza
e rispondere ad alta voce alla «chiama» del proprio nome dicendo si o no o mi astengo. Una formula di
massima trasparenza. Per l’approvazione della mozione di fiducia è sufficiente la maggioranza semplice.
La mozione di sfiducia deve essere anch’essa motivata e votata per appello nominale, dal momento che
la Costituzione dice che ciascuna Camera non solo accorda ma revoca la fiducia secondo tali requisiti. La
mozione deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e deve essere messa in
discussione non prima di 3 gg dalla presentazione per evitare “colpi di mano” in Parlamento ai danni del
Governo. Nella prassi nessuna mozione di sfiducia è stata mai approvata. Quasi tutte le crisi di Governo
sono state extraparlamentari, in quanto originate dalla manifestazione di uno o più partiti della maggioranza
parlamentare di dissociarsi da essa, con l’effetto di spingere il Presidente del Consiglio a recarsi in Quirinale
per dimettersi indipendentemente da un voto di sfiducia.
La mozione di sfiducia individuale. A differenza di quella rivolta al Governo nel suo complesso, non è
prevista dalla Costituzione. Si tratta di una prassi utilizzata raramente. Le dimissioni del Ministro che abbia
dissentito l’ordine politico indeboliscono sempre i Governi.

L’assetto dei rapporti fra Presidente del Consiglio, Consiglio dei Ministri e Ministri
Il Presidente del Consiglio del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile.
Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri. A
lui spettano i rapporti con gli altri organi costituzionali, a cominciare dal Capo dello Stato. I Ministri oltre che
responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, lo sono individualmente degli atti dei loro
dicasteri.
Il Consiglio dei Ministri. Determina la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione
amministrativa; delibera su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le
Camere. Dirime i conflitti di attribuzione tra i Ministri.
Quanto al Presidente del Consiglio, a parte i poteri di convocazione del Consiglio dei Ministri e di fissarne
l’ordine del giorno, l’art. 5 riporta prima le attribuzioni relative ai rapporti con gli altri organi costituzionali a
lui conferite a nome del Governo, poi quelle relative ai rapporti con i Ministri. La legge presuppone
l’esclusione di ogni gerarchia nel rapporto tra Presidente del Consiglio coi Ministri, e quindi il potere di
revoca dei Ministri dissenzienti, e affida al Presidente del Consiglio un potere di sollecitare il Consiglio dei
Ministri a risolvere «questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti». L’art. 5 attribuisce al
Presidente del Consiglio la promozione e il coordinamento dell’azione del Governo nel campo delle
politiche dell’UE, degli adempimenti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, dei rapporti
con le regioni e le province autonome. Il Presidente ha una posizione di cerniera nei rapporti tra lo Stato e
l’UE.

La responsabilità dei titolari degli organi di Governo


L’art. 95 Cost., attribuisce al Presidente del Consiglio la responsabilità della «politica generale del Governo»
e attribuisce ai Ministri la responsabilità collegiale per gli atti del Consiglio dei Ministri e quella individuale
per gli atti dei loro dicasteri. Si tratta in tutti i casi di responsabilità politica che nel governo parlamentare
trova la sua sede di estrinsecazione in Parlamento: il rapporto di fiducia che lega il Governo al Parlamento è
un rapporto continuativo che dura fino a quando la maggioranza parlamentare sostenga il Governo stesso.
La responsabilità del Presidente del Consiglio differisce da quella dei Ministri: mentre il venir meno della
fiducia travolge l’intero Governo, così non è nel caso in cui una delle Camere approvi una mozione di
sfiducia nei confronti di un Ministro per gli atti compiuti in qualità di organo di vertice del relativo dicastero.
Ciò vale anche in caso di dimissioni per motivi personali o morte del Presidente del Consiglio e del singolo
Ministro.
Quanto alla responsabilità giuridica dei titolari degli organi di Governo bisogna distinguere le responsabilità
civile e amministrativa, per le quali valgono le regole generali disposte dall’art. 28 a carico dei funzionari e
dei dipendenti dello Stato, dalla responsabilità penale: per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni
il Presidente del Consiglio e i Ministri vengono sottoposti alla giurisdizione ordinaria previa autorizzazione
della Camera di appartenenza o del Senato se i soggetti in questione appartengono a Camere diverse o
non sono membri delle Camere. Competente a richiedere l’autorizzazione a procedere è il Tribunale dei
Ministri, collegio giudiziario appositamente istituito presso il Tribunale dal capoluogo del distretto della
Corte d’appello competente per territorio.
La Costituzione nulla dice in ordine ai reati commessi dai Ministri al di fuori delle loro funzioni, o reati
comuni.

Gli organi governativi non necessari


Accanto agli organi costituzionalmente necessari dell’organo complesso Governo, la prassi ha fatto
emergere e la legislazione ordinaria ha riconosciuto una serie di organi non necessari, collegiali e non.
Quanto ai primi si tratta del Consiglio di Gabinetto, composto di Ministri eventualmente designati dal
Presidente del Consiglio per coadiuvarlo nella trattazione degli affari che formeranno oggetto delle
deliberazioni assunte in Consiglio dei Ministri, dei Comitati interministeriali, destinati a coordinare l’attività
del Governo in un certo settore e titolari di poteri anche normativi (CICR per il credito e il risparmio, CIAE
per gli affari europei, CIPE per la programmazione economica, CISR per la sicurezza della Repubblica), dei
Comitati di Ministri, che istruiscono questioni di competenza comune a più Ministri.
Fra gli organi individuali, oltre ai Vicepresidenti del Consiglio, con compiti di supplenza del Presidente, la
legge contempla i Ministri senza portafoglio, cui il Presidente del Consiglio può delegare l’esercizio di
determinate funzioni, i commissari straordinari, per realizzare specifici obiettivi in relazione a programmi o
indirizzi deliberati dal Parlamento o dal Consiglio dei Ministri, e i sottosegretari di Stato che sono chiamati
a coadiuvare i singoli Ministri tramite l’esercizio delle funzioni loro delegate, di intervenire alle sedute delle
Camere e delle Commissioni parlamentari, sostenere la discussione in conformità delle direttive del Ministro
e rispondere a interrogazioni ad interpellanze. Sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica
su proposta del Presidente del Consiglio. Non partecipano alle sedute del Consiglio dei Ministri, ad
eccezione del sottosegretario alla presidenza del Consiglio nominato segretario del Consiglio dei Ministri
con il compito di curarne i verbali, di conservare il registro delle deliberazioni e di dirigere l’ufficio di
segreteria. Infine, a non più di 10 sottosegretari può essere attribuito il titolo di Viceministro, cui sono
conferite deleghe relative ad aree o progetti di competenza di una o più strutture dipartimentali ovvero di più
direzioni generali, e che può partecipare alle sedute del Consiglio dei Ministri senza diritto di voto per riferire
su questioni relative alla materia a lui delegata.

La determinazione del “numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri”


La riserva di legge dell’art. 94, terzo comma, viene ritenuta non solo assoluta ma anche rinforzata, per il
fatto di doversi estrinsecare in una disciplina generale, trattandosi dell’ordinamento della Presidenza del
Consiglio e della determinazione del numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. Il d. lgs, n. 300
del 1999 ridusse i Ministri da 18 a 12: affari esteri; interno; giustizia; difesa; economia e finanze; attività
produttive; politiche agricole e forestali; ambiente e tutela del territorio; infrastrutture e trasporti; lavoro;
salute e politiche sociali; istruzione, università e ricerca; beni e attività culturali. La l. n. 172 del 2009 ha
istituito il Ministero della salute, scorporando le relative attribuzioni da quelle del Ministero del lavoro, e ha
previsto che il numero totale dei componenti del Governo a qualsiasi titolo, ivi compresi Ministri senza
portafoglio, vice Ministri e Sottosegretari, non può essere superiore a 63. Una seconda innovazione della
normativa del 1999 è consistita nel differenziare il modello di organizzazione interna dei Ministeri. Alle
tradizionali direzioni e dipartimenti ministeriali sono state affiancate le agenzie, quali strutture che svolgono
attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, in atto esercitate da ministeri ed enti pubblici
dotate di «piena autonomia nei limiti stabiliti dalla legge» e sottoposte al controllo della Corte dei conti e ai
poteri di indirizzo e vigilanza di un Ministro.
Infine, in linea con gli obiettivi si semplificazione dell’organizzazione e di concentrazione dell’azione
amministrativa, lo stesso decreto ha previsto un riordino dell’amministrazione decentrata dello Stato.

