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INTRODUZIONE
Premessa
«Cosa è il diritto?» Il Diritto è un particolare insieme di regole di organizzazione della convivenza umana:
qualcosa che varia storicamente. Se escludiamo di poter dare una definizione di diritto buona per tutti i
tempi e i luoghi, facciamo dipendere la risposta dal tempo e dal luogo in cui ce lo chiediamo. Tutto ciò si
traduce nel chiedersi: «che cosa è il diritto per noi?».
Normazione
Nella nostra civiltà non è pensabile che le norme di comportamento siano le sole norme giuridiche. Le
norme di comportamento presuppongono non solo la possibilità di una trasgressione ma anche una
sanzione o una reazione giuridica in capo al singolo o all’autorità pubblica che le abbia trasgredite, la quale
richiede di essere prima accertata, poi comminata e infine eseguita, secondo norme che però non regolano
direttamente il comportamento umano.
Accanto alle norme di comportamento (o norme primarie) esistono le norme secondarie che consentono
di riconoscere l’autorità delle norme di comportamento e fanno parte della normazione come elemento
degli ordinamenti.
Interpretazione giuridica
L’interpretazione giuridica è un’attività liberamente compiuta da chiunque ricerchi a fini di conoscenza il
significato o i significati dei testi normativi, degli istituti, dei procedimenti, delle sentenze. In senso più
ristretto si può definire come un’attività necessariamente svolta dai giudici al fine di risolvere il caso
attraverso l’applicazione della norma, o del significato della disposizione ad esso applicabile, ogni volta che
tale significato non sia univoco. La scissione concettuale tra disposizione e norma presuppone che il testo
normativo non sia autoevidente ma sia suscettibile di esprimere più significati, dette norme, che
costituiscono altrettante regole applicabili al caso, fra le quali il giudice è tenuto ad operare una scelta. I
giudici sono tenuti a motivare le loro pronunce. La pronuncia si articola in una motivazione e in un
dispositivo che contiene la decisione; la motivazione si articola il un «Ritenuto in fatto» dove vengono
esposti i fatti che emergono dagli atti di causa, e in un «Considerato in diritto» dove il giudice prima di
indicare la norma di cui deve fare applicazione, espone le ragioni che lo inducono a scegliere come
applicabile quella stessa norma.
Plurisoggettività
Accanto alla normazione, un secondo elemento degli ordinamenti giuridici sarà dato dalla plurisoggettività,
giuridicamente qualificata e perciò distinta da quella che ricorre in qualsiasi gruppo sociale. la nostra civiltà
giuridica non ammette differenze tra due esseri umani considerati dal diritto come tali. Nel medioevo gli
individui in quanto tali non erano considerati soggetti di diritto. la titolarità dei diritti era assegnata a
ciascuno a seconda delle condizioni di cui costui poteva disporre, per natura, per il fatto di vivere in un
certo regno o comune, per l’appartenenza ad una determinata corporazione.
Capacità giuridica
Con la Rivoluzione francese l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dichiarava: «Gli
uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondata
che sull’utilità comune» la quale riflette premesse di diritto naturale: «Scopo di ogni associazione politica è
la conservazione dei diritti naturali e imprescindibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la
sicurezza e la resistenza all’oppressione».
Il codice civile italiano del 1942 si apre con l’affermazione che «la capacità giuridica si acquista dal
momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento
della nascita». Il neonato diventa immediatamente soggetto giuridico e in quanto tale titolare di diritti e
doveri. Un’innovazione va trovata nell’art. 2 della Costituzione del 1948: «La Repubblica riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
L’art. 2 non solo rende di per sé illegittime le limitazioni della capacità giuridica per ragioni di razza previste
nel codice del ’42 nei confronti degli ebrei (abolite nel 1944), ma impone al legislatore di riconoscere la
capacità giuridica generale di qualsiasi persona umana senza distinzioni di cittadinanza.
Capacità di agire
Un minore si presume privo della «capacità di intendere e di volere» ecco perché l’art. 2 cod. civ., dopo aver
fissato la maggiore età al compimento del 18° anno, stabilisce che «con la maggiore età si acquista la
capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa». Il «compimento degli atti»
presuppone la «capacità di agire». Per “capacità di agire” si intende l’esercizio dei diritti e la capacità di
essere soggetto passivo degli obblighi, di cui il soggetto era titolare fin dalla nascita e che può esercitare al
compimento della maggiore età. La capacità di agire è esclusa per gli interdetti giudiziali in ragione
dell’abituale infermità mentale, e per gli interdetti legali, cioè per quanti siano condannati per delitto non
colposo alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni. In questi casi, il titolare del diritto privo della
possibilità di poterlo esercitare, può tuttavia farlo indirettamente per il tramite di un rappresentante
volontario o legale.
Atti giuridici
Gli atti giuridici vengono distinti dai fatti giuridici umani in quanto una norma abiliti un soggetto ad
esercitare il potere di compiere tali atti, quali produttivi di certi effetti giuridici. Per accertare se un fatto
umano debba essere considerato come un fatto/atto giuridico conta la norma che attribuisca al soggetto
il potere di produrre effetti giuridici tramite il compimento di quell’atto. Si considerano atti giuridici: il
contratto, la donazione, il testamento, la sentenza, il provvedimento amministrativo, la legge, ecc.
Organizzazione
I soggetti diversi dalle persone fisiche possono venire qualificati con legge soggetti giuridici per raggiungere
obiettivi che i singoli non potrebbero raggiungere. Fra questi obiettivi, alcuni richiedono un’articolazione
stabile di uomini e beni e una distribuzione di compiti, ossia un’organizzazione pubblica o privata.
Un’organizzazione presuppone la plurisoggettività e richiede che sia articolata in vista di uno o più obiettivi
di convivenza. Va considerata come strumento per raggiungere tali obiettivi.
L’invenzione dello Stato quale soggetto
La qualificazione dello Stato come persona giuridica non è qualcosa di necessario dal punto di vista
giuridico ma dipende da circostanze storiche. In Europa continentale il problema dell’attribuzione allo Stato
di una propria soggettività si pose all’epoca dell’assolutismo, per superare un’accezione patrimoniale-
privatistica del pubblico potere, in cui il patrimonio pubblico apparteneva allo stesso tempi alla persona
fisica del sovrano, e giungere a un’accezione politico-pubblicistica di tale potere, in cui il patrimonio e le
azioni del sovrano quale espressione dello Stato sono distinte dal suo patrimonio e dalle sue azioni in
quanto individuo. Questa impersonalità si realizza attraverso norme, le quali provvedono ad imputare allo
Stato la responsabilità degli atti compiuti dal sovrano solo in quanto pubblico potere, e non anche in quanto
persona fisica. La costruzione dello Stato come soggetto poneva le premesse per considerarlo persona
giuridica.
L’invenzione dell’organo
L’invenzione del concetto di organo «fu una conquista civile: rese possibile perfezionare la tutela delle
libertà e dei diritti dei cittadini nei confronti dei pubblici poteri, rese possibile assegnare sedi appropriate alle
varie istanze esistenti in un corpo sociale dando presenze giuridiche definite ad interessi pubblici o collettivi
eterogenei e sovente in conflitto virtuale o reale, rese possibili normative procedimentali per regolare fatti di
vita associativa i quali per l’innalzarsi si svolgevano affidati alla dominanza di pressioni solo economiche o
partitiche».
L’organizzazione amministrativa
Dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa, si distingue tra gli uffici, le unità in cui
l’organizzazione statale si articola, e gli uffici detti organi, in grado di imputare allo Stato l’attività e gli effetti
dell’attività esterna che avessero compiuto. Quando le norme sull’organizzazione prevedono che l’attività di
un ufficio possa produrre effetti giuridici, allora l’ufficio agirà come organo della persona giuridica, con la
conseguenza che tanto l’attività quanto gli effetti dell’attività dell’ufficio saranno direttamente imputati alla
persona giuridica. L’insieme dei compiti e dei poteri giuridici attribuiti a un ente si chiama attribuzione
dell’ente, mentre i singoli compiti e poteri giuridici attribuiti a ciascuno degli organi dell’ente sono detti
competenze, corrispondenti alle parti di attribuzione ad esso affidate.
L’organizzazione costituzionale
Dal punto di vista dell’organizzazione costituzionale, con l’avvento dello Stato liberale il vertice
dell’organizzazione statuale comincia ad articolarsi in poteri diversi dell’esecutivo, che è ancora capeggiato
dal monarca: il potere legislativo, che trae la propria legittimazione dal rappresentare gli elettori, e il potere
giurisdizionale che trae dalla funzione di garantire i diritti dei cittadini nei confronti dei titolari del potere
politico. Tali poteri corrispondono ad altrettanti organi costituzionali.
Dall’assolutismo al costituzionalismo
Dalla fine del 18° sec. con le Rivoluzioni americana e francese, il fondamento del pubblico potere comincia
a venir discusso politicamente, e il suo esercizio comincia a dover essere giustificato alla stregua di regole
che lo istituiscono e lo organizzano. Si pongono allora due grandi questioni del costituzionalismo. Discutere
il fondamento del pubblico potere significa porre la questione dell’attribuzione della titolarità del potere
al popolo anziché al monarca: la questione della democrazia. Esigere che l’esercizio del potere sia
sottoposto a certe regole equivale a richiedere un potere esercitato in modo non arbitrario,
indipendentemente da chi ne sia il titolare: la questione della libertà. Fino ad allora la democrazia era stata
intesa o come partecipazione diretta del popolo alle decisioni che lo riguardavano o come sistema di
selezione dei governanti basato sul sorteggio (in uso nelle città-Stato greche e nei comuni italiani del
Medioevo).
A consentire che la democrazia, come sistema di selezione dei rappresentanti fondata sull’elezione,
funzionasse su scala molto più ampia degli Stati, fu l’invenzione della rappresentanza politica.
Quest’ultima si caratterizzò per il divieto posto agli elettori di revocare in corso di mandato i membri del
Parlamento da loro designati, proprio in quanto rappresentanti dell’intera nazione. Tale rappresentanza
politica resterà l’istituto fondamentale per il funzionamento del principio democratico anche per le
Costituzioni contemporanee.
La seconda questione, relativa all’esigenza che il potere non fosse esercitato arbitrariamente al fine di
garantire la libertà, fu affrontata muovendo dal principio di separazione dei poteri. Tale principio richiede
l’articolazione del potere sovrano dello Stato in quelle che allora si ritenevano essere le sue tra funzioni
fondamentali: legislativa, esecutiva e giurisdizionale. Dal principio di separazione dei poteri discenderanno
quelli di legalità degli atti dei pubblici poteri e di indipendenza del potere giudiziario dagli altri.
Il periodo giolittiano
Nel primo decennio del 20° sec. gli elementi autoritari si attenuano notevolmente. La nomina di Zanardelli a
primo ministro (1901) suggellò un nuovo clima. Vi furono numerosi avanzamenti sul terreno liberale e
democratico, tra i più importanti vi furono il suffragio universale maschile (1912) attribuito ai cittadini maschi
che avessero compiuto 30 anni, e il riconoscimento delle libertà di associazione. Il nuovo Presidente del
Consiglio, Giolitti, difese i diritti di associazione e organizzazione del proletariato. Fu potenziata
l’indipendenza del potere giudiziario: una legge del 1907 istituiva il Consiglio superiore della magistratura,
composto in larga prevalenza da giudici della Corte di cassazione, con il compito di esprimere pareri sulle
promozioni dei giudici e sulla preposizione degli stessi alle diverse funzioni. Nel frattempo venivano
unificate le carriere dei giudici e dei Pubblici Ministeri, col risultato di sottrarre all’esecutivo i poteri sulla
carriera dei P.M. Altre leggi significative furono quelle sull’istituzione della scuola popolare e sull’istruzione
obbligatoria fino a 12 anni (1904) e sullo statuto del pubblico impiego (1907) che introduceva la regola del
concorso per l’accesso nei pubblici uffici. Nel frattempo cresceva la presenza dello Stato in capo
economico. Fra gli interventi pubblici nell’economia sono da ricordare la nazionalizzazione delle ferrovie,
l’affidamento in concessione ai privati delle linee di navigazione marittima, il sostegno alla grande industria
privata del Nord, tramite agevolazioni doganali e fiscali, commesse e appalti pubblici, la legislazione
speciale per il sostegno finanziario delle aree depresse del Mezzogiorno. Nel frattempo si affermavano
servizi pubblici con esplicite finalità di protezione sociale, diffusi soprattutto a livello locale. È un periodo in
cui cresce l’amministrazione e si ha un’articolazione dei suoi modelli organizzativi. È il fenomeno delle
“amministrazioni parallele” che si spiega con la maggiore aderenza della loro struttura organizzativa alle
finalità perseguite, dunque una maggiore efficienza. Esso conosce due principali varianti: l’ente pubblico e
l’azienda autonoma. Rispetto al Ministero, l’ente pubblico è provvisto di una struttura più agile, di
personale meglio retribuito ed è dotato di personalità giuridica pubblica. L’azienda autonoma non è dotata
di personalità giuridica e fa capo a singoli Ministeri (Azienda autonoma delle ferrovie, 1905 e Cassa dei
depositi e prestiti, 1913). È a livello locale che il modello dell’azienda conosce la massima diffusione con
l’istituzione di servizi pubblici gestiti dai Comuni soprattutto tramite aziende municipalizzate.
La prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra.
Le trasformazioni dei rapporti tra poteri pubblici e società richiedevano un’accresciuta capacità di governo,
che mancava. L’art. 5 dello Statuto stabiliva che il Re poteva dichiarare guerra, fare trattati di pace/alleanza,
di commercio, ecc. dandone notizia alle Camere che avrebbero dovuto approvare. Lo Statuto affidava la Re
e al suo governo la scelta se comunicare alle Camere qualsiasi decisione di politica estera in base a una
valutazione insindacabile dell’interesse e la sicurezza dello Stato. La prassi si uniformò totalmente a questa
prerogativa regia al punto che, dopo aver stipulato in segreto il Patto di Londra, nonostante esso non fosse
destinato a comportare spese, il Governo Salandra dichiarò guerra all’Impero austro-ungarico all’insaputa
delle Camere. Alla fine della guerra i Governi presero a legiferare con il decreto legge, fino ad allora adottato
quasi esclusivamente come strumento straordinario di legiferazione assegnato al Governo in casi di
urgenza. Dopo la guerra divenne uno strumento ordinario di legislazione.
Nel primo dopoguerra vi fu anche un’importante riforma della legge elettorale. Nel Regno d’Italia, la legge
del 1882 che aveva allargato parzialmente il diritto di voto aveva previsto un sistema maggioritario a doppio
turno, con scrutinio di lista e collegio plurinominale, con ballottaggio. Essa fu modificata nel 1891 con una
riforma che mantenne il sistema maggioritario ma ripristinò il collegio uninominale. A seguito
dell’introduzione del suffragio universale maschile (1912) si ebbe una profonda trasformazione del sistema
politico. Il partito socialista e il partito popolare, che rappresentavano classi e gruppi sociali fino ad allora
esclusi dal voto, ottennero alle elezioni risultati importanti a scapito del vecchio partito liberale e nel
dopoguerra richiesero e ottennero una riforma elettorale che sanciva il passaggio al sistema proporzionale,
considerato il più democratico. Queste riforme segnarono il passaggio da una fase liberale-oligarchica a
una fase liberaldemocratica dell’ordinamento costituzionale del Regno d’Italia. Ma nell’Italia provata dal
dopoguerra le istituzioni erano troppo fragili per reggere tale trasformazione.
Lo stato totalitario
Lo Stato totalitario del XX sec. fu una forma di Stato molto più complessa di una dittatura personale e più
moderna dello Stato assoluto. Scopo dei leader totalitari era quello di separare il liberismo dalla democrazia
non eliminando soltanto le libertà individuali ma screditando il pluralismo politico e utilizzando il partito per
raggiungere tutti gli strati sociali. Il popolo sarebbe stato dequotato a massa amorfa, manipolabile dall’alto.
Lo Stato totalitario tentò di abolire e compromettere la separazione dei poteri e il principio di legalità e a
privò gli enti locali della loro autonomia politica. La maggiore differenza fra uno Stato liberale-autoritario
del 19° sec. e lo Stato totalitario si coglie sul terreno delle situazioni soggettive. Un conto è un sistema che
reprime il dissenso e impone arbitrarie restrizioni alle libertà dei cittadini, altro conto è un sistema che non si
accontenta di ciò ma esige il consenso attivo dell’intero popolo intorno ad un capo e a tale scopo manipola
le coscienze con gli strumenti della comunicazione di massa e con sofisticate tecniche di organizzazione
del consenso. Un effetto del sistema totalitario è dato dall’imprevedibilità delle decisioni pubbliche che
provocava paura. La paura alimenta ricerca di protezione e quindi dipendenza dal potere. Un terzo effetto
sulle condizioni dei cittadini è la distruzione dell’eguaglianza e della stessa cittadinanza. Le
persecuzioni, i lager, i genocidi, riflettevano l’idea di una diseguaglianza così radicale da rendere
insopportabile ogni convivenza sullo stesso territorio statale con i membri della razza o della classe sociale
di volta in volta ritenuta deviante. Solo la loro eliminazione fisica avrebbe potuto risolvere il problema.
Il paradigma dello Stato totalitario si basava sul radicale rifiuto di tutte le nozioni basilari dello Stato liberale,
accusato di ingannevole astrattezza.
Il regime fascista
Sotto il regime fascista il primo organo che venne modificato fu il Governo. Riformando il decreto Zanardelli
del 1901, una legge del 1925 assicurava la preminenza assoluta sui Ministri del Capo del Governo, Primo
Ministro e Segretario di Stato: egli diventava un superiore gerarchico dei Ministri, che su sua proposta il
sovrano poteva nominare e revocare. La legge prevedeva che il Capo del Governo veniva nominato e
revocato dal Re ed era responsabile nei suoi confronti dell’indirizzo generale politico del Governo. La
successiva legge del 1926 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, disciplinava i
regolamenti governativi, distinguendo tra quelli di esecuzione delle leggi, quelli sull’uso delle facoltà
spettanti al potere esecutivo, in cui la dottrina comprese i regolamenti indipendenti e i regolamenti di
organizzazione. La legge riconosceva il potere del governo di adottare atti con forza di legge: i decreti
legislativi e i decreti legge.
Con la nuova legge elettorale (Legge Acerbo, 1923) riservava al partito che avesse ottenuto il maggior
numero di voti una maggioranza di due terzi dei seggi della Camera, e questo consentiva al partito fascista
l’effettivo dominio dell’assemblea. Dal 1924 i partiti vennero soppressi, mentre il Gran Consiglio del
Fascismo venne trasformato in organo statale chiamato a predisporre la lista bloccata per l’elezione della
Camera dei deputati, che gli elettori erano chiamati ad accettare o a respingere. La Camera dei deputati
venne sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. Con l’istituzione delle corporazioni, composte
da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, il regime intese subordinare l’accesso di ciascuno
all’attività lavorativa all’iscrizione alla corporazione, che diventava obbligatoria. L’ordinamento corporativo
comprendeva un Ministero e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Governo, Parlamento e apparato
corporativo erano istituzioni di facciata, per assicurare consenso al fascismo. Quanto alla magistratura sul
piano strutturale i poteri di nomina, promozione e trasferimento dei giudici erano assegnati al Governo, e il
pubblico ministero veniva subordinato al Ministero della giustizia. A differenza del nazismo, il fascismo
mantenne il divieto di retroattività della legge penale, che impedendo di qualificare come reato un fatto
commesso prima dell’approvazione della legge, segna il confine minimo di una civiltà giuridica a partire
dall’Illuminismo il cui giudizio era attribuito a Tribunali speciali.
Anche le scelte politiche compiute nei rapporti con la Chiesa cattolica e in campo economico- finanziario
miravano ad assicurare consenso al regime. La Chiesa cattolica esercitava da secoli un grande potere di
influenza sugli ordinamenti spirituali e culturali della popolazione. I Patti Lateranensi del 1929 risolvevano la
“questione romana” posta dall’Unificazione e consentì di conciliare il nuovo regime con la più importante
forza della tradizione a disposizione del paese: l’art. 1 dello Statuto dichiarava la religione cattolica religione
di Stato, e di tollerare gli altri culti esistenti.
In campo economico-finanziario il regime aderì alla modernizzazione che si verificò in tutti i paesi industriali.