L’amministrazione statale decentrata


Tradizionalmente, l’amministrazione statale decentrata si incentrava sulle prefetture e sulle articolazione
periferiche dei ministeri, dislocate in ambito provinciale. Il Prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la
provincia, esercita le attribuzioni a lui demandate dalle leggi, e veglia sul mantenimento dei diritti
dell’autorità amministrativa elevando i conflitti di giurisdizione; provvede alla pubblicazione ed alla
esecuzione delle leggi; veglia sull’andamento di tutte le Pubbliche Amministrazioni, ed in caso di urgenza fa
i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami del servizio; sopraintende alla pubblica sicurezza,
ha il diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministero dell’interno
e ne esegue le istruzioni. La Costituzione afferma che «la Repubblica è una e indivisibile, riconosce e
promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo». Il d. lgs. n. 300 del 1999 ha trasformato le prefetture in «uffici territoriali del Governo» che
oltre a mantenere le attribuzioni delle prefetture assumono quelle delle amministrazioni periferiche dello
Stato.

Gli enti pubblici


Gli enti pubblici sono strutture organizzative giuridicamente distinte dai ministeri istituite a partire dai primi
del secolo scorso con l’obiettivo di svolgere funzioni di regime di almeno relativa autonomia organizzativa e
gestionale, onde sfuggire ai vincoli posti dai controlli amministrativi e della legge di contabilità sugli atti dei
tradizionali apparati ministeriali. Sul piano giuridico l’ente pubblico è una struttura distinta dal Ministero
nella misura in cui è un soggetto dotato di personalità giuridica e quindi capace di agire, con la
conseguenza che le attività da esso svolte e i relativi effetti sono imputati all’ente. Gli enti pubblici curano i
pubblici interessi che la legislazione attribuisce loro. Solo la legge li può istituire. Gli enti pubblici
riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto
pubblico. Il conferimento agli enti pubblici di una distinta soggettività giuridica consiste nell’esigenza di
renderli autonomi dagli apparati ministeriali dello Stato e da quelli amministrativi regionali e locali. Un caso
emblematico è quello degli enti strumentali chiamati a svolgere funzioni tecniche (ISTAT e INPS).
Gli enti economici furono istituiti nel 1933 per consentire allo Stato di intervenire nell’economia utilizzando
gli strumenti del diritto privato. L’autonomia di questi enti non era solo organizzativa e gestionale ma anche
decisionale. Nella seconda metà degli anni 50 viene istituito l’Ente nazionale idrocarburi (ENI). Negli anni 90
gli enti pubblici economici furono trasformati in società per azioni grazie alla “privatizzazione”. Tale
privatizzazione si concretizzava in una trasformazione solo giuridica in vista di una privatizzazione in senso
economico, ossia della vendita delle azioni detenute dallo Stato ai privati.

Le Autorità indipendenti
L’istituzione di Autorità indipendenti dal Governo si spiega con l’insorgere di istanze ritenute insuscettibili di
venire soddisfatte dagli apparati di Governo e più in generale con gli strumenti tradizionalmente a
disposizione dei pubblici poteri. Istanze di regolazione di alcuni settori, e di tutela di diritti fondamentali in
altri, che nella gran parte dei casi derivano da rapporti fra privati, singoli o associati, più che da rapporti fra
costoro e il pubblico potere. Tali istanze si pongono di frequente nei mercati ma non solo in essi: si pensi
all’uso di dati personali da parte di terzi, o allo sciopero nei servizi pubblici essenziali. In questi casi il
pubblico potere non è chiamato a svolgere funzioni d’ordine o a gestire servizi pubblici, né agisce come
soggetto privato in campo economico. È piuttosto chiamato a garantire che i soggetti operanti in quei
diversi settori osservino determinate regole o si conformino a determinati comportamenti in modo da evitare
che prevalga “la legge più forte” e per prevenire abusi. Allo scopo di richiede una concentrazione di funzioni
che in base al tradizionale principio di separazione dei poteri sono ripartire fra diversi organi. Le Autorità
indipendenti finora istituite risultano preordinate a soddisfare diritti o beni costituzionalmente garantiti. La
Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), cui sono attribuiti compiti di controllo e
regolamentazione del mercato finanziario in vista della trasparenza delle relative attività, trova giustificazione
nella tutela dei risparmiatori, così come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM o
Antitrust) la trova nella libertà di concorrenza riconosciuta dall’art. 41 Cost., la Commissione di garanzia
dell’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali è chiamata a
contemperare il diritto di sciopero con i diritti fondamentali degli utenti dei servizi pubblici. Altre autorità
indipendenti dello stesso tipo sono: il Garante per la protezione dei dati personali, l’Autorità per le garanzie
delle comunicazioni (AGCOM), l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e il sistema idrico (AEEG), l’Autorità di
regolazione dei trasporti (ART), l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC). Il tratto in comune è che i
membri delle Autorità non sono rieleggibili alla carica.

La Banca d’Italia
La Banca d’Italia è la banca centrale della Repubblica italiana, creata nel 1893 con funzioni di emissione
della moneta, di tesoreria dello Stato nelle province,, di vigilanza sugli istituti di credito e che istituiva allo
scopo il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio. La posizione della Banca d’Italia nel sistema
istituzionale è oggi assimilabile a quella delle Autorità indipendenti dal punto di vista dell’indipendenza dagli
organi di indirizzo politico. La Banca d’Italia è chiamata a funzioni, non di garanzia di certi diritti o beni
costituzionalmente garantiti, come le Autorità indipendenti, ma di governo di un intero settore come il
governo della moneta.

Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro


Il Titolo III della Seconda parte della Costituzione (Il Governo) si articola in 3 sezioni, rispettivamente
dedicate a “Il Consiglio dei Ministri”, “La Pubblica Amministrazione” e “Gli organi ausiliari”. La terza sezione
si articola a sua volta nell’art.99, dedicato al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), e
100, che detta solo in parte la disciplina costituzionale del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. L’art.
99 definisce il CNEL come «organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le
funzioni che gli sono attribuite dalla legge» aggiungendo che «ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla
elaborazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge. Il CNEL è
composto da esperti e rappresentanti delle categorie produttive. Si tratta di un organo di rappresentanza di
interessi chiamato a contribuire con vari strumenti alla formazione di atti legislative di governo. Istituito nel
1957 il CNEL non ha però mai potuto assolvere in misura significativa alle funzioni previste dall’art. 99.

Capitolo 6 → L’organizzazione amministrativa

La responsabilità dei Ministri «per gli atti dei loro dicasteri» e il rapporto politica/amministrazione
Nella responsabilità individuale dei Ministri per gli atti dei loro dicasteri il Ministro è inteso come organo di
vertice dell’apparato ministeriale e proprio perché tale chiamato a rispondere degli atti che in quel dicastero
vengono adottati. Dalla Costituzione si può ricavare un’articolazione di tipi di responsabilità del Ministro nei
confronti del Parlamento per le direttive politiche da lui stabilite nell’ambito del suo dicastero, e dei titolari
degli organi amministrativi di vertice nei confronti del Ministero per gli atti da costoro adottati in attuazione
delle direttive del Ministro.

I principi di imparzialità e buon andamento


Tale interpretazione appare agevolmente conciliabile con i principi di imparzialità e buon andamento
dell’amministrazione.
Il principio di imparzialità presuppone una possibile parzialità nel perseguimento dell’interesse pubblico
cui la singola amministrazione sia preposta. Equivale, cioè a porre un divieto di trattamenti partigiani. Il
principio di imparzialità presuppone che il rapporto fra politica e amministrazione non sia basato sulla
fusione tra le due sfere, che contrasterebbe con esso, né sulla reciproca separazione, che lo renderebbe
inutile, ma sulla distinzione fra l’una e l’altra. Nell’imparzialità viene a esprimersi la distinzione più profonda
tra politica e amministrazione, tra l’azione del Governo e l’azione dell’amministrazione che è vincolata ad
agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate
dall’ordinamento.
Nel principio del buon andamento si ritengono riassunti i 3 predetti di efficienza, quale capacità
dell’amministrazione di ricercare gli strumenti più idonei a raggiungere le finalità che l’amministrazione
riceve dall’esterno, ed è chiamata a perseguire, di efficacia e di economicità. Il buon andamento si collega
ma non va confuso con l’efficienza del Governo, che si riferisce piuttosto all’idoneità, non solo a rendere
operativo il programma che il Presidente del Consiglio ha illustrato in Parlamento all’atto di chiedergli la
fiducia, ma ad individuare e a raccogliere le sfide che vengono dalla società, e a raccordare la propria
azione con quella delle istituzioni locali, sovranazionali e internazionali. Il buon andamento può e deve
invece conciliarsi con l’imparzialità. Un’amministrazione chiamata a perseguire il pubblico interesse cui è
preposta senza disporre trattamenti partigiani non è per questo un’amministrazione meno efficiente di una
che violi il principio di imparzialità.

L’Istituto del concorso


L’art. 97 della Costituzione stabilisce che “Agli impieghi nelle pubbliche amm.ni si accede mediante concorso,
salvo i casi stabiliti dalla legge”. Il concorso è una selezione aperta a tutti i cittadini «in condizioni di
eguaglianza» per l’accesso agli uffici pubblici al fine di scegliere i migliori. L’istituto del concorso è
funzionale ed assicurare imparzialità e buon andamento. L’imparzialità perché solo una competizione
operata in condizioni di eguaglianza può escludere che il reclutamento nelle pubbliche amm.ni dipenda da
favoritismi o clientele; nello stesso tempo, in quanto volto alla scelta dei migliori, mira a soddisfare
l’esigenza del buon andamento. Fra le eccezioni ammesse dalla Costituzione alla regola del concorso
vanno annoverate da un lato la prefissione, nei concorsi relativi alle carriere iniziali, di quote di posti riservati
a invalidi di guerra, civili e del lavoro, che la Corte ha giustificato in nome del dovere di solidarietà di cui
l’art. 2 Cost., e dall’altro le ipotesi in cui l’esigenza di un rapporto fiduciario dei massimi dirigenti
amministrativi con i vertici politici prevale su quelle che giustificano il ricorso al sistema concorsuale, anche
se nell’ambito di regole pur sempre finalizzate al buon andamento.

Il rapporto politica/amministrazione nella legislazione degli anni ’90


Fino agli anni 90 del secolo scorso la disciplina legislativa del rapporto fra Ministri e vertici amministrativi
continuò a restare informato al tradizionale schema della responsabilità dei Ministri per tutti gli atti dei loro
dicasteri e ciò equivaleva a sancire un regime di generale irresponsabilità nella gestione delle pubbliche
amministrazioni, nonostante l’art. 97 disponesse il contrario. Il principio di distinzione fra politica e
amministrazione trovò riconoscimento nella legislazione solo col d. lgs. n 29 del 1993 secondo cui “Gli
organi di Governo esercitano le funzioni di indirizzo amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi di tali
funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione degli indirizzi impartiti ”,
mentre “ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di
spesa di organizzazione delle risorse umane strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva
dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”. Ma per rendere operativo il principio di
distinzione diventa cruciale verificare come i dirigenti sono preposti alle loro funzioni. Si tratta delle modalità
di conferimento degli incarichi ai dirigenti. Gli incarichi sono conferiti dal Ministro con un termine minimo di
una durata di 3 anni e con un termine massimo di 5. Ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione
si tiene conto delle attitudini e delle capacità del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza
nell’amministrazione di appartenenza, delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero,
purché attinenti all’incarico. Nella prassi però mancano standard e criteri oggettivi di valutazione delle
prestazioni dirigenziali cui ancorare conferimento e mancato rinnovo degli incarichi. Tale mancanza e i limiti
minimi e massimi di durata degli incarichi spiegano perché si sia parlato al riguardo di spoils system,
termine importato dagli Usa, dove il Presidente nomina persone di fiducia come ambasciatori e titolari delle
maggiori cariche di Governo per la durata del suo mandato. La Costituzione ha distinto i meccanismi di
spoils system riferiti ad incarichi dirigenziali, a seconda che riguardino posizioni ritenute non confliggenti
con la Costituzione o funzioni amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico, ritenute contrastanti con la
Costituzione. tuttavia la Corte può solamente arginare il ricorso allo spoils system. Potrebbe colpire il
sistema alla radice a condizione di dettare scelte alternative a quelle del legislatore, sostituendosi ad esso
nell’individuare i meccanismi di raccordo fra Ministri e dirigenti: per giungere a tanto dovrebbe impiegare
una discrezionalità politica che esorbiterebbe dalle sue attribuzioni costituzionali.

Il rapporto di impiego con le pubbliche amministrazioni


La Costituzione accomuna i pubblici impiegati diversi dai “funzionari” per porli «al servizio esclusivo della
Nazione» e per funzionalizzarne l’attività ai principi di imparzialità e buon andamento. La determinazione
delle «sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari» richiesta nell’ordinamento
degli uffici riguarda solo i funzionari. L’evoluzione del rapporto con le pubbliche amministrazioni è stata
segnata dalla legislazione. In epoca repubblicana gli impiegati pubblici si distinguevano dai lavoratori privati
e le modalità erano pure diverse: per gli impiegati pubblici era operante l’istituto del concorso. Il dipendente
pubblico era raramente passibile di licenziamento e godeva di una stabilità nel posto di lavoro sconosciuta
al lavoratore privato. Negli anni 80 la natura speciale del rapporto di pubblico impiego viene posta in
discussione. La distinzione del rapporto d’ufficio dal rapporto di servizio viene vista con favore dalla Corte
costituzionale che le ascrive il merito di liberare il rapporto di lavoro nell’impiego pubblico alla prevaricante
sovrapposizione del rapporto organico o di ufficio. Nel frattempo l’associazionismo sindacale si diffonde
nelle pubbliche amministrazioni e i sindacati del pubblico impiego si pongono sempre di più l’obiettivo della
privatizzazione. La legge-quadro sul pubblico impiego n. 93 del 1983 prevede la contrattualizzazione del
rapporto di pubblico impiego per quanto riguarda il trattamento economico perché per quella parte dello
stato giuridico ha a che vedere con le condizioni di lavoro, lasciando fuori il rapporto di ufficio. I contratti
debbono tradursi in provvedimenti amministrativi, e il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni
resta ancora di tipo pubblicistico. Con il d.lgs. n. 29 del 1993 il rapporto di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni viene assimilato a quello dei lavoratori privati. Al regime di diritto pubblico
rimangono soggette categorie indicate tassativamente (magistrati, avvocati dello Stato, docenti universitari,
militari, diplomatici, corpi della polizia e della Banca d’Italia). E il rapporto gerarchico continua a valere per
le sole categorie per le quali valeva prima (militari, corpi di polizia e carriera prefettizia) mentre per le altre è
escluso, talora direttamente dalla Costituzione (magistrati). Agli altri dipendenti si applica il regime
privatistico salvo per il concorso come meccanismo ordinario di accesso nell’impiego pubblico e il regime
delle responsabilità.

Le riforme dell’ultimo decennio


La l.n.15 del 2009 ha segnato un’inversione di rotta del processo di assimilazione del rapporto di impiego
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni al regime privatistico. La fonte di tale rapporto torna ad
essere legge, cui la contrattazione collettiva può derogare solo quando previsto dalla legge stessa e
vengono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, alla
partecipazione sindacale, alle prerogative dirigenziali, al conferimento e alla revoca degli incarichi
dirigenziali. La legge del 2009 introduce il ricorso al principio di trasparenza e vara un ambizioso
programma di valutazione delle prestazioni professionali dei dirigenti, prevede poi che gli incarichi
dirigenziali, che sono il punto più importante di connessione fra vertici politici e dirigenti, possono non
essere rinnovati anche quando la valutazione dei dirigenti non sia negativa. La l.n.124 del 2015, oltre a
ridurre la durata dell’incarico a 4 anni con la possibilità di rinnovo fino a due,, ha introdotto due innovazioni.
La prima riguarda le modalità di conferimento degli incarichi, per i quali si prevede una procedura
comparativa, preceduta da un avviso pubblico e basta su criteri stabili da una Commissione per la dirigenza
statale, incaricata di compiere una preselezione dei candidati. In secondo luogo ai dirigenti non è
riconosciuto un diritto all’incarico dirigenziale ma solo la possibilità di ottenerlo: il dirigente rimasto privo di
incarico viene collocato in disponibilità e potrà formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario
nei ruoli delle pubbliche amministrazioni. La riforma riflette il duplice intento di disancorare i conferimenti
degli incarichi sia dal circuito Ministro-dirigente sia dalla necessità di attribuire un incarico a ciascun
dirigente di ruolo.

Capitolo 7 → L’attività amministrativa

La legge sul procedimento amministrativo


Fino all’approvazione della legge n. 241 del 1990 si riteneva che l’attività delle pubbliche amministrazioni
consistesse nell’esercizio del pubblico potere attraverso l’adozione di atti autoritativi, detti provvedimenti.
La legge ha disciplinato modalità e aspetti dell’attività amministrativa diversi da quelli relativi all’esercizio del
pubblico potere, presupponendone il pari rilievo. L’art. 1 contiene una definizione generale dell’attività
amministrativa, dei principi e criteri che debbono guidarla: “l’attività amministrativa persegue i fini determinati
dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza secondo le modalità
previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi
dell’ordinamento comunitario”. La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa,
agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. “I soggetti privati
preposti dell’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei principi di cui al comma 1 con un livello di
garanzia non inferiore a quello cui vanno tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla
presente legge”.