La crisi di Wall Street (1929) portò anche i paesi dove il capitalismo era più consolidato a vedere
nell’intervento pubblico il solo rimedio ai fallimenti del mercato. Nell’Italia fascista numerose attività
imprenditoriali vennero sottoposte a previa autorizzazione e talora a pianificazioni pubbliche e furono istituiti
i primi enti pubblici economici a cui facevano capo le imprese a partecipazione statale che agivano nel
mercato con gli strumenti del diritto privato. Si tratta di un modello di “economia mista”: l’iniziativa
economica privata non era bandita ma sottoposta a restrizioni per l’accesso al mercato e per il suo
svolgimento; vi erano poi imprese a partecipazione statale e importanti settori erano sottoposti al
monopolio pubblico originario (trasporti, telefoni, acque, radiodiffusione).
Lo Stato costituzionale
Lo Stato costituzionale erano uno Stato democratico connotato da principi fondamentali come la dignità, la
libertà, l’eguaglianza, la separazione dei poteri e la legalità. Principi esplicitati in una costituzione scritta,
rigida e garantita in via giurisdizionale. I principi costituzionali differiscono dalle regole per il fatto di riflettere
valori ed obiettivi fondamentali della convivenza radicati nella collettività quali acquisizioni di una certa
civiltà e che in quanto tali si presume siano destinati a orientare le maggiori scelte collettive circa le
condizioni della convivenza al di là della generazione dei Costituenti. Da una parte esprimono il deposito più
importante del passato, dall’altra si protendono verso il futuro. Per questa regione i principi sono formulati
in modo elastico e aperto. I principi sono norme, come lo sono le regole e gli istituti. I principi per farsi
valere hanno bisogno di essere attuati, attraverso regole e istituti previsti dalla Costituzione. È necessario
interpretare i principi adeguandone il contenuto alle mutate condizioni della convivenza nel corso del
tempo. L’interpretazione è uno strumento basilare per far sì che la Costituzione sia in grado di rispondere
alle incognite del tempo attraversando varie legislature e generazioni. Le risorse dell’interpretazione non
sono infinite e quando non bastano a determinare una corrispondenza della costituzione ad esigenze di
cambiamento avvertite e condivise, è sempre aperta la possibilità di modificare la stessa costituzione. La
previsione di un procedimento aggravato per la revisione della costituzione distingue le costituzioni rigide
da quelle flessibili. E tale previsione ne consente la modificazione alle condizioni procedurali di volta in volta
stabilite nei testi costituzionali dei singoli ordinamenti. In questo senso, il procedimento speciale di revisione
costituzionale esplicita l’equilibrio fra stabilità e mutamento che caratterizza le costituzioni dello Stato
costituzionale.
Lacune
L’art. 12, secondo comma, preleggi, C.c., dispone che: “Se una controversia non può essere decisa con una
precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizione che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Il ricorso all’analogia legis e all’analogia iuris, si basa sul criterio di somiglianza della fattispecie non
regolata ad una regolata. Esso è escluso per le leggi penali ed eccezionali, secondo l’art. 14 preleggi, che
sono definite di stretta interpretazione: le leggi penali, per ragioni di certezza del diritto, che qui trovano la
loro specifica espressione nel principio di tassatività dei reati, secondo l’art. 25 Cost., e le leggi eccezionali,
per la loro stessa natura.
Il ricorso all’analogia, inoltre, si vuole differenziare dall’interpretazione estensiva della disposizione
applicabile: mentre l’analogia presuppone che la fattispecie in ipotesi, ritenuta dal giudice analoga a una
fattispecie disciplinata, non sia disciplinata, l’interpretazione estensiva presuppone che la fattispecie sia
disciplinata, anche se implicitamente, dalla disposizione applicabile.
N.B.: L’analogia è un procedimento logico, di carattere interpretativo, utilizzato nel diritto in relazione
all’attività di giurisdizione. Esso ha luogo allorquando, a fronte di una lacuna dell’ordinamento giuridico, il
giudice si veda nella necessità di dover offrire un obiettivo criterio di valutazione giuridica, quindi nel
ricavare una regola di giudizio per quel caso concreto che non appaia espressamente disciplinato dalla
legge, tramite l’applicazione della norma prevista per un caso che appaia simile per ratio (analogia legis),
oppure tramite l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico (analogia iuris).
- Analogia legis → consiste nell’applicare ad una fattispecie non regolata, la disciplina di un’altra
fattispecie, regolata dall’ordinamento, ritenendo che la ratio che ha indotto il legislatore a disciplinare
quest’ultima, lo avrebbe potuto coerentemente indurre a disciplinare la prima nello stesso modo;
- Analogia iuris → consiste nel desumere la disciplina della fattispecie, non regolata direttamente, dai
principi generali dell’ordinamento, quando anche il ricorso all’analogia legis non è possibile.
Antinomie
Una antinomia, nel diritto, indica un conflitto tra norme giuridiche diverse che si ricollegano ad una
medesima fattispecie, in modo logicamente incompatibile tra loro. Se una delle due fosse prodotta da una
fonte riconosciuta come tale, da un ordinamento diverso al quale il primo operi un rinvio, la soluzione del
conflitto dovrà rinvenirsi nelle modalità di tale rinvio.
In secondo luogo, le antinomie presuppongono ordinamenti dinamici e complessi, ossia composti da
più fonti, caratterizzate dall’inesauribilità del potere normativo imputato ai soggetti che rispettivamente ne
dispongano. Per risolvere le antinomie, si dovrà quindi ricorre a tanti criteri quanti sono i modi in cui esse si
presentano.
Criterio gerarchico
In base al criterio gerarchico, la fonte di grado superiore prevale su quella di grado inferiore anche
se adottata anteriormente ad essa, con la conseguenza che tale criterio prevale su quello
cronologico. Si può distinguere la versione della gerarchia fondata sul primato della legge e la versione
costituzionale della gerarchia.
L’art. 1 delle preleggi qualifica come fonti del diritto: “le leggi, i regolamenti, le norme cooperative e gli usi”. I
rapporti fra queste fonti sono disciplinati in termini di gerarchia. La superiorità di una fonte rispetto ad
un’altra consiste nella sua forza di capacità di innovare al diritto oggettivo (forza attiva) e di resistere
all’abrogazione in caso di sopravvivenza di fonti subordinate (forza passiva). La Costituzione utilizza la
nozione di forza di legge solo in riferimento al rapporto tra legge e regolamento, al fine di stabilire un
numero chiuso degli atti equiparati alla legge e vietare così l’istituzione di ulteriori atti governativi in grado di
abrogare o modificare leggi e atti ad essa equiparati. La nozione di gerarchia fondata sulla forza di legge
non spiega il funzionamento dei procedimenti di normazione previsti o desumibili in via interpretativa dalla
Costituzione, che vanno oltre l’individuazione delle fonti tradizionali. La nozione costituzionale di
gerarchia consiste nella idoneità della Costituzione di porsi quale norma fondamentale sulla
normazione: significa ricondurre alla Costituzione il potere di imputare a un determinato soggetto (organo o
ente) il potere di produrre norme e di disciplinare il procedimento di formazione di ciascuna delle fonti ad
essa subordinate, nonché di distribuire il potere normativo tra le fonti predette. In base a questa nozione, si
può dire che la Costituzione prevale sulle fonti ad essa direttamente subordinate perché prevede il
procedimento con cui tali fonti si formano e il soggetto cui viene imputato il relativo potere normativo;
include, inoltre, il potere della Costituzione di distribuire il potere di produrre norme in base alle materie
indicate nella Costituzione stessa e ciò può avvenire secondo il criterio di competenza che equivale ad
attribuire il potere normativo a determinare fonti ad esclusione di altre; comprende anche la disciplina del
trattamento giurisdizionale delle norme prodotte da fonti subordinate alla Costituzione, antinomie tra fonti,
nonché il potere di riconoscere l’efficacia di norme prodotte in ordinamenti costituzionalmente
richiamati diversi da quello nazionale, per le quali manca la stessa possibilità di risolvere antinomie in
termini di validità/invalidità, in quanto il confronto coinvolge norme non prodotte nello stesso ordinamento.
Criterio di competenza
Le antinomie si risolvono in base al criterio di competenza quando la Costituzione attribuisce ad una fonte
ad essa subordinata il potere di disciplinare una certa materia, escludendo che altre fonti ad essa pari
subordinate possano disciplinarla.
Fra gerarchia e competenza corre un rapporto di coimplicazione: da una parte, la competenza ha
contribuito a dissolvere la tradizionale visione della gerarchia fondata sulla supremazia della legge ordinaria;
dall’altra presuppone la prevalenza gerarchica della Costituzione, quale norma fondamentale sulla
normazione.
Un esempio di applicazione del criterio di competenza è dato dal rapporto fra legge e regolamento
parlamentare: a fronte dell’art. 70 Cost., “La funzione legislativa è esercitata collettivamente da due Camere”, sta
l’art. 64, primo comma, secondo cui “Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei
suoi componenti”, e i regolamenti parlamentari sono chiamati dall’art. 72 a disciplinare i lavori parlamentari
per quanto non vi sia direttamente disposto, nonché l’organizzazione interna delle Camere. Quando una
legge disciplina una di queste materie, può dirsi viziata per incompetenza, e lo stesso può dirsi quando un
regolamento parlamentare fuoriesca dalle materie costituzionalmente ad esso riservate, disciplinandone di
ulteriori. Quindi, una prima applicazione del criterio di competenza si basa sulla riserva di materia a una
certa fonte ad esclusione di altre.
Una seconda forma è data dall’ipotesi in cui la disciplina di una materia venga per Costituzione
riservata a più fonti, a ciascuna delle quali spetti una specifica modalità di disciplina. Si ha un concorso di
fonti regolato per modalità di disciplina: è il caso della ripartizione fra Stato e Regioni della potestà
legislativa dell’art. 117, terzo comma → alla legge statale spetta la fissazione dei principi fondamentali di
disciplina della materia e alla legge regionale spetta l’attuazione-svolgimento di tali principi → la seconda è
condizionata dalla prima, ma questo condizionamento cessa di fronte al contenuto della disciplina, senza
investire la riserva di potere normativo alle Regioni.