Principi e criteri
Il punto più importante della legge del 1990 è che essa individua l’attività amministrativa nel «perseguire i
fini determinati dalla legge». Eseguire precetti p un’attività automatica, perseguire fini non può esserlo,
perché presuppone una ricerca degli strumenti necessari allo scopo. L’affermazione del legislatore del 1990
segna una svolta nell’individuazione del significato del principio di legalità come sottoposizione dell’attività
amministrativa alla legge, che tradizionalmente equivaleva ad esecuzione della legge. Nello stesso anno la
Costituzione aveva per la prima volta distinto la politica dall’amministrazione vincolata «al fine del
perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dell’ordinamento». Il Consiglio di Stato ha affermato che il
concreto raggiungimento delle finalità per il quale il potere pubblico è attribuito non può postularsi, in un
ordinamento democratico, se non attraverso l’osservanza del procedimento in proposito appositamente
predisposto. Il rispetto delle regole del procedimento è posto a garanzia dei cittadini che vedano la propria
posizione soggettiva toccata dall’esercizio di pubblici poteri e della stessa amministrazione pubblica, le cui
finalità possono dirsi in concreto perseguite attraverso un’azione amministrativa che si sia sviluppata nel
rispetto delle regole che presiedono al suo svolgimento. La legalità come perseguimento da parte delle
pubbliche amministrazioni dei fini determinati dalla legge presuppone che il potere di ciascuna di esse sia
predeterminato. L’attività amministrativa è retta dai principi dell’ordinamento comunitario, oggi del diritto
dell’UE. Questi principi ne specificano o ne integrano la portata nella direzione di una maggiore tutela delle
situazioni private. Fra di essi vanno menzionati:
- Il principio di proporzionalità, secondo cui ogni misura incidente su situazioni private deve essere
adeguata all’obiettivo ed anche necessaria, nel senso che nessun’altra misura incidente su di esse
potrebbe essere adottata per raggiungere quell’obiettivo;
- Il principio di legittimo affidamento, secondo cui una situazione di vantaggio assicurata a una persona
o impresa non può essere rimossa in seguito se non per motivate esigenze di pubblico interesse e salvo
indennizzo;
- Il principio di libera concorrenza, che costituisce il principio cardine del diritto europeo.

Modalità dell’azione amministrativa


La legge del 1990 a seguito delle modifiche introdotte dalla l.n.15 del 2005, distingue due modalità
attraverso cui le pubbliche amministrazioni agiscono: quella che perviene all’adozione di «atti di natura
autoritativa» retti da norme di diritto pubblico, e quella che perviene dall’adozione di «atti di natura non
autoritativa», retti da norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente». Il rispetto dei
principi ora indicati valgono per le attività relative agli uni come agli altri atti e si estendono ai soggetti privati
preposti all’esercizio di attività amministrative.

Atti di natura non autoritativa. I contratti delle pubbliche amministrazioni


Parlando di atti di natura non autoritativa la legge 1990 di riferisce ai contratti stipulati dalle pubbliche
amministrazioni e ai servizi pubblici, dove esse si presentano come soggetti tenuti a erogare delle
prestazioni alla collettività. I contratti si distinguono in attivi e passivi a seconda che attraverso di essi
l’amministrazione acquisisca un’entrata oppure beni o servizi, con corrispondente onere finanziario. Fra
questi ultimi spiccano gli appalti pubblici e le concessioni di lavori pubblici, che si differenziano l’uno
dall’altro a seconda che il corrispettivo dell’opera debba essere versato immediatamente oppure sia
collegato alla gestione dell’opera.
Tali contratti sono denominati ad evidenza pubblica, perché tratti da un provvedimento speciale, nel quale
fasi dominate dal diritti pubblico di alternano a fasi dominanti dal diritto privato:
1. deliberazione a contrarre, assunta con provvedimento o predisposizione di un contratto-tipo;
2. scelta del contraente, che si conclude con l’aggiudicazione dell’appalto;
3. stipulazione del contratto;
4. stipulazione del contratto, fase estranea alla formazione dello stesso che serve ad assicurare il controllo
di regolarità amministrativa e contabile;
5. esecuzione del contratto.
Le fasi strettamente privatistiche sono la terza e la quinta, mentre nelle altre prevale l’interesse pubblico.
Il d.lgs.n.50 del 2016 contiene un nuovo Codice dei contratti pubblici. All’art. 30 viene stabilito che
l’affidamento l’esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni, garantisce la qualità
delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza.
Nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano i principi di libera
concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, pubblicità. Agli artt. 123 s.s. Il Codice
regola le procedure di scelta del contraente e stabilisce che nell’aggiudicazione di appalti di forniture, lavori
o servizi, gli enti aggiudicatori utilizzano procedure di affidamento aperte, ristrette o negoziate precedute da
indizione di gara. Gli enti aggiudicatori possono ricorrere a dialoghi competitivi e partenariati per
l’innovazione in conformità alle disposizioni. Gli enti aggiudicatori possono ricorrere a una procedura
negoziata senza previa indizione di gara solo in una serie di ipotesi tassativamente previste, fra cui l’estrema
urgenza. Tale procedura viene chiamata “trattativa privata” che sfugge al principio di libera concorrenza tra
offerte e non è vista di buon occhio dall’UE. Il criterio che secondo il Codice deve orientare
l’amministrazione dell’aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che
presuppone che l’amministrazione valuti il rapporto fra prezzo e convenienza economica dell’offerta, quindi
con un margine discrezionale più o meno ampio.

Atti di natura autoritativa


Rispetto ai meri atti amministrativi, come le certificazioni, gli atti adottati nell’ambito di un procedimento
amministrativo o i pareri, i provvedimenti di distinguono per l’intento di realizzare l’interesse pubblico
modificando unilateralmente la sfera giuridica del destinatario. Il loro regime giuridico differisce da quello
dei privati per una serie di caratteristiche.
Mentre l’azione dei privati, nei loro rapporti intersoggettivi, incontra il limite dell’illecito, i funzionari e
dipendenti pubblici, oltre ad essere direttamente responsabili, secondo leggi penali, civili e amministrative,
degli atti compiuti in violazione di diritti, sono tenuti a perseguire in positivo i fini determinati dalla legge.
L’azione delle pubbliche amministrazioni deve essere non solo lecita, ma anche conforme alla legalità, e agli
altri principi e criteri. In secondo luogo per i privati vale il principio di autonomia contrattuale in base a cui
«possono concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi disciplina particolare purché siano diretti
a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Mentre i privati possono
concludere contratti atipici nei termini ora indicati, nell’esercizio di un pubblico potere le pubbliche
amministrazioni non possono adottare provvedimenti che non siano previsti dalla legge o da atti normativi.
In terzo luogo l’attività dell’amministrazione, quando agisca come pubblico potere, è procedimentalizzata e
gli atti che concludono il procedimento vanno sempre motivati, mentre ciò non vale per l’attività dei privati.
L’amministrazione può curare l’attuazione dei propri provvedimenti in autotutela, senza l’intervento del
giudice, da cui i caratteri di esecutività e di esecutorietà dei provvedimenti.
L’esecutività. I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente. Di regola l’efficacia di
un provvedimento decorre da quando si sia perfezionato il relativo procedimento di formazione.
L’esecutorietà. Il provvedimento costitutivo di obblighi è detto esecutorio, nel senso che può essere
eseguito senza che la sua sussistenza sia preventivamente accertata dal giudice.

Discrezionalità amministrativa
Proprio perché l’amministrazione è chiamata a perseguire finalità obiettivate nell’ordinamento, di solito il
suo potere non è nemmeno un potere vincolato ma piuttosto un potere discrezionale, che consiste nel
ponderare l’interesse primario intestato dalla legge all’amministrazione procedente con gli interessi
secondari che in ipotesi confliggono gli uni con gli altri e che entrano tutti in gioco di decisione. Il potere
diventa vincolato quando la legge, invece di limitarsi a indicare il fine dell’azione amministrativa, non lascia
all’amministrazione alcuno spazio residuo di apprezzamento, vincolante l’azione fin nel dettaglio. Il potere
discrezionale dell’amministrazione si colloca in uno spazio intermedio fra un potere libero e uno vincolato.
Le ragioni per cui il potere amministrativo non è vincolato consiste nel fatto che le leggi si limitano ad
indicare il fine dell’azione dell’amministrazione. Il carattere discrezionale del potere amministrativo nel senso
di non libero rimanda al dover essere dell’amministrazione, mentre il suo carattere discrezionale nel senso
di non vincolato attesta una regolarità passibile di eccezioni e perciò si colloca sul piano dell’essere.
Nel linguaggio giuridico si parla pure di discrezionalità del legislatore ma la discrezionalità legislativa ha a
che vedere con la scelta delle finalità dell’azione pubblica, nella misura in cui la Costituzione abiliti il
Parlamento a compierla anziché indicarla essa stessa con riserve di legge rinforzata. Quando si parla di
discrezionalità del giudice ci si riferisce all’interpretazione del caso che gli è stato sottoposto e della legge
che deve applicare nel caso.
Il potere discrezionale si può esercitare in uno o più dei seguenti elementi: nell’an, ossia nel se compiere o
meno una certa scelta; nel quid, cioè nel contenuto del provvedimento; nel quando adottarlo; nel
quomodo ossia nelle concrete modalità di realizzazione dell’interesse sottese a un certo provvedimento.

Il procedimento amministrativo
Il procedimento amministrativo consiste in una sequenza di atti preordinata all’adozione di un
provvedimento e si ripartisce in una serie di fasi: istruttoria in cui si raccolgono gli elementi utili per la
decisione, costitutiva che corrisponde all’adozione del provvedimento, e integrativa dell’efficacia che è
una fase necessario allorché il provvedimento debba essere reso noto ai suoi destinatari e sia sottoposto a
controllo preventivo. Le pubbliche amministrazioni debbono rispettare questo modello e debbono
concludere il procedimento non oltre 90 giorni a pena di risarcire il danno per la mancata osservanza del
termine.
Responsabile del procedimento
La legge prevede un responsabile del procedimento e più precisamente della istruttoria e di ogni altro
adempimento inerente il singolo procedimento, nonché dell’adozione del provvedimento finale. I principali
compiti del responsabile del procedimento consistono nel dare impulso al procedimento, individuando i
soggetti interessati al procedimento e assicurando la loro partecipazione ad esso a partire dalla
comunicazione dell’avvio di procedimento, nel far sì che l’istruttoria si svolga nel più adeguato e sollecito, e
nell’accertare d’ufficio i fatti.

Soggetti interessati al procedimento


Fra i soggetti interessati al procedimento la legge annovera sia i soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi, sia
qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in
associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento.

Partecipazione al procedimento
La partecipazione al procedimento dei soggetti indicati consiste nel diritto di accesso ai documenti
amministrativi e nel diritto di presentare memorie scritte e documenti che l’amministrazione deve valutare
ove pertinenti.

Diritto di accesso
La legge riconosce il diritto di accesso come diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia
dei documenti amministrativi e lo ha qualificato principio generale dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza. Tale diritto è assicurato anche al di
fuori di un procedimento avviato. L’accesso è garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Esistono delle
limitazioni di accesso che si estendono per esempio ai documenti coperti da segreto di Stato.

Diritto di presentare memorie e documenti


Tale diritto si può esercitare solo in forma scritta, e corrisponde al dovere del responsabile del procedimento
in fase istruttoria di prendere in considerazione tutte le informazioni rilevanti per la decisione, anche quando
le memorie e i documenti degli interessati mirino soltanto a soddisfare le loro pretese. Ove il responsabile
non adempia a tale dovere, il provvedimento finale potrà essere impugnato davanti al giudice
amministrativo in quanto affetto dal vizio di eccesso di potere per incompleta istruttoria.

Conferenza dei servizi


La legge prevede che qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo o sia necessario acquisire intese, concerti, nulla osta o assenzi
comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche, venga istituita una conferenza di servizi che può
deliberare anche in via telematica. La conferenza dei servizi è stata prevista per confrontare gli interessi
pubblici e raggiungere gli obiettivi di semplificare l’azione amministrativa e di accelerare l’iter del
procedimento per il buon andamento. Per la necessaria partecipazione contestuale di tutte le
amministrazioni interessate, la conferenza può portare alla paralisi del procedimento o a ritardi nella sua
conclusione, contraddicendo la sua ragion d’essere. Ai procedimenti e quindi alla conferenza di servizi
debbono di frequente partecipare amministrazioni regionali, titolari di attribuzioni costituzionalmente
garantite, nonché amministrazioni (statali e regionali) portatrici di «interessi sensibili». In tali casi la
ponderazione degli interessi non solo è compiuta da una sola autorità ma alcuni interessi vengono reputati
di tale pregio da riservare un trattamento specifico al dissenso delle amministrazioni che ne sono
rispettivamente portatrici rispetto alla scelta condivisa dalle altre amministrazioni partecipanti alla
conferenza.

Obbligo di motivazione
La legge stabilisce anche l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti tranne che per gli atti normativi e
per quelli a contenuto generale. La motivazione riveste una fondamentale funzione di garanzia per i
destinatari del provvedimento, consentendo loro di valutare l’operato dell’amministrazione al fine di
contestarne la legittimità davanti al giudice amministrativo. Ove l’atto sia impugnato la motivazione
consente a tale giudice di ripercorrere l’iter argomentativo che ha condotto l’amministrazione ad adottare il
provvedimento.

La conclusione del procedimento


Quanto ai termini di conclusione del procedimento, la regola generale è che i procedimenti di competenza
delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi non oltre 90 gg, estesi a 180
nei soli casi in cui si debba tener conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione
amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento.

Vicende del provvedimento amministrativo


Adottato il provvedimento, l’amministrazione può accorgersi che è inopportuno o illegittimo e può adottare
determinati atti.
L’ipotesi di provvedimento rivelatosi inopportuno può comportarne la revoca che comporta che il
provvedimento revocato non produca ulteriori effetti e impone all’amministrazione di provvedere al loro
indennizzo. L’obbligo di indennizzo costituisce applicazione del principio di legittimo affidamento, laddove
la revoca comporti sacrificio delle aspettative che i cittadini abbiano in buona fede maturato circa la stabilità
degli effetti del provvedimento revocato, e per essi favorevoli. In ogni caso la revoca non ha effetti retroattivi
e può essere disposta solo per ragioni di opportunità non anche di legittimità.
Nell’ipotesi di provvedimento affetto da un vizio di legittimità ma sanabile, l’amministrazione può eliminare
tale vizio con una convalida del provvedimento. Si può trattare di un vizio formale, ossia relativo al
procedimento di formazione dell’atto, o di competenza, nella misura in cui il provvedimento sia stato
adottato da organo incompetente: in tal caso il provvedimento è convalidato con la sua adozione da parte
dell’organo competente.
Ove il vizio non è sanabile l’amministrazione può procedere all’annullamento d’ufficio del provvedimento.
Tale annullamento opera con effetti retroattivi, trattandosi di un provvedimento non inopportuno ma
illegittimo.

Validità ed efficacia del provvedimento amministrativo


La nozione di efficacia come capacità del provvedimento di modificare situazioni giuridiche soggettive si
distingue da quella di validità come conformità del provvedimento al parametro normativo cui deve
conformarsi. Le modalità con cui l’ordinamento giuridico tende a ricongiungere la validità e l’efficacia di un
atto differiscono a seconda dei tipi di atto.

Vizi del provvedimento amministrativo


Quanto al provvedimento amministrativo, i vizi da cui può essere affetto sono la nullità, l’annullabilità e
l’irregolarità. Essi possono distinguersi. Il provvedimento amministrativo è infatti nullo quando è invalido e
inefficace, è annullabile quando è invalido ma efficace fino a quando la sua invalidità non venga accertata
con l’effetto costitutivo di rimuoverlo dall’ordinamento, ed è irregolare quando è affetto da vizi sanabili, oltre
che efficace.

Nullità
La legge qualifica come nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato. Gli
elementi essenziali possono individuarsi come segue: soggetto che adotta il provvedimento, oggetto del
medesimo, contenuto precettivo e forma in cui deve estrinsecarsi. Il provvedimento è viziato da difetto
assoluto di attribuzione quando risulta adottato da un’autorità priva i qualsiasi potestà di adottarlo o non
avrebbe potuto essere adottato da un’autorità amministrativa. Il provvedimento adottato in violazione o
elusione del giudicato da un’amministrazione pubblica che non si conformi a una sentenza passata in
giudicato, forma oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Annullabilità
Il provvedimento amministrativo è considerato annullabile quando è adottato in violazione di legge o viziato
da eccesso di potere o da incompetenza.
Si ha incompetenza quando il provvedimento risulti adottato da un’autorità diversa da quella competente
per legge a provvedere ma non priva di potestà in ordine all’atto.
Si ha violazione di legge quando il provvedimento viola una norma giuridica dal punto di vista del
contenuto o dal punto di vista procedurale.
Il vizio di eccesso di potere viene fatto corrispondere a tutti i casi nei quali l’atto ha trasgredito i principi
sulla funzione amministrativa e sull’esercizio del potere discrezionale. L’eccesso di potere si manifesta
attraverso figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza. Tali figure o sono riconducibili alla violazione
dei principi di imparzialità e buon andamento, o sono accostabili al canone di ragionevolezza-
proporzionalità che muovono dal principio di eguaglianza.
A differenza del provvedimento nullo,, quello annullabile non può essere fatto valere in giudizio da chiunque
vi abbia interesse, ma solo da chi dimostri di essere titolare di un interesse legittimo: che deve essere di tipi
personale, cioè proprio di colui che si pretende leso; diretto, quindi derivante direttamente dal
provvedimento in questione; attuale cioè in atto al momento dell’impugnazione. Il provvedimento annullabile
può essere impugnato solo entro 60 gg dal momento in cui sia stato notificato all’interessato. Infine, mentre
in presenza di un provvedimento nullo il giudice si limita ad accertare il vizio di nullità, nel caso del
provvedimento annullabile la sentenza del giudice è provvista di effetto costitutivo, facendo così venir meno
l’efficacia del provvedimento.