In terzo luogo, sono state ricondotte al criterio di competenza le fonti atipiche, come le leggi di esecuzione
del Concordato fra Stato e Chiesa. Si aveva una scissione tra forza attiva (far innovare) e forza passiva
(resistere all’abrogazione).
N.B.: I criteri per la risoluzione delle antinomie soccorrono nella pratica quando le norme che dispongono in
modo differente su uno stesso oggetto sono prodotte da fonti diverse: l’ipotetico contrasto si pone dunque
tra fonti in via mediata e tra norme in via immediata. Se il trattamento giurisdizionale degli atti normativi
seguisse sempre la disciplina e l’ordine delle fonti, il giudizio di legittimità delle leggi costituzionali, alla
stregua dei limiti di contenuto forniti dai principi superbì, non sarebbe mai possibile. La collocazione di un
atto normativo nel sistema delle fonti non coincide sempre con il suo trattamento giurisdizionale.
Riserva di legge
La Costituzione, intesa come norma fondamentale sulla normazione, riserva espressamente alla legge la
disciplina di numerose materie (riserva di legge), per fini ulteriori e con strumenti diversi rispetto alla regola
della prevalenza o preferenza della legge sulle fonti subordinate, e al principio di legalità inteso quale
necessario fondamento legislativo degli atti amministrativi.
Referendum abrogativo
Secondo l’art. 75, “È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un
atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali ”. Il referendum
è da considerarsi atto avente forza di legge, in quanto idoneo ad abrogare una legge o un atto equiparato,
pur se non anche a modificarla o a sostituirne integralmente la disciplina. Alcune specificità della forza di
legge sono affermate o si desumono dalla Costituzione, altre, invece, derivano dalla legislazione attuativa e
dalla giurisprudenza costituzionale. Quanto le prime, ai sensi dell’art. 75, le leggi tributarie di bilancio, di
amnistia e di indulto, e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali sono sottratte a
referendum.
Un’altra specificità del regime del referendum, si ricava dalla l. n. 352 del 1970, la quale ha disciplinato il
procedimento che può condurre alla consultazione referendaria, nel seguente modo:
1. Raccolta di minimo cinquecentomila firme, o adesioni dei cinque Consigli regionali, delle
richieste di referendum → ciò viene attivato da un Comitato di almeno dieci promotori e va depositata
entro il 30 Settembre di ciascun anno, presso l’Ufficio centrale per il referendum istituito presso la Corte
di cassazione. La legge aggiunge che le richieste non possono essere depositate nell’anno antecedente
la scadenza di una delle Camere e nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei lativi comizi
elettorali, art. 31. Questo limite mira ad evitare interferenze fra la celebrazione di una consultazione
popolare, dominata dalla competizione politica fra partiti, e un’altra nella quale la richiesta rivolta agli
elettori concerne l’abrogazione di una legge o atto equiparato: il limite trova dunque giustificazione
nell’esigenza di tutelare la libertà di voto, art. 48 Cost.;
2. Verifica circa la legittimità e la regolarità delle richieste da parte dell’Ufficio centrale. Quest’ultimo
dovrà : controllare che l’atto non sia abrogato, né annullato dalla Corte costituzionale; verificare il
rispetto delle norme procedurali relative al deposito della richiesta e alla raccolta delle firme; inoltre,
esso dispone la concentrazione di richieste concernenti materie analoghe e stabilisce la denominazione
ufficiale delle richieste di referendum. Si affermava la regola dell’abrogazione sufficiente, secondo la
quale, poiché la consultazione referendaria non si svolga, occorre che l’Ufficio centrale valuti se la
nuova disciplina non abbia modificato i principi di quella sottoposta a referendum, o i contenuti
normativi essenziali dei precetti su cui esso verta;
3. Se l’Ufficio centrale si pronuncia nel senso che la richiesta referendaria possa avere ulteriore corso, il
proseguimento avviene davanti alla Corte costituzionale, chiamata a giudicare l’ammissibilità della
richiesta alla stregua dell’art. 75 Cost., con deliberazione in camera di consiglio che deve avvenire entro
il 20 gennaio dell’anno successivo a quello della richiesta;
4. Se la Corte ritiene ammissibile la richiesta, il Presidente della Repubblica indice il referendum con
decreto, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, fissando la data della consultazione in una
domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Secondo l’art. 37, terzo comma, l. n. 352 del 1970, i
decreto presidenziale che dichiara l’avvenuta abrogazione della legge o atto avente valore di legge, può
ritardarne l’entrata in vigore per un termine non superiore a 60 giorni dalla pubblicazione, in modo tale
da consentire al Parlamento di colmare il vuoto creatosi nell’ordinamento a seguito dell’abrogazione
referendaria.
Se il risultato del referendum sia contrario all’abrogazione, una richiesta di referendum per l’abrogazione
della medesima legge non può proporsi prima che siano trascorsi 5 anni. Nell’ipotesi opposta, la Corte
costituzionale ha ritenuto la sussistenza di un vincolo all’attività legislativa, consistente nel fatto che il
referendum manifesta una volontà definitiva e irripetibile e ha circoscritto tale vincolo, osservando come il
legislatore possa correggere, modificare o integrare la disciplina residua, purché non disponga il formale o
sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare. L’inosservanza del divieto di ripristino
può essere sindacata dalla stessa Corte in sede di giudizio di legittimità delle leggi.
In definitiva, la forza di legge della delibera che dichiara l’abrogazione di una legge o di un atto avente forza
di legge tramite referendum popolare, dal lato attivo risulta più limitata rispetto a quella degli altri atti aventi
forza di legge, nonostante la regola dell’abrogazione sufficiente comporti che, ove l’abrogazione della legge
oggetto della richiesta da parte di una successiva venga ritenuta insufficiente dall’Ufficio centrale, il
referendum possa viceversa abrogarla.
Dal lato passivo, la forza di legge di tale delibera risulta maggiore di quella degli altri atti aventi forza di
legge, visto il divieto posto dal Parlamento, di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata.
Lo studio del referendum abrogativo, in quanto fonte del diritto, equivale a spiegare come il potere
normativo attribuito direttamente agli elettori, che di regola eleggono i propri rappresentati per formare un
organo competente a legiferare, si correli e quale tipo di equilibrio trovi col potere legislativo.
Regolamenti parlamentari
Dal momento che il procedimento legislativo è disciplinato dai regolamenti parlamentari, oltre che dalla
Costituzione, e le leggi possono risultare viziate non solo sul piano sostanziale, ma anche su quello formale,
ossia per un mancato rispetto del procedimento disposto per la loro formazione, non dovrebbero i
regolamenti parlamentari fungere sotto tale profilo da parametro di costituzionalità delle leggi? Posto
che i regolamenti parlamentari rimangono subordinati alla Costituzione, non dovrebbero annoverarsi tra
gli atti con forza di legge e dunque formare oggetto del giudizio di legittimità costituzionale?
Se nel primo caso si tratta di verificare se i regolamenti delle Camere possano fungere da parametro di
legittimità costituzionale delle leggi, nel secondo occorre accertare se possono formare oggetto di tale
giudizio. La Corte costituzionale ha fornito una risposta negativa ad ambedue gli interrogativi. Essa si ritiene
competente a sindacare il procedimento di formazione della legge, ma solo alla stregua delle norme
costituzionali. Quanto alla suscettibilità dei regolamenti parlamentari, di formare oggetto del giudizio di
legittimità costituzionale, chiamata a giudicare dalla conformità dell’art. 64 Cost., della norma del
Regolamento della Camera che considera assenti gli astenuti nella votazione delle leggi, la Corte stabilì che
gli opposti criteri di conto degli astenuti previsti alla Camera e al Senato, rappresentavano attuazioni
parimenti ammissibili. Infine, la Corte fu esplicita nel desumere che la Costituzione ha instaurato una
democrazia parlamentare e collocato il Parlamento al centro del sistema, facendone l’istituto caratterizzante
l’ordinamento, la spettanza delle Camere di una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro
potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa.
Leggi regionali
La potestà legislativa costituisce il tratto caratterizzante delle Regioni. Tra gli enti territoriali autonomi, solo
le Regioni sono titolari di potestà legislativa. L’art. 117, primo comma, prevede “La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché nei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Il limite generale del rispetto della Costituzione significa due cose: la pari soggezione ad esso della
legislazione statale e regionale non esclude l’apposizione di limiti specifici tali da vincolare l’una o l’altra; e
che però la Costituzione può apporre, non anche la legge statale nei confronti della legislazione regionale.
I tre commi successivi dell’art. 117 sono dedicati al riparto di potestà legislativa fra Stato e Regioni .
L’articolo in questione elenca le materie oggetto di legislazione statale esclusiva e detta una clausola
residuale: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”. Dai commi di questo art. si ricavano l’impianto del riparto di attribuzioni legislative
dello Stato e delle Regioni e i dati necessari a collocare le leggi regionali fra le fonti normative:
1) Competenza legislativa esclusiva dello Stato su materie espressamente indicate in Costituzione;
2) Competenza legislativa ripartita fra Stato e Regioni su materie espressamente indicate in Costituzione;
3) Competenza legislativa esclusiva delle Regioni su tutte le materie non indicate nei punti 1 e 2.
Alcune materie riservate alla legislazione statale dall’art. 117, secondo comma, consistono in funzioni che
possono investire più materie indipendentemente dal riparto delle competenze Stato/Regioni. Si tratta di
materie trasversali, le quali potendo incidere sulla legislazione adottata a titolo residuale, impediscono di
considerare questa alla stregua di una competenza generale a legiferare. Se adottata a titolo residuale, la
legge regionale risulta fonte a competenza riservata, ero i limiti generali dell’art. 117, primo comma, e a
condizione di non interagire con materie trasversali. Quanto alla legge regionale adottata a titolo di
competenza ripartita o concorrente, la riserva di competenza è invece dimidiata, sia perché non opera
in riferimento all’intera materia ma all’ambito materiale non coperto dalla “determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”, art.117, terzo comma, sia perché tale determinazione
comporta una gerarchia di ordine contenutistico: la legge regionale non potrebbe disporre in difformità dai
principi fondamentali previsti dalla legge statale.
Alle Regioni ad autonomia differenziata, i rispettivi statuti speciali attribuiscono una potestà legislativa
esclusiva sulle materie ivi di volta in volta elencate. La riforma del Titolo V adottata con legge, costituzionale
n. 3 del 2001, ha ampliato i poteri legislativi delle Regioni: “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le
disposizioni della presente legge costituzionali si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province
autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già
attribuite”, art. 10. L’adeguamento degli statuti speciali si realizza tramite le norme di attuazione degli stessi.