Irregolarità
La legge qualifica come non annullabile il provvedimento irregolare, ossia quello adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concreto adottato. Il
provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.

Capitolo 8 → Le antinomie territoriali

Promessa
Solo la funzione legislativa conferisce a un ente territoriale il potere di deliberare pienamente sulle questioni
che investono la collettività che esso rappresenta sul piano politico. L’autonomia degli enti territoriali non si
estrinseca soltanto nella riserva di poteri normativi, ma anche in quelle di poteri amministrativi e del potere
di disporre delle risorse necessarie a finanziare le loro funzioni.

La distribuzione delle funzioni amministrative fra Stato e autonomie territoriali


Lo Stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative. La Regione
esercita le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti o valendosi dei
loro uffici.
Il criterio del parallelismo è quel criterio secondo il cui lo Stato e le Regioni dispongono ciascuno di poteri
amministrativi sulle stesse materie quelli dispongono di poteri legislativi e il normale esercizio delle funzioni
amministrative regionali non direttamente da parte della Regione, ma attraverso gli enti locali, sulla base
della regola generale della distinzione fra titolarità ed esercizio del potere. Questo criterio garantiva che le
funzioni amministrative regionali fossero preordinate all’attuazione delle leggi regionali. La Costituzione si
limitava a riservare alla legge statale l’attribuzione agli enti locali di funzioni di interesse esclusivamente
locale nelle materie riservate alla potestà legislativa regionale. Nella prassi le cose cambiano. Da una parte il
trasferimento delle funzioni amministrative statali alle Regioni a statuto ordinario, avvenuto nei primi anni 70,
fu l’occasione per la creazione di cospicui apparati amministrativi regionali, con cui le Regioni provvidero a
svolgere le funzioni amministrative loro spettanti, anziché attraverso gli enti locali. Dall’altra parte si rinnovò
la disciplina preesistente adeguandola al principio autonomistico.
Una notevole svolta in questo senso si ebbe con la legge di delegazione n.59 del 1996, seguita dai relativi
decreti attuativi che attribuì a Regioni ed enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi non riservati
espressamente dalla stessa legge dello Stato. La nuova disciplina assestava un primo colpo al parallelismo,
dal momento che, su una serie di materie, le Regioni si trovavano a disporre di un potere amministrativo
senza essere titolari del corrispondente potere legislativo. Con il testo dell’art. 118 approvato con legge
costituzionale n.3 del 2001 si sostiene che: «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che,
per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla
base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Tali principi sono criteri di allocazione
della funzione amministrativa. La sussidiarietà è intesa in senso verticale, intercorrendo fra gli enti di cui la
Repubblica è costituita e si basa sul criteri di attribuire la funzione amministrativa all’ente più prossimo ai
cittadini, salvo che l’ente non sia in grado di svolgerla efficacemente. In tal caso la funzione spetta all’ente
di dimensioni territoriali maggiori in via sussidiaria e ove questo non risulti a sua volta in grado di svolgerla
la funzione passa all’ente di dimensioni territoriali superiori, e così via fino allo Stato. La differenziazione e
l’adeguatezza costituiscono principi complementari con quello della sussidiarietà nell’allocazione della
funzione amministrativa fra gli enti consentendo di tener conto di variabili demografiche o territoriali e di
idoneità organizzativa. I principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza debbono ispirare la legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze, che attribuisca a Comuni, Province e Città
metropolitane le funzioni amministrative proprie o quelle conferite dalla legge stessa.
La legge n. 56 del 2014 definisce le Province «enti di area vasta», ne individua le funzioni fondamentali
riducendo fortemente quelle di gestione e potenziando quelle ad agevolare il processo di aggregazione fra
Comuni minori e prevede che i Consigli provinciali siano eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali della
Provincia fra quelli in carica. La legge individua poi le Città metropolitane fra i nove Comuni con maggiore
popolazione, ne fissa le funzioni essenziali e attribuisce ai relativi statuti la facoltà di scegliere se i consiglieri
e il Sindaco metropolitano siano eletti direttamente dai cittadini o indirettamente, dai consiglieri comunali in
carica.

La finanza degli enti territoriali autonomi


La possibilità di disporre di risorse sufficienti a finanziare le funzioni di un certo ente territoriale è
coessenziale all’esercizio effettivo di ogni potere di cui risulti titolare, sia esso legislativo o amministrativo.
Per gli enti territoriali autonomi, tale possibilità è definita autonomia finanziaria e consiste di due aspetti:
l’autonomia di entrata, ossia il potere di stabilire entrate proprie, e l’autonomia di spesa, ossia il potere di
finanziare le proprie funzioni. L’autonomia finanziaria rimane ridotta all’autonomia di spesa per Regioni,
Comuni e Città metropolitane.
Le Regioni a statuto speciale prevedono che le quote di tributi erariali si riferiscono ai singoli tributi riscossi
sul territorio regionale. Si tratta di un sistema che garantisce alla Regione un a fflusso certo di risorse, oltre
che ingente.
La l.cost. n. 1 del 2012 ha dettato disposizioni specifiche per le autonomie territoriali. Oltre a trasferire dalla
competenza legislativa concorrente a quella esclusiva dello Stato la materia di armonizzazione dei bilanci
pubblici, ha aggiunto che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa «nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare
l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’UE» e ha aggiunto che i
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i
principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare
spese di investimento. È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti «con la
contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna
Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio» in forza del quale la Regione può compensare l’indebitamento
di alcuni enti con i maggiori avanzi di altri in vista dell’equilibrio di bilancio.

Rapporti fra Stato e autonomie territoriali


L’autonomia va contemperata col principio unitario, il che comporta anche circuiti di collegamento con lo
Stato centrale. Se ne possono distinguere tre tipologie: la partecipazione delle Regioni all’esercizio di
funzioni statali, i raccordi cooperativi fra Stato ed enti autonomi e i controlli dello Stato sugli enti autonomi.

Partecipazione delle Regioni all’esercizio di funzioni statali


La Costituzione prevede una forma necessaria di partecipazione delle Regioni all’esercizio di funzioni statali.
Si tratta dell’integrazione, in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica, del Parlamento in seduta
comune con 3 delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la
rappresentanza delle minoranze. Per assicurare la presenza delle minoranze, gli statuti regionali e i
regolamenti interni dei Consigli prevedono il ricorso al voto limitato, grazie al quale il consigliere regionale
può esprimere un numero di voti inferiore a quello sei delegati regionali al collegio chiamato a eleggere il
Capo dello Stato si ricava dalla generale funzione a lui ascritta di rappresentare l’unità nazionale. Le altre
forme di partecipazione regionale all’esercizio di funzioni statali sono invece eventuali e riflettono il
proposito di estendere alle Regioni la facoltà di promozione di procedure democratiche. Allo scopo la
Costituzione prevede che ogni Consiglio possa fare proposte di legge alle Camere, potere di proposta che
si intende riferito non solo alle leggi ordinarie ma anche alle leggi costituzionali e che 5 Consigli regionali
possano promuovere referendum abrogativo e costituzionale nell’ambito dei procedimenti previsti e
specificati dalla legge. Diversa è la partecipazione dei Presidenti delle Regioni e Province ad autonomia
differenziata alle sedute del Consiglio dei Ministri quando si discutano questioni che interessino la singola
Regione, e che, nel caso della Sicilia, si può esprimere anche con il voto. Tale partecipazione è prevista dai
singoli statuti speciali, riguarda la singola Regione e non tutte, e mira a far valere il relativo interesse nel
collegio.

Raccordi collaborativi fra Stato ed enti autonomi


La tipologia dei raccordi collaboratici non è preordinata a far partecipare organi regionali all’esercizio di
funzioni statali, ma ad assicurare che le scelte compiute dallo Stato e dagli enti autonomi in ambiti
normativamente determinati siano condivise da entrambe le parti. Vale qui il principio di leale cooperazione
che va la di là del mero riparto costituzionale delle competenze per materia e opera su tutto l’arco delle
relazioni istituzionali tra Stato e Regioni.
La più importante forma di raccordo collaborativo è assicurata dalle Conferenze permanenti Stato- Regioni
e Stato-città e autonomie locali nonché dalla Conferenza unificata Stato-Regioni-città. Le prime due
Conferenze sono presiedute dal Presidente del Consiglio e composte rispettivamente dai Presidenti delle
Regioni e Province autonome, e da 14 sindaci e 6 Presidenti di Provincia, oltre che da alcuni Ministri. La
Conferenza unificata è composta dai membri delle prime die. Le funzioni delle prime 2 Conferenze
consistono nella predisposizione di pareri nei confronti degli atti del Governo e di intese e accordi
prodromici alla formazione di atti amministrativi ed legislativi. I pareri sono di regola obbligatori ma il loro
contenuto non vincola l’organo procedente. Il meccanismo dell’intesa o dell’accordo presuppone invece
due soggetti in condizione paritaria. Le intese e gli accorsi raggiunti in Conferenza hanno un carattere
vincolante sul piano politico. Quando oggetto dell’intesa o dell’accordo è uno schema di disegno di legge
diventa palese il condizionamento di fatto esercitato da organi intergoverantivi, come le Conferenze, sulla
libera determinazione che in principi dovrebbe informare i lavori delle assemblee elettive.
Un'altra modalità di raccordo collaborativo riguarda i rapporti fra le Regioni e gli enti locali. Si tratta del
Consiglio delle autonomie locali, che ogni Regione deve disciplinare nel proprio statuto quale organo di
consultazione fra le Regioni e gli enti locali.

Sostituzione e scioglimento degli organi degli enti autonomi


Soppressi i controlli preventivi di legittimità, e in casi stabiliti dalla legge anche di merito, sugli atti
amministrativi regionali e degli enti locali, e modificato il controllo sulle leggi regionali, la l.cost. n. 3 del 2001
ha introdotto un potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e in certi casi anche degli enti
territoriali nelle ipotesi previste. Nel primo caso si tratta dell’inadempienza delle Regioni e Province
autonome in ordine all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE. Nel
secondo caso la Costituzione prevede che il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle città
metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o
della normativa comunitaria oppure di pericoli grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica.
La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e di leale collaborazione.
Le differenze consistono:
1. nell’organo dello Stato chiamato a esercitare il potere sostitutivo individuato nel Governo;
2. negli enti nei cui confronti lo Stato può esercitare il potere sostitutivo: rispettivamente, le Regioni e
Province autonome e tutti gli enti autonomi di cui la Repubblica è costituita;
3. nelle ipotesi in cui il potere sostitutivo può essere attivato.
La Costituzione prevede che con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo
scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuti atti
contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge. Lo scioglimento e la rimozione possono essere disposti
per ragioni di sicurezza nazionale.

L’assetto dei rapporti internazionali ed europei delle Regioni


Le attribuzioni delle Regioni in ordine ai rapporti internazionali si articolano in tre aspetti distinti.
Il primo consiste nell’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali nelle materie a loro riservate. Il
secondo riguarda l’esercizio della potestà legislativa concorrente nei rapporti internazionali e va
contemperato con la potestà legislativa esclusiva dello Stato sulla politica estera. Il terzo aspetto si ricava
dall’art. 117, nono comma, secondo cui «nelle materie di sua competenza la regione può concludere
accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da
legge dello Stato. Questo terzo aspetto consente allo Stato di circondare l’area operativa del potere della
Regione di stipulare accordi con altri Stati di liniti tali da renderla irrilevante.
Quanto ai rapporti delle Regioni con l’Unione Europea si distingue una fase ascendente, di partecipazione
regionale insieme allo Stato alla formazione del diritto UE, una fase discendente di attuazione ed
esecuzione dello stesso da parte delle Regioni, sempre nelle materie di loro competenza. Nella prima ci si
riferisce ai procedimenti concernenti l’intera normativa dell’UE che sarà approvata dagli organi previsti dai
relativi trattati, nella seconda ci si riferisce alla sola normativa dell’UE adottata con atti che richiedono
un’attuazione legislativa da parte degli Stati membri non anche a quella adottata con atti direttamente
applicabili in quanto tali sul loro territorio. Nella fase discendente si tratta di attuare obblighi della
Repubblica, e gli spazi di discrezionalità politica di cui dispone la Regione nell’attuare con legge le direttive
possono inoltre essere resi esigui dal carattere talora dettagliato delle stesse. Nella fase ascendente si tratta
di partecipare alla formazione di atti e di esercitare l’autonomia regionale in sede politica.

L’organizzazione degli enti territoriali


autonomi L’organizzazione delle Regioni
Secondo l’art. 123, primo comma, “Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne
determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento ”. L’organizzazione dei
Comuni e degli altri enti autonomi è disciplinata dalla legge ordinaria per gli aspetti fondamentali e dai
relativi statuti per la parte restante.
Il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla Regione e le altre funzioni conferitegli dalla
Costituzione e dalle leggi. La disciplina dell’organizzazione delle Regioni è attribuita ai relativi statuti in
armonia con la Costituzione, e la Corte costituzionale ha affermato che spetta ad essi la scelta se riservare
la potestà regolamentare alla Giunta o la Consiglio o all’una e all’altro secondo criteri determinati. Quanto ai
consiglieri regionali rimane l’immunità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Nel testo del 1999 la Giunta rimane l’organo esecutivo della Regione e il suo Presidente mantiene le funzioni
di rappresentante della Regione, nonché quelle di promulgare le leggi e di emanarne i regolamenti. Egli,
infine, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile. Il Presidente della Giunta regionale è eletto a
suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta. Il Presidente
scelto il suo statuto viene posto nella condizione di ricevere la fiducia. Si può parlare anche in questo caso
di mozione di fiducia o di sfiducia che ricalca le modalità con cui il Parlamento opera, tranne che per la
maggioranza assoluta. Il Presidente (e Giunta) e il Consiglio hanno il meccanismo automatico del simul
stabunt sumul cadent: stanno insieme e cadono insieme): lo scioglimento del Consiglio può derivare non
solo dall’esercizio del potere sanzionatorio dello Stato nelle ipotesi previste dall’art. 126, compresa la
rimozione del Presidente della Giunta, o da fatti oggettivi, ma anche dalla sfiducia del Consiglio del
Presidente eletto, che certifica il venir meno della necessaria consonanza politica fra di essi. Alcune regioni
hanno previsto un proprio sistema elettorale, che con alcune varianti è proporzionale con premio di
maggioranza. Tutte le Regioni ad autonomia ordinaria hanno optato nei loro statuti per il sistema
dell’elezione diretta del Presidente.

L’organizzazione dei Comuni


La legge definisce il Comune «l’ente che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne
promuove lo sviluppo». Le funzioni degli organi di indirizzo politico, che sono il Sindaco, la Giunta, il
Consiglio e delle amministrazioni, riflettono al rispettivo livello queste caratteristiche del Comune.
Il Sindaco è eletto dai cittadini residenti a suffragio universale diretto per non più di due mandati. Oltre a
rappresentare l’ente, a nominare gli assessori della Giunta e a presiederla, svolge importanti funzioni come
capo dell’amministrazione comunale: è titolare dei poteri di nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi
dei rappresentanti del Comune presso aziende ed enti indipendenti, sovrintende al funzionamento degli
uffici e dei servizi e all’esecuzione degli atti. Il Sindaco è anche Ufficiale del Governo, cioè organo
sottoposto a vincolo gerarchico nei confronti del Ministro dell’interno.
La Giunta è un collegio di collaboratori del Sindaco, che questi nomina e può revocare.
Il Consiglio rappresenta la comunità locale in modo da esprimere le diverse opinioni politiche, essendovi
rappresentate una lista di maggioranza e di minoranza. Il Consiglio approva lo statuto, i regolamenti, i
programmi e i bilanci, delibera circa le spese pluriennali e continuative. Può restare in carica 5 anni, e può
essere sciolto con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’interno per le
stesse ragioni per cui può esserlo il Consiglio regionale: mancata approvazione del bilancio, dimissioni o
decadenza di oltre la metà dei consiglieri, collegamenti con la criminalità organizzata.
Il sistema per l’elezione dei Sindaci e del Consiglio comunale varia a seconda che si tratti di Comuni con
popolazione inferiore o superiore ai 15mila abitanti. Quanto ai primi la legge prescrive che gli elettori votino
solo per la carica di Sindaco. Nei comuni con popolazione maggiore di 15 mila abitanti l’elettore vota per il
Sindaco, che anche qui si presenta con una o più liste collegate di candidati alla carica di consiglieri, e per il
Consiglio comunale, per il quale esprime un voto disgiunto da quello che ha espresso per la carica di
Sindaco. È eletto sindaco il candidato che abbia ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Se non la
ottiene i due candidati che hanno raggiunto il maggior numero di voti partecipano a un secondo turno detto
di ballottaggio da svolgersi a distanza di 2 settimane dal primo, che viene vinto da chi ha ottenuto il
maggior numero di voti.
L’amministrazione comunale
L’amministrazione comunale presenta alcuni tratti originali rispetto a quella degli altri enti territoriali. A capo
dell’amministrazione è il Segretario comunale, che dipende dal Sindaco, è da lui nominato, e dura in
carica 2 anni. Verbalizza le sedute del Consiglio e della Giunta, si occupa della rogatoria dei contratti di cui
è parte il Comune o dell’autenticazione delle scritture private, dell’attuazione degli indirizzi e degli obiettivi
stabiliti dal Sindaco e la sovraintendenza allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti.
I dirigenti adottano gli atti e i provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, quali
presidenza di commissioni di gara e concorso, responsabilità delle procedure di appalto e di concorso,
stipulazione di contratti, rilascio di autorizzazioni e concessioni. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a
tempo determinato.