Statuti universitari
Secondo l’art. 33, ultimo comma, Cost., “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di
darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
Fino all’entrata in vigore della l. n. 168 del 1989, non soltanto la legislazione era padrona di quasi tutta la
materia corrispondente all’autorganizzazione delle Università, ma la devolveva spesso a regolamenti
governativi e ministeriali, in contrasto con il disposto costituzionale. Con l’attuazione dell’art. 33, la riforma
del 1989 ha prescritto invece che oltre agli statuti e ai regolamenti di ateneo, le università siano disciplinate
esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento, ed ha abrogato tutte le
disposizioni incompatibili, lasciando spazio alle fonti autonome, nei soli limiti procedurali e sostanziali da
essa dettati.
Più di recente, la l. n. 240 del 2010 è tornata ad occupare spazi normativi che la legge del 1989 aveva
attribuito all’autonomia statuaria delle Università, oltre a devolvere ambiti connessi alla ricerca universitaria
a decreti non aventi natura regolamentare del Ministro dell’istruzione e dell’università.
A queste oscillazioni legislative hanno corrisposto incertezze della dottrina. Il raccordo dell’autonomia
normativa delle Università, al principio di libertà scientifica e didattica, costituisce un presidio costituzionale
contro lo snaturamento della loro potestà statuaria, mentre il ricorso ad atti ministeriali di incerta
qualificazione, deve ritenersi contrastante con la riserva di legge fissata dall’art. 33, u.c..
Regolamenti Governativi
I regolamenti governativi sono stati a lungo considerati la fonte secondaria per eccellenza. La loro
subordinazione alla legge e agli atti equiparati alla legge, affermata dall’art. 4 delle preleggi, è stata
confermata dalla Costituzione, che limitandosi a provvedere che il Presidente della Repubblica “emana … i
regolamenti”, art. 87, quinto comma, ha lasciato alla legge il potere di dettarne il procedimento di
formazione.
inoltre, la Costituzione ha ridisegnato l’assetto dei rapporti fra legge e regolamento, vietando al Governo di
emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria al di fuori di leggi di delegazione delle Camere e
dell’autoassunzione da parte del Governo stesso del potere di adottare decreti legge, art. 77, primo e
secondo comma. La disciplina del procedimento di formazione e delle tipologie di regolamenti governativi è
rimasta a lungo stabilita da una legge, anteriore alla Costituzione, la l. n. 100 del 1926, che lasciava delle
incertezze sulla previsione nella legislazione ordinaria di regolamenti aventi forza legge, capaci di abrogare,
derogare o modificare leggi ed atti equiparati, e pertanto costituzionalmente inammissibili. Un riordino
generale della materia si ebbe con la l. n. 400 del 1988, che all’art. 17 regola il procedimento di formazione
dei regolamenti, e le relative tipologie.
Delegificazione e semplificazione
A parte la legge di delegificazione in ordine all’organizzazione e alla disciplina degli uffici dei Ministri si sono
avuti vari casi di rilegificazione di materie delegificate. A fini di semplificazione si è fatto ricorso ai testi unici,
ricorso che può mirare ad esigenze di sistemazione organica della materia.
I testi unici innovativi debbono assumere la forma di un decreto legislativo adottato sulla base di una
legge di delegazione. I testi unici compilativi si limitano a raccogliere testi normativi in un unico testo,
senza innovarvi e senza essere provvisti della forza di legge di cui quei testi dispongano.
L’art. 117 stabilisce che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva
delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”. Lo Stato non dispone di
potestà regolamentare nelle materie su cui legifera con norme di principio e nelle materie su cui legifera in
via esclusiva può delegarne alle Regioni l’esercizio.
Ordinanze di necessità
Il potere di adottare ordinanze di necessità viene attribuito dalla legge ordinaria al Governo, ai Prefetti o ai
Sindaci quali ufficiali del Governo, per provvedere a situazioni di necessità/urgenza anche in deroga alla
legge. La Corte costituzionale ha affermato che deroghe alla normativa primaria da parte di autorità
amministrative munite di potere di ordinanza sono consentite solo se temporalmente delimitate e ha
precisato che tali ordinanze anche se e quando normative, non sono ricomprese fra le fonti del nostro
ordinamento giuridico; non innovano al diritto oggettivo né sono equiparabili ad atti con forza di
legge, per il solo fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge; anche
quando dispongono di una generalità di soggetti e per una serie di casi possibili, ma sempre entro i limiti,
anche temporali, della concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare, sono provvedimenti
amministrativi, soggetti ai controlli giurisdizionali esperibili nei confronti di tutti gli atti amministrativi.
La Corte ha, dunque, escluso che le ordinanze di necessità possano ritenersi atti con forza di legge o anche
atti normativi di rango secondario, come i regolamenti governativi.
La l. n. 225 del 1992 prevede che il Consiglio dei Ministri possa dichiarare lo stato di emergenza nei casi di
“calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e
poteri straordinari”, determinando “durata ed estensione territoriale in riferimento alla qualità ed alla natura degli
eventi”, e che le ordinanze attuative “in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento giuridico” rechino apposita motivazione, nonché “l’indicazione delle principali norme a cui si
intende derogare”.
Capitolo 5 → Consuetudine
La cosiddette fonti-fatto Le cosiddette fonti-fatto
Alle fonti-atto i costituzionalisti affianco le fonti-fatto, prese in considerazione come fatti produttivi di diritto:
la consuetudine e le norme di ordinamenti ai quali una norma interna operi rinvio. Come visto per la
differenza tra atti e fatti giuridici, anche in questo caso, nel considerare il ‘fatto’, non si tiene conto della
volontà, dal momento che nella fonte-fatto non rileva la volontà del soggetto che abbia prodotto l’atto
normativo. La tesi tradizionale, invece di muovere dal fatto che tali fonti siano prodotte da soggetti diversi
da quelli previsti nella Costituzione, le qualifica un base al tratto comune dell’assenza di volontà. La
Costituzione, infatti, non sempre prevede direttamente i tipi di atti o di norme cui pure riconosce efficacia.
Tipologie di consuetudine
Se gli elementi costitutivi della consuetudine sono quelli indicati, sono i diversi soggetti che possono
produrla a differenziare tale fonte in altrettante tipologie.
1. La consuetudine di diritto privato e di diritto commerciale: ovvero la categoria degli ‘usi’ nell’art. 4
delle preleggi;
2. La consuetudine internazionale: ad opera degli Stati e menzionata all’art. 10 Cost;
3. La consuetudine costituzionale: opera degli organi costituzionali, nel regolare reciproci rapporti, cui si
riconosce efficacia giuridica. Questo tipo di consuetudine può essere praeter o contra constitutionem.
Per riconoscere una consuetudine costituzionale quel che conta è la pacifica acquiescenza ad
essa da parte di organi costituzionali potenzialmente in grado di opporvisi.
Premessa
Nel caso di un atto normativo o norma di un ordinamento estraneo richiamato da quello nazionale
e abilitato a dispiegare efficacia diretta sul suo territorio senza legge di adattamento, a differenza della
consuetudine, è certo che venga individuato come fonte. A parte la presupposizione, con cui un
ordinamento si limita a riconoscere nel proprio ambito certe situazioni (es. lo status di un cittadino), il rinvio
ad altro ordinamento può riguardare o singole norme (rinvio ‘recettizio’) o una fonte (‘mobile’). Si tratta delle
norme contenute nelle preleggi al codice civile, modificate con l. n. 218 del 1995, intitolata “Riforma del
sistema italiano di diritto internazionale privato”, che disciplinano l’applicazione della legge quando i soggetti o
i beni coinvolti in una controversia giurisdizionale siano collegati a ordinamenti giuridici diversi.
Nel caso di controversia in cui siano collegato ordinamenti diversi, il giudice italiano dovrà applicare la
legge dello Stato straniero se la legge italiana operi un rinvio ad essa, perché ciò che conta è
l’individuazione della legge ritenuta applicabile. Le norme di diritto internazionale privato sono dette “regole
di collisione” perché sono volte a regolare conflitti fra leggi adottate da diversi ordinamenti.
PARTE SECONDA
a) La scelta della sede nella quale tradurre i voti in seggi condiziona il rendimento del sistema proporzionale.
La scelta della sede nazionale caratterizza il sistema per una maggiore proiettività rispetto all’ipotesi in cui i
voti vengano tradotti in seggi in ambito circoscrizionale, e rende irrilevante la scelta concernente la
dimensione dei collegi. Una volta compiuta l’operazione di traduzione dei voti in seggi a livello nazionale, si
tratterà di ripartire i seggi ottenuti in ambito circoscrizionale.
b) la dimensione dei collegi è una variabile fondamentale ai fini della valutazione degli effetti del sistema
proporzionale. Minore è il numero di seggi in palio in un collegio plurinominale, maggiore sarà la
disrappresentatività del sistema elettorale e quindi l’effetto maggioritario.
c) il mancato calcolo dei resti in un collegio unico ottenuti dalle liste in ciascun collegio è un’altra limitazione
apportata al sistema proporzionale, il cui effetto maggioritario risulta tanto più significativo quanto più
ridotto è il numero dei seggi a disposizione nei singoli collegi;
d) i più importanti metodi di ripartizione dei voti in seggi sono i metodi del quoziente e del divisore. Il
quoziente naturale è ottenuto dividendo il numero dei voti ottenuti da tutte le liste nel collegio per il numero
dei seggi da assegnare. Non riuscendo di solito ad assegnare tutti i seggi, in quanto troppo elevato, il
quoziente naturale viene corretto tramite un aumento del numeratore, cioè del numero di seggi da
assegnare, così da facilitare il raggiungimento del quoziente; i seggi non ancora assegnati sulla base di
questo metodo possono venire attribuiti, in sede di collegio ovvero in sede nazionale, alle liste che abbiano i
più alti resti. Il metodo del divisore consiste nel suddividere il numero dei voti ottenuto da ogni lista per una
serie di numeri, onde rinvenire il comune divisore, cioè il minimo dei voti necessario per avere diritto a un
seggio. È considerato il metodo migliore;
e) la clausola di sbarramento preclude la possibilità di ottenere seggi alle liste che abbiano ottenuto a livello
nazionale una percentuale di voti inferiore a una soglia oscillante fra il 2 e il 5% : al di sotto del 2% la
clausola non sarebbe efficace, e al di sopra del 5% rischierebbe di pregiudicare la rappresentatività e la
stessa democraticità del sistema elettorale. Si riduce così la frammentarietà del sistema politico;
f) il premio di maggioranza è l’attribuzione alla lista o alla coalizione di liste che abbia ottenuto la
maggioranza dei voti in un numero di seggi tale da garantirle comunque la maggioranza assoluta dei seggi.