Capitolo 9 → I controlli e la responsabilità

Premessa sui controlli


L’attività di controllo consiste nel verificare se un atto o un’attività già svolta sia conforme ad un certo
parametro. Il controllo può essere interno o esterno. Il controllo è riferibile ad atti o attività delle pubbliche
amministrazioni su cui il nostro ordinamento prevede controlli esterni ed interni, preventivi e successivi,
riguardanti la legittimità, l’opportunità, la regolarità contabile o la funzionalità della gestione. Il controllo è
distribuito tra vari organi: il solo cui la Costituzione fa riferimento è la Corte dei conti, mentre gli altri sono
previsti dalla legislazione.

La Corte dei conti: composizione e criteri di nomina


La Corte dei conti esercita il controllo preventivo li legittimità sugli atti del Governo e anche quello
successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a
cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro
eseguito.
I magistrato della Corte dei conti sono reclutati tramite concorso pubblico, riservato a magistrati ordinari e
amministrativi, avvocati dello Stato e del libero foro, militari e funzionari in possesso dei requisiti previsti
dalla legge.

Controlli della Corte dei conti


Il controllo successivo è unicamente riferito alla gestione del bilancio dello Stato, quindi alla verifica del
rendiconto, per il resto è previsto un controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo. Il controllo sulla
gestione del bilancio si impernia in un giudizio di parificazione che costituisce il presupposto della legge di
approvazione del rendiconto, ed è accompagnato da una relazione della Corte detta “referto”, in cui espone
le sue osservazioni su come le amministrazioni si sono conformate alle discipline normative e i suoi
suggerimenti per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione e sui conti del
pubblico denaro.
Il controllo preventivo si basa sul riscontro di conformità dell’atto alla legge, all’esito del quale la Corte dei
conti può rifiutare il visto su di esso; ove il Governo ritenga di dare ulteriore corso all’atto, la Corte provvede
alla registrazione con riserva dello stesso dandone comunicazione alle Camere. La legge prevede anche
una partecipazione della Corte al controllo sulla gestione finanziaria degli enti pubblici cui lo Stato
contribuisca in via ordinaria.

Controlli della Ragioneria dello Stato


Ai controlli preventivi sugli atti del Governo della Corte dei conti, limitati solo ad alcune categorie di atti, si
accompagnano i controlli interni sulla regolarità amministrativa e contabile degli atti amministrativi, cui
adempiono gli Uffici centrali del bilancio collocati in ogni Ministero alle dipendenze della Ragioneria
generale dello Stato, che è un Dipartimento del Ministero del tesoro. Essi provvedono alla tenuta delle
scritture contabili e alla registrazione degli impegni di spesa risultanti dai provvedimenti assunti dagli uffici
amministrativi sotto la responsabilità dei dirigenti componenti. Trascorsi 10 gg dalla registrazione
dell’impegno, i provvedimenti acquistano efficacia. entro questo termine l’ufficio centrale del bilancio può
preannunciare all’amministrazione l’invio di osservazioni circa la legalità della spesa. Tali osservazioni sono
comunicate all’amministrazione non oltre i successivi 10 gg.

Controlli interni
I controlli interni si distinguono in controlli di gestione e controlli strategici. I primi consistono nel verificare
l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare il rapporto tra costi e
risultati, e sono svolti da strutture e soggetti che rispondono ai dirigenti posti al vertice dell’unità
organizzativa interessata. La valutazione e il controllo strategico riguardano invece l’adeguatezza delle
scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo
politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti o obiettivi predefiniti, supportano l’attività di
programmazione strategica e di indirizzo politico- amministrativo, e sono svolte da strutture che rispondono
direttamente agli organi di indirizzo politico-amministrativo.

Responsabilità dei dipendenti pubblici per atti compiuti in violazione dei diritti
Le responsabilità si riferiscono ad atti o attività svolte dall’amministrazione: si controlla, o si risponde di
qualcosa che si è già verificato nella realtà. Se le responsabilità di cui l’art. 97 sono attivabili
nell’ordinamento degli uffici e comunque all’interno dell’organizzazione amministrativa, quelle enunciate
dall’art. 28 presentano altra natura e modalità di attivazione: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli
enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi civili, penali e amministrative, degli atti
compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
Qui la responsabilità non viene fatta valere all’esterno delle pubbliche amministrazioni, sorgendo in
riferimento ad atti compiuti in violazione di diritti: e ci si riferisce a una diretta responsabilità dei funzionari e
dipendenti pubblici, onde escludere l’ammissibilità del vecchio istituto della garanzia amministrativa che
subordinava l’esperienza dell’azione penale contro prefetti e sindaci, quest’ultimi in qualità di ufficiali del
Governo, nonché contro agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria che avessero fatto uso di armi,
ad autorizzazione di organi governativi.
La responsabilità civile degli atti del pubblico dipendente in violazione di diritti si estende allo Stato e agli
enti pubblici. Si tratta di una responsabilità solidale dello Stato.

Responsabilità civile della pubblica amministrazione


Prima dell’entrata in vigore della Costituzione si riteneva pacificamente che la pubblica amministrazione
fosse obbligata a risarcire il “danno ingiusto” cagionato ad altri per qualunque fatto doloso o colposo. La
legislazione limita l’obbligo del dipendente pubblico al risarcimento del danno solo nelle ipotesi di dolo e
colpa grave, escludendo le violazioni per colpa lieve che costui abbia arrecato ai diritti dei cittadini. Ciò non
vuol dire che la violazione dei diritti per colpa lieve del dipendente pubblico non sia risarcibile. A risarcire il
danno sarà l’ufficio della pubblica amministrazione nel quale è incardinato in base alla responsabilità civile
della stessa amministrazione. La costituzione afferma che ai fini dell’imputazione di responsabilità si dovrà
accertate non solo l’illegittimità del provvedimento ma anche la colpa della pubblica amministrazione intesa
come apparato.

Responsabilità amministrativa per danno erariale


Sono responsabili per danno alle finanze pubbliche (o erario) i dipendenti pubblici i quali abbiano causato
un danno ingiusto a terzi che l’amministrazione abbia dovuto risarcire, o direttamente un danno
all’amministrazione. Giudice competente all’accertamento della responsabilità amministrativa per sanno
erariale è la Corte dei conti. Il giudizio di responsabilità per danno erariale è instaurato dalla Procura della
Corte dei conti. Le funzioni giurisdizionali sono esercitate su tutto il territorio dalle Sezioni regionali della
Corte e in appello dalle 3 Sezioni centrali. Le Sezioni riunite, composte da magistrati assegnati dal Consiglio
di presidenza, sono chiamate a dirimere i conflitti di competenza fra le sezioni e a decidere sulle questioni di
massima che vengano loro deferite dalle sezioni regionali e centrali o dal Procuratore generale.

Responsabilità contabile
Oltre ai giudizi di responsabilità, la giurisdizione su le materie di contabilità pubblica comprende quelli di
conto. Si tratta di giudizi che hanno lo scopo di tutelare il pubblico danaro mediane la reintegrazione dei
danni subiti dall’erario per irregolarità di gestione o per comportamenti imputabili agli agenti ed agli
impiegati medesimi. La giurisdizione sulla responsabilità contabile si esercita non su tutti i dipendenti
pubblici ma sui conti dei titolari di gestione di tesoreria e degli agenti contabili, ossia di quanti fra i
dipendenti pubblici maneggiano denaro pubblico. Costoro debbono presentare il conto della propria
gestione su appositi modelli, nei quali sono evidenziate la consistenza iniziale, il carico e il discarico
avvenuto nel corso dell’esercizio e la rimanenza finale. Nel procedimento giurisdizionale che si svolge
davanti alla corte dei contri ed è introdotto dal Procuratore della Corte, il giudizio di conto, si presume la
colpa dell’agente, il quale è tenuto a dimostrare che l’eventuale ammanco di beni o valori sia dovuto a forza
maggiore o a naturale deperimento. Il giudizio può concludersi con il “discarico” che ha effetto liberatorio
per l’agente contabile, oppure condanna di questi a risarcire il danno arrecato.

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