Formula maggioritaria. La regola per cui il seggio in palio in un collegio uninominale è assegnato al
candidato della lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti di presta a due varianti, a seconda che la
legge richieda maggioranza relativa o assoluta. Nel primo caso, perché un candidato ottenga il seggio, è
sufficiente che abbia ottenuto il maggior numero di voti rispetto ai candidati delle altre liste. Nel secondo
caso, perché un candidato ottenga il seggio, è necessario che abbia ottenuto almeno la metà più uno dei
voti espressi nel collegio, e poiché l’evenienza è molto rara, occorre un secondo turno di voto, in cui gli
elettori, convocati dopo due settimane, sono chiamati a scegliere una delle liste meglio piazzate o una delle
liste che abbiano superato una certa soglia di voti. L’effetto maggioritario prodotto dal doppio turno
consiste nel ridurre la frammentazione tramite la restrizione imposta dall’accesso al secondo turno, senza
annullare le identità dei partiti maggiori che rispettivamente li compongono.
Sistemi misti. Nei sistemi misti, gli elementi correttivi apportati alla formula base prescelta consistono
nell’assegnare una quota più o meno ampia di seggi con la formula opposta. Non è detto che la correzione
comporti corrispondenti effetti maggioritari o proporzionali, che dipendono anche da se le variabili prima
segnalate, e quali, siano state introdotte.
Prerogative parlamentari
Le prerogative disposte dagli artt. 67, 68, 69 connotato lo status dei parlamentari onde assicurare la
funzionalità del Parlamento, quanto la sua indipendenza da altri organi costituzionali. Sono prerogative che
proteggono la funzione cui assolvono in quanto componenti dell’organo.
Le indennità parlamentari
Nell’era della politica come professione la remunerazione per l’attività parlamentare scolta diventa una
garanzia di indipendenza da condizionamenti economici, soprattutto per i parlamentari più poveri. Il
trattamento economico si compone di una quota fissa e di una diaria, quale rimborso spese per i giorni di
seduta parlamentare. Inoltre ai parlamentari vengono corrisposti rimborsi a vario titolo: trasporti, viaggi,
sanità. Le pensioni vengono definite “retribuzioni differite”.
Capitolo 3 → Il Parlamento
Un bicameralismo paritario
Il bicameralismo si definisce paritario in ragione della notevole somiglianza strutturale e delle identità di
funzioni delle due Camere.
Le differenze di ordine strutturale fra Parlamento e Senato sono queste:
- Una ridotta quota di senatori a vita;
- L’età minima per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo: mentre per il rinnovo della Camera votano i
cittadini maggiorenni per il rinnovo del Senato votano gli elettori che abbiano compiuto 25 anni;
- Il numero dei membri: la Camera di compone di un numero (630) di membri doppio dei membri elettivi del
Senato (315).
Il Presidente di assemblea
Insieme ai gruppi e alle commissioni parlamentari, la Costituzione riconosce il presidente di assemblea
parlamentare quale organo interno indifettibile di ciascuna Camera. La Costituzione gli assegna l’iniziativa di
convocare in via straordinaria la rispettiva assemblea, di richiedere il parere dei Presidenti delle Camere
prima che il Presidente della Repubblica proceda allo scioglimento e affida al Presidente del Senato le
funzioni di supplenza del Capo dello Stato e al Presidenti della Camera la presidenza del Parlamento in
seduta comune. Il Presidente rappresenta la Camera, assicura il buon andamento dei suoi lavori, fa
osservare il regolamento, dà la parola, dirige e modera la discussione, mantiene l’ordine, pone le questioni
stabilisce l’ordine delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne annunzia il risultato.
Ciò che caratterizza il Presidente è la funzione di rappresentanza esterna: si tratta di rappresentare collegi
che non sono istituiti per comporre interessi ma in cui è istituzionalizzata la dialettica maggioranza-
opposizione, e nei quali vive il principio stesso della democrazia politica.
I gruppi parlamentari
In giurisprudenza il gruppo parlamentare è qualificato come soggetto di diritto privato, alla luce della
considerazione dei partiti quali associazioni non riconosciute, dunque nella loro dimensione privatistica. Le
loro funzioni consistono nel designare i membri delle commissioni e nel concorrere ad organizzare i lavori
delle assemblee. È la Conferenza dei Presidenti di gruppo ad approvare il programma e il calendario dei
lavori di ciascuna Camera. I presidenti di gruppo, infine, sono consultati dal Presidente della Repubblica in
occasione di ogni crisi di Governo al fine di individuare la personalità da nominare Presidente del Consiglio
e formare il Governo che dovrà ottenere la fiducia delle Camere per restare in carica.
Funzione legislativa
Della definizione legislativa attribuita alle Camere ci siamo occupati sotto i profili dell’individuazione dei
caratteri dell’atto normativo, la legge, che scaturisce dal suo esercizio, della collocazione della legge nelle
fonti del diritto e abbiamo ricondotto i connotati procedurali di tale funzione alla natura politica della
deliberazione in cui si concretizza, onde distinguerli da quelli della funzione giurisdizionale.
Legge di bilancio
Il bilancio di previsione è il documento contabile approvato con legge nel quale sono indicate entrate e
uscite che si prevede saranno riscosse o erogate nell’anno successivo a quello in cui la legge è approvata,
chiamato esercizio finanziario.
Il bilancio consuntivo o rendiconto è un documento contabile da approvarsi con legge recante le entrare
riscosse e le spese erogate nell’esercizio finanziario precedente.
Gli emendamenti alla legge di bilancio che il Parlamento può approvare non possono consistere in
innovazioni che modifichino il quadro contabile presentato dal Governo, ma solo nella soppressione di
singoli capitoli di entrata e nello spostamento di stanziamento di spesa da un capitolo all’altro. con la legge
di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Il ciclo annuale di programmazione finanziaria presenta le seguenti scadenze:
- Entro il 10 aprile il Governo presenta alle Camere il Documento di Economia e Finanza (DEF) che
contiene lo schema del Programma di stabilità richiesto dall’UE in riferimento alla riduzione del debito, le
informazioni sugli andamenti macroeconomici e il Programma nazionale di riforma, relativo allo stato di
attuazione delle riforme richieste sulla base dei parametri concordati con le istituzioni dell’UE;
- Entro il 30 giugno il Governo presenta alle Camere il rendiconto dell’esercizio finanziario precedente e il
disegno di legge di assestamento;
- Entro il 27 settembre il Governo presenta alle Camere la Nota di aggiornamento del DEF;
- Entro il 15 ottobre il Governo invia alle Camere il Documento Programmatico di Bilancio;
- Entro il 20 ottobre il Governo presenta alle Camere il disegno di legge di bilancio. L’esame
e l’approvazione parlamentare hanno luogo con procedure speciali rispetto a quelle previste per gli altri
disegni di legge, sia per i tempi sia per gli emendamenti, distinti in compensativi;
- Entro il 31 dicembre viene approvata la legge di bilancio.
Funzione di controllo
Il controllo parlamentare consiste nel verificare l’operato del Governo su un certo argomento, sollecitandolo
ad adeguarsi alle valutazioni maturate al riguardo in ambito parlamentare. Fra gli atti tipici del controllo
parlamentare sono da annoverarsi i seguenti:
Interrogazione, che consiste «nella semplice domanda se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia
giunta al Governo, o se sia esatta, se il Governo intenda comunicare alla Camera documenti o notizie o
abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato». La risposta può avvenire
in aula o in commissione, oralmente o per iscritto.
Interpellanza. È sempre una domanda scritta rivolta da un parlamentare a un Ministro, ma a differenza
dell’interrogazione si riferisce a i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che
riguardano determinati aspetti della sua politica» su un certo tema. Se il parlamentare dichiara di non
ritenersi soddisfatto della risposta del Ministro, può essere trasformata in mozione. Mozione. È la proposta
rivolta da un presidente di gruppo o da 10 deputati o 8 senatori dell’assemblea per adottare una
deliberazione su un certo argomento. Seguono la discussione della motivazione, la presentazione e la
discussione dei relativi emendamenti, e la votazione. A parte le mozioni di fiducia/sfiducia che possono
produrre effetti giuridici, le altre presentano conseguenze solo politiche.
Risoluzione. È una proposta di adottare un certo indirizzo, rivolta a una comunicazione parlamentare;
Ordine del giorno. Inteso quale istituzione è un atto accessorio proposto da un singolo parlamentare circa
il significato da attribuire alle disposizioni o alle direttive in via di approvazione, nell’ambito di dibattiti su
progetti di legge o su mozioni o risoluzioni. Il rappresentante del Governo deve pronunciarsi sull’ordine del
giorno: può accettarlo e quindi non è necessario il voto; può rifiutarlo e allora il voto sarà necessario.
Funzione ispettiva
L’istituzione di inchieste parlamentari costituisce lo strumento principe della funzione ispettiva spettante alle
Camere. Le inchieste sono direttamente disciplinate in Costituzione. L’art 82 dispone che: “Ciascuna Camera
può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione
formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione di inchiesta procede alle indagini e
agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”. Le inchieste possono disporsi sia in
vista di iniziative legislative sia in vista dell’accertamento di fatti, politici o politicamente rilevanti. Altri
strumenti di esercizio della funzione ispettiva sono le indagini conoscitive e le audizioni. Ciascuna
commissione parlamentare può disporle su materie di propria competenza per acquisire informazioni o
documenti utili all’attività della Camera di appartenenza, soprattutto nel corso del procedimento legislativo.
La supplenza
Secondo l’art. 86, “Le funzioni del Presidente della Repubblica, in caso egli non possa adempierle, sono esercitate
dal Presidente del Senato” che deve limitarsi all’adozione di atti improrogabili. I casi in cui il Capo dello Stato
non può adempiere alle proprie funzioni sono molteplici.
Un primo caso si riferisce agli impedimenti temporanei: viaggi all’estero per esempio. Altri casi possono
essere l’impedimento permanente come la morte o le dimissioni o la destituzione della carica.
Controriforma ministeriale
L’obbligo di controfirma ministeriale si spiega con l’art. 90 secondo cui “Il Presidente della Repubblica non è
responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla
Costituzione”. in una forma di governo parlamentare dove il Capo dello Stato perde ogni posizione
gerarchica e ogni determinazione di indirizzo politico, la controfirma non può essere prevista per limitare il
potere politico attivo. Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai
Ministri proponenti che ne assumono la responsabilità.
Capitolo 5 → Il Governo
Procedimento di formazione
La Costituzione disciplina il procedimento di formazione del Governo a partire dalla sua nomina. Vengono
individuati gli organi necessari del Governo e l’art. 93 aggiunge che «il Presidente della Repubblica nomina
il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questi, i Ministri». Il Presidente del Consiglio e i
Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. Col
giuramento il Governo è formato perché è con esso che assume le funzioni. Ma questo non basta per farlo
restare in carica. Il Governo infatti deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o
revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale e entro 10 gg dalla sua
formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia. Se il Governo non ottiene la fiducia
deve dimettersi, se la ottiene diventa titolare della funzione di indirizzo politico, e ne rimane titolare fino ad
un’eventuale revoca o fino a quando il Presidente del Consiglio rassegnando le dimissioni nelle mani del
Presidente della Repubblica non abbia ritenuto che il rapporto fiduciario sia cessato, come nelle ipotesi di
crisi extraparlamentari. La fiducia (istituto caratterizzante la forma di governo parlamentare) consiste in una
relazione necessariamente continuativa fra Parlamento e Governo, fondata sulla maggioranza parlamentare
col Governo in carica in ordine all’indirizzo politico quale contenuto nel programma esposto dal Presidente
del Consiglio alle Camere e poi tradotto in disegni di legge ed atti e comportamenti del Governo in costanza
di rapporto fiduciario. Nell’intervallo fra giuramento e fiducia il Governo può compiere solo atti come i
provvedimenti di urgenza, i decreti legge e le ordinanze di emergenza.
La nomina del Governo da parte del Presidente della Repubblica consta di 3 decreti: decreto di
accertamento delle dimissioni del Presidente del Consiglio uscente, decreto di nomina del Presidente del
Consiglio subentrante e il decreto di nomina dei Ministri. La condizione per ottenere la fiducia è che il
Presidente del Consiglio sia in grado di raggiungere in Parlamento un consenso maggioritario intorno al suo
Governo.
All’atto delle dimissioni del Governo il Presidente procede a una serie di consultazioni al termine delle quali
conferisce con un comunicato verbale l’incarico di formare il Governo alla persona che ritenga in grado di
coagulare i consensi necessari per ottenere la fiducia alle Camere. Il Presidente del Consiglio incaricati, che
accetta con riserva, avvia anch’egli consultazioni, ma nell’ambito dei gruppi parlamentari orientati a
conferire la fiducia a un Governo da lui presieduto. Terminate le consultazioni si reca dal Capo dello Stato
per sciogliere la riserva in caso di esito positivo, o per rinunciare all’incarico, con la conseguente necessità
per il Capo dello Stato di procedere a un nuovo incarico.
L’assetto dei rapporti fra Presidente del Consiglio, Consiglio dei Ministri e Ministri
Il Presidente del Consiglio del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile.
Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri. A
lui spettano i rapporti con gli altri organi costituzionali, a cominciare dal Capo dello Stato. I Ministri oltre che
responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, lo sono individualmente degli atti dei loro
dicasteri.
Il Consiglio dei Ministri. Determina la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione
amministrativa; delibera su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le
Camere. Dirime i conflitti di attribuzione tra i Ministri.
Quanto al Presidente del Consiglio, a parte i poteri di convocazione del Consiglio dei Ministri e di fissarne
l’ordine del giorno, l’art. 5 riporta prima le attribuzioni relative ai rapporti con gli altri organi costituzionali a
lui conferite a nome del Governo, poi quelle relative ai rapporti con i Ministri. La legge presuppone
l’esclusione di ogni gerarchia nel rapporto tra Presidente del Consiglio coi Ministri, e quindi il potere di
revoca dei Ministri dissenzienti, e affida al Presidente del Consiglio un potere di sollecitare il Consiglio dei
Ministri a risolvere «questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti». L’art. 5 attribuisce al
Presidente del Consiglio la promozione e il coordinamento dell’azione del Governo nel campo delle
politiche dell’UE, degli adempimenti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, dei rapporti
con le regioni e le province autonome. Il Presidente ha una posizione di cerniera nei rapporti tra lo Stato e
l’UE.
Le Autorità indipendenti
L’istituzione di Autorità indipendenti dal Governo si spiega con l’insorgere di istanze ritenute insuscettibili di
venire soddisfatte dagli apparati di Governo e più in generale con gli strumenti tradizionalmente a
disposizione dei pubblici poteri. Istanze di regolazione di alcuni settori, e di tutela di diritti fondamentali in
altri, che nella gran parte dei casi derivano da rapporti fra privati, singoli o associati, più che da rapporti fra
costoro e il pubblico potere. Tali istanze si pongono di frequente nei mercati ma non solo in essi: si pensi
all’uso di dati personali da parte di terzi, o allo sciopero nei servizi pubblici essenziali. In questi casi il
pubblico potere non è chiamato a svolgere funzioni d’ordine o a gestire servizi pubblici, né agisce come
soggetto privato in campo economico. È piuttosto chiamato a garantire che i soggetti operanti in quei
diversi settori osservino determinate regole o si conformino a determinati comportamenti in modo da evitare
che prevalga “la legge più forte” e per prevenire abusi. Allo scopo di richiede una concentrazione di funzioni
che in base al tradizionale principio di separazione dei poteri sono ripartire fra diversi organi. Le Autorità
indipendenti finora istituite risultano preordinate a soddisfare diritti o beni costituzionalmente garantiti. La
Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), cui sono attribuiti compiti di controllo e
regolamentazione del mercato finanziario in vista della trasparenza delle relative attività, trova giustificazione
nella tutela dei risparmiatori, così come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM o
Antitrust) la trova nella libertà di concorrenza riconosciuta dall’art. 41 Cost., la Commissione di garanzia
dell’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali è chiamata a
contemperare il diritto di sciopero con i diritti fondamentali degli utenti dei servizi pubblici. Altre autorità
indipendenti dello stesso tipo sono: il Garante per la protezione dei dati personali, l’Autorità per le garanzie
delle comunicazioni (AGCOM), l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e il sistema idrico (AEEG), l’Autorità di
regolazione dei trasporti (ART), l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC). Il tratto in comune è che i
membri delle Autorità non sono rieleggibili alla carica.
La Banca d’Italia
La Banca d’Italia è la banca centrale della Repubblica italiana, creata nel 1893 con funzioni di emissione
della moneta, di tesoreria dello Stato nelle province,, di vigilanza sugli istituti di credito e che istituiva allo
scopo il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio. La posizione della Banca d’Italia nel sistema
istituzionale è oggi assimilabile a quella delle Autorità indipendenti dal punto di vista dell’indipendenza dagli
organi di indirizzo politico. La Banca d’Italia è chiamata a funzioni, non di garanzia di certi diritti o beni
costituzionalmente garantiti, come le Autorità indipendenti, ma di governo di un intero settore come il
governo della moneta.
La responsabilità dei Ministri «per gli atti dei loro dicasteri» e il rapporto politica/amministrazione
Nella responsabilità individuale dei Ministri per gli atti dei loro dicasteri il Ministro è inteso come organo di
vertice dell’apparato ministeriale e proprio perché tale chiamato a rispondere degli atti che in quel dicastero
vengono adottati. Dalla Costituzione si può ricavare un’articolazione di tipi di responsabilità del Ministro nei
confronti del Parlamento per le direttive politiche da lui stabilite nell’ambito del suo dicastero, e dei titolari
degli organi amministrativi di vertice nei confronti del Ministero per gli atti da costoro adottati in attuazione
delle direttive del Ministro.
Principi e criteri
Il punto più importante della legge del 1990 è che essa individua l’attività amministrativa nel «perseguire i
fini determinati dalla legge». Eseguire precetti p un’attività automatica, perseguire fini non può esserlo,
perché presuppone una ricerca degli strumenti necessari allo scopo. L’affermazione del legislatore del 1990
segna una svolta nell’individuazione del significato del principio di legalità come sottoposizione dell’attività
amministrativa alla legge, che tradizionalmente equivaleva ad esecuzione della legge. Nello stesso anno la
Costituzione aveva per la prima volta distinto la politica dall’amministrazione vincolata «al fine del
perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dell’ordinamento». Il Consiglio di Stato ha affermato che il
concreto raggiungimento delle finalità per il quale il potere pubblico è attribuito non può postularsi, in un
ordinamento democratico, se non attraverso l’osservanza del procedimento in proposito appositamente
predisposto. Il rispetto delle regole del procedimento è posto a garanzia dei cittadini che vedano la propria
posizione soggettiva toccata dall’esercizio di pubblici poteri e della stessa amministrazione pubblica, le cui
finalità possono dirsi in concreto perseguite attraverso un’azione amministrativa che si sia sviluppata nel
rispetto delle regole che presiedono al suo svolgimento. La legalità come perseguimento da parte delle
pubbliche amministrazioni dei fini determinati dalla legge presuppone che il potere di ciascuna di esse sia
predeterminato. L’attività amministrativa è retta dai principi dell’ordinamento comunitario, oggi del diritto
dell’UE. Questi principi ne specificano o ne integrano la portata nella direzione di una maggiore tutela delle
situazioni private. Fra di essi vanno menzionati:
- Il principio di proporzionalità, secondo cui ogni misura incidente su situazioni private deve essere
adeguata all’obiettivo ed anche necessaria, nel senso che nessun’altra misura incidente su di esse
potrebbe essere adottata per raggiungere quell’obiettivo;
- Il principio di legittimo affidamento, secondo cui una situazione di vantaggio assicurata a una persona
o impresa non può essere rimossa in seguito se non per motivate esigenze di pubblico interesse e salvo
indennizzo;
- Il principio di libera concorrenza, che costituisce il principio cardine del diritto europeo.
Discrezionalità amministrativa
Proprio perché l’amministrazione è chiamata a perseguire finalità obiettivate nell’ordinamento, di solito il
suo potere non è nemmeno un potere vincolato ma piuttosto un potere discrezionale, che consiste nel
ponderare l’interesse primario intestato dalla legge all’amministrazione procedente con gli interessi
secondari che in ipotesi confliggono gli uni con gli altri e che entrano tutti in gioco di decisione. Il potere
diventa vincolato quando la legge, invece di limitarsi a indicare il fine dell’azione amministrativa, non lascia
all’amministrazione alcuno spazio residuo di apprezzamento, vincolante l’azione fin nel dettaglio. Il potere
discrezionale dell’amministrazione si colloca in uno spazio intermedio fra un potere libero e uno vincolato.
Le ragioni per cui il potere amministrativo non è vincolato consiste nel fatto che le leggi si limitano ad
indicare il fine dell’azione dell’amministrazione. Il carattere discrezionale del potere amministrativo nel senso
di non libero rimanda al dover essere dell’amministrazione, mentre il suo carattere discrezionale nel senso
di non vincolato attesta una regolarità passibile di eccezioni e perciò si colloca sul piano dell’essere.
Nel linguaggio giuridico si parla pure di discrezionalità del legislatore ma la discrezionalità legislativa ha a
che vedere con la scelta delle finalità dell’azione pubblica, nella misura in cui la Costituzione abiliti il
Parlamento a compierla anziché indicarla essa stessa con riserve di legge rinforzata. Quando si parla di
discrezionalità del giudice ci si riferisce all’interpretazione del caso che gli è stato sottoposto e della legge
che deve applicare nel caso.
Il potere discrezionale si può esercitare in uno o più dei seguenti elementi: nell’an, ossia nel se compiere o
meno una certa scelta; nel quid, cioè nel contenuto del provvedimento; nel quando adottarlo; nel
quomodo ossia nelle concrete modalità di realizzazione dell’interesse sottese a un certo provvedimento.
Il procedimento amministrativo
Il procedimento amministrativo consiste in una sequenza di atti preordinata all’adozione di un
provvedimento e si ripartisce in una serie di fasi: istruttoria in cui si raccolgono gli elementi utili per la
decisione, costitutiva che corrisponde all’adozione del provvedimento, e integrativa dell’efficacia che è
una fase necessario allorché il provvedimento debba essere reso noto ai suoi destinatari e sia sottoposto a
controllo preventivo. Le pubbliche amministrazioni debbono rispettare questo modello e debbono
concludere il procedimento non oltre 90 giorni a pena di risarcire il danno per la mancata osservanza del
termine.
Responsabile del procedimento
La legge prevede un responsabile del procedimento e più precisamente della istruttoria e di ogni altro
adempimento inerente il singolo procedimento, nonché dell’adozione del provvedimento finale. I principali
compiti del responsabile del procedimento consistono nel dare impulso al procedimento, individuando i
soggetti interessati al procedimento e assicurando la loro partecipazione ad esso a partire dalla
comunicazione dell’avvio di procedimento, nel far sì che l’istruttoria si svolga nel più adeguato e sollecito, e
nell’accertare d’ufficio i fatti.
Partecipazione al procedimento
La partecipazione al procedimento dei soggetti indicati consiste nel diritto di accesso ai documenti
amministrativi e nel diritto di presentare memorie scritte e documenti che l’amministrazione deve valutare
ove pertinenti.
Diritto di accesso
La legge riconosce il diritto di accesso come diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia
dei documenti amministrativi e lo ha qualificato principio generale dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza. Tale diritto è assicurato anche al di
fuori di un procedimento avviato. L’accesso è garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Esistono delle
limitazioni di accesso che si estendono per esempio ai documenti coperti da segreto di Stato.
Obbligo di motivazione
La legge stabilisce anche l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti tranne che per gli atti normativi e
per quelli a contenuto generale. La motivazione riveste una fondamentale funzione di garanzia per i
destinatari del provvedimento, consentendo loro di valutare l’operato dell’amministrazione al fine di
contestarne la legittimità davanti al giudice amministrativo. Ove l’atto sia impugnato la motivazione
consente a tale giudice di ripercorrere l’iter argomentativo che ha condotto l’amministrazione ad adottare il
provvedimento.
Nullità
La legge qualifica come nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è
viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato. Gli
elementi essenziali possono individuarsi come segue: soggetto che adotta il provvedimento, oggetto del
medesimo, contenuto precettivo e forma in cui deve estrinsecarsi. Il provvedimento è viziato da difetto
assoluto di attribuzione quando risulta adottato da un’autorità priva i qualsiasi potestà di adottarlo o non
avrebbe potuto essere adottato da un’autorità amministrativa. Il provvedimento adottato in violazione o
elusione del giudicato da un’amministrazione pubblica che non si conformi a una sentenza passata in
giudicato, forma oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Annullabilità
Il provvedimento amministrativo è considerato annullabile quando è adottato in violazione di legge o viziato
da eccesso di potere o da incompetenza.
Si ha incompetenza quando il provvedimento risulti adottato da un’autorità diversa da quella competente
per legge a provvedere ma non priva di potestà in ordine all’atto.
Si ha violazione di legge quando il provvedimento viola una norma giuridica dal punto di vista del
contenuto o dal punto di vista procedurale.
Il vizio di eccesso di potere viene fatto corrispondere a tutti i casi nei quali l’atto ha trasgredito i principi
sulla funzione amministrativa e sull’esercizio del potere discrezionale. L’eccesso di potere si manifesta
attraverso figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza. Tali figure o sono riconducibili alla violazione
dei principi di imparzialità e buon andamento, o sono accostabili al canone di ragionevolezza-
proporzionalità che muovono dal principio di eguaglianza.
A differenza del provvedimento nullo,, quello annullabile non può essere fatto valere in giudizio da chiunque
vi abbia interesse, ma solo da chi dimostri di essere titolare di un interesse legittimo: che deve essere di tipi
personale, cioè proprio di colui che si pretende leso; diretto, quindi derivante direttamente dal
provvedimento in questione; attuale cioè in atto al momento dell’impugnazione. Il provvedimento annullabile
può essere impugnato solo entro 60 gg dal momento in cui sia stato notificato all’interessato. Infine, mentre
in presenza di un provvedimento nullo il giudice si limita ad accertare il vizio di nullità, nel caso del
provvedimento annullabile la sentenza del giudice è provvista di effetto costitutivo, facendo così venir meno
l’efficacia del provvedimento.
Irregolarità
La legge qualifica come non annullabile il provvedimento irregolare, ossia quello adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concreto adottato. Il
provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento
qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
Promessa
Solo la funzione legislativa conferisce a un ente territoriale il potere di deliberare pienamente sulle questioni
che investono la collettività che esso rappresenta sul piano politico. L’autonomia degli enti territoriali non si
estrinseca soltanto nella riserva di poteri normativi, ma anche in quelle di poteri amministrativi e del potere
di disporre delle risorse necessarie a finanziare le loro funzioni.
Controlli interni
I controlli interni si distinguono in controlli di gestione e controlli strategici. I primi consistono nel verificare
l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare il rapporto tra costi e
risultati, e sono svolti da strutture e soggetti che rispondono ai dirigenti posti al vertice dell’unità
organizzativa interessata. La valutazione e il controllo strategico riguardano invece l’adeguatezza delle
scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo
politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti o obiettivi predefiniti, supportano l’attività di
programmazione strategica e di indirizzo politico- amministrativo, e sono svolte da strutture che rispondono
direttamente agli organi di indirizzo politico-amministrativo.
Responsabilità dei dipendenti pubblici per atti compiuti in violazione dei diritti
Le responsabilità si riferiscono ad atti o attività svolte dall’amministrazione: si controlla, o si risponde di
qualcosa che si è già verificato nella realtà. Se le responsabilità di cui l’art. 97 sono attivabili
nell’ordinamento degli uffici e comunque all’interno dell’organizzazione amministrativa, quelle enunciate
dall’art. 28 presentano altra natura e modalità di attivazione: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli
enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi civili, penali e amministrative, degli atti
compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
Qui la responsabilità non viene fatta valere all’esterno delle pubbliche amministrazioni, sorgendo in
riferimento ad atti compiuti in violazione di diritti: e ci si riferisce a una diretta responsabilità dei funzionari e
dipendenti pubblici, onde escludere l’ammissibilità del vecchio istituto della garanzia amministrativa che
subordinava l’esperienza dell’azione penale contro prefetti e sindaci, quest’ultimi in qualità di ufficiali del
Governo, nonché contro agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria che avessero fatto uso di armi,
ad autorizzazione di organi governativi.
La responsabilità civile degli atti del pubblico dipendente in violazione di diritti si estende allo Stato e agli
enti pubblici. Si tratta di una responsabilità solidale dello Stato.
Responsabilità contabile
Oltre ai giudizi di responsabilità, la giurisdizione su le materie di contabilità pubblica comprende quelli di
conto. Si tratta di giudizi che hanno lo scopo di tutelare il pubblico danaro mediane la reintegrazione dei
danni subiti dall’erario per irregolarità di gestione o per comportamenti imputabili agli agenti ed agli
impiegati medesimi. La giurisdizione sulla responsabilità contabile si esercita non su tutti i dipendenti
pubblici ma sui conti dei titolari di gestione di tesoreria e degli agenti contabili, ossia di quanti fra i
dipendenti pubblici maneggiano denaro pubblico. Costoro debbono presentare il conto della propria
gestione su appositi modelli, nei quali sono evidenziate la consistenza iniziale, il carico e il discarico
avvenuto nel corso dell’esercizio e la rimanenza finale. Nel procedimento giurisdizionale che si svolge
davanti alla corte dei contri ed è introdotto dal Procuratore della Corte, il giudizio di conto, si presume la
colpa dell’agente, il quale è tenuto a dimostrare che l’eventuale ammanco di beni o valori sia dovuto a forza
maggiore o a naturale deperimento. Il giudizio può concludersi con il “discarico” che ha effetto liberatorio
per l’agente contabile, oppure condanna di questi a risarcire il danno arrecato